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Full text of "Rivista contemporanea"

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RIVISTA 


CONTEMPORANEA 


POLITICA — FILOSOFIA  —  SCIENZE  —  STORIA 

LETTERATURA  -  POESIA  —  ROMANZI  -  VIAGGI  ~  CRITICA 

BIBUOGRAPIA  —  BELLE  ARTI 


VOLUME  TRIGESIMOPRIMO 

ANNO  DECIMO 


TORINO 

STAMP.  DELL'UNIONE  TIPOGRAnCO-EDITRICB 
1862 


"T'X+cJi-à^^^l 


/^■>>,  x-/./^ 


È  vUtata  la  traduzione  e  riproduttone  degli  artìeoU  della  BmSTA 
ee»za  U  eomenso  delia  Diresione. 


'  CANZONI  POPdLiRI  DEL  PIEIONTE  " 


NORAN  D'INGHILTERRA 


(2»  Sbbib  — Canzoni  romanzesche) 

Sotto  il  tìtolo  di  «  romanza  dei  conte  Sol  »  il  signor  Duran  pub- 
blicò nel  suo  copioso  Romancero  Spagnuolo  una  variante  di  auesta 
vecchia  canzone  conservata  dalla  tradizione  popolare  in  Andalusi^. 
Il  signor  Wolf  accogliendola  nella  sua  Primavera  y  fior  de  romances^ 
nota  ch'essa  contiene  qualche  vestigio  del  Chat  botte  di  Perrault. 
La  medesima  romanza  si  conserva  nelle  Asturie  col  titolo  popolare 
di  Gerineldo,  e  fu  pubblicata  recentemente  dal  signor  Amador  de 
los  Rios  nella  Revista  Ibèrica  (t.  I^  ott.  die.  1861  p.  51).  Un'altra 
variante  esiste  in  Catalogna  e  comincia,  secondo  Mila  (1): 

«  Se  si  han  fetas  unas  cridas  —  que  à  la  guerra  s*ha  d'anar  i. 

É  da  lamentarsi  che  il  signor  Mila  non  l'abbia  pubblicata  nella 
sua  preziosa  raccolta. 

Fatti  simili  a  quello  esposto  dalla  canzone  han  dovuto  rinno- 
varsi con  frequenza  nel  periodo  de'  tempi  cavallereschi  e  special- 
mente durante  il  movimento  delle  crociate.  Cosi  le  cronache  inglesi 
narrano  come  in  sul  principio  del  secolo  duodecimo  la  figliuola 
d'un  ammiraglio  del  Soldano  d'Egitto,  invaghitasi  d'un  prigioniero 
inglese,  Gilberto  Becket,  padre  di  san  Tommaso  di  Cantorbery, 
abbia  passato  il  mare  e  sia  andata  in  Inghilterra  a  sposarvi  l'amante 
liberato.  La  ballata  inglese  e  scozzese  Susetla  Pye  o  Lord  Beichan 
è  probabilmente  una  reminiscenza  di  questo  fatto,  ed  è  senza  dub- 
bio connessa  colla  canzone  piemontese  e  colla  romanza  spagnuola. 
Queste  induzioni  sono  confermate  dalla  menzione  dell'Inghilterra 
fatta  dalla  canzone.  Il  contenuto  poetico,  se  non  la  forma ,  par 
quindi  passato  dall'Inghilterra  in  Francia  e  poscia  nelle  due  penisole 
celto-latine,  durante  il  secolo  duodecimo. 

Della  canzone  piemontese  ho  cinque  lezioni,  due  canavesi,  due 
piemontesi  ed  una  monferrina. 

Il  metro  (giambico)  è  il  romanzo  settenario  tronco-piano ,  con 
assonanza  monorima,  ma  scorretta. 

(*)  Vedi  Rivista  Contemporanea  di  Gennaio  ,  Maggio,  Novembre  1858 , 
Gennaio  1860,  e  Gennaio  1861. 
(1)  Mila,  Ohservaciones  sobre  la  poesia  popular  eie,  122. 


BIYI8TÀ  COiaBMPOBANBA 


Iiezlone  Canavese 


La  fia  del  Sùltan 
2  L'è  tan  na  fia  bela  ; 

Tan  bela  com'a  Té, 
4  Savijo  pa  a  chi  dé-la. 

S'a  l'han  dàj-la  a  Moran, 
6  Moran  de  Tlnghiltera. 

Prim  di  ch'ai  l'ha  sposa 
8  No  fa  che  tan  basè-la. 

Sgond  di  ch'ai  l'ha  sposa 
10  Moran  la  voi  chité-la. 

Ters  di  ch'ai  l'ha  sposa 
i2  Moran  n'in  va  a  la  guera, 

La  bela  a  j'ha  bin  dit: 
a  —Moran,  cuand  e  tornéj-ve? 

—  Se  torno  pa  'n  set  agn, 
16  Voi,  bela,  maridéj-ve.  — 

Bela  spetà  set  agn, 
18  Moran  maj  pi  vegnejva. 

La  bela  monta  a  cavai, 
20  Gira  tiìta  Inghiltera. 

'T  al  prim  ch'a  sé  scontra 
22  L'è  d'iin  marghé  di  vache. 


Varianti 

1  La  fia  di  trej  re.  Monferrato 

L*osto  di  Sian.  Ptem.  Can,  Monf. 

5  Moron.  Canavese,    Moral.  Monferrato 

10  No  fa  che  caressé-la.  Monferrato 

Fasia  che  basloné-la.  Piemonte 

19,  20         La  bela  s'pia  'n  cavai, 

Gira  tuta  la  Fransa.  Canavese.  Piemont4, 

22  Riscontra  un  vacherelo.  Canavese 

Scontra  Girom  daj  vache.  Monferrato 

Ant  iin  pastor  di  vache,  Piemonte 


OANZONI  POPOLASI  —  MOBAN  D^INaHlLTBBSA 


Traduzloiie 


La  figlia  del  Soldano 

la  è  tanto  una  bella  figliuola  ; 
tanto  bella  com'eiré, 

non  sapevano  a  chi  darla. 
Gliel'hanno  data  a  Morano, 

Morano  deiringhillerra. 
Primo  di  che  la  sposò 

non  fa  che  tanto  baciarla. 
Secondo  di  che  la  sposò, 

Morano  la  vuole  abbandonare. 
Terzo  di  che  la  sposò, 

Morano  sen  va  alla  guerra. 
La  bella  ben  gli  disse: 

—  Moran,  quando  tornale? 
—  Se  non  torno  in  sett'anni, 

voi,  bella,  maritatevi. 
Bella  aspettò  sett'anni, 

Morano  mai  più  veniva. 
La  bella  monta  a  cavallo, 

girò  tutta  Inghilterra. 
Nel  primo  che  si  scontrò 

gli  è  un  mandriano  di  vacche. 


RIVISTA  CONTEMPORANBA 

— Marghé  del  bel  marghé, 
24  D'chi  son-ne  custe  vache? 

—  Ste  vache  son  d'Moran, 
26              Moran  de  Tlnghiltera. 

—  Marghé  del  bel  marghé, 
28              Moran  hà-lo  la  dona? 

—  Anchòj  sarà  cuel  giom 
30              Ch'Moran  na  sposa  vùna  ; 

Marcejse  'n  pò  pi  fori, 
32  Rivrej  Torà  die  nosse.  — 

Bela  sprona  '1  cavai, 
34  Ruvà  l'ora  die  nosse. 

Ant  una  sana  d'or 
36  A  j'han  smunù  da  bejve. 

—  Mi  bejve  beivo  pa 

38  Fin  ch'la  sana  sia  mia. 

Mi  bejve  bejvo  pa 
40  Fin  ch'si  j'é  n'auta  dona. 

Mi  bejve  bejvo  pa 
42  Fin  ch'sia  mi  padrona.  — 

Moran  l'ambrassa  al  col, 
44  Moran  de  l'Inghiltera  : 

—  Padrona  si  sempre  sia, 
46              Si  lo  saré-ve  ancora 


Varianti 

^  Moran  hà-lo  die  done?  Canaoese 

35  tassa  d'or.  Piemonte 

46  Una  lezione  monferrina  aggiunge  il  congedo  dato 

all'altra  donna. 


CANZONI  POPOLABI  —  MOBAN  d'iN^HILTEBBA 

—  Mandriano,  bel  mandriano, 
di  chi  son  qt^estp  vaQchp? 

—  Ste  vacche  son  di  Morano, 
Morano  dell'Inghilterra. 

—  Mandriano  bel  mandriano, 
Morano  ha  egli  donna? 

—  Oggi  sarà  quel  di 

che  Morano  ne  sposa  una  ; 
marciaste  un  po'  più  forte, 

arrivereste  all'ora  delle  nozze.  — » 
Bella  sprona  il  cavallo, 

arrivò  all'ora  delle  nozze. 
In  una  tazza  d'oro 

le  offerirono  da  bere. 

—  Io  bere  non  bevo 
finché  la  tazza  sia  mia  ; 

io  bere  non  bevo 

finché  c'è  qui  un'altra  donna; 
io  bere  non  bevo,  ^ 

finché  sia  io  padrona.  — 
Morano  l'abbraccia  al  collo, 

Morano  dell'Inghilterra: 

—  Padrona  siete  sempre  stata, 
si  lo  sarete  ancora. 


8  &IYISTA  GONTBHPOBAlOLk 

\ 

PARALLEU 

Iieslone  Spagnuola  (Andalusia) 

(DuBAN.  Somancero  general,  N®  327.  —  Wolf-Hoffmann.  Primavera  ' 
y  fior  de  Romances.  II ,  49) 

Bl  wAt  Sol 


Orandes  guerraB  se  publicaa 
entro  Espana  y  Portugal  : 
...Al  conde  Sol  le  nombran 

Sor  capitan  general; 
el  rey  se  fué  k  despedir, 
de  su  esposa  otro  que  tal. 
La  condesa  che  era  nifia, 
todo  se  la  va  en  llorar. 

—  Dime,  conde,  ^cuantos  anos 
tienes  de  ecbar  por  all&? 

—  Si  &  los  seis  anos  no  vuelvo, 
condesa,  00  podeis  casar.  — 
Pasan  los  seis,  y  los  ocbo, 
pasan  diez,  y  pasan  mas, 

y  el  conde  Sol  no  tornaba 
ni  nuevas  suyas  fué  k  dar. 
...  La  condesa  al  otro  dia 
al  conde  se  fué  k  buscar, 
triste  por  Italia  y  Francia, 
por  la  tierra  y  por  la  mar. 
Va  estaba  desesperada, 
ya  se  torna  para  ac&, 
cuando  gran  vacada  un  dia 
devisó  alla  en  un  pinar. 

—  Vaquerito,  vaquerito, 
por  la  santa  Trinidad, 
que  me  niegues  la  mentirà 
y  me  digas  la  verdad: 

4  De  quien  son  estas  vaquitas 
que  en  estos  montes  estan? 
•—  Del  conde  Sol  son,  aenora^ 
que  manda  en  este  Infilar. 
...— ìY  quien  es  aqueUa  dama 
que  un  hombre  abrazando  est&t 

—  La  desposada,  senora, 

con  que  el  conde  ya  k  casar..... 

Il  resto  della  romanza  si  scosta  alquanto  dalla  canzone  piemon- 
tese, ma  conduce  ad  una  conclusione  identica. 


OÀIIZONI  POPOUUU  —  MOBAN  B'iNaklLTBBEA  9 

Altra  Iieslone  Spagnuola  (Asturia) 

(J.  Ahadob  db  LOS  Bios.  Sevista  Iberica.  T.  I,  Oct.  Die.  1861»  p.  61) 

R«maB!i  4e  fieriiield^ 

Orandes  guerras  se  publìcan 
de  EspaBa  con  Portugale, 
y  llaman  à  Gerineldo 
por  capitan  generale. 

—  Dime,  dime,  Gerineldo, 
^que  tiempo  puedes  tardare? 

—  Si  à  los  siete  anos  no  vengo, 
princessa,  puedes  casarte.  — 
Ya  pasan  los  siete  abriles  ; 
Germeldo  no  vien  yae: 

pide  &  su  padre  licencia 

gira  salirlo  buscare, 
or  tres  reinados  anduvo, 
sin  que  lo  pueda  fallare; 
à  la  vuelta  que  volvia, 
fallaba  un  rico  vacale. 

—  Vaquerito,  vaquerito, 
por  la  santa  Trenidade 

que  me  niegues  la  mentirà, 
que  me  digas  la  verdade. 
4  De  quien  es  esa  vacada 
con  tanto  rejo  y  seriale  t 

—  Senora  de  Gerineldo, 
que  aquf  est&  para  casare. 

etc. 

Iieslone  Inglese 

(Cantù.  St.  Univ.^  Dog.  Zeit.^  v.  2%  p.  2.—  E.  Ajitoun.  lori  Beichan) 

SnseUt  Pje 

...  Porgetemi  la  vostra  destra  in  pegno,  in  pegno  della  promessa 
che  per  sette  anni  non  sposerete  altra  donna  fuori  di  me. 

Essa  cavossi  di  dito  un  anello  e  Io  spezzò,  e  a  Beichan  ne  diede 
metà. 


IO  BiyiSTÀ  OONTBMPOBANSÀ 

...Assai  prima  che  finissero  i  sette  anni  essa  si  propose  di  rive- 
dere l'amato,  perchè  una  voce  nel  cuore  le  ripeteva:  Beichan  falli 
il  suo  voto.  Essa  dunque  posp  il  piede  sopri^  un  buopi  naviglio ,  e 
volse  le  spalle  alla  patria. 

Veleggiò  ad  oriente,  veleggiò  ad  occidente  finché  giunse  alla 
bella.  Inghilterra.  Ivi  adocchiò  un  buon  pastore  che  nella  pianura 
pascolava  il  suo  gregge. 

—  Che  v'è  di  nuovo,  che  v'è  di  nuovo  o  buon  pastore?  Che 
nuove  hai  tu  a  raccontarmi?  — Ho  tali  nuove,  o  signora,  che  mai 
non  furono  udite  le  simili  in  questo  paese.  Laggiù  in  quella  casa 
v'è  ima  fidanzata  che  da  trentatre  giorni  aspetta:  il  giovane  Bei- 
chan non  vuol  dormire  con  essa  per  amor  d'una  donna  oltre  mare... 

{Segue  la  conclusione  identica  a  quella  della  canzone  piemontese  e 
della  romanza  epagnmla). 


u 


LA  TOMBA 


(1*  Sbrir  —  Capioni  storiche) 

È  fra  le  più  popolari  e  le  più  belle.  La  chiusa  è  comune  adìiltre 
canzoni  dell'Italia  Superiore. 

Il  pensiero  della  tomba  capace  di  tre  persone  —  e  son  quattro, 
ma  i  due  amanti  son  congiunti  in  uno,  —  e  Timagine  graziosa  del 
fiore  che  cresce  ed  olezza  sulle  care  salme^  son  cose  di  tutta  bellezza. 
Io  penso  che  nulla  di  più  gentile  può  offrirci  la  letteratura  popolare 
0  artificiosa  di  qualsiasi  paese. 

Di  questa  canzone  raccolsi  undici  lezioni:  quattro  canavesi, 
quattro  piemontesi  e  tre  monferrine.  Il  metro  (giambico)  ò  il  ro- 
manzo settenario  pìano4ronco. 


IS  BIYUBTA  OOliTEMPOBAJNBÀ 


Iieslone  Plemoiite»e 


Di  là  da  cuj  boscagè 
2  Na  belafija  aj'é; 

So  pare  e  la  sua  maina 
4  La  volo  maridé; 

A  volo  déj-la  a  un  prinsi 
6  Fijol  d'imperador. 

—  Mi  voj  né  re,  né  prinsi 
8              Fijol  d'imperador. 

—  Déj-me  cui  giovinolo 
40              Ch'a  j'é  'n  cula  pérson. 

—  0  fija  d'ia  mia  fija , 
12              L'èpa  'n  parti  dati; 

Doman  a  ùndes  ore 
14  Al  lo  faran  miìri. 

—  S'a  fan  muri  cui  giovo, 
16              Ch'a  m'  fasso  muri  mi  ; 

Ch'a  m' fasso  fé  na  tomba 
18  Ch'a  j  sija  d'post  per  tri, 


Varianti 


1  Al  dare  d'cuj  boscage.  MonferraU) 

1-7  Dare  da  cuel  ì)oscheto 

Na  bela  fiia  a  j'é; 
.  So  pare  e  la  so  marna 

L'orivo  maridé  ;    * 

J*  oriyo  daj  un  prinsi , 

un  prinsi  imperator.  P%$morUe 

Ma  chila  voi  gniin  prinsi.  Canavete 

—  ijn  prinsi  lo  vòj  mia  etc.  Monferrato 
1-6           Sii  d*cule  montagne 

Na  bela  fija  a  jé. 
So  pare  la  va  vedi, 
La  fa  che  tan  pioré. 

—  Cosa  pjoreve,  bela, 


OANZOia  POPOLÀBI  —  LA  TOHBÀ  13 


TrMtaoloiie 


Di  là  da  quelle  boscaglie 

una  bella  figliuola  c'è; 
suo  padre  e  la  sua  mamma 

la  voglion  maritare  ; 
voglion  darla  ad  un  principe 

figliuolo  d'imperatore. 

—  r  non  voglio  né  re,  né  principe 
figliuolo  d'imperatore. 

—  Datemi  quel  giovinetto 
che  c'è  in  quella  prigione. 

—  0  figlia,  mia  figlia, 

non  gli  è  un  partito  da  te; 
domani  a  undici  ore 
lo  faranno  morire. 

—  Se  fan  morir  quel  giovane, 
e  facciano  morir  me; 

mi  fa^cian  fare  una  tomba, 
che  ci  sia  posto  per  tre, 


Varianti 


1-8  Cosa  pjoreve  tan? 

Pjoreve  pare  o  mare  , 
Cuaicùn  d'vostri  paran  ? 

—  Pjoro  né  pare  né  mare, 
E  gnanca  ime  paran  ; 
Pjoro  cui  giovineto 

1-8  Ch*a  j'é  'n  cula  pérson,  etc.  Piemont€ 

Drenta  a  cuj  boscagi 
Na  bela  fija  a  j'é. 
A  volo  déj-la  a  un  prinsi 
A  iìn  prinsi  imperador, 

—  Mi  l'hai  pa  fé  d'iin  prinsi 
D'un  prinsi  imperador  ; 
Ch'a  m'  dagna  cui  bel  giovo 


14  BIYISTA  OOKTBMPOHANBA 

Ch'a  j  stago  pare  e  mare, 
20  'L  me  amor  an  bras  a  mi. 

An  sima  a  ciila  tomba 
22  Piantran  die  rose  e  fior; 

Tuta  la  gent  ch*a  j  passa 
24  A  sentirai!  l'odor  t 

Diran  :  —  J'é  mort  la  belia, 
26  L'è  morta  per  Tamor. 


Varianti 


1-8  Gh*j  é  al  fond  d'cula  pérson,  eie. 

Sii  per  cule  montagne 

Tiijt  a  dio  ch'j  é  na  tor. 

Là  j'é  la  Majìnota, 

Ch'a  pjora  '1  mal  dl'amor. 

S'a  volo  de-je  *n  prinsi , 

€n  prinsi  imperator. 
1-8  0  mari,  maridé-mi , 

C'aj  passa  la  stagion  ; 

Le  cerose  son  madiire , 

I  priis  a  Tniran  bon. 

—  Chi  voste  pjé ,  mia  fija , 
Chi  Tòste  mai  pjé  ti? 

—  Mi  vòj  né  re,  né  prinsi , 
Né  '1  duca  d'Lombardor. 

*  Mi  vòj  cui  giovinoto  , 
Ch'a  j'é  'n  cula  person,  etc. 
1-8  O  mare ,  maridé-me , 

Ch*a  passa  la  stagion, 
Dé-me  cui  giovineto,  etc. 
15  Per  fé  muri  cui  giovo. 


Canavese 


Canavese 


Piemonte, 


Canavese 


Monferrato 
Canavete 


CANZONI  POPOLASI  —  LA  TOMBA 

che  ci  Stiano  padre  e  madre, 

il  mio  amore  la  braccio  a  me. 
In  cima  a  quella  tomba 

pianteranno  rose  e  fiori  ; 
tutta  la  gente  che  ci  passa 

sentiranno  l'odore  ! 
Diranno  :  —  è  morta  la  bella, 

è  morta  per  l'amore. 


16 


¥ariiiiti 


17-18 

Ch'an  fasso  fé  na  tomba 

Gh'j  a  stago  tre  con  mi. 

Piemonte, 

Canavese 

Fasso  na  fossa  granda 

Ch'a  stago  tre  con  mi. 

Piemonte 

Ch'am'  fasso  fé  na  lampa 

Ch'i  stago  tùli  tre. 

Canavese 

Faruma  fé  na  tampa, 

Lontan  tre  mij  da  si  ; 

Faruma  lunga  e  larga 

Ch'j  a  stago  tre  con  mi. 

Canavese 

Faruma  fé  na  tomba 

Ch*j  stago  tiiti  doj. 

Monferrato 

Na  ven  al  matin  giorno , 

A  l'era  già  pendù. 

-r-Ch'a  fasso  fé  na  cassia,  eto. 

Monferrato 

20 

Me  amante  *n  bras  a  mi. 

Piemonte. 

Canavese 

'L  me  amor  an  fàuda  a  mi. 

PiémonU 

'L  mari  da  cant  a  mi. 

Canavese 

21-22 

An  sima  d'cula  fossa 

Pianté-je  un  giiisamin. 

• 

Piemonte 

Tùt  antorn  a  cuta  tomba,  etc. 

Piemonte, 

,  Canavese 

24 

diran:  —  che  bon  odor. 

Canavese 

26 

An  bras  al  so  amor 

Piemonte 

16  RITISTA  OONTBHPOBAMBA 


PARALLEU 


Iieslone  Teneta 


Luigi  Correr,  in  un  articolo  sulla  poesia  popolare,  che  già  ebbi 
occasione  di  citare,  e  che  trovasi  nelle  opere  complete  di  questo 
scrittore ,  stampate  a  Venezia  nel  1838  dalla  tipografia  del  Gondo- 
liere, cosi  parla  della  presente  canzone  : 

«A  chi  non  è  toccato  d'udire  alcuna  volta  quel  volgare  lamento 
della  Bosettina,  a  cui,  fallito  il  primo  voto  d'ainore,  viene  l'anima 
consigliando  di  farsi  fare  una  cassa  profonda  capace  di  tre  persone, 
nella  quale  poter  essere  allogati,  il  padre,  la  madre  e  l'amante  suo, 
che,  cadavere  almeno,  le  sarà  conceduto  d'aver  fra  le  braccia?  E  non 
esilara  e,  quasi  direi,  non  profuma  la  mente  quel  fiore  ch'essa  vuole 
piantato  sul  fondo  di  detta  cassa,  acciò  le  genti  di  là  passando,  do- 
mandino che  fiore  sia  quello,  e  venga  loro  risposto:  essere  il  fiore 
della  Bosettina  che  mori  per  amore  t 


Faremo  fltr  una  cassa  fonda, 
Se  ghe  mettiemo  drente  in  tre. 
Lo  mio  padre  cola  mia  madre, 
E  lo  me  amore  in  brazo  a  me. 
In  sima  di  questa  tomba 
Ohe  pianteremo  d'un  bel  fior; 
A  la  sera  lo  pianteremo, 
A  la  matina  sarà  fiori; 
Tuta  la  zente  che  passeranno 
Diran:  che  belo  fior: 
El  zé  '1  fior  de  la  Rosina, 
La  xé  morta  per  l'amor. 


CANZOm  POPOLARI  ^  LA  TOMBA  17 

Altra  I«ezlone  Tenete 

(Camimieatay  manoiertttày  dal  congnio  Gugubuig  Stefani) 


Sta  matin  me  son  levata   * 
Prima  ancora  che  spunta  el  sol, 
E  a  la  finestra  me  so  trata 
E  go  visto  el  mio  primo  amor. 

Sta  matina  so  andata  in  piaeza 
E  go  visto  al  mio  pfimo  amor; 
El  parlava  co  una  ragasza; 
Ahi  ch,e  penai  ahi  oba  dolori 

Siora  mare,  saré.la  porta, 
Che  Ben  entra  qua  più  nissun  ; 
Vói  far  finta  d'esser  morta, 
Vói  far  pianzer  qualchedun. 

Vói  far  fare  'na  cassa  fonda 
Che  ghe  stemo  drente  m  tre: 
Lo  mio  padre,  la  mia  madre, 
Lo  mio  amore  in  braccio  a  me. 

E  po^  im  &ndo  d«  qmrila  eaoaa 
Impianteremo  un  gran  bel  fior, 
Alla  sera  l'impianteremo. 
La  matina  el  sarà  fiori. 

Tutti  quelli  che  passeranno 
Ohi  diranno,  oh  che  bel  fiori 
Questo  è  '1  fior  de  Rosettina 
Che  se  morta  per  amor. 

Siora  mare,  lasai  ehe  lo-  ama, 
Che  rò  sta  el  mio  primo  amor, 
Se  no  ghe  ogio,  mor  ogni  fiama, 
Za  non  m'avete  fato  d<»  cor. 

Shiita  C.  -2 


18  KITISTA  CONTBHPORANBÀ 


AUra  Iieslone  Teneta 

(An«blo  Dàlmbdigo.  Canti  del  p&polo  Veneziano  per  la  prima  tolta 
raccolti  ed  Ulmtrati.  2>  ediz.  Venezia  1857,  p.  219) 

€  La  eanson  de  la  Rosetina  » 


Vói  far  &r  una  ghirlanda 
Tuta  rose  damaschin  ; 
Yogio  meterla  da  banda 
Finché  morta  sarò  mi. 

Vói  far  far  'na  cassa  fonda 
Che  ghe  stèmo  drento  in  tre: 
Lo  mio  padre>  la  mia  madre, 
Lo  mio  amor  in  brazzo  a  me. 

Poi  ai  piedi  de  sta  cassa 
Nu  ghe  pianteremo  un  fior: 
E  lasserà  '1  pianteremo^ 
La  matina  '1  sarà  fiori. 

Tuti  quei  che  passeranno 
J  dirà:  Ghe  bon  odor! 
El  ze  '1  fior  de  Rosetina, 
Che  xe  morta  per  amor. 

Eiezione  Iiomliardia 

(C.  Cantù.  Stor.  Univ.y  Dee.  lett.  Torino  1843.  I.  lxiv) 

Dal  seguente  squarcio,  benché  per  avventura  assai  scorretto,  ri- 
portato dal  Cantù,  scorgesi  che  la  lezione  lombarda  non  deve  dif- 
ferire dalle  piemontesi  e  dalle  venete. 

Nel  bel  mezzo  a  quella  cassa 
Pianteremo  d'un  bel  fior. 
Tutti  quei  che  passeranno 
E  diranno  che  bel  fior; 
Egli  è  il  cor  (?)  della  Rosina 
Qke  l'è  morta  per  amor, 


CAmSOKI  POPOLABI  —  LA  TOMBA  19 


I^eslone  Catalana 

(D.  MANinn.  ÌSjlA  y  Fontanala.  OUervacumei  sobre  lapoeHapoptdarj 
con  muestras  de  romances  cataìanes  inéditos,  Barcelona  1853 , 
p.  112.  —  F.  WoLF..  Proben  portugiesischer  imi  catalanUcher 
Volhsromanzen.  Wien  1856,  p.  124). 

«  Los  presos  de  Lèrida  ]> 


Ta  s'en  va  à  lo  seu  pare  —  à  demanarli  un  dò. 

—  ^Ay  fiUa  Margarida  —  quin  dò  vols  que  yo  't  don? 

—  Ay  pare  lo  meu  pare  —  las  claus  de  la  preso. 

—  Ay  filla  Margarida  —  aixo  no  pot  ser,  no, 
Dema  sera  disapte  —  y  eia  penjarem  à  tots. 

—  Ay  pare  lo  meu  pare  —  no  penjen  Taymador. 

—  ^Ay  fiUa  Margarida  —  qui  es  lo  teu  aymador? 

—  Ay  jpare  lo  meu  pare  —  es  lo  mes  alt  y  ros. 

—  Ay  filla  Margarida  —  sera  el  primer  de  tots. 

—  Ay  pare  lo  meu  pare  —  penjeu-me  'n  à  mi  y  tot. 

—  Ay  filla  Margarida  ~  aixo  no  ho  fare,  no.  — 
Las  forcas  son  de  piata  —  los  dogala  ne  son  d'or, 
A  cada  cap  de  forca  —  un  ramellet  de  flors« 

La  geni  quant  passaran  —  sentiran  gran  olor. 


Canti  Pòrtogheisl 

Nella  romanza  portoghese  del  Conte  NUlo  (J.  B.  de  Almeida- 
Garrett.  Romanceiro.  Lisboa  1851,  III,  p.  9)  trovansi  vestigia  della 
nostra  canzone  : 


-«  Antes  que  o  dia  amanhe^a 
Ve-lo-has  ir  a  degoUar. 
—  Algoz  que  o  mattar  a  elle, 
A  mim  me  tem  de  mattar; 
Adonde  a  cova  Ihe  abrirem, 
Amim  me  téem  de  interrar..... 


Jifr  WViéTA  CONTEMPORANEA 


Canti  Cireel  ed  Albaiiei»! 

(N.  Tommaseo.  Canti  popolari  greci.  Venezia  1842,  p.  308. 
B.  BiONDBCu.  Shtdii  Unffuistici.  Milano  1866,  p.  8^ 


—  Pregoti,  maestro,  che  tu  faccia  la  sepoltura 

Un  po'  grande,  un  po'  larga,  tanto  per  due  persone.  — 

Trasse  il  coltel  d'oro,  e  si  trafisse  il  cuore. 

Ambedue  insieme  sepellirono,  in  una  sepoltura  ambedue. 


Se  avvien  ch'io  muoia  zitella,  sepelliscimi  nel  tuo  sepolcro, 
Onde  quando  tu  verrai  meno,  io  possa  riposare  nel  tuo  seno. 


Canti  Brettoni 


Una  canzone  di  Brettagna  termina  col  seguente  pensiero  (Th. 
Hbbsabt  db  la  ViLLEMAJBQué.  BoTzaz-Breiz ,  S»®  édit.  Paris  1846, 


II,  p.  131): 


Giacché  noi  non  abbiam  dormito  sul  medesisK)  let^  ^ 

noi  doimìreipa^  nella  medesima  tomba. 
Giacché  noi  non  fummo  maritati  in  questo  mondo , 
noi  ci  mariteremo  dinnanzi  a  Dio. 


ei 


LA  FIDANZATA  INFEDELE 


(2*  Sbbib  —  Canioiii  romansesehe) 


Un  giovane  Principe  vien  da  Ltoae  per  iiposare  la  fidanzata  da 
lungo  tempo  promessa.  Incontra  per  via  ina  pastoneHa  e  la  prega 
di  continuar  la  canzone  inlerrolia  dal  di  lui  arrivo.  La  pastorella  si 
rimette  a  cantare,  e  cantando  annunzia  al  Principe  clie  la  sua  fidan- 
zata infedele  ha  dato  alla  luce  un  bimbo  nell'assenza  di  lui. 

La  madre  della  fidanzata  vede  giungere  il  principe  dall'alto  ve- 
rone e  ne  avverte  la  figliuola,  la  quale  temendo  la  vista  dello  sposo 
tradito,  gli  manda  incontro  quella  delle  due  sorelle  che  più  le  ras- 
somiglia. Ma  l'occhio  dell'amante  non  s'inganna,  e  la  fidanzala  è 
costretta  a  presentarsi  al  Principe  corrucciato:  «Ditemi,  bella, 
esclama  il  tradito,  ditemi  la  verità  :  siete  ancora  verginella  siccome 
vi  lasciai?  > 

La  donna  confessa  la  colpa ,  e  muore  trafitta  dallo  sposo  ol- 
traggiato. 

Il  movimento  drammatico  di  questa  poesia  è  efficace  e  commo- 
vente. Il  soggetto  è  comune  a  molte  altre  canzoni  e  può  avere  ori- 
gine storica.  La  primitiva  redazione  deve  riferirsi  all'intervallo  che 
corre  dal  decimo  al  decimoquarto  secolo.  È  comune  al  Piemonte 
e  a!  Cawavese.  La  strofa  è  di  quattro  versi  di  cui  il  primo  quinario, 
e  gli  altri  tre  settenarii.  lì  secondo  e  il  quarto  tronchi  e  rimati. 


22  BIYISTA  ooxnncpoBAiou. 


Iieslmie  Plem^ntege 


I. 

—  Gante,  bargera, 

2  Gante  d'una  canson, 

Gula  che  voi  cantave 
4  Guamand  i  vost  moton. 

—  Si,  si,  me  prinsi, 

6  Si,  si,  ch'la  canterò  : 

La  vostra  bela  dajma 
8  Lha  'vù  'n  gentil  fantó. 

II. 

La  sua  marna, 
10  Gh'a  l'era  a  li  balcon, 

Na  riguardava  '1  prinsi, 
42  Gh'a  vnia  da  Lion. 

—  0  la  mia  fia, 

H  Malòròsa  che  t'  sej  ! 

Risguarda  là  to  prinsi, 
46  Ghe  ti  ven  a  vede. 

—  0  la  mia  marna, 

48  Mandé-je  la  mia  sòr, 

Gula  ch'a  mi  risambla 
20  Ant  la  boca  e  ant  j  òi.  - 


Variaoti 


3 

Gante  vostra  canson. 

Piemonte 

7e8 

L'è  fajta  da  na  dama 

Con  un  cavajer  d*cort. 

12 

Ch'a  galopa  da  Lion. 

Piemonte 

20 

Da  la  boca  fina  a  j'òj. 

Piemonte 

OÀKzoin  popolàbi  —  la  fidanzata  infbdblb  23 


Tradiulone 


I. 


—  Cantate,  pastorella, 
cantate  una  canzone, 

quella  che  voi  cantavate 
guardando  i  vostri  agnelli. 

—  Si,  si,  mio  prence, 
si,  si,  che  la  canterò: 

La  vostra  bella  dama 
ha  fatto  un  gentil  bambino, 

II. 

La  madre  di  lei 

che  la  era  ai  balconi, 
ne  guardava  il  prence 

che  veniva  da  Lione. 
—0  la  mia  figliuola, 

sciagurata  che  tu  sei! 
Guarda  là  il  tuo  prence 

che  ti  viene  a  vedere . 

—  0  la  mia  madre! 
mandategli  la  mia  sorella, 

quella  che  mi  somiglia 
nella  bocca  e  negli  occhi.  - 


84 


RIVISTA  CONTBMPOBAMSA. 


L'è  lo  bel  prinsi 


22 

Da  luns  Tha  vista  vni  : 

—  Cula  ré  pa  la  dajma 

24 

Ch'me  cor  a  Tha  'mpromi. 

—  0  la  mìa  fia, 

26 

Malorosa  che  t'sej  ! 

Risguarda  là  to  prinsi  ; 

28 

L'ha  rifudà  tua  sor. 

—  0  la  mia  marna, 

30 

Vni-mie  gittlé  abìlìé; 

Dinans  a  lo  me  prinsì, 

32 

Che  mi  na  vòj  andé.  — 

V-é  io  bel  prinsi, 

34 

Da  luns  Tha  vista  vni  : 

—tnh  ti  a  rè  la  dajma 

36 

Ch*me  cor  a  l'ha  ^nipromi. 

Di-me  voi,  bela, 

38 

Di-me  la  verità: 

Seve  ancora  fieta 

40 

Conforme  v'haj  lassa? 

—  Si,  si,  me  prinsi, 

42 

La  verità  v6j  bin  di  : 

Con  èl  prinsi  de  Fiandra 

44 

Tre  nSjt  so'  andà  dormi.  — 

L'è  lo  bel  prinsi 

46 

Ciama  page  Nicola  : 

—  Andè-me  pjé  mia  speja 

48 

Cufei  dal  pugnai  dora. 

0  pjoré,  pagi  ! 

50 

Oh  pjorè,  pdt  e  grand, 

Mi  rhaj  nrassà  la  dajma 

52 

Gh'me  cdr  amava  tant  I  ~ 

Varianti 

43 

Con  iin  aut  prinsi.                                  Piemonte 

Con  él  prinsi  d'Olanda.                           Canaveté 

43^ 

El  diica  de  l'Armenia 

Set  ani  Thaj  servi.                                  Piemonte 

44 

Tre  mejs.                                                 Piemonte 

48 

Cala  tiita  'ndorà.                                     Piemonte 

CANZONI  POPOUJUt  —  LA  FIDANZATA  INFSDBLB  :J|6 

Il  bel  prence 
da  lungi  Tha  vista  venire  : 

—  Quella  non  è  la  xlama 

che  il  mio  cuore  ha  promesso. 

—  Ola  mia  figliuola, 
sciagurata  che  tu  sei  I 

Guarda  là  il  tuo  prence; 

ha  rì&oitato  tua  sorella. 
— ^  0  ìa  mia  madre, 

venite,  aiutatemi  ad  abbigliare  ; 
tnarazi  al  mio  prence 

ch*i'  ne  voglio  andare.  — 
Il  bel  prence 

da  lungi  l'ha  vista  venire; 
— Quella  è  ben  la  dama 

che  il  mio  cuore  ha  promesso. 
Ditemi  voi,  bella, 

ditemi  la  verità  : 
siete  ancora  verginella 

come  vi  lasciai  ? 

—  Si,  si,  mio  prence, 
la  verità  vo'  ben  dire  : 

col  prence  di  Fiandra 

tre  notti  son  andata  a  dormile. — 
Il  bel  prence 

chiama  paggio  Nicolò  : 

—  Andate  a  pigliar  la  mia  spada 
quella  dall'elsa  dorata. 

0  piangete,  paggi  I 

Oh  piangete,  piccoli  e  grandi  ! 
Io  ho  ammazzalo  la  dama 

che  il  mio  cuore  amava  tanto  !  — 


98 


RIVISTA  OONTBMPORANBA 


Variante  finale 

{PitmorUi) 


Caand  Tha  la  speja , 
La  testa  a  j'ha  copà , 
Biità-la  a'na  bassilla, 
A  sua  marna  aj  Tha  portÀ. 
—  Pie  Toj,  marna, 
Pie  pei  Yost  piasi  : 
STavejse  bin  guemà-la, 
Sria  pa  riva  sosi. 


Quando  ha  la  spada 
La  testa  le  tagliò, 
Misela  s'un  bacino , 
A  sua  madre  la  portò. 
— Pigliate  Toi,  madre, 
Pigliate  pei  vostri  piaceri  : 
Se  Taveste  ben  guardata. 
Ciò  non  sarebbe  capitato. 


27 


CAROLINA  DI  SAVOIA 


(1*  Sbbib  —  Gamoni  storiehe) 

Nella  Cappella  del  Real  Castello  di  Moncalìeri,  il  di  29  set- 
tembre 1781  alle  ore  4  dopo  il  mezzodì,  stavano  inginocchiati  di- 
nanzi all'altare  la  principessa  Maria  Carolina  Antonietta  di  Savoia, 
e  Carlo  Emanuele  principe  di  Piemonte,  incaricato  di  sposare  per 
procura  la  sua  sorella  in  nome  del  principe  Antonio  Clemente  duca 
di  Sassonia.  Assistevano  alla  cerimonia  il  re  Vittorio  Amedeo  III^  e 
la  regina  Maria  Antonietta  Ferdinanda  infanta  di  Spagna,  genitori 
della  sposa,  tutta  la  real  famiglia^  la  principessa  Carlotta  di  Ca- 
rignano,  il  cardinale  Marcolini ,  il  principe  di  Salm-Salm  ,  tre 
Vescovi^  i  Cavalieri  dell'Ordine,  il  principe  di  Masserano,  i  Mi- 
nistri di  Stato ,  il  Capitano  delle  Guardie  del  Corpo  ,  il  Gover- 
natore dei  Principi,  il  Mastro  di  cerimonie  ed  introduttore  degli 
Ambasciatori.  Il  conte  Marcolini,  Ambasciatore  straordinario  di 
Sassonia ,  assisteva  pur  esso  in  luogo  distinto  al  rito  nuziale  (1). 
Il  grande  Elemosiniere  del  Re  usci  pontificalmente  dalla  sacri- 
stia,  e  dopo  essersi  inginocchiato  all'altare^  ed  inchinato  al  Re 
ed  alla  Regina^  fece  agli  sposi  la  consueta  interrogazione.  Il  prin- 
cipe di  Piemonte  rispose  immantinente;  ma  la  Principessa,  alzatasi, 
prima  di  rispondere  fece  la  filiale  riverenza  ai  suoi  genitori,  e  ri- 
messasi in  ginocchio  rispose  anch'essa  affermativamente.  Allora  il 
prelato  diede  loro  la  benedizione  nuziale,  e  recitò  il  discorso  d'uso. 
I  tre  Vescovi  firmarono  il  registro  del  matrimonio  (2).  Terminata 
la  funzione,  e  preso  congedo  dal  Re  e  dalla  Real  famiglia, 
l'Ambasciatore  della  Corte  Elettorale  di  Dresda  parti  alla  volta 
d'Augusta,  ove  la  sposa  dovea  essere  consegnata  dai  Commissarii 

(1)  Relazione  delle  solennità  e  feste  che  hanno  preceduto  il  matrimonio 
della  principessa  Carolina  di  Savoia  col  principe  Antonio  di  Sassonia. 
Ms.  degli  ArchiTii  del  Regno. 

(2)  Ms.  cit. 


96  RIVISITA  CONTBMPOBANBA 

del  re  ai  Commissarìi  Sassoni.  Il  mattino  seguente  partiva  la 
nuova  Duchessa  di  Sassonia  e  con  lei  il  Re,  la  Regina,  il  Principe  e 
la  Principessa  di  Piemonte,  che  la  vollero  accompagnare  fino  a 
Vercelli.  Ma  prima  della  parleaza  il  nuwak  corteggio  traversò  la 
città  di  Torino,  «  avendo  voluto  il  Re  e  la  Regina  secondar  cosi 
la  pubblica  brama  di  veder  ancora  una  volta  in  essa  l'amata  loro 
ultima  figlia  »  (1).  Da  Vercelli  la  giovine  sposa  continuò  il  viaggio 
passando  per  Milano ,  Roveredo  ed  Innspruck,  affidata  al  conte 
della  Marmora,  Gran  Mastro  della  Casa  del  Re,  luogotenente  ge- 
nerale di  cavalleria  e  ministro  di  Stato.  Erano  nel  corteggio  della 
Duchessa  il  marchese  di  Bianzè  suo  primo  scudiere  e  cavaliere 
d'onore,  il  cav.  Berzetti,  maggiordomo  del  Re,  l'Uditore  Borsetti, 
segretario  di  Stato  nel  Ministero  degli  affari  esteri,  e  segretario  di 
Gabinetto  della  Duchessa^  la  marchesa  di  Cinzano,  dama  d'onore, 
la  contessa  di  Salmour  e  la  marchesa  di  Verolengo,  dame  di  pa- 
lazzo. Giunta  in  Augusta  fu  la  Duchessa  consegnala  dal  conte  della 
Marmora  e  dall'Uditore  Borsetti^  Commissarii  del  re,  ai  Commis- 
sarìi di  Sassonia,  conte  Camillo  Marcolini,  e  Carlo  Enrico  Clauzer 
il  14  ottobre  4781.  Il  24  dello  stesso  mese  il  principe  Antonio 
conduceva  in  persona  all'altare  la  sua  giovane  sposa  in  Dresda, 
e  cosi  confermavasi  solennemente  quel  nodo  che  una  morte  imma- 
tura dovea  rompere  ben  tosto. 

Il  presago  cuore  paterno  dettava  al  re  Vittorio  Amedeo  III  nelle 
istruzioni  date  al  conte  della  Marmora  le  seguenti  parole  : 

«  La  speciale  circostanza  in  cui  la  Principessa  si  trova  di  non 
«  aver  avuto  il  vainolo,  esige  sopra  ogni  cosa  che  non  siano  dimen- 
«  ticate  le  convenienti  precauzioni  per  preservarla  nel  viaggio  da 
«  lutto  ciò  che  potesse  servire  a  comunicare  una  malattia  così  pe- 
«  ricolosa;  e  noi  non  dubitiamo  della  vostra  diligente  attenzione  a 
€  questo  riguardo  t>  (2). 

Un  anno  appena  era  trascorso,  e  la  Principessa  moriva  di  vainolo 
il  28  dicembre  1782,  nel  fiore  della  bellezza  e  della  gioventù  (3). 

(1)  Ms.  cit. 

(2)  Altro  Ms.  degli  Arohivii  del  Regno;  29  sett.  1781. 

(3)  Il  principe  Antonio  scriveva  il  17  marzo  1781  alla  Regina  per  ringra- 
ziarla-del  dato  consenso  :  «  Aussi  toas  mes  désirs  ne  tendront-ìls  qu'à  me 
fl  rendre  digne  des  bontés  d*une  Princesse  qui  réunit  aux  charmes  de  la 

.  f  plus  aimable  figure  toutes  les  vertus  doses  augustes  parente».  Ms.  degli 
Arohivii  del  Regno.  Maria  Carolina  di  Savoia  era  nata  il  17  gennaio  1764, 
cosicché  all'epoca  della  sua  morte  non  aveva  ancora  compiuto  il  dician- 
novesimo anno. 


CANZONI  porouui  —  cabolimà  di  sayoja  29 

Ha  una  tradizione  tuttora  sparsa  nel  Piemonte  assicura  che  essa 
mori  di  dolore. 

Maria  Carolina  era  la  terza  ed  ultima  delle  figlie  superstiti  di 
Vittorio  Amedeo.  Le  due  sorelle  maggiori^  destìnete  a  più  splendide 
nozze,  avevano  sposato  due  figli  di  Francia  che  poi  regnarono 
amendue  coi  nomi  di  Luigi  XVIII  e  di  Carlo  X.  Il  principe  Antonio 
sposò  in  seconde  nozze  dopo  cinque  anni  di  vedovanza  Maria 
Teresa  di  Lorena  figlia  di  Leopoldo  II  imperatore,  e  succedette  nel 
1827  a  Federico  Augusto,  suo  fratello,  nel  Regno  di  Sassonia. 

La  ripugnanza  della  Principessa  ad  abbandonare  la  casa  pa- 
terna (1),  la  passeggiata  per  Torino  prima  della  partenza,  la  do- 
lorosa separazione  di  Vercelli,  il  presentimento  della  morte  vicina, 
sono  argomento  di  questa  canzone  popolare  che  ora  per  la  prima 
volta  è  fissala  dalla  scrittura.  Ho  di  essa  tre  lezioni:  due  piemon- 
tesi ed  una  monferrina.  Ma  si  canta  anche  in  canavese. 

Il  metro  è  giambico  di  tredici  sillabe,  in  guisa  però,  che  il  primo 
verso  d'ogni  strofa  può  dividersi  nella  recitazione,  come  è  diviso 
nel  canto,  in  due  settenarii  tronchi:  mentre  il  secondo  verso  si 
recita  e  si  canta  unito,  e  se  si  volesse  dividere  in  due  emistichii 
darebbe  per  risultato  costante  un  settenario  piano  ed  un  sen«rio 
tronco.  Gli  accenti  indispensabili  di  questo  metro  cadono  sulla  sesta 
e  sulla  dodicesima  sillaba  ;  ma  sono  essi  generalmente  accompa- 
gnati da  altri  accenti  che  possono  indistintamente  cadere  sulla  se- 
conda e  sulla  quarta  nel  primo  emistichio  e  sull'ottava  e  sulla  de- 
cima nel  secondo;  e  talora,  nei  versi  più  ricchi,  cade  l'accento  su 
tutte  le  sillabe  di  numero  pari. 

(1)  Pare  che  questa  ripugnanza  non  fosse  ignota  alla  corte  di  Dresda, 
giacché  n'ò  fatto  apertamente  cenno  in  una  lettera  che  in  data  del  24  marzo 
1781  scriveva  al  Re  Tfilettore  Federico  Augusto:  tll  en  coùtera  sans 
t  doute  à  la  sensibilité  de  Madame  la  Princesse  de  s'éloigner  de  ses  il- 
«  lustres  parents  et  d'une  famille  qui  doit  lui  étre  chère;  mais  je  mettrai 
«  tant  d*attention  à  faire  diversion  à  ses  soucis,  et  le  prince  Antoine  mon 
t  frère  sera  si  applique  à  s  attirer  sa  confiance  et  son  estime,  que  je  me 
e  flatte  de  lui  adoucir  l'amertume  de  cette  séparation  ».  Ms.  degli  archivii 
del  Regno. 


30  BITI0TÀ  0(»«TBllP(»UimÀ 


Iieslone  Ptemontese 


La  bela  Carolin  la  volo  marìdé, 
2  Lo  dùca  de  Sassonia  ai  vólo  fé  spose. 

—  Oh  !  s'a  m'é  bin  pi  car  un  póver  paisan, 

4  Che  '1  dùca  de  Sassonia  cb'a  Té  tan  lontan. 

—  un  póver  paisan  Té  pa  del  vost  onor  : 

6  Lo  dùca  de  Sassonia  cb'a  Té  'n  gran  signor. 

—  Oh!  s*a  m'é  bin  pi  car  un  cavajer  dia  cort, 
8             Che  '1  duca  de  Sassonia  cb'a  Fé  tan  signor. 

—  un  cavajer  dia  cort  Té  pa  del  vost  onor  ; 
10             Lo  dùca  de  Sassonia  cb'a  Té  'n  gran  signor. 

—  Da  già  cb'a  Té  cosi,  da  già  ch'a  Té  destin , 
12             Faruma  la  girada  tùt  antom  Tùrin. 

Bondi  me  car  papà,  bondi  cara  maroan, 
14  Che  mi  vad  an  Sassonia  cb'a  le  tan  lontan. 


Varianti 


1  Madama  Carolin  la  vbro  maridè.  Monferrato 

2  Al  duca  di  Sassonia  i  so'  la  volo  de.  Piemonte 
3-4            Oh  s*a  m*é  bin  pi  car  iin  pover  sitadin 

Che  '1  diica  di  Sassonia  ch*a  Pha  tang  cuatrin.      Monferrato 
5  a  fa  pa  per  voj.  Piemonte 

ch*a  ré  'n  bel  signor.  Piemonte 

11  Da  già  che  voi  vori  cosi.         '  Monferrato 

11-12  Yeni-me  acompagné  fin  giii  d'pjassa  Castel, 

Che  vada  de  '1  bondi  a  lo  me  car  fratel.  Piemonte. 

E  bin  da  già  ch'a  m'  v5ri  mari  de , 

Mné-me  per  Tiirin,  mné-me  a  spassegé.  Monferrato 

13  e  seg.    *N  carossa  al  Than  pia  '1  papà  e  la  sua  maman, 

E  pòj  al  rhan  menà-la  'n  pjassa  d'san  Giovan. 

D*an  pjassa  d'san  Giovan  che  lor  a  son  riva, 

J  carossé  d'Sassonia  j'ero  già  paria. 

D'an  carossa  del  re  chila  Té  dismontà, 

A  Ve  monta  'ni  iin'auta  tiit  antorn  dora. 

—  Bondiy  etc,  Monferrato.  Piemonte 


oAiizoia  pgpoiiAn  *-  cm^bouiha  m  sàtoja  31 


La  bella  Carolina  la  voglìon  maritare, 
il  duca  di  Sassonia  voglion  farle  sposare. 

—  Oh!  m'é  ben  più  caro  un  povero  contadino, 
che  il  duca  di  Sassonia  ch'è  tanto  lontano. 

—  Un  povero  contadino  non  è  del  vostro  onore  ; 
il  duca  di  Sassonia  gli  è  un  gran  signore. 

—  Oh!  m'ò  ben  più  caro  un  cavalier  della  corte, 
che  il  duca  di  Sassonia  ch'è  si  gran  signore. 

—  Un  cavalier  della  corte  non  è  del  vostro  onore  ; 
il  duca  di  Sassonia  gli  è  un  gran  signore. 

—  Quand'é  cosi,  quand'egli  è  destino, 
faremo  il  giro  tutt'intorno  a  Torino.  — 

—  Buon  di,  caro  padre,  buon  di,  cara  madre, 
ch'io  vado  in  Sassonia  che  è  tanto  lontano  t  — 


32  niyutjk  coirrBMPOBAiiBik 

Caand  a  n'in  son  riva  sul  pont  di  là  d'Versej  y 
46  N*a  fa  la  disparita  con  i  so  fratej. 

—  Fratej  dei  me  fratej,  toebé-me  'n  po'  la  man, 
18            Che  mi  vad  a»  Sassosii»  eb*»  Té  tan  lontan. 

Toché-me  'n  po'  la  man,  amis  me  car  amis, 
SO  L'è  con  la  fior  del  liri  a  'rvédse  an  paradis. 

Vurteme  lode 

(Piemontese.  Torino) 

Parla  la  principessa  ii  Piemonte^  Adelaide  di  Francia, 

nipote  di  Luigi  XV,.  sorella  di  I#MÌgi  XYI,  moglie  di  Cado  Emanuele  IV. 

cognata  di  Carolina. 

—  Gara  la  mia  cùgnà,  perché  n'a  pjorì  tan? 
22            Mi  son  veniìa  d^an  Frdnsa  ch'a  Ve  tan  lontan. 

—  Cara  la  mia  c^gnà,  voj  si'  venùa  a  Turin 
24            A  Casa  di  Savojia,  ch'a  Té  'n  bel  giardini 

Gara  la  mia  cngvAy  toché-me  'n  po'  la  man, 
26  Cula  che  Varcomando  s'a  Té  la  mia  maman. 


CANZONI  POPOLàEI  —  OABOUNA  DI  SATOJA 

Quando  ne  giunsero  sul  ponte  di  là  da  Vercelli , 

ne  fa  la  dipartita  da'  suoi  fratelli. 
—  Fratelli,  fratelli  miei,  stringetemi  la  mano, 

ch'io  vado  in  Sassonia  ch'è  tanto  lontano  ! 
Stringetemi  la  mano,  amici,  miei  cari  amici, 

col  fior  del  giglio,  a  rivederci  in  paradiso  ! 


—  Cara  cognata  mia,  perchè  pianger  tanto? 
r  venni  di  Francia  ch'è  tanto  lontano. 

—  Cara  cognata  mia,  voi  veniste  a  Torino, 
A  Casa  di  Savoja,  ch'è  un  bel  giardino  ! 

Cara  cognata  mia,  stringetemi  la  mano, 
Quella  che  vi  raccomando  si  è  la  madre  mia. 


Costantino  Nioba. 


MkUta  C. 


34 


OSSERVAZIONI 

SUL  BECCARIA  E  IL  DIRITTO  PENALE 

DI  CESARE  CANTÙ  o 
e  solle  doe  seoole  degli  Spiritnalisti  e  degli  Dnitarii 


La  legiBlazione  è  specchio,  onde  assai  bene  si  riflettono  i  gradi 
di  civiltà  d'un'epoca  e  d'un  paese.  Locchè  se  è  vero  pel  diritto  ci- 
vile, è  assai  più  pel  diritto  criminale.  I  processi  tessuti  per  indagare 
i  delitti,  e  gli  articoli  d*un  codice  penale  possono,  al  pardi  una  storia, 
svelare  la  morale,  la  logica,  il  benessere,  il  progresso  e  l'avvenire 
di  una  nazione. 

(*)  FiRBNZB  1862,  bella  edizione  del  Bàrberi. — Per  mostrare  che  atten- 
<^meDte  abbiamo  letto  questo  lavoro,  noteremo  alcuni  sbagli  tipografici, 
che  l'editore  avrebbe  dovuto  evitare,  e  che  saran  a  correggere  in  una 
nuova  edizione  che  poco  tarderà  : 

Pag.  47  lin.  18  Aggiungete  i  continui  contro  le  streghe         continui  processi  (?) 
72       24  tale  sovranità  è  inalterabile  inalienabile 

88       20  doveroso  tutto  ciò  ch'è  domandato  comandato 

281         2  ogni  misfatto  semplice  minaccia  ogni  misfatto  implica  mi- 

naccia 
139  nota  3  confessò  sua  in  colpa  confessò  sua  colpa 

178       24  rispettatene  la  reputazione  rispettarne 

247         3  tiranna  della  creatura  e  della  sensibilità    Dubitiamo  debba  leggersi  : 

quegli  aberramenti  della 
sensibilità  e  della  ragione, 
volontariamente  dimen- 
tica del  creatore  e  perciò 
tiranna  della  creatura. 
259  nota  5  codice  marziale  e  di  M.  Teresa  codice  marziale  di  M.  Teresa 

266  nota  10  una  Svizzera  cristiana  la  Svizz.  cristiana 

270  penultima    Gussort  Pussort 

La  Hedazione, 


OSSBBVAZIONI  SUL  BBCCAIUA   E  IL  DIBITTO  PBNALB  35 

Ciò  postOy  ecco  uno  schizzo  dell'antica  giurisprudenza  criminale. 

In  Firenze,  nel  1258,  due  infelici  vennero  impiccati perchè 

non  aveano  come  pagare  una  multa  di  poche  lire! locchè  di  re- 
gola veniva  stabilito  dallo  Statuto,  che  per  maggiore  scherno  era 
detto  di  S.  Geminiano  !  I  —  Altrove,  perchè  un  corriere  non  trova 
pronti  i  cavalli,  quel  meschino  che  doveva  allestirli,  viene,  per  la 
colpa  d'avere  sbagliato  l'ora,  mandato  alla  forca.  -  Perfin  Pio  V 
dannò  alla  morte  i  falliti  !  —  In  Francia  alla  ruota  e  alla  forca  il 
contrabbandiere  per  una  libbra  di  sale  o  poche  foglie  di  tabacco!  — 
Morte...  pel  furto  d'un  luigi!...  pel  falso!...  per  un  libello!... 

Qua  il  reo  colla  pelle  stigmatizzata  dal  marchio  vien  tratto,  l'an- 
niversario del  delitto,  sul  graticcio  a  testa  nuda,  fin  dove  fii  con- 
sumata la  colpa,  e  quindi  flagellato!...  Alla  di  lui  morte  s'incrude- 
lisce sul  cadavere,  che  viene  arrotato,  testa  e  mani  mozze!...  Cosi 
in  Isvezia  nel  secolo  decimottavo!...  —  Là  vedi  il  reo  cincischiato 
dalla  tanaglia  rovente,  co'  sanguinosi  moncherini  respinger  la  ruota 
dalla  quale  è  colpito  nel  petto,  e  sulla  quale,  morto  che  sia,  verrà 
avviticchiato.  —  Quell'altro  si  squarta,  e  per  misericordia  gli  si  sega 
prima  la  gola...  Ciò  in  Piemonte...  sino  ai  tempi  di  Carlo  Alberto!... 

E  come  s'indagavano  i  delitti,  onde  almeno  si  evitasse  il  pericolo 
d'infliggere  agl'innocenti  pene  si  atroci?...  —  Colla  tortura!!... 

€  Quando  Damiens  feri  con  un  temperino  l'osceno  Luigi  XV,  nel 
€  1757,  il  popolo  fu  invaso  da  entusiasmo  di  furore...  per  un  re  che 

cnon  stimava si  fé'  ricerca  fra  tutti  i  tribunali  qual  possedesse 

€  un  più  tormentoso  metodo  di  torturare  il  reo.  Parigi  lo  stirava  al 
e  possibile,  e  lo  gonfiava  d'acqua,  o  rompevagli  lentamente  le  gambe 
e  fra  due  tavole:  Dieppe  lo  sospendeva  con  tanaglie  per  le  unghie, 
€  0  schiacciavagli  le  dita  ;  cosi  Rouen  ;  Metz  ficcava  delle  punte  sotto 
€  le  unghie  ;  Besan^on  colle  strappate  lussava  le  ossa  ;  Autun  distil- 
c  lava  olio  bollente  traverso  a  botti  porose,  che  talvolta  prendendo 
e  fuoco,  bruciavano  l'accusato  ;  Avignone  usava  la  veglia^  scanno  di 
«  legno  a  punta  di  diamante,  sulla  cui  cima  appoggiavasi  Testre- 
c  mità  della  spina  dorsale,  donde  veniva  uno  spasimo  insopportabile, 
e  che  rinnovavasi  finché  il  reo  confessasse ,  il  quale  intanto  dinanzi 
e  a  im  grande  specchio  vedeva  tutte  le  contraffazioni  del  proprio 
€  viso.  I  medici  chiamati  a  consulto,  dichiararono  che  la  più  tor- 
«  mentosa  era  la  tortura  degli  stivaletti,  e  Damiens  la  sostenne,  fermo 
€  a  ripetere  di  non  aver  complici.  Condannato  al  patibolo,  gli  fu 
e  arsa  a  lento  fuoco  la  mano  armata  del  coltello  parricida,  tanagliato 
«  per  tutto  il  corpo,  e  stirato  quasi  un'ora  da  quattro  cavalli  in 
e  senso  contrario  ;  nelle  piaghe  gli  venne  colato  resina,  olio,  cera 
e  e  piombo  liquefatti.  Morto  che  fu  dopo  cinque  quarti  d'ora  di  sup- 
c  plizioy  i  suoi  avanzi  si  bruciarono,  e  furono  banditi  in  perpetuo  suo 


36  RIVISTA  CONTBMPORANBA 

«  padre,  la  moglie,  il  figlio;  ai  fratelli  imposto  di  cambiar  il  nome; 
€  atterrata  la  casa  ov'era  nato.  >  (CantÙj^o^,  16.)  —  Ecco  l'idola- 
tria dei  re  che  rimpiange  il  p.  Bresciani!  —  Retrivi!...  mi  faranno 
sempre  terrore,  ma  non  più  meraviglia  le  stragi  dei  settembristi  e 
le  beccherie  del  novantatre  —  perocché  i  venerandi  codici  polverosi 
avevano  anche  troppo  insegnato  al  popolo  la  crudeltà! 

Immaginatevi  come  tra  gli  urli  e  di  mezzo  al  sangue  brillasse 
il  sole  della  verità  !  —  La  voce  dei  fanatici  accusa  Calas,  settuage- 
nario protestante  di  Tolosa,  d'aver  ucciso  il  proprio  figliuolo  perchè 
tendeva  al  cattolicismo.  La  probità  dell'accusato  e  molti  indizii  lo 

mostravano  innocente Ma  posto  alla  corda  confessa!...  ed  è  tratto 

al  supplizio  della  ruota!  sua  moglie  al  rogo!!  Voltaire  fa  appello 
alla  pubblica  opinione!  si  ripiglia  il  processo  e  la  vittima  è  di- 
chiarata innocente!...  Il  Capitoni  che  aVeva  proferita  la  condanna, 
divien  pazzo  e  suicida!...  —  Antonio  Pin  sottoposto  ai  tormenti  con- 
fessa d'avere  ucciso  Seras,  e  vien  tratto  a  morte,  sebbene  non  si 
rinvenisse  il  cadavere  dell'ucciso  là  dove  quegli  sotto  la  tortura  avea 
indicato.  Poco  dopo  Seras  ch'era  partito  nascostamente,  redivivo  ri- 
toma da  un  viaggio!  —  Nel  1770  Sibourg,  tormentato,  si  confessa 
autore  d'un  assassinio,  pel  quale  ventiquattro  anni  prima  era  stato 
squartato  Claudio  Debeaux! 

Quando  TAustrìa  abolì  la  tortura,  vi  sostituì  le  bastonate  !  Ecco 
in  Ungheria  scompajono  diverse  persone,  e  alcuni  poveri  zingani 
vengono  accusati  d'averle  uccise!,..  Confessano  sotto  il  bastone!... 
e  indicano  il  luogo  dove  stavano  sepelliti  gli  uccisi.  —  Si  scava  — 
non  una  traccia.  —  Si  torna  al  bastone!...  Infamia!  per  finire  il 
martirio,  gli  zingani  dichiarano  di  aver  mangiato  i  cadaveri  senza 
lasciarne  boccone!...  Provato  cosi  in  genere  e  specie  il  deUtto,  gli 
sciagurati,  ch'erano  quarantacinque,  vengono  irrotati  e  squartati! 
—  Ma  arrivano  cencinquanta  nuovi  zingani...  cui  si  riserbava  ugual 
sorte  —  quando  fu  sospesa  la  procedura.  —  Poi  si  scopre  che  le  per- 
sone inghiottite  dagli  zingani  erano  andate  ad  abitare  altrove  ! 

Vedete  che  non  parlo  del  medio  evo!...  L'ultima  volta  che  si 
applicò  la  tortura  in  Francia,  fu  nel  1788! 

Aggiungi  lo  squallore  di  carceri  malsane,  ove  si  punivano  gl'in- 
quisiti  prima  che  fossero  trovati  rei  —  ove  il  governo  non  alimen- 
tava coloro  cui  toglieva  la  libertà ,  e  che  dunque  sarebbero  morti  di 
fame,  se,  poveri,  non  fossero  stati  sovvenuti  dalla  carità  cristiana. 
Aggiungi  che  l'iniqua  bilancia  di  quella  maschera  di  giustizia  nelle 
pene  accordava  ai  nobili  il  minimo  grado,  e  li  esimeva  dalla  gogna, 
dalla  galera,  dalla  forca^  dalle  pene  infamanti  —  mentre  l'infamia 
colpiva  gl'individui  dell'intera  famiglia  de' plebei,  cioè  li  «  obbligava 
tutti  a  non  vivere  che  di  delitti  »  (Canti"^,  pag,  179).  —  Aggiungi 


OSSERVAZIONI  SUL  BECCARIA  K  IL  DIRITTO  PENALE  37 

che  le  leggi  venivano  rimpastate  e  accresciute  da  interpreti,  che  con 
una  logica  da  orsi,  e  colla  più  vigliacca  adulazione  pei  troni,  dì  loro 
autorità  legittimavano  canoni  orrendi!...  Aggiungi  i  magistrati  alla 
cui  inesorata  balla  i  legislatori  lasciavano  sin  la  pena  di  morte  — 
e  con  ciò  avrai  compiuto  un  languido  sbozzo  della  giurisprudenza 
criminale  —  d'jeri! 

Retrivi  !  confessate  che  siamo  progrediti  anche  in  fatto  di  scienze 
spirituali  ! 

E  chi  mai  avrebbe  oso  d'alzar  la  voce  contro  a  quei  sacrileghi 
giuristi  ?  —  Ma  non  era  forse  stata  la  reviviscenza  del  gius  romano 
che  aveva  fatto  rinascere  la  tortura  col  processo  inquisitorio,  occulto, 
spietato,  tessuto  di  frodi  e  d'insidie,  onde  un  reo  doveva  trovarsi  ad 
ogni  costo?  Non  era  la  Roma  dell'antico  diritto  che  considerava  come 
tristo  il  padrone  che  rifiutasse  alla  tortura  gli  schiavi,  quando  gli 
venissero  pagati  a  prezzo  di  pecore  e  di  buoi?...  Allorché  il  gius 
romano  era  stato  adorato  colle  candele  accese  come  un  Dio,  chi  mai 
avrebbe  ardito  progredire  oltre  il  titolo  de  quaestionibus^...  oltre  la 
rivelazione  delle  pandette? 

Potenza  del  pregiudizio! Persino  Voltaire  disapprovando  la 

tortura,  la  volea  però  riserbata  ai  regicidi  e  parricidi  ;  quasiché  pei 
maggiori  delitti  la  giustizia  dovesse  appagarsi  di  mezzi  che  sono 
reputati  inabili  a  conseguire  la  verità  ! 

Sotto  questi  auspicìi  era  nato  Cesare  Beccaria,  e  avea  dato  alla 
luce  il  libriccino  dalle  cencinquanta  faccio  intorno  ai  delitti  ed  aìle 
pene,  —  Quai  sono  i  pregi  e  i  difetti  di  questo  scrittore? 

Già  sin  dal  principio  del  libriccino  voi  trovate  l'origine  della  so- 
cietà e  il  diritto  di  punire  discendere  da  quello  stato  dell'uomo  che 
dicevasi  naturale  (ed  era  tanto  contro  natura),  e  dalla  ricantata  nenia 
di  quel  benedetto  patto  sociale!  —  Si  vuol  preservare  il  lettore  dal 
pregiudizio  di  credere  che  il  diritto  e  la  giustizia  sieno  enti  reali^ 
Bastava  dire  che  sono  idee!...  Ma  Beccaria  dichiara  che  il  diritto  è 
la  forza  piii,  utile  al  maggior  numero  —  e  la  giustizia  un  vincolo  che 
tiene  uniti  %V interessi  particolari  (§  ii,  nota).  —  In  tutto  il  trat- 
tato poi  domina  il  linguaggio  dei  sensisti;  ma  in  modo  che  nuoce 
alla  corteccia  delle  parole  più  spesso  che  al  fondo,  talché  la  menda 
riesce  meno  funesta  di  quanto  cianciano  i  Gesuiti. 

Gli  abusi  dei  magistrati  e  della  idolatrata  autorità  degl'inter- 
preti spingono  Beccaria  a  disapprovare  il  principio  di  consultar 
lo  spirito  delle  leggi;  con  che  si  verrebbe  a  distrugger  la  logica, 
0  com'egli  si  esprime,  la  fatale  licenza  oi  ragionare!  (§  rv)  Quasi 
che  sia  possibile  nessuna  applicazione  senza  più  o  meno  interpretar 
lo  spirito  delle  leggi,  o  fosser  lecite  le  applicazioni  contro  giustizia, 
quando  un  caso  non  fu  previsto  dal  legislatore. 


38  RIVISTA  CONTEMPOBANBA 

A'  di  lui  argomenti  contro  la  pena  di  morte,  gli  fu  con  ragione 
risposto,  che  un  agiato  filosofo  (perchè  sull'animo  di  lui  Tidea  del 
carcere  perpetuo  sveglia  spavento)  erra,  se  crede  che  l'idea  della 
stessa  pena  desti  un'uguale  impressione  sull'animo  d'uomo  della  più 
bassa  feccia,  che  stenta  la  vita,  che  dorme  su  un  canile,  e  soffre 
forse  sotto  i  comandi  di  un  dispotico  padrone. 

E  il  libriccino  fu  appuntato  d  oscurità.  L'autore  rispose  che  volle 
salvarsi  dai  colpi  della  inquisizione;  ma  Toscurità  è  dominante  anche 
dove  non  era  paura.  È  un  lavoro  sintetico  !  —  ecco  la  ragione  del- 
l'oscurità —  e  forse  la  maggiore  condanna  dello  scrittore. 

Cantù  {pag.  271)  dice  che  nel  secolo  xvin  «  gli  uomini  pratici 
€  sentivano  il  bisogno  di  tornare  a  principii  sintetici  per  non  naufra- 
c  gare  in  quel  vortice  di  ragione  e  sentimentalismo,  ma  ghermivansi 
€  talora  a  deboli,  o  anche  falsi  appigli.  Questo  avvenne  al  Beccaria  ». 
—  Ma  più  che  gli  argomenti  io  disapprovo  il  difetto  d'analisi.  Se 
Bbccabia  avesse  uno  per  uno  numerato  i  particolari  di  crudeltà,  gli 
scellerati  assurdi  della  tortura,  cominciando  dagli  schiavi  di  Roma, 
e  scendendo  man  mano  sino  alla  storia  degli  untori  ;  se  avesse  non 
solo  asserito,  ma  colle  cifre  altresì  provato  che  ne' paesi  «  vicini  e 
€  lontani  dove  la  pena  di  morte  è  stata  ristretta  a  delitti  maggiori, 
€  noi  troveremo...  che  dove  le  pene  sono  state  più  moderate,  ma 
€  appunto  perchè  tali,  più  inesorabili  contro  i  delinquenti,  essendovi 
€  minori  motivi  di  lasciarli  impuni,  ivi  i  delitti  si  sono  resi  meno 
€  frequenti  »  {pag.  371,  Relazione  pubblicata  dal  Cantù)  ;  quanto  più 
ampia  diffusione  ed  efficacia  avrebbe  sortito  quel  libro  !  e  forse  Pib- 
TBO  Vbbbi  non  avrebbe  potuto  attestare  €  che  tra  i  molti  uomini 
€  d'ingegno  e  di  cuore  che  hanno  scritto  contro  la  tortura,  e  contro 
e  l'insidioso  raggiro  dei  processi  che  secretamente  si  fanno,  non  vb 

€  NB  HA  ALCUNO  IL  QUALE  ABBIA  FATTO  COLPO  SULL' ANIMO  DBI  GIU- 

.«  DICI  !  !  »  Cosi  avvenne  e  avverrà  sempre  ai  libri  sintetici,  e  più 
quando  sono  diretti  a  chi  abbia  interesse  di  conservar  l'idolatria  di 
vieti  pregiudizii  ! 

Le  continue  proteste  di  non  alludere  alle  verità  rivelate  e  alla 
legge  naturale,  anche  là  ove  un'arbitraria  distinzione  non  basta  a 
salvarle;  e  le  manate  d'incenso  arse  dinanzi  ai  troni  (sebbene  allora 
fosse  di  moda,  anche  là  ove  meno  cadea  in  acconcio,  sarebbero 
forse  indizio  che  a  dormire  sonni  tranquilli  Bbccabia  sacrificava 
qualche  voltale  proprie  convinzioni?...  Cantù  vi  trova  più  sincerità 
che  non  io;  ma  il  mio  dubbio  riceve  un  appoggio  nei  consigli  da 
epicureo  che  il  Beccaria  stesso  suggeriva  nell'articolo  sui  piaceri  del- 
r imaginazione.  «  A  tal  uopo  non  troppo  analizzare  ;  procurarsi  una 

dose  d'indifferenza  negli  affari  e  nella  indagine  della   verità 

lasciar  che  gli  uomini  combattano,  sperino,  muoiano  ;  riposarsi  mol- 


OSSBBVAZIONI  SUL  BBCCARIA  B  IL  DIRITTO  PBNALB  39 

lemente  in  illuminata  indifferenza  delle  umane  cose,  che...  risparmi 
le  tormentose  vicende  di  bene  e  di  male  »  {pag.  153). 

Ma  vicino  alle  ombre  cerchiamo  la  luce. 

E  prima  di  tutto  non  si  creda  che  Tautore  fondi  tutto  sulla  con. 
tingente  volontà  dell'uomo.  Che  là,  dove  ammette  (§  xvui)  €.là 
NATUBÀ  mvARiABiLB  delle  cose  »  e  vuole  €  la  politica  istessa,  almeno 
la  vera,  e  la  durevole  »  soggetta  ai  <  sentimenti  immutabili  degli 
uomini  »  si  accosta  alla  vera  base  della  legge  naturale. 

Si  oppongono  al  Bbccabia  solidi  argomenti  contro  alla  opinione 
di  lui  sulla  pena, di  morte  ;  ma  come  condannare  un  pubblicista  che 
la  ripudiava  fra  tante  assurdità  di  procedure?  Ed  egli  ammettea 
poi  l'ultimo  supplizio  nei  grandi  pericoli  della  società,  e  quando 
questa  non  sapesse  provvedere  altrimenti  (§  xu).  Con  che  anche  qui 
si  avvicinava  alla  vera  teoria;  mentre  poi  giudici  d'ieri  in  Imola 
ed  in  Bologna,  a  difesa  del  Bbccabia,  confessarono  che  i  supplizi! 
da  loro  prodigati  crebbero  i  delitti. 

Bbccabia  beffò  le  assurde  finzioni  di  legge  predilette  dal  diritto 
romano  ;  Bbccabia  agli  adoratori  delle  lingue  e  delle  cose  antiche  ri- 
cordò che  tutti  hanno  diritto  di  conoscere  le  leggi,  e  che  perciò  un  co- 
dice dev'essere  scritto  in  lingua  nazionale,  e  senza  gergo  da  berlina  ! 
(§  v)  Bbccabia  svertando  i  canoni  da  secoli  invalsi,  mostrò  l'assurdità 
di  esigere  le  vere  prove  pei  delitti  minori,  e  contentarsi  di  meri  indizii 
porgli  atrocissimi  delitti I!...  La  quale  slogicatura  unita  alle  funi 
e  alle  carrucole,  vi  riveli  quanti  innocenti  furono  sacrificati  dalla 
cosi  detta  spada  della  giustiziai...  Bbccabia  piantò  la  teoria  degli 
indizii,  ripetuta  da  tutti  i  trattatisti  posteriori  ;  Bbccabia  svergognò 
le  vigliaccherie  dei  delatori,  e  la  dominante  nefandità  delle  accuse 
segrete  e  degli  arresti  arbitrari!,  chiedendo  come  mai  tra  gl'impuni 
calunniatori  possa  la  patria  trovare  difensori  intrepidi,  magistrati 
incorrotti  e  probi  cittadini  ?  Bbccabia  propose  assessori  simili  ai  giu- 
rati ;  Bbccabia  tracciò  la  distinzione  tra  i  delitti  politici  e  i  delitti 
comuni,  e  scemando  le  colpe  di  lesa  maestà,  volle  si  ponesse  un  freno 
alle  vendette  di  principi  iniqui!...  Se  non  è  questo  progresso,  qual 
sarà  mai?...  E  come  non  sentir  simpatia  per  imo  scrittore  che  di 
mezzo  alle  immanità  imperversanti  tuona  parole  energiche ,  umane 
CONTBO  LA  TOBTUBA,  0  coutro  la  inutile,  perchè  cieca  e  iniqua,  pro- 
digalità delle  pene;  e  ciò  di  fronte  ai  principi,  ai  legislatori,  agl'iur 
terpreti,  ai  magistrati  testerecci  e  freddi  non  meno  dei  manigoldi?... 
€  Un  matematico  »  egli  esclama  <  scioglierebbe  meglio  che  un  giù- 
e  dice  questo  problema.  Data  la  forza  dei  muscoli  e  la  sensibilità 
<  delle  fibre  di  un  innocente,  trovare  il  grado  di  dolore  che  lo  farà 
€  {U  più  delle  tolte,  dovea  aggiungere)  confessar  reo  di  un  dato  de* 
clitto  >  (§  xu).  —  «  Tu  sei  reo  d'un  delitto,  dunque  è  possibile 


4Ó  BIVISTA  CONTBMPOBANBA 

€  che  lo  sii  di  cent'altri  delitti  :  questo  dubbio  mi  pesa;  voglio  accer- 
€  tarmene  col  mio  criterio  di  verità  :  le  leggi  ti  tormentano  perchè 
«  sei  reo,  perchè  puoi  esser  reo.  perchè  voglio  che  tu  sii  reo  I  »  {Ivi). 

Provide  sono  le  cautele  che  Beocabia  invocava  per  impedir  fal- 
limenti; previde  il  consiglio  dato  al  legislatore  di  non  proibire  il 
fuoco  perchè  incendia,  e  l'acqua  perchè  annega  ;  con  che  alludeva 
all'assurda  legge  che  ai  probi  cittadini  vieta  di  portar  armi  !...  E  qui 
entriamo  in  un  capitolo  che  suol  passare  inosservato,  ma  che  è  cer- 
tamente il  più  sfolgorante!...  Perocché  quando  Beooabia  proclama 
che  4  à  MBGLio  PBEVENiBB  I  DELITTI  CHE  puNiBLi  »  e  numerando 
tutti  i  mezzi  di  prevenirli  soggiunge  :  <  Fate  che  i  lumi  accompa- 
€  gnino  LA  libbbtì:..  mezzo  di  prevenire  i  delitti  è  quello  di  ricom- 
c  pensare  la  virtù  »;  quando  finendo  insinua  che  «  il  mezzo  più  si- 
«  CUBO  di  prevenire  i  delitti  si  è  di  pbbfezionabb  l'educazione  > 
(§  XLi)  — allora  il  Beocabia  non  è  più  il  riformatore  de' suoi  tempi; 
ma  colla  mente  vastissima  egli  precorre  alla  giurisprudenza  crimi- 
nale dei  secoli  futuri.  La  pratica  d'un  illuminato  sistema  di  preven- 
zione è  la  speranza!...  fors'anco  lo  sforzo!...  ma  pur  troppo  siam  ben 
lontani  che  sia  il  vanto  dell'età  nostra! 

Qual  fu  l'effetto  del  libriccino  dalle  cencinquanta  &ccie?  Radi- 
cali riforme  della  giurisprudenza  criminale,  anche  prima  della  rivo- 
luzione introdotte  e  in  Francia  —  e  in  Austria  —  e  in  Lombardia 

—  e  in  Russia,  e  altrove! Ovunque  sradicata  per  sempre  quella 

sacrilega  offesa  dell'umanità  e  della  logica  —  la  tortura! 

E  già,  vivente  l'ignoto  autore,  la  Società  di  Berna  gli  aveva  de- 
cretato una  medaglia  d'oro.  Il  famoso  Malesherbes  inculcava  a  Mo- 
rellet  di  tradurre  in  francese  il  libriccino  italiano,  che  cosi  da  quella 
lingua  universale  fu  divulgato  per  tutta  Europa.  E  moltissime  edi- 
zioni si  succedettero  in  Francia,  e  fin  sei  versioni  coU'onor  di  note 

di  Voltaire,  di  Diderot,  d'altri Bbcoabia,  per  commendatizia  di 

d'Alembert,  dalla  imperatrice  di  Russia  era  chiamato  a  Pietroburgo, 
quando  per  non  perdere  un  tal  uomo,  appositamente  per  lui  il  go. 
verno  austriaco  istituì  una  cattedra  d'economia;  quindi  lo  nominò 
consigliere  e  magistrato  camerale,  e  lo  interrogò  intorno  alle  più 
rilevanti  riforme  che  vennero  introdotte  in  Lombardia.  Alessandro 
Ybbbi  attestava  t  Anche  il  ceto  delle  persone  men  curiose  di  lette- 
€  rarie  notizie,  come  sono  i  cardinali  e  i  prelati,  conoscono  I  Delitti 
€e  le  Pene:  credo  che  chiunque  legge  il  lunario  ha  notizia  di  quel- 
€  l'opera  ».  Il  celebre  ROderer  che  ebbe  parte  nel  Direttorio,  scri- 
vendo a  Giulia  Beccaria,  dopo  avere  ricordato  gli  elogi  di  Buffon, 
d'Alembert,  ecc. ,  soggiunge  t  II  trattato  dei  delitti  e  delle  pene, 
€  avea  talmente  cambiato  lo  spirito  degli  antichi  tribunali  di  Fran- 
<  eia,  che  dieci  anni  prima  della  rivoluzione  non  si  riconoscevano 


OSSBBVAZIONI  «Uh  BBOOABIà  E  IL  DIBITTO  PENALE  41 

€  piA.  Tutti  i  giovani  magistrati  delle  corti  (ed  io  Io  poBSo  attestare 
€  essendo  stato  io  stesso  di  quel  numero)  giudicavano  più  secondo 

<  I  PBiNCipn  DI  Beccabia  che  secondo  le  leggi  ».  — Lord  Mansfield 
oracolo  delle  leggi  inglesi  non  nominava  il  Beccabia  in  Parlamento 
senza  un  atto  di  riverenza.  E  duchi,  e  principi,  e  re,  e  imperatori 
encomiavano  con  lettere  a  luì  dirette  e  chiamavano  a  sé  il  gran 
giuspubblicista  italiano! 

L'altro  giorno  Faustino  Helie  pubblicò  un'edizione  del  trattato  di 
Bbooabia  con  commenti  perpetui,  in  cui  si  dà  lode  al  nostro  crimina* 
lista  d'avere  non  solo  dissipato  il  buio  de'crudeli  pregiudizii,  ma  trac- 
ciata ben  anco  la  via  alla  scuola  del  progresso,  e  Ciò  che  noi  ci  siamo 
«  proposti  si  è  di  spander  luce  sopra  ai  servigi  da  essolui  renduti 
e  alla  scienza  del  diritto  penale,  e  un  po'troppo  sconosciuti  ai  nostri 

<  di;  si  è  di  cercare  nella  elaborazione  del  secolo  decimottavo  la  più 
«  sicura  fonte  della  legislazione  che  attualmente  ci  reg^,  e  dei  prò- 
€  gressi  che  può  ripromettersi  in  avvenire. . . .  Beccabia  fu  il  vebo 

e  BIFOBMATOBE  DELLE  NOSTBE  LEGGI  PENALI  ». 

Di  fronte  a  questi  fotti  mettete  la  Civiltà  cattolica^  la  quale  pel 
Beccabia  non  seppe  trovare  migliore  epiteto  che  quello  di  Mabchese 
Pappagallo  1 1  !  E  perche?....  perchè  contemporaneo  dei  filosofi  fran- 
cesi del  secolo  decimottavo,  alle  cui  fonti  erasi  educato,  ebbe  a  re- 
spirare Tatmoefera  di  quell'ambiente!....  Quasiché  vi  sia  scrittore  al- 
cuno che  sappia  del  tutto  emanciparsi  da  quanto  lo  circonda  !....  Con 
questo  regolo  deh!  perché  i  reverendi  padri  non  chiamano  il  Segneri, 
il  Bartoli,  e  perfino  il  Tasso ,  i  pappagalli  del  gongorismo,  delFeu- 
feismo,  del  secentismo).... 

E  il  Beccabia  fu  anche  economista.  —  Ma  nello  stesso  libro  dei 
delitti  e  delle  pene  mostrò  dubitare  del  diritto  di  proprietà,  base  della 
scienza;  e  terribile  diritto,  e  forse  non  necessario!  >  (§  xxx)  (1).  Altrove 
cadendo  negli  errori  dei  fisiocratici,  implica  nell'idea  di  valore  l'utilità 
gratuita  della  natura.  Loda  il  lusso  come  correttivo  delle  accumulate 
ricchezze.  Perché  gli  sembra  che  gl'imprenditori  malagevolmente  si 
muovano  a  crescer  le  vecchie  e  ad  introdurre  le  manifatture  nuove, 
vorrebbe  fossero  incoraggiati  dal  sovrano  ....  Che  più? . . .  invoca 

(1)  Quest'accusa  suole  apporsi  da  tutti  al  Beccaria;  e  non  vi  sarebbe 
come  scolparlo.  Ma  il  Canlù,  possessore  dell'autografo  del  Beccaria,  in 
questo  non  trovò  la  condannata  frase,  bensì  :  terribile,  ma  forse  necessario 
diritto.  E  cosi  è  stampato  nella  prima  edizione.  Come  poi  scivolasse  nelle 
posteriori,  il  Cantù  non  sa  spiegarlo.  £  a  noi  pare  che  egli  avrebbe  fatto 
assai  bene  a  pubblicare  qualche  pagina  dell'autografo,  p.  e.  questa,  dov'è 
il  passo  controverso,  e  che  avrebbe  posto  fine  alla  baia  tante  volte  ripe* 
tata,  che  il  libro  fosse  scritto  da  Pietro  Verri. 

La  Redazione. 


42  RIVISTA  GONTBUPOBANBA 

razione  gOTernativa  per  favorire  ed  appaiare  i  matrimonii!. . .  .  Ma 
ricordiamoci  che  allora  la  scienza  era  bambina....  Ed  era  molto  se  il 
Bbcoabia  e  i  Ybbbi,  sebbene  non  sempre  attingessero  il  vero,  abbiano 
però  saputo  rivolgere  l'attenzione  degl'Italiani  su  questa  utilissima 
scienza.  ~  Intanto  il  Bbgcabia  esercitando  incarichi  governativi,  con- 
sigliò l'abolizione  dei  calmieri,  capendo  sin  d'allora  ciò  che  molti  oggi 
non  hanno  ancora  capito.  E  sostenne  lo  svincolo  delle  maestranze,  e 
le  tasse  a  cui  esse  eran  soggette,  suggerì  di  compenetrare  nell'im- 
posta generale.  Scrisse  contro  il  lotto;  e  insisteva  perchè  in  tutta 
Italia  si  riducessero  ad  uniformità  i  pesi,  le  misure  e  le  monete;  e 
prima  dei  Francesi  suggeriva  la  divisione  decimale,  proponendo  per 
base  un  summultiplo  d'una  grandezza  geografica. 

Quando  si  nomina  la  moneta,  tutti  ricordano  le  trufferie  ispirate  ai 
principi  dalle  esagerazioni  del  diritto  romano,  come  pure  gli  studii  di 
LoKB  e  Newton  su  tale  argomento;  ma  non' tutti  sanno  con  Cantù 
che  prima  di  Loke  gl'italiani  Bandini  e  Montanari  e  ne  sq)pero  per 
lo  meno  altrettanto  >.  Nessuno  poi^  soggiunge  lo  stesso  Cantù,  <  avea 
€ .  discussa  questa  materia  con  tanta  concisa  chiarezza  quanta  il  Bec- 
€  caria  ».  (ite^.  140).  —  Questi  son  vanti. 

Ed  eccovi  sbozzata  la  grandezza  del  filosofo  milanese. 

Prima  di  Cbsabb  Cantù,  avea  l'Italia  mai  prestato  un  giusto 
omaggio  a  un  si  grand' uomo?...  Dissi  che  gli  Enciclopedisti  francesi 
battezzarono  il  nostro  quale  filosofo  sommo...  Ora  come  gl'Italiani 
cessarono  dallo  zittire  il  nepote  di  Bb(Xiabia,  Albssandbo  Manzoni, 
sol  quando  questi  fu  mitriate  da  (}6thb  —  medesimamente  sarebbe 
poi  tanto  inverisimile  che  la  celebrità  dell'avo  si  diffondesse  per 
l'Italia  sol  dopo  che  questi  fu  canonizzato  dai  Francesi?... 

Non  mi  scagliate  in  sulla  testa  la  pietra,  perocché  le  sono  dure 
verità!...  Il  libriccino  fu  confutato  in  Italia  come  la  cosa  più  sata- 
nica del  mondo.  —  Baretti  lo  chiamò  un  libraccio  scritto  assai 
male.  E  quando  non  si  potè  più  negarne  il  merito,  si  disse  che  quel 
lavoro  era  opera  del  Vbbbi  !!  E  se  questi  fatti  si  volessero  chiamare 
speciali,  ricorderò  che  quando  l'Italia  perdette  Bbcoabia,  nessuno 
qui  se  ne  accorse!...  Nessun  giornale  annunziò  la  pubblica  scia- 
gura'... Non  una  necrologia!...  non  un'epigrafe!...  non  un  canto!... 
non  una  statua!...  L'oblio!...  seppur  l'oblio  fosse  in  man  degli 
ingrati!... 

Era  tempo  che  anche  qui  un  altro  grande  scrittore  rendesse  piena 
sebbene  postuma  e  serotina  giustizia  alla  memoria  del  grande  ita- 
liano!... Questo  fece  il  perseverante  Cesabb  Cantù  in  una  lunga 
monografia  da  cui  è  preso  il  meglio  di  quanto  ho  scritto  sin  qui. 
—  Ora  fra  il  silenzio  dei  giornali,  io,  ultimo  di  tutti,  dopo  aver 
disegnato  Teroe,  parlo  dell'epopea. 


ossebvàzioni  sttl  bbcoaria  b  il  dibitto  pbkalb  4S 

Della  quale  ecco  il  sommario  :  Antico  stato  della  legislazione  pe- 
nale. —  Le  prigioni.  —  Le  pene.  —  Cominciamenti  del  Beccaria. 

—  Condizioni  dell'Italia,  specialmente  del  Milanese.  —  H  Caffi.  — 
Dello  stile.  —  I  protettori  dei  carcerati.  —  La  tortura  tra  gli  an- 
tichi, e  nell'evo  cristiano.  —  È  combattuta  e  regolata.  —  Applausi 
e  contraddizioni  al  libro  i€i  delitti  e  delle  pene.  Il  Fachinei  —  Gli 
Enciclopedisti.  —  Il  patto  sociale.  —  Il  diritto  di  punire  derivato 
dalla  difesa.  —  Misura  delle  pene.  —  Consensi  e  dissensi  del  Bec- 
caria. —  Suo  viaggio  a  Parigi.  —  Suoi  sentimenti  sulla  famiglia  e 
sulla  proprietà.  —  Lezioni  d'economia.  —  Sulla  moneta.  —  Sulla 
popolazione.  —  Applicazioni  ufficiali.  —  Suo  carattere.  —  Sue  rela- 
zioni coi  potenti.  —  Sua  fine.  —  Discussioni  intomo  al  suo  libro. 

—  Criminalisti  contemporanei.  —  Discussioni  d'ufficio  sul  diritto 
penale  in  Lombardia.  —  Riforme  introdotte  quivi  e  altrove  —  Il 
diritto  penale  nella  rivoluzione.  —  Valutazione  finale  del  BbccahiaI 

—  Teoriche  e  applicazioni  posteriori. 

Accenno  ora  a  quei  passi,  sui  quali  andrò  successivamente  ba- 
sando le  mie  osservazioni.  —  Cantù  vi  cita  i  più  rilevanti  testi  degli 
antichi  Romani  intorno  al  diritto  penale  e  alla  tortura;  vi  dice  qual 
fu  il  primo  libro  che  combattè  l'uso  di  questa  pena:  Martin  Ber- 
nardo sin  dai  primi  tempi  del  cristianesimo  :  De  tortura  ex  /oris 
chriitianomm  proscribenda  ;  vi  dice  quale  il  giureconsulto  (Grbvio) 
che  prima  di  Beccaria  ne  dimostrò  la  iniquità  e  la  fallacia  —  come 
pure  quale  fu  l'ultima  volta  in  cui  la  tortura  venne  applicata.  — 
Innumerevoli  sono  gli  autori  citati  in  quest'opera.  Che  se  v'ha  un 
criminalista  degno  di  non  essere  posto  in  oblio,  qui  è  menzionato. 
In  questo  libro  la  storia  del  diritto  trova  tesoro  di  nuove  co- 
gnizioni. 

Cantù  frugò  negli  archi  vii,  e  in  un  appendice  vi  porge  tutto 
quanto  d'inedito  Beccaria  lasciò  scritto  intorno  al  diritto  penale, 
nella  relazione  che  stese  per  incarico  governativo;  come  pure  ci  dà 
un  compiuto  elenco  e  un  sunto  di  tutti  gli  altri  scritti  inediti  dello 
stesso  Beccaria,  mostrando  i  difetti  della  migliore  edizione  del  Le- 
Monnier.  —  La  conoscenza  di  questi  ed  altri  documenti  pubblicati 
ora  per  la  prima  volta,  riesce  tanto  più  preziosa,  in  quanto  che  si 
dee  a  Cantù  se  furon  dessi  salvi  dall'oblio.  E  in  vero,  dopoché  il 
sommo  storico  ne  trasse  copia  autentica  —  quelle  carte  andarono 
perdute!... 

Termina  l'Appendice  col  libro  Dei  delitti  e  delle  pene.  Ma  non 
dubitate!  Cantù  segue  la  migliore  lezione  —  segna  i  passi,  che 
Beccaria  aggiunse  alla  prima  ristampa  —  e  quelli  annessi  dappoi 

—  più  dà  le  varianti  desunte  dall'autografo.  Con  che  si  sparge  luce 
sul  supposto  che  l'autore  dì  quel  libro  fosse  il  Verri  —  e  su  alcuni 


44  BIYISTA  OONTEMPORANBA 

passi  che  soli  forse  debbono  al  Verri  attribuirsi,  e  che  possono  pa- 
rere contraddittorii  con  altre  proposizioni  di  quel  trattato. 

Questi  pochi  fatti  indicano,  ma  non  bastano  a  misurare  la  ric- 
chezza d'erudizione,  che  prima  si  rivela  ai  lettori,  ma  che  è  certa- 
mente l'infima  dote  di  si  buon  libro. 

Cantù,  come  nelle  dottrine  storiche,  cosi  in  queste  forse  più 
difficili  del  diritto  penale,  afl5.sandosi  ai  principii  più  puri,  respinge 
le  teoriche  del  Beooaeia  che  si  fondano  sopra  il  delirio  allor  domi- 
nante dell'origine  della  società.  Appunta  il  Bbocaeia  là  ove  questi 
si  oppose  alla  interpretazione  della  legge,  ed  enumera  logicamente 
i  casi  in  cui  essa  può  riuscir  utile  e  necessaria.  Nota  gli  errori  eco- 
nomici del  Beccaeia;  e  concedendogli  nella  riforma  della  giurispru- 
denza criminale  il  merito  dell'efficacia,  non  gli  attribuisce  tutto 
quello  della  priorità.  Insomma  Cantù  ammira  insieme  e  discute, 
ma  non  è  mai  l'idolatra  del  suo  eroe. 

Biasima  i  codici  che  pretendono  dal  reo  il  suicidio  della  confes- 
sione. —  Ricordando  forse  come  sottile  sia  la  linea  che  divide  la 
scelleraggine  dalla  demenza,  impone  al  gius  criminale,  sin  dove  è 
possibile,  l'obbligo  d'attinger  luce  alla  fisiologia  e  all'indagine  delle 
idiosincrasie.  —  Tra  le  difficoltà  che  aflfaccia  la  pena  di  morte,  pone 
in  antitesi  l'indignazione  verso  il  carnefice,  la  pietà  verso  il  suppli- 
ziato, e  l'indifferenza  sul  conto  degli  esecutori  militari  —  e  termina 
il  libro,  epilogando  con  bellissima  sintesi  quanto  è  a  dire  su  questo 
argomento.  €  Come  può  avventarsi  la  testa,  la  testa  d'un  uomo, 
«  d'un  cristiano  a  un  altr'uomo  stipendiato  per  reciderla  o  lussarla? 
€  come  a  un  giudice  fallibile  competono  sentenze  che  non  si  possono 
«  più  revocare?  come  all'uomo  collocato  sulla  terra  ad  espiare  e 
€  meritare,  si  infliggerà  una  pena  irreparabile,  di  cui  non  solo  può 
€  esser  fallata  l'applicazione,  ma  è  posta  in  dibattimento  la  legitti  • 
€  mità?  » 

Ma  sarebbe  impossibile  addur  qui  tutte  le  massime  che  in  questo 
libro  meriterebbero  d'essere  seriissimamente  ponderate  dai  giuristi, 
e  adottate  da  tutti  i  governi,  perchè  son  quelle  della  giustizia!  E 
mentre  io  stava  per  scriver  tanto,  sento  che  tale  è  pur  l'opinione 
di  scienziati  ben  più  dì  me  competenti  ! 

Se  occorre  un  bell'atto  del  governo  austriaco,  Cantù  noi  tace; 
come  non  tace  che  Howard  trovò  le  prigioni  dell'Austria  «  valer 
peggio  della  forca  »;  come  se  gli  viene  il  destro  non  risparmia  un 
biasimo  a  quei  governi,  che,  pretendendo  all'infallibilità  e  onnipre- 
senza di  Dio,  s'immischiano  in  tutto,  puntellati  dalla  impolitica,  in- 
terminabile gerarchia  degl'impiegati.  Là  ove  mostra  che  per  l'effi- 
cacia del  cattolicismo  la  sesta  opera  della  misericordia  corporale  fu 
praticata  con  vero  sollievo  degl'infelici,  nulla  lo  arresta  dal  dire: 


OSSBRYAZIONI  SUL  BBCCABIA  B  IL  DIRITTO  PBNALB  45 

i  V'è  qualche  arretrato  che  simili  opere  crede  non  meno  merite- 
€  voli  alla  società  che  un'interpellanza  al  Parlamento  !  >  Oh!  ne 
ahhiam  visto  di  cosi  calunniose  e  scipite  !...  Ma  è  questa  Timpar- 
zialità  che  (dopo  il  genio)  più  nuoce  al  grand' uomo  !!...  ^ 

Ed  oh  come  anche  qui ,  giudicando  i  due  secoli ,  Tun  contro 
l'altro  armato,  egli  serba  sempre  il  giusto  mezzo!...  Come  ponderati 
i  g^udizii  sui  più  difficili  problemi  sociali  !  Che  vere  pitture  qua  e 
là!...  che  alti  concetti  !  che  utili  ammaestramenti  !...  CANTÙnon  lascia 
d'ossesvare  come  Robespierre  e  Marat  cominciarono  la  loro  carriera 
politica  pubblicando  scritti  contro  la  pena  di  morte!...  e  giunti  al 
potere  proposero  d'abolirla!!  Nolite^  QuiriteSy  hanc  savitiam  diutius 
pati!!  E  cita  quel  detto  di  Carrier  «  Mi  fanno  spavento  le  nuove 
«  faccio  che  ho  visto,  e  le  proposizioni  che  si  susurravano.  Mostri  ! 
e  vorrebbero  spezzare  i  patiboli!  Chi  non  vuol  la  omaLiOTiNA?... 
e  quei  che  ne  son  degni!...  Un*iNSURRBZiONB!...  una  santa  insurre- 
c  zione  bisogna  opporre  a  questi  scellerati!  »  La  è  storia  vecchia!... 
ma  qui  raggiunge  il  sublime  più  culminante!!...  Le  aberrazioni 
deirintelletto  e  del  cuore!...  Ecco  onde  si  trae  dai  fatti  storici  la 
massima  utilità!... 

E  a  questa  utilità  mira  dritto  il  Cantù,  anche  là  ove  minuta- 
mente analizza  la  lotta  che  il  Beccaria  ebbe  a  soffrire,  pagando  il 
sacrilegio  d'essere  novatore! 

In  questo  libro  si  leggono  molte  lettere,  in  cui  il  Beccaria  sve- 
lava alla  prima  moglie  le  sue  affezioni ,  le  sue  debolezze  e  i  più 
reconditi  sentimenti!  Poco  resta  della  vita  intima  del  grande  crimi- 
nalista; perocché  vedemmo  che  i  contemporanei  italiani  non  si  cu- 
rarono di  scriverne  verbo!...  Ma  Cantù  comprende  quanto  tale  no- 
tizia giovi  alla  storia  del  sapere,  alla  scienza  dell'educazione;  e  co- 
me egli  nella  Enciclopedia  storica,  a  costo  di  sacrificare  la  storia 
civile,  svelò  tutto  l'intelletto,  tutto  il  cuore  di  quell'essere  che  si 
chiama  l'umanità;  medesimamente  in  questo  libro,  per  quanto  oggi 
ne  resta,  egli  dipinse  insieme  collo  scrittore  anche  l'uomo,  tutto 
l'uomo!... 

Insomma  voi  trovate  in  questa  monografia  l'individuo  e  il  suo 
secolo  —  le  idee  e  gli  effetti.  —  E  tra  i  lavori  di  simil  genere,  po- 
chi sono  compiuti  come  questo,  che  io  porrei  vicino  a  quell'altra 
grand' opera  Della  vita  di  Dante^  scritta  dal  buon  Cesare  Balbo. 

Non  dissimulo  le  mende;  né  mi  associo  all'autore  là  ove  asserisce 
{pag.  36)  che  noi  siamo  generazione  di  polita  medie,  e  ci  fermiamo  a 
mezzo  della  via  che  i  nostri  padri  con  miglior  logica  battevano-  sino 
alVnltime  conseguenze,  —  Le  voci  di  Pier  l'Eremita  —  e  di  Vittorio 
Emanuele  trovarono  un'eco  poco  diverso,  Pure  noi  abbiamo  qualità 


46  BIYISTA  GONTBHPOBANBA 

inedie^  si,  se  volete,  non  per  viltà  di  natura,  ma  perchè  appunto  la 
logica  pUb  squisita  smorza  le  precipitazioni  dell'entusiasmo. 

Neppur  credo  tremendi  i  problemi  delle  macchine,  delle  gigantesche 
manifatture  e  de'  cambi  intemazionali  (pag.  132)  (1).  Se  Cantù  intende 
deplorare  questi  jirovati  unicamente  perchè  possono  accrescere  e  creare 
dei  nuovi  bisogni  fìttizii,  io  di  buon  gradq  sono  con  Lui.  Ma  Teco- 
nomia  insegna,  la  società  essere  il  cambio  ;  e  trova  assurdo  il  dire 
che  s'impoverisca,  perchè  aumentano  le  ricchezze  prodotte  dalle  mac- 
chine, e  scema  Futilità  onerosa!..  L'Economia  prova  piuttosto  che 
anche  la  prosperità  dei  pochi  ridonda  a  vantaggio  di  tutti. 

Leggo  a  pag.  144  :  «  Quando  lo  spirito  di  comunità  consideravasi 
€  per  un  vìzio,  e  sacrifìcavasi  all'egoismo  mantellato  di  bene  gene- 
€  rale,  non  si  pensò  correggere  le  maestranze,  ma  si  distrussero  ». 
Chi  conosce  la  storia  delle  maestranze ,  e  ricorda  i  ridicoli  e  iniqui 
privilegi,  pei  quali  al  povero  operaio  si  proibiva  il  diritto  più  sa- 
crosanto che  possa  aver  l'uomo,  la  libertà  del  lavoro y  non  troverà 
poi  in  me  tanta  improntitudine,  se  avrei  amato  che  Cantù  esprimesse 
esplicitamante  come  crederebbe  si  avessero  dovuto  correggere  le  mae- 
stranze. Àvrebb'egli  desiderato  a  prò  degli  operai  la  scambievole 
e  VOLONTARIA  comunanza  delle  cognizioni?...  Nulla  di  più  utile  e 
santo  !  -^  Ma  non  cosi,  se  fosse  stato  pronto  a  comprare  questo  van- 
taggio colla  coercizione  di  chi  avesse  amato  d'isolarsi.  È  questo  ciò 
che  lede  i  diritti  di  natura...  E  dal  contesto,  e  più  dal  confronto 
con  altri  passi  {fagg.  145  e  310)  sembra,  a  dir  vero,  che  Cantù 
prenda  la  cosa  nel  secondo  senso.  — E  chi  apporrebbe,  con  lui,  la 
demagogia  e  il  comunismo  alla  dissoluzione  delle  maestranze?... 

Se  il  libro  procede  quasi  sempre  con  chiarezza,  evidenza,  efficacia, 
i  passi  da  me  ultimamente  citati,  e  pochi  altri,  mostrano  come  qua 
e  là  sguaglino  queste  doti.  Senonchè  osservo  che  il  linguaggio  di 
Cantù  riesce  dubbio,  non  per  manco  d'arte,  ma  piuttosto  perchè 
qualche  volta  indeciso  è  l'intelletto  dello  scrittore.  E  questi  è  forse 
indeciso  men  di  rado  in  Economia,  la  quale  non  è  la  scienza  di  lui, 
sebbene  ei  sia  scolaro  del  BoMAaNOSi,  e  anche  nelle  cose  economiche, 
e  perfino  in  questo  medesimo  libro,  e  più  forse  nelle  storie,  porga 
di  quando  in  quando  bellissimi  ammaestramenti  conforme  ai  più  sicuri 
canoni  della  scienza. 

Ho  serbato  per  ultimo  alcune  riflessioni  sopra  il  principio  supremo 

(1)  La  voce  tremendo  non  implica  disapprovazione  ;  né  qui  né  altrove  il 
Cantù  disapprovai  progressi  della  meccanica  e  le  applicazioni  della  sciènza. 
Basta  guardare  i  suoi  libri  pei  Bambini.  Ma  il  problema  delle  macchine 
e  delle  manifatture  resterà  pur  sempre  il  più  tremendo  della  nostra  età. 

La  Redazione, 


OSSBBYAZIONI  SUL  BECX)ABIA  B  IL  DIBITTO  PBNALB  4U 

del  diritto  di  punire.  A  tal  fine  premetto  un  cenno  dei  prmoipali  tra 
gl'innamerevoli  sistemi,  secondo  le  formule  citate  da  Gantù. 

«  I  giuristi  romani  non  parvero  alla  pena  prefiggere  altro  icopo 
che  l'intbrbssb  dello  Stato  e  l'esempio.  Giustiniano  ,  Not>.  xvn 
€  Punisci  seyeramente ,  onde  il  supplizio  di  pochi  salvi  tutti  gli 

ALTBI  >. 

Sbnboa  disse  €  tre  fini  proporsi  la  legge  :  Temendazione  del  reo 

—  un  fbbno  ai  delitti  — la  pubblica  tranquillità.  >. 

Se  nel  medio  evo  siasi  pensato  in  fatto  di  giurisprudenza  crimi- 
nale, n'abbiamo  avuto  sentore  di  sopra. 

I  filosofi  del  secolo  passato  si  attennero  al  diritto  di  difbsa  contro 
le  USURPAZIONI  dei  tristi.  Cosi  il  Bbcoaria  sentenziava  ricisamente: 

—  Unica  e  vera  misura  dei  delitti  è  il  danno  fatto  alla  Nazionb.  — 
€  Questa  è  una  di  quelle  palpabili  verità,  che...  non  han  bisogno 
€  nò  di  quadranti,  nò  di  telescopii  per  essere  scoperte,  ma  sano  alla 
e  portata  di  ciascun  mediocre  intelletto  >  (§  xxiv). 

Sonnenfels  dà  come  fine  della  pena  t  il  rattener  altri  dal  oom- 
€  mettere  il  mal  morale  (?)  con  la  minaccia  del  mal  fisico  ».  —  Anche 
nella  pena  di  morte  il  legislatore  e  perdendo  la  speranza  di  correggere 
e  il  delinquente,  lo  toglie  alla  società  per  privarlo  dei  mezzi  di  of- 

€  FBNDBRLA  MAOaiORHBNTB  ». 

Tra  i  voti  fiscali  citati  dal  Cantù  leggo  queste  parole  di  Gabriele 
Verri  :  «  L'ultimo  supplizio  non  dovrebbe  irrogarsi,  se  non  quando 
€  nessun'altra  coercizione  basti  a  protb€K3ere  i  cittadini  b  rimuover 

€  dal  dblinqubrb I  delitti  ond'è  più  infesto  lo  Stato  di  Milano, 

€  sono  i  furti,  le  aggressioni,  atteso  la  prossimità  di  terre  svizzere, 

<  gnrigioni ,  venete ,  sarde ,  dalle  quali  vengono  pessimi  uomini  ad 
e  ASSALTARE  E  DEPREDARE  ;  sicchè  negli  anni  precessi  dovette  rioor- 
c  rersi  a  procedure  eccezionali  ed  esasperati  supplizii.  Qui  dunqub 

<  NBCESSITA  IL  SOMMO  RIGORE  »   (pOff.  220), 

La  Gfiunta  criminale  incaricata  dal  governo  austriaco  ad  emettere 
il  suo  voto  nel  1792  intorno  alla  pena  di  morte,  dichiara  di  non 
volarsi  attenere  ai  sistemi  dei  filosofi ,  parendole  t  che  un  oggetto 
€  tanto  interessante,  dovesse  essere  rig^uardato  sotto  viste  più  cbrtb 
€  B  PIÙ  sodb...  Si  riportò  ad  osservare  se  la  pena  di  morte  <  possa 

e  BSSER  UTILE  AL  FINE  DI  PROMUOVERE  E  GUARENTIRB  LA  TRANQUILLITÀ 

c  DEGLI  UOMINI,  c  SO  uou  vi  esseudo  altri  mezzi  equivalenti,  ne  ri- 

e  sulti  LA  NBOBSSnl  MORALE  DI  USARNE»   {poff,   358-9). 

Bentham  statuisce  oifgetto  della  legislazione  l'utilità  gbnbralb, 
che  impone  di  castigar  U  reo,  onde  prevenir  nuovi  delitti. 

Heue  trae  il  diritto  di  punire  da  ^uMo  della  propria  conser- 
vazione INERENTE  ALLA  SOCIETÀ.  Il  mantenimeuto  dell'ordine  b  la 
tutbla  dbl  DIRITTO  souo  Bcopi  della  penalità. 


48  BIVISTA  CONTBMPOBANBA 

Tutti  questi  Scrittori  più  o  meno  coincidono  nel  seguente  discorso: 
I  delitti  sono  un  danno  per  l'individuo  e  per  la  società;  è  dunque 
UTILE  che  siano  puniti.  —  Solo  le  pene  possono  frenarli  ;  dunque  le 
pene  son  necessabie.  ^ 

Danno  —  utilità  —  necessità.  —  Questa  è  la  formola  dei  pub- 
blicisti che  diconsi  utilitari!.  Cantù  la  confuta  qua  e  là.  «  Se  l'uti- 
lità, egli  dice,  fosse  ]a  norma  del  diritto  di  punire,  sarebbe  egli 
«  necessario  assicurarsi  della  reità  del  punito?  la  pena  inflitta  all'in- 
«  nocente  non  farebbe  ella  effetto  maggiore?..  »  La  necessità?  «  ma 
«  la  necessità  non  origina  alcun  diritto  >  {fog.  287).  Fa  duopo  adunque 
attenersi  al  concetto  della  giustizia. 

I  santi  padri  «  videro  nella  pena  una  riparazione,  un  debito  che 
e  la  GIUSTIZIA  ha  diritto  di  esigere  da  chi  la  violò  >  (jpag.  77). 

Rosmini  ammette  il  canone  che  €  la  causa  volontaria  del  male  dee 
€  sopportarne  la  pena  (?),  il  male  morale  e  il  male  endemonologico 
€  debbono  QuiLiBRABSi  (??)»:  principio  e  che  altamente  mostrasi  im- 
€  presso  nelle  menti  di  tutti  i  popoli,  trovasi  in  fondo  di  tutte  le 
<  legislazioni,  giace  nella  coscienza  del  genere  umano  ».  (Il  senso 
comune  !) 

Sono  poco  dissimili  De-Maistbe,  Tappabelli  e  Libbbatobe  che 
fanno  della  pena  «  un  male  sensibile  inflitto  dalla  ragione  obdina- 
«  tbice  per  bestaubabe  l'  obdinb  scomposto  dal  mal  mobale  » 
{pag.  283).  E  l'obdinb  poi  <c  consiste  nel  conservare  fba  le  cose 
«  LE  DEBITE  PBOPOBzioNi.  Il  delitto  c  la  ^t^  prosperità  è  im  disobdine, 
«  che  il  SENSO  MOBALE  riconosco  ed  abborre  :  non  potendo  ripristi- 
«  narlo  in  una  vita  futura,  la  società  dee  bicompoblo  nella  presente, 
«  e  con  ciò  adempie  il  suo  dovere  verso  il  delinquente,  che  ne  resta 
«  incitato  al  bene;  verso  i  consociati,  nelle  cui  menti  cobbegge  il 
e  giudizio  GUASTATOVI  dalla  colpa  felice;  verso  il  Creatore,  sostenendo 
€  LE  NOZIONI  DI  GIUSTIZIA,  sullc  quali  csso  fondò  la  società,  >  {ivi  eseg.). 

Quest'ultimi  scrittori  concordano  in  ciò:  La  giustizia  vuole  che 
chi  ha  fatto  il  male  faccia  la  penitenza,  e  possono  dirsi  scrittori 
SPiBiTUALiSTi  ;  e  la  giustizia  è  l'idea  predominante  del  loro  sistema. 
Nobili,  alti  sono  i  loro  concetti  !  ma  attingeteli  alle  fonti,  massime 
di  Tapparelli  e  di  Liberatore,  e  troverete  continuamente  un  che  di 

dogmatico,  un  fare  d'enigma  !  —  Asserzioni  gratuite,  immaginarie 

che  insomma  son  vebe,  ma  non  ben  definite. 

Ecco  dunque  due  scuole:  Tuna  della  pena  difeiisiva,  o  della 
UTiUTÀ.  —  l'altra  della  pena  vendicativa,  o  della  giustizia.  — 
Osservo  che  alla  prima  appartengono  uomini  di  pratica,  Sonnenfels, 
Beccabia,  i  giuristi  romani,  i  voti  fiscali  ecc.  —  Alla  seconda  ap- 
partengono  gli  ascetici  principalmente. 

Io  qui  poi  non  ho  recato  che  alcune  delle  formule  principali.  Ma 


06SBBVAZI0NI  SUL  BBCCAKIA  B  IL  DIRITTO  PBNALB  49 

i  nomi  d'uomini  illustri  nelle  due  scuole  sono  senza  fine.  —  Qual 
delle  due  ha  vinto?...  Nessuna  !  —  e  Cantù  è  costretto  a  confessare  : 
e  Lo  studio  delle  verità  morali  c'illude  per  l'apparente  facilità  so- 
€  migliante  ad  erboso  clivo,  chb  poi  ci  avviluppa  in  labirinti  dove 
e  più  non  trovasi  l'uscita:  né  all'uomo  fu  accordato  raggiungere 
«  IN  quelle  la  suprema,  da  cui  dedurre  conseguenze  ineluttabil- 

C  MENTE  adottate  DA  TUTTI  GLI   ESSERI    INTELLIGENTI.   Ed    Una    OVO 

«  più  semplice  sembra  la  soluzione  col  senso  comune,  mentre  ine- 
€  STBiCABiLB  RIESCE  coll' ARGOMENTAZIONE ,  è  la  scìeDza  Criminale, 

€  RIMASTA  la  PIÙ  IMPERFETTA  DELLE  LEGALI,  E  BEN  DISCOSTA  ANCORA 
€  DA   QUEL  CARATTERE  DI  NECESSITÀ.  LOGICA  ,    chc    alle    leggi  morali 

<  imprima  un  carattere  altrettanto  assoluto  e  indessibile  quanto  alle 
e  dinamiche  i  {fOff  278). 

Onde  avviene  che  dopo  tanti  sforzi  di  tanti  insigni  intelletti,  si 
sia  riuscito  a  così  meschino  risultato?  —  La  risposta  è  lunga  ed 
ardua!  —  né  io  posso  tentare  di  dame  un  sunto,  se  non  dopo  Tor- 
goglio  d'avere  esposta  a  modo  mio  la  dimostrazione  del  principio 
supremo  del  diritto  penale. 

B-  sono  costretto  a  cominciare  dalla  morale,  ove  esistono  pur  le 
due  scuole,  né  più  nò  meno  come  nel  diritto. 

Gli  uomini  ricevettero  da  Dio  la  vita  e  la  libertà  ;  e  poiché  son 
dessi  gli  esseri  più  sublimi  della  creazione,  risulta  che  la  terra  coi 
suoi  tesori  ò  da  Dio  donata  agli  uomini,  e  non  ai  bruti. 

Ciascun  uomo  poi  é  padrone  deWh,  p/'opria  forza,  ie\ proprio  ingegno, 
della  propria  operosità.  Ora  quando  il  primo  occupante  ha  dissodato 
un  campo,  l'ha  coltivato,  seminato,  sparso  del  suo  sudore  e  del  sm 
sangue,  tracciati  i  confiini,  preparati  attrezzi,  alzate  fabbriche;  se  altri 
potesse  impunemente  spogliarne  i  frutti,  e  cacciare  il  coltivatore, 
nessuno  vorrebbe  più  sfruttare  la  terra  a  prò  degli  oziosi.  Gli  uomini 
cadrebbero  nella  vita  selvaggia  ed  in  continua  guerra. 

Quando  invece  si  rispetti  improprietà^  il  mondo  si  civilizza. 

Dio  creò  la  terra  per  tutti  gli  uomini  —  è  vero  —  ma  se  un  frutto 
fosse  di  tutti,  non  ne  godrebbe  nessuno.  Dunque  non  ci  ha  via  di 
mezzo  :  p  la  vita  selvaggia  —  o  lasciare  a  ciascuno  il  frutto  delle  stie 
fatiche. 

Ecco  l'origine  del  mio  e  del  tuo. 

Ogni  uomo  adunque  ebbe  in  dono  da  Dio  :  la  propria  vita  —  la 
propria  libertà  —  i  frutti  dei  proprii  sudori  —  tre  cose  che  a  rigore 
ne  formano  una  sola:  la  proprietà. 

Ciò  é  ammesso  da  tutti;  e  con  poca  diversità,  perfino  dagli  atei 
e  dai  comunisti! 

Ora,  si  dice  che  commette  yinHngiustizia  chi  disturba  la  triplice 
altrui  jpropwtó  — Ingiustizia?.,  che  cosa  è  quest'«t/«  metafisico?.. 

SivUta  a  -  4 


60  RIVISTA   CONTEMPORANEA 

Ecco  la  risposta  :  Chi  disturba  la  trìplice  altrui  proprietà  manomette 
i  doni  divini  —  non  è  pago  d'esser  padrone  d'una  vita  —  d'una  libertà 

—  d'una  proprietà  —  vuol  essere  padrone  di  due^  dì  tre,  di  quattro. 

—  Insomma  vuol  far  da  Dio:  —Volere, o  non  volere,  V intelletto  umano 
afferma  che  questi  atti  sono  un  disordine,  —  Che  se  il  prepotente 
fosse  tuo  figlio,  e  tu  noi  correggessi,  noi  frenassi,  noi  punissi,  Vin- 
telletto  umano  affermerelibe  che  hai  commesso  un  disordine  tu  pure. 

La  sapienza  di  Dio  ab  eterno  vide  simili  atti  ;  e  se  V intelletto  umano 
afferma  che  sono  un  disordine  — -  e  disordine  il  non  frenarli  —  molto 
più  la  sapienza  divina^  che  è  perfetta  infinitamente  più  dell'intelletto 
umano. 

Ebbene  —  le  due  affermazioni  dell'intelletto  umano  sul  disordine  di 
quegli  atti^  e  le  due  affermazioni  (lasciatemi  dir  così)  della  sapienza  di 
Dio  —  queste,  e  nuiraltro,  costituiscono  la  giustizia. 

Ma  perchè  Tintelletto  umano  e  la  sapienza  divina  trovano  in  quegli 
atti  un  disordine *ì,...  Perchè  Dio  è  superiore  —  e  Tuomo  è  inferiore 

—  perchè  è  Dio  che  creò  la  natura,  e  non  l'uomo  —  è  Dio  che  donò 
a  ciascuno  la  vita  e  la  libertà,  e  non  l'uomo  —  perchè  gli  uomini 
sono  eguali  —  perchè  le  fatiche  e  i  sudori  degli  uni  non  sono  l'opera 
degli  oziosi  —  perchè  chi  affermasse  diversamente,  affermerebbe  un 
errore. 

Cosi  la  quistione  essenziale  della  giustizia  è  ridotta  ai  minimi  ter- 
mini. —  Eppur  non  è  tutto  —  e  quel  che  resta  è  l'elemento  più  im- 
portante, non  in  se  stesso,  ma  per  l'imbecillità  dell'umano  intelletto. 

Il  mio  vicino  ha  un  campo  coltivato  a  frutti  e  vigneti,  dal  cui  rac- 
colto egli  trae  utilità  e  piacere*  Io  entro  in  quel  predio,  ne  piglio  i 
frutti,  ne  estirpo  le  piante,  ne  sbrano  le  viti.  Se  in  grazia  di  questo 
saccheggio,  quei  frutti,  quelle  viti,  quegli  alberi  si  riproducessero, 
crescessero  più  rigogliosi  di  prima,  e  il  mio  vicino  acquistasse  un  tri- 
plice ricolto,  se  cioè  io  non  gli  arrecassi  alctm  danno^  mi  dicano 
Cantù,  e  Mamiani,  se  nessuno  si  sarebbe  mai  sognato  di  asserire 
che  la  mia  azione  è  ingiusta  !  I  Se  ferendo,  avvelenando ,  uccidendo 
alcuno,  io  gli  centuplicassi  i  piaceri  di  questa  e  dell'altra  vita,  sfiderei 
Rosmini  a  provarmi  che  il  ferire,  l'avvelenare  e  l'uccider^  fossero 
ìin' ingiustizia  ! 

Questi  eseropii  sembreranno  puerilità,  ma  Rousseau  dice  assai  bene 
esser  difficile  il  filosofare  sulle  cose  che  tuttodì  ci  stan  dinanzi  agli 
occhi!..  E* questi  esempii  le  dimostrano  sotto  un  diverso  aspetto. 

Ed  ecco  ove  sta  la  divergenza  delle  due  scuole  in  morale.  L'una 
s'afiisa  alla  sapienza  di  Dio  che  abeterno  vide  l'ordine,  e  lo  comandò  ; 
vide  il  disordine,  e  lo  proil;»!.  Questo  è  l'essenziale.  —  sclamano  i 
seguaci.  —  A  che  curarci  del  resto?..  Possiam  ben  curvar  la  testa 
dinanzi  a  Dio.  —  E  perciò  questa  scuola  poco  o  punto  si  cura  delVu^ 


OSSERVAZIONI  SUL  BECCARIA   B  IL  DIRITTO  PBNALB  51 

tUUà^  del  danno,  del  piacere  e  del  dolore,  lordure  da  sensisti,  fango, 
sterco  della  misera  nostra  terra! 

Questa  scuola  ha  ragione  —  ma  è  monca. 

L'ordine  e  il  disordine?...  Avete  voi  mai  analizzato  queste  idee 
sino  al  fondo? — Provatevi,  e  vi  troverete  nel  nucleo,  insieme  colle 
idee  di  convenienza,  di  proporzione...  anche  quelle  deWutUità,  del 
piacere,  del  danno  e  del  dolore! 

Ma  questa  scuola  non  ha  mai  voluto  dir  sillaba  di  là  dalla  sin- 
tesi !  —  E  che  ne  avvenne  ?  —  Fu  fraintesa  !  —  Molti  filosoft  sdegna- 
rono quel  garbuglio  a  priori,  altissimo,  astrattissimo,  enigmatico, 
che  posto  così  da  se  solo  non  significa  nulla...  —  E  son  da  scusare 
se  nauseati  di  tante  astruserie,  rivolsero  gli  occhi  ai  bisogni  del- 
l'uomo,  ai  piaceri,  ai  danni,  ai  dolori.  Così  sorse  la  seconda  scuola, 
che  anche  in  morale  si  chiama  degli  utilitarii,  e  che  disse  la  giustizia 
essere  VuiUUà. 

Questa  scuola  nella  parte  affermativa  ha  ragione  anch'essa  — 
ma  anch'essa  è  monca.  —  Fu  intesa?  Nò;  perchè  sebbene  faccia 
parte  di  quei  filosofi  che  da  un  secolo  urlano  analisi,  pure  anch'essa, 
come  loro,  analizzò  ben  poco.  Se  avesse  analizzato,  si  sarebbe  accorta 
del  suo  difetto  —  e  specialmente  poi  avrebbe  precisato  di  quale  ben 
intesa  utilità  aveva  in  animo  di  ragionare. 

Unite  la  terra  al  delo  (ma  prima  la  terra)  e  avrete  la  formula 
completa  :  1*  È  utilb,  dà  piacere  a  ciascuno,  e  ridonda  ad  utile 
e  a  PIACERE  di  tutti  che  si  rispetti  la  triplice  proprietà  di  ciascuno.  — 
viceversa  è  danno  ,  reca  dolore  a  ciascuno  ,  e  ridonda  a  danno  e 
a  dolore  di  tutti  che  si  violi  la  triplice  proprietà  di  ciascuno.  — 
2*  Dunque  il  rispettare  la  proprietà  è  ordine  —  il  violarla  è  disordine; 
dunque  Dio  abeterno  ha  comandato  di  rispettare  la  triplice  proprietà 

—  HA  proibito  di  violarla. 

Per  doveri  d'altra  specie,  Aiassime  verso  Iddio,  occorrono  diverse 
dimostrazioni,  di  cui  qui  non  mi  occupo  per  brevità. 

Certo  che  la  seconda  parte  della  mia  formula  è  la  essenziale  — 
certo  che  essa  sola  basta  alla  sapienza  di  Dio;  —  ma  l'intelletto  del- 
l'uomo vi  arriva  sol  dopo  aver  salito  i  gradini  della  prima  parte. 

—  Sol  dopo  aver  visto  il  danno  che  reco  al  mio  vicino  saccheggian- 
dogli il  campo,  io  mi  accorgo  che  Dio  proibisce  il  saccheggiare  i 
campi  altrui  ! 

Si  dirà  che  le  due  cose  furono  dette  anche  prima.  —  Sì  —  ma 
troppo  sinteticamente  —  ma  più  separate  che  unite  —  ma  unite  in 
modo  così  oscuro  che  l'unione  non  sembra  sincera.  Anzi  per  non 
essersi  ben  marcate  le  due  cose,  non  vi  è  neppur  un  trattato  di  Etica 
classificato  logicamente.  Io  vi  ho  speso  molte  fatiche,  ma  ignoro  se 
potrò  mai  venire  a  capo  di  nulla. 


52  BIYISTA  CONTBMPOBANBA 

E  posta  la  doppia  formula  in  morale,  parmi  che  limpida  emani 
anche  la  genesi  del  diritto  penale  : 

l""  La  sociBTÀ  col  suo  organismo  di  magistrati  lascia  che  gli  uo- 
mini si  perfezionino  pacificamente ,  donde  innumbbbvoli  utilità  e 
piACBBi  —  allontana  gli  ostacoli,  cioè  rimuove  innumbrbtoli  danni 
e  DOLORI.  2""  Dunque  l'intblletto  umano  affbbma  che  nella  dociBTl 
col  suo  organismo  sta  Tobdinb,  nella  dissoluzione  di  essa  il  disor- 
DiNB.  Dunque  Dio  vide  abeterno  e  oouàndò  l'obdinb  della  socibtà 
col  suo  organismo,  e  proibì  la  dissoluzionb  di  essa. 

La  società  è  interesse  di  tutti  ;  ma  non  tutti  gli  uomini  compren- 
dono  i  veri  loro  vantaggi  ;  non  tutti  sanno  che  la  vera  utilità  è  la 
giustizia,  e  credono  che  tomi  loro  il  conto  a  violare  l'altrui  proprietà. 
Se  costoro  si  lasciassero  impuni ,  le  prepotenze  crescerebbero ,  lu- 
singate dalla  fiiomentanea  prosperità  —  più  apparente  che  vera  anche 
in  questa  vita  ;  e  così  in  breve  si  dissolverebbe  quella  società  che  è 
comandata  all'uomo  da  Dio.  —  Se  invece  magistrati  imparziali  to* 
gliendo  ai  tristi  la  libertà  o  la  vita,  Incutono  spavento;  bilanciano 
il  PiACBBB  del  delitto  col  dolor  della  pena  e,  come  si  vede  in  effetto^ 
salvano  la  società. 

Ma  badate.  Dire:  si  rispetti  l'altrui  proprietà  "-il  comando  è  amo- 
revole, innocente,  utile  per  tutti.  —  Dire  :  Se  rubi,  perderai  la  libertà^ 
se  uccidi,  morrai!  —  la  cosa  è  ben  diversa!  Gli  è  per  un  danno  re- 
cato^ per  un  dolor  patito^  minacciare  un  altro  danno,  uu  altro  dolore... 
L'infliggerli  sarebbe  desso  un  secondo  disordine?  —  No.  --  è  un  danno, 
un  DOLOBB  — ma  un  danno  hinobb,  un  dolob  minobb;  perchè  ò  il 
DANNO  d'un  sol  BEO  cho  risparmia  il  danno  di  mille  innocenti  — 
viceversa  si  salvebbbbb  il  solo  bbo,  perchè  perissero  mille  innocenti. 
Il  colpevole  imputi  a  sé  se  si  è  messo  in  questa  alternativa.  —  E  qui 
viene  l'argomento  dell'ingiusto  aggressore  ;  e  il  ritorno  al  passato  in 
riflesso  deUavvenire.  —  t Un  avvenire  contingente y>  sclama  Cantù. 
—  Sì,  rispondo  io,  ma  di  tal  contingenza,  che  è  moralmente  certa, 
sinché  il  cuore  umano  sarà  cuore  umano!  —  Con  questa  contingenza 
io  potrei  propinare  il  veleno  all'amico,  lanciargli  il  pugnale  nel  petto 
nella  lusinga  che  il  veleno  possa  nutrirlo,  e  che  l'epidermide  spunti 
la  spada. 

Dunque  la  pena  è  un  dolor  minobb,  che  magistrati  imparziali 
fanno  infliggere  al  Beo  per  risparmiare  maogiobi  dolori  agl'inno- 
centi. E  l'intelletto  dell'uomo  vede  e  afferma  che  l'impunità  è 
un  DIS0BDINE  —  che  la  pena  è  obdine  ;  è  la  sapienza  di  Dio  abeterno... 

Adagio!.,  a' ma' passi  !  — Quali  pene?..  Tórre  bììtmì  la  proprietà 
colle  multe ,  la  libertà  col  carcere  —  la  vita  coli' ultimo  supplizio  è 
cosa  truce!..  E  se  per  frenare  chi  viola  l'altrui  proprietà,  se  per  sal- 
vare la  società^  vi  fossero  altri  rimedii  più  sicuri  e  insieme  più  miti. 


OSSERVAZIONI  SOL  BBOCASIA  E  IL  DIRITTO  PENALE  53 

più  equi?...  non  sarebbero  stati  questi,  e  non  altri,  abetemo  intuiti  e 
comandati  dalla  sapienza  di  Dio?...  —  Rispondo  :  Intuiti,  sì  —  coman- 
dati, no!  —  Sonp  seimila  anni  che  Tintelletto  dell'uomo  non  ha  sa- 
puto trovar  nulla  di  meglio  delle  pene  pecuniarie,  del  carcere  e  della 
morte  —  senza  queste  pene  vede  disciolta  la  società  —  con  queste  pene 
la  vede  salva.  Secondo  l'attuale  progresso  l'intelletto  umano  afferma 
che  le  pene  delle  multe,  del  carcere  e  della  morte  sono  wrCutUità 
necessaria.  Se  fossero  soltanto  utili,  Vuomo  fallibile  dovrebbe  forse 
astenersene...  ma  desse  dall'attuale  umano  intelletto  sono  ritenute 
anche  necessarie,  cioè  come  condizione,  senza  di  che  la  società  crol- 
lerebbe. Ebbene,  Dio  che  abetemo  ha  comandato  all'uomo  la  società, 
gli  ha  comandato  adunque  anche  quei  mezzi,  che  l'uomo  stesso  nella 
sua  intelligenza  limitata  vede  i  soli  capaci  a  conseguire  il  fine  voluto. 

Beco  la  NECESSITÀ  che  Romagnosi  e^ge,  e  che  a  me  sembra 
giusta,  non  a  Cantù. 

B  cosi  è  in  salvo  il  progresso;  perocché  se  dimani  si  provasse 
coU'esperienza  e  la  ragione  che  il  carcere  penitenziario  bastasse  a 
impedire  i  delitti  —  questo  sistema,  e  non  altro,  sarebbe  comandato 
all'uomo  nell'epoca  veniente  dalla  sapienza  divina! 

'  Ma  un  sovrano  ha  anche  il  dovere  di  restaurare  V ordine  rurale 
scompigliato  dal  delitto^  11  reo  deve  ad  ogni  modo  .  espia/re  la 
colpa?,..  Ottimi  fini  della  pena  anche  questi!  Ma  sarebbe  assai  bene 
che  r intelletto  umano  potesse  infiltrarsi  nell'interno  del  delinquente, 
per  scrutarvi,  come  fa  l'occhio  di  Dio, 

Ogni  labe  dell'alma  ed  ogni  ruga 

prima  di  persuadere  che  si  dovesse  infliggere  una  delle  tre  pene 
attuali  per  servii*  solo  a  questi  due  fini  !  !...  No  !  no  !  troppo  grande 
è  là,  fallibilità  umana^  troppo  diverse  le  educazioni  delle  classi,  troppo 
terribile  il  mistero  delle  idiosincrasie,  troppo  numerose  insomma  le 
cause  che  sminuiscono,  chi  sa  fin  dove!  la  responsabilità  dell'infe- 
lice colpevole;  perchè  si  possa  infliggere  una  pena  altro  che  per 
necessità/ 

Vero  è  che  la  £allil!iltà  umana  nuoce  contro  a  qualsivoglia  si- 
sterna,  e  quindi  anche  a  quello  della  necessità  ;  sì  ;  ma  se  finora  la 
scienza  non  sa  calcolar  tutto,  ed  è  possibile  un  fallo,  che  colpa  ne 
ha  l'uomo  se  mette  in  pratica  tutto  quanto  sta  in  poter  suo,  perchè 
la  pena  cada  sempre  sul  reo  —sull'innocente  fnai*l...*^ Necessità*^.., 
Sapete  che  vuol  dire  questa  parola?...  Vuol  dire  che  per  l'impunità 
la  società  verrebbe  allagata  di  sangue,  arsa  di  fiamme!...  Per  sal- 
varla può  ben  morire  colui,  che  —seppur  fosse  innocente  —  restando 
tutti  impuniti,  e  così  illeso  egli  pure,  ben  presto  verrebbe  anch' egli 
travolto  e  annichilato  dalla  impunità  imperversante  !  ! 


64  BITISTA  CONTBHPOBANBÀ 

ProYEtemi  che  altrettanta  forza  abbiano  date  sole  le  idee  della 

espiazione  e  della  ristaurazione  dell'ordine  scompigliato Ma  che 

dico?  n'hanno  altrettanto,  appunto  perchè  la  pena  npn  sarebbe  pena 
se  non  fosse  un  dolore,  cioè  un'espiazione  del  reo  ;  e  lo  scompiglio 
dell'ordine  non  sarebbe  scompiglio,  se  direttamente  o  indirettamente 
non  cagionasse  danno  alla  società.  ~  Cioè,  come  ho  detto,  queste 
due  cose  sono  una  sola. 

Ora  se  nei  di  d'ulteriore  progresso,  le  semplici  riprensioni  e  il 

biasimo  della  pubblica  opinione fossero  mai  bastevolia  frenare  i 

delitti,  queste  e  non  altre  pene  sarebbero  volute  da  una  giusta  difesa, 
dalla  idea  dell'espiazione  e  dal  bisogno  di  restaurare  l'ordine  per- 
turbato (1). 

Cantù  osserva  che  riducendo  la  pena  alla  semplice  conversione 
del  reo,  si  nega  ogni  diritto  di  punire.  —  Ma  no,  dico  io  :  questo 
diritto  vi  sarebbe  stato  in  addietro  —  vi  sarebbe  ora  —  e  verrebbe 
sostanzialmente  modificato,  se  mai,  in  un'epoca  ventura,  quando  la 
scienza  avesse  insegnato  a  far  meglio. 

L'uomo  non  è  forse  tutto  esperienze  —  falli  —  correzioni  —  e 
progresso?... 

Là  ragione  dell'espiazione  e  dell'ordine  scomposto  militano  anche 
pel  maestro  di  scuola,  e  pel  genitore.  SI  ;  il  padre  —  il  maestro  — 
il  magistrato,  presentano  sotto  questa  vista  un'identica  legge.  Presso 
i  popoli  civili  è  uno  scorno  se  il  pedagogo  usi  la  sferza,  o  un  padre 
il  bastone.  L'amore,  la  dolcezza,  la  ragione,  ecco  l'armi  comandate 
loro  da  Dio.  Ma  l'arte  d'educare  i  cuori  è  la  più  ardua  dì  tutte!... 
e  vi  possono  esser  momenti,  in  cui  l'intelletto  del  maestro  o  del 
padre  non  sappia  più  a  qual  partito  appigliarsi.  Voi  potete  conge- 
dare il  maestro,  biasimare  il  genitore  —  e,  per  quanto  è  in  voi, 
farete  bene  —  ma  Dio  dall'alto  ha  forse  permesso  in  quell'istante  il 
bastone  e  la  sferza. 

E  anche  qui  la  stessa  scala  di  errori,  di  correzioni  e  di  progresso 
dal  jm  vitae  et  noecis  fino  alla  Metodica  di  Rosmini  ! 

E  cosi  è  dei  codici  —  cosi  della  pena  di  morte.  —  Quando  in  Ro- 
magna il  legislatore  non  sa  più  come  salvare  la  società  dagli  assas* 
sinii,  se  non  minacciando  la  pena  di  morte^  questa  pena  è  \xn*utUUà 
necessaria  e  quindi  giusta.  Se  in  Toscana  i  delitti  si  frenano  senza 
l'ultimo  supplicio,  ivi  la  pena  di  morte  non  è  più  una  utilità  neces- 
saria^  e  quindi  è  ingiusta. 

(1)  Sui  principii  filosofici  del  diriUo  penale  apparve  una  dissertazione  del 
celebre  Ad.  Frank  nella  Revue  Contemporaine  del  settembre  1862.  E  ci  par 
degnissima  di  attenzione.  Cantù  non  potè  ponderarla,  come  fece  di  tatto 
le  teorie  prodotte  in  tal  proposito  ,  perchè  usci  dopo  pubblicato  il  suo 
lavoro.  La  Redazione. 


OSSERVAZIONI  SUL  BBCCAJRIA  E  IL  DIRITTO  PENALE  55 

Gli  argomenti  delle  idiosincrasie  degli  inquisiti  e  della  fallibi- 
lità de' magistrati  proverebbero  forse  che  in  un'epoca  civile  v'è  l'ob- 
bligo d'educare  e  d'istruir  le  masse,  se  si  vuole  tenere  il  diritto  di 
punire?...  Io  noi  so  —  ma  so  che  l'argomento  è  ben  degno  di  seria 
meditazione  I 

E  badate  che  anche  nel  diritto  a  nessuno  sarebbe  mai  venuto  in 
pensiero  di  credere  nientemeno  che  Dio  permetta  si  bandiscano  pene 
severe,  e  s'incarichi  un  giudice  criminale  che  freddo  vendichi  l'in- 
giuria d'un  terzo,  e  un  carnefice  che  eseguisca  la  sentenza;  se  prima 
non  si  fossero  verificati  i  dolori,  se  l'esperienza  non  avesse  notato 
gli  effètti  dell'impunità  e  dell'anarchia  ^  nò  più  né  meno  come  nel 
caso  d'un  campo  del  vicino  da  me  saccheggiato. 

Finalmente  concludo  :  1^  I  delitti  producono  dolori  —  l'impu- 
nità accresce  i  delitti,  e  quindi  i  dolori  —  e  il  dolor  massimo  della 
dissoluzione  della  società.  Ora  le  pene  addolorando  chi  ò  responsa- 
bile, risparmiano  dolori  agli  innocenti,  cioè  salvano  la  società. 
Beco  il  principio  degli  utUitarii.  —  2°  Dunque  Dio  che  abeterno  vide 

E  COMANDÒ  l'ordine  E  PROIBÌ  IL  DISORDINE,  E  VOLLE  PERCIÒ  LA  SO- 
CIBTI,   COMANDÒ   ABETERNO  AI  SOVRANI  IL  DOVER  DI  PUNIRE.  —  BCCO 

U  principio  degli  spiritualisti.  — E  i  due  sistemi,  come  sono  qui  svi- 
luppati, ne  costituiscono  uno  solo,  che  è  lo  spiritualista  non  monco 
ma  compiuto^  se  l'amor  proprio  non  mi  fa  velo  all'intelletto. 

Dissi  che  le  due  scuole  non  si  sono  intese.  Ora  ne  adduco  le 
prove.  —  Quando  gli  utilitarii  accennano  alla  giustizia,  e  si  affannano 
a  correggere  chi  la  crede,  secondo  loro,  €  una  cosa  reale,  una  forza 
fìsica,  un  essere  esistente  »,  siete  certi  che  si  oppongono  agli  spiri- 
tualisti, ma  scambiando  un'idea  per  unasostanm,  capirete  che  mo- 
strano di  non  intenderli  minimamente.  E  basti  questo  cenno,  perchè 
è  li  il  punio  della  divergenza. 

A  provare  poi  che  neppure  gli  spiritualisti  hanno  mai  inteso  gli 
utilitarii,  mi  limiterò  a  terminare  l'analisi  del  libro  di  Cantù.  Forse 
in  questo  Periodico  tornerò  su  questa  parte  dell'argomento,  parlando 
dell'articolo  di  Manzoni  sulla  morale  degli  uliUiariL 

Cantù  in  più  luoghi  ammette  apertamente  come  fine  principale 
della  pena  sia  non  tanto  provvedere  alV avvenire,  difendere  la  società^ 
guanto  TespioaionCy  U  castigare  i  delitti  perpetrati^  il  restaurar  Verdine 
scomposto  dalla  iniquità.  Quindi  perchè  Beccaru  asserisce  che  «  tutte 
€  le  pene  che  trascendono  la  necessità  di  conservare  il  vincolo  sociale 
f  sono  ingiuste  di  lor  natura  y^  (§  ii)  ;  Cantù  gli  risponde  :  i  Qui  il 
e  diritto  di  difesa  mettesi  a  fascio  col  diritta  di  punire...  La  difesa  può 
«  aver  luogo  solo  in  un  pericolo  instante,  e  cessa  con  quello,  allora 
€  appunto  che  comincia  il  diritto  di  punire  t>  {pag.  78).  Gli  utilitarii 
si  possono  solo  rimproverare  d'avere  frainteso,  falsato,  o  negato  il 


56  EIVISTA  OONTEMPOBANBA 

concetto  della  giustizia.  E  qui  Cantù  colla  scuola  spiritualistica  crede 
che  i  due  principii  sieno  Tuno  all'altro  repugnanti. 

E  rimprovera  Bentham  perchè  statuisce  «  oggetto  della  legisla- 
«  zione  l'utilità  gbnebalb  che  impone  di  castigare  il  reo  andepre- 
€  venire  nuovi  delitti;  bilancio  di  dolori  e  di-  piaceri,  segue  Cantù, 
«  statuito  il  quale,  se  la  società  tema  un  delitto,  potrà  arbitrarsi  a 
€  QUALUNQUE  FEBOCiA  oudc  prevenirlo,  e  pena  la  più  utilb  sarà  la 
«  PIÙ  ATROCE  >  {paff'  288).  Lo  spaventa»  tutti  sarebbe  utilità  ob- 
NBBALE?...  Oli  spiritualisti  dimenticano  che  volere  VutUUà  ffeuerde  ò 
la  stessa  cosa  che  volere  la  giustizia^  perchè  Tuna  non  potrà  mai 
stare  senza  dell'altra;  ed  è  per  ciò  che  non  intendono  come  gli  utili- 
tarii  nella  parte  affermativa  abbiano  ragione! 

Cantù  fa  questa  dimanda  a  RoMAaNOSi  a:  Ma  se  fine  della  pena 
«  è  la  difesa  indiretta  e  il  diritto  illimitato  di  conservare  la  società, 
«  è  egli  necessario  assicurarsi  della  reità  del  punito?  La  pena  in- 
«  flitta  all'innocente  non  farebbe  ella  effetto  maggiore?  >  {pag.  287). 
Prescindiamo  che  il  comparativo  maggiore  supporrebbe  fosse  palese 
rinnocema  -  nel  qual  caso,  dico  io,  la  pena  avrebbe  effetto  né  mag- 
giore, né  minore^  bensì  nullo  e  contrario.  Ma  quale  stranezza,  quale 
arbitrio  si  è  quello  di  credere  che  un  autore  come  ilRomagnosi^ 
che  parla  di  doveri,  di  morale ,  di  giustizia^  di  religione;  nominando 
poi  la  difesa  possa  intendere  non  la  difesa  fin  dove  è  permessa  dalla 
morale  e  dalla  legge  di  Dio,  bensì  V assassinio  $  il  martirio  dett'in- 
nocente?...  Convien  ben  dire  che  in  BoMAONoei  la  dimostrazione  del 
diritto  di  punire  sia  poco  chiara,  se  un  Cantù  la  frantende  1 

Il  fatto  si  verifica  anche  più  esplicitamente  là  ove  lo  stesso  Can- 
tù rimprovera  il  Rossi,  perchè  vuole  qual  condizione  della  punibi- 
lità d'un  atto  a  il  suo  danno  sociale  ,  CAPOvoLaBMiK)  (son  le  pa- 
role di  Cantù)  le  rispettive  attinenze  deWiiUerssse  pubìUeo  $  dMa 
giustizia  assoluta  (che  sono  uimì  sola  cosa!).  La  limitazi<»ie  era 
arbitraria,  come  vago  era  il  principio  ecc.  »  {pag.  291)  Ma  viva  Dio! 
se  ad  un  facchino  è  proibito  di  fracassarmi  le  ossa,  s^  dee  venir 
punito  perchè  me  le  ha  fracassate;  è  ciò  forse  perchè  mi  ha  fatto 
del  DANNO,  0  perchè  ho  ricevuto  delle  cabbzzb? 

RoHAONOSi  e  PfiLLBQBiNO  Rossi  parlano  dell'uTiLiTÀ  non  sdo, 
ma  anche  della  giustizia,  e  Rossi  anche  più  esplicitamente.  Cioè 
formano  una  terza  scuola,  che  è  completa,  perchè  unisce  i  due  si- 
stemi, e  che  potrebbe  dirsi  mista  —  mentre  le  altre  due  sono  esólU'' 
me,  ed  in  ciò  false.  Cantù  ha,  parmi,  ingiustamente  confutata  la 
loro  parte  utilitaria;  non  ha  trovato  in  Romagnosi  il  neiso  colla 
igiustizia,  in  Rossi  b  ha  giudicato  debole  e  insufS^iente.  Dunque 
Romagnosi  e  Rossi  non  hanno  saputo  armonizzile  abbastanza  i  due 
sistemi;  e  perciò  neppur  essi  furono  intesi. 


OSSBRVÀZIONI  SUL  BBOGÀSIÀ  B  IL  DIRITTO  PBNÀLB  57 

Volete  Tederò  adesso  se  gli  spiritutlisti  si  sono  mai  accorti  che 
nel  noceiuolo  della  loro  sintesi  è  racchiusa  l'idea  della  utilità?... 
Basti  la  seguente  testimonianza  di  Oaktù  c  utilitI  o  ko,  la  società 

e  DSTB  PUNIBB  ¥KB  SODDltBFABB  LA    GIUSTIZIA    ASSOLUTA.    Teorìa    di 

€  ELaKt,  e  dei  teosofi  accettata  puramente  dal  cardinale  PallaTicino 
e  Sfbrza,  e  con  modificazioni  dal  Rossi,  dal  Mamlani,  dal  NioooLim, 
(  dal  BoSHiNi,  dal  Tapparblli  »  {fog.  289,  in  nota).  Utilità  o  not... 
Quasiché  la  giustizia  assoluta  esiga  ciò  che  è  dannoso!... 

Finalmente  Gantù  cita  la  teorìa  penale  {pag,  293  tu  nota^  e  off.) 
da  esso  formulata  nella  necrologia  per  Romagnosi.  Questo  sob  passo 
basta  a  provare  che  Caittù  poteva  riuscire  giuspubblicista  come 
chicchessia.  Ma  anche  qui,  com'era  ben  da  aspettarsi,  dopo  aver 
detto  che  la  pena  TBiins  a  ooksbbt^ab  l'obdinb,  soggiunge  e  il  bbn 

t  BS0BBB,  L'UTtLITÀ  PUBBLICA,  LO  SPAVBNTO  DBL  MAL  INTBNZIONATO, 
€  LA  COBBBZIONB  DEL   DBLINQUBNTB    NB    TBNeONO    DI    GOMSBOUBNZA, 

€  non  ne  sono  però  né  la  oiusTiFiCAZioim  Nà  la  causa  »  (Farmi 
aver  provato  che  si).  Sebbene  poi  verso  il  fine  della  teoria  scappi 
fuori  dicendo  :  <  Za  fiustma  punitiva  non  opera  se  non  quando  sia 

e  violato  un  dovere;  opbba  pbl  solo  utilb  dblla  sooibtI; Bi* 

e  CHiBDB  che  la  pena....  sia  limitata  quinci  dall' imperfezione  dei 
t  suoi  mezzi,  quindi  dall'utilità  dell'azione  sua  per  oonsbbvab 
e  l'ordine  della  società  ».  Tanto  ò  vero  che  la  verità  esce  peir  tutti 
i  pori  dell'intelletto,  malgrado  la  forza  dei  sistemi!... 

Ma  per  qoal  formula  del  diritto  penale  si  dichiara  alfine  Cantù?... 
Anche  in  ciò  resta  indeciso.  Però  ricordiamoci  che  egli  è  storico  e 
non  trattatista.  Comunque  poi,  di  questa  indecisione  e  delle  inesat- 
tezze testé  notate^  rimproveratelo,  se  volete;  ma  peniate  prìma  che 
in  qualche  parte  riprensibili  furono  tutti  quelli  che  scrissero  sopra 
somigliante  argomento. 

Prescindendo  da  ciò,  parmi  aver  provato  che  le  due  scuole  non  si 
sono  intese,  e  che  non  vennero  intesi  neppur  Romaqnosi  e  Rossi, 
sebbene  eclettici,  cioè  spirìtualisti  completi,  massime  il  secondo. 

La  mia  dimostrazione  avrebbe  fatto  un  piccol  passo  per  conciliar 
le  due  scuole?...  Se  così  fosse  (?)  non  mi  chiamate  eclettico,  che  mo- 
vereste la  mia  suscettività.  Se  un  passo  avessi  &tto,  non  sarebbe,  no, 
per  virtù  dell'eclettismo,  ma  per  virtù  dell'analisi.  Non  perché  io  mi- 
nimamente sovrasti  a  nessun  altro  scrittore,  ma  perché  mi  sono 
espresso  con  diverso  metodo,  guidato  dal  quale  ognuno  sarebbe  per- 
venuto aUa  stessa  meta.  Per  contrario,  le  dispute  e  i  caippioni  delle 
due  scuole  furono  interminabili,  perché  non  porsero  dimostrazioni 
analitiche,  senza  di  che  gl'intelletti  a  vicenda  non  si  intenderanno 
gìanunai  1  Deh!  si  lasci  una  volta  il  funesto  uso  di  offrire  le  teorìe 
solo  secondo  l'ultima  formula  sintetica,  locchò  è  certo  l'espediente 


58  BIYISTA  GONTBMPOBANBA 

più  comodo,  più  istintivo  per  chi  scrive,  cioè  per  chi  ha  già  percorso 
l'intera  via  che  guida  a  quell'altezza,  ma  che  riesce  affatto  inintelli- 
gibile pel  lettore,  cioè  per  l'intelletto  che  d'un  sol  passo  dovrebbe  var- 
car la  montagna.  Deh!  che  gli  scienziati,  checché  contro  l'analisi  dica 
il  Gioberti,  tornino  scrivendo  a  calcar  la  via  su  cui  ha  proceduto  il 
loro  intelletto,  e  in  breve  non  solo  i  criminalisti,  ma  tutti  gli  opposi- 
tori s'intenderanno! ... 

Se  io  potessi  g^iungere  (non  con  un  solo  articolo,  per  quanto  etemo) 
a  provare  questa  fondamentale  verità,  crederei  d'aver  portato  anch'io 
la  mia  pietra! 

Ed  ecco  quanto  col  rispetto  di  scolaro  a  maestro,  ma  senza  idolatria, 
ho  creduto  di  dover  notare  intorno  al  libro  di  Cantù.  —  Oh!  perchè 
tutti  gl'Italiani  non  rendono  giustizia  ad  un  tant'uomo?..  È  forse  colpa 
il  genio  in  questo  paese?...  Pensi  l'Italia  che  in  breve  tempo  morte  le 
rapiva  un  Rossi,  un  Gioberti,  un  Balbo,  un  Pellico,  un  Grossi,  un 
Rosmini,  un  Giusti,  un  Niccolini....,  celebrità  che  basterebbero  ad 
illustrare  non  una  generazione,  ma  un  secolo  intero!...  Cantù  è  uno 
dei  pochi  sommi  superstiti!...  Deh!...  non  si  dica  anche  d'Italia,  che 
lapida  i  suoi  profeti  per  lagrimarli  estinti  !! 

Io,  infimo  di  tutti,  m'attacco  a  questo  gran  nome,  com' edera  s'ab- 
barbica ad  un  muro  che  non  vacilla  all'urto  dei  venti. 
Ferrara,  8  settembre  1862. 

Antonio  Solihan. 


STUDll  STORICI  E  AMIINISTRATIVI 


A  GASPARE  FINALI 


Mi  proposi  discorrere  in  una  serie  di  articoli,  lo  stato,  gli  ordini 
e  le  leggi,  che  nel  quarantanove  vigevano  in  Italia  ;  incominciando 
dalla  Toscana.  Baccolsi  con  quanta  più  diligenza  mi  venne  dato, 
tutto  che  additasse  ai  lettori  il  posto  che  ciascuno  degli  Stati  avea 
fra  gli  altri  della  penisola,  e  quello  a  cui,  tutti  assieme,  poteano 
aspirare  in  Europa.  E  con  ciò  mi  parve  di  conseguire  due  intenti  : 
volgendo  per  un  poco  le  spalle  al  presente,  pormi  faccia  a  &ccia 
col  passato,  studiarne  i  casi  nelle  cause  da  cui  nacquero;  e  racco- 
gliere come  in  uno  specchio,  quelle  per  cui  undici  anni  dopo,  la 
patria  nostra,  superati  gli  impedimenti,  si  assise  libera  e  concorde 
fm  le  nazioni  dell'Europa.  A  questo  modo  ammannendo  la  materia 
dell'istoria,  stimai  non  torlo  nulla  della  gravità  sua,  ma  aggiungerle 
quel  che,  meglio  di  vani  commenti,  ne  spiega  le  vicende.  Dove  in 
lontana  età  il  capriccio  e  la  mente  di  un  solo  o  di  pochi,  traevano 
dietro  a  sé  intere  generazioni  e  prescriveano  il  corso  degli  avveni- 
menti, oggi  in  certa  qual  guisa,  viene  egli  tracciato  dalle  condi- 
zioni, dagli  ordini  e  dalle  leggi,  che  raccolgoncf  la  lezione  dei  se- 
coli, ed  a  popoli  rinnovano  il  sangue,  imprimono  il  moto.  Allora  la 
storia  era  cronaca  e  n'avanzava:  oggi  è  scienza:  la  quale,  come  ogni 
altra,  via  via  allarga  l'ambito  suo,  allunga  il  compito,  tanto  che 
non  solo  minacci  invadere,  ma  porre  a  contributo,  una  dopo  l'altra, 
tutte  quante  le  scienze.  Se  poi  ella  possa  costringersi  fra  certi  con- 


tO  EnriSTA  CONTBICPOBANBA 

fini,  mentre  è  specchio  di  vicende ,  le  quali  nel  cammino  della  ci- 
viltà incontrano  sempre  nuove  cause  e  recano  effetti  nuovi  ;  e  se  o 
quando  dovranno  anche  ad  essa  segnalarsi,  ora  non  importa  discorrere. 

Chiederà  taluno  perchè  io  ricerchi  le  condizioni  degli  Stati  d'Italia 
nel  quarantanove  ;  né  mi  addentri  di  più  nel  passato  o  m'accosti  al 
presenta.  A  me  basti  rispondere,  che  intendendo  ora  di  ammannire 
materia  alla  storia  della  rigenerazione  nostra,  rifeci  i  passi  ed  alla 
metà  del  quarantanove  mi  arrestai,  perchè  mi  parve,  e  questo  dopo 
lunga  riflessione  ho  per  convincimento  profondo,  che  chiunque  si 
faccia  a  dettare  storie  di  questi  tempi,  uopo  è  rimonti  all'anno,  né 
lo  passi,  in  cui  fra  disastri  d'ogni  maniera,  si  chiuse  il  periodo  sto- 
rico incominciato  co'  ristauri  del  quindici ,  e  s'apri  quello  che  non 
potrà  dirsi  al  termine  prima  che  l'Italia  abbia  aggiunto  a  sé  Venezia 
e  Roma. 

Ora  se  da  questa  serie  di  articoli  appariranno  i  guai  che  nascono 
da  tristizia  di  governo,  da  picciolezza  di  Stati,  difformità  di  ordini 
e  di  leggi  e  di  umori ,  sicché  il  lettore  benedica  all'oggi  e  affiretti 
coi  voti  il  di  in  cui  la  patria  nostra  abbia  compiuta  la  unità  delle 
leggi  e  degli  ordini,  e  remossa  ogni  cagione  di  nuovi  guai  ;  a  me 
parrà  aver  colto  maggior  profitto  di  quel  che  non  isperai. 

Intitolando  poi  a  te  questi  studii,  compiuti  con  amore  e  quella 
diligraza  che  potei  maggiore,  intesi  non  tanto  onorare  in  te  l'in- 
gegnò bellissimo ,  ma  le  virtù  dell'animo  :  e  porgerti  pubblico  testi- 
mosto  della  rioonoseenza  con  cui  ricambio  Tamicizia  tua.  Sta  sano. 

Di  Novara,  29  settembre  1862 

Enbioo  Pani  Bossi. 


STUDU  8T0BICI  S  AIOCINISTBATITI  61 

I.     . 

DELLO  STATO,  DB«LI  ORDINI  E  DELLE  LEGGI  DI  TOSCANA 

NEL  4849 


somiiARio 

I.  Avvertenza.  —  II.  Vive  Toscana  fra  i  rottami  di  tutti  i  tempi,  di  tatti  i  ragni ~ III.  Del 
Medici.  —  IV.  Di  Francesco  di  Lorena.  ^  V.  DI  Leopoldo  I.  ^  VI.  Di  Ferdinando  UI. 
^VII.  Dei  Borbonldi.  *-  VIU.  Dell'Elisa.-* IX.  Ristauro  del  quattordici.  —  X.  Di  Leo- 
poldo II,  ultimo  del  Granducbi.  —  XI.  Leggi  civili.  —  XII.  Leggi  criminali.  —  XIII. 
Leggi  commerciali  e  militari.  —  XIV.  Leggi  di  procedura.  —  XV.  De'  tribunali.  ^ 
XVI.  Leggi  di  Lucca.  —  XVII.  DeUa  giustizia  amministrativa.  —  XVIII.  Della  gtafUtia 
eeonomlca.  —  XIX.  Deli' Ammfaittrazione  ^  Comuni.  —  XX.  Distretti.  —  XXL  Circon- 
darli —  CempartimeotL  —  XXII.  SUto.  —XXIII.  De'  Ministri  e  del  Consiglio  di  SUto. 
^  XXIV.  Condiaiool  della  Finanza.  —  XXV.  Rendite  e  dispeodli.  —  XXVI.  Riflesal 
•oUe  randite  e  sui  dUpendli.  —  XX VU.  Degli  oidini  della  Finanza.  -XXVIIL  Epilogo. 
—  XXIX.  Leggi  sugli  acquUll  deUa  Chiesa.  —  XXX.  Uro  vicende.  —  XXXI.  Beni  delU 
Chiesa  nel  quarantanove.  —  XXXII.  Istruzione  del  chierici.  —  XXXIII.  Giurisdizione 
e  leggi  ecclesiastiche.  —  tXXIV.  Del  concordati  con  Roma.  —  XXtV.  Della  istruitone 
pubblica.— XXXVI.  Della  stampa.  —XX XVIL  Dell'esecdto.  --  XXXVHL  DelU  marina. 
XXXIX.  De'  trattati.  —  XL.  Commercio  e  Industria.  XLI.  Livorno.  —  XLU.  Contra- 
rietà dell'industria  e  commercio  toscano.  —  XLIII.  Dell'agricoltura.  —  XLIV.  Della 
Maremma. 

I.  —  Nell'anno  1849  anche  Toscana,  non  meno  dei  vicini  e  lon- 
tani Stati,  avea  sembianze  di  nave  cui  la  tempesta  avesse  strappato 
albero,  vele  e  sartiame,  e  risospinta  malconcia  e  sconquassata  al 
lido.  Ora  proponendomi  discorrere  ad  una  ad  una  le  parti  scampate 
miracolosamente  a  quei  flutti,  mostrerò  come  a  codici  mancanti,  sup- 
plissero leggi  senza  numero ,  sparse  in  cento  tomi ,  e  a  quelle  di 
soventi  supplisse  l'arbitrio,  pianta  del  luogo:  l'una  contraddicesse 
aU'altra,  l'arbitrio  a  tutte  :  l'una  propria  sol  di  un  comune,  l'altra 
di  una  provincia,  l'arbitrio  legge  unica  e  universale  :  il  numero  degli 
ordini  vecchi  e  nuovi,  causa  di  incertezze  forensi,  litigi  fra  i  giudici, 
primi  a  contendere  pel  diritto  di  giudicare:  lunghezza  di  affari: 
grossi  dispendii  per  cui,  nel  nome  della  civile  uguaglianza,  la  giu- 
stizia era  pe'  ricchi,  la  ricchezza  un  privilegio,  la  povertà  una  colpa  : 
le  pene  non  iscritte  in  un  codice,  sparse  in  migliaia  di  sentenze, 
ccm  varia  ragione,  or  miti  or  gravi,  sanguinariB  mai:  le  t^gi  mi- 
litari tolte  a  prestito  dall'Austria,  le  commerciali  dalla  Francia,  prov- 


62  RIVISTA  CONTEMPOHANBA 

vide  queste,  obbrobriose  quelle.  Varia  la  legislazione  da  Lucca  al 
resto  di  Toscana.  Dirò  come  premii  toccassero  a  immeritevoli,  cari- 
che ad  inetti,  ora  arroganti,  ora  ligi,  sospettati  sempre:  abito  di 
credere  all'efficacia  delFintrigo  più  che  al  valor  della  legge  o  alla 
virtù  degli  animi.  Mostrerò  gli  uffici  senza  numero,  con  potestà  mal 
definite:  gli  uni  antiquati,  altri  ripiallati  a  nuovo^  o  nome  vecchio 
a  ufficii  nuovi:  sicché  tardità  letale  nello  svolgersi  fra  tante  ruote 
l'amministrazione  dello  Stato.  Vedremo  gli  ordini  del  quarantasette 
e  quarantotto,  confusi  ad  anticaglie  :  i  resti  del  vecchio  allato  i  prin- 
cipii  del  nuovo:  libertà  e  dispotismo:  indipendenza  e  presidio  stra* 
niero.  Mal  securo  lo  Statuto,  giurato  dal  principe,  offeso  dalla  plebe, 
in  custodia  degli  Austriaci.  I  Comuni,  macchine  a  spremer  denaro, 
non  base  della  piramide  che  ha  a  culmine  il  principe.  La  provincia 
dispersa  nello  Stato  :  lo  Stato  alla  discrezione  de'  ministri  :  complice 
loro  un  Consiglio  in  cui  hanno  seggio  e  voto  per  giudicar  se  mede- 
simi :  centralità  massima,  senza  unità  di  governo.  La  stampa  vedremo 
paurosa  degli  Austriaci,  incerta  di  sua  libertà,  di  sua  vita.  Della 
istruzione  pubblica,  pochi  i  templi,  meno  i  devoti  ;  libera  non  protetta  ; 
alla  mercè  di  privati.  Non  vigor  di  corpo,  non  nerbo  di  milizia:  la 
cittadina  nelle  vicende  ultime  disfatta,  e  qua  e  là  inerme.  Lo  Stato 
libero  dalla  Chiesa;  suo  tutore  e  intermedio  con  Roma:  decreti  e 
voglie  papali  nulli  senza  il  beneplacito  regio  :  nuovi  acquisti  vietati, 
gli  antichi  protetti,  ma  sottoposti  a  pubblici  tributi  :  e  nondimeno  la 
ricchezza  della  Chiesa  smisurata,  contennenda,  insulto  alla  povertà 
dello  Stato.  Vedremo  maggiori  delle  spese  le  pubbliche  entrate;  dei 
beni  demaniali  i  debiti;  maggiore  dei  debiti,  non  iscritti  nò  guaren- 
titi, il  discredito:  ninna  proprietà  immune  dai  tributi:  ripartiti  a 
segno:  or.miti  or  gravi:  refìrigerio  scarso  alla  afflitta  finanza.  Mostrerò 
come  gli  ordini  economici,  del  pari  che  le  leggi  sui  beni,  persone,  po- 
testà della  Chiesa,  fossero  la  miglior  parte  dell'armatura  dello  Stato, 
un  tempo  meraviglia  de' stranieri,  scuola  anch'oggi  a  nostrani  :  come 
alla  libertà  degli  scambii  contraddicessero  le  irrazionali  gabelle  ;  allo 
svolgimento  della  libera  indùstria,  privative,  divieti  e  la  picciolezza 
del  suo  ambito  :  al  mal  vezzo  di  proteggere  i  traffici  nell'interno,  l'ab- 
bandono in  che  erano  lasciati  all'estero:  alla  partizione  delle  pro- 
prietà i  cumuli  del  clero:  alla  dispersion  de' fid ecommessi,  le  com- 
mende di  Santo  Stefano:  alla  cultura  del  suolo,  lo  squallor  della 
maremma:  alla  sanità  sua,  lo  sciamar  degli  abitanti,  le  opere  mono- 
polio del  Governo,  i  miasmi  letali,  la  inclemenza  del  cielo. 

IL  —  Di  queste  difformità  importa  ricercarne  la  ragione  nelle 
cagioni  loro,  le  politiche  vicende,  il  succedersi  de' governi.  Il  pie- 
ciol  Stato  mano  mano  s'accrebbe  di  altri,  per  virtù  di  conquista: 
la  conquista  sparmiò  le  loro  leggi ,  e  gli  statuti ,  de'quali  i  vinti 


STUDU  STOSICI  B  AMMINISTBATIVI  63 

rimasero  vìgili  custodi,  quasi  patrimonio  di  civiltà  e  di  sapienza.  Poi 
in  questo  o  quel  luogo,  le  fazioni  degli  ottimati  e  del  popolo  fecero 
e  disfecero  lo  Stato.  Quindi  i  Medici  padroni  e  non  duchi:  poi  i 
duchi  da  Alessandro  a  Giangastone,  e  i  Lorenesi  e  la  Reggenza,  o 
i  Borboni  e  i  Napoleonidi,  e  poi  di  bel  nuovo  e  Reggenza  e  Lore* 
nesi,  e  i  riformatori  del  quarantotto,  e  i  triumviri  del  quarantanove: 
tutti  mutarono  l'opera  de' predecessori,  ninno  la  distrusse:  testi- 
monio di  impotenza  a  compiere  o  di  paura  a  cancellare  quella  degli 
antichi.  E  perciò  le  leggi  eransi  succedute  a  furia,  alterate  l'un 
l'altra,  rade  volte  abrogate  :  molti  elementi  di  bene  misti  a  cagion 
di  guai:  questi  e  quelli  sparsi  in  ogni  luogo,  e  non  prevalenti  in 
alcuno:  maggior  aopia  di  sani  principi!,  che  di  buoni  istituti.  Per 
que'  casi  vivea  Toscana,  e  tale  visse  per  più  secoli,  fra  i  rottami  di 
tutti  i  tempi,  di  tutti  i  regni,  siano  essi  repubbliche,  reggenze,  prin- 
cipati, imperii  :  onde  lo  stato  presente  potea  dirsi  opera  di  tutti  e  di 
nessuno  (1). 

III.  —  Nondimeno  io  dirò  brevemente  quali  pezzi  aggiungesse 
ciascuno  ad  opera  di  tanti  pezzi.  Li  moltiplicò  l'indole  de' governanti 
crudeli  o  inetti,  ora  cupidi  di  dominio  assoluto,  ora  di  popolarità, 
vaghi  di  progresso,  poi  paurosi  de' sudditi  e  del  progresso  quando 
l'uno  e  gli  altri  traevano  innanzi  da  se  soli.  La  repubblica  infino 
all'ultimo  di  avea  serbato  le  forme  del  medio  evo,  correttele  fra  gli 
umori  delle  parti  ;  al  trionfo  della  nobiltà  antica  sul  popolo  nuovo  o  di 
questo  su  quella,  avea  ristretti  od  allargati,  gli  ordini,  non  più  stru- 
menti di  universale  felicità,  sibbene  modi  ad  acquistare  o  serbare  im  - 
perio.  Per  il  che  la  Repubblica,  scaduta  di  reputazione  e  di  virtù,  si 
meritò  ed  ebbe  i  Medici,  i  quali  fecero  da  padroni  prima  lo  fossero; 
e  quando  il  furono  non  ebber  più  briglia  di  leggi  né  di  costume. 
Cosimo  salito  in  ricchezza,  comprò  la  potenza  e  morì  pianto  padre 
della  patria^  ei  non  d'altro  pensoso  che  dì  sé.  Àvea  comprata  una 
Repubblica,  lasciò  al  figliuol  Piero  uno  Stato,  ch*era  Monarchia  meno 
il  nome.  Tale  ei  lo  mantenne:  ove  mancò  ingegno  supplì  crudeltà, 
e  gli  valse.  Lorenzo  non  solo  di  Toscana  fu  padrone,  ma  de'  casi 
d'Italia  bene  spesso   arbitro.   Il   figlio  sfruttò  lo  Stato,  lo    cede 

(1)  Dante  (Pur^.  e.  6),  cinque  secoli  fa,  diceva  della  Toscana: 

te  che  fai  tanto  sottili 

Provvedimenti  che  a  mezzo  novembre 
Non  giunge  quel  che  tu  d'ottobre  fili. 

Quante  volte  del  tempo  che  rimembre 
Leggi,  monete,  offici  e  costume 
*    Hai  tu  mutato  e  rinnovato  membre? 

Nemmen  questi  versi  fossero  d'oggi,  tanto  paiono  scritti  per  quel  che  . 
avvenne  in  Toscana  in  questi  ullirai  secoli! 


64  RIVISTA  COKTBMPOBANBÀ 

mezzo,  lo  perdo  intero.  Ai  fhitelli,  lo  restituirono  inteme  congiure, 
indizio  di  costumi  rotti  :  qual  si  meritarono,  quelli  furono  despoti  e 
crudeli.  E  il  popolo,  avuto  un  lampo  di  ardimento,  se  li  toglie 
d'addosso:  armi  straniere  ve  li  riportano.  Qui  incomincia  la  serie 
dei  duchi.  Ad  Alessandro  giunge  a  tergo,  l'odio  di  un  congiunto, 
ed  è  spento.  Cosimo  balza  in  soglio,  uccide  i  nemici  :  cauto  e  destro 
sfugge  le  vendette  :  doma  i  vicini  ;  il  principato  accresce  :  le  redini 
raccoglie  tutte  nel  suo  pugno  :  detta  leggi  tremende  ai  sudditi,  pun- 
tello alla  tirannide;  e  fonda  lo  Stato  presente.  Quella  fu  la  mag- 
giore perchè  la  più  durevole,  fra  quante  mutazioni  avvennero  in 
Toscana  :  ove  gli  ordinamenti  di  Cosimo  durarono  quanto  la  discen- 
denza sua,  e  nemmen  tutti  sparvero  con  essa. 

lY.  —  A  princìpi  inetti  e  dissoluti  —  tali  furono  fino  a  Gianga- 
stone(2)  —  seguono  principi  legislatori.  Queste  le  buone  o  ree  opere 
loro.  Francesco  II  duca,  granduca  e  cesare,  perde  il  ducato,  abban* 
dona  il  granducato  a  una  reggenza,  l'impero  alla  moglie.  Pure  diede 
in  Toscana  il  nome  suo  a  queste  riforme  (3)  :  disarmato  il  Sant'Ufficio  : 
al  poter  civile  restituita  la  censura  de' libri:  le  usurpazioni  e  l'avi- 
dità de'  chierici,  circoscritte  :  per  nuovi  acquisti  si  chiedesse  il  regio 
assenso  (4j:  fiaccata  la  feudalità  (5)  :  il  suolo  e  i  villici  liberi  da  taluna 
servitù  :  i  fldecommissi  (6)  ed  altri  privilegi  dei  nobili  (7)  scossi  : 
favorito  il  commercio  con  trattati  ;  tolte  nell'interno  più  linee  doga- 
nali; permessa,  a  mo'  d'esperienza  la  tratta  (8),  poi  la  introdu- 
zione e  libera  circolazione  dei  grani  (9).  A  riscontro  delle  quali  ri- 
forme, e  questa  fu  tutta  opera  sua,  smunse  il  principato  di  denari 
e  d'uomini,  secondochè  i  bisogni  e  le  guerre  dell'impero  chiede- 
vano (10)  ;  onde  l'agricoltura  per  manco  di  braccia  e  la  finanza  ro- 
vinarono :  a  sollievo  dei  sudditi  istituì  il  giuoco  del  lotto  (11)  ;  a 

(2)  I  Duchi  Medicei  regnarono  dal  1  marzo  15«>t2al  9  luglio  1737. 

(3)  La  Casa  di  Lorena  acquistò  la  Toscana  in  yirtii  dei  preliminari  di 
pace  stipulati  a  Vienna  il  3  ottobre,  1735,.art.  II  [V,  Schoell  Traités  de 
paix,  tom  1,  chap.  XV),  Francesco  II  regnò  dal  1737  al  1765. 

(4)  Legge  11  marzo  1751. 
(5j  Editto  29  aprile  1749. 

(6)  Id.    22  giugno  1747. 

(7)  Id.    21  aprile  1749. 

(8)  Id 1739. 

(9)  Id.    2  aprile  1764. 

(10)  7.  Zobi,  Mem.  econ.  polii,  dei  danni  recati  daW Austria  alla  Toscanat 
t.  1,  P.  I,  e  t.  2|  Dog.  I-LX.  —  Importante  pubblicazione  eseguita  di  con- 
senso col  Gov.  della  Toscana.  Firenze  1860. 

(11)  Editto  30  maggio  1739.  Notevoli  sono  le  parole  con  cui  Giangastone 
lo  avea  proibito.  Cosi  ne  espose  i  motiyi  (17  luglio  1732):  «  Introduce  catti* 
yissimi  costami  nei  giuocatori  che  per  provvedersi  del  denaro  per  esporlo 
al  lottO|  scordasi  del  santo  timor  di  Dio,  e  dell'onore  ancora  mondano, 


STUDU   8T0RI0I  B  AMMINISTBATIYI  65 

conforto  della  finanza  appaltò  i  tributi  (12)  :  e  così  la  povertà ,  rotti 
gli  impedimenti,  penetrò  nelle  città,  sali  le  magioni  de' ricchi,  ri- 
dusse al  verde  fin  le  casse  dello  Stato. 

V.  —  Leopoldo!  (13)  abolì  gli  inutili  magistrati  e  i  tribunali  di  privi- 
legio :  diede  libertà  ai  comuni  (14):  cancellò  og^i  immunità  e  parzialità 
di  foro,  dritto  d'asilo,  pena  dì  morte,  colpa  di  Stato,  tortura,  con- 
fisca :  il  processo  de'  giudizii  migliorò  :  le  pene  proporzionò  alle  colpe, 
mitezza  rara  per  que' tempi.  Rendè  liberi  i  coloni  da  vessazioni,  le 
terre  dalle  servitù;  ogni  vincolo  imposto  dalla  prepotenza,  mante- 
nuto dall' ig^noranza ,  disciolse:  le  immunità  reali  disparvero:  ogni 
terreno  sottopose  a  tributo,  fino  i  suoi,  fin  quelli  del  clero,  e  lottò 
quanto  occorreva  ad  obbligare  i  recalcitanti,*  a  dar  forza  alla  legge  : 
andò  innanzi  al  padre  vietatldo  lo  istituir  nuovi  fidecommesei,  i  vec- 
ohi  di8ciog^iendo(16):  lo  contraddisse  riportando  alla  finanza  i  tributi 
già  dati  in  appalto:  molte  privative,  del  tabacco,  del  ferro,  dell'ac- 
quavite, il  divieto  di  escavar  miniere,  diboscare,  cercar  tesori,  coglier 
sale,  dogane  fra  città  e  città,  disparvero  :  aperte  nuove  strade,  sca- 
vati porti  e  canali  ;  e  il  commercio  è  le  industrie,  sbrigliate  nel  nome 
de'principii  che  al  Bandini  valsero  in  vita,  fama  di  pazzo  e  gloria 
imperitura  ai  seguaci  suoi  ;  il  che  avvenne  in  Toscana  pria  che  in 
alcun  altro  sito.  Migliorate  le  condizioni  de' coloni,  prosperarono  le 
terre  :  Val  di  Chiana  e  Val  di  Nievole  liberate  dalle  acque  paludose, 
restituite  all'aratro.  Il  debito  pubblico  lasciato  dal  padre  scemò,  poi 
sparve  (16)  :  per  la  prima  volta  rivelaronsi  a'  sudditi  le  condizioni 
della  pubblica  fortuna  (17). 

due  basi  fondamentali  deironesto  vivere  ,  e  della  pubblica  e  privata  feli- 
cità, niente  curano  d'abbandonare  e  privare  deiropportuno  sostentamento 
le  loro  fan^iglie,  vendono  l'onestà  delle  loro  donne,  commettono  furti, 
truffe,  falsità  ed  altri  delitti  ;  e  con  folle  speranza  d'assicurare  la  vincita 
s'avanzano  fino  a  nefandi  sortilegii  ,  e  vanissime  e  sacrileghe  supersti- 
zioni ».  V.  Cantini,  Legislaz.  toscana,  t.  XXIII. 

(12)  Il  primo  appalto  venne  stipulato  il  1®  gennaio  1741,  per  sovvenire 
di  denaro  l'imperatrice  consorte,  travolta  in  guerre  e  disastri  :  durarono 
gli  appalti  fino  al  26  agosto  1768. 

(13)  Governò  la.  Toscana  dal  17  marzo  1765  al  1790. 

(14)  F.  Editto  12  maggio  1772. 

(15)  Decreto  23  febbraio  1789.  È  legge  elaborala  dal  Vernacoini. 

(16)  7  marzo  1788. 

(17)  Notevolissime  sono  le  parole  con  cui  ha  principio  il  Rendiconto  che 
Leopoldo  I  fece  a'  sudditi  suoi,  nel  partirsene  :  <  S.  M.  è  intimamente  per- 
suasa che  il  più  efficace  mezzo  per  sempre  più  consolidare  la  fiducia  e  la 
confidenza  dei  popoli  verso  qualunque  governo,  sia  quello  di  sottoporre 
alla  cognizione  di  ciascun  individuo  le  diverse  mire  e  ragioni  che  hanno 
servito  di  fondamento  alle  ordinanze  e  provvedimenti  prescritti  secondo 
l'esigenza  e  l'opportunità  delle  circostanze,  e  di  manifestare  senza  riserva 
e  colla  possibile  chiarezza  l'erogazione  dei  prodotti  delle  pubbliche  con- 

XivUta  C  —  5 


66  RIVISTA  CONTEMPORANEA 

Queste  poi  le  riforme  di  Leopoldo  I  nell'ecclesiastiche  discipline. 
Crebbe  i  redditi  alle  parrocchie,  in  Toscana  poverissime,  per  l'uso 
invalso  di  lasciar  tutto  a  conventi  :  a  talun  di  questi  tolse  parte  del 
superfluo,  altri  distrusse  :  vietò  le  decime,  le  questue,  i  romitaggi  : 
congreghe,  centurie,  confraternite  disciolse  :  sostituì  ad  esse  com- 
pagnie di  carità  :  fra  i  frati  ed  i  generali  che  siedono  in  Roma,  fra 
i  vescovi  ed  il  pontefice  interpose  il  poter  civile  (18):  conobbe  ne'  par- 
roci il  diritto  di  aver  voce  ne'sinodi  diocesani:  l'episcopato  sollevò 
a  molta  altezza,  accrescendone  le  facoltà,  ma  in  danno  di  Roma: 
mantenne  il  divieto  a'  luoghi  pii  di  accrescere  le  manimorte  :  francò 
parte  di  quelle  che  già  godevano;  fece  solo  eccezioni  pei  corpi  laici. 
Distrussse  il  Sant'UflBció,  omai  spauracchio  de' semplici,  ma  pretesto 
a  litigi  e  querimonie:  le  censure  papali,  i  monitorii  di  scomunica 
volle  non  potessero  pubblicarsi  senza  il  regio  assenso.  Abolì  il  tri- 
bunal  della  nunziatura  :  sottrasse  i  laici  al  fóro  ecclesiastico  :  gli  ec- 
clesiastici trasse  innanzi  i  tribunali  laici:  serbò  alle  curie  le  cause 

tribuzioni.  E  non  gli  è  ignoto  che  l'occultazione  ed  il  mistero  delle  ope- 
razioni del  governo  ,  mentre  danno  adito  alla  malafede  ed  al  sospetto 
fanno  anche  torto  ai  plausibili  e  retti  sentimenti  del  sovrano,  non  meno 
che  alla  condotta  dei  ministri  prescelti  al  maneggio  del  pubblici  affari». 
V.  Governo  della  Toscana  sotto  Leopoldo  I. 

(18)  Notevolissime  e  di  palpitante  attualità,  sono  le  Circolari  con  cui 
Leop.  I  vietò  ogni  questua  a  prò  di  Roma:  non  furono  abrogate  mai: 
onde  io  stimo  opportuno  recarle  qui  per  intero,  dedicandole  sAV Armonia, 
agli  oblatori  del  Denaro  di  S.  Pietro  ed  ai  funzionarii  che  governano  oggi 
la  Toscana.  Circolare  21  giugno  1779  a  Essendo  stato  reso  conto  a  S.  A.  R. 
e  delle  risposta  date  dai  superiori  delle  religioni  alla  Circolare  dei  12 
e  gennaio  1778,  la  medesima  R.  A.  S.  quanto  al  primo  articolo  di  detta 
«  circolare,  nel  quale  si  richiedeva  una  nota  esatta  di  tutto  quello  che 
<  ciascheduna  religione  rimetteva  fuori  dello  Stato,  ha  comandato  con 
«  rescritto  de'  12  del  corr.,  che  non  si  facciano  fuori  di  Stato  pagamenti  di 
t  prestazioni y  tasse  o  d'altro,  che  è  stalo  indicato  tanto  nella  circolare  che 
«  nelle  risposte,  senza  il  preventivo  regio  Exequaturj  da  domandarsi  di  caso 
«  in  caso  ;  e  che  in  avvenire  non  abbia  luogo  qualsivoglia  nuova  imposi- 
«  zione  senza  il  regio  beneplacito.  In  esecuzione  de*  sovrani  comandi^  par- 
«  tecipo  tutto  ciò  a  V.  P.  M.  Rev.  perchè  riguardo  al  suo  Ordine  eseguisca 
«  e  faccia  eseguire  colla  dovuta  esattezza  le  sovrane  intenzioni,  con  darmi 
M  pronto  riscontro  di  aver  ricevuta  la  presente,  che  farà  conservare  nelVar- 
«  chivio  per  sua  regola,  e  de'  suoi  successori  ». 

Circolare  15  giugno  1782  «  È  mente  di  S.  A.  R.  che  resti  in  avvenire 
«  intieramente  abolita  nei  suoi  Stati  ogni  tassa  di  spogli^  vacanti,  quindennii, 
«  e  qualunqne  altra  di  simil  genere  che  passi  direttamente  o  indirettamente 
•  e  per  conguaglio  per  qualsivoglia  titolo  a  Roma,  e  che  si  paga  dagli  eccle- 
f  siastici  tanto  regolari  che  secolari,  e  da  qualunque  altra  persona  o  luogo  pio. 
«  Comanda  inoltre  che  quelle  somme  le  quali,  con  circolare  del  18  mag- 
c  gio  prossimo  passato,  fu  ordinato  tenersi  a  disposizione  dell'A.  S.  R, 
«  siano  dai  succollettori  consegnate  a  V.  S.  Illustrissima,  che  viene  incaricata 

f  di  piSTmBUIftLB  a'  poveri  Più  BISQGNOSI  Di  OOPESTA  DIOCESI  », 


STUDll  STOBICI  B  AMMINISTRATIVI  67 

s^Hritaali  e  facoltà  di  infligger  pene  di  ugual  calibro,  cioè  spirituali. 
Queste  le  onorevoli  opere  che  Leopoldo,  viventi  il  Neri,  il  Rucellai, 
il  Tavantì,  fece  sue.  Morti  que' ministri,  si  sbigottì  di  se  medesimo, 
s'intimidì  alle  censure  papali.  Stimando  aver  camminato  di  troppo, 
rifece  i  passi,  si  diede  a  martellare  Topera  a  cui  avea  dato  il  nome, 
accusandosi  d'aver  sbagliato  (19).  Tolse  a' Comuni  talune  delle  fa- 
coltà largite  innanzi:  allargò  la  giurisdizione  ecclesiastica:  con- 
venti e  confraternite  (20)  ripristinò:  altre  concessioni  ai  chierici: 
all'ire  del  pontefice  abbandonò  quanti  seco  lui  aveano  mirato  per 
Tinnanzi  a  ridur  la  Chiesa  in  chiesa  :  vulnerò  poi  la  libertà  dei  traf- 
fici e  dell'industria  (21):  invilì  la  milizia:  si  circondò  di  birri:  la 
pena  del  capo  ristaurò  (22).  La  morte  del  fratello,  chiamandolo  im- 
peratore a  Vienna,  gli  impedi  compiere  la  distruzione  della  sua  opera. 

VI.  —  La  proseguì  Ferdinando  III  (23)  :  perniciose  concessioni  ai 
chierici:  nuovi  conventi  s'apersero:  s'accrebbe  la  lor  fortuna:  ne 
impoverì  lo  Stato  ;  riapparve  il  debito  pubblico  (24).  Rinacquero  priva- 
tive e  divieti  letali  all'industria:  il  commercio  intristì:  non  mancava 
più  che  il  proibir  la  estrazione  de'  cereali  e  lo  fu  :  così  calpestavansi 
le  patrie  glorie.  S'alterò  la  legge  penale,  altra  gloria,  e  le  pene 
divennero  maggiori  delle  colpe,  meno  per  quelle  della  carne  :  s'in- 
ventò la  .colpa  di  Stato,  e  per  pena,  la  morte  ignominiosa  e  infame. 

VII.  —  La  colpa  del  principe  meritava  in  vero  una  pena,  e  l'ebbe 
in  quindici  anni  di  esiglio  (25).  La  inflisse  Bonaparte.  Il  Granducato  si 

(19)  Siffatta  confessione  è  in  un  dispaccio  che  da  Vienna  inviò  alla 
Reggenza  il  17  giugno  1790,  il  quale  spiega  l'incerta  coscienza  di  ciò  che 
avea  compiuto,  i  troppi  mutamenti  e  le  contraddizioni  in  cui  cadde  prima 
e  dopo  aver  lasciato  la  Toscana.  Cosi  egli  scrive  :  «£  siccome  quando  io 
feci  la  riforma  delle  leggi  criminali  credei  di  poterla  concepire  in  quella 
maniera  per  l'indole  dolce  e  quieta  della  nazione,  e  vedendo  ora  di  es- 
sermi ingannato,  con  sommo  mio  dispiacere  mi  vedo  obbligato  di  ordi- 
nare al  Consiglio  di  Reggenza  dì  pubblicare  prontamente  un  editto  con 
cui  esprimendo  queste  mie  ragioni  e  il  dispiacere  con  cui  ho  sentito  questi 
eccessi  {moti  popolari)  che  fanno  veramente  torto  alla  nazione,*  mi  vedo 
obbligato,  dico,  di  ristabilire  da  qui  in  avanti,  e  per  i  casi  futuri,  la  pena 
di  morte,  da  incorrersi  da  tutti  quelli  i  quali  ardiranno  di  sollevare  il  po- 
polo o  mettersi  alla  testa  del  medesimo  per  commettere  eccessi  e  disor- 
dini!. V.  Zobi,  St.  Civ.,  t.  2.  Doc.  XLVI. 

(20)  Decreto  14  giugno  1790. 

(21)  Fra  gli  editti  con  cui  vietò  l'estrazione  della  seta,  della  lana  ecc. 
è  notevole  quello  con  cui  distinse  le  pecore  tosate  da  quelle  che  non  lo 
erano,  e  alle  prime  aperse,  alle  seconde  chiuse  il  confine.  Editto  7  aprile 
1789. 

(22)  Decreto  30  giugno  1790. 

(23)  Incominciò  a  governare  lo  Stato  dall'S  aprile  1791. 

(24)  Decreto  27  settembre  1794. 

(25j  Parti  dalla  Toscana  il  25  marzo  1799. 


68  KIVISTA   OONTBMPQBANEA 

mutò  in  Regno  :  i  Toscani  zittirono.  Lodovico  primo  ed  ultimo  re  (2ft) 
lasciò  governar  sé  e  lo  Stato  dalla  moglie,  allora  regina,  poi  reggente 
pel  figliuolo;  ma  sempre  donna.  La  donna  scordò  esser  regina:  la 
regina  esser  madre.  Laonde  lo  Stato  ch*era  e  potea  essere  del  figlio 
sgoverna  cosi:  die  di  piglio  alle  migliori  leggi  leopoldine  e  le  stra&- 
ci^:  gl'istituti  disfece,  né  li  rifece.  Sguinzagliò  il  clero,  lo  accrebbe, 
lo  straricchi  :  la  legge  criminale,  che  da  Leopoldo  ebbe  il  nome,  via 
via  offese,  poi  distrusse.  Promulgò  altra  legge,  in  cui  le  pene  ai  rei 
parevano  vendette,  e  come  le  vendette  sogliono,  maggiori  delle  colpe 
e  tremende  alla  coscienza  dei  giudici  :  dissipazioni  a  iosa  triplicarono 
i  debiti,  scemarono  il  ereditò,  crebbero  i  balzelli  e  trassero  la  finanza 
sul  pendio.  Per  ultimo  negaronsi  i  frutti  ai  creditori,  e  la  pubblica 
fortuna  e  il  governo,  umiliazione  pei  governati,  vesne  alle  mani 
di  frati  e  cameriste  ed  altra  vituperosa  gente. 

VIU.  —  Vi  pose  riparo  Napoleone  di  consolo  fktto  imperatore.  A 
un  suo  cenno  la  ciurma  de*  frati,  il  servitorame  e  lafieggeate  sgom- 
brarono la  reggia  (27).  Prima  un'altra  reggenza,  poi  l'Elisa  le  sxic- 
cede  (28).  Leggi  parziali,  statuti  senza  numero,  codici  vulnerati,  feudi 
sbocconcellati  da  Leopoldo,  non  distrutti,  i  fidecommessi  vivuti  in 
onta  al  divieto,  le  corporazioni,  i  nidi  d'oziosi,  i  ruderi  dell'edifizio 
di  Cosimo,  i  resti  di  quello  incompiuto  di  Leopoldo ,  crollarono  a  una 
scossa  delle  poderose  braccia  use  a  scuotere  l'BurQpa.  Fu  un  lampo  : 
codici,  tribunali,  ordijiamenti  amministrativi,  economici,  militari  e 
politici,  tolti  a  prestito  dalla  Francia,  piovvero  sullo  Stato,  prima 
che  sgombro  dalle  rovine  del  crollato  edificio;  e  nondimeno  fecero 
buona  prova,  perdiè  maturati  da  secoli,  scritti  nella  coscienza  dei 
popoli,  nella  legge  prima  che  benedice  l'uguaglianza,  solleva  i  ca- 
duti, capovolge  gli  sgoverni  ;  e  perchè  frutto  erano  della  civiltà  che 
cammina.  Ebbero  i  sudditi  dignità  di  uomini,  contentezza  di  liberi, 
lo  Stato  pregio  di  provincia  italica.  L'improvviso  turbine,  spalancò 
i  conventi,  ne  fuggirono  moncu^he  e  frati,  beati  di  poter  cosi  tor- 
nare al  secolo:  le  proprietà  da  secoli  stagnanti,  disparvero  nella 
voragine  del  debito  pubblico  e  la  colmarono.  Ciò  che  era  della  re-' 
ligione,  come  giustizia  volea  fu  dello  Stato 

IX.  —  Poco  oUre,  il  bello  edificio  ch'era  l'impero  di  Napoleone, 
franò  :  i  regni  per  lui  composti  si  scomposero  :  sminuzzati,  aggran- 
dirono il  patrimonio  di  questo  o  quel  principe.  Per  tutte  le  vie  di 
Europa  era  un   correre   di  re  scaduti,   verso  gli  antichi  Stati  o  là 

(26)  Pel  trattato  di  Luneville  9  febbraio  1801,  art.  V  (F.  Scboell  t.  2, 
chap.  XXIX),  la  Toscana  fu  ceduta  ai  Borboni.  Lodovico,  giunse  in  Fi- 
renze il  12  agosto  1801.  Mori  il  27  maggio  1803, 

(27)  Parti  il  10  dicembre  1807. 

(28)  Dal  3  marzo  1809  al  1  febbraio  1814. 


STUDn  STomoi  b  amministbativi  69 

07'era  mercato  di  regni  e  di  popoli,  Vienna.  Toscana  perdo  pregio 
di  provincia  italiana  o  imperiale  ;  tornò  fendo  di  una  fiamiglia,  quella 
di  Lorena.  Tornò  Ferdinando  III  (29).  Che  avesse  appreso  in  esiglio 
si  parve  dai  fatti.  Come  gli  altri  profughi,  studiossi  cancellare  con 
la  memoria  della  sfortuna  ogni  vestigio  de'  quindici  anni  ili  cui  i 
popoU  eran  vissuti  co' re  di  fortuna. .  Queste  le  buone  0  ree  sue 
opere:  gli  ordinamenti  imperiali  a  furia  distrutti,  dissotterrati  glj 
antichi,  salvo  il  correggerli  poi.  I  municipii  riordinati  in  peggio  da 
quM  che  erano  sotto  Leopoldo  (30)  :  risuscitati  conventi  d'ogni  ordine, 
colore  e  sesso  :  con  la  vita  restituite  loro  le  ricchezze  :  gli  atti  dello  stato 
civile  delle  persone  resi  a  parroci  (31)  :  prima  sottratti  gli  ecclesiastici 
in  materia  penale  agli  effetti  del  Codice  napoleonico,  abolito  poi  in- 
sieme a  quel  di  processo  :  in  loro  vece,  le  leggi  Leopoldine,  meno  la 
mitezza  volta  in  crudeltà:  ugual  fortuna  ebbe  il  Codice  civile,  a  cui 
succedettero  le  discordi  e  antiche  leggi:  disfatti  i  tribunali,  rimessi 
in  piedi  gli  antichi:  fin  quelli  che  giudicavano  con  processo  eco- 
nomico, fin  il  Buon  governo  oltrepotente,  fino  i  bargelli  eh' eran  giu- 
dici e  birri:  co' bargelli  rinacque  la  sbirraglia,  numerosa,  molesta, 
com'essa  sa.  La  milizia  negletta,  colpa  aver  combattuto  le  battaglie 
dell'Impero:  la  istruzione  invilita;  la  censura  spigolistra;  gl'ingegni 
faceano  paura. 

A  riscontro  delle  quali  enormezze  durarono  i  benefici  del  libero 
scambio  :  toUeraronsi  i  culti  dissidenti  :  del  codice  napoleonico  ven- 
nero serbati  ì  capitoli  sulle  ipoteche,  sulla  prova  testimoniale.  Quel 
di  commercio  restò:  non  rinacquero  i  feudi.  Sparse  leggi  provvidero, 
nò  sempre  male,  alla  capacità  civile  delle  persone,  alla  patria  po- 
testà, alle  successioni,  alle  doti,  alla  oivil  procedura:  non  rivissero 
i  millecinquecento  statuti  de' Comuni:  masi,  e  fu  gloria,  rivissero 
le  leggi  di  giurisdizione  ecclesiastica,  promulgate  da  Leopoldo  ;  e 
rivisse  lo  spirito  d'indipendenza  dalla  Curia  :  s'ordinò  un  nuovo  ca- 
tasto :  alleggerironsi  della  metà  i  pubblici  aggravii,  né  si  contrarerò 
debiti. 

X.— Vengo  omai  a  Leopoldo  (32),  secondo  di  nome,  ultimo  de'gran- 
duchi,  il  quale  pure  aggiunse  all'edificio  alcun  pezzo,  altri  tolse:  la 
voglia  d'annaspare,  mal  di  quella  famiglia,  scendea  ne' rami.  Abolì 
la  tassa  del  macello,  ristabilita  fra  le  altre,  dal  padre  :  di  un  quarto 
scemò  la  diretta,  crebbe  le  indirette  :  a  colmar  le  Maremme  riaperse 
la  voragine  dei  debiti,  già  colmata  da  Bonaparte  coi  beni  del  clero  : 
la  milizia  tenne  in  non  cale,  cagion  di  guai  nelle  traversie  :  istituì 

(29)  Il  18  settembre  1814. 

(30)  Decreto  16  settembre  1816. 

(31)  Decreti  18  giugno,  28  novembre  1817. 
(^2)  Succedette  al  padre  il  18  giugno  1824. 


70  RIVISTA   CONTEMPORANEA. 

una  guardia  urbana  (33),  poi  la  disfece  (34)  ;  rivisse  sotto  altro  nome  : 
la  libertà  dell'industrie  violò,  vietando  la  piantagione  del  tabacco  (35) 
ne' luoghi  ove  l'avea  conceduta  suo  padre:  consacrò  emancipandola 
industria  del  ferro.  La  legislazione  mutò  così  :  fece  leggi  varie  sulle 
ipoteche  (36),  stato  civile  delle  donne  (37),  capacità  degli  stranieri 
a  succedere  ed  acquistare  (33)  :  altre  suiramministrazione  della  ci- 
vile e  criminal  giustizia ,  e  sui  giudizii  esecutivi  (39).  Riformò  i 
Tribunali  (40),  modellandoli  a  que'di  Francia  abbattuti  dal  padre. 
Spirata  l'aura  delle  riforme  nel  quarantasei,  ampliò  le  facoltà  de*  fun- 
zionarii,  crebbe  i  ministeri  (41),  la  polizia  dalle  cento  braccia  mu- 
tilò, il  buon  governo  soppresse,  e  cosi  altri  ufficii  tornati  a  galla 
nel  quattordici ,  e  dalla  esperienza  e  dall'odio  popolare  condannati. 
In  Lucca,  di  fresco  aggiunta,  scambiò  alcune  leggi,  né  vi  fece  al- 
tro (42).  Istituì  poi  Commissioni  a  far  nuovo  editto  pei  Comuni , 
scriver  codici,  riordinar  gli  studii  :  la  stampa  imbavagliata  dal  padre, 
sbavagliò  :  dotò  il  principato  di  una  guardia  cittadina  (43) ,  che 
poco  avéa  da  vivere,  di  una  Consulta  a  cui  fé'  succedere  un  Consi- 
glio di  Stato;  di  uno  Statuto  (44)  per  cui  divenne  principe  sper- 
giuro e  abbominevole.  Nel  fortunoso  quarantotto,  per  l'Italia  mosse 
aperta  guerra  a  parenti  e  s'indettò  seco  loro  in  segreto  :  s'inimicò  e 
fuggi  i  sudditi  :  s'amicò  ed  accostò  i  loro  nemici  :  agli  uni  aperse 
i  confini,  offri  la  capitale^^  li  accolse  nella  reggia;  agli  altri  chiuse 
il  cuore  :  sconobbe  fede  privata,  lealtà  di  principe,  debito  di  padre, 
perigliando  egli  la  terra  in  cui  nacque ,  lo  Statuto  che  giurò  e  la 
corona  del  figlio. 

Cosi  ciascun  de'granduchi,  da  Cosimo  a  Leopoldo  ultimo,  aveva 
ritoccato  l'opera  altrui,  nissuno  compiuta  la  propria;  Cosimo  fondò 
lo  Stato  -.^  Francesco  II  gli  apri  èra  nuova  ;  Leopoldo  I  lo  riformò, 
Napoleone  lo  disfece;  rivisse  intero  con  Ferdinando  III  insieme  a 
leggi  varie',  infinite,  fatte  con  diversa  ragione,  a  pezzi,  ninna  di 
getto  :  Leopoldo  II  gli  tolse  e  gli  aggiunse,  non  sparmiando  il  fatto 
suo  più  dell'altrui.  Di  Stato  assoluto  ch'era  da  secoli,  divenne  con- 

(33)  Decreto  12  febbraio  1831. 

(34)  Decreto  4  giugno  1831. 

(35)  Decreto  15  marzo  1830. 

(36)  Legge  2  maggio  1836. 

(37)  Legge  20  novembre  1838. 

(38)  Legge  11  dicembre  1835. 
(39J  Legge  7  gennaio  1838. 

(40)  Legge  2  agosto  1838. 

(41)  Decreti  16  marzo,  4  giugno  1848. 

(42)  Decreti  12  dicembre  1847,  26  febbraio  1848. 

(43)  Decreto  4  ottobre  1847. 

(44)  Decreto  15  febbraio  1848.— Leggi  elettorali  3  marzo,  26  aprile  1848. 


STUDll  STOBICI  B  AMMINISTRATIVI  7l 

Bultivo,  costituzionale,  poi  popolare:  scivolò  in  una  repubblica,  meno 
il  nome;  sol  da'triumviri  non  ebbe  nuove  partì,  perchè  poco  fecero, 
meno  rimase.  Il  ristauro  del  quarantanove,  ritrovò  gli  antichi  pezzi, 
onde  lo  Stato  era  opera  di  mille  mani  e  di  nessuna.  La  voglia  del 
riformare  ebbe  indotto  i  principi  suoi,  a  martellare  l'opera  altrui, 
la  riverenza  li  trattenne  dal  distruggerla,  la  insufficienza  dal  com- 
pierla. 

XI.  —  Discorrerò  qui  le  parti  del  non  bello  edificio,  inconjìnciando 
dalle  leggi  (45).  Le  civili  non  disposte  a  codice,  ma  sparse  per  molti 
libri  :  il  dritto  antico  era  la  regola,  né  sol  come  legge,  ma  esempio 
di  ragione  legale  :  quelle  n'erano  le  eccezioni.  Tal  fu  lo  Statuto  del 
1415,  proprio  di  Firenze,  lume  ai  codicetti  (46),  un  per  comunelle, 
vivuti  fino  al  napoleonico.  Tali  le  sparse  leggi,  che  successero  b, 
quel  docoimento  di  civiltà  e  sapienza,  promulgato  l'otto,  distrutto 
il  quattordici,  per  odio  al  nome.  Prima  e  dopo,  molti  aveano  avuto 
incarico  di  scrivere  un  codice  ;  il  Neri  da  Francesco  (47),  il  Vemac- 
cini  (48),  il  Ciani,  il  Tosi  dal  primo  Leopoldo,  il  Lampredi  dal 
figlio  (49),  varii  dal  nipote  (50):  tutti  per  cagioni  diverse  e  oscure 
lasciaron  l'opera  a  mezzo  (51).  Laonde  Toscana  non  avea,  come  non 
ebbe  mai,  legislazione  pròpria:  gli  sparsi  editti,  meglio  che  un  corpo 
di  leggi,  eran  mende  del  diritto  romano,  del  canonico,  e  qua  e  là  resti 
degli  ordini  medicei  e  francesi.   Ciascun  d'essi  rimorchiavano  ag- 

(45)  Quanto  grande ,  cosi  è  scomposta  e  imperfetta  la  farragine  delle 
leggi  del  Granducato:  i  regolamenti  interni  di  polizia ,  di  amministra- 
zione, di  registro  ecc.  dalla  origine  fino  ad  oggi,  sparsi  in  circolari,  leggi 
senza  numero,  non  mai  raccolte.  La  più  parte  delle  leggi  medicee  rac- 
colte in  28  volumi  dal  Cantini.  Quelle  dal  1737  al  1814  sono  in  fogli  vo- 
lanti; talune  rarissime;  dal  14  al  49  nella  raccolta  del  Cambiagi,  ma 
senz'ordine,  legata  a  fascio,  e  imperfetta;  un  volume  in-fol.  per  anno.  Le 
leggi  Lucchesi  sono  anche  più  rare,  ma  meglio  ordinate.  Repubblica 
(1802-1807)  6  voi.  Principato  (1807-1819)  27  voi.  Ducato  (1819-1847)  32  voi. 
Le  leggi  poi  del  Granducato  dal  49  al  59,  altri  13  voi.  in-fol.  Indicando 
perciò  le  leggi,  non  mi  è  dato,  fta  tanto  disordine,  dare  altra  indicazione 
che  la  data  :  unica  scorta  a  rintracciarle. 

(46)  Questi  codicetti,  un  per  comunello,  non  stampati,  eran  penali  e  ci- 
vili :  nelle  pene,  varii  :  e  cosi  nel  regolare  lo  stato  delle  persone,  le  suc- 
cessioni, le  doti,  i  rapporti  di  buon  vicinato,  il  danno,  le  servitù  ed  altre 
minori  materie. 

(47)  5  maggio  1745.  F.  Zobi,  St.  Civ.,  t.  I,  doc.  14. 

(48)  10  luglio  1787. 

(49)  21  maggio  1792:  dopo  il  1814  fu  dato  ugual  incarico,  e  con  ugual 
frutto  al  Collini,  poi  al  Matte  ucci. 

(50)  Nel  1838,  nominata  una  Commissione  a  rivedere  i  lavori,  in  materia 
di  codice,  preparati  in  un  secolo  di  vane  prove. 

(51)  Valentissimi  uomini,  cultori  appassionati  deirantico  testo  avversa- 
vano il  principio  della  codificazione  ;  e  anche  oggi  sono  in  Toscana  molti 
che  l'avversano. 


72  RIVISTA   CONTEMPORANEA 

giunte  e  varianti  che  di  mole  superavano  U  testo,  e  poi  si  ^perde^wo 
in  cento  tomi,  ovverà  scritta  la  consuetudine,  che  da  secoli  ha.  in 
Toscana,  ne'casi  in  cui  manca  la  legge,  vigor  di  legge.  Nondimeno, 
àncora  in  così  vasto  mare,  la  eguaglianza  e  la  lihertà  civile.  Dove 
i  tempi  nuovi  recavano  varietà  di  casi,  andavasi  per  analogia:  l'a- 
nalogia, scoperta  che  era,  diveniva  parte  del  dritto  nuovo,  aggiunta 
all'antico  :  le  glosse  dei  chicisatori  e  le  sentenze  de'moderni  lume  e 
scorta  ai  giudici  :  preferite  alle  estranee,  le  proprie.  La  ragione,  bene 
spesso  alle  prese  con  l'autorità,  sorreggevasi  ricorrendo  airantico 
diritto,  traballava  fra  le  leggi  che  n'erano  eccessioni,  affondava  nel 
mare  delle  discordi  sentenze.  Ornai  queste,  {(iù  s'accostavano  a  questi 
tempi,  prive  di  lena  per  spiccar  voli,  andavano  terra  terra  :  e  quelle, 
di  locuzione  infelice,  barbaro  stile,  sfregio  alla  purità  toscana,  per 
vivere  avean  d'uopo  ferirsi  Tun  l'altra,  e  cresceano  confusione  nelle 
già  confuse  menti  de'giudici.  Sicché  soventi  volte,  nella  varietà  dei 
casi,  n'andava  a  picco  la  giustizia. 

Le  scarse  leggi  che  faceano  le  veci  di  codice,  e  sgretolavano  il 
dritto  antico,  erano  le  seguenti  :  due  del  quattordici  (52),  sulla  pa- 
tria potestà,  gli  obblighi  de'minori,  la  emancipazione,  la  interdizione, 
la  tutela,  la  curatela,  il  dritto  di  testare,  quel  di  ricevere,  le  suc- 
cessioni intestate:  una  del  trentotto  (53),  su  quella  che  i  curiali 
dicono  capacità  civile  delle  donne.  Le  successioni  erano  governate 
da  principii  di  preferenza  agnatizia,  escluse  le  femmine,  salva  ad 
esse  la  legittima;  reminiscenza  di  feudalità,  spelta  da  poco.  La 
patria  potestà  cessava,  pei  maschi  e  per  le  femmine,  a  trentanni: 
per  queste,  il  consenso  del  padre  suppliva  all'autorità  del  giudice, 
che  prima  richiedevasi  in  ogni  atto:  nel  resto,  come  lo  esigevano 
i  tempi  ed  i  costumi,  provvedevasi  alla  condizione  economica  e  ci- 
vile della  donna  or  figlia,  or  sposa,  or  vedova:  però  i  dritti  delle 
madri  e  mogli  non  li  tutelava  legge  positiva,  ma  il  patto.  Una  legge 
del  trentacinquè  (54^1 ,  stabiliva  la  capacità  degli  stranieri  a  succe- 
dere :  buona  perchè  ammetteva  il  principio  della  reciprocità.  Del  co- 
dice napoleonico  erano  rimasti  gli  anticoli  suU'ammessione  della 
prova  testimoniale.  Regolava  le  ipoteche  una  legge  del  trentasei  (55), 
modellata  a  quella  di  Francia,  cui  andò  innanzi  in  alcune  parti:  i  dan- 
nosi vincoli  agl'immobili  toglieva:  i  titoli  e  dritti  pupillari  e  mu- 
liebri, cautelava:  le  ipoteche  non  doveano  aver  valore  che  dalla 
iscrizione.  Difetti  però  di  quella  legge,  ne'casi  di  espropriazione,  la 
citazione  diretta  agl'iscritti,  in  luogo  di  quella  per  proclama:  cadu- 

(52)  15  novembre  1814.  È  hg^e  di  237  art.  ed  11  cap.—  18  luglio  1814. 

(53)  Legge  20  novembre  1838. 

(54)  Id.     11  dicembre  1835. 

(55)  Id.    2  maggio  1836. 


STUDn  STOBId  B  AMMINKIWATITI  73 

cita  nelle  esecuzioni  fulminate  oltre  c^erti  temini,  di  soverehio  bre^i  : 
i  INX^tti  di  graduatoria,  alle  mani  dei  procuratori  legali,  non  dei 
giudici;  difetti  questi  che  triplicando  il  dispendio,  scemavano  il 
pregio  de'beni.  Gli  atti  dello  stato  civile  dal  diciasette  (56)  in  poi, 
erano  fid^i  ai  parroci,  e  alla  fin  d'aano,  accolti  in  ufficio  a  parte: 
onde  ai  chierici  pareva  aver  rimesso  deirautorità  antica,  e  ai  laici 
della  indipendenza  dello  Stato  dalla  Chiesa.  Contro  i  fidecommissi 
stavano  leggi  del  secol  scorso,  dalle  quali  prima  furon  limitati  (57), 
poi  disciolti  (58):  ingiuria  a  quelle  la  facoltà  di  incommendaxe  i  beni 
nell'ordine  e  nome  di  santo  Stefano.  Il  contratto  enfiteutico,  favo- 
rito da  più  leggi  di  incontestabile  utilità  e  pregio  (59):  alla  capacità 
civile  de'  luoghi  pii,  vegliavano  attente  quelle  del  1751  e  1769  (60), 
freno  all'ingordigia  de'cbierici,  gloria  toscana,  esempio  e  scuola  agli 
altri  Stati.  Le  cause  di  pertinenza  delle  curie,  il  matrimonio,  la  ma- 
teria de'beneficii  ecclesiastici ,  regolate  dal  gius  canonico:  il  resto, 
dal  dritto  comune,  o  da  leggi  die  insieme  a  quelle  sui  luoghi  pii, 
accennerò  discorrendo  della  Chiesa.  Qui  raccoglievasi  tutta  quanta 
la  legislazione  civile  di  Toscana.  L'altre  materie  erano  alla  mercè 
del  dritto  antico,  modificato  dal  canonico,  e  dalla  universa  consue- 
tudine. Alla  espropriazione  per  cause  di  pubblica  utUità,  e  simili 
gravi  materie,  nissuna  legge  vegliava:  il  dritto  anticq  era  muto:  né 
la  consuetudine  potea  supplifvi:  sola  scorta  del  giudice,  il  lume 
proprio  :  legge  a  privati ,  l'arbitrio  :  ornai  legislatore  e  giudice  a 
un  tempo. 

XII.  —  Non  meglio  ordinate  le  pene:  non  aveano,  come  non  ebber 
mai,  codice:  poche  leggi,  opera  de'principi  lorenesi,  scadute  con  essi, 
riapparse  nel  quattordici,  alterate  da  altre,,  cosi  lacere  e  malconcio 
ne  faceano  le  veci  :  era  proprio  miracolo  si  reggessero  in  pie.  Né  era 
dato  ricorrere  a  quelle  degli  antichi,  senza  dar  di  cozzo  nel  cristia- 
nesimo: non  alle  medicee  (61),  senza  che  la  tortura,  il  taglio  della 
mano,  la  morte  ad  ogni  piò  sospinto,  e  lo  sfrenato  arbitrio  del  giu- 


(56)  Legge  18  giugno  ,  28  novembre  1817. 

(57)  Id.    22  giugno  1747. 

(58)  Id.    23  febbraio  1789. 

(59)  V.  Saggio  di  un  trattalo  teorico-pratico  sul  sistema  livellare  se- 
condo la  legislazione  e  giurisprudenza  toscana  delTavv.  Gir.  Poggi,  in 
cui  sono  descritte  le  vicende  e  le  leggi  bh*  livelli. 

(60)  Leggi  11  marzo  1751  e  2  marzo  1769. 

(61)  Le  principali  leggi  medicee  che  ressero  fino  al  1786  erano:  lo  sta- 
tuto fiorentino  del  1415  che  da  Cosimo  venne  esteso  a  tutta  Toscana, 
meno  Siena;  appendice  sua,  29  leggi  contro  i  ribelli,  43  sui  reati  politici, 
46  per  le  uccisioni  e  il  mal  costume.  Notevole  è  come  Cosimo,  fondator 
dello  Stato,  non  s'impicciò  di  leggi  civili  ;  badò  solo  a  quelle  cbe  spic- 
ciayan  sangue.  7.  Cantini,  Raccolta  delle  Leggi  Toscane. 


74  BtVlSTÀ  OONTEMPqBÀNRA. 

dice,  gelassero  il  sangue.  Doveano  perciò  bastar  quelle  poche,  reg- 
gersi in  onta  agli  strappi  e  agli  urti,  nel  resto  accordarsi,  supplirvi 
poi  la  consuetudine,  pianta  indigena,  ornai  autorevole  come  legge. 
Lo  si  era  dichiarato  per  pubblici  bandi  (62).  Nelle  scuole  poi,  lad- 
dove le  leggi  eran  mute,  insegnavasi  ed  illustravasi  la  consue- 
tudine: materia  invero  di  risa,  se  non  ne  andasse  della  vita  e  della 
libertà  degli  uomini. 

Fra  quelle  leggi,  di  cui  dirò  solo  le  parti  che  rimaneano  nel 
quarantanove,  la  maggiore  per  mole,  prima  per  ordine  di  tempo 
era  quella  deir86  (63),  opera  del  Tosi,  gloria  di  chi  la  promulgò, 
meraviglia  per  que'tempi:  in  questi,  venne  poi  qui  bruttata  e  al- 
trove superata.  Pregi  suoi,  l'antica  crudeltà  volta  in  mitezza:  non 
tortura,  non  taglio  della  mano,  nop  vendette  di  sangue,  non  confisca 
ch'è  pena  ad  innocenti  nascituri  :  del  crimenlese  neppur  vi  ha  titolo: 
fitcea  giustizia  delle  colpe,  non  vendetta;  l'arbitrio  del  giudice  an- 
nientava: gli  uomini  valutava  tutti  eguali;  sola  distinzione  fra  essi, 
i  rei  dai  non  rei.  Questi  pregi,  che  nel  secol  scorso,  fra  leggi  atroci, 
resti  di  barbarie,  le  valsero  così  grande  celebrità,  oscurava  cosi: 
dizione  arruffata  :  le  pene  frastagliate  da  regole  di  processo  :  dell'an- 
tica legislazione  serbava  parte:  fra  le  pene  la  fustigazione,  la  gogna, 
il  confino,  abolite  poi  (64):  mirava  più  ad  atterrire  che  a  correggere, 
a  castigare  che  a  prevenire;  non  definiva  le  colpe:  intendendo  frenar 
l'arbitrio  de' giudici,  ne  vincolava  fino  il  pensiero:  pene,  come  di- 
consi,  tassative,  rendevano  cieca  ed  arbitraria  la  legge:  la  colpa 
regolata  sul  danno  materiale  ;  la  dignità  umana,  la  morale  entità, 
come  non  fossero;  spergiuro,  calunnia,  falsa  testimonianza,  pressoché 
perdonate:  altre  colpe  scordate:  il  primo  fallo  non  distinguea  dal- 
l'abito di  mal  fare;  sui  correi  e  complici  tacque;  due  colpe  in  un 
solo  non  previde;  il  conato  di  delinquere,  i  casi  per  cui  scema  o 
s'addoppia  la  colpa,  noncurò;  onde  potea  ben  dirsi  legge,  ma  non 
codice  delle  pene.  I  delitti  di  lesa  maestà,  le  offese  alla  religione, 
gli  omicidi  premeditati,  puniva,  con  pena  uguale,  una  legge  del 
95  (65);  soverchia  mitezza  per  le  colpe  della  carne:  troppa  severità 
per  altre;  aggiungeva  rigore  a  quella  deir86;  e  meglio  che  rigore, 
qua  e  là  gli  aggiunse  crudeltà;  nondimeno  variò  l'indole  d'entrambe 
variando  nella  scala  delle  pene,  quella  per  le  maggiori  colpe.  Nel 
quarantanove  niuna  sarebbe  incorsa  nella  pena  del  capo  ;  cancellata 
essa  neir86,  ristabilita  nel  90  pei  novatori,  nel  95  estesa  ai  rei  di 

(62)  Nella  riforma  giudiciaria  del  3  agosto  1838. 

(63)  Legge  30  novembre  1786.  Fu  detto  la  consigliassero  il  Beccaria^  il 
Filangieri,  e  il  Condorcet;  ma  non  è  certo. 

(64)  Quella  del  confino  abolita  con  decreto  31  dicembre  1836. 

(65)  30  agosto  1795. 


snriffi  sfouox  b  AinainsTBATnri  75 

Stato,  di  offesa  coscienza  e  d'omicidio,  poi  circoscritta  ai  casi  in  cui 
unanimi  fossero  i  giudici,  stette  fino  al  47  a  minaccia  della  società 
contro  un  solo,  offesa  alla  legge  che  dal  Sinai  bandiva  a  principi 
e  sudditi  il  rispetto  della  vita;  nel  sopradetto  anno  disparve  (66). 
Taluni  editti  sui  furti  violenti  (67),  sulle  bancherotte  (68),  falsità 
di  cambiali  (69),  di  cedole  e  di  moneta  (70),  compievano  la  serie 
delle  leggi  penidi  dello  Stato.  Erano  altrettante  mende  e  aggiunte 
a  quelle  del  secol  scorso;  ciascuna  nascendo  aveva  urtato  le  ante- 
riori. Ai  giudici  stava  il  decidere  i  punti  di  discordia,  interpretare 
grincerti,  supplire  al  silenzio  della  legge.  Bene  spesso  taluna  colpa 
non  avea  pena;  varii  gradi  di  colpe  o  colpe  varie,  punite  da  una 
pena  sola;  tormento  questo  alla  coscienza  del  giudice,  che  bilica 
incerto  fra  le  sue  dita,  come  una  penna,  la  libertà,  se  non  la  vita 
del  reo.  Allora  l'arbitrio  onestato  dalla  consuetudine  era  la  più  si- 
cura guida  dei  magistrati,  solo  lume  a  distinguere  gli  estremi  dei 
delitti,  i  gradi  delle  pene,  e  proporzionar  questi  a  quelli:  lavorio 
invero  mirabile  d'intelletto,  pel  quale  alla  scienza  fu  sostituita  la 
prudenza  de'  giudici  ;  e  fecer  le  veci  del  codice,  i  cento  volumi  in  cui 
raccoglievansi  le  loro  sentenze.  Dubiteranno  i  posteri  che  i  legislatori 
del  mondo,  i  discendenti  de' Paoli  e  degli  Scevola,  fossero  giunti  a 
tale  nel  quarantanove  da  non  aver  leggi  che  bastassero  a  guarentir 
la  giustizia  !  Fortuna  volea  che  specchiata  fosse  la  più  parte  dei  giu- 
dici, miti  i  loro  animi,  quanto  Findole  di  quelle  popolazioni,  e  quanto 
le  informi  e  lacere  leggi  che  governavano  lo  Stato.  Delle  quali  in-^ 
vero  la  più  parte,  anco  pei  delitti  comuni,  splendeano  di  mitezza 
forse  soverchia:  severa  solo  quella  pei  furti  violenti,  sanguinaria 
njssuna:  più  della  legge,  mite  poi  la  pratica  :  dolcezza  che  popolava 
di  ladroncoli  e  di  minori  rei,  lo  Stato. 

XIII.  —  La  sola  legge  che  avesse  ampiezza  di  codice,  era  quella 
del  commercio,  venuta  di  Francia  e  scampata  nel  quattordici,  qui 
come  nella  restante  Italia ,  all'ira  de'retrivi.  Nata  oltralpe  di  geni- 
tori italiani ,  gli  statuti  delle  repubbliche  e  il  consolato  di  mare, 
ragion  volea  rimanesse  fra  noi.  Era  il  solo  codice  del  granducato  : 
avea  meno  aggiunte  e  mende  che  ogni  altra  legge  :  ma  illesa  non 
n'era:  variava  qua  e  là  la  procedura,  dacché  furon  tolti  i  tribunali 
di  commercio:  in  loro  vece  gli  ordinarli:  i  )ion  commercianti  potevano 
firmar  cambiali  e  scampare  al  carcere:  qua  e  là  altre  mutazioni  di 
minor  conto  (71). 

(66)  Decrelo  li  ottobre  1847. 

(67)  Legge  22  giugno  1816. 

(68)  Id.  6  agosto  1827. 

(69)  Id.  2  febbraio  1823. 

(70)  Id.  9  febbraio  1847. 

(71)  Id.  15  novembre  1814. 


W  BITI6TA  0CKTB1IP0BA.KBÀ 

Non  T'era  codiee  pei  militari:  in  tempo  di  pace,  le  leggìi  de*oi- 
vili  pnniTano  le  loro  colpe:  pei.  casi  di  guerra,  una  legge  del  quin- 
dici in  pochi  articoli,  modellati  su  quei  dell* Austria:  da  quelli  ritrae- 
vano è  vero  la  crudeltà,  la  pena  del  bastone,  ed  altre  a  martoriar 
le  carni,  ed  a  sfregio  della  creatura  fatta  ad  immagine  di  Dio:  ma 
ineseguita,  perchè  giammai,  tranne  i  mesi  del  quarantotto  Ai  caso 
di  guerra,  e  anche  in  quelli,  Tenne  scordata,  secondo  Tolea  lo  stil 
toeeano,  di  mollare  in  tutto  che  era  milizia. 

XIV.  —  Non  migliore  delle  leggi,  la  procedura  che  per  taluno 
è  sciensa ,  per  tal  altro  è  ruota  su  cui  ha  da  scorrer  veloce  la 
giustizia.  Non  accolta  in  un  codice,  ma  sparsa  anch'essa  in  più 
leggi;  runa  del  quattordici  (72)  pei  giudizii  civili,  in  cinque  parti, 
mille  centoérentaquattro  articoli,  imitazione  qua  e  là  del  codice  firan- 
cose,  alla  prova  lenta  e  dispendiosa,  da  moltiplicare  quistioni  non 
risolverle,  confondere  i  giudici  non  guidarli.  A  quei  che  diconsi 
giudisii  esecutivi  provvedea  una  legge  del  trentotto  (73):  entrambe, 
quasi  a  rimorchio  traevano  a  sé  un'altra  di  duecento  ottantotto  ar- 
ticoli, e  poi  un'altra  di  seicento  quaranta  di  ugual  anno  (74):  ave- 
vano, fira  le  altre  pecessità  —  che  a  tutto  doveano  provvedere  —  da 
completare  la  prima  *di  quelle  leggi  e  dar  le  norme  per  la  giustizia 
pesale,  alle  cui  forme,  prima  vegliava  il  caso,  se  non  l'arbitrio.  Pregi 
loro,  la  publicità  ne'giudizii;  pluralità  de'giudici  ;  uguaglianza  per 
tutti;  libera  difesa;  individuale  libertà;  molte  guarentigie  all'impu- 
tato innanzi  l'arresto;  altrettante  prima  che  condannato;  la  diacus- 
sioiie  pubblica  a  processo  compiuto;  un  difensore  al  reo;  un  custode 
alla  legge;  il  pubblico  ministero;  ed  altre  cautele  e  guarentigie  della 
reitta  giustizia.  Loro  difetti,  i  giudizii  eternati  dalle  forme  del  pro- 
cesso scritto;  la  confusione  di  questo  con  quello  orale;  la  mancanza 
di  giudici  istruttori;  la  mano  poliziesca  a  raccogliere  le  prime  prove 
a  formulare  le  accuse  innanzi  i  minori  giudici.  Nelle  cause  civili 
poi  erano  principali  difetti  i  seguenti  :  moltiplicità  degli  atti;  grave 
il  dispendio  ;  eternità  di  litigii  ;  quistioni  innumerevoli  di  processo; 
soluzioni  a  capriccio,  contraddette  da  altre.  Avea  la  riforma  del  tren- 
totto tentato  diminuire  i  giudizii  incidentali,  accorciare  i  termini 
probatorii  e  decisivi,  scemare  il  costo  della  giustizia,  sbrigar  gli 
affari.  Nondimeno  bruttissima  parte  delle  leggi  toscane  si  mantenne 
k  procedura,  abbor^aoeiata  in  duemila  e  più  articoli,  non  disposti  a 
codice,  e  di  sovente  fra  loro  alle  prese. 

XV.  —  Siffatta  legislazione  era  ruina  de'litiganti,  salute  de'col- 
pevoli,  mercato  de' curiali,  tormento  de'giudici:  dubbio  se  quistio- 

(72)  Legge  15  novembre  1814. 

(73)  Id.    7  gennaio  1838. 

(74)  Id.    2  agosto,  9  novembre  1838. 


8TUDU  «TOBIGI  S  ÀMMtKISimATIVI  97 

Dando  si  riarette  il. suo:  caso  rincorrer  pena  pari  a  colpa.  Fra  la- 
menti infiniti  mettevanst  in  conto  de'raagistrati  i  vizii  delle  legf*i, 
e  non  sol  da  priyati ,  ma  dal  governo  che  muoveva  loro  addebito 
di  eternare  i  giudiaài ,  e  in  pubbliche  circolari  ne  li  riprendeva. 
Quattro  erano  i  gradi  di  giurisdizione  (75)  :  le  pretare ,  la  prima 
istanza  ne'circondarii,  le  corti. regìe  a  Firenze  e  Lucca,  urna  corte 
di  cassazione  a  Firenze,  indipendenti  dal  poter  civile,  meno  le  pre- 
ture, che  eran  centro  a  potestà  giudiziarie,  poliziesche  ed  ammini- 
strative in  un  tempo.  Il  pubblico  ministero  ovunque  era  collegio  di 
giudici;  non  avea  potestà  esecutiva;  iniziava  i  giudizii  dì  interdizione; 
vegliava  airosservanza  delle  leggi;  le  rivendicava  innanzi  al  tribunal 
sapremo:  accusato  il  reo,  ne  chiedeva  a'  giudici  la  condanna.  I 
pretori  giudicavano  da  soli  in  materia  civile  e  di  trafici  fino  a  hre 
quattrocento,  inappellabilmente  fino  a  settanta:  istruivano  l  processi 
criminali,  sentenziavano  de'lievi  farti  e  deQe  offese:  dannavano  fino 
ad  otto  giorni  di  carcere:  innanzi  ad  essi  fungevano  da  pubblico 
ministero  i  Delegati,  ufSziali  di  polizia.  I  tribunali  di  prisna  istuiza 
composti  di  uno  o  più  turni  collegiali,  giudicavano  le  cause  sdipe* 
riori  alle  facoltà  de'pretori,  e  inappellabilmente  fino  a  lire  ottocento; 
e  più,  dei  delitti  che  si  punivano  con  T  esigilo  dal  compartimento. 
Le  corti  regie  divideansì  in  due  e  più  camere,  ciascuna  di  cinque 
conti^ieri,  pei  litigi  e  pei  reati:  rivedeano  le  sentenze  della  prima 
isrèsttsa  in  materia  civile,  e  sentenziavano  le  colpe  meritevoli  di  pena 
superiore  aU^esiglio.  La  cassazione  accoglieva  i  ricorsi  contro  ]« 
sentente  d'ogni  gtad^  di  giurisdizioBe:  non  ne  sospendea  Tesecu- 
zione:  entr»  quattro  mesi,  termioe  violato  q«asi  sempre,  avea  debito 
pronunciare  sulla  violata  legg^  o  violata  fórma  delie  sentense,  non 
sulla  sostanza:  sovra  i  processi  primitivi,  non  su  nuovi:  respingere 
i  richiami,  o  annulkndo  le  sentenze,  rinviar  le  partì  a  chi  let  avea 
profferite:  rigìudicasse  Tisteseo  tribunale,  non  l'ugual  turno.  Cosi 
cancellava  i  giudizii  della  priina  e  seconda  istanza,  i  voti  di  otto 
giudici,  di  tre  pubblici  Ministeri ,  e  non  era  terza  istanza.  Le  era 
neg&lto  annullare  una  sentenza  ingiusta,  o  confermarne  una  giusta, 
se  imperfetta  era  nella  forma.  La  forma,  al  di  sopra  del  diritto, 
rompoa  l'ordine  logico  de'giuditzii,  rinnegava  la  scuola  itaUc».  Brà 
questo  congegno  giudiziario  un  portato  ddlla  Francia,  meno,  al  so- 
lito, i  ritocchi:  e  meno  il  corpo  delle  leggi  insieme  a  cui  nacque, 
e  che  oltralpe  grimprimeano  il  moto.  E  perciò  rivolgendosi  quel 
meccanesimo  fra  leggi  di  cui  nissuna  età  ritagliata  al  suo  dosse, 
le  squassava  e  lie  frangea:  e  sebbene  di  fina  opera  egli  fesse,  si 
sgangherava  ogni  giorno  più.  Doveano  i  tribunali  adunque  giudi- 

(75)  Legge  2  agosto  1838—9  marzo  18«, 


78  RIVISTA  OONTBHPOBANBA 

care  con  procedure  ora  nuove,  ora  vecchie,  e  più  antiche  di  essi, 
ninna  nata  con  essi:  sopra  leggi  sbocconcellate  da  posteriori,  ninna 
intera:  la  giustizia  dovea  reggersi  sulle  stampelle:  e  la  cassazione 
averla  in  tutela,  vegliate  all'osservanza  di  leggi  non  iscritte,  torre 
a  codice  i  cento  volumi  in  cui  si  compendiava  la  giurisprudenza, 
custodire  la  uniformità  del  disordine. 

XVI.  —  Quest' erano  le  leggi  e  gli  ordini  della  giustizia  nel  gran- 
ducato, airinfuori  di  Lucca.  Nella  quale  essendo  di  fresco  aggiunta, 
né  eransi  conservati  né  mutati  tutti  gli  antichi  ordini  suoi.  Opera 
a  mezzo,  a  spizzico,  come  ogni  cosa  di  quel  governo  e  di  quello 
Stato.  Solo  i  tribunali  uniformi.  Erano  poi  leggi  toscane  da  poco 
promulgate,  quelle  sulla  giurisdizione  ecclesiastica,  procedura,  pa- 
terna potestà,  tutela,  curatela,  interdizione,  emancipazione  sullo  stato 
civile,  sull'ipoteche,  sugli  acquisti  de'stranieri,  de'luoghi  pii,  sui 
testamenti  e  fidecommissi  (76).  E  in  pari  tempo  mantenevansi  il  co- 
dice civile,  quel  di  commercio,  e  tutte  le  altre  leggi  lucchesi  dal 
quattordici  in  poi,  per  ciò  che  non  contraddicessero  a  quelle  di  sopra 
enunciate.  Ora  non  è  a  dire  se  in  siffatto  campo  pascolassero  i 
torcileggi,  e  si  accapigliassero  i  giudici:  bene  oravi  di  che  nutrire 
le  incertezze,  gli  arbitrii  degli  uni,  i  cavilli  degli  altri.  In  materia 
criminale  poi,  abolito  il  codice  e  ogni  altra  legge  del  piccol  ducato, 
imperavano  le  toscane  dell'SG,  del  95  e  il  codazzo  delle  mende  e 
delle  aggiunte.  Tantoché  nel  granducato,  correndo  l'anno  quaranta- 
nove,  in  materia  civile  e  commerciale  erano  due  legislazioni. 

XYII.  —  Dirò  qui  della  giustizia  amministrativa.  Fra  gli  ordini 
imperfetti  dello  Stato,  era  un  conforto,  che  tutti  fossero  uguali  in- 
nanzi ai  giudici:  ninno  avesse  privilegio  di  foro,  meno  i  militari,  le 
cui  colpe  giudicavano  i  superiori;  solo  le  cause  spirituali  fossero  ri- 
serbate ai  vescovi:  nemmeno  i  commercianti  convenissero  in  un  foro 
proprio:  e  l'amministrazione  dello  Stato  fosse  tratta  innanzi  ai  tribu- 
nali ordinarli,  a  guisa  di  privato.  Epperciò  oravi  la  regia  Avvoca- 
tura (77),  la  quale  innanzi  ad  essi,  difendea  le  ragioni  del  fisco, 
delle  regalie,  e  il  patrimonio  del  principe.  La  legge  raccomandava 
ai  giudici  di  sentenziare,  non  in  guisa  che  i  diritti  del  fisco  preva- 
lessero a  que'dei  privati,  ma  secondo  la  buona  ragione.  Avea  poi 
l'avvocato  regio  quest'altri  uflicii  :  dirigere  i  negozii  de'trattati  e 
quelli  delle  reali  possessioni,  presiedere  agli  archivi ,  custodir  l'ar- 
madio di  ferro,  il  libro  d'oro,  vegliare  ai  titoli  di  nobiltà,  ai  dritti 
di  cittadinanza,  alle  naturalità,  adozioni,  legittimazioni.  Ora  per  le 
ragioni  onde  l'amministrazione  non  avea  privilegio  alcuno  di  foro, 

(76)  Leggi  12  dicembre  1847  —  26  febbraio  1848. 

(77)  Istituita  eoa  Decreto  27  maggio  1777. 


STUDU  6T0BICI  B  AMMIMiaTftATtyi  79 

cosi  nemmeno  esercitaya  giurisdizione  contenziosa,  all'infuori  di  po- 
che e  rade  eccezioni.  Le  quali  erano  queste.  In  Grosseto  una  Com- 
missione giudicava  le  cause  di  affrancazione  e  ogni  altra  a  cui  desse 
luogo  il  sistema  economico,  col  quale  da  molti  anni  tentavasi  resti* 
tuire  a  cultura  la  maremma.  Le  controversie  sugli  appalti  erano 
conosciute  dal  consiglio  degllngegneri  a  ciò  costituito  in  tribunale 
amministrativo ,  in  numero  di  tre ,  più  il  presidente  e  un  assessore 
legale.  Ogni  altra  controversia,  in  cui  entrassero  le  ragioni  dei  terzi, 
conoscevasi  dai  giudici  .ordìnarii.  Quelle  poi  fra  le  amministraeioni, 
venivano  risolute  dall'arbitrio  dei  capi-aziende,  regola  il  caso,  uni- 
formità di  decisioni  nissuna.  E  poiché  innumerabili  erano  le  leggi, 
e  le  istruzioni  e  le  mende  e  le  aggiunte  di  ciascuna  di  esse ,  e  fre- 
quenti  le  incertezze,  i  dubbii,  i  conflitti  fra  uno  ed  altro  ufficio  :  e 
niun  istituto  eravi  con  potestà  di  risolverli,  vegliare  all'osservanza 
delle  regole,  alla  perpetuità  delle  massime,  custodire  la  giurispru- 
denza amministrativa;  cosi  le  decisioni  variavano  di  giorno  in  giorno, 
e  l'amministrazione  errava  nel  caos.  Il  che  riusciva  tanto  più  dan- 
nevole  in  fatto  di  contabilità:  nella  quale  fra  montagne  di  leggi, 
istruzioni  e  regole,  le  dubbiezze  sorgono  a  ogni  passo,  e  l'ordine  è 
l'unico  lume  a  leggere  nella  selva  de'numeri,  bilanciare  le  ragioni, 
armonizzare  le  aziende.  Ad  una  camera  de' conti,  la  quale  non  manca 
mai  in  ogni  bene  ordinata  amministrazione,  tentava  supplire  un  uf- 
ficio detto  delle  Revisioni,  antiquato,  arruffacifre,  impotente  ad  ogni 
cosa  utile  e  composta.  E  dove  ancor  quello  non  giungea,  valea  tant'oro 
di  zecca,  l'arbitrio  o  il  capriccio  dei  capi-ufficio. 

XYIII.  —  Ma  se  nella  giustizia  amministrativa  era  difetto  la 
mancanza  di  giudici,  nella  economica  lo  era  lo  averne  troppi.  Primo 
anello  fra  il  poter  civile  e  la  giustizia  erano  i  pretori,  i  quali  per 
runa  conoscevano  delle  lievi  cause  e  ofifese,  e  per  l'altro  mestavan 
dentro  alla  polizia,  neluoghi  ove  non  fossero  i  suoi  delegati  (78). 
Ed  ancor  questi  dipendeano  dai  due  ministeri  dell'interno  e  della 
giustizia,  avendo  uffici  dall'uno  e  dall'altro  e  molti  in  comune  fra 
loro.  Di  questa  guisa  si  dicevano  funzionarii  di  polizia  quei  della 
giustizia,  e  della  giustizia  quei  di  polizia.  Ma  se  i  primi  si  impa- 
niavano negli  uffici  dei  secondi,  rimettendo  cosi  della  indipendenza 
e  nobiltà  loro,  i  secondi  rivaleggiavano  coi  primi,  ed  alcuna  volta 
gli  andavano  innanzi.  Lungi  dunque  dal  patir  confronto  co'pretori 
erano  rivali  del  pubblico  ministero  di  cui  facevano  gli  uffizii  innanzi 
ai  pretori,  e  riteneano  le  più  importanti  attribuzioni  nello  scuoprire 
i  delitti  e  raccogliere  le  prime  prove.  Poi  anch'essi  eran  giudici, 
manipolando  una  giustizia  tutta  loro  e  invereconda. 

(78)  Legge  9  marzo  1848. 


80  mtlBf  A  CONTBHPO^tAKBA 

Quattro  delegati  ettno  in  Fitenze,  tre  in  Liromo,  quindici  iu 
tutta  Toscana,  distinti  in  tré  classi.  Avevano  sotto  di  essi  carabi- 
nieri, «  bargelli,  e  birri  sopravvivuti  alla  legge  che  li  rimandò,  i 
quali  e  per  conto  loro,  tanto  li  spingeva  il  costume,  e  per  conto 
dei  delegati  spiavano  pensieri,  parole,  gesti  ed  ommissioni.  Questi 
erano  i  principali  istrumenti  di  quella  giustizia  che  dicevasi  econo- 
mica, e  noi  diremo  più  sotto  il  perchè.  Quale  fosse ,  quale  origine 
si  avesse,  ninno  potea  saperlo  di  preciso  (79)  :  erasi  rannicchiata 
nei  due  anni  delle  riforme,  ora  affaccendavasi  all'ombra  degli  Àu* 
striad  :  allora  strinse ,  adesso  allargava  gli  artigli  ed  il  cuore. 
Era  sopravvissuta  alle  leggi  che  l'avevano  bandita  ;  non  aveva 
perciò  avuto  d'uopo  rmascere.  Non  avea  codice,  né  legge  o  ragion 
di  vivere,  ma  vivea.  Vivea  ex  lege,  per  il  mal  abito  de'poliziotti, 
le  tradizioni  del  luogo,  le  rovine  degli  ordini  liberi,  le  paure  dei 
retrivi,  la  impunità  guarentitale  dalla  presenza  degli  Austriaci:  vivea 
pei  suoi  ministri,  ribattezzati  è  vero  nel  48,  ma  lasciati  ai  loro 
posti,  con  facoltà  non  circoscritte  nemmen  dalla  legge  che  gli  mutò 
nome  (80):  poteano  dunque  allargarsi  fin  dove  era  suolo  toscano  e 
darvi  dentro  per  ogni  via  e  verso,  fin  nel  santuario  delle  coscienze. 
Dalla  giustizia  ordinaria  differita  la  economica  nell'oggetto,  nella 
fon&a  dei  giudizii,  nelle  pene,  n-elta  indole  de'suoi  ministri  (81).  Ed 
invero,  conoscevano  di  flatti,  non  definiti  per  legg«,  ma  vaghi,  di 
mero  sospetta  o  voglia:  procedura  ignota,  guarentigia  all'accusato 
noesuaa:  pene  a  capriccio:  giudici  che  erano  agenti  prezzolati  dal 
poter  civile,  dal  quale  nemmeno  aveano  l'autorità  di  cui  usavano: 
prendevansela.  Ciò  che  a  giudici  ordinarii  era  negato,  arresttere  senza 
prove  di  reità,  dannare  in  segreto  a  pene  non  iscritte,  offendere 
gl'imputati,  erano  i  minori  degli  arbitrii  per  cui  andava  odiafta  la 
giustizia  economica. 

(79)  Neri  Corsini,  fin  dal  9  maggio  1831,  in  un  Rapporto  al  Grantluca 
(V.  Zobi  Docum,  ufficiali ^  t.  I,  p.  187),  aveva  scritto  queste  notevoli  pa- 
role: «  Dovendo  qui  parlare  delle  facoltà  e  poteri  del  Buongoverno  (Po- 
lizia) occorre  di  rimarcare,  che  queste  facoltà  sarebbero  limitatissime 
secondo  Tart.  56  della  legge  30  novembre  1786 le  cangiate  cir- 
costanze de' tempi,  hanno  poi  costretto  ad  ampliare  in  fatto  quelle  attri- 
buzioni e  senza  che  siano  emanate  nuove  leggi  o  istruzioni,  il  Governo  ha 
annuito,  ecc.,  ecc.  » 

Il  ministro  Cempini  scriveva  a  di  20  agosto  1832  al  collega  Corsini: 
«  non  si  conosce  la  legge  che  riveste  il  Buongoverno  di  facoltà  tanto 
estese  i*  ;  e  più  sotto  lamentava  «  l'inconveniente  di  non  esserci,  almeno  in 
atto  pratico  un  mezzo  efficace  di  reclamo  contro  le  risoluzioni  economi- 
che ».  Venne  allora  pubblicata  la  legge  13  settembre  1832,  che  poco  o  nulla 
definiva;  all'arbitrio  restò  la  forza  di  prima. 

(80)  Legge  9  marzo  1848. 

(81)  Galeotti,  Delle  Leggi  e  dell' Amministrazionr  della  Toscana,  1847. 


STUDI!  8T0BICI  E  AMMINISTRATIVI  81 

fiiassumerò  le  potestà  della  polizia,  recando  la  definizione  che 
di  essa  davasi  nelle  scuole,  e  che  ù  scritta  nel  repertorio  del  dritto 
patrio,  al  titolo  Polizia  vigilante.  La  quale  suonava  così:  è  scienza: 
è  parte  del  dritto  criminale:  ha  per  iscopo  tener  lungi  dalla  società 
le  offese,  dagli  animi  lo  stimolo:  è  economica  quaudo  previene  le 
male  tentazioni,  aiutando  la  diffusione  de'mezzi  di  vivere:  è  didat- 
tica vegliando  alla  istruzione  della  mente  e  del  cuore:  è  vigilante 
lorchò  allontana  le  cagioni  delle  offese,  e  del  disordine,  anche  prima 
che  scoppiano:  perciò  ha  d'occhio  gli  oziosi:  la  vigilante  dicesi  poi 
antigiudiziaria  se  limitasi  a  rimuovere  quelle  cagioni,  giudiziaria 
se  castiga  paternamente  i  traviati:  la  giudiciaria  è  correzionale  se 
si  dispiega  sopra  immoralità,  è  semplice  se  sopra  azioni  oneste  ma 
pericolose,  come  il  porto  d'armi. 

Così  sollevata  al  fastigio  di  scienza,  destro  era  chi  riuscisse  sca- 
polar da  tante  reti  ch'ella  distendea  in  virtù  di  quelle  tante  potestà 
e  appellazioni  di  didattica  economica,  vigilante,  antigiudiciaria,  pu- 
nitrice,  correzionale,  semplice,  censoria,  edilizia,  sanitaria,  munici- 
pale. E  perciò  gli  agenti  suoi  erano  arghi  a  cent'occhi,  centimani 
a  frugar  ne'luoghi  più  riposti.  Dal  cane  vagolante  al  cittadino  che 
paga  l'èstimo,  non  v'era  termine  all'imperio  loro.  Vero  è  che  la 
civiltà  del  sito  li  aveva  sdentati  e  disartigliati,  prima  che  in  età 
fossero  di  straziare  e  mordere.  Nondimeno  ora  per  la  memoria  dei 
giorni  a  loro  nefasti,  alla  libertà  benigni,  ed  ora  per  la  voglia  di 
aggraduirsi  gli  Austriaci,  vendicarsi  delle  facoltà  perdute  col  meri- 
tarne delle  maggiori,  taluna  volta  si  provavano  ad  apparire  feroci: 
ma  quelli  non  eran  visi  da  tigre;  onde  non  riuscivano  altro  che  più 
del  solito  vili  e  molesti.  Sapeano  di  poter  correre  a  parole,  ad  ar- 
bitrii, assicurandoli  il  mite  animo  dei  molestati:  nò  invero  fu  mai 
esempio  di  testa  di  delegato  mozza  da  un  Ghino  di  Tacco.  E  perciò 
punivano  fino  un  mal  sguardo,  un  gesto,  un  sospetto,  a  questa 
maniera  :  strappavano  taluno  ai  cari  proprii  :  lo  traevano  al  carcere  :  là 
stava  rinchiuso  un  pezzetto:  poi  lo  si  rimandava:  il  giudizio  era 
compiuto  :  la  pena  scontata.  Ma  il  più  di  sovente  la  procedura  era 
anche  più  economica:  chiamavasi  il  reo:  ben  bene  lo  si  ammoniva; 
con  gli  ammonimenti,  buona  copia  d'ingiurie:  poi  lo  si  licenziava. 
Lo  scilinguagnolo  de'Toscani  in  bocca  al  delegato,  vero  rigagnolo 
di  contumelie  e  di  immondizie.  Guai  a  chi  ardisse  tener  testa  alle 
parole:  poteansi  mutare  in  funi  e  attortigliarsi  ai  polsi  dell'incauto. 
Fin  qui  tormentavano  a  capriccio  :  verrebbe  il  giorno  in  cui  la  potestà 
di  tormentare  avrebbono  i  delegati  da  una  legge. 

XIX.  —  Vengo  omai  all'amministrazione  civile,  incominciando 
da  quella  che  dal  ministero  dell'interno  suole  dipendere.  Era  lo 
Rivista  C  —  6 


82  RIVISTA  CONTBMPORANBA 

stato  divìso  in  compartimenti,  circondarii,  distretti  e  comunità  (82): 
le  prime  due  partizioni,  governative:  le  seconde  amministrative.  A 
capo  del  compartimento  stava  un  prefetto,  del  circondario  un  sotto- 
prefetto, del  distretto  un  ministro  del  censo:  dei  comuni  un  gonfa- 
loniere. 

B  poiché  il  comune  è  tanta  parte,  anzi  il  sostegno  deiredificio, 
varrà  che  io  ne  discorra  un  po'  da  alto,  e  a  lungo,  gli  ordini  suoi. 
Reggevansi  le  comunità  senza  codice,  con  leggi  antiche,  varie  da 
città  a  campagna,  via  via  lungo  gli  anni  offese  da  posteriori  ;  con 
lacune  mai  colmate,  altre  apertesi  nelle  mutazioni  del  governo, 
screpolature  per  ogni  dove:  mostre  di  largo  vivere,  e  sommissione 
a  quanti  erano  gli  stipendiati  dello  Stato:  lo  Stato  non  tutore  ma 
arbitro  dei  comuni:  gravi  i  carichi,  mal  ripartiti,  peggio  ammini- 
strati, testimonio  il  deficit:  non  votati  da  chi  vi  contribuiva:  dalle 
magistrature  banditi  gl'ingegni  che  non  avessero  censo:  magistrati 
senz'uffici:  gli  uffici  alle  mani  di  intrusi:  gli  ordini  del  comune, 
conquassati:  qua  e  là  le  ruote  sue  infrante:  fermo  il  moto:  il  comune 
alla  mercè  del  governo. 

Guai  erano  questi  di  antica  origine:  ne'secoli  andati,  quanti  erano 
comunelli,  altrettanti  gli  Stati  liberi,  retti  da  statuti,  di  età  antichis- 
sima, Tuno  a  rovescio  dell'altro,  secondochè  erano  di  comuni  rurali 
o  urbani,  prossimi  o  lontani  a  feudi:  la  feudalità  li  oppresse:  le 
repubbliche  ne  disfecero  una  parte:  i  Medici  il  resto;  Leopoldo  I  li 
ravvivò  sulle  ruìne  de'feudi:  diede  loro  balìa  di  se  stessi;  poi  in 
parte  la  ritolse:  Ferdinando  III  serbò  le  apparenze  di  libertà,  tolse 
tutta  la  sostanza  (83).  Nel  quarantanove,  nonostante  le  seguite  vi- 
cende, eran  sempre  i  comuni  tal  quale  furono  dal  1816. 

Coglierò  da  leggi  e  regole  infinite  (84),  monche,  contraddittorie, 
le  potestà  e  gli  ordini  loro.  I  quali  erano  questi:  il  magistrato  dei 
priori  e  il  consiglio  dei  deputati  del  popolo:  così  li  chiama  la  legge 

(82)  Decreto  9  marzo  1848. 

(83)  Legge  16  settembre  1816. 

(84)  27  dicembre  1769  --  12  maggio,  27  settembre,  7  dicembre  1772  — 
13  febbraio ,  22  dicembre  1773  —  23  maggio,  23  settembre,  29  settembre, 
2  ottobre  1774  —  10  aprile,  17  luglio,  25  febbraio  1775  —  25  gennaio,  13 
febbraio,  3,  17,  23  giugno,  17  luglio  1776  -  2  giugno,  24  novembre  1777  — 

11  aprile,  30  giugno,  7  luglio,  7  dicembre  1778  —  20,  24  aprile,  16  novem- 
bre 1779  —  20  novembre  1781  —  26  novembre  1783  —  26  giugno,  17  set- 
tembre 1784— 22  maggio  1785  —  23  gennaio,  22  maggio  1786  — 28  luglio 
1787  —  29  aprile.  3  luglio  1788  ~«  20  aprile,  28  ottobre  1789  —  25  giugno, 
6  luglio  1791  —15  giugno,  18  novembre  1798  —  2  maggio  1805—27  giugno, 

12  settembre  1814  —  4  febbraio  1815  —  16  settembre  1816—20  gennaio 
1817  —  6  aprile  1818  —  7  gennaio,  13  settembre  1819  —  27  gennaio  1820  — 
15,  30  aprile ,  18  ottobre  1822  —  22  marzo ,  11  settembre  1827.  —  E  circo- 
lari, biglietti,  istruzioni  senza  numero. 


STUDII  STORICI  B  AMMINISTRATIYI  83 

del  secol  scorso.  Il  numero  degli  uni  e  degli  altri  vario  secondo  il 
luogo.  A  capo  de'priori  il  gonfaloniere:  lo  eleggeva  il  principe: 
stava  in  carica  tre  anni  (85):  i  priori  due:  anch'essi  eletti  dal  prin- 
cipe, sopra  un  numero  doppio  del  bisognevole,  estratto  a  sorte  fra 
i  contribuenti  del  comune  (86)  :  il  giudizio  del  principe,  qui  come 
pel  gonfaloniere,  rischiarato  dalle  informazioni  della  polizia.  I  de- 
putati del  popolo,  come  i  priori,  estratti  a  sorte,  ma  vari  i  requi- 
siti che  agli  uni  e  agli  altri  si  domandavano  :  le  regole  della  im- 
Mrsazione ,  il  censo  e  la  condizione  degl'imborsati ,  variavano  da 
comune  urbano  a  rurale  :  negli  urbani  (in  numero  di  quattordici)  i 
possidenti  erano  distinti  in  tre  borse,  de'patrizi,  de' cittadini,  e  dei 
campagnuoli  che  pagassero  almeno  due  fiorini  di  imposta  :  nei 
rurali,  non  guardavasi  al  censo,  ma  alla  condizione  di  padre  fami- 
glia. Una  borsa  conteneva  i  nomi  di  tutti  quelli  ch'erano  possidenti  ; 
un'altra,  dei  coloni  ed  artigiani  (87).  In  ogni  comune,  esclusi  i 
commercianti  e  gli  scienziati:  ne' Comuni  urbani  anche  gli  artigiani 
e  i  coloni  :  ma  in  nessun  luogo  quelli  che  operano  con  l'ingegno 
erano  preferiti  ai  braccianti.  Fra  tante  difformità  questo  pregio,  che 
gli  ebrei  ed  i  scismatici  fossero  a  pari  de'cattolici.  Ma  maggiore  di 
quel  pregio  era  questo  vizio,  che  i  possidenti  campagnuoli,  sover- 
chiando quei  di  città,  causa  la  pochezza  del  censo,  ogni  ufficio  era 
loro,  e  gli  ordini  del  comune,  alle  mani  di  quei  che  meno  inten- 
dono: né  la  sorte  potea  essere  piO  illuminata  dalla  legge. 

Ora  delle  potestà:  mal  definite  ab  antico:  peggio  quando  altre 
leggi  vi  recarono  mutamenti  ;  incertissime  poi  lorchè  molte  attri- 
buzioni dal  consiglio  scesero  al  magistrato ,  e  da  questo  al  gon- 
faloniere. Rarissime  volte  rìunivansi  i  consigli;  e  quelle  poche 
erano  le  facoltà  loro  ridotte  a  confermare  o  eleggere  i  medici,  gli 
impiegati  del  comime,  stabilirne  le  provvisioni ,  aprire  o  chiudere 
strade,  scegliere  chi  ripartisse  la  tassa  di  famiglia,  e  quella  degli 
artieri,  ne'luoghi  ov'era,  votar  le  spese  pel  mantenimento  de'ponti, 
degli  alvei,  delle  strade,  ed  altre  minori  facoltà.  Le  entrate  e  spese 
che  dicevansi  ordinarie  (88),  in  piena  balìa  del  consiglio,  esecutorie 
appena  votate,  senza  uopo  di  altra*  approvazione.  Ogni  spesa  però 
straordinaria,  rigorosamente  vietata:  doveasi  richiederne  l'assenso 
incominciando  dall'autorità  più  vicina,  fino  al  culmine  della  ge- 
rarchia, il  ministro.  Ma  poiché  indefiniti  erano  i  rapporti  delle  rap- 
presentanze comunali  cogli  ufficiali  del  governo,  e  la  ingerenza  loro 
nei  negozii  del  comune,  non  era  limitata  da  alcuna  legge,  cosi  av- 

(83)  Decreto  4  febbraio  1815. 

(86)  Id.      16  settembre  1816. 

(87)  Id.      23  marzo  1774. 

(88)  Id.      30  novembre  1781. 


84  RIVISTA  CONTEMPORANEA 

veniva  che  essi ,  dal  primo  rilP ultimo  erano  altrettanti  tutori  del 
municipio,  per  fin  l'ingegnere  dell'acque  e  strade. 

Come  poi  il  consiglio  avea  nome,  non  balia  di  legislatore,  cosi 
il  magistrato  potea  dirsi  ombra  senza  corpo:  o  corpo  senz  ufficio  : 
perchè  ogni  potestà  era  in  man  dei  gonfalonieri ,  i  quali  meglio 
che  rappresentanti  del  comune ,  erano  agenti  del  governo  e  degli 
infimi  della  gerarchia:  come  tali,  a  quando  a  quando  rimbrottati, 
intimiditi  (89).  Aveano  talune  facoltà  di  buon  governo,  tale  altra 
di  governo  civile,  obbligo  di  ragguagliare  l'autorità  ogni  sei  mesi, 
non  sui  voti  ma  sui  portamenti  del  comune:  esercitava  la  polizia 
municipale,  ed  altri  uffizii,  tanto  da  confonderlo  fra  gl'impiegati,  e 
averlo  sottoposto  ad  ogni  ordine  di  funzionarii,  fino  a  quello  dei  de- 
legati di  polizia. 

Le  quali  potestà  e  attribuzioni  dei  gonfalonieri  erano  accre- 
sciute ,  accorciate ,  contraddette  da  circolari  ,  editti  senza  numero. 
Della  docilità  loro  ai  funzionarii  del  governo ,  ricattavansi  impe- 
rando sul  magistrato  e  sul  consiglio,  od  usurpandone  le  atttribu- 
zioni  :  avvegnaché  quanta  autorità  era  lasciata  al  comune ,  altret- 
tanta avessero  eglino  chiusa  nel  loro  pugno.  E  così  poteano  dirsi 
arbitri  dell'entrate  e  de'  beni  comunali ,  regolatori  supremi  delle 
spese  :  i  conti  davano  tardi  o  mai:  onde  l' amministrazione  ora 
alla  peggio  :  la  piccolezza  di  taluna  comunità ,  causa  prima  delle 
sue  tribolazioni  :  altre  erano  popolose  ma  fallite  :  di  ricche,  nessuna  : 
le  spese  d'amministrazione  qui  toglieano  un  quarto,  là  metà  delle 
entrate.  Queste  superavano  per  tutti  i  comuni  della  Toscana  i  tre- 
dici milioni:  nascevano  dalla  prediale  per  sei,  e  da  altre  gravezze 
né  generali,  né  uniformi,  come  quelle  pel  mantenimento  de'  corsi 
d'acqua,  e  le  decime:  un  decimo  e  più  nasceva  da  beni,  proprietà 
antiche,  di  cui  i  comuni  non  serbavano  omai  che  il  dominio  diretto  : 
la  proprietà  era  nei  privati.  I  debiti. de' comuni  superavano  i  trenta 
milioni;  e  s'accrescevano  ogni  anno.  Compilavano  i  comuni  il  loro 
bilancio  sulle  cifre  date  dal  gonfaloniere,  lo  rivedea  lentamente  l'uf- 
ficio de'sindacati;  l'indugio  togliea  ogni  virtù  alla  revisione:  ripar- 
tivano da  sé  le  imposte:  le  riscuotevano  i  ^ camarlinghi,  specie  di 
servi  a  due  padroni,  il  comune  e  Io  Stato. 

Ninna  indipendenza  era  dunque  negli  ordini  municipali:  dignità 
nessuna  in  chi  vi  avea  parte,  colpa  la  sorte,  che   scegliendo   fra   i 

(89)  Circolare  del  presidente  del  Buon  Governo,  18  seti.  1815.  —  »  A 
questo  essenziale  dovere  (dei  rapporti  semestrali)  non  venendo  corrisposto 
dalla  maggior  parte  dei  Gonfalonieri  destinati  dalla  legge  ad  essere  miei 
efficaci  cooperatori  nella  più  delicata  ed  interessante  parte  di  pubblico 
servizio,  mi  trovo  nella  necessità  di  richiamare  alla  memoria  dei  Gonfa- 
lonieri le  disposizioni  delTart.  11  delle  Istruzioni  20  gennaio  1817,  onde 
vogliano  farsi  carico  di  xiniformarsi  esattamente  ai  sovrani  comandi. 


STUDii  Storici  e  amministrativi  85 

più  coglieva  gV inetti,  spesso  illetterati,  alla  mercè  poi  di  un  furbo 
che  la  sorte  avesse  pescato  nel  fondo  delle  borse  e  lanciato  a  pe- 
scare nel  consiglio  o  nel  magistrato.  Severi  ordini,  non  leggi,  vie- 
tavano ai  comuni  il  metter  voce,  in  quel  che  strettamente  non  si 
riferisse  alla  economia  loro  (90):  le  deliberazioni  cassate,  mutilate 
ad  ogni  pie*  sospinto,  alle  magistrature  tolta  ogni  forza,  fino  nell'am- 
bito in  cui  più  ne  aveano  di  mestieri:  e  perciò  le  cariche  erano 
tenute  in  nessun  conto  e  i  migliori  cittadini  schifavano  onestarle 
del  loro  nome,  averne  i  titoli,  non  le  potestà.  La  indifferenza  ad  aiu- 
tare la  vita  del  municipio  era  tanta,  che  ben  di#  sovente  or  questo 
or  quello  ritrovavasi  senz'amministratori:  tali  divenivano  allora  gli 
agenti  del  governo.  Ed  a  siffatta  conseguenza  li  traeva  egli,  non  giu- 
dicando i  municipii  base  e  sostegno  della  piramide  sociale,  e  perciò 
disfacendone  la  vita.  Le  forze  loro  assorbiva  e  struggeva  nello  Stato; 
lo  Stato,  centro  d'ogni  ordine,  senza  pregio  nemmeno  di  unità,  cosi 
era  tutto,  il  comune  nulla:  o  tutt'al  più  macchina  buona  a  spremer 
sangue,  cioè  denaro,  per  sé  e  per  lo  Stato:  cosi  né  le  proprie  entrate 
né  gl'impiegati  suoi  gli  apparteneano:  il  governo,  estorceva  o  to- 
glieva a  prestito. le  prime,  sfruttava  l'opera  de' secondi,  testimoni  i 
camerlinghi.  Fino  al  quarantotto  i  comuni  vissero  di  vita  ignorata 
fin  dai  contribuenti,  e  dipesero  dal  ministero  della  finanza:  da  un 
annoerai  in  tutela  di  quel  dell'interno  (91).  Veniva  promessa  poi  una 
legge,  la  quale  dovea  definire  i  limiti  della  tutela,  i  dritti  di  quei 
singolari  pupilli,  i  comuni,  un  di  repubbliche  libere:  indicare  le 
autorità  tutorie:  sostituire  alla  sorte  il  voto  degl'illuminati:  disfare 
la  scarmigliata  orditura  degli  ordini  comunali.  A  suo  luogo  misu- 
reremo le  promesse  ai  fatti. 

XX.  —  Il  distretto  era  un  aggregato  di  più  comuni  :  talvolta  com- 
poneasi  di  un  solo  :  avea  a  capo  un  ministro  del  censo  :  lo  nominava 
il  principe  :  questi  i  suoi  uffici  :  custodire  i  libri  e  documenti  cen- 
suarii,  eseguire  le  operazioni  risguardanti  i  passaggi  delle  proprietà, 
compilar  le  liste  dei  contribuenti  alla  prediale,  degli  elettori  e  degli 
eligibili  ài  Parlamento.  Avea  seco  un  Aiuto  con  cui  dividea  il  la- 
voro. Né  altra  importanza  amministrativa  ebbe  mai  il  distretto:  nes- 
suna poi  politica. 

XXI.  —  Dal  distretto  allo  Stato  non  eranvi  che  divisioni  gover- 
native, nissuna  amministrativa.  Le  quali  eran  le  seguenti:  undici 
circondarii,  otto  compartimenti  :  ciò  che  il  prefetto  era  agli  uni,  il 

(90)  Circolare  14  agosto  1815  incaricava  i  Cancellieri  di  —  Annunziare 
alle  magistrature  ,  che  il  Governo  vuole  che  si  astengano  dal  deliberare 
sopra  oggetti  non  re  feribili  strettamente  alla  loro  economica  amministrazione. 
—  Cosi  il  Comune,  come  ente  morale,  era  spento. 

(91)  Decreto  9  marzo  1848. 


86  RIVISTA  CONTBHPOBANBA 

vice  prefetto  era  agli  altri  :  quello  dipendea  dal  ministro  deirinterno, 
questo  dal  ministro  e  dal  prefetto.  Ninna  legge  diceva  i  termini  della 
dipendenza  loro,  ninna  definiva  quelli  della  vigilanza  sulle  autorità 
subalterne,  le  relazioni  dei  capi  politici  coi  polizieschi,  coi  giudiziari], 
con  le  rappresentanze  dei  comuni  :  la  legge  che  istituiva  gli  uffici, 
dette  loro  nomi  nuovi,  tacque  delle  potestà,  meno  di  quella  de' pre- 
fetti sopra  i  pretori  e  delegati,  in  quanto  esercitassero  attribuzioni 
di  polizia  amministrativa:  l'uso  faceva  che,  funzionarti  di  ordine  e 
grado  diverso  esercitassero  uffici  uguali  :  dei  conflitti  che  ne  nasce- 
vano, giudicava  il  tempo  :  chi  più  tirava,  quei  la  vinceva.  Non  molti 
gli  impiegati  di  segreteria  in  ciascun  circondario  e  compartimento  : 
due  consiglieri  allato  dei  prefetti  :  le  attribuzioni  loro  le  avrebbe 
meglio  definite  una  nuova  legge  :  cosi  diceva  quella  che  istituiva 
que' posti  (92). 

Se  il  comune  avea  vita  di  tisico,  una  rappresentanza  serva,  il 
circondario  non  ne  avea  alcuna,  il  compartimento  nemmeno,  all' in- 
fuori di  un  Consiglio  per  quanto  concerneva  strade,  acque,  benefi- 
cenza e  sanità  (93);  e  nulla  più.  Nel  concetto  de' governanti  toscani, 
altre  necessità  provinciali  non  aveano  da  esistere,. o  ninno  rappre- 
sentarle, esserne  l'interprete  :  attendessero  che  il  governo  se  ne  ac- 
corgesse da  sé.  Cosi  mancava,  ciò  che  da  lunghi  anni  aveano  altri 
Stati  d'Italia,  le  rappresentanze  provinciali;  onde  gli  interessi  del 
circondario  o  della  provincia  erano  alla  discrezione  del  governo,  non 
degli  interessati.  Queste  cose  erano  lafnentate  da  tutti;  e  ninno  vi 
avea  provveduto  quando  n'era  il  tempo,  prima  che  seguissero  i  disastri 
e  la  invasione  degli  Austriaci.  Che  anzi  nacque  questo  caso,  il  quale 
io  reco  perchè  la  tristezza  di  queste  pagine  si  rompa  in  un  riso: 
cosi  fosse  dato  ridere  sempre  della  povertà  nostra,  ogni  volta  che 
gli  antichi  guai  della  patria  turbano  l'anima.  Composta  nel  quaran- 
tasette  una  Commissione  di  venti,  a  gettare  le  basi  di  nuovi  ordini 
municipali  e  provinciali,  si  disciolse  appena  udì  concesso  lo  Statuto  : 
quasi  che  con  lo  Statuto  sparissero  le  necessità  dei  municipi!  e  delle 
Provincie,  o  le  rappresentanze  loro  avessero  a  fondersi  in  quella  dello 
Stato  :  sicché  dopo  che  ebbero,  lungo  due  mesi,  assordato  senza  frutto 
la  sala  di  Luca  Giordano  ove  si  riunivano,  udironsi  per  bocca  del  loro 
presidente,  queste  parole  :  gli  studii  e  la  missione  loro,  e  le  speranze  in 
loro  riposte,  ornai  prive  di  scopo  :  le  conferenze  tenute,  averli  dimo- 
strati atti  a  discutere  ben  altri  interessi  che  non  i  municipali  o  com- 
partimentali :  la  sala  dei  Cinquecento  li  attendeva:  vi  corressero. 
Questi  legislatori  ebbe  in  quei  tempi  la  Toscana. 


(92)  Decreto  9  marzo  1848. 

(93)  Idem. 


I 
STUDII  STORICI  E  AMMINISTEATIVI  87 

XXII.  —  Ebbe  cosi  lo  Stato  un  Parlamento,  prima  che  il  comune 
e  la  provincia  ottenessero  una  libera  rappresentanza,  onde  la  pira- 
mide iircominciata  dal  culmine,  non  avea  altri  ordini  che  la  reg- 
gessero, non  la  naturai  sua  base,  il  municipio:  stava  da  sola,  fra 
ordini  d'ogni  tempo,  indole  e  colore,  principio  di  un  ordine  nuovo 
non  addentellato  al  vecchio;  e  le  masse  che  vivono  ad  intervalli 
della  vita  politica  ed  ogni  giorno  della  vita  municipale,  doveano 
rinunciare  a  questa  per  quella,  finché  poi  rimanessero  prive  d'en- 
trambe. Lo  Statuto  quasi  conscio  di  non  poter  vivere  da  solo  fra  ordini 
cosi  diversi,  promettea  esser  seguito  da  queste  leggi,  invano  attese 
poi,  che  tutte  assieme  doveano  compier  Topera  e  rifare  a  nuovo  lo 
Stato:  quelle  sulle  attribuzioni  de' funzionarii  civili;  sugli  ordini  dei 
municipii  e  dei  compartimenti,  a  squittinio,  non  a  sorte;  sulla  istru- 
zione pubblica;  sulla  uniformità  delle  leggi  in  ogni  punto  dello 
Stato;  sulla  responsabilità  dei  ministri  e  dei  loro  dipendenti;  sulle 
espropriazioni  per  causa  di  pubblica  utilità  :  per  tacer  di  altre  leggi 
sulla  stampa,  sul  dritto  elettorale,  ecc.,  ecc.,  venute  in  luce  poco  dopo. 

Ora  quest'era  la  sostanza  dello  Statuto  (92) 


Notevole  in  quello  Statuto  la  facoltà  che  aveva  il  principe  di 
stringere  trattati  e  leghe  senza  udire  il  Parlamento:  il  divieto  di 
accogliere  nello  Stato  presidii  stranieri:  l'obbligo  di  riunir  le  Ca- 
mere ogni  anno,  riconvocare  il  Consiglio  tre  mesi  dopo  averlo  di- 
sciolto: ora  come  fossero  rispettati  questi  obblighi  del  principe, 
come  egli  usasse  di  quella  facoltà,  quanto  vivesse  lo  Statuto,  lo  ve- 
dremo a  suo  tempo. 

XXIII.  —  Fin  qui  delle  rappresentanze  de'  comuni,  dei  compar- 
timenti e  dello  Stato.  Ora  del  governo  che  nel  silenzio  del  Parla- 
mento, nell'assenza  del  principe  accoglieva  in  sua  mano  quanta  po- 
testà sfuggiva  agli  invasori  austriaci.  Quel  che  i  vice-prefetti  erano 
al  circondario  e  i  prefetti  al  compartimento,  i  ministri  erano  allo 
Stato.  Tutta  Tamministrazione  spartivasi,  prima  fra  cinque  (95)  poi 
fra  sette  mmisteri  (96),  estero,  intemo,  giustizia  e  grazia,  affari  ec- 
clesiastici, guerra,  finanza,  istruzione,  da  cui  dipendeaBO  le  arti  e 
la  beneficenza;  il  commercio  e  i  lavori  pubblici  erano  parte  della 
finanza:  la  polizia  parte  dell'interno. 

Servo  il  comune ,  nullo  il  compartimento,  invaso  lo  Stato ,  la 

(94)  Lo  compilarono  Nicolò  Lami,  Gino  Capponi,  Pietro  Capei,  Leonida 
Landucci,  Leopoldo  Galeotti.  Lo  promulgarono,  il  15  febbraio  1848,  i  mi- 
nistri F.  Cempini,  C.  Ridolfi.  B.  Bartalini,  C.  Serristori  e  G.  Baldasseroni. 

(95)  Decreto  16  marzo  1848. 

(96)  Decreto  4  giugno  1848. 


88  BIVTSTA    CONTEMPORANEA 

rappresentanza  di  ogni  ordine  e  dello  Stato  era  perciò  nei  ministri. 
Dalla  circonferenza  dovea  la  vita  rifluire  al  centro:  al  centro  volgersi 
ogni  rivo  deiramministrazione,  gli  ordini  del  principe  lontano  e 
degli  Austriaci  :  i  vizii  della  centralità  tutti  quanti,  senza  il  pregio 
dell'unità:  la  forma  costituzionale  col  principe  in  esilio  e  i  nemici 
in  casa.  Il  governo  perciò  avuta  l'imbeccata  del  granduca  e  tastato 
il  generale  degli  Austriaci,  raggiava  i  suoi  voleri  al  compartimento, 
al  circondario,  al  distretto,  al  comune.  Raccoglievasi  adunque  nei 
ministri  ogni  balìa,  quella  di  ordinare  e  quella  di  eseguire,  potestà 
esecutive  e  legislative  a  un  tempo  :  ninna  rèmora  tranne  la  paura  di 
dispiacere  agli  Austriaci  vicini,  al  principe  lontano:  complice  de' mi- 
nistri il  consiglio  di  Stato.  Era  composto  cosi  (97):  un  presidente,  che 
era  il  primo  ministro,  un  vicepresidente,  i  ministri  di  Stato,  nove  con- 
siglieri ordinarii,  altri  straordinarii,  varii  relatori  ch'erano  i  segretarii 
dei  ministri,  sei  uditori,  un  segretario:  i  consiglieri  ordinarii  retri- 
buiti, li  straordinarii  no:  solo  i  ministri  e  i  consiglieri  aveano  voto 
deliberativo.  Divideansi  per  sezioni  ;  erano  tre,  pegli  affari  ammini- 
strativi, pei  giudiziari!  e  di  culto,  e  per  quelli  della  finanza:  in 
ciascuna  preparavansi  i  lavori  :  discutevansi  poi  fra  tutte,  meno  per 
le  cose  di  minor  conto  :  le  deliberazioni  erano  valide  se  prese  a  mag- 
giorità di  voti,  presenti  due  terzi  dei  membri,  non  compresi  ì  mi- 
nistri; Dava  parere  il  Consiglio  sui  progetti  di  legge,  e  di  sovranjB 
disposizioni;  altri  compilava  quando  n'era  richiesto:  necessario  sol- 
tanto il  suo  voto  sopra  regolamenti  per  le  pubbliche  aziende:  nel 
resto  rispondeva,  se  dai  ministri  era  interrogato.  Cosi  quel  che  al- 
trove alleggerisce  la  soma  dei  ministri,  qui  era  un  corpo  senz'anima: 
le  facoltà  sue  pressoché  nulle  :  quelle  poche  mal  definite  dalla  legge  : 
ancor  più  vago  il  modo  con  cui  avea  da  esercitarle  :  servo  dei  mi- 
nistri che  nel  Consiglio  sedevano,  vi  avevano  voto,  e  nelle  sezioni  i 
loro  segretarii.  A  questo  modo  la  parte  come  il  tutto,  era  invasa  e 
diretta  dai  ministri.  I  quali  potea  pur  dirsi  vincessero  di  numero  i 
consiglieri  ordinarii,  non  essendo  questi  più  di  nove,  mentre  quelli 
erano  sette  e  compatti.  I  segretarii  loro  riferivano  in  Consiglio  sul- 
l'opera propria,  i  ministri  giudicavano  quelli  e  se  stessi.  Le  sezioni 
del  Consiglio,  quasi  fossero  sezioni  del  ministero,  rette  da  funzionarli 
che  qui  erano  segretarii,  là  relatori:  devoti  in  ogni  cosa  ai  ministri, 
pei  quali  il  Consiglio  di  Stato  era  ciò  che  il  Consiglio  di  Prefet- 
tura ai  prefetti;  non  il  fonte  delle  leggi,  non  tribunal  supremo 
di  amministrazione,  non  moderatore  de'  ministri,  ma  ora  docile  loro 
strumento,  ora  sollevato  da  essi  a  grado  di  Consulta,  pur  di  riversare 
sopra  altrui   la  responsabilità  dei  proprii  atti.   A  questo  modo  nel 

(97)  Decreto  15  marzo  1848. 


STUDI!  STOBICI  B  AMMINISTRATIVI  89 

pugno  di  quelli  accen1a*aya8i   ramministrazione  che  si  partiva  dal 
comune,  ingrossava  nel  circondario, s^allargava  nel  compartimento: 
al  disopra  dello  Stato,  quasi  loro  piedestallo,  i  ministri  ;  ed  il  Con- 
siglio, non  loro  giudice,  ma  servo  o  complice.  Lo  vedremo  alle  prove. 
XXIV.  —  Non  confortevoli  le  condizioni  della  finanza.  Non  oravi 
ciò  che  dicesi  gran  libro  o  monte  comune,  in  cui  si  registrano  e  gua- 
rentiscono i  crediti  sullo  Stato  :  ma  se  non  la  formalità  della  iscri- 
zione, oravi  la  sostanza,  cioè  il  debito.  Grave  alla  fortuna  pubblica 
ed  al  credito  dello  Stato:  incerto  poi  se  più  la  importanza  dei  de- 
biti, 0  il  non  essere  raccolti  in  un  libro  a  quiete  dei  creditori,  nuo- 
cesse a  quella  riputazione  di  prosperità  che  si  ebbe  lo  Stato,  dacché 
Napoleone,  rovQ^ciando  i  beni  del  clero  nella  voragine  del  monte 
comune,  Tebbe  colmata.  Avea  di  due  maniere  debiti  (98)  :  fruttiferi 
dal  due  al  cinque  per  cento,  ed  infruttiferi.  Fra  i  primi  quello  a  favore 
ieirimperator  d'Austria,  resto  di  vecchio  credito,  dubbio  neir origine, 
avvalorato  dalla  prepotenza  imperiale  (99),  consentito  dalla  viltà  gran- 
ducale: sommava  ^  sei  milioni  e  trecentomila;  e  più  altri  quattro  milioni 
iifuttiferi,  saldo  di  frutti  su  quel  capitale  :  la  causa  pia  e  gli  spedali, 
per  beni  venduti  nel  quindici,  erano  creditori  di  quasi  tre  milioni  e 
metzo:  Tappaltatore  dei  taWchi  lo  era  per  mezzo  milione;  la  Banca 
di  Éconto  per  quasi  uno  intero  ;  la  Cassa  di  risparmio  per  tre,  le  co- 
muiità  e  luoghi  pii,   a  titolo  di  prestanza,  per  oltre  sette;  eranvi 
credti  privati  per  undici  ;  debiti  deirex-ducato  di  Lucca  per  tre  e 
mezz*  :  quasi  due  milioni  avuti  a  prestito  nel  quarantotto  ;  uno  nel- 
Tapria  del  quarantanove  :  sei  di  buoni  del  tesoro  emessi  nel  breve 
goverio  dei  triumviri  ;  oltre  due  milioni  con  de'  fornitori  ;  tre  e  mezzo 
in  cam)iali  a  carico  del  tesoro  ;  quattro  a  credito  delle  amministra- 
zioni di  vari  i  dipartimenti.  Sommavano  così  i  debiti  fruttiferi  a  cin- 
quantaqattro  milioni  e  mezzodì  lire:  gli  infruttiferi,  compreso  quello 
di  quatti»  a  favore  delFimperatore  austriaco,  ed  altri  varii  e  sparsi 
qua  e  làyg-iungevano  a  più  di  diciotto  milioni.  A  riscontro  di  questi 
debiti,  pale  repetibili  e  parte  no,  figuravano  nei  bilanci  dello  Staio 
centosedicimilioni,  fra  palagi,  ville,  edifizii  varii,  terreni,  miniere  di 
ferro,  saline  zolfiere,  artiglieria,  munizioni,  azioni  sopra  ferrovie  e 
banche,  maha  e  suoi   attrezzi,  crediti,  compresi  quelli  di  incerta 
esigenza.  Di^uesti  beni  e  capitali,  solo  quarantatre  milioni  erano 
fruttiferi,  il  reto  no  :  degl'immobili  valutati  sessantaquattro  milioni, 
solo  trentasett  fruttavano  alla  finanza:  il  rimanente  erano  di  uso. 
Né  qui  è  tutto  la  cifra  de' debiti  sebben  minore  di  quella  de' beni 
e  capitali,  era  Cavissima  alla  fortuna  publica,  si  perchè  quelli  co- 

(98)  Rendimela  di  conti  della  Finanza  toscana  pel  1847.  —  Idem  per 
gli  anni  1848,  184.  1850,  del  ministro  delle  Finanze. 

(99)  V.  Zobi  Do^m.  uff.  t.  2,  e.  XXII.  •    .    - 


90  RIVISTA  OONTBMPOBANBA 

stavano  di  annuo  frutto,  più  che  non  rendessero  i  centosedici  milioni 
attivi,  sì  perchè  questa  era  cifra  scritta  è  vero  ne' bilanci,  ma  illu- 
soria :  stava  non  ad  inganno  dei  creditori  dello  Stato,  ma  a  giustifi- 
care innanzi  ai  sudditi  lo  sperpero  del  pubblico  denaro,  dacché  era 
salito  al  trono  il  granduca  regnante.  Perchè  in  quella  cifra  di  beni 
e  capitali  erano  scritte  le  somme  spese  a  miglioria  di  terreni,  ri- 
stauro  d'edifizii,  colmature  di  paludi,  e  quelle  altre  per  cui  si  parve 
al  Giusti  che  il  principe  asciugasse  tasche  e  maremme:  al  che  Leopoldo 
incontrato  il  poeta  per  via,  rispose  arguto:  erraste,  asciugai  le  tasche 
e  non  le  maremme  :  ed  era  pura  verità.  Ora  questa  singoiar  specie 
di  capitali  attivi,  erano  una  bazzecola  di  ventun  milione  e  più:  per 
non  dire  de' crediti  fluttuanti,  dubbii  nell'origine  o  di  incerta  riscos- 
sione. Ogni  anno  perciò  aggiuntavasi  qualche  somma  al  frutto  dei 
beni  perchè  pareggiasse  l'interesse  dei  debiti  :  e  questi  s'accrescevano 
di  alcuni  milioni  a  cuoprire  tutte  le  spese  annue.  Perchè  se  da  al- 
cuni anni  erano  andate  crescendo  le  entrate,  assai  più  aumentarono 
i  dispendii  e  coi  dìspendii  i  debiti;  circolo  vizioso  in  cui  n'andata 
di  sotto  la  pubblica  fortuna  e  il  credito  dello  Stato. 

XXV.  —  Già  ai  tempi  del  primo  Leopoldo  erano  le  entrate  n«ve 
milioni;  altrettante  le  spese  (100).  Le  vicende  innanzi  il  quinlici 
aveano  creato  nuove  spese  e  nuove  risorse,  le  antiche  raddóppiite  : 
nel  ventiquattro,  salito  al  trono  Leopoldo  II,  pochi  erano  i  deoiti  : 
alcuni  milioni  di  contante  nel  tesoro,  alcuni  altri  di  annuo  civinzo: 
ma  le  spese  superavano  già  i  sedici  milioni  all'anno:  le  entiate,  i 
diciannove  (101).  Nel  quarantasette  queste  erano  giunte  a  vei^isette 
milioni  e  quelle  a  ventinove;  annuo  disavanzo  di  due  milioii,  per 
cui,  già  da  tempo,  eransi  raddoppiati  i  debiti.  L'annessione  d  Lucca, 
la  perdita  della  Lunigiana,  la  guerra  e  i  disastri  del  quaantotto, 
le  baldorie  della  plebe  nel  quarantanove,  cause  di  calami tàpubliche 
e  sconcerti  finanziarii,  fecero  il  resto.  Crebbero  alcune  tase:  altre, 
nuove  di  pianta,  poi  cancellate  col  ristauro  del  principat'  e  supplito 
ai  bisogni  con  prestanze  e  nuove  imposte. 

Quattro  categorie  d'entrate  provvedeano  allora  allf  spese  dello 
Stato.  Le  dirette,  cioè  la  prediale,  innanzi  il  quaranset^  di  tre,  poi 
di  quattro  e  mezzo,  solo  nel  quarantanove  oltre  setteniilioni  ;  e  la 
tassa  di  famiglia  quasi  per  due.  Le  indirette,  regalie  /varie  imposte 
fra  cui  i  dazii  doganali,  e  quei  di  consumo  in  talu>  città,  non  in 
tutte,  per  nove  milioni  e  mezzo  ;  la  tassa  de'  commer  anti  a  Livorno 
per  oltre  trecentomila  ;  le  sanitarie  quasi  altrettant;  il  canone  del- 
l'appalto del  tabacco  per  due  milioni  e  trecentom&;  l'azienda  del 

(100)  F.  Governo  della  Toscana  — Rendiconto  di  Leroldo  I. 

(101)  r.  Bilancio  consuntivo  originale  1824  esisten»  manoscritto  nella 
Regia  Depositerìa. 


STUDU  STORICI  B  UOnNISTBATIVI  91 

sale  per  quasi  tre  ;  quella  dei  lotti  per  due  ;  le  Poste  per  mezzo  ; 
il  bollo  e  registro  per  un  milione  e  mezzo;  gli  emolumenti  giudi- 
ziarii  ed  altro  per  settecentomila;  i  fiscali  per  trecentomila;  gli  uni- 
versitarii  quasi  per  centomila  :  le  indirette  superavano  perciò  dician- 
nove milioni.  Le  patrimoniali,  cioè  le  rendite  de'  beni,  delle  miniere, 
de' censi,  canoni  dello  Stato,  sebbene  figurassero  per  un  valore  di 
cento  sedici  milioni,  non  giungevano  a  un  milione  ed  ottocentomila 
lire  annue.  Per  ultimo  i  rimborsi  cioè  le  somme  con  cui  le  comu- 
nità concorrevano  a  stipendiare  gli  ingegneri  delle  acque  e  strade,  la 
tassa  di  revisione  con  la  quale  i  Luoghi  pii  compensavano  la  tutela 
che  lo  Stato  avea  su  di  essi,  ed  altre  di  cui  taluna  eventuale,  in 
tutto  quasi  mezzo  milione.  Così  nel  quarantanove  le  rendite  dello 
Stato  sommarono  a  trentun  milione  di  lire  (102). 

Maggiori  delle  entrate,  le  spese:  erano  queste:  raiq[)anaggio  del 
principe  per  due  milioni  settecento  sessantaquattro  mila  lire;  l'ammi- 
nistrazione civile  per  quasi  due  milioni;  le  relazioni  estere  oltre 
quattrocento  mila  lire  ;  la  guerra  oltre  dieci  milioni  ;  la  giustizia  per 
tre;  le  carceri  per  ottocento  mila;  i  frutti  dei  debiti  circa  tre  milioni; 
la  sanità  pubblica  per  oltre  settecento  mila;  il  culto  per  trecento 
mila;  l'istruzione  per  un  milione;  lavori  d'acque,  strade,  edifici  pub^ 
blici  tre  e  mezzo  ;  censimento  mezzo*  milione  ;  beneficenza  pubblica 
uno  e  ducentomila  ;  pensioni  quasi  cinque  milioni  ;  spese  di  perce- 
zione delle  rendite  quattro  milioni  e  mezzo  ;  buonificio  delle  maremme 
quasi  trecento  mila  :  nel  quarantanove,  colpa  le  vicende  politiche, 
sommarono  le  spese  a  quasi  quaranta  milioni  :  cosi  superando  di  nove 
milioni  le  entrate  (103). 

XXVI.  —  Delle  quali  discorrendo  in  succinto  dirò  primieramente 
che  non  grave,  sebbene  cresciuta  di  un  terzo  (104)  da  quel  che  era 
nel  quaransette,  la  fondiaria  che  andava  a  profitto  dell'erario  ;  mag- 
giore di  essa  quella  a  profitto  dei  Comuni  :  ripartite  entrambe  a  do- 
vere: il  catasto,  incominciato  l'otto,  sospeso  il  quattordici,  prose- 
guito il  diciannove,  compiuto  il  trentuno,  attivato  il  trentaquattro, 
dirigeva  la  finanza  perchè  colpisse  a  segno  :  i  beni  fondi  stimati  sulla 
rendita  capitalizzata  al  cinque  per  cento,  detratte  le  spese  annue: 
la  rendita,  presunta  minor  del  vero,  onde  le  stime  de'  beni  riusci- 
rono tali  che  pochi  fecero  lamenti  :  le  case  stimate  in  ragion  degli 
aflStti,  norma  varia  e  fallace.  Niun  immobile,  da  Leopoldo  I  in  poi, 
immune  dai  tributi:  tutti,  chiesastici  o  laici,  privati  o  regii,  n'erano 
colpiti.  Si  v'erano  eccezioni  e  alleviamenti  pei  luoghi  ove  i  miasmi 

(102)  V,  Rendimento  di  conti  della  Finanza  toscana  per  gli  anni  1848, 
1849,  1850,  pubblicato  dal  ministro  Baldasseroni.  Firenze  1852,  tip.  Grand. 

(103)  lìndem, 

104)  Decreto  28  marzo  1848. 


92  RIVISTA  CONTEMPORANBA. 

costringevano  a  gettar  l'aratro,  le  malattie  fugavano  i  y illiei,  e  1 
privilegi  e  le  immunità  tentavano  richiamarli.  Le  paludi,  un  sesto 
del  territorio,  invano  migliorate  da  tagli,  colmate,  argini,  canali, 
gettando  cosi  molti  milioni  per  nobilissima  ma  sfortunata  ragione. 
Dirò  più  innanzi,  come  nel  quarantanove  fosse  giunta  la  spesa  a 
venti  milioni,  senza  che  a  quelle  maremme  si  restituissero  gli  abi- 
tanti, esse  air  aratro,  né  fossero  pervenute  ad  alleviare  la  finanza  coi 
tributi  come  ogni  altro  suolo.  All'isola  del  Giglio  era  fatta  grazia 
d'ogni  imposta  terriera  :  alla  Pianosa  ed  all'Elba  solo  di  quella  parte 
che  va  in  beneficio  dello  Stato.  Fra  gli  altri  redditi,  odioso  il  testa- 
tico, grave  dacché  venne  doppiato:  colpiva  per  stirpi  non  per  capi. 
La  tariffa  doganale  risaliva  al  secolo  scorso,  meno  le  mende  e  le 
aggiunte  che  ne  doppiavano  e  contraddicevano  il  testo.  Il  tabacco  (105) 
e  la  pesca  del  tonno  monopolio  di  appaltatori,  il  sale  regalia  del 
governo.  Dogane  ai  confini,  a  riscontro  di  altri  Stati,  miti:  alle 
porte  delle  città,  gravissime  e  fastidiosissime  :  né  sempre  uguale,  né 
dappertutto,  il  dazio  consumo.  Considerevole  il  reddito  del  Lotto  (106) 
con  cui  il  Governo  alle  volte  ruba,  sempre  vince  il  denaro  del  po- 
vero (107).  Gravi  il  registro,  le  tasse  giudiziarie,  le  fiscali,  regolate  da 
leggi  antiche  :  quella  del  registro,  risaliva  al  quattordici  (108)  ed  era, 
così  la  chiamò  una  legge  posteriore  (109),  oscura  e  scompleta  ;  vi  sup- 
plivano interpretazioni,  circolari,  aggiunte,  che  in  Toscana  non  man- 
cano mai,  nemmeno  ai  monumenti  puTDblici.  I  beni  del  demanio, 
centosedici  milioni,  sparsi  sopra  sessantotto  mila*  ettari,  non  rende- 
vano da  pagare  i  frutti  dei  debiti  fruttiferi,  cinquantacinque  milioni: 
colpa  la  mala  amministrazione,  le  beate  illusioni  sul  valor  de' beni, 
la  certezza  dei  debiti  :  la  rendita  netta  non  ascendeva  a  lire  venti 
per  ettare.  E  perciò  le  annue  spese  superavano  le  entrate,  prima  di 
due,  poi  di  sette,  poi  di  nove  milioni:  arduo  il  sopperirvi,  sia  ricor- 

(105)  Notevoli  in  Toscana  le  vicende  della  piantagione  del  tabacco.  Leo- 
poldo I  la  concedè  (18  giugno  1789);  Ferdinando  III  la  vietò  (18  ottobre 
1791);  tornò  libera  a  tempi  dell'Elisa.  Nei  ristauro  del  15,  limitata  solo 
ad  alcune  località:  il  15  maggio  1830  per  ultimo  proibita  dappertutto. 

(106)  V.  nota  11,  pag.  64  il  detto  di  Giangastone. 

(107)  Per  un  caso  ben  raro,  scherzo  della  fortuna,  furono  tante  le  vincite 
del  1849,  che  la  finanza  non  introitò  che  mezzo  milione,  di  due  che  ogni 
altro  anno  era  e  fu  usa  a  vincere  sui  privati.  Nel  rendiconto  del  ministro 
delle  Finanze  pel  1848-1850,  leggesi,  pag.  7,  questo  lamento,  contro  la 
fortuna  che  si  era  permesso  quello  scherzo  «  n^m  lascierò  inavvertita  la 
tf  circostanza  straordinaria  che  nell'anno  1849  fu  perduta  quasi  affatto  la 
«  rendita  della  Regalia  del  Lotto,  essendosi  di  tanto  elevate  le  vincite  a 
ff  confronto  delle  giuocate  da  non  lasciar  margine  alle  spese  di  ammini- 
«  strazione  ». 

(108)  Legge  30  dicembre  1814. 

(109)  V.  Legge  25  gennaio  1851. 


STUDII  STOBICI  B  AMMIKISTBATIVI  93 

rendo  ai  privati,  sia  all'estero,  sia  ai  beni  del  demanio.  Fra  le  spese, 
la  lista  civile  gravissima,  un  dodicesimo  di  tutte  le  rendite;  quasi 
il  doppio  di  quel  che  era  regnante  Leopoldo  I  (110)  :  la  guerra,  prima 
un  settimo,  poi  un  quarto,  poi  un  terzo  delle  pubbliche  risorse,  se- 
condochè  ai  valorosi  di  Curtatone  era  succeduta  gente  fuggiasca  nei 
perigli,  vile  ai  confini,  licenziosa  e  turbulenta  per  le  vie,  brutta 
gente  da  posporre,  per  sicurtà  pubblica  e  privata,  a  soldati  merce- 
narii  (111).  Gravissimo  il  carico  delle  pensioni  e  dei  sussidii  agli  impie- 
gati, or  premio  di  onorati  servigi,  ora  alla  ignoranza,  altre  volte  a 
servigi  colposi  :  sempre  poi  numerosa  la  turba  de'  pensionati,  de'po- 
stulanti  sussidio,  di  tutto  un  po',  insaziabili  ancor  dopo  che  allo  Stato 
mungevano  un  ottavo  delle  entrate.  L'istruzione  invece  figurava 
umile  e  modesta  nel  bilancio  per  solo  un  milione,  appena  un  qua- 
rantesimo delle  altre  spese.  Molto  spendevasi  ne' pubblici  lavori, 
quantunque  le  sole  strade  postali  e  fabbriche  regie  fosserq  a  carico 
dello  Stato  :  alle  vie  provinciali  attendessero  i  Comuni  :  ai  fiumi  e 
canali  navigabili,  i  possessori  frontisti.  Perultimo,  enormi  le  spese  di 
percezione  dei  redditi  :  quelle  del  patrimonio  dello  Stato  salivano  al 
trenta  per  cento  de'  profitti  :  per  le  indirette  variavano  dal  venti  al 
settanta,  meno  pel  tabacco  dato  in  appalto:  la  prediale  e  personale 
nette  di  ogni  spesa,  riscuotendole  le  comunità  per  conto  dello  Stato: 
le  spese  di  percezione  superavano  quindi  il  venti  per  cento  di  tutte 
le  entrate. 

XXVIL  —  Ora  degli  ordini  che  amministravano  la  finanza.  Un 
uflScio  generale  di  revisione  (112)  sindacava  le  aziende  dello  Stato, 
fino  le  comunali  e  quelle  dei  luoghi  pii.  Il  denaro  pubblico  era  rac- 
colto in  un  sol  tesoro,  quel  della  Depositeria  ;  di  là  versavasi  al  di 
fuori  per  le  spese.  Le  regie  possessioni  amministrate  da  un  soprin- 
tendente per  conto  dello  Stato  :  dal  tesoro  pubblico  toglievasi  la  prov- 
visione 0  lista  del  principe:  delle  imposte  dirette,  lo  Stato  ricono- 
sceva debitori  i  Comupì  e  non  i  censiti  :  riscuotevansi  dai  camar- 
linghi, a  rate  bimestrali  insieme  alla  quota  di  spettanza  de' Comuni: 
versa vansi  nel  tesoro  ogni  due  mesi.  Tre  uffici  di  contribuzioni  in- 
dirette: quel  delle  dogane,  dazi i  consumi,  pedaggi,  marchio  e  bollo, 
in  Firenze,  dal  quale  dipendevano  sei  direzioni,  una  per  città:  quel 
del  registro  e  aziende  riunite,  la  cui  amministrazione  divideasi  fra 
tre  compartimenti,  di  Firenze,  Siena  e  Pisa;  nei  circondarii  un  ufficio 
di  esazione:  per  ultimo  quel  della  lotteria.  —  Le  condanne  pecunia- 

(110)  Con  Francesco  TI  ammontò  a  1,260,000  lire;  con  Leopoldo  I  a 
1,575,000;  con  Ferdinando  HI  a  2,604,000  ;  con  Leopoldo  If  a  2,764,000. 

(Ili)  V.  Ricordi  sulla  Commissione  governativa  del  1849  di  G,  Cambray 
Digny,  cap.  IX. 

(112)  Risaliva  al  20  marzo  1795. 


94  BIVISTA  CONTBMPOBANBA 

rie,  le  spese  processuali  esigevansi  dairufficio  del  Regio  Fisco  (113), 
il  quale  attendeva  alla  economia  delle  carceri,  alle  spese  pel  servigio 
deUa  giustizia  criminale,  e  ad  altro.  Cosi  raccoglievansi  da  ogni 
angolo  dello  Stato  le  entrate  pubbliche  e  facevansi  le  spese  :  sem- 
plicità lodevole,  ma  costosa:  la  contabilità  poi  deirex-ducato  di 
Lucca,  varia  da  quella  di  Toscana:  varie  le  scritture  e  i  modi  di 
percezione  fra  provincia  e  provincia:  e  molti  gli  abusi,  inveterati, 
inanimiti  dalle  lentezze  con  cui  procedea  T ufficio  delle  revisioni. 

XXVIII  —  Queste  erano  dunque  le  condizioni  della  finanza  toscana 
quando  nel  cominciare  del  quarantanove  tornò  ad  essere  governata 
nel  nome  di  Leopoldo  II:  i  beni  dei  comuni,  dammeno  dei  debiti: 
le  loro  entrate  dammeno  delle  spese:  le  spese  dello  Stato  dappiù 
delle  entrate  :  fra  queste  la  diretta,  minore  della  quota  a  beneficio 
dei  comuni  :  le  contribuzioni  regie  e  comunali,  ripartite  pel  numero 
degli  abitanti,  quasi  trenta  lire  a  testa:  i  beni  demaniali,  per  molta 
parte  infruttiferi  :  il  valor  nominale  maggiore  assai  del  reale  :  il  reale 
maggiore  dei  debiti:  i  frutti  dei  debiti,  il  doppio  del  reddito  del  pa- 
trimonio dello  Stato  :  il  debito  di  questo,  aggiunto  a  quello  dei  co- 
muni, al  di  sopra  di  sessanta  lire  per  capo.  Delle  imposte,  taluna 
mite,  altra  grave  :  ripartite  a  segno  le  dirette  :  fra  le  indirette,  ta- 
luna off^a  ai  sani  principi  della  economia  :  le  spese  mal  distribuite 
non  gettavano  i  semi  della  futura  ricchezza,  non  doppiavano  i  ri- 
colti :  seminagione  sterile  e  improvvida,  sopra  terreno  feracissimo. 
Il  disavanzo  d'anno  in  anno  maggiore:  i  creditori  dello  Stato,  non 
iscritti,  non  guarentiti  :  onde  il  credito  era  nullo,  i  capitali  sordi 
alle  dìiamate,  nascosti  o  in  fuga  fuor  del  confine:  confusa,  grave, 
dispendiosa,  varia  l'amministrazione  delle  spese,  la  percezione  delle 
entrate.  Onde  la  fortuna  de' comuni  e  quella  dello  Stato  stavano 
ugualmente  sul  pendio  della  voragine.  Dio  salvi  i  reggitori  dalla 
vertigine. 

Enbico  Pani  Rossi. 
(eaniinua) 

(113)  Decreio  7  marzo  1778. 


95 


LO  SCARICATOIO  DI  CLAUDIO 


INTERRAMENTO  DEL  LAGO  DI  FUCINO 


Uno  fra  i  lavori  più  giganteschi  ch'abbiano  tentato  gli  antichi, 
che  i  presenti  ripigliano,  e  che  possiamo  ornai  esser  certi  di  veder 
condotto  a  termine,  è  senza  dubbio  l'interramento  del  Lago  di 
Fucino. 

Noi  non  sapevamo  estimare  al  giusto  l'importanza  di  questa  im- 
presa colossale  prima  d'averla  veduta  coi  nostri  proprii  occhi. 

Difatti  noi  stimavamo,  come  il  Comune  dei  Martiri,  che  si  trat- 
tasse dell'asciugamento  di  qualche  palude,  d'una  specie  d'incanala- 
mento in  mezzo  a  grandi  stagni,  simili  alle  paludi  pontine  o  alle  ma- 
remme toscane,  romane  e  napoletane.  Ma  quando  condottici  all'Incile, 
sede  principale  dei  lavori,  ci  siam  vista  dinanzi  una  massa  d'acqua, 
la  quale  non  misura  meno  di  60  chilometri  di  circonferenza,  confes* 
siamo  di  esserne  stati  compresi  di  altissima  meraviglia. 

E  per  vero,  conoscevamo  tutti  i  laghi  svizzeri  e  italiana:  il  lago 
Maggiore,  il  lago  di  Como,  di  Garda,  d'Iseo,  quelli  d'Àgnano, 
d' Avemo,  di  Fusaro ,  eppure  non  provammo  mai  tanto  diletto  dalla 
loro  vista,  quanto  da  quella  del  Lago  di  Fucino. 

Codesto  dipese  anche  in  parte  daU'averlo  visitato  in  due  epoche 
differenti  e  molto  diverse  fra  loro.  La  prima  volta  ci  fu  veduto  in 
tutta  l'aspra  beltà  dell'inverno:  il  ghiaccio  ne  copriva  le  rive,  e  una 
tempesta,  proprio  una  tempesta  infernale,  faceva  echeggiare  le  cir- 
costanti montagne  dei  più  sonori  e  spaventosi  muggiti. 

Ieri  scorgemmo  il  lago  ornato  di  tutte  grazie  giovenili,  fresco,  ri- 
dente, un  vero  sorriso  di  primavera  fiorita. 

E  se  si  pensi  che  fra  poco,  codesta  ampiezza  di  acque  non  sarà 
meglio  che  una  memoria  nella  mente  di  coloro  che  ne  furono  spet- 
tatori ;  quando  riflettasi  che  si  tratta  di  disseccare  il  bacino  d'un 


96  RIVISTA   OONTBMPOBANEA 

lago  che  contiene  oltre  a  due  miliardi  e  cinquecento  milioni  di  metri 
cubi,  di  acqua,  in  guisa  da  non  lasciarci  che  una  specie  di  corrente, 
una  specie  di  riviera  in  mezzo  del  bacino,  versandone  altresì,  perchè 
la  non  debba  mai  straripare,  la  piena  soverchia  nello  scaricatoio  che 
la  condurrà  nel  Liri  ;  quando  tutto  ciò  si  consideri,  non  si  può  a  meno 
di  ammirare  altamente  la  potenza,  l'audacia  e  la  volontà  umana. 

Il  secolo  XIX  si  fecondo  in  progetti,  in  lavori  d'ogni  maniera, 
incredibili,  titanici  ;  questo  secolo  cui  nulla  è  impossibile,  né  alcuna 
difficoltà  occorre  che  ei  non  valga  a  superare  ;  che  ci  dette  il  vapore 
e  l'elettricità,  ottemperando  con  docile  intelligenza  al  comando  del- 
l'uomo; che  trafora  da  parte  a  parte  il  Monte  Cenisio;  questo  secolo 
solo,  ripetiamo,  poteva  effettuare  il  pensiero,  il  desiderio,  il  disegno 
di  Cesare  e  degli  imperatori  romani. 

Quanto  gli  antichi,  pur  così  forti,  e  risoluti,  e  miracolosi  non 
seppero  compiere  con  tutti  i  mezzi  di  un  floridissimo  imperio,  colle 
braccia  e  col  sacrifizio  di  30,000  operai,  il  secolo  xix  eseguì  in  otto 
anni,  senza  .pubblicità,  senza  romore,  coli' aiuto  della  sola  industria 
privata,  sotto  l'abile  e  saggia  direzione  d'un  solo  ingegnere. 

Nessuno  invero  credeva  all'esito  di  un'opera  ch'era  fallita  ai  Ro- 
mani, cioè  ai  primi  lavoratori  del  mondo,  e  perfino  colui  che  primo 
ebbe  Tidea  di  riprendere  il  lavoro  abbandonato,  dubitava  anch'esso 
sulla  riuscita  del  negozio  al  quale -si  avventurava. 

Nei  più  tristi  giorni  della  reazione  succeduta  alla  rivoluzione  del 
1848  nel  reame  delle  Due  Sicilie,  re  Ferdinando  II  per  rimeritare 
alcuni  stranieri  di  segreti  e  sinistri  servigii  resi  alla  propria  causa, 
accordò  loro  la  chiesta  concessione 

Se  non  che  prima  d'entrare  in  un  racconto  che  concerne  la 
vita  contemporanea,  reputiamo  opportuno  di  significare  particolar- 
mente le  immense  difficoltà  che  si  dovevano  vincere  e  sormontare: 
al  quale  scopo  conviene  riferirsi  all'origine  dei  primi  lavori  e  far 
conoscere  il  disegno  primitivo  ideato  da  Cesare,  messo  in  esecuzione 
e  continuato  da.  Claudio,  e  finalmente  lasciato  a  mezzo  sotto  Nerone 
dopo  incertissimi  esperimenti:  sicché,  senza  altri  proemii,  tocche- 
remo addiritura  la  parte  storica  e  tecnica  di  quest'arduo  lavoro  sul 
lago  di  Fucino. 

Il  bacino  di  cui  quel  lago  occupa  il  fondo,  è  formato  nel  ramo 
più  importante  ed  eccelso  degli  Apennini,  presso  a  poco  a  ugual 
distanza  dai  mari  Adriatico  e  Mediterraneo.  Il  suo  territorio  appar- 
teneva altra  volta  al  paese  dei  Marsi^  uno  tra  i  molti  piccoli  popoli 
che  resistettero  per  tanto  tempo  e  con  tanta  energia  all'invasione 
romana.  Pare  che  quel  bacino  sia  proprio  disposto  ad  arte  per  restare 
totalmente  isolato  dai  paesi  circostanti,  dai  quali  è  diviso  per  una 
cinta  di  alte  montagne  che  formano,  appiedi  del  loro  versante  in- 


INTEBBAMENTO  DBL  LAGO  DI  FUCINO  97 

terno,  un  vasto  piano  coverto  nella  parte  più  bassa  e  considerevole 
dalle  acque  del  lago.  Siffatta  configurazione  del  paese  dichiara  le 
cause  per  cui  esiste  e  tanto  distendesi  il  Iago  :  imperocché  è  desso 
il  serbatoio  naturale  di  tutte  le  acque  che  caggiono  neir  intemo 
delle  montagne,  o  sgorgano  dai  loro  fianchi  e  siccome  non  hanno 
sfogo  nò  comunicazione  colle  riviere  delle  valli  situate  dall'altro  lato, 
hannovì  periodi  di  piena  e  di  decrescenza,  secondo  lo  stato  più  o 
meno  piovoso  delle  stagioni. 

Codesta  regione  andò  in  ogni  tempo  famosa  per  la  sua  pingue 
feracità;  né  altrimenti  può  essere,  dacché  i  suoi  strati  superiori  vi 
sono  costantemente  addotti  dalPacque  pluviali,  che  dalle  eminenze 
circonvicine,  affatto  disboscate,  traggono  seco  le  parti  più  molli,  e 
le  depongono  nelle  terre  sottostanti.  Ma  a  questa  lusinghiera  ric- 
chezza fan  coqjkrapposto  le  frequenti  inondazioni,  le  quali  tanto  più 
son  terribili  in  quanto  lentamente  avvengono,  e  spesso  per  molti  anni 
consecutivi,  mentre  il  ritrarsi  dell'acque,  seguendo  la  stessa  norma, 
non  avviene  che  per  via  progressiva,  e  in  seguito  a  parecchi  anni 
di  siccità  0  per  lo  meno  scarsamente  piovosi.  Siffatta  incertezza 
continua  sulle  sorti  della  proprietà,  non  consente  agli  abitanti  di  re- 
care l'agricoltura  a  quegli  incrementi  dì  cui  la  sarebbe  capace,  ed 
infirma  i  vantaggi  che  e*  potrebbono  trarre  da  un  terreno  favorito 
dalla  natura. 

SI  gravi  ostacoli  alla  coltivazione  agricola  del  paese  avevano  de- 
terminati i  suoi  antichi  abitatori  a  invocare  la  potenza  degli  impe- 
ratori romani,  affinché  riparasse  ai  mali  che  senza  posa  li  minaccia- 
vano,  e  li  salvasse  dalla  rovina  cui  erano  costantemente  esposti. 
S'indirizzarono  adunque  a  Cesare,  che  concepì  il  progetto  di  gettar 
l'acque  del  lago  nel  fiume  Liri,  ma  la  morte  del  dittatore  troncò  il 
divisamento,  e  le  suppliche  restarono  inesaudite  fino  al  tempo  di  Clau- 
dio imperatore. 

Cesare  avea  però,  molto  innanzi  che  gli  abitanti  ricorressero  a  lui, 
ideato  un  disegno  molto  più  gigantesco.  Per  ovviare  alle  carestie 
periodiche  che  affliggevano  Roma,  ed  erano  cagione  ai  moti  popolari, 
egli  aveva  deliberato  di  far  scavare  il  gorto  d'Ostia,  acciò  potesse 
accogliere  le  navi  tutte  che  venivano  dall'Oriente  e  avrebbero  per 
tal  modo  recato  fin  nel  cuor  di  Roma,  distante  poche  miglia  soltanto 
da  Ostia,  tutte  le  ricchezze,  tutte  le  mercanzie  e  tutti  i  grani  del  Le- 
vante. E  per  assicurare  in  caso  di  guerra  l'approvigionamento  in- 
temo di  Roma,  avea  risoluto  di  interrare  il  lago  di  Fucino,  che  sarebbe 
così  divenuto  il  granaio,  il  deposito  di  riserva  per  Roma.  Se  non 
che,  come  dissimo  sopra,  la  morte  lo  impedì  dal  mettere  in  atto  il 
progetto,  la  cui  effettuazione  sarebbe  stata  un  vero  e  sommo  beneficio 
alla  città  eterna. 

HivMa  (7.-7 


98  RIVISTA  COMTBMPORANBA 

Favorito  di  Claudio,  come  si  sa  per  tutti,  era  il  liberto  Narciso, 
il  quale  non  si  può  ben  conoscere,  se  non  riandando  la  maestrevole 
pittura  cbe  ne  fa  Tacito  nel  v  libro  degli  Annali.  Bisogna  leggere 
quant'egli  scrive  intorno  al  matrimonio  che,  morta  Messalina,  Claudio 
s'indusse  a  contrarre  con  Agrippina  madre  di  Nerone.  Quel  passo  è 
magnifico  e  mirabilmente  toccato.  Claudio  adunque  per  le  urgenti 
istanze  della  popolazione,  risolse  di  far  eseguire  Tinterramento  del 
lago  di  Fucino. 

Parecchi  progetti  vennero  assoggettati  all'imperatore,  e  non  pochi 
speculatori  romani  sollecitavano  la  concessione  dei  lavori:  ma  Nar- 
ciso che  avea  fiutato  il  negozio,  e  vedeva  in  tale  intrapresa  un  si- 
curo mezzo  di  arricchirsi,  non  durò  gran  fatica  a  tor  di  mezzo  ogni 
concorrenza,  e  abusando  del  potere  che  esercitava  sull'animo  fiacco 
e  inetto  di  Claudio,  gli  fé'  decretare  che  l'apertura  dello  scaricatoio 
per  lo  scolo  delle  acque  del  lago  starebbe  a  spese  dello  Stato,  sic- 
come opera  di  utilità  pubblica  e  nazionale,  e  che  lui,  Narciso,  avrebbe 
la  direzione  dei  lavori.  Una  clausola  del  decreto  che  nominava  Nar- 
ciso a  siffatto  ufficio,  portava  che  se  i  lavori  venissero  compiti  nel 
termine  di  undici  anni,  a  datare  dal  giorno  della  concessione.  Nar- 
ciso s'avrebbe  un  premio  di  5  milioni  di  sesterzii.  Come  si  vede, 
cosi  in  fatto  di  speculazione,  come  in  ogni  altra  cosa,  noi  non  siam 
meglio  che  i  plagiarii  degli  antichi.  Infatti,  al  tempo  di  Claudio 
era  già  conosciuto  il  sistema  dei  premii,  e  iBomani,  che  nulla  igno- 
ravano, si  intendevano  anche  nei  guazzabugli  dell'agiotaggio. 

£  fama  che  due  progetti  fossero  in  sulle  prime  presentati;  uno 
dei  quali  avrebbe  condotte  le  acque  del  lago  nel  Salto,  l'altro  le 
avrebbe  fette  scorrere  nel  Liri.  Il  primo  progetto  appariva  più  fa- 
cile all'esecuzione,  ma  il  Salto  confluendo  con  la  Nera  che  va  anche 
essa  a  metter  foce  nel  Tevere  sopra  Roma,  temevasi  che  le  nuove 
acque  del  Fucino  non  dovessero  per  avventura  accrescere  le  inonda- 
zioni alle  quali  la  città  era  naturalmente  soggetta.  Epperò  fu  prefe- 
rito il  secondo  progetto. 

Allora  Narciso  fece  incominciare  il  traforamento  della  montagna 
di  Salviano,  mentre  più  che  30,000  operai  venivano  impiegati  allo 
scavo  del  gran  canale  sotterraneo,  che  dovea  correre  fino  al  lago 
di  Liri,  e  che  da  quel  punto  prese  nome  di  Scaricatoio  di  Clau- 
dio. EU'era  un'impresa  gigantesca,  e  senza  Jdubbio  una  tra  le  più 
meravigliose  opere  dell'antichità,  imperocché  si  dovesse  attuare  la 
congiunzione  per  una  lunghezza  di  oltre  21,000  palmi  (5,600  metri) 
attraverso  una  montagna  altissima,  tutta  di  roccia  calcare  compatta, 
e  ad  un  livello  di  300  palmi  circa  (80  metri)  al  di  sopra  della  su- 
perficie delle  campagne. 

È  agevole  farsi  ragione  degli  ostacoli  che  i  Romani  dovettero 


INTBRBÀMENTO  DBL   LAGO  DI  FUCINO  99 

superare;  privi  com'erano  di  istrumenti,  ignari  di  nozioni  geodeti- 
che, e  dei  processi  e  agenti  meccanici,  che  oggidì  han  reso  fami- 
gliari a  noi  consimili  lavori,  furono  costretti  di  ricorrere  a  mezzi 
empirici,  lunghi  e  dispendiosi,  di  andar  tastoni,  spesso  ingannandosi, 
emendando  o  bene  o  male  i  proprii  errori,  lottando  insomma  con  ener- 
gia e  sagacia  contro  difficoltà  d'ogni  fatta. 

Narciso  però  non  mirava  se  non  al  guadagno  in  quest'opera  gi- 
gantesca, alla  quale  un  uomo  d'ingegno  avrebbe  consacrato  tutta 
la  vita  per  condurla  felicemente  a  fine,  e  così  illustrare  il  proprio 
nome:  esso  esclusivamente  curandosi  di  arrivare  all'inaugurazione  nel 
termine  assegnato,  non  temette  di  sacrificare  la  vita  di  più  che  50,000 
operai  che  perirono  nel  lasso  di  undici  anni.  Ma  non  basta,  che  sti- 
mando non  si  dover  trascurare  in  un  negozio  anche  i  minimi  profitti, 
egli  specula  su  tutto.  Si  fa  fabbricatore  dì  mattoni;  ma  invece  di  fabbri- 
carli con  coscienza  e  fornire  una  manifattura  buona  e  durevole,  som- 
ministrò mattoni  di  pessima  qualità;  e  così  fu  di  tutti  gli  altri  materiali 
impiegati  nella  costruzione  dello  scaricatoio.  Non  è  pertanto  a  mera- 
vigliarsi se,  al  momento  della  inaugurazione  dei  lavori,  presenti 
Claudio  ed  Agrippina,  Narciso  vedesse  fallire  i  suoi  computi  e  le 
sue  speranze. 

Ecco  come  Tacito  descrive  questa  soleiinità. 

e  In  questo  tempo  fu  tagliato  il  monte  tra  il  lago  Rossigliano 
f  (Fucino)  e  '1  Garigliano  (Liri),  perchè  più  gente  vedesse  la  magni- 
«  fica  battaglia  navale  ordinata  in  esso  lago,  a  concorrenza  di  quella 
f  che  fece  Augusto  nel  pelago  da  lui  cavato  di  qua  dal  Tevere,  ma 
«  con  meno  legni  e  minori 

«  Fatta  la  festa,  fu  dato  l'andare  all'acqua,  e  scoperto  l'errore 
f  dello  spiano,  non  livellato  al  fondo  né  a  mezz'acqua  del  lago.  Onde 
f  poi  lo  raffondò,  e  per  ragunar  di  nuovo  il  popolo,  gittativi  sopra 
€  i  ponti,  vi  fece  una  festa  d'accoltellanti  a  piede.  Ove  apparec- 
€  chid  un  convito  allo  sbocco  dell'  acqua ,  che  sgorgò  con  tal 
e  furia  che  si  trasse  dietro  le  cose  vicine  e  smosse  le  lontane. 
<  E  ogn'uno  stordì  per  lo  remore;  e  Agrippina  servendosi  dello  spa- 
f  vento  del  principe,  voltasi  a  Narciso,  soprantendente  dell'opere, 
€  disse  averla  lui  fatta  male  in  prova,  per  farne  bottega  e  ru- 
cbare (1)  » 

Agrippina,  madre  di  Nerone,  che  odiava  il  favorito  di  Claudio  e 
n'avea  ben  d'onde,  essend'egli  oppostosi  forte  a  che  l'imperatore  la 
disposasse,  colse  di  buon  grado  il  pretesto  del  mancato  scorrere  del- 
Vacque  nello  scaricatoio  per  poter  nuocere  a  Narciso,  e  nulla  sparmiò 

(I)  Tacilo,  Annali,  Lib.  XII,  cap.  LVI  e  LVII.  Trad.  Dayanzati.  Firenze, 
Lemonnier  1852. 


100  BIVISTA  OONTBMPOBANBA 

per  perderlo  nell'animo  imperiale.  Ma  Narciso  che  conoeceva  meglio 
d'ogni  altro  Claudio,  non  durò  fatica  a  giu8tifical:^i,  e  incolpando  di 
tutto  gli  operai,  comandò  se  ne  giustiziassero  alcuni  per  placar  Tira 
degli  Dei  e  di  Cesare,  e  fé'  ripigliare  alla  meglio  i  lavori.  Poco  omai 
gli  importava  dell'esito.  La  clausola  del  decreto  di  nomina  diceva, 
che  se  in  undici  anni  l'opera  era  condotta  a  tale  da  dare  corso  alle 
acque,  cinque  milioni  di  sesterzii  gli  sarebbero  toccati  in  sorte.  U 
suo  scopo  era  ottenuto,  poiché  l'acqua  era  corsa.  Le  sue  azioni  ave- 
vano raggiunto  il  premio,  anzi  avevano  guadagnato  in  valore,  ed  eì 
ne  fruiva  la  differenza.  Che  potea  dunque  desiderare  di  più? 

Or  non  c'è  forse  moltissima  analogia  fra  codesto  Narciso  e  i  nostri 
speculatori  moderni?  Come  oggi,  al  tempo  dei  Romani,  era  costume 
prevalersi  dello  stato  proprio  per  farsi  aggiudicare  un'impresa,  alla 
quale  il  concessionario ,  per  la  natura  del  pròprio  ufficio ,  dovea 
nondimeno  parere  estraneo,  e  per  conseguenza  incapace.  Ma  non  è  a 
fame  le  meraviglie.  Co^ì  fu  in  ogni  tempo,  e  il  secolo  xix  s'assembra 
in  molta  parte  alla  più  gloriosa  età  romana,  e  in  uno  all'èra  più  vergo- 
gnosa e  immorale.  Narciso  s'ebbe  e  s'avrà  sempre  non  pochi  imitatori. 
Per  loro,  ingannare,  rubare,  spogliare  lo  Stato,  lungi  dall'essere  una 
colpa,  un  delitto,  è  una  pro^a  di  bravura,  di  intelligenza  dei  tempi, 
di  animo  forte  e  spregiudicato,  la  quale  dovrebb'anzi  rimeritarsi 
d'una  corona  civica. 

Lo  scaricatoio  incominciato  da  Claudio  non  fu  punto  compiuto  in 
ogni  sua  parte,  e  Nerone,  secondo  narra  Plinio,  mosso  da  una  bassa 
invidia  contro  la  memoria  di  colui,  cui  doveva  l'impero,  abbandonò 
quell'opera  che  poco  dopo  cadde  in  rovina.  Le  storie  non  ne  parlano 
più  fino  ad  Adriano,  che,  riparatolo,  lo  tornò  all'uso  suo  primo.  Di- 
verse iscrizioni  rinvenute  sul  territorio  d'Avezzano  attestano  sifEatto 
ristauro,  e  contraddicono  a  coloro  che  asserirono  lo  scaricatoio  non 
essere  mai  stato  idoneo  allo  sgorgo  del  lago  di  Fucino.  Simile  opi- 
nione, nata  dalFinterpretazione  di  certi  passi  piuttosto  oscuri  in  qual- 
che storico,  d'altronde  smentita  da  altri,  è  tanto  più  fallace  che  negli 
ultimi  tempi  si  è  potuto  accuratamente  ispezionare  l'opera  in  ogni 
sua  parte,  e  constatare  la  buona  esecuzione  e  l'esattezza  dei  lavori. 

Caduto  l'impero  romano,  l'Italia  non  fu  più  che  un  ammasso  di 
rovine,  sotto  le  quali  si  sepellirono  colla  civiltà  le  scienze ,  ]e  arti  e 
que' magnifici  monumenti  che  l'aveano  fatta  la  regina  e  la  mera- 
viglia del  mondo.  Lo  scaricatoio  corse  la  sorte  dei  palazzi  e  dei 
templi  di  Roma  ;  venne  ben  presto  ricolmato  ;  e  fu  colpa  del  tempo  e 
degli  uomini  spesso  più  distruttori  di  lui.  Nullameno  nel  secolo  XIII, 
l'anno  1240,  Federico  li  ne  ordinò  lo  scavamento  e  il  ristauro.  Ma 
i  lavori  di  riparazione  ripeterono  tutti  i  vizii  e  i  difetti  dell'igno- 
ranza d'allora,  sebbene  per  verità  con  quel  lavoro  non  s'intendesse 


INTBBRAMBNTO  DEL  LAGO  DI  FUCINO  101 

che  di  ricuperare  i  terreni  sommersi,  e  contenere  costantemente  il 
Iago  nelle  sue  sponde,  affine  di  proteggere  dalle  inondazioni  i  teni- 
menti  vicini. 

Alfonso  I  d'Aragona  vi  fé'  altresì  alcuni  lavori,  ma  l'opera  mal 
curata ,  relitta  per  negligenza  ed  imperizia  degli  uomini ,  ogni  di 
più  deperiva.  Da  Alfonso  fino  al  principio  del  secolo  XVII  progredì 
la  rovina. 

A  quel  tempo  un  principe  della  Casa  Colonna,  signore  del  paese, 
volle  tentare  l'impresa  :  i  comuni  limitrofi  gli  si  unirono  ;  ma  i  la- 
vori poco  durarono  per  difetto  di  denaro. 

Passò  lungo  lasso  di  anni ,  durante  i  quali  il  livello  del  lago 
restò  pressoché  uguale,  e  i  proprietarii  lungo  le  rive  si  credettero  in 
salvo  da  nuove  inondazioni.  Finalmente  le  acque  tanto  scemarono, 
sotto  il  regno  di  Carlo  III,  da  scoprire  le  rovine  dell'antica  Valeria 
0  Marruvio,  inghiottite  da  secoli  (1),  tra  le  quali  rovine  si  trovarono 
le  statue  di  Claudio,  di  Agrippina  e  di  Nerone,  che  vennero  tras- 
portata al  palazzo  di  Caserta.  Le  inondazioni  ricorsero  più  tremende 
dal  1783  al  1787 ,  e  invasero  le  terre  migliori ,  cioè  le  più  pros- 
sime al  lago.  Il  re  Ferdinando  I,  tocco  da  tale  disastro  e  dalla 
squallida  miseria  che  incumbeva  sugli  abitanti  del  paese,  condonò 
loro  le  imposte,  e  giusta  il  progetto  di  un  prete  per  nome  LoUi, 
volle  riaprire  lo  scaricatoio  sepolto  sotto  gli  scoscendimenti  di  terra. 
Fu  poscia  preferito  il  progetto  dell'architetto  Ignazio  Stile,  e  nel 
1790  incominciarono  i  lavori,  che  furono  continuati  per  due  anni 
finché  i  cattivi  metodi  usati  dagli  ingegneri,  e  soprattutto  il  loro 
disaccordo,  ne  causarono  la  sospensione.  Gli  avvenimenti  politici  che 
si  succedettero  in  Europa  nel  corso  di  20  anni,  e  forse  meglio  ancora 
le  collisioni  dei  diritti  privati,  malgrado  reiterati  tentativi,  impedirono 
che  l'opera  fosse  ripresa  prima  del  1825. 

Finalmente  gl'ingegneri  incaricati  a  quel  tempo  dell'impresa,  la 
proseguirono  con  solerzia  somma,  e  dopo  parecchi  anni,  lavorando 
indefessamente  e  con  rara  abilità,  giunsero  a  scavare  lo  scaricatoio  da 
un  capo  all'altro.  Allora  soltanto  fu  dato  di  formarsi  un'idea  esatta 
dello  stato  dei  lavori  da  eseguirsi,  dei  vantaggi  e  delle  spese  che 
ne  dovevano  derivare,  e  si  tracciò  con  precisione  un  rilievo  topogra- 
fico complessivo  e  parziale. 

n  govèrno  bramoso  di  incrementare  la  fortuna  pubblica,  resti- 
tuendo all'agricoltura  tanti  terreni  perduti,  nonché  di  farla  finita 

(1)  Il  lago  di  Fucino,  per  esser  cessato  lo  sgorgo  deiracque,  sommerse 
tre  città  e  un  gran  numero  di  ville  che  sorgevano  sulle  sue  sponde.  La 
storia  ci  ha  conservato  il  nome  delle  città,  e  sono  Valeria  o  Marruvio, 
Penna  e  Archippe,  che  devono  contenere  un  tesoro  di  antichità  non  meno 
preziose  che  quelle  di  Pompei. 


102     '  RIVISTA   CONTBMPORAMBA 

una  volta  coi  mali  che  desolavano  quelle  contrade,  pensò  che  in  una 
impresa  di  quella  fatta,  raggi ungerebbesi  più  prontamente  il  fine 
coi  capitali  e  coli 'industria  privata  che  con  altro  mezzo  qualsia. 
Epperò  sancì  la  costituzione  di  una  società  anonima,  intesa  a  ristau- 
rare  lo  scaricatoio  di  Claudio  in  tutta  la  sua  estensione,  nonché  a 
dar  sfogo  all'acque  del  Fucino.  A  questa  società  dovevasi  concedere 
in  proprietà  assoluta  i  terreni  prosciugati,  in  compensamento  e 
come  indennità  dei  grandi  lavori  da  eseguire. 

Lo  scaricatoio  di  Claudio  che  mette  in  comunicazione  il  Liri  e 
il  lago  di  Fucino,  ha  la  sua  imboccatura  sulla  sponda  manca  di 
quel  fiume,  un  po' al  di  là  di  Capistrello:  stendesì  sopra  un  piano 
abbastanza  vasto,  chiamato  i  Campi  Palentini,  attraversa  il  monte 
Sulviano,  e  sbocca  appiedi  del  suo  versante  intemo,  poggiando  la 
testa  alla  riva  occidentale  del  lago,  due  miglia  e  mezzo  circa  a 
oriente  d'Avezzano.  Misura  il  canale  la  lunghezza  di  21,995  palmi 
(5,660  metri)  e  la  larghezza  minima  di  8  palmi:  la  sua  profondità 
varia  dai  10  ai  37  palmi,  e  il  declivio  dalla  testa  alla  imboccatura 
è  di  palmi  27,5  (metri  7,27  cent.).  Questa  imboccatura  stessa  so- 
vrasta di  palmi  ^,5  (metri  11, 11  cent.)  al  fiume  Liri:  finalmente 
il  corso  è  sempre  al  di  sotto  della  superficie  delle  campagne  a  una 
profondità  mai  minore  di  300  palmi  (metri  80)  (1). 

In  mancanza  dei  mezzi  impiegati  oggigiorno  nei  lavori  di  simil 
natura,  i  Romani,  per  effettuare  il  piano  del  canale,  dovettero,  a 
partir  dalla  superfìcie,  perforare  ad  ugual  distanza  dei  pozzi  verti- 
dali,  dal  cui  fondo,  seguitando  la  direzione  esteriore  andavano  ad 
incontrare  ciascuna  uscita  intermediaria.  Né  bastava  che  codesto 
procedimento  fosse  lungo  e  difficile  per  se  stesso,  che  e'  dovevano 
per  soprassello  vincere  gli  ostacoli  risultanti  dalle  qualità  diverse 
dei  terreni,  i  quali  differenziano  tra  loro  dalla  pietra  calcare  com- 
patta all'argilla  pura.  Ignari  della  polvere  da  cannone,  a  forza  di 
scalpello  si  facevano  strada  nella  roccia,  e  in  difetto  di  bussola  che 
li  guidasse  nell'oscurità  sotterranea,  soventi  errarono  la  direzione,  e 
furono  costretti  a  rimediarvi  poscia. 

Oltre  ai  pozzi  verticali,  che  sono  32  dall'imboccatura  alla  testa 
del  canale,  oggi  quasi  tutti  ostrutti,  si  aprirono  dei  corridoi  obliqui, 
addomandati  Cunicoli  ^  che  servivano  a  comodo  dei  numerosissimi 
operai  impiegati  nel  lavoro,  e  in  pari  tempo  giovavano  all'introdu- 
zione e  circolazione  dell'aria,  la  quale  troppo  presto  e  facilmente  si 
rendeva  mefitica,  in  que'luoghi  profondi,  in  quelle  latebre  della 
terra,  per  la  presenza  di  tanti  e  tanti  uomini,  e  per  la  combustione 
delle  faci  destinate  a  rischiararli. 

(1)  Queste  misure  furono  da  noi  prese  e  copiate  sul  piano  tracciato  nel 
1825  dall'ingegnere  del  goTerno  Afais  de  Rivera. 


iktbbbàhbnto  dbl  lago  di  fucino  103 
Da  Capistrello  alla  riya  del  lago,  il  canale  attraversa  diverse  specie 
di  terreni  misti,  nell'ordine  e  proporzioni  seguenti  : 

A    Roccia  calcare  compatta     .    .     .    Palmi  2411  Metri  637,83 

E    Masse  splide  di  grandi  pezzi  di  roccia    >      1021  »      270,10 
C    Strato  spesso  di  terra  argillosa,  di  cui 

286  p.  0  7  m.  65  cent,  rivestiti  di 

mattoni »      3276  »      866,66 

E    Masse  solide  di  grandi  pezzi  di  roccia    >        172  »        45,50 

A    Roccia  calcare  compatta    ....    »      2847  »      753,17 

E    Massi  solidi  di  grandi  pezzi  di  roccia    »        320  »        84,65 

D    Argilla  franata,  rivestita  di  mattoni    >      3008  »      795,77 

A    Roccia  calcare  compatta    ....    »      3259  »      862,16 
B    Rottami  misti  d'argilla  di  consistenza 

solida >      1484  »      392,59 

B    Id.        meno  consistente    ....    »      1514  >      400,52 

B    Id.                  Id.       in  parte  franati    »        910  »      240,74 
D  ed  E    Terre  miste  di  roccia,  franate,  nella 

proporzione  di: 
D    Terre  460  p.  —  119  m.  04  cent. 

E    Rotocie  342  p.  —  90  m.  74  cent.         »        793  »      209,78 


Totale  P.  21,395        »  5,660  — 


Ne  risulta  che  sommando  i  terreni  per  qualità  essi  sono  distri- 
buiti alla  maniera  seguente  nello  intiero  scaricatoio  * 

A    Roccia  calcare  compatta    .    .    .    Palmi  8517    Metri  2253  — 

B    Rottami  e  terreni  di  consistenza  diversa»      4288        >  1134,20 

C    Strati  spessi  di  terra  argillosa  .    .    »      3276        >  886,70 

D    Terre  e  argille >      8458        »  915  — 

E    Masse  solide  di  roccia »      1856        >  491  — 


Totale  Palmi  21,395  Metri  5,660  — 

A  tutte  queste  diverse  parti  dello  scaricatoio  necessitano  lavori 
di  ristaurò  e  di  ampliamento.  Gli  anditi  che  percorrono  la  roccia 
calcare  (A) ,  i  massi  solidi  di  gran  pezzi  di  roccia  (E),  gli  spessi 
strati  di  terra  (C)  e  i  rottami  (B)  hanno  bisogno  di  essere  ingran- 
diti, regolati  e  per  qualche  parte  sostenuti  con  murature.  In  quella 
parte  che  attraversa  l'argilla  pura  (D),  e  che  oggidì  è  quasi  total- 
mente interrata  da'scoscendimenti  consecutivi,  si  aprirà  un  nuovo 
corridoio.  Questo  ultimo  andito  è  quello  appunto  che  fin  dal  prin- 


104  RiyrSTA  contbmpobanba. 

cipio  pìik  si  scostò  dalla  lìnea  retta,  secoDdata  con  sufficiente  regola- 
rità nel  rimanente  della  galleria,  ed  è  altresì  solcato  da  numwosi 
bulicami  d'acque,  dimodoché  queste  non  trovando  che  un  difficile 
afogo,  hanno  mollificato  il  terreno,  rendendo  più  arduo  il  lavoro  che 
altrove.  Sarà  pertanto  più  utile  e  men  dispendioso  aprire  in  questo 
sito  un  nuovo  corridoio,  più  diritto  e  corto  deirantico,  e  nel  quale 
sarà  fatto  di  rinvenire  dei  terreni  più  compatti.  Finalmente  l'ultima 
parte  (D  ed  E)  che  comprende  delle  terre  miste  a  massi  di  roccia, 
è  totalmente  colmata,  e  quindi  a  riforsi  di  pianta.  Lo  scaricatoio 
per  tutta  la  sua  lunghezza  avrà  un  declivio  regolare  e  un'apertura 
costante;  lo  sfogo  dell'acque  sarà  regolato  e  contenuto  dalle  cate- 
ratte airingresso  dello  scaricatoio,  affinchè  nelle  stagioni  piovose 
non  possa  alzarsi  che  fino  a  un  certo  livello.  A  questo  modo  la 
pressione  dell'acque  correnti  uon  potrà  difficoltare  i  lavori,  e  Tacqua 
verrà  condotta  alle  cateratte,  mediante  un  canale  cavato  nel  letto 
del  lago,  dalla  testa  dello  scaricatoio  fino  alla  parte  più  bassa  del  lago 
medesimo. 

Il  bacino  del  lago  di  Fucino  è  poco  profondo,  se  si  riguardi  alla 
sua  estensione.  Le  terre  che  cominciano  appiedi  delle  montagne,  se- 
guono un  piano  dolcemente  inclinato  fino  al  punto  più  basso  del 
lago,  situato,  come  fu  detto,  a  44,000  palmi  o  11,640  metri  dalla  testa, 
dello  scaricatoio.  Ne  conseguita  che  un  qualunque  accrescimento 
nel  volume  dell'acque,  basta  a  farle  dilagare  sopra  un  vasto  territorio. 
Nel  1835,  nel  qual  anno  fu  compilata  la  carta  che  ci  serve  di  guida, 
le  acque  toccarono  il  minimo  livello  di  cui  s'avesse  fin  là  conoscenza, 
e  gli  scandagli  non  diedero  che  una  profondità  mf^ima  di  39  palmi 
(m.  10,  30  cent.).  Il  governo  profittò  di  questa  circostanza  per  fis- 
sare i  limiti  del  lago  e  delle  sue  dipendenze,  e  descrivere  i  confini 
delle  proprietà  circonvicine.  A  base  di  tale  definizione  servirono  quelle 
portate  dai  rilievi  catastali  del  167&  e  del  1740.  Consta  da  siffatto 
lavoro  che  la  superficie  del  lago,  qual  è  presentemente,  equivale  a 
miglia  quadrate  42,36  o  a  2,883  moggia  napoletane,  corrispondenti  a 
2,207,554  moggia  legali  (14,556  ettari,  81  are).  Mentre  esegui  vasi 
quel  lavoro,  il  lago  non  misurava  che  una  superficie  di  38  miglia 
quadrati  9,248  o  39,405  moggia  napoletane,  e  lasciava  scoperte  circa 
8,478  moggia  napoletane  di  terra. 

Poscia  s'alzò  progressivamente  e  non  solo  ricoverse  quei  terreni, 
ma  invase  le  possessioni  particolari  limitrofe,  di  cui  una  porzione  ò 
tuttavia  sommersa  per  la  stesa  di  circa  2900  moggia  napoletane,  che 
appartengono  anch'esse  alla  concessione,  sendo  però  fatto  obbligo  o 
al  concessionario  di  reintegrare  i  proprietarii ,  o  a  quest'  ultimi  di 
pagare  la  bonificazione  dei  proprii  terreni  alla  Compagnia. 

Quanto  finora  abbiam  detto ,  è  sufficiente  a  fornire  un  concetto 


INTSBRAKBNTO  DBL  LACK)  DI  FUCINO  106 

sommario  dei  principali  lavori  eseguiti  per  T interramento  del  lago  di 
Fucino.  Ma  innanzi  di  procedere  nella  descrizione  tecnica  e  alquanto 
arida  dei  lavori,  stimiamo  utile  di  dare  una  rapida  occhiata  al  paese, 
ai  suoi  mezzina!  suoi  abitanti,  afiine  di  far  comprendere  appieno  l'im- 
portanza di  quest'opera  capitale. 

Abbondano  in  quella  contrada  tutti  i  materiali  necessarii;  la  terra 
da  mattoni,  la  pietra  da  calce  d'ogni  maniera,  la  pozzolana,  il  legname 
da  costruzione  e  da  bruciare,  colà  o  a  poca  distanza  si  trovano,  ed  è 
agevole  procurarsi  abili  operai  d'ogni  mestiere  dal  muratore  al  fale- 
gname e  al  legnaiuob.  Malgrado  il  flagello  che  di  continuo  minaccia 
il  paese,  la  sua  fertilità  vi  fé'  sempre  concorrere  numerosi  abitanti,  e 
le  sponde  del  lago  sono  molto  più  popolate  che  per  avventura  non  si 
creda.  Avezzano,  capo  luogo  del  distretto ,  Pescina  e  Celano  sono 
centri  di  qualche  momento,  ed  otto  o  dieci  altri  luoghi,  comechè  meno 
importanti  ;  contano  tuttavia  una  popolazione  che  può  essere  vantag^ 
giosamente  adoperata,  e  dalla  quale  l'impresa  può  traire  un  prezioso 
partito  (1).  Il  popolo  è  generalmente  laborioso,  e  gli  uomini  in  difetto 
di  lavori  che  li  tengano  a  casa,  vanno  a  cercarsi  ogni  anno  a  Roma  o 
a  Napoli  un'occupazione,  che  presceglierebbero  senza  dubbio  di  tro- 
varsi in  patria. 

Ecco  il  magnifico  e  splendido  quadro  che  fa  di  questo  paese  uno  fra 
i  più  egregii  scrittori  francesi,  Giorgio  Sand  ;  e  noi  stimiamo  cosa 
ottima  riferire  quelle  due  pagine  stupende  : 

e  Paese  aspro  in  uno  e  ridente;  ma  l'asprezza  vi  predomina,  e 
il  sorriso  vi  è  un  tantino  forzato.  Il  clima  estremo  ;  freddissimo  Tin- 
vemo,  la  state  caldissima.  L'uva  vi  matura  a  stento,  e  dà  un  vino 
molto  acre,  di  cui  gli  abitanti  abusano  non  poco ,  come  in  tutti  i 
luoghi  ove  nasce  cattivo  vino.  I  culmini  delle  montagne  sono  spesso 
avvolti  di  gelidi  vapori,  e  quando,  il  vento  ne  li  spazza  via,  la  pioggia 
va  a  fermarsi  nei  bacini.  Alla  stagione  in  cui  siamo,  la  è  una  con* 
tinoa  stranezza  di  combinazioni,  un  accavallarsi  di  nubi  fantastiche, 
e  subite  eclissi  di  sole ,  e  quindi  splendori  cosi  freddamente  sereni 
che  ti  trasportano  a  sognare  quell'alba  prima  del  mondo,  quando  la 
Imce  fu  ftitta,  vale  a  dire,  quando  l'atmosfera  terrestre  sbarazzata 
dalle  tempeste,  lasciò  penetrare  i  raggi  del  sole  sul  giovine  pianeta 
abbagliato.  Esisteva  allora  l'uomo  ?  È  un'ipotesi. 

e  Bensì  esisteva  all'epoca  in  cui  queste  terribili  lave  che  mi 
attorniano,  hanno  invaso  e  sconvolto  il  terreno.   Ossa  umane  allo 

(I)  Ecco  i  nomi  dei  paesi  colla  cifra  della  relativa  popolazione  :  Avez- 
zano 4718—  Trosano  1351  —  Luco  2655  —  Collelongo  2026  —  Viilavalle- 
loDga  1808  —  Celano  6525  —  Azelli  1483  —  Ovindoii  1865  —  Pescina  4359 
—  Cerchio  1499  —  Collemerle  1453  —  OrCona  o  Marsi  2658  —  Yisegna 
1263  —  Oriuochio  1225. 


106  BIVISTA  CONTBMPOBANBA. 

stato  fossile  furono  rinvenute  alle  falde  di  una  montag^na  vicina, 
sotto  i  basalti  e  le  scorie  in  un  ammasso  di  breccia  compatta;  erano 
le  reliquie  di  un  vecchio  e  d'un  fanciullo.  Dunque  Tnomo  fu  spet- 
tatore dei  grandi  drammi  della  natura,  la  cui  tradizione  era  stata 
di  tal  modo  obliata ,  che  non  ci  volle  meno  a  ripristinarla  che  tin 
decreto  della  scienza  moderna. 

t  Ma  quello  che  più  mi  monta,  è  di  cercare  negli  esseri  presenti 
la  traccia  delle  vicende  sociali.  Io  trovo  qui  una  razza  caratteristica, 
che  armonizza  fisicamente  col  stiolo  che  la  sopporta:  scarna,  triste, 
rude  e  quasi  angolosa  nei  suoi  modi  ed  istinti  ;  ma  sopratutto  vi 
scorgo  la  viva  impronta  del  regime  feudale  :  un  cieco  spirito  di 
sommessione,  che  reagisce  costantemente  contro  un  feroce  spirito  di 
rivolta;  una  lotta  fra  la  superstizione  che  accetta  tutti  gli  errori,  e 
le  passioni  violente  cui  la  superstizione  dà  ansa.  In  nessun  luogo 
il  potere  del  prete  è  più  assoluto,  e  in  nessun  luogo  la  rea- 
zione rivoluzionaria  contro  il  prete  fu  e  sarà  forse  più  brutale  un 
giorno. 

tSe  io  riandai  col  pensiero  la  campagna  di  Roma  descrivendo  il 
bacino  d'Avezzano,  che  pur  ne  differisce  essenzialmente,  fu  perchè 
vi  ho  notato  una  certa  analogia:  non  già  l'analogia  fisica  di  quel 
tempio  che  primeggia  nel  quadro  per  lo  stile  severo  e  l'audace 
giacitura,  non  men  che  quello  di  Roma  spicchi  nel  circostante  de- 
serto per  la  gigantesca  sua  mole  ;  bensì  un'analogia  intellettuale  e 
morale  nell'indole  delle  due  popolazioni. 

t  Se  ne  eccettui  la  importante  differenza,  che  sorge  dalla  bramosia 
del  guadagno  e  dall'amore  al  lavoro  proprii  dei  montagnari,  troverai 
qui  una  grande  somiglianza  con  moltissime  popolazioni  degli  Stati 
romani.  Il  culto  appassionato  delle  imagini,  residuo  dell'idolatria 
pagana,  la  stupida  fede  nei  piccoli  miracoli  paesani,  i  vizii  monacali, 
l'odio  e  la  vendetta  primissimi  affetti,  ecco  non  i  caratteri  dell'a- 
bruzzese odierno  (che  da  quarant'anni  in  poi  s'è  già  dirozzato  di 
molto)  ma  le  memorie  che  la  sua  storia  e  i  suoi  monumenti  rive- 
lano ad  og^i  linea  e  ad  ogni  passo. 

e  La  breve  cerchia  delle  sue  montagne  protesse  i  più  insolenti 
ladronecci  del  feudalismo  e  le  più  rapaci  dominazioni  del  clero. 
L'Abruzzese  ne  sofferse  fuordubbio,  ma  vi  contribuì  nondimeno,  e 
la  sua  devozione  e  i  suoi  costumi  portano  tuttavia  il  marchio  delle 
lotte  violente  e  delle  barbare  credenze  del  medio  evo 

e  Una  divinità  dell'antico  Egitto,  trasportata,  secondo  dicono, 
di  Palestina  dal  Buca  di  Sora,  è  l'idolo  che  la  rivoluzione  ha  osato 
di  infrangere  dopo  una  venerazione  secolare.  Fu  inaugurata  una 
nuova  Vergine  Nera^  ma  si  constatò  che  essa  è  apocrifa,  ed  opera 
meno  miracoli  dell'antica.  Fu  gran  ventura  che  nel  tesoro  del 


INTBBBAHHNTO  DSL  LAOO  DI  FUCINO  107 

Duomo  8i  conservassero  i  cerei  recatisi  in  mano  dagli  angioli,  quando 
scesero  dal  cielo  per  collocarvi  da  loro  stessi  la  statua  d'Iside  sul- 
l'altare. Godesti  cerei  si  espongono  alla  venerazione  dei  fedeli.  E 
quanto  alla  religione,  basterà. 

e  ÀUa  taverna  la  è  un'altra  cosa.  Ognuno  si  porta  il  proprio  col- 
tello a  guaina,  e  lo  conficca  per  la  punta  sotto  la  tavola  fra  le 
proprie  gambe,  dopo  di  che  si  discorre  :  e  cioncano,  garriscono ,  si 

riscaldano  e  si  scannano Tanto  sia  detto   per  gli  istinti. 

I  quali,  la  Dio  mercè,  ogni  dì  più  si  ammansano  ;  ma  nell'anno  di 
grazia  1862  non  sonosi  ancora  inciviliti,  talché  i  piaceri  tengono 
pur  sempre  alcun  che  di  feroce.  Le  donne  ne  sono  però  eseluse,  che 
i  preti  vietano  ad  esse  la  danza  e  fino  il  passeggio  in  compagnia 
del  sesso  virile.  Gli  uomini  adunque  ni  un  freno  hanno,  niun  rispetto, 
ni  una  delicatezza  nelle  loro  relazioni:  generalmente  reluttano  all'au- 
torità diretta  del  prete,  e  gli  abbandonano  in  balìa  le  proprie  donne: 
ma  vive  pur  sempre  in  essi  la  passione  deUe  guerre  religiose,  onde 
si  bisticciano  sul  dogma  col  bicchiere  alla  mano,  e  non  di  rado  si 
uccidono.  Codesto  può  servire  alla  storia. 

t  Quanto  alle  abitudini,  esse  sono  la  manifestazione  di  questa  vita 
passionata  e  violenta.  La  rozzezza  delle  idee  produce  quella  dei  co- 
stumi: e  l'uomo  che  male  interpreta  lo  spirito  di  religione,  inter- 
preta male  anche  la  vita  pratica,  e  se  medesimo  snatura. 

«  Hannovi  nel  paese,  malgrado  l'aridità  di  molta  parte  della  sua 
superficie,  dei  mezzi  immensi  :  vene  di  terreno  d'una  fertilità  prodi- 
giosa, pingui  pasture  e  molto  buon  volere  nei  lavoratori  della  terra  ; 
ma  i  paesani  (parlo  di  quelli  che  possedono  quanto  coltivano,  pe- 
rocché la  miseria  mette  gli  altri  all' infuori  del  desiderio)  nulla  frui- 
scono, e  di  nulla  par  che  bisognino.  Le  loro  case  sono  incredibilmente 
indecenti  :  le  soffitte  in  graticolati  di  panconcelli  servono  di  ricet- 
tacolo a  vettovaglie  di  ogni  maniera,  miste  a  tutti  i  cenci  di  casa. 
Entrandovi  ti  senti  affogare  dal  tanfo  di  lardo  rancido,  unito  a 
quello  di  tutte  immondezze,  penzolanti  di  là  a.  foggia  di  lampade  ; 
e  vedi  in  un  fascio  le  candele  colle  salciccie,  la  biancheria  sporca  e 
le  scarpe  vecchie  col  pane  e  la  carne.  La  costruzione  di  molte  case 
arieggia  più  la  fortezza  e  l'accampamento  che  l'abitazione  ordinaria  : 
la  parte  superiore  elevasi  sopra  un'alta  base,  e  raccogliesi  sotto  un 
tetto  schiacciato,  sul  quale  ascendesi  con  delle  scale.  In  una  di  queste 
abitazioni  entrai  per  caso,  e  vidi  devote  immagini  dappresso  a  lubrici 
quadri,  abbenchè  per  vero  fosse  una  specie  di  locanda,  un  luogo 
di  riunione,  ove  le  donne  non  ponevano  mai  piede.  Stetti  ascoltando 
dei  paesani  che  bevevano.  I  loro  parlari  s'assembravano  alle  imma- 
gini pendenti  dai  muri:  erano  un  assieme  di  giuramenti  sulle  cose 
sacre  e  di  oscenità  grossolane  :  nuova  analogia  col  lingoaggio  pae« 


108  BinSTA  OONTBMPOBÀNBA 

sano  dei  dintorni  di  Roma.  In  verità  pare  che  allo  zelo  soverchio  per 
le  forme  esteriori  del  colto,  s'accompagni  sempre  un  gran  bisogno 
di  bestemmie. 

e  Io  accenno  sempre  ai  paesani  della  montagna,  poiché  quelli  che 
più  s'appressano  al  centro  del  bacino  e  delle  sue  città  sono  meglio 
inciviliti.  Del  resto  si  negli  uni  che  negli  altri,  siccome  nei  Romani, 
io  traveggo  e  discemo  delle  pregevoli  qualità.  E'  sono  probi  ed  alteri: 
nessuna  servilità  nelle  loro  accoglienze,  e  nell'ospitalità  loro  un  fare 
grandemente  sincero.  Per  certo  nell'anima  loro  riflettonsi  la  beltà 
e  l'asprezza  di  quel  cielo  e  di  quella  terra.  Quelli  Ara  dessi  che  sono 
credenti  senza  ipocrisia,  non  devono  esser  pii  e  religiosi  a  metà,  e 
quelli  che  hanno  un  po' viaggiato  o  ricevuto  una  qualche  istru- 
zione  pratica,  favellano  con  certa  franchezza  un  po'  boriosa,  che  non 
ispiace  a  chi  sia  alieno  da  pregi udizii  di  razza 

e  Le  donne  hanno  tutte  un'aria  arditella  e  cordiale  :  io  le  stimo 
buone  e  impetuose,  ned  è  tanto  la  bellezza  quanto  la  grazia  che  fàccia 
loro  difetto.  Il  cappellino  di  feltro  nerb,  che  portano  in  testa  ornato  di 
conterie  o  di  piume,  conferisce  ai  loro  volti  certa  vivacità,  se  son  gio- 
vani, certa  autorità,  se  son  vecchie  ;  ma  troppo  tien  del  maschile. 

e  Le  spalle  larghe  e  quadrate,  mal  rispondono  al  gracile  corpo,  e 
la  nessuna  pulitezza  rende  disgustoso  agli  occhi  il  loro  abbigliamento. 
Nella  montagna  Canno  gran  mostra  di  stracci  in  colori,  sopra  lunghe 
gambe  nude  e  infangate;  ciocchò  non  toglie  che  al  collo  e  agli  orecchi 
vadano  adorne  di  smanigli  d'oro  e  fin  di  diamanti  :  contrasto  di  lusso 
e  di  miseria  che  mi  ricordò  i  mendicanti  di  Tivoli...  » 

Nessuno  potrebbe  dare  una  descrizione  più  esatta  e  viva  con  mag- 
gior splendore  di  stile,  e  noi  siamo  lietissimi  di  aver  riportato  questa 
pagina  del  grande  scrittore. 

Feraci  oltremodo,  siccome  sopra  abbiamo  detto,  devono  essere 
le  terre  che  formano  il  fondo  del  lago  di  Fucino,  ed  il  terreno  che 
lo  circonda,  lo  prova  abbastanza.  D'altronde  deposte,  come  furono, 
per  lasso  di  secoli,  dall'acque  che  ve  l'hanno  condotte  d'ogni 
punto  del  territorio,  sonosi  commiste  con  le  sostanze  animali  e  ve- 
getali che  il  lago  ha  ricevuto  nel  suo  seno ,  antecipandone  altresì 
la  decomposizione.  NuUameno  qualunque  possa  essere  la  loro  eccel- 
lenza, si  penserebbe  a  torto  che  le  potessero  immediatamente  venir 
comparate  alle  altre,  e  trovassero  per  or  acquirenti.  La  loro  lunga 
immersione  necessiterà  dei  lavori  di  acconciamento,  che  attribui- 
ranno tanto  più  di  valore  ad  esse,  con  quanto  più  di  abilità  sa- 
ranno condotti  gli  antedetti  lavori;  e  questo  secondo  compito  della 
Compagnia  non  è  già  meno  importante  del  primo,  imperocché  da 
esso  dipende  una  i»ù  pronta  ed  utile  attuazione  dei  beneflcii  sociali. 

Da  troppo  tempo  il  lago  nuoce  ai  tenìmenti  che  lo  attorniano  ; 


INTBRBÀMraiTO  DEL  LA0O  DI  BUCINO  109 

troppo  spoBSO  distrasse  la  fortuna  degli  abitatori  delle  sue  rive,  an- 
che quando  si  stimavano  più  sicuri  che  mai,  perchè  i  giusti  timori 
da  lui  incussi  possano  svanire  nei  primi  tempi  della  sua  decrescenza, 
e  perchè  i  capitali  possano  concorrere  su  quelle  terre,  che  tanti  ne 
hanno  sprecati  altre  volte.  Non  prima  adunque  che  sia  trascorso  qual- 
che tempo,  e  quando  la  popol^ione  del  paese  sarà  ben  convinta  che 
lo  scaricatoio  offra  uno  sbocco  sufficiente  a  tutte  l'acque  che  potes- 
sero affluire,  nascerà  la  fiducia,  e  le  terre  troveranno  acquirenti* 
Questo  tempo  indispensabile  dovrà  essere  usufruttato  ad  ammogliare 
le  condizioni  delle  terre:  le  sorgenti  che  esistono  nel  lago,  le  cor- 
renti d'acqua  che  oggi  vi  si  gittano  entro,  se  governate  con  intel- 
ligOQza,  saranno  potenti  ausiliarii  alla  prodazione.  Una  coltivazione 
appropriata  a  tutti  i  varii  terreni,  e  che  seguisse  gradatamente  il 
loro  ammegliamento  rispettivo  e  proporzionale  ;  delle  piantagioni  di 
alberi  razionalmente  scelte  alla  consolidazione  e  salubrità  delle  terre  ; 
una  sufficiente  quantità  di  animali,  il  cui  letame  riscalderebbe  quelle 
partì  di  terreno  che  la  sommersione  raffreddò  di  soverchio,  e  rende- 
rebbe fruttifere  in  carne  e  lana  le  erbe  delle  praterie,  prodotto  primo 
della  terra;  tutto  ciò  diciamo  non  tarderebbe  a  risarcire  la  Società 
dei  sacrificii  patiti,  in  attesa  dei  beneficii  effettivi  che  a  buon  diritto 
le  spettano. 

Codesti  mezzi  non  sono  i  soli  d'altronde,  sui  quali  la  Società  deva 
fare  assegnamento  ;  imperocché  se  è  d'uopo  di  certo  tempo  perchè  i 
terrieri  possano  credere  all'efficacia  dello  scaricamento  del  lago,  e'  son 
per  contro  tutti  disposti  a  prendere  in  appalto  le  terre  liberate  dal- 
Tacqua ,  da  molto  tempo  ne  conoscono  la  grande  fertilità ,  anzi  le 
'affittano  dapertutto  facilmente,  e  in  certi  siti  a  carissimo  prezzo  (1). 

Del  resto  la  direzione  dei  lavori  di  riduzione  che  abbiamo  segna- 
lato, è  per  avventura  men  dispendiosa  che  la  non  potrebbe  parere 
sulle  prime  :  soventi  volte  in  Inghilterra  è  assai  più  facile  ed  econo- 
mico il  fare  a  nuovo  che  il  ristaurare:  tutto  dipende  dal  punto  di 
partenza,  e  se  il  progetto  è  ben  ideato  e  chiaramente  formulato,  non 
si  richiedono  ad  attuarlo  che  dei  lavori  molto  semplici  sotto  una 
sorveglianza  savia  e  solerte.  In  un  paese  dove  gli  uomini  sono  in- 
tellig^ti  e  laboriosi,  è  agevole  di  dar  loro  un  buon  impulso,  se  il 
loro  interesse  medesimo  ve  li  determini  naturalmente.  Il  territorio 
d'Àvezzano  è  ben  lontano  dal  rendere  prodotti  adeguati  alla  sua 
potenza  :  la  coltivazione  vi  è  mal  diretta,  le  terre  mal  preparate,  scarso 
il  bestiame,  le  piantagioni  poco  idonee  e  mal  ripartite.  Senza  dubbio 
ne  son  molte  le  cause,  le  quali  cominciano  già  per  la  maggior  parte 

(1)  Nel  territorio  di  Ortucchio  furono  affittate»  il  prim'anno,  delle  terre 
lasciate  asciutte  dal  lago,  fino  a  14  ducati  1(2  per  coppa.  La  coppa  di 
Avezzano  equivale  a  0,7225  di  moggio  legale. 


110  RIVISTA  OONTBHPORANBA 

a  cessare,  ed  anzi  alcune  più  non  esistono,  abbenchè  gli  effetti  con- 
tinuino ancora.  Fra  quest'ultime  possiamo  accennare  il  difetto  di  co- 
municazioni, dacché  11  paese  non  ebbe  fino  al  dì  d'oggi  nessuna 
strada  carrozzabile.  Perduto  in  mezzo  delle  montagne,  unico  veicolo 
v'erano  gli  animali  da  soma,  e  per  soprassello  i  sentieri  che  dove- 
vano battere  erano  impraticabili  quasi  tutto  l'inverno.  Presente- 
mente la  strada  da  Sora  ad  Avezzano,  offre  comode  vie  per  girare 
il  paese;  ohe  non  tarderà  a  sentirne  i  beneficii. 

Le  terre  comprese  nei  limiti  della  concessione  fatta  alla  Compagnia, 
si  estendono,  come  abbiamo  indicato,  a  2,207,554  moggia  leggali 
(42,883  mogg^ia  napoletani  o  14,566  ettari),  eccettuate  le  terre  poste- 
riormente invase  dall'acque,  e  sulle  quali  la  Compagnia  ha  dei  diritti 
da  far  valere.  Il  valore  d'un  moggio  napoletano  varia  in  questa  re- 
gione da  80  a  100  ducati  :  prendendo  a  base  il  valore  minimo,  i  terreni 
costituenti  la  proprietà  della  Compagnia,  dopo  il  prosciugamento, 
costeranno  3,430,640  ducati,  o  15,000,000  di  franchi  circa. 

Bisogna  por  mente  che  la  configurazione  del  letto  del  lago  è  atta 
a  facilitare  un  sistema  d'irrigazióne,  mediante  il  quale  il  valore  delle 
t^rre  aumenterà  non  poco,  e  che  tutte  quelle  terre  formando  il  fondo 
di  una  valle,  hanno  di  per  se  stesse  un  prezzo  maggiore  dell'altre 
che  stanno  intomo,  mentre  è  altresì  mestieri  computare  le  spese  di 
riduzione,  nonché,  trattandosi  di  terre  vergini,  i  prodotti  dei  ricolti 
pei  primi  anni.  Riassumendo  adunque  tutto  [quanto  abbiam  detto, 
ne  risulta  che  la  Società  restando  proprietà  dei  terreni  ricuperati 
dalle  acque,  deve  disporre  in  due  parti  distinte  l'impiego  del  pro- 
prio capitale  e  la  direzione  dei  lavori.  La  prima  consiste  nel  ristauro 
e  nell'allargamento  dello  scaricatoio  Claudiano ,  nella  costruzione  ' 
delle  cateratte  e  del  canale  mediano,  e  finalmente  nella  totale  emis- 
sione delle  acque  del  lago.  La  seconda  riflette  lo  acconciamento,  l'ap- 
palto, l'abile  distribuzione  degli  utili  ricavabili  dal  suolo  e  dalla  na- 
tura del  paese  sull'intero  territorio. 

Per  tal  modo  il  prosciugamento  del  lago  di  Fucino  ha  precipuo 
scopo  di  restituire  airagricoltura  da  16,000  a  17,000  ettari  di  terre 
feracissime,  quasi  di  continuo  tolte  all'industria  e  coverte  dalle  acque 
che  vi  occupano  un  bacino  di  circa. 65,000  ettari,  lasciato  dalla  natura 
senza  uscite  né  comunicazioni  visibili  colle  correnti  d'acqua  delle 
valli  limitrofe.  La  qual  mancanza  di  sfogo  assoggetta  il  lago  a  tutta 
l'intensità  dei  fenomeni  metereologici  :  la  sola  evaporazione  è  norma  * 
costante  dei  suoi  mutamenti  ;  il  suo  volume  e  la  sua  altezza  variano 
secondo  le  volubili  condizioni  igrometriche  dell'atmosfera,  ingros- 
sandosi ogni  qual  volta,  a  colpa  di  quest'ultime,  non  possa  svaporare 
una  quantità  maggiore  dell'acqua  che  il  lago  riceve,  e  decrescendo  . 
nel  caso  contrario.  La  tavola  seguente  dimostra  le  altezze  del  lago 


INTBR&àMBNTO  DEL  LAGO  DI  FUCINO  111 

riconosciute  colla  maggior  esattezza  dopo  il  1783 ,  e  indica  quanto 
incostanti  ne  sieno  le  variazioni. 

Anni  Profondità  del  lago 

1783  M.    13,49 


1787 

> 

17,36 

1816 

» 

23,01  massimo  che  si  conosca 

1836 

» 

10,23  minimo  che  si  conosca 

1852 

» 

14,06 

1853 

> 

16,18  questo  accrescimento  av- 
venne in  40  giorni. 

1869 

> 

17,78 

1861  1« 

maggio 

ji 

19,44 

L'accrescimento  continua,  e  a  non  pochi  villaggi  popolosi  è  mi- 
nacciata la  8(Nrte  delle  vetuste  città  di  Àrchippo,  di  Peuno  e  Ma- 
ruvio ,  che ,  come  dissimo ,  sparvero  inghiottite  dalle  acque  del 
lago. 

I  volumi  aumentano  in  proporzioni  assai  maggiori.  Galcolavasi 
che  il  bacino  contenesse: 


Nel  1835 

716,757,300  M.  cubi 

1852 

1,123,234,800       > 

1853 

1,430,928,500       > 

1859 

1,818,113,500        f 

1861  0  in  quel  tomo 

2,500,000,000        f 

I  due  livelli  del  1816  e  del  1835  che  hanno  fra  loro  una  diflforenza 
di  12  m.  69  cm.,  segnano  il  massimo  ed  il  minimo  delle  mutazioni 
che  si  conoscano;  ma  questi  limiti  non  rimasero  pùnto  insuperati. 
L'autorità  degli  scrittori  antichi,  e  sopratutto  le  numerose  traccio 
della  presenza  del  lago  nel  piano  d'Avezzano,  provano  che  a  più  ri- 
prese deve  aver  tocco  lidi  più  elevati  di  quelli  che  occupava  ne! 
1816. 

La  differenza  dei  due  livelli  'forma  intorno  al  lago  una  zona  di 
3,139  ettari  di  terra  i  più  fertili  di  tutto  il  paese,  e  suddivisi  in 
meglio  di  3,600  fondi  di  proprietà  privata;  ma  que'possessì  sono 
pressoché  illusorii  e  di  un  godimento  assai  dubbio,  perocché  dal 
1780  al  1861,  vale  a  dire  nello  spazio  di  81  anni,  furono  invasi  o 
minacciati  per  62  anni  senza  intervallo,  mentre  per  soli  anni  19  il 
lago  seguì  una  progressione  di  decrescenza. 

I  tenimenti  contermini  del  Fucino,  che  gli  abitatori  credono  in 
sicuro  dalle  sue  inondazioni ,  danno  in  condizioni  prospere ,  un 


112  BIYISTA  CONTEHPOBANBÀ 

reddito  corrispondente  a  un  capitale  da  2,700  a  3,400  franchi  per 
ettaro,  e  non  attribuendo  a  quelle  che  giacciono  nella  zona  soggetta 
alle  allagazioni,  che  un  valore  al  di  sotto  della  media  di  2000  franchi, 
ne  risulta  che  l'instabilità  del  lago  toglie  all'agricoltura  un  capitale 
di  6,278,000  franchi,  jattura  che  la  Marsica  sente  in  maggior  grado, 
sendochè  la  classe  indigente  vi  è  in  molto  numero. 

È  dunque  chiaro  che  Tinterramento  del  Fucino  è ,  sotto  ogni 
aspetto,  importantissimo. 

Suo  scopo  infatti  è  di  restituire  nel  pristino  ben  essere  parecchie 
&miglie  spodestate  del  proprio  ;  d'assicurare  la  esistenza  a  più  di 
30,000  braccia,  in  un  paese  ove  per  difetto  di  lavoro  un  numero 
quasi  uguale  ne  espatria  a  una  certa  stagione  dell'anno  ;  di  render 
salubre  una  vasta  contrada,  e  finalmente  di  dotare  la  fortuna  pub* 
blica  di  una  rilevante  ricchezza. 

I  Romani  tentando  cotesto  interramento,  ne  avevano  compresa 
tutta  la  gravità  economica  e  politica.  Fu  atto  di  somma  sapienza 
ministrativa  quello  compito  da  Claudio  imperatore,  edificando  il  fa- 
moso scaricatoio  che  da  lui  si  addomanda,  e  che  dovea  riversare  nel 
Liri  le  acque  del  lago  ;  dacché  nell'eseguire  quel  lavoro,  il  più  no- 
tevole nel  suo  genere  fra  quanti  ci  furono  tramandati  dall'antichità, 
ei  non  cercò  soltanto  di  schiudere  una  nuova  fonte  d^approvigio- 
namento  per  Roma,  ma  altresì  volle  diffondere  il  ben  essere  in  mezzo 
a  una  popolazione  di  spiriti  guerrieri,  che  la  miseria  incitava  alle 
rivolture;  ingentilirne  i  costumi,  moderarne  gl'istinti,  sviluppando 
gl'interessi  di  cui  è  fattrice  l'industria  agricola. 

Dopo  19  secoli,  il  bene  dello  Stato  e  delle  popolazioni  reclamano 
tuttavolta  il  medesimo  provvedimento.  Le  infruttuose  prove  esperite 
da  Claudio  e  ai  nostri  giorni,  in  ogni  tempo  e  sotto  tutti  i  governi, 
ne  attestano  Futilità  e  la  necessità  suprema. 

La  somma  dei  lavori  eseguiti  dalla  Compagnia  che  si  tolse  co- 
desta impresa  gigantesca,  il  confronto  tra  le  proporzioni  e  la  potenza 
dell'antico  scaricatoio  col  moderno,  convinceranno  ognuno  come 
quest'opera,  già  celebre  a  buon  dritto  presso  i  Romani,  sia  pur  oggi 
la  più  grandiosa  nella  sua  specie.  E  per  vero,  il  lago  di  Fucino,  al 
quale  vuoisi  dar  sfogo,  è  il  massima  volume  di  acqua  mediterranea 
e  l'emissario  odierno  il  più  lungo  e  largo  canale  sotterraneo  che  si 
sia  scavato  fin  qua. 

Cofifronto  tra  le  dmensUmi  dei  due  scaricatoi^  antico  e  moderno. 
Lavori  eseguiti  dopo  iZ  1853. 

Lo  scaricatoio  Claudiano  che  bisognava  ricostruire,  era  stato 
scavato  per  la  prima  volta  nel  1835  in  tutta  la  sua  lunghezza,  a  cura 


INTEBRAHBNTO  DEX  LAGO  DI   FUCINO  113 

dell'ingegnere  Afan  de  Bivera,  direttoce  generale  dei  ponti  e  delle 
strade  napoletane:  ma  i  lavori  provvisorii  di  puntellatura  che  egli 
avea  fatti,  rovinarono  durante  i  20  anni  scorsi  dalla  esecuzione  loro 
al  cominciamento  della  ricostruzione  nel  1853:  accaddero  scoscendi- 
menti molti  e  voluminosi;  le  acque,  del  lago  invasero  la  parte  su- 
periore del  canale,  e  lo  scaricatoio  ne  veniva  di  bel  nuovo  quasi 
interamente  distrutto  e  reso  inaccessibile  quasi  per  tutta  la  sua 
lunghezza,  la  quale  dal  fiume  Liri  alla  testa  del  canale  sulle  rive  del 
Iago  misura  m.  5,679  e  56  cm. 

Il  canale  attraversa  il  piano  dei  Campi  Palentini  a  una  profondità 
sotto  il  suolo  che  valria  dagli  85  ai  120  m. ,  e  il  monte  Salviano  a 
400  m.  circa  sotto  la  vetta.  I  Romani  gli  aveano  data  un'apertura 
la  cui  superficie  variava  da  mi'  14,80  a  mi'  4,11.  La  china  comune 
del  solaio  deUa  cateratta  era  di  m.  7,  14  e,  ma  ripartita  irregolar- 
mente presentava  in  certi  siti  delle  controchine,  le  cui  sommità  erano 
più  alte  che  l'entrata  del  canale,  e  in  diversi  punti  notavansi  delle 
deviazioni  non  piccole  dalla  direzione  generale.  L'uscita  dell'acqua 
dallo  scaricatoio,  supponendo  la  pressione  corrispondente  all'altezza 
del  lago  nel  1835,  vale  a  dire  mi*  10,32,  doveva  essere  al  massimo 
di  mi'  12,384  per  secondo.  Servendo  come  canale,  in  tempi  nor- 
mali, con  un'altezza  di  3  m.  d'acqua,  poteva  dare  ogni  secondo 
mf  9,120. 

Nel  costruire  il  nuovo  scaricatoio  fu  seguita  la  direzione  dell'an- 
tico,  tranne  in  qualche  parte,  ove  fu  forza  aprire  dei  nuovi  corridoi 
per  riaccostarsi  alla  linea  retta.  L'apertura  presenta  una  superficie 
costante  di  mi*  19,989:  il  suo  declivio  è  regolarmente  di  0  m.  001  e. 
Il  solaio  della  cateratta  fu  abbassato  alla  testa  del  canale  di  mi*  2,39; 
all'uscita  di  mi*  0,792,  ciocché  necessitò  in  alcuni  luoghi  una  in- 
cavazione  di  4  m.  50  e.  a  causa  delle -controchine.  Sotto  la  pressione 
corrispondente  all'altezza  attuale  di  22  m.  86  e,  lo  sfogo  dell'acque 
può  salire  a  mi'  67,506  per  ogni  secondo  :  sotto  quella  del  1835, 
ossia  di  10  m.  32  e,  salirebbe  a  mi'  46,616.  Finalmente,  in  tempi 
normali,  servendo  come  canale,  con  un'altezza  d'acqua  di  mi*  3,80, 
emetterà  mi'  28,078. 

Da  cotesto  cifre  numeriche  emerge  l'enorme  differenza  che  inter- 
cede fra  l'opera  moderna  e  l'antica;  ma  entrando  nei  particolari,  la 
si  può  valutare  ancora  più  al  giusto. 

Lo  scaricatoio  di  Claudio  mostrava  dei  saggi  in  ogni  maniera  di 
muratura;  ma  però,  se  ne  togli  quella  a  rottami  di  pietra  scalpel- 
lati, l'opera  reticolare  non  vi  si  vedeva  per  nulla.  I  pilastri  erano 
talvolta  in  mattoni  ;  ma  più  spesso  in  muratura  comune  con  o  senza 
rivestimento  di  mattoni,  le  volte  e  i  pavimenti  erano  per  lo  più  fab- 
bricati con  una  specie  di  smalto,  in  mezzo  al  quale  si  veggono  tut- 

Mivista  (7.-8 


114  RIVISTA   CONTEMPOEANBA 

tavia  le  estremità  degl'intavolati.  Queste  diverse  guise  di  muratura, 
commiste  assieme  quasi  a  casaccio,  e  senza  alcun  ordine  o  ragione 
di  essere,  hanno  non  poco  contribuito  ad  accelerare  la  rovina  dello 
scaricatoio. 

L'opera  moderna  è  in  ogni  sua  parte  fabbricata  con  pietra  calcarea 
scalpellata,  di  qualità  perfettissima. 

I  Romani  che  pur  conoscevano  perbene  le  proprietà  e  l'uso  della 
pozzolana,  non  se-  ne  sono  mai  serviti,  comechè  i  loro  pozzi  ne  attra- 
versassero spessissimi  banchi.  Essa  non  fu  adoperata  che  nei  nuovi 
lavori,  nei  quali  si  scrupoleggiò  a  tal  segno  da  rivestire  in  mattoni 
un  andito  della  galleria  che  passava  per  uno  spesso  strato  di  terra, 
abbastanza  compatta  perchè  dopo  1900  anni  quel  passaggio  si  rin- 
venisse nel  miglior  stato  di  conservazione.  I  nuovi  lavori  resero  at- 
tivi 18  pozzi,  dei  quali  12  profondi  da  85  a  96  m.,  e  due  corridoi 
obliqui  [eunicuU)^  di  cui  uno  lungo  180  e  l'altro  260  m. 

Ai  lavori  del  Tunnel-  non  si  pose  mano  che  nell'anno  1856:  al 
mese  di  aprile  1860  erasi  terminata  la  galleria  per  una  lunghezza 
di  3,747  m.  ed  eseguito  lo  scavo  di  mi'  84,060,90  in  terreni  diver- 
sificanti dalla  più  dura  calcare  compatta  fino  all'argilla  e  alla  sabbia 
finissima. 

Per  quest'opera  venivano  impiegati  : 

In  muratura  di  rottami  scalpellati  mi'  14,321,80 

Id.            ordinaria. 3,172,82 

Id.            in  mattoni 1,133,77 

Id.  in  pietre  crude  .    .    .  4,509,58 


Totale  mi'  23,137,97 

L'inaccessibilità  dello  scaricatoio,  all'epoca  che  ne  prese  possesso 
la  Compagnia,  aveva  reso  necessario  di  istituire  i  progetti  sui  piani 
di  Afan  de  Rivera  ;  e  dietro  a  que'dati  calcolavasi  uno  scavo  di  mf 
60,955  per  l'intera  lunghezza  dello  scariòatoio.  Siffatti  computi  con- 
cernevano soltanto  un'apertura  di  m^*  12  di  superficie,  ma  il  rapido 
ingrossare  del  lago  dal  1852  al  1853  persuase  tornare  insufficiente 
questa  apertura:  la  si  è  dovuta  portare  a  m[^  20,  e  ne  risulta  che 
appena  a  due  terzi  del  lavoro,  gli  scavi  eseguiti  oltrepassano  già  di 
mi'  23,105,90  la  quantità  totale  anteriormente  computata. 

Secondo  questi  stessi  dati  le  murature  calcolate  per  l'intera  edi- 
ficazione dello  scaricatoio  ascendevano  a  m\^  11,928:  a  [due  terzi 
dell'impresa  •  codesta  somma  aumentava  di  m^*  11,709,97,  vale  a 
dire  del  doppio  e  nondimeno  restavano  tuttavia  a  praticare  m^* 
1,494,90  di  galleria  per  giungere  al  punto  in  cui  l'acque  avrebbero 
dovuto  entrare  nel  canale. 


INTBBRAMBNTO  DBL  LACK)  DI  FUCINO  115 

Da  un  fli  rilevante  aumento  dei  lavori  ne  conseguitò  la  necessità 
di  accrescere  il  capitale  sociale  in  considerevoli  proporzioni,  d'impie- 
gare un  tempo  molto  più  lungo,  e  di  assoggettare  per  ogni  rispetto 
la  Compagnia  a  più  gravi  carichi  che  la  non  si  fosse  aspettati 
dapprima. 

Malgrado  le  violenti  commozioni  in  cui  trovasi  la  Marsica  dopo  il 
1860  e  il  forzato  allentare  dei  lavori  durante  Tultimo  trimestre  del  1860, 
il  30  di  aprile  1861  la  gallerìa  era  aperta  in  tutta  la  sua  lunghezza 
e  interamente  compita  sopra  m['  4,284,  di  cui  m}^  2,184,14  sono  in 
muratura  di  rottami  scalpellati,  m^*  310  ricoperti  di  mattoni)  e  il  ri- 
manente ii^  roccia  compatta.  A  quel  tempo  restavano  ancora  m['  842 
di  galleria  da  allargare  e  cavar  nella  roccia,  e  diversi  anditi  in  mu- 
ratura da  fabbricare  dì  pianta.  Oltre  a  questi  lavori  sotterranei  bi- 
sog^nava  eseguire  alla  testa  del  canale,  nel  lago,  dei  lavori  di  pre- 
sidio e  di  isolamento,  e  costruire  una  diga,  per  la  quale  non  ci  volle 
meno  che  un  assodamento  di  cento  e  più  mille  metri  cubi  di  terra 
e  di  roccia. 

Queste  cifre  testificano  solennemente  la  grandiosità  del  lavoro^ 
che  fu  Qompiuto  senza  interruzione  e  nel  più  profondo  silenzio,  in 
mezzo  ad  ostacoli  di  ogni  maniera,  e  d'avvenimenti  atti  a  causare 
in  via  ordinaria  un'assoluta  sospensione. 

Ci  pare  di'aver  significato  a  sufficienza  il  genere  e  la  natura  dei 
lavori,  e  le  difficoltà  che  sì  dovevano  superare  per  condurli  a  ter- 
mine. Il  lettore  avrà  compresa  l'importanza  dell'interramento,  e  figu- 
ratasi quella  vasta  circonferenza  di  60  chilometri  ieri  coperti  dal- 
l'acque, ed  oggi  convertiti  in  praterie  ed  in  campi,  ove  le  ricche 
messi  fruttificheranno  Tabbondanza  di  tutto,  mentre  prima  vi  regna- 
vano la  sterilità,  la  carestia  e  la  fame.  Allorché  quei  65,000  ettari 
ben  coltivati  daranno  dei  ricolti  che  era  follia  di  sperar  per  lo  in- 
nanzi, ed  un  paese  intero  destituito  d'industria  e  dì  commercio,  sarà 
per  ciò  messo  in  grado  di  prosperare  mediante  lo  scambio  dei  suoi 
novelli  prodotti,  non  si  dovrà  forse  confessare  la  utilità  di  questa 
colossale  intrapresa?  Non  è. forse  un  miracolo  che  abbiasi  potuto 
inaugurare  a  questi  giorni  il  primo  sgorgo  dell'acque  nello  scarica- 
toio? Senza  dubbio  l'opera  non  è  finita,  anzi  ne  siamo  ancora  al 
cominciamento,  ma  non  è  men  debito  di  ammirare  gli  sforzi  incre- 
dibili che  ci  vollero  per  giungere  a  tanto. 

Per  far  ben  capire  al  lettore  l'indole  dei  varii  ostacoli  ed  impe- 
dimenti che  si  frapposero  airesecuzione  dei  lavori^  ci  è  mestieri 
toccare  di  alcune  particolarità  intorno  alla  costituzione  della  Com- 
pagnia. Sarà  un  breve  cpnno  ed  utile  ad  un  tempo,  imperocché  sia 
codesta  una  pagina  inedita  degli  intrighi,  di  cui  fu  teatro  per  lo  passato 
il  Bearne  di  Napoli.  Abbiamo  già  detto  fin  dal  principio  che  l'impresa 


116  KIVISTA   CONTEMPORANEA 

era  stata  concessa  ad  alcuni  stranieri  in  premio  di  certi  secreti  ser- 
vigii  resi  a  re  Ferdinando  II  negli  anni  1848  e  1849.  Costoro  non 
avevano  alcun  credito  né  politico  né  finanziario;  e  nondimeno  deli- 
berarono di  fondare  una  Compagnia  onde  mettere  in  atto  la  xsonces- 
sione.  Per  gran  ventura  i  Napoletani  nati  fatti  per  diffidare  di  qua- 
lunque Compagnia  industtiaie,  costituentesi  con  un  pretesto  più  o 
meno  industriale  e  lodevole,  e  capeggiata  da  personaggi  più  o  men 
titolati,  principi,  duchi,  baroni,  cavalieri  ;  per  gran  ventura,  diciamo, 
i  Napoletani  non  risposero  con  molta  premura  all'appello  dei  suc- 
cessori e  continuatori  dell'opera  romana.  Quelli  che  avevano  arri- 
schiato il  negozio,  non  lo  riguardavano  che  come  un  affare  di  Borsa,  e 
speravano  che  un  forte  premio  avrebbe  salutato  la  risurrezione  del- 
l'impresa incominciata  da  Claudio.  Ma  s'ingannarono.  La  nuova 
Società  venne  accolta  con  indififerenza  dal  pubblico,  e  le  azioni  lungi 
dal  guadagnare  non  trovarono  nemmanco  acquirenti  a  una  cifra  assai 
minore  del  pari.  A  dir  corto,  i  consigli  di  amministrazione  e  di  sor- 
veglianza, i  direttori  e  gli  impiegati  seppero  soli  di  che  colore  fos" 
sero  le  azioni,  e  di  qual  forma.  Il  negozio  folli  addirittura.  In  onta  a 
ciò,  eransi  potuti  incominciare  gli  studii  dei  lavovi,  eransi  tracciati 
alcuni  piani,  i  conti  preventivi  erano  stati  fatti  :  ma  tutto  questo  va- 
leva a  nulla,  che  il  nerbo  della  guerra,  e  d'ogni  altra  cosa,  vo'  dire 
il  denaro  mancava.  Allora  uno  dei  concessionarii  ebbe  un'inspirazione 
bellireima,  la  quale  rivelò  in  lui  il  vero  genio  dell^  speculazione. 
Un  bel  giorno  partì  da  Napoli  e  si  recò  a  Roma. 

Il  principe  Alessandro  Torlonia  è  conosciuto  per  tutta  Europa,  e  si 
sa  per  tutti- che  le  sue  ricchezze  sono  ingenti:  esse  aumentano  ogni 
giorno,  ma*come  ha  ragione  il  proverbio  che  fortuna  non  fa  felicità, 
il  principe  Torlonia  è  una  prova  vivente  di  questo  vero.  Proprietario 
di  milioni,  potendo  soddisfare  ogni  suo  desiderio,  e'  darebbe,  ne 
Siam  certi,  tutte  le  sue  dovizie  per  la  felicità  domestica.  Infatti  il 
principe  ha  da  lunghi  anni  la*  moglie  inferma  e  priva  delle  facoltà 
mentali:  la  sua  unica  figlia  é  cieca,  sorda  e  muta;  e  l'erede  d'un 
patrimonio^  la  cui  ricchezza  contasi  per  decine  di  milioni,  non  può 
fruire  né  colla  vista,  né  con  alcun  altro  umano  senso,  delle  beati- 
tudini di  tanta  fortuna.  Non  avevamo  dunque  ragione  di  dire  che 
la  sorte  del  principe  Torlonia  non  è  punto  invidiabile? 

Il  Direttore  dell'interramento  del  Fucino  sapendo  tutto  questo,  pre- 
sentatosi al  principe,  gli  espose  la  cosa  con  tutti  i  suoi  particolari  e 
le  sue  conseguenze  :  esser  codesto  un  mezzo  per  rendersi  immortali  : 
tutti  quelli  che  si  adoprarono  per  quel  lavoro,  esser  passati  alla  po- 
sterità: Narciso,  Agrippina,  Claudio,  Nerone,  Adriano  aversi  un  posto 
a  parte  nelle  narrazioni  degli  storici  :  Tinterramento  del  Fucino  essere 
impresa  dogana  del  principe,  e  nel  tempo  stesso  un  buon  negozio  sotto 


INTEBBAMBNTO  DEL  LAGO  DI  FUCINO  117 

lo  aspetto  finanziario:  niun  altro  poter  effettuare  un'opera  cotanto 
grandiosa.  Insomma  qualche  di  dopo  il  principe  Torlonia  partiva  per 
Avezzano,  facendovisi  accompagnare  dal  celebre  ingegnere  francese 
signor  di  Montricher,  a  cui  Marsiglia  deve  il  magnifico  canale  della 
Duranza.  Il  signor  di  Montricher  esaminò  tutto,  segnò  un  piano, 
guarenti  al  principe  la  buona  riuscita  dei  lavori  e  la  possibilità  reale 
di  venirne  a  capo,  e  finalmente  ne  assunse  la  direzione.  Il  principe 
rassicurato,  poiché  aveva  ogni  fiducia  nel  celebre  ingegnere  ;  lusin. 
gato  dal  pensiero  di  illustrare  il  proprio  nome  con  quell'opera  gigante, 
di  compiere  un  lavoro,  del  quale  i  Romani  non  avevano  potuto  veder 
l'esito,  e  innanzi  al  quale  19  secoli  si  avevano  arretrato;  il  principe,  ri- 
petiamo, volendo  che  la  sua  fama  suonasse  alta  fra  i  posteri,  deliberò 
di  accollarsi  il  negozio. 

Ma  di  questo  strano  affare  non  fu  certo  men  strano  il  modo  dovuto 
usare  dal  principe.  Narriamo  un  episodio  dei  più  singolari  fra  quanti 
possono  pingere  pib  al  vivo  lo  stato  di  terrore  e  di  suggestione  in 
cui  giacevano  le  provincie  napoletane. 

La  Compagnia  formatasi  in  seguito  alla  concessione  accordata  da 
Ferdinando  II  s'intitolava:  Compagnia  Napoletana  di  prosciugamento 
del  Lago  Fucino  e  di  restaurazione  delV emissario  di  Claudio.  L'ammi- 
nistrazione generale  erasi  allogata  in  strada  Medina  n''  61,  ed  una 
succursale  era  stata  stabilita  in  Avezzano.  Furono  istituiti  condigli  di 
amministrazione  e  di  direzione,  nominati  i  direttori  dei  lavori  e  degli 
affari  contenziosi,  tutti  insomma  i  moltissimi  impiegati  ordinari!.  Cia- 
scuno si  appostò  del  suo  meglio,  e  fecesi  il  nido  fra  tanta  moltitu- 
dine di  sinecure  soavissime.  Fra  stipendii,  indennità  e  assegni  di  pre- 
senza, ciascun  amministratore  s'era  fatto  un  grasso  appanaggio,  e  se 
ne  stava  in  panciolle.  Tutti  credevano  che  non  la  durerebbe  molto 
a  quel  modo,  perchè  non  si  aveva  alcuna  fede  nella  riuscita  dell'im- 
presa, e  si  opinava  che  fin  dal  principio  sarebbe  stata  abbandonata  e 
lasciata  sospesa.  Immagina  dunque,  o  lettore,  la  dolce  e  grata  mera- 
viglia di  quella  gente,  quando,  arrivato  a  Napoli  il  principe  Torlonia 
col  signor  di  Montricher  e  col  direttore  che  era  andato  a  cercarlo  in 
Roma,  nulla  fu  cangiato,  e  ciascuno  rimase  al  suo  posto.  Ed  ora  senti 
perchè  il  principe  Torlonia  lasciasse  tutto  nello  statu  quo. 

Ferdinando  II  era  un  sovrano  assoluto,  e  come  tale  un  po'capric- 
cioso.  Poteva  darsi  benissimo  che  un  giorno  o  l'altro  si  risapesse 
dal  re  come  i  lavori  progredissero  davvero,  e  la  concessione  da  lui 
accordata,  lungi  dal  restare  allo  stato  di  lettera  morta,  si  rendesse 
proficua  a  coloro  ai  quali  egli  avea  creduto  di  gittare  un  osso  nudo 
da  rodere,  e  nulla  più  :  sicché  (se  ne  avevano  tanti  esempii)  Ferdi- 
nando II  poteva  in  quel  giorno  muover  liti  e  cavilli  al  principe  Tor- 
lonia, cui  sarebbe  stato  forza  tacersi,  non  potendo,  povero  principe  ro- 


118  BIVISTA  CONTBMPOBANEA 

mano,  lottare  con  una  maestà  come  quella  di  Ferdinando  II.  Laonde, 
per  ovviare  al  caso,  il  principe  Torlonia  comprò  da  solo  tutte  le  azioni 
restate  invendute,  vale  a  dire  tutte,  se  ne  togli  le  azioni  libere  ri- 
serbatesi dai  fondatori  dell'impresa,  i  quali  però  non  tardarono  a 
cedere  anche  quelle  al  Torlonia.  Questi  sborsò  la  somma  di  5,000,000 
di  franchi. 

Più  tardi  la  Compagnia  abbisognando  di  nuovi  fondi,  si  tenne 
una  seduta  d'azionisti,  e  il  prìncipe  attribuì  a  se  stesso,  unanima- 
mente,  con  un  sol  voto,  i  7,000,000  addizionali  di  cui  non  si  poteva 
W^  senza.  E  avvedutamente  adoprava:  conciossiachè  se  saltava  il 
ticchio  al  re  di  Napoli  di  dargli  molestia,  egli  cedeva  una  parte 
delle  sue  azioni  al  portatore  a' suoi  corrispondenti  francesi,  inglesi, 
russi,  tedeschi,  e  allora  sorgevano  contro  Ferdinando  II  gli  amba- 
sciatori di  tutte  le  potenze  a  chiedergli  conto  delle  vessazioni  da  lui 
t&tter  ai  loro  connazionali.  Per  tal  modo  può  dirsi  che,  tranne  qualche 
mena  sordina,  qualche  secreta  opposizione,  la  Compagnia  non  ebbe 
nulla  a  patire  dalla  malivoglienza -e  gelosia  reale. 

La  Compagnia  adunque  restò  nominalmente  a  Napoli:  ognuno 
riscosse  puntualmente  (e  questo  giovò  moltissimo)  le  proprie  prò- 
vigioni;  le  sedute  furono  tenute  regolarmeilte  ;  insomma  tutto  andò 
per  lo  meglio.  Ma  la  vera  residenza  delia  impresa  e  la  direzione  dei 
lavori  erano  in  Avezzano.  L'agente  del  principe  era  un  francese,  emi- 
grato dopo  il  colpo  di  stato  del  2  dicembre  1851,  il  signor  Leone  de 
Rotrou.  Per  dargli  maggiore  autorità  in  paese  fu  fatto  eleggere 
agente  consolare  di  Francia.  É  uomo  di  non  comune  intelligenza, 
che  l'anno  scorso  fu  creato  cavaliere  dei  Ss.  Maurizio  e  Lazzaro,  ed 
era  proprio  adatto  all'ui^po,  perchè  vivace,  solerte,  intraprendente,  in 
un  paese  usato  di  andare  a  rilento  e  a  camminare  a  ritroso.  Il  si- 
gnor di  Montricher  prese  stanza  in  Avezzano  onde  dirigere  in  per- 
sona quell'opera  cui  si  era  grandemente  affezionato.  Sventuratamente 
nel  1858  mori  di  febbre,  lasciando  il  lavoro  incompiuto,  ma  in  corso 
regolare  d'esecuzione. 

Oli  succedette  nella  direzione  dei  lavori  un  ingegnere  di  gran 
valore,  il  signor  di  Bermoi^,  che  del  resto  avea  aiutato  il  signor  di 
Montricher  fin  dal  principio  dell'impresa;  per  cui  non  era  già  un 
uomo  nuovo,  ma  un  continuatore  dell'illustre  ingegnere,  morto  a  40 
anni  appena,  all'apogeo  della  sua  fama,  e  in  tutta  la  forza  del  suo 
raro  ingegno. 

I  signori  Brisse,  Lavancher,  Amedeo  Bafa,  Edoardo  Scheffer  ed 
altri  furono  i  collaboratori  del  signor  di  Montricher  e  poscia  del  si- 
gnor di  Bermont;  e  devesi  riferire  a  loro  merito  se  i  lavori  prose- 
guirono regolarmente.  Eglino  se  ne  divisero  il  compito.  Uno  andò 
a  Capistrello,  e  diresse  i  lavori   da  quella  parte,  e  curò  l'erezione 


INTBBBAMBNTO  DEL  LAGO  DI  FUCINO  119 

delle  case  che  per  otto  anni  ricoverarono  2,000  lavoratori:  un  nuovo 
paese  era  nato  quasi  per  incantesimo  ;  chiesa,  scuola,  case,  tutto  sor- 
geva in  pochi  giorni.  Un  altro  fece  lo  stesso  all'Incile,  situato  sulla 
sponda  del  lago  vicino  air  imboccatura  della  scaricatoio,  mentre  Ca- 
pistrello  era  posto  dall'altro  lato  di  Salviano,  all'estremità  dello  sca- 
ricatoio anzidetto.  Altri  dirigevano  il  taglio  dei  legnami,  le  fabbriche 
dei  mattoni,  i  cantieri  ove  si  costruivano  i  carri  di  trasporto,  i  va- 
goniy  tutte  insomma  le  opere  da  falegname.  Altri  infine  stabilirono 
e  condussero  le  ferriere ,  le  fonderie  ove  si  colavano  le  rotaie ,  ove 
si  fabbricavano  ì  chiodi ,  gli  arnesi  ,  gli  stromenti  d'ogni  fatta. 
Fabbriche  di  corde,  di  stoppa,  magazsrini,  baracche  di  varie  guise 
furono  ordinate,  erette  e  costrutte.  Finalmente  bisognava  ingegnarsi 
alla  meglio  :  non  ci  era  modo  di  procacciarsi  dall'interno  o  dall'esterno 
del  reame  nulla  di  quanto  fosse  necessario.  E  così  sia  detto  degli 
operai;  che  convenne  chiamar  dal  di  fuori  i  falegnami,  i  fabbri  ferrai, 
i  fonditori,  i  muratori  ecc.  onde  far  apprendere  agli  incoli  jl  mestiere 
che  s'erano  scelto.  Per  dieci  anni  non  ci  fu  più  emigrazione  :  tutti  i 
montanari  e  gli  uomini  e  le  donne  della  pianura  ebbero  lavoro,  -e 
4,000  persone  vissero  di  quell'impresa  toccando  un  onesto  guadagno. 

Ecco  il  lavoro  gigantesco  che  fu  inaugiltato  a  questi  giorni,  o  piut- 
tosto il  cominciamento  di  quel  lavoro  che  fu  benedetto  non  ha  guari. 
Infatti  il  bacino  che  dà  l'andare  all'acqua,  non  serve  a  scaricarla  che 
fino  a  una  certa  altezza,  affinchè  una  parte  della  galleria  (lunga  410  m. 
tuttavia  piena  d'acqua,  e  ostruita  dai  scoscendimenti)  possa  per  tal 
modo  venir  essiccata  e  reintegrata,  come  il  restante  dello  scaricatoio. 
Oli  è  da  \ma  galleria  provvisoria  cavata  nella  roccia,  a  mancina,  e 
che  fa  quindi  un  angolo  esteriore  colla  galleria  più  lunga,  in  ragione 
della  sua  sinuità  di  480  m.,  che  l'acqua  si  versa  per  giungere  al- 
Tultimo  scaricatoio.  Fu  calcolato  che  non  ci  vorranno  men  di  due 
anni  per  conseguire  la  desiderata  decrescenza. 

n  lavoro  costò  finora  14,000,000  di  franchi,  ma  noi  possiamo 
esser  sicuri  che  ai  andrà  più  oltre.  Del  resto  ciò  poco  monta  al 
principe  Torlonia.  Allorché  il  signor  Peruzzi,  allora  ministro  dei  la- 
vori pubblici,  visitò  un  anno  fa  lo  scaricatoio  in  compagnia  del 
principe,  questi  alle  giuste  lodi  tributategli  dal  ministro,  rispose: 
e  Ho  speso  finora  14  milioni,  ma  non  già  sulle  mie  rendite  ordi- 
narie, né  sui  miei  capitali;  sono  profitti  d'alcuni  miei  negozii,  indi- 
pendenti dal  mio  patrimonio.  Avrei  potuto  dispome  a  beneficio  di 
qualche  favorita.  D'altronde  se  io  mi  muoio,  ho  almeno  provveduto 
al  pieno  compimento  di  questa  impresa,  ed  ho  regolato  in  •  conse- 
guenza la  bisogna,  senza  pregiudizio  alcuno  dei  miei  eredi». 

Non  possiamo  meglio  conchiudere  che  con  due  parole  sulla  so- 
lenne inaugurazione  del  bacino  che  dà  sfogo  alle  acque,  le  quali 


120  RITISTA  OONTTOfPOBAKBA 

dallo  scaricatoio  si  riversano  nel  Liri.  È  a  notarsi  per  incidema  oke 
tutti  i  paesi  che  giacciono  dopo  Capistrello,  sulla  spondtt  del  Liri, 
hanno  intentato  una  lite  alla  Compagnia,  ed  invero  inondati  come 
sono  r inverno,  essi  chieggono  se  saran  dannati  a  perire  anche  la 
state  nell'acque.  L'avvenire  deciderà  sulla  giustezza  delle  loro  ragioni. 
Frattanto  ecco  come  uno  dei  nostri  amici  ci  racconta  T  inaia gura^ 
zione: 

«  Ieri  mattina  adunque  a  7  ore  suonate,  il  prefetto  d'Aquila  col 
suo  seguito,  il  generale  Chiabrera,  il  sotto-prefetto  d'Avezzano, 
l'ingegnere  ispettore  del  genio  civile  della  provincia,  signor  Mas- 
sari, il  presidente  del  consiglio  d'amministrazione  ed  il  direttore 
della  Compagnia,  scortati  dagringegneri  Bermont,  Brisse  e  Lavanchy 
anche  della  Compagnia,  si  recarono  a  visitar  l'emissario.  Gran  sod- 
disfazione provarono  tutti  ad  esaminare  l'opera  grandiosa,  e  benché 
non  potessero  farsi  una  giusta  idea  dei  pericoli  corsi  e  delle  diffi- 
coltà superate,  pure  non  si  rimanevano  dall'ammirarla,  massime  il 
prefetto. 

«  Il  giorno  dopo,  alle  6  1[2,  fu  la  solenne  inaugurazione.  Spettacolo 
davvero  grande  ed  imponente.  Le  rive  del  canale  erano  adorne  di 
oriflamme  e  di  bandiere  tilcolori.  Sopra  la  galleria  di  comunicazione 
fra  il  canale  scoverto  e  l'emissario,  era  apparecchiato  un  elegante 
altare  adorno  di  lumi,  intomo  al  quale  avevano  preso  posto  le  au- 
torità civili,  militari  ed  ecclesiastiche  della  provincia,  e  meglio  che 
cento  persone  invitate. 

Molta  popolazione  era  accorsa  da  Avezzano  e  paesi  vicini.  Come 
l'abate  latosti  ebbe  recitate  le  preghiere  appiè  dall'altare,  e  si  fu 
recato  sulla  testa  del  canale  a  benedir  le  acque  ^d  i  lavori,  cominciò 
tosto  ad  agire  il  congegno  che  sollevava  ad  uno  ad  uno  i  tavoloni, 
i  quali  arginavano  la  caduta  delle  aeque.  Esprimere  l'ansia  e  la 
perplessità  degli  astanti  non  è  guari  possibile  con  parole.  Tolti  i 
tavoloni,  continuava  l'ansietà  del  pubblico,  perchè  l'argilla  flrapposta 
tra  quelli,  benché  non  sorretta  da  nessun  lato,  opponeva  tuttora 
ostacolo  alla  caduta  delle  acque.  Le  filtrazioni  si  facevano  ad  ogni 
istante  più  copiose,  ma  la  massa  reggeva;  cominciò  poi  a  barcollare, 
finalmente  crollò.  Allo  irrompere  delle  acque  nel  sottoposto  bacino 
levossi  un  grido  unanime  di  gioia  e  di  applauso.  Fu  un  momento 
solenne,  indescrivibile.  ...  Le  acque  fluiscono  ora  regolarmente,  ed 
il  successo,  comechè  non  dubbio,  è  oggidì  assicurato.  Il  coraggio 
e  la  perseveranza  del  signor  principe  Torlonia  sono  stati  benedetti 
da  Dio  e  premiati  dall'esito  felice. 

Compiuta  la  solenne  inaugurazione,  e  rimasti  tutti  un  pezzetto  a 
guardar  la  caduta  delle  acque  e  il  loro  frangersi  rigogliose  e  spruz- 
zanti fino  al  palco  d'onde  era  stata  impartita  la  benedizione,  ed  il 


INTBBRAUBNTO  DBL  LA^O  DI  FUCINO  121 

loro  immettersi  precipitose  nel  piccolo  traforo  di  comunicazione,  fu- 
rono serviti  dei  rinfreschi  a  tutti  gli  invitati,  signori  e  signore,  ai 
quali  era  stato  riservato  un  posto  distinto.  La  popolazione  intanto  si 
ritirava,  ed  era  belio  vedere  molte  barche  solcare  il  lago  in  diverse 
direzioni,  e  molti  veicoli  con  innumeri  pedoni  disperdersi  in  tutti  i 
sensi  per  le  campagne,  gridando  evviva  al  re  Vittorio  Emanuele  ed  al 
principe  Alessandro  Torlonia,  autore  dell* intrapresa.  Curiose  erano  le 
oeservazioni  di  quei  contadini,  presso  i  quali  esistendo  le  tradizioni 
dei  tanti  falliti  tentativi  di  prosciugamenti,  non  credevano  alla  testi- 
monianza de'proprii  occhi  vedendo  riuscito  quest'ultimo,  e  dicevano: 
«  Fucino  se  ne  va  clawero  ora  ». 

La  sera  i  convitati  convennero  ad  un  gran  banchetto  di  30  coperti, 
che  riusci  allegrissimo  ed  ottimamente  servito.  Il  prefetto  bevve  alla 
salute  deiringegnere  signor  Bermont  che  aveva  diretto  i  lavori,  e 
prendendo  occasione  dalla  sua  qualità  di  francese,  bevve  alla  durevole 
alleanza  di  Francia  ed  Italia.  Rispose  il  Bermont  bevendo  alla  salute 
del  principe  Alessandro  Torlonia  cui  era  principalmente  dovuto  l'otte- 
nuto successo,  ed  a  quella  deiringegnere  Brisse  sotto-direttore  de'la- 
vori  che  aveva  cooperato  con  lui  ad  ottenerlo.  Il  vice-presidente  del 
Consiglio  di  amministrazione  della  Compagnia  avvocato  Cacace,  bevve 
alla  salute  del  Re. 

Seguirono  molti  altri  brindisi  ed  i  nomi  del  Re  e  del  principe  Tor- 
lonia furono  soventi. festeggiati. 

Ho  omesso -di  dirle  che  sul  luogo  istesso  dell'Incile,  dalle  autorità 
intervenute  e  dal  direttore  della  Compagnia,  fu  sottoscritto  un  verbale 
constatante  il  seguito  cominciamento  della  immissione  delle  acque 
del  lago  nel  fiume  Liri. 

Luigi  db  l^  Varennb. 


122 


DELLA  EPIGRAFIA 


n 


PENSIERI 


Gli  uomini  in  effetto  non  son  fra  loro  sconnessi,  né  le  genera- 
zioni e  le  epoche  son  di  guisa  indipendenti,  che  la  successione  loro 
non  sia  ordinata  in  virtù  di  correlazioni  causali,  e  di  vincoli  inte- 
stini, che  runa  all'altra  congiungono.  Tutto  quello  è  compreso  nel 
creato,  è  reciprocamente  connesso  nella  vita  e  nella  operazione,  di 
quella  maniera  medesima,  che  da  un'idea  sola  è  supernamente  rap- 
presentato, l'idea  cioè  d'universo  o  del  cosmo;  e  ciò  che  ai  volgari 
e  superficiali  pensatori  si  par  segregato  ed  autonomo,  non  è  che  dis- 
forme e  distinto,  vale  a  dire  non  è  che  apparentemente  tale,  con- 
ciossiachè,  quanto  è  sottoposto  a  limiti  di  spazio  e  di  tempo,  è 
volubile  e  vario,  e  nella  sua  movenza  e  nel  suo  dispaiarsi  e  molti- 
plicarsi /ermo  e  sostantivamente  uno.  La  società  è  l'accolta,  o  la 
somma  completa  degli  uomini  che  furono  sono  e  saranno^  insomma 
è  l'umanità.  È  errore  massiccio  limitarla  ad  un'epoca,  quasiché  gli 
uomini  tutti  da  Adamo  a  noi,  o  i  nascituri  sino  alla  pienezza  dei 
secoli  nonsieno  stati  e  sieno  insieme  parti  e  membra  d'una  ed  identica 
comunità,  quasiché  l'umanità  non  fosse  un  gran  tutto,  che  si  di- 
svolge, e  disvolgendosi,  ad  un  tempo  su  se  stessa  ritorna,  per  arri- 
vare al  suo  fine  e  alla  plenaria  e  perenne  sua  vita  nel  principio 
stesso  onde  l'attinse.  L'idea  di  società  é  yna  come  qualsivoglia 
altra,  ma  ordinata  ad  incarnarsi  nel  tempo  e  nello  spazio  in  indi- 
vidui innumerevoli,  come  appunto  il  cosmo  é  ordinato  ad  enuclearsi 
in  obietti  moltiformi,  che  ne  compongono  lo  sviluppo.  Adamo  e 

(*)  Vedi  il  Fascicolo  di  Settembre. 


DBLLA  BPmEAFIA  123 

il  Caos  a  ma)  agguagliare  espressero  siffatta  unità  e  l'ordinazione  di 
essa  a  moltiplicarsi.  Ogni  moltitudine  peraltro,  se  è  segno  di  perfet- 
tibilità, non  lo  è  mai  di  perfezione.  Questa  sta  nell'unità,  nell'aboli- 
zione dei  punti  del  tempo  e  dello  spazio,  onde  fu  simboleggiata  in 
antico  nel  cerchio  o  nel  rotondo,  e  colla  parola  orbis  significata 
dalla  sapienza  latina,  e  dalla  cattolica  teologia  nella  circuminsessione 
divina,'  e  nella  immanenza  degli  spiriti  in  seno  a  Dio.  La  perfetti- 
bilità al  contrario  esige  e  tempo  e  spazio,  e  distesamente  profitta 
d'ambedue.  Non  essendo  possibile  di  pensare  che  perfezione  finale 
si  dia  senza  perfettibilità  precedente,  neppure  si  può  pensare  a  fi- 
nale unità  senza  antecedente  moltiplicità.  La  quale  alla  sua  volta 
non  può  essere  diretta  o  inclinata  all'unità,  se  quest'essa  non  le 
serva  come  di  spirito  e  di  fondo,  che  a  quel  termine  nascosamente 
la  guidi.  L'idea  che  Dio  ha  del  mondo  e  dell'umanità,  e  l'umanità 
e  il  mondo  nella  primigenia  unità  loro,  ossia  prima  e  dopo  la  crea- 
zione, non  sono  perfette  in  quanto  elleno  rappresentano  un  com- 
plesso di  oggetti  certi  e  distinti,  comunque  conchiusi  in  germe  in 
una  unità  che  li  contiene,  ed  a  cui  sono  naturalmente  aggregati:  in 
quanto  ai  fatti,  sono  effettive  unità  corrispondenti  alle  idee,  son  cioè 
fatti  complessi  e  unità  risultanti  e  ordinale  a  svilupparsi.  Perlochè 
l'umanità  e  il  mondo,  che  si  dispiegano  obbedendo  alle  leggi  della 
perfettibilità  e  del  tempo,  e  al  proprio  ordinamento,  tendono  per 
virtù  anche  infusa  e  connaturale  a  riunfrsi  e  a  rientrare  in  se  slessi, 
inquantochè  ogni  dispiegamento  non  è  dispersfone,  ma  semplice 
estensione  e  diramazione,  che  non  perde  mai  l'unità  del  principio, 
né  può  star  senza  quella  di  fine,  avendo  il  tempo  e  I^  spazio,  con- 
dizione di  essa  diramazione,  Irmiti  certi.  Cotal  ritorno  delle  varietà 
nell'unità  fondamentale,  deve  essere  omogenea  all'egresso,  ossia  di 
quella  forma  che  l'idea  umana  una  e  latente  svariatamente  si  appa-' 
lesa  in  individui,  debbono  questi  analogamente,  cioè  per  gradi  e 
svariandosi,  nascondersi  rientrando  in  lei  come  a  loro  principio  e  a 
loro  ultima  meta. 

La  società  ha  dunque  due  modi  di  esistere,  uno  cioè  invisibile, 
l'altro  visibile,  l'uno  temporaneo,  l'altro  estemporaneo,  riposto  il 
primo  nell'unità  sempiterna  residente  in  Dio  innanzi  e  dopo  il 
tempo,  l'altro  nella  moltiformità  transitoria  dominata  dal' tempo, 
corrispondente  quella  al  principio  ed  al  fine,  e  questa  al  mezzo.  Il 
modo  d'essere-visibile  è  quello  del  tempo;  quando  essa  è  concreta 
in  individui,  consta  di  forme  e  di  momenti,  è  tramezzata,  ricinta  e 
compresa  dal  tempo  e  dallo  spazio,  brevemente  quando  è  fenome- 
nale. Stato  cosiffatto,  comecbè  precario  e  mobile,  è  effettivo  quanto 
agl'individui:  quanto  alla  società  però  è  ideale.  Lo  stato  vero  e  pro- 
prio di  lei  è  lo  invisibile  quale  fu  al  cominciamento,  quale  ritornerà 


124  RIVISTA   CONTBMPORANEA. 

al  compir  della  sua  carriera,  allorché  rinverlita  su  se  medesima  si 
vedrà  piena  ed  intiera  in  quell'essa  perfezione  a  cui  tende,  e  inverso 
cui  con  ogni  suo  disvariarsi  s'avvia.  Il  discorso  passaggio  dallo 
stato  precario  al  permanente,  ovvero  il  ritorno  degli  individui  nel 
genere  o  nel  loro  principio  effetlivo,  si  cognomina  morte  e  scomparsa. 
Ma  è  opinione  solamente  del  volgo  ch'ella  stia  nella  scissura  dei 
vincoli  sociali,  nello  annichilamento  della  vita,  in  una  condizione 
d'essere  degli  uomini  nuova  del  tutto  e  segregala  dall'attuale,  nel 
rompimento  assoluto  dei  due  tempi  presente  e  futuro. 

Pei  pensatori  non  è  così,  né  cosi  sembrò  alla  universale  coscienza 
dei  popoli,  i  quali  ancorché  non  se  ne  addassero,  ancorché  giu- 
dicassero il  contrario  andando  presi  alle  apparenze,  si  diporta- 
rono come  persuasi  dell'opposto,  soverchiando  cosi  il  sentimento 
gli  errori  e  gl'inganni  d'un  mal  avviato  o  mal  nutricato  intel- 
letto Per  morte  invero  l'individuo  sfugge  alla  visibilità  cangiando 
sue  forme,  e  se  vuoi,  qual  individuo  cessa  d'esistere  in  mo'  deter- 
minato e  singolare/ trapassa  dal  tempo  che  é  una  foggia,  una 
condizione  fenomenale  di  sua  esistenza,  alla  permanente  e  inva- 
riabile dell'eternità,  immergendosi  nella  umanità  e  confondendo  in 
essa  la  sua  vita  propria  e  individua.  Imperciocché  doppia  vita  ha 
l'uomo,  una  individuale  che  quaggiù  si  completa,  perché  allegata  al 
tempo  e  allo  spazio,  e  distinta  dall'unità  sostanziale  della  umanità^ 
ed  una  come  sociale.  La  qdale  si  termina  insieme  colla  società  o 
coll'umanità  nel  sud  totale,  allorquando  questa  ultima  ha  finite  le 
sue  evoluzioni,  e  simultaneamente  al  tempo  cessa  il  terreno  viaggio, 
ed  ha  esaurita  la  sua  perfettibilità.  Né  per  lo  dinanzi  la  vita  degli 
individui  sotto  questo  aspetto  si  completa,  inquantoché  la  società  é 
indivisibile,  e  sebbene  per  individui  si  manifesti,  per  essi  e  con  essi 
non  si  fraziona.  Conseguentemente  la  morte  nulla  ha  che  fare  colla 
società,  sia  perché  ella  e  invisibile  nella  sua  pienezza,  sia  perché 
non  va  soggetta  in  se  medesima  a  cangiamenti  di  stato.  È  un  ac- 
cidente che  interessa  meramente  i  singoli,  e  avvegnaché  tutti  quanti, 
pur  tutti  quanti  nella  singolarità  loro,  nella  individualità  della  loro 
esistenza  mondana.  Eglino  di  vero  rientrano  nel  centro,  onde  quasi 
sortiti  si  slontanarono  per  travalicare  il  tempo  e  aprirsi  la  strada 
con  esso  alla  teleologica  eternità,  e  man  mano  comporre  laverà 
società  da  cui  individuandosi,  come  dire,  si  dispiccarono  per  un  mo- 
mento. Laonde  dappoi  alla  morte,  poiché  vanno  a  costituire  quella 
società  concreta,  che  é  la  condizione  loro  natia  e  finale,  depongono 
nel  tempo  le  forme  transitorie  già  assunte  alla  loro  venuta,  acconci 
argomenti  al  proprio  sviluppo.  Tali  sono  il  corpo,  la  fissa  dimora, 
gliospizii,  le  insegne,  la  famiglia  e  le  ricchezze,  appanaggio  derivato 
dalla  creazione,  nell'opera  della  creazione,  diponibile  allorché  l'uomo 


j>BLLA  BPieBAPLA.  125 

morendo  oltrepassa  i  limiti  della  creazione.  Quindi  accade  die 
l'uomo  cedendo  alla  nuovissima  necessità,  non  dismette  affatto  dal 
comunicare  colla  superstite  società,  né  affatto  rimane  in  mezzo  a 
lei,  ma  per  un  lato  solamente,  cioè  per  quello  sociale,  mentre 
come  individuo  perdendo  questo  secondo  lato^  o  questa  forma,  se 
ne  dilunga. 

VI. 

Le  idee  sopraccennate  tralucono  dalla  stessa  filologia  latina,  infi- 
nibile miniera  di  civile  sapienza  antica  e  universale;  miniera  entro 
cui  scavando  si  guadagna  maggior  filosofia  che  non  in  mille  vo- 
lumi. Diffatti  le  parole  da  quella  impiegate  ad  esprimere  la  morte, 
non  suonan  mai  distruzione. o  fine  assoluto.  Elleno  sono:  Obitus^ 
Funtis,  DecessuSj  Interiius,  Transitus,  Immigralio:  vocaboli  dal  co- 
mune significato  di  partenza  d'uno  in  altro  luogo  o  compimento  di 
lavori,  trasferiti  ad  annunciare  l'avvenimento  della  morte.  Tale  è  la 
voce  parehtaliaj  destinata  a  significare  le  onoranze  rese  ai  defunti 
e  ad  esprimere  insieme  non  pure  la  continuazione  dei  vincoli  di 
parentela,  ma  l'estensione  di  essi  a  tutti  quanti,  appunto  perché 
abolite  le  discrepanze  delle  famiglie  e  dei  luoghi  per  cagion  della 
morte,  gli  uomini  ritornano  senza  eccezione  cognati. 

Unica  la  parola  mori  ha  valore  assoluto,  e  non  traslato,  e  sta  a 
rappresentare  l'idea  di  distruzione.  Ma  perocché  ella  é  voce  di  si- 
gnificato deciso,  e  per  ciò  stesso  della  lingua  antica,  esprime  l'idea 
volgare,  la  usuale  e  rozza  credenza.  Perocché  il  tropo,  quando  si 
riferisce  a  idee  morali  é  opera  dell'arte^  o  meglio  della  scienza  pro- 
gredita,- e  non  é  prodotto  da  povertà  di  lingua  ma  da  dovizia  di  sa- 
pere. I  traslati  indoUi  per  difetto  di  vocaboli  son  figli  della  fantasia, 
perchè  il  popolo  cheli  crea,  più  da  questa  che  non  dall'intelligenza 
0  dalla  riflessione  riceve  fecondamente  e  virtù  generativa.  Quelli 
che  partoriscono  eleganza,  e  che  riverberano  idee  speculative  e 
d'un  ordine  più  elevato,  non  son  lavoro  del  popolo  né  dell'imma- 
ginativa, ma  di  maturi  artifizii  e  di  studiati  confronti.  I  quali  in 
tanto  fruttano  eleganza  inquanto  si  raflrontano  bellamente  coi  tipi 
eterni  del  bello  che  non  ha  di  fantastico  né  gli  elementi  e  nemmeno 
la  forma.  Mentre  poi  i  traslati  popolari  e  immaginosi  scendono  al 
sublime,  quali  spessissimo  rinvieni  nelle  lingue  d'oriente,  quali  in 
Dante  a  rimpelto  di  se  medesimo  e  di  Petrarca,  per  aver  quegli  ta- 
lora profittato  dei  traslati  popolari,  talora  a  guisa  del  secondo  aver 
usati  quelli  che  il  proprio  intelletto  graziosissimamente  suggerivongli. 

Le  parole  mors  e  mori  erano  in  bocca  degli  ignari,  lo  nolammo, 
e  quasi  patrimonio  dozzinale  della  plebe:  in  quella  dei  dotti  furonvi 


126  BIYISTA  OONTBÌCPORÀMBA 

per  lo  più  le  altre,  appena  che  col  crescere  della  civiltà  la  lingua 
eziandio  si  crebbe,  e  di  greggia  e  durissima  si  rese  gentile  e  rotonda. 
Lo  che  insegnò  anche  per  la  voce  mori  un  temperamento  che  la 
converte  in  emori^  levigandone  per  siffatta  maniera  il  conio  e  sce- 
mandone quel  valore  reciso  e  assoluto  che  aveva  di  prima.  Quest'esse 
considerazioni  potrei  rafforzare  coirispezione  di  altre  filologie,  se 
non  fosse  sufficiente  la  latina  in  cui  tutto  lo  anteriore  e  il  Sincrono 
sapere  si  travasò.  Dirò  peraltro  che  non  poteva  avvenire  disforme* 
mente,  quando  i  nostri  proavi  in  mezzo  a  fole  ed  errori  di  più 
ragioni  professarono  dottrine  religiose  e  filosofali  chela  distruzione 
apertamente  diniegavano.  La  metempsicosi  e  la  palingenesi  son  di 
tdli  sistemi  nei  quali  la  morte  non  può  essere  appresa  che  come  un 
cangiamento  di  forme,  una  cessazione  d'una  condizione  a  cui  un' 
altra  subentra.  Poco  rileva  se  questa  condizione  seconda  è  oltra* 
mondana  o  non.  Ciò  che  costituisce  l'essenza  della  dottrina  è  la 
trasformazione.  La  quale  in  nissun  sistema  è  eterna,  o  senza  limiti, 
0  quando  lo  fosse  ha  sempre  un  aumento  che  via  via  distacca  chi 
vi  è  soggetto  dall'indole  comune  degli  uomini,  e  lo  innalza  a  più 
perfetta  a  più  nobile  natura*  Gli  accessorii,  oltre  a  riuscir  di  leggero 
momento,  sono  anco  pel  differir  dei  popoli  fra  loro,  e  pell'igdo- 
ranza  o  per  la  confusione  di  loro  dottrine  assai  spesso  indecisi  e 
scambiati;  né  chi  pretendesse  posarvisi  sopra  e  contrastarci  quanto 
asseveriamo,  si  sentirebbe  nell'obiezione  sua  rinfrancato  o  inespu- 
gnabile. La  religione  di  Godama,  per  esempio,  distesa  in  gran  parte 
di  Cina,  Cocincina,  Giappone,  Tonchino  e  Ceylan,  che  nulla  è  più 
in  ultima  analisi  della  religione  di  Brama^  una  delle  più  vecchie  e 
più  professate  forme  di  metempsicosi,  ammette  una  trasformazione 
ripetuta  sino  al  punto  in  cui  le  anime  trasformantisi  non  abbiano 
attinto'  quel  grado  di  perfezione  che  essi  designano  col  nome  di 
NiebaUf  grado  che  attinge  qualunque  uomo,  per  dirla  colle  parole 
di  dotti  etnografi^  when  is  no  longer  subject  io  any  ofthe  following 
miserìes,  namely  lo  weight  old  age^  disease,  and  death  (1).  Della 
dottrina  trasformativa  di  quei  popoli  che  il  camismo  snaturò,  io 
non  parlo,  perchè  dopo  all'essere  la  più  arruffata  ed  incerta  è  insiem 
così  bassa  da  non  meritarne  nemmeno  il  nome.  Ciò  nuH'ostante 
avendo  vaghezza  d'addentrarsi  in  quegli  oscuri  laberinti  sepolti 
sotto  densissima  lava  di  molta  barbarie,  non  ne  torneremmo  a  mani 
vuote,  che  più  qua  e  più*  là  è  dato  di  raggranellare  qualche  seme, 
che  al  proposito  nostro  mirabilmente  soccorre. 

(1)  Asiatik  researches;  voi.  6 ,  art.  8. 


DBLLA  BPI0BAFU  127 

VII. 

Concludendo  adunque»  è  da  ritenere  che  il  defunto  eziandio  non 
meno  dei  vìventi  deve  esser  considerato  sótto  doppio  aspetto.  Pel 
primo  come  pertinente  al  tempo  mercé  l'unità  della  società  e  il 
costei  infìnibile  sviluppo,  coerentemente  al  quale  non  è  strappato 
0  diviso  da  coloro  che  sopravvivono  o  vivranno,  anzi  è  loro  colle- 
gato e  con  esso  loro  si  muove  seguendo  sua  stella  :  dall'altro  come 
in  effetti  pertinente  aireternità^  ed  irretrattabilmeute  occupato  da 
lei,  perfezionata  già  la  sua  vita  singolare  e  individua.  Una  formola 
sotto  cui  si  enuncerebbe  cotale  stato  umano  e  i  duplicati  nessi  col 
tempo  e  lo  eterno,  col  continuo  e  il  discreto,  parrebbe  questa  :  la 
perfezione  raggiunta  d'uno  dei  lati  della  vita  bilaterale  umana,  e 
l'aspettazione  effettivamente  ferma  e  idealmente  mobile  della  perfe- 
zione deiraltro  lato  o  del  totale;  11  lato  di  cui  ha  guadagnato  la  perfe- 
zione è  lo  individuale.  L'espettazione  della  perfezione  dell'altro  ò 
l'aspettazione  del  ritorno  della  società  all'unità  primigenia,  è  il  costei 
pleroma  o  perfezione  universa,  e  per  ciò  stesso  la  perfezione  dei  sin- 
goli elementi  e  membri  che  la  compongono  e  la  incarnano.  E  tale  as- 
pettativa è  ferma  di  fatto,  conciossiachè  il  defunto  varcati  i  cancelli 
del  finito  non  è  capace  più  d'acquisto  o  movimento  di  sorta,  ma  sta 
immoto  né  può  attendere  ad  incremento  qualsiasi  se  non  gli  venga 
porto  da  altrui.  Quindi  è  che  aspettando  sta  fermo,  né  si  argomenta 
a  procacciarlosi  né  a  dar  mano  a  persona  che  glielo  procacci.  Ideal- 
mente e  converso  partecipa  al  commovimento  sociale^  che  la  società 
idealmente  una  e  indivisibile,  nel  suo  perfezionarsi  ed  incamminarsi 
alla  meta,  si  risgaarda  sempre  tale  dall'un  confine  all'altro  del 
tempo,  di  maniera  che  il  defunto  parimente  é  porzione  integrale  di 
lei,  e  con  lei  si  muove  e  si  ravvicina  alla  perfezione,  comunque  ide- 
almente soltanto.  Questo  lato  umano,  poiché  sia  adempito,  apporta 
la  perfezione  totale^  conciossiachè  l'elemento  o  lato  sociale  dell'uomo 
essendo  positivo  ed  eterno,  supera  ed-  assorbe  l'individuale  e  il 
singolare,  e  ne  investe  per  intiero  la  natura.  Dal  canto  proprio  la 
società  a  cui  le  intime  sue  leggi  e  l'ingegno  suo  intestino  non 
possono  essere  celate,  e  se^la  mente  e  la  scienza  non  lo  dettano,  il 
sentimento  e  la  voce  di  natura  lo  persuadono,  non  potè  né  può  mai 
contare  i  defunti  quali  assenti,  e  molto  meno  a  sé  impertinenti  ed 
alieni,  se  le  preme  di  non  disfare  e  perdere  se  stessa.  E  ciò  é  tanto 
vero  ed  incontrastabile  che  il  fatto  costante  lo  rafferma.  Il  vivo  ed 
inestinguibile  sentimento  della  continuità  sociale  non  affievolisce  per 
evento  qualunque  la  potenza  e  vivacità  propria,  e  ad  ogni  occasione 
fa  capo.  Mai  fu  spento  o  indebolito  tal  sentimento,  perchè  quello 


128  BIVISTÀ  OONTBAiPOBANBA 

Stato  in  cui  gli  uomini  di  già  infuturati  si  posano^  è  la  mira  sicura 
a  cui  è  rivolto  indefettibilmente  l'occhio  della  società  viatrice.  La 
quale  di  quella  guisa  che  non  può  smenlicare  che  esso  è  il  termine 
della  sua  infuturazione,  cosi  non  può  nemmeno  avvisarsi  d'essere 
sciolta  con  chi  vi  è  di  già  arrivato,  se  non  foss'altro,  in  grazia  della 
similitudine  o  dell'identità  del  fine. 


Vili. 


L'intima  e  naturai  convinzione,  comunque  non  sempre  avver- 
tila, che  i  decessi  sotto  specie  difl'erenli  restin  congiunti  a  noi,  è 
la  suprema  cagione  in  cui  virtù  dai  monumenti  e  dalle  iscrizioni 
sorge  una  voce  ed  una  forza  che  di  tanto  signoreggiano  il  cuore 
umano.  E  gli  affetti  e  la  gratitudine  perdurano  per  loro  siccome 
fossero  vivi,  e  le  tombe  che  li  racchiudono  ci  obbligano  con  per* 
petua  e  salda  riconoscenza.  Anzi  con  maggiore,  conciossiachè  essi 
sentimenti  divengono  più  augusti  dalla  religione  e  da  quella  ma- 
gniiicata  e  soprannaturale  idea  che  fa  maggioreggiare  l'uomo  ap- 
pena morto,  irradiandolo  di  lume  eternale  e  quasi  divino.  E  poiché 
all'umano  spirito  quaggiù  fan  di  mestieri  sensibili  oggetti  per  ec- 
citare e  sostenere  pensieri  e  sentimenti,  ed  ama  di  esternarli  oca 
mezzi  sensibili  del  paro,  quasi  giudice  e  riparatore  insieme  della 
propria  fiacchezza,  cosi  l'uso  di  segni  che  rammemorassero  i  morti 
parve  ovunque  necessario.  Il  desiderio,  proprio  a  tutti,  di  raccostarsi 
ai  suoi  diletti,  ed  aver  come  una  copia  o  un  ritratto  di  loro,  rese 
più  frequente  e  più  esteso  quest'uso;  tanto  gli  uomini  di  qualsivoglia 
grado  vanno  convinti,  che  la  morte  non  li  disgrega,  o  tanto  son 
tratti  da  intestina  legge  ad  impedire  che  ciò  paia  avvenuto. 

Ecco  precisamente  onde  scaturisce  la  cagione  dell'uso  epigrafico, 
e  dell'  influsso  esercitato  ,  e  della  venerazione  in  cui  l' ebbero, 
tanto  maggiore  quanto  maggiori  e  più  purgate  furono  le  religioni 
dei  sepolcri,  le  civili  aspirazioni,  o  le  ambizioni  e  le  glorie  nazio- 
nali, i  sentimenti  dell'umana  e  social  dignità;  e  cosi  resulta  quanto 
quest'uso  sia  copulato  alle  leggi  rettrici  la  società,  è  da  esse  tragga 
sua  vita  e  sua  radice. 

Ma  conciossiachè  l'Epigrafia  è  il  ségno  sensibile  dell'uomo  invi- 
sibile^ affine  di  simboleggiarlo  giustamente,  due  cose  deve  adunare 
ed  esprimere:  vale  a  dire  la  condizione  bilaterale  del  decesso,  da 
un  canto  unito  a  società,  dall'altro  in  possessione  dell'eterno,  ^el 
che  appunto  è  riposta  la  dimostrazione  dell'anello  che  i  tempi 
e  gli  uomini  avvince,  in  ordine  alla  vita  interminabile  d'oltre 
mondo, 


DBLLA  BPI0RAFIA  129 

Per  soddisfare  alla  prima,  deve  porgere  in  rilievo  Tindole,  le 
azióni,  le  doti  speciali  del  rappresentalo,  tutte  le  costui  proprietà 
individue,  talché  ei  si  paia  vìvo  ed  in  faccia  a  noi.  Per  conseguenza 
l'epigrafe  deve  sentire  a  meraviglia  del  tempo  e  del  luogo  in  cui 
Tepigrafato  dimorò,  §  rivestirlo  e  scolpirlo,  vuoi  moralmente,  vuoi 
civilmente,  al  naturale.  Insomma  deve  enunciare  ciò  per  cui  quel 
dato  uomo  appartenne  al  mondo  nostro,  e  quasi  in  pittura  o  meglio 
in  iscoltura  eseguirne  il  ritratto,  di  sorte  che  ei  sopravviva  nel  bel 
mezzo  di  noi,  qual  non  ne  fosse  partito.  Dal  che  si  raccoglie  facile, 
qualunque  uomo  meritare  l'epigrafe  come  merita  il  sepolcro;  non 
tanto  perchè  persona  non  vive  senza  parenti  o  senza  amici,  e  perciò 
non  muor  senza  lacrime,  o  senza  superstiti  affetti  ;  ma  anche  per- 
dbè,  pur  quantunque  inetto  o  nullo,  alcun  officio  accompli  in  so- 
cietà^ quello  almeno  di  perfezionare  se  medesimo,  e  di  essere 
nieml)ro  sociale;  della  qual  prerogativa  niuno  può  stimarsi  immune 
0  spoglio  giammai. 

In  virtù  di  tal  riflessione,  lo  dicemmo,  la  lingua  del  Lazio  chiamò 
parmtalia  i  funebri  onori  ai  trsipassati,  qualunque  fossero,  e  sor- 
sero spontanei  il  cimitero  comune,  e  i  convogli  funebri  stipati  di 
moltitudine  dì  popolo:  usi  vigenti  tuttora  ed  a  meraviglia  compen- 
diati nelle  onoranze  a  illustri  defunti,  della  cui  iattura  la  società 
intera  si  sente  commossa. 

Mal  si  appose  il  eh.  Contrucci  scrivendo  esser  buono  lo  annotare 
sui  marmi  sepolcrali  in  un  colle  virtù  i  difetti  dell'epigrafato,  per 
frodar  nulla  alla  scrupolosa  sincerità  del  racconto.  L'avv.  Pellegrini 
con  quell'acume  e  fiore  di  senno  che  ciascuno  conosce,  impugnò 
bravamente  siffatta  sentenza,  ma  tacque  alcune  ragioni  che  a  noi 
piace  di  aggiungere.  I  difetti  invero  sono  appresi  dall'idea  umana 
e  sociale,  e  sono  esclusiva  appartenenza  degl'individui,  non  già  della 
specie  5anzi  per  essi  Tindividuo  è,  come  a  dire,  impertinente  alla 
società,  non  mica  soltanto  allorché  è  morto,  ma  da  vivo  eziandio. 
Causa  per  cui,  nel  concetto  degli  uomini,  niuna  società  e  ninna  fa- 
mìglia son  mai  solidali  delle  iniquità  d'un  costoro  membro  o  in- 
dividuo, mentre  all'incontro  delle  lodevoli  ed  oneste  azioni  la  luce, 
comechè  s'allumi  in  un  solo,  tutti  irraggia  e  colora.  Adoperando 
a  norma  del  sig.  Contrucci,  si  negherebbe  onninamente  l'idea  fon- 
damentale e  genitrice  della  epigrafia,  idea  paragogica  e  affermativa 
dì  fronte  ai  difetti  che  fan  restrizioni,  e  mero  nulla. 

Per  servire  al  secondo  requisito,  l'epigrafia  ha  da  mettere  in  ri- 
salto e  con  amminicoli  adatti  effigiare  la  perpetua  immanenza  del 
defunto,  l'alienazione  di  luì  dal  tempo  e  dal  discreto,  svegliare 
idee  religiose  colle  quali  l'eternità  si  identifica,  e  curare  che  esse 
idee,  disvariate  o  cozzanti,  simultaneamente  e  da  un  solo  contesto 

JUvUta  C.  —  9 


130  RIVISTA  CONTBMPORANBA 

si  deducano,  perchè  espressioni  d'uno  e  simultaneo  stato  del  de- 
funto. A  queste  due  necessità  convenientemente  rispondendo  TEle- 
giaca^  in  verun  altro  componimento  od  occasione  della  vita  umana 
si  scorgeranno  meglio  sporgenti  nelle  loro  vere  armonie  il  cielo  e 
la  terra,  natura  e  soprannatura,  società  e  individuo,  tempo  ed 
eterno,  fine  ed  esordio,  perfettibilità  e  perfezione,  insomma  i  vitali 
e  ingeniti  nodi  che  questo  universo  all'altro  disposano. 

IX. 

L'Epigrafia  che  nominammo  epica,  serv^e,  lo  ripetiamo^  a  de- 
scrivere e  raccomandare  gli  avvenimenti  del  tempo  e  la  eccellenza 
degli  uomini  in  questa  vita.  Molto  cura  degli  intervalli  che  il  tempo 
e  lo  spazio  frappongono,  e  nulla  delle  relazioni  che  Tun  mondo 
connettono  all'altro.  Partorisce  il  sublime,  anzi  di  esso  solo  va  in 
cerca  o  si  ciba,  il  bello  capricciosa  riveste,  o  più  spesso  trascura. 
L'area  per  cui  s'aggira  è  la  perfettibilità  del  cosmo^  ragguardatolo 
in  sé  e  negli  elementi  di  cui  consta,  nella  loro  distinzione  e  singo- 
lare esistenza  :  genera  insieme  e  provvede  a  quei  bisogni  che  si 
provano  quaggiù,  di  eccitamenti  e  stimoli  d'esempii,  premii  e  privi- 
legi. Accanto  al  sentimento  dell'unità  della  razza  umana  e  della 
convivenza  sociale,  rampolla  invero  non  manco  robusto  in  ciascuno, 
quello  di  non  isperdere  se  stessi  e  la  propria  singolarità  personale. 
Lo  che  mentre  produce  l'eroismo  o  certo  le  virtù  dei  singoli,  che 
tanto  poi  giovano  alla  società  universa,  vivifica  ad  un  tempo  quella 
reazione  indispensabile  che  gli  individui  e  la  società  tenendo  in 
salubre  conflitto,  risparmia  il  sopravvento  di  quelli  su  questa,  e 
viceversa,  e  conserva  quella  equazione  che  allo  spiegamento  e  allo 
scopo  del  cosmo  son  condizioni  necessarissime.  Su  di  che  si  piantano 
l'emulazione  e  la  boria  dei  popoli  e  dei  singoli  uomini,  il  desiflerio  di 
spingersi  a  galla,  di  sorvolare  agli  altri,  di  uscire  dalla  volgare 
schiera,  il  timore  di  confondersi  nel  vasto  ed  oscurissimo  tutto  ; 
inoltre  gli  studii  dell'umana  mente  d'assicurare  la  soddisfazione  di 
siffatte  necessità,  di  appagare  un  desiderio  ardentissimo,  e  le  rive- 
lazioni spontanee  di  quei  primi  cultori  di  lettere  6  di  arti,  che  tal 
sentimento  incarnarono,  e  come  dire  corroborarono  con  questi 
esteriori  rinforzi.  Perlocchè  se  l'uomo  per  via  d'amminicoli  e  di 
segni  convenuti,  si  capacita  che  i  tempi  e  gli  uomini  universi  non 
sono  se  non  se  una  sola  cosa;  perchè  e  segni  e  amminicoli  riscontra 
analoghi  alle  sue  connaturali  convinzioni  ;  vuol  anco  che  paia  al- 
l'opportunità che  tutti  i  tempi  e  gli  uomini  tutti  nella  precaria  esi- 
stenza loro  son  riconosciuti  distinti,  né  vuol  che  lo  individuo,  seb- 
bene ordinato  a  società  ed  a  lei  confluente,  si  sommerga  come  tale 


OBLLA  EPI0BAFIA  131 

e  s'affoghi.  E  ciò  perchè  sente  nel  cuor  suo  esso  bisogno  e  questa, 
nitida  verità.  Cotale  essendo  la  genesi  e  Tingegno  deirepigrafia  e- 
pica,  è  manifesto  che  dee  restringersi  al  cerchio  sol  del  creato,  e 
questo  fingere,  qual  egli  è,  senza  occuparsi  di  relazioni,  che  il 
creato  trascendono.  Quindi  gli  uomini,  attingendo  le  idee  che  rego- 
lano la  vita  terrena  e  la  condizione  perfettibile  in  cui  essa  versa, 
non  tanto  prendono  animo  e  forze^  ma  per  sensibili  esemplari 
anche  ai  tipi  supremi  e  ideali  si  erigono. 

Lungo  per  avventura  e  non  dicevole  al  tema  riuscirebbe  ragio- 
nare dell'epica  e  della  sua  essenza  vera,  quando  amassimo  di  dame 
pieno  conoscimento,  e  sviscerarne  il  riposto  e  forse  poco  noto  ca- 
rattere. Ma  perchè  al  concetto  che  noi  accenniamo  averne,  sta 
contro  una  quantità  di  contraddittori,  conviene  avvertirne  qualche- 
cosa.  Non  è  buona  ragione,  dico  dunque,  disaminare  una  epopea 
dal  canto  della  forma  o  degli  accidenti,  qual  è  costume,  sendochè 
l'essenza  di  essa  ha  più  estensione  della  attribuitale  d'ordinario, 
e  la  forma  ha  poco  o  niente  bisogno  di  modellarsi  su  proposto  e 
stabilito  disegno.  laverò  concedo  epici  i  poemi  d'Omero  e  quello 
di  Virgilio  per  noverarne  alcuno,  ma  non  darei  per  epici  la  Messiade  ' 
di  Klopstok  né  l'Orlando  Innamorato  o  il  Morgante,  contuttoché  la 
forma  non  disti  dall'omerica,  e  su  quel  tipo  o  sul  virgiliano  sieno 
fabbricati.  Anzi  son  tanto  fisso  in  siffatto  pensare,  che  non  credo 
possibili,  senza  stranarli,  poemi  epici  oggidì,  quando  per  tali  si  ap- 
prendon  quelli  che  guardan  le  regole  rettoriche  o  le  pastoie  del 
classicismo  vetusto.  Se  l'Enriade  di  Lombardi,  e  più  altri  avessero  in 
fondo  dell'epico,  io  son  d'avviso  lo  perderebbero  stemperato  nelle 
angustie  d'una  grammatica  da  pedanti,  e  nella  copiatura  di  esem- 
plari che  son  fuor  di  stagione.  La  sostanza  dell'epopea  non  è  smar- 
rita, né  può  essere;  ma  non  è  agevole  a  scorgere  ove  ella  risieda, 
e  molto  meno  lo  estrarla  e  lo  ammantarla  di  suoi  proprii  vestimenti. 
L'epopea  antica  non  è  buona  pei  giorni  nostri,  e  ciò  che  forse  al- 
lora si  prestava  all'epico,  oggi  prepotentemente  ripugnerebbevi.  La 
natura  umana  non  è  cangiata,  e  se  ispirò  a  Omero  le  pagine  ini- 
mitabili, e  nei  Greci  destò  tanto  amore  ed  ossequio  a  quei  versi, 
può  suscitare  ora  degli  epici  novelli  e  dei  novelli  ammiratori.  Ma 
chi  leggerebbe  Omero  fingendoselo  vissuto  at  giorni  nostri?  In  lui 
si  ammirano  la  grandezza  del  genio,  il  fulgore  dei  colori,  la  pere- 
grinità delle  immagini  e  delle  narrazioni,  il  magnanimo  ed  anco 
il  turpe  nobilissimamente  descritti  e  tratteggiati,  ma  la  mente  del 
leggitore  si  riporta  a  quella  età  da  cui  come  diverte  ogni  formosità^ 
ogni  meraviglia  sparisce.  A  che  dunque  accattare  oggigiorno  le  idee 
da  epoche  tanto  opposite  alla  presènte^  e  accomodar  fole  e  macchine 
che  nella  mente  umana  non  trovano  accesso,  perchè  inverisimili 


132  RIVISTA  CONTEMPORANEA 

e  relullanli?  Il  Romanzo  storico,  se  ben  discerno,  è  soUenlrato  mas- 
sime all'Epopea,  e  ben  accorti  furon  coloro  che  prima  di  mischiare 
le  demonia  e  le  fate,  gli  angeli  ed  i  genii,  le  visioni  celesti  e  i 
sogni,  hanno  ombreggiato  di  verisimili  e  probabili  accidenti  un  fatto, 
lasciando  ciascuna  cosa  al  suo  posto,  e  nel  preciso  ordine  a  cui 
appartiene.  Il  vizio  di  studiare  e  coltivare  le  lettere  senza  imparare 
lo  perchè  o  la  ragione  interiore,  ha  caricato  i  dotti  dell'immane 
soma  dei  canoni  e  delle  leggi  rettoriche,  e  isterilite  le  lettere,  resi- 
duatele ad  un  formalismo  e  ad  una  semplice  meccanica.  Per  con- 
seguenza non  rade  volte  la  lirica  si  addobbò  delle  pompe  dell'epo- 
pea^ contuttoché  reluttantissime  e  opposte  ad  essa,  e  l'epica  si  ma- 
scherò e  si  sfigurò  sotto  le  delicate  sembianze  della  lirica.  Perchè 
ciò  che  lirica  ed  epica  appellano,  non  istà  a  senso  dei  retori  nella 
sostanza,  ma  sibbene  nella  forma  e  spezialmente  nella  qualità  e 
quantità  dei  versi,  senza  addarsi  che  se  Omero  epico  usò  l'eroico, 
e  Anacreonle  il  lirico,  lo  impiegarono  a  servigio  delle  materie  che 
avean  pronte,  e  non  viceversa,  scegliendo  una  veste  alle  idee,  non 
idee  a  vesti  già  preparate.  Ma  non  riflettendo,  si  asserisce  che  le 
odi  pindariche,  spezialmente  le  olimpiche,  son  lirica,  e  cosi  le  ora- 
ziane, senza  farne  cerna  :  e  non  ti  ricuserebbono  di  qualificare  per 
epico  il  Giovane  Àroldo  e  fantasie  cosiffatte,  come  ti  assicurano  es- 
serlo il  S.  Benedetto,  la  Messiade  e  il  Paradiso  Perduto.  I  quali  ultimi 
due  ricchissimi  di  lirica  e  stupendi,  son  poveri  d'epica  di  guisa  che 
quella  che  contengono  è  tutta  accattata  e  al  soggetto  loro  imperti- 
nente. Lo  che  ha  recato  nel  bel  mezzo  della  Religione  e  nel  sacra- 
rio della  Teologia  la  caligine  dei  fantasmi  e  le  stranezze  del  sen- 
sismo pagano.  Vizio  e  bruttura  che  renderà  incomportabile  e 
stucchevole  a  chi  si  pasce  del  vero  e  si  diletta  del  verisimile,  il  pro- 
seggiare poetico  dello  Chateaubriand,  o  i  meditati  omei  del  Lamar- 
tine  e  consorti  piagnucolosi  d'Italia.  Uomini  certo  di  non  ordinaria 
levatura^  ma  guastatori  del  poetare,  e  confonditori  degli  elementi 
onde  ogni  poetare  consta,  o  delle  specie  nelle  quali  non  a  capriccio 
ma  con  profonda  ragione  si  distingue.  Formandosi  adeguato  con- 
cetto della  varia  poesia  è  spediente  il  persuadersi  nulla  esser  più 
micidiale  delle  regole  e  dei  canoni  a  cui  sono  stati  costretti  i  com- 
ponimenti dai  retori.  Canoni  cui  non  obbedì  Manzoni  e  fu  sommo 
in  drammatica;  né  Giusti  o  Rossetti  nella  lirica  e  nell'epica  sovrani; 
e  cui  non  obbediranno  mai  gl'ingegni  poderosi,  conoscitori  delle 
lettere  ;  canoni  che  spregia  chi  scrive  sentendo,-  o  chi  legge  e  si 
commuove.  Le  lettere  diramandosi  in  più  generi  corrispondono  ai 
diversi  tipi  di  cui  l'anima  umana  colle  sue  passioni  e  suoi  bisogni 
è  sede  e  principio.  Il  verso  è  una  forma,  e  contribuisce  in  verità 
all'espressione  degl'inlemi  movimenti  dell'anima,  anzi  dalla  natura 


DELLA   EPIGRAFIA  133 

di  essi  moti  è  prescelto,  e  quasi  improvviso  e  non  pensalo  fluisce; 
ma  non  è  la  sostanza,  e  se  una  lirica  in  verso  eroico  riuscirebbe 
mal  panneggiata,  non  per  questo  smetterebbe  d'essere  tale,  come  non 
un'epopea  sebbène  sconcia  o  mal  tagliata  in  brevi  versi  e  scorrevoli. 
La  sostanza  della  lirica  è  il  bello  e  l'ideale,  dell'epica  l'immaginoso 
e  il  sublime;  in  questa  il  senso,  in  quella  predomina  l'idea.  Con 
questo  canone  parecchie  quislioni  relative  a  poemi  battezzati  per 
epici  si  risolvono.  I  quali  ricalcitrano  ai  ricettarii  della  rettorica,  ma 
nonpertanto  non  sono  meno  epici,  conciossiachè  l'elemento  sensi- 
bile vi  signoreggia,  e  in  tutta  la  sua  frascosa  appariscenza  vi  sfjarza. 
Con  questo  si  scevra  l'elemento  lirico,  il  quale  contuttoché  orlato 
dalla  bizzarra  fantasia  dei  poeti  difierisce  dall'epica  che  dalla  fan- 
tasia è  generato,  e  da  quella  e  per  quella  ha  crescimento.  Ciò  che 
si  riferisce  a  religione,  sien  pure  le  gesla  di  Benedetto,  o  la  prodi- 
giosa caduta  della  umanità  o  la  riparazione  cristiana,  ripugnano 
all'epica^  eminentemente  ideale,  e  se  puoi  tribuire  corpo  visibile 
agli  angeli  e  immaginarti  un  Eden  a  piacere  (comunque  sempre  tu 
vada  contro  al  vero  e  quasi  rasente  all'inverisimile)  non  puoi  però, 
senza  aflbmicare  di  paganismo  la  lucidézza  della  Teologia  cristiana, 
torre  a  prestito  lo  macchine  da  Omero,  o  le  strampellerie  da  Tur- 
pino.  Chi  lo  tentò  non  riusci  più  là  d'Esiodo,  che  fu  epico  perchè  il 
paganesimo  è  gran  cava,  dirò  forse  l'unica,  dell'epopea;  e  se  Tasso 
s'inchinò  ai  tempi  suoi,  o  ricantò  le  fiabe  dei  tempi  grossi  che  il 
precedettero,  paganeggiò  non  diverso  dall'Autore  dei  Lombardi, 
comecché  questi  si  forbisse  a  cagione  dell'età  da  quelle  insanie 
ond'é  inzeppato  il  meraviglioso  libro  d'Ariosto  e  intessuto  il  gran- 
dioso ordito  cristiano  di  Torquato. 

All'epica  epigrafia  si  riconducono,  che  che  ne  sembri  in  contra- 
rio. Me  epigrafi  imprecative,  le  abominative,  del  pari  dirette  ad  in- 
dividui e  non  trascendenti  il  finito,  e  quelle  che  appellano  a  stu- 
pendi catastrofi  da  cui  per  avventura  furono  oppressati  e  umiliati 
popoli  interi  o  nazioni.  Son  dessi  invero  documenti  positivi,  sebbene 
negativi  a  prima  vista,  o  alla  mostra,  efficaci  e  fecondi  nel  resto,  né 
contrastanti  alla  natura  dell'Epica.  La  quale  non  istudia  d'abolire 
l'intercalare  del  tempo,  né  di  rannodarlo  all'eterno,  essendo  nel 
tempo  ciò  di  che  testimonia,  e  scomparendo  col  tempo.  È  volta  ai 
singoli  uomini,  e  guarda  scrupolosa  il  giro  delle  private  o  nazio- 
nali idee,  non  le  generiche  o  le  ecumeniche,  quantunque  quelle  con 
queste  si  raffrontino.  Anco  allora  che  ostenta  di  rivolgersi  al  mondo 
intero,  non  è  che  una  iperbole,  non  una  posizione  ordinaria  di  pa- 
role e  dì  idee;  s'approfitta  del  fantastico  e  del  poetico,  sia  quanto 
alle  frasi  sia  quanto  al  concetto,  in  che  propriamente  l'iperbole  è 
situata 9  che  non  raro  é  piedestallo  al  sublime. 


134  RIVISTA   CONTEMPORANEA 

In  tal  classe  d'epigrafia,  ammesso  che  la  partizione  nostra  non 
si  addicesse  a  lutti,  comprendonsi  esattamente  le  possibili  spezie 
che  dagli  autori  si  enumerano.  Essa  in  effetto  ha  per  iscopo  la  vita 
terrena  e  singolare,  alla  quale  tutte  le  sorta  d'epigrafare  intendono, 
qual  più  qual  meno,  a  seconda  delle  relazioni  che  in  molte  guise 
regolano  la  individuai  sussistenza. 


Tanta  sapienza  civile  è  raccolta  nell'uso  e  nell'indole  dell'Epi- 
grafia, e  negli  effetti  che  dimanano  da  lei.  Nulla  di  quanto  discor- 
remmo si  ricusa  di  parer  vero  all'occhio  scrutatore  che  ne  imprende 
accurato  e  dicevole  esame.  È  sopra  ogni  prova  manifesto  diffatti  che 
gli  antichi  nostri  fecero  dell'Epigrafìa  un  pubblico  tiegozio,  e  quasi 
una  porzione  della  loro  civiltà  e  religione,  e  votarono  a  questo  ge- 
nere di  comporre  la  teologica  sapienza  contemporanea,  quasiché 
in  essa  tutta  si  abbreviasse  la  vita  sociale  e  la  scienza  universa,  o 
almeno  vi  si  riflettessero  di  preferenza.  Certo  nulla  è  più  accostante 
alla  teologia  di  quello  sieno  le  tombe  o  la  morte,  eziandio  pei  pa- 
gani, i  quali  comeché  credessero  i  loro  Dei  continuamente  vagolare 
per  il  mondo,  pur  nondimanco  estimavano  la  loro  fìssa  dimora 
al  di  là  della  terra  in  luoghi  pei  quali  il  sepolcro  era  adito  e  guida. 
Per  noi  la  vita  più  prossima  a  Dio  incomincia  oltre  la  tomba,  allo 
sprigionarsi  dell'anima  dal  carcere  del  corpo.  Anzi  sopra  gli  avelli 
la  religione  si  dispiegò  e  si  mantenne,  purgandosi  superlativamente 
di  quel  materialismo  che  teoricamente  l'abbrutlava,  o  di  quelle  in- 
sanie e  di  queirindiflerenza  che  speculativamente  la  travagliavano. 
Mai  tomba  o  munumenti  civili  dalle  orgogliose  piramidi  agli  umili 
cippi  s'ersero  insignificanti,  senza  vita  o  senza  comparir  circondati 
di  relazione  colle  rimanenti  idee  formanti  il  patrimonio  scientifico 
0  morale  di  que' popoli.  11  qual  patrimonio  invero  non  che  fosse 
costituito,  era  certo  coperto  o  avviluppato  dalla  teologia  loro,  causa 
per  cui  la  teologia  più  che  non  altro  spicca  e  risalta. 

Ad  esprimere  l'idea  di  tempo  e  di  sopravvivenza,  nulla  cosa  era 
meglio  adatta  della  consuetudine  dei  sepolcri  gentilizii  o  quasi  do- 
mestici, come  solevano  anticamente  fin  dall'evo  patriarcale.  Allora 
componevano  volontieri  i  cadaveri  dei  parenti  nei  campi  medesimi 
pei  quali  aveano  pascolato,  vivendo,  gli  armenti,  o  presso  le  abita- 
zioni e  le  capanne  che  ne  alloggiavano  la  discendenza ,  e  persino 
nelle  case  stesse,  onde  mirabilmente  dicevan  componere  i  Latini  il 
seppellire.  Costumanze  vigenti  allorché  le  rade  famiglie  del  globo 
tenean  luogo  di  società,  e  non  rigettate  anche  posteriormente  dai  po- 
poli men  colti  e  incivili. 


DBLLÀ  BPIORÀFIA  135 

Dilatatasi  la  civiltà  coll'assetto  definitivo  delForganismo  della 
società,  il  cimitero  con  epigrafe  comune  fu  uno  e  sociale,  prossimo 
alle  città,  non  raro  loro  proseguimento,  di  quella  guisa  che  per  lo 
addietro  era  stato  famigliare  e  pressoché  giunto  alle  case.  E  cotanto 
avea  barbificato  nell'anima  ai  popoli  civili  d'allora  la  convinzione, 
che  morte  non  disgrega  il  consorzio  sociale,  ma  ne  è  parziale  tras- 
formazione che  appellavano  i  sepolcreti  necropoli  e  a  foggia  di  città 
li  costruivano,  imbalsamando  i  cadaveri  per  preservarli  da  disfaci- 
mento, e  imbandivano  sulle  urne  vini  e  focacce,  o  apprestavano 
lume  e  preziosi  oggetti  i  più  cari,  i  più  consueti  al  tumulato.  Inoltre 
opinavano  che  poi  alla  morte  i  dismessi  ofiìzii  riassumessero  nelle 
sedi  beate  ove  dimoravano,  o  le  anime  loro  trasmigrando  in  nuovi 
corpi  ai  parenti  si  avvicinassero  ed  agli  amici,  o  circolassero  tute- 
latori  attorno  a  loro,  o  si  facesser  parventi  nel  sogno  mattutino  o 
nelle  notturne  vigilie.  Le  quali  strane  persuasioni  e  più  strane  ma- 
niere, di  descrivere  lo  stato  postumo  degli  uomini  riflettono  nondi- 
meno a  sufficienza  la  sostanza  e  le  apparenze  riunite.  Tessere  pos- 
sente e  il  non  essere ,  la   sussistenza  eflettiva   fenomenalmente 
manifeslantesi.  Arrogo  l'uso  dei  sogni  e  di  amminicoli  e  di  forme 
tuttora  verdi,  che  mentre  pertenessero  all'indole  e  al  carattere  del 
defunto  non  fossero  forastiere  e  intempestive  all'epoca  in  cui  la  so- 
cietà dedica.vale.  Perocché  siccome  da  questo  lato  l'individuo  era 
alla  società  congiunto,  cosi  dovea  essere  ritrattato  con  segni  volubili 
e  transeunti.  Quindi  si  abbellivano  le  urne  di  emblemi  e  di  simboli 
relativi  agli  o£Bzii  civili,  agli  incarichi  che  avea  portati  il  defunto,  o 
caratteristici  della  nazione  :  scolpivasi  il  nome,  la  famiglia,  la  tribù, 
la  stirpe;  si  notava  la  qualità  dei  sostenuti  impieghi,  servigi  resi, 
in  particolar  modo  se  militari  ;  e  per  indizii  simboleggiavansi  la 
professione  di  vita  e  le  virtù  onde  avevanla  decorata  ,  l'anno  di 
morte  e  il  vale  supremo  dei  parenti.  Argomenti  atti  ad  effigiarlo 
come  vivo  e  prossimano,  ammantato  al  naturale  delle  prerogative 
possedute  e  del  carattere  proprio,  al  popolo  a  cui  apparteneva,  e 
a  cui  ritenevasi,  comechè  nascosamente,  partecipare.  Ciò  non  mancò 
mai,  ed  é  appunto  quello  che  costituisce  le  differenze  epigrafiche 
dei  differenti  paesi.  «Talvolta,  scrisse  Gantù  (1),  i  voti  che  si  fanno 
pei  morti  sarebbero  più  convenienti  ai  vivi»;  verità  slorica  che  ap- 
poggia assaissimo  la  nostra  dottrina,  e  che  si  raffronta  con  quel- 
l'altro fatto  non  meno  storico,  e  di  tanto  peso  per  noi,  narrato  dagli 
archeologi,  del  convertire  che  facevano  talvolta  una  epigrafe  dettata 
per  uom  vivo,  dappoi  alla  costui  morte,  colla  giunta  di  un  verso, 
in  epitafio.  Sopratutto  contribuiva  a  questo  l'arte ,  la  quale  o  scoi- 

(1)  Docum,per  la  Storia  wnit?.,  —  Archeologia,  voi.  I,  pag.  457. 


136  RIVISTA  CX)NTEMPORANEA 

pisse  0  piDgesse  gli  avelli,  e  di  suoi  fregi  e  abbellimenti  li  accon- 
ciasse, conservò  sempre  il  tenore  e  lo  stile  addicentesi  ai  tempi.  Lo 
che  quando  da  alcuno  onche  oggidì  vien  trascurato  non  so  quanto 
meriti  di  non  essere  deriso.  Imperciocché  coloro  che  per  eccentri- 
cità (afBnchè  mi  valga  d'un  vocabolo  che  la  moderna  polizia  ha 
surrogato  al  più  trito  d'insipienza  e  capriccio)  scelgono  di  insudiciare 
le  tombe  con  rabeschi  vecchi  e  con  anticate  milografie,  non  sanno 
che  somiglianti  anacronismi  ridondano  meglio  che  a  lode  a  carico 
sicuro  dell'encomiato,  il  quale  sol  quando  avesse  contraddetta  la 
propria  età,  o  le  fosse  rimasto  indietro  potrebbe  meritare  ornali  dì 
tal  fatta,  industriosamente  e  per  ispregio  adoperati  ad  indicare,  che 
sebbene  vissuto  ad  una  certa  stagione^  ei  si  diportò  di  guisa  da  sem- 
brare nato  dieci  o  venti  secoli  innanzi.  Anche  qaeslo  è  un  difetto 
che  in  Italia  sparirà,  e  che  è  assai  scemato,  perchè  molti  hanno 
conosciuto  quanto  sia  falso  ricorrere  all'antico,  e  quello  superstizio- 
samente venerare  sia  nell'arte,  sia  nelle  scienze  politiche  e  civili. 
Non  è  da  negare,  che  nell'antichità  si  incontrino  parecchie  cose 
degne  dei  tempi  nostrali,  né  disdicevoli  ad  imitare  e  ringiovanire, 
e  che  non  si  abbiano  a  prezzare  ed  anco  copiare  le  bellezze  che  vi 
sono,  ma  l'arte  nell'antico  non  rinviene  se  non  se  le  sue  regole  morte 
ed  immobili,  non  lo  spirito;  del  pari  che  la  politica  e  la  civiltà  vi 
trovano  assai  poco  di  buono,  tranne  il  patriotismo,  benché  cieco  e 
mal  applicato,  non  mica  quella  libertà  sobria  e  quella  onesta  costi- 
tuzione, che  l'eroismo  barbarico  e  la  feodalità  anco  più  barbara 
disconobbero.  Come  poco  avventurati  sarebbero  coloro,  che  esibis- 
sero per  modello  delle  arti  gli  etruschi  maestri ,  cosi  non  lo  son 
meglio  quelli  che  da  Plutarco  e  Cornelio  attingono  esemplari  di 
virtù  cittadina,  e  idoleggiano  la  classica  Roma,  e  ne  propongono  a 
continuo  meditare  e  ad  empire  l'animo  nostro  le  istorie  insieme- 
mente  alle  greche. 

Altro  é  invero  libarne  il  buono  e  il  bello,  di  che  non  hanno  pe« 
nuria,  e  invece^  spesso  abbondanza;  altro  é  rinsanguinarsene,  secon- 
dochè  taluni  pretenderebbono.  Le  quali,  o  perchè  amano  lo  stare 
0  il  dare  indietro,  e  s'avvisano  che  progresso  non  sia,  o  se  sìa,  con- 
sista nel  tornare  all'antico  indietreggiando,  o  perchè  hanno  scorto 
che  la  civiltà  vetusta  è  stata  levata  in  alto  in  secoli  poco  lontani  e 
che  cognominano  aurei  o  argentei  ;  non  rifìnano  di  punzecchiarci, 
e  son  convinti  del  dover  noi  riporre  in  cima  delle  nostre  aspirazioni 
e  dei  nostri  sludii  la  classica  antichità.  Non  si  addanno  però  costoro 
che  il  progresso,  se  è  un  ritorno  all'antico,  anzi  airantichissimo,  non  è 
un  indietreggiare,  ma  un  avanzare  segnando  una  curva  che  è  incli- 
nata verso  l'estremo  che  le  servi  di  principio,  e  che  se  secoli  indietro 
andavan  presi  dalie  grandezze  e  apparenze  dell'evo  eroico,  ciò  fu 


DELLA  BPIdBAPIA  137 

perchè  quei  secoli  ammiratori  erano  minori  degli  ammirati,  mentre 
il  nostro  supera  di  gran  lunga  qualunque  degli  antecedenti.  L'arte 
è  premuta  in  Italia  dal  latinismo  predominante  per  colpa  della 
Curia  e  del  Clero,  sotto  la  cui  balia ,  qual  ogni  altra  disciplina, 
scadde  e  poi  risorse.  Canova  exempligrazia  coirinalzare  un  monu- 
mento a  Vittorio  Alfieri,  e  ricingerlo  di  tanta  sapienza  nazionale  e 
di  tanto  liberi  pensamenti,  ci  arricchì  non  solo  d'un  capolavoro  di 
scoltura,  ma  anche  più  d*un  modello  divino  dell'arte  rinnuovata  e 
redinlegrata,  d'un  parlante  insegnamento  del  vero  genio  delle  arti. 
Al  che  non  si  inalzò  l'autore  del  monumento  Giusliano,  il  quale  e 
per  l'anno  in  che  fu  fabbricato,  e  per  le  ossa  che  ebbe  a  custodire, 
meritava  altro  ingegno  se  non  più  nobile  scalpello.  L'arte  è  un 
geroglifico,  ed  è  il  linguaggio  con  cui  si  fa  parlare  la  natura  e  quasi 
a  noi  si  pareggia.  Né  un  quadro  né  un  rilievo  valgono  alcun 
pregio  senza  che  rappresentino  li  pensieri  del  tempo  che  vuoisi 
descrivere  o  della  persona  effigiata.  Di  quel  modo  appunto  che  non 
istà,  né  nella  delicatezza  e  vivezza  dei  colori  la  pittura,  o  nella  fi- 
nezza dei  tratti  la  scoltura,  ma  nell'invenzione  e  nell'idea  ;  cosi 
conviene  andar  persuasi,  che  gli  ordini  greci  disformi  non  sono 
destiluiti  di  ragione  nelle  loro  differenze,  come  non  lo  sono  i  di- 
versi stili  architettonici,  né  che  possano  rinverdirsi  con  lode,  o  ado- 
perare a  capriccio.  Le  disformità,  le  varietà  artistiche  son  conteste 
mirabilmente  ai  pensieri,  ai  costumi,  al  senno  delle  epoche  varie  o 
dei  popoli,  mentre  le  figure  medesime  o  gli  elementi  onde  constano, 
quaU  la  linea,  gli  angoli,'  i  cerchi,  i  capitelli,  le  cornici,  i  fogliami 
adornatori,  hanno  loro  cjigione  inserita  nel  tesoro  comune  della 
scienza  suprema. 

L'idea  d'immanenza  e  la  forma  novella  assunta  dal  morto,  op* 
posta  a  quella  visibile  e  fugace,  si  enunciava  per  segni  o  mezzi  che 
l'eterno  e  l'immutabile  o  il  continovo  testificassero.  Fornivano  buona 
dovizia  a  tal  uopo  le  religioni  e  le  simbolichedei  Gerofanti.  Le  quali 
perchè  a  quell'età  costituivano  o  la  somma  del  sapere,  o  certo  la 
corteccia  e  la  coperta,  tanto  seguirono  o  si  mescolarono  alla. signi- 
ficazione delle  cose  fuggevoli  e  passeggere,  quanto  a  quelle  perma- 
nenti e  immutabili.  Ciò  nondimeno,  a  questo  secondo  effetto  cor- 
rispondevano più  direttamente,  che  a  prima  vista  sembra  o  sembrar 
può  che  dell'altro  non  si  curassero. 

Le  aspirazioni,  gli  antefissi^  le  invocazioni,  comunque  spiranti 
affetto  e  desiderio,  erano  internamente  collegati  per  virtù  della  li- 
turgia alla  essenza  delle  religioni.  I  promontorii  fra  i  popoli  marini, 
e  i  monti  fra  i  mediterranei  eran  divoti  ai  sepolcri,  per  lo  più  in 
faccia  all'oriente.  Epa  comune  sentenza  che  qualsiasi  altura  rav- 
vicinasse al  cielo  e  guidasse  a  partecipare  del  consorzio  dei  numi 


188  BIVISTA  GONTBMPORANBÀ 

i  quali  dilettavansi  dei  monti  sopra  cui  collocavano  all'altezza  delle 
nubi  il  cielo  uranico  o  sidereo  e  Tolimpo,  abitazione  {tempio)  dei 
numi.  L'oriente  era  il  sito  ove  allogavano  il  cielo  empireo  o  l'igneo 
più  addentro  dei  rimanenti  cieli,  cielo  vivificatore,  o  diremmo  cau- 
sale, e  d'onde  ogni  bene,  ogni  vita  dimanasse  reputavano;  cielo 
misterioso,  che  i Latini  contraddistinsero  con  propria  nomenclatura: 
limes  coeliy  quaedam  coeli  regio ,  o  plaga.  E  l'arte  stessa,  che  è  bi- 
laterale piegavasi  al  medesimo  ofBzio,  pingendo  o  rivelando  ogget- 
tivate le  credenze  della  gente  con  simboli  a  decoro  delle  urne. 
E  il  passaggio  dei  laghi  inferni  eie  atre  porte  di  Dite,  e  le  apoteosi, 
e  gli  augelli,  e  gli  animali  quadrupedi,  e  i  mostri,  o  altri  emblemi 
quali  si  veggono  nei  cippi,  quali  sappiamo  dalle  istorie  contenere 
la  fede,  o  piuttosto  le  superstizioni  dei  diversi  paesi.  Le  piramidi 
tetragone  valevano  l'eternità  distesa  ed  occupante  i  sepolti;  la  cor- 
nice elittica  contenente  inscritti  i  nomi  dei  regi  indicava  la  sovra- 
nità in  sé  perfetta  star  separata,  e  soprastare  al  rimanente;  le  ca- 
riatidi sorreggenti  un  coperchio  a  triangolo  isoscele  figuravano  il 
tempo  sorreggente  l'eterno,  la  terra  che  ha  il  ciel  per  coperchio  o 
per  complemento.  Da  tutto  sapean  trarre  lor  prò,  e  tutto  che  era 
in  loro  potere  amavano  concorresse  ad  attestare  il  grand'avveni- 
mento  e  insieme  la  più  feconda  delle  umane  convinzioni.  La  lingua 
parlata  che  è  l'ammanto  visibile,  ma  l'ottimo  delle  idee,  fu  d'uso 
assai  posteriore  a  qualunque  altra  qualità  di  segni.  La  prima  scrit- 
tura fu  la  geroglifica  volgare  e  grossolana,  in  appresso  la  jeratica. 
Ambedue  furono  un  graduino  più  in  su  della  pittura  e  scoltura, 
come  si  par  chiaro  da  più  alfabeti  fonetici,  che  ritengono  dell'ideo- 
grafico, e  che  impiegavansi  in  luogo  di  cifre  numeriche,  o  river- 
beravano la  natura  delle  arti.  L'ideografia,  sistema  complesso,  è  (se 
non  cel  concedono  storicamente,  cel  consentiranno  in  grazia  della 
logica)  anteriore  alla  geroglifica  e  alla  scrittura  fonetica.  L'idea 
previene  il  suono,  e  l'immagine  con  cui  quella  si  afiaccia  allo  inten- 
dimento umano  trattandosi  d'idee  di  cose  sensibili,  che  sono  il  senso 
dei  popoli  rudi  come  de' fanciulli,  è  certo  anteriore  al  suono,  che 
par  quasi  un'imitazione  del  pensiero,  o  fuor  di  dubbio  la  più  omo- 
genea e  spiritual  manifestazione.  La  scrittura  figurativa  o  simbolica 
è  complessa  e  più  materiale  della  fonetica,  la  quale  emana,  o  come 
dire  sboccia  da  quella. 

Francesco  Dini. 
{contintca) 


189 


PORTI  E  VIE  8TRATE  DELL'ANTICA  LlfilIRIA 


saHHABia 


I. —  Difetto  di  fonti  Moriebe  —  la  Tavola  PtuUngeriana  e  VlUntrario  à^JntonÌiì0  — 
3.  Le  spiaggie  ligustiche.  —  5.  Porti  etruschi  di  Ludì  e  di  Geoova.  — 4.  Savo  e  I  f^ada 
Sabatia,  —  5.  .11  porto  di  Monaco.  —  6.  Come  scomparvero  le  stazioni  navali  di  Ven- 
timlglia  e  d^Àlbenga.  —  7.  Porti  Interruti.  —  8.  Collegi  ed  offici  marittimi.  »  9.  Tie 
liguji  anteriori  al  Romani.  —  10.  VÀwreiUa  e  VEniUa  di  Seauro  —  s^adotla  II  nome 
d^^uTilia.  —  4 1.  Suo  corso  da  Luni  a  Tortona.—  12.  V Emilia:  da  Tortona  ai $ab«iii. 
—  15.  VEmilia:  dai  SabaziI  al  Varo.  —  i4.  Ponti  romani  in  Liguria.  —  ^5.  La  PO' 
stumh,  —  16.  Mansioni  e  Mutazioni.  —  17.  Vie  municipali  o  minori.—  48.  Struttura 
ed  altre  particolarità  delle  vie  militari.  —  i9.  Cagioni  della  loro  rovina. 


1.  —  Tema  combattuto  e  difficile  per  difetto  d'antiche  memorie 
e  yarietà  d'opposte  sentenze.  Pur  noi  non  verrem  manco  a  quella 
pertinacia  d'indagini  che  si  ricerca  in  simili  trattazioni. 

I  primi  albóri  geografici  risalgono  appena  a'  tempi  d' Augusto , 
e  sono  inoltre  si  scarsi,  che  gli  scrittori  latini  i  quali  poco  o  nulla 
conobbero  i  baluardi  delle  Alpi  meridionali  o  marittime,  lungamente 
piatirono  se  fosse  l'Italia  foggiata  a  mo'di  triangolo  o  d'un  quadrato. 
Anzi  questa  regione,  a  dir  vero,  non  ebbe  per  secoli  molti  appella- 
zione sua  propria.  Il  sacro  nome  d'Italia,  ristretto  dapprima  al  breve 
rispiano  che  dal  golfo  Lametico  corre  a  quel  di  Scillace,  venne  mano 
a  mano  allargajidosi,  massimamente  nella  guerra  Sociale  in  cui  otto 
popoli  si  coUegarono  a  danno  di  Roma;  appresso  Polibio  vi  com- 
prendea  la  Venezia  e  la  Oallia  Cisalpina,  di  cui  fiEusea  parte  eziandio 
la  Liguria. 

Se  fossero  fino  a  noi  pervenute  le  opere  di  M.  T.  Varrone  —  De 
Ora  Maritima  —  e  —  LUoralia  —  il  tema  che  abbiamo  alle  mani 
sarebbe  assai  men  ponderoso.  Nella  prima  d'esse ,  il  più  dotto  dei 
Romani  descrive  non  solo  le  nostre  prode,  i  ridotti  navali  e  quanto 
in  essi  v'avea  di  più  rilevante  ;  ma  divise  altresì  i  piani  renaj  e  le 
scogliere  a  fior  d'acqua,  che  diceansi  are  nel  linguaggio  paesano,  ove 


140  BIVISTA  OONTHMPOBÀNBA 

rompeano  i  legni  veleggianti  da  Sardegna  in  Sicilia  (1).  Nella  se- 
conda sua  opera  traccia  le  distanze  delle  baje ,  de'  seni  e  de'  porti 
del  Mediterraneo,  computando  perfin  quanti  passi  divideano  l'Italia 
dall'Istria,  dalla  Liburnia,  dall'Epiro,  dall'Africa,  dalla  Sardegna  e 
dalla  Corsica  (2).  Questi  volumi  avrebbero  invero  sparso  di  gran  luce 
intomo  le  nostre  costiere.  Delle  quali  non  ci  restano  che  povere  e 
infedeli  nozioni  ;  avvegnaché  i  soli  due  documenti  che  giunsero  in- 
fino a  noi,  sieno  guasti  da  sconci  di  nomi  e  d'errori  :  e  le  discordi 
sentenze  di  dotti  disputatori  non  abbiano  avuto  altro  costrutto  che 
d'abbuiar  di  vantaggio  le  profondità  del  passato. 

Correndo  il  secolo  xv,  Corrado  Celie  cavava  da  una  badìa  di 
Germania  una  carta  delle  vie  romane  su  dodici  fogli  di  pergamena, 
che  appresso  venuta  a  mani  del  Peutinger  di  Augusta,  s'ebbe  il  nome 
di  Tavola  Peutmgeriana.  Non  pochi  ingegni  la  fecero  in  breve  sog- 
getto di  lor  profonde  speculazioni ,  e  massimamente  il  Meerman ,  ìì 
quale  dai  caratteri  e  dagli  ornati  avvisava  non  eccedesse  il  secolo 
di  Carlo  Magno  ;  altri  per  l'opposto  la  fanno  una  copia  (per  quan- 
tunque guasta  dai  scorsi  de'  trascrittori)  del  lavoro  geografico  com- 
pilato per  ordine  e  mandamento  di  Teodosio  il  giovane.  Qualunque 
possa  essere  il  concetto  de'  leggitori,  cert'è  che  tanti  sono  gli  storpi 
onde  va  deturpata,  da  non  potervi  accomodar  fede  veruna. 

Il  secondo  documento  è  V Itinerario  che  va  sotto  il  nome  deU 
Vìmi^T2itore  Antonino y  sebbene  alcun  l'afiermi  redatto  fin  dai  tempi  di 
Giulio  Cesare  con  successive  addizioni.  La  sua  nuovissima  compila- 
zione s'ascrive  ad  Stieo  Ister  nel  secolo  iv.  Anche  questo  itinerario 
segna  i  nomi  de'  luoghi  percorsi  dalle  vie  militari  ;  ma  la  computa- 
zione delle  miglia  è  si  stranamente  confusa  e  i  paesi  sì  sconciamente 
trasposti,  che  il  critico  non  può  fiaivi  sopra  assegnamento  di  sorta. 
Dal  che  manifesto  consegue  che  sommi  eruditi ,  come  il  Cluverio , 
il  Cellario,  il  Targiani^  il  Troia  e  altri  non  pochi  impugnano  l'auto-* 
rità  di  questi  due  documenti,  (Siccome  tali  da  non  potervisi  attendere. 

Non  parlo  del  Rwoennate  che  ani^aspò  la  sua  Tavola  intomo  il 
secolo  IX,  e  che  conia  a  sua  posta  nomi  di  città,  di  pagi  e  d'autori 
non  mai  conosciuti  nò  uditi.  In  questa  scarsità  d'istorici  e  tradi* 
zionali  presidii,  vantaggiandomi  del  poco  che  sparsamente  n'accen- 
narono gli  antichi ,  per  quanto  alterati  dalle  violenti  storsioni  dei 
chiosatori,  a  giovamento  degli  studiosi  delle  prische  memorie  pongo 
mano  ad  un  lavoro,  che  l'esatto  conoscimento  de*  luoghi  potrà  ren- 
dere men  difettivo. 

(1)  Serv.  in  ^neid.,  I,  108.  —  e   Virgilio  cantava: 

Saxa  Yocant  Itali,  mediis  quae  in  fluctibus  aras, 
Dorsum  immane  mari  summo. 

(2)  Plin.,  EitU  Nat.,  Ili,  5. 


PORTI  B  YIB  8T&A.TB  DBLL'ANTIOA  LU^UBIA  141 

2.  —  Egli  è  noto  essere  la  Liguria  divisa  da  quella  grande  alzata 
di  monti  che  dalle  scaturigini  del  Varo  insino  a  Vado  formano  le 
Alpi  marittime,  e  da  Vado  in  giù  gli  Àpenninì,  che  i  geologi  so- 
gliono considerare  come  diramazione  dell'Alpi  e  d*una  sola  forma- 
zione, dai  monti  Apuani  infuori ,  i  quali  costituiscono  un  calcareo 
saccaroide  o  primitivo,  e  perciò  non  hanno  appicco  di  sorta  col  si* 
stema  apenninico.  È  pur  noto  chiamarsi  Liguria  marittima  o  trans- 
apennim  queir  orlo  di  terra  ch'ò  ristretto  fra  i  monti  ed  il  mare  dal 
Varo  alla  Magra;  mediterranea  o  cisapennina  quella  ch'è  vòlta  a  set- 
tentrione de'  Giovi  fino  al  risvolto  del  Po  tra  le  Alpi  e  la  Trebbia. 
Chi  percorre ,  movendo  da  Nizza ,  la  nostra  costiera ,  s'avviene  dal 
promontorio  di  Monaco  al  capo  delle  Mele  (1)  in  ire  grandi  conche 
0  vallate  chiuse  intorno  intorno  da  un  increspamento  di  monti,  che 
snodatisi  dalla  resta  dell'Alpi,  protendono  le  loro  braccia  sul  mare. 
La  prima  d'esse  cammina  da  Monaco  al  promontorio  di  San  Remo  ; 
la  seconda  da  San  Remo  a  Costa  Bainera,  e  da  questa  al  capo  delle 
Mele  la  terza.  Ivi  s'apre  in  tutta  la  sua  maestosa  bellezza  il  ridente 
anfiteatro  della  Liguria  che  declina  alla  punta  del  Corvo,  e  abbraccia 
sei  golfi.  II  primo  de' quali  si  stende  dal  capo  delle  Mele  a  quello 
di  Noli  ;  il  secondo  da  Noli  a  Portofino  ;  il  terzo  da  Portofino  alla 
punta  di  Manara;  il  quarto  da  questo  a  Monte  Mesco;  il  quinto  è 
contravallato  dal  Mesco  e  dall'isoletta  del  Tino  già  commessa  con 
la  Palmaria  alla  terra  ;  il  tratto  che  da  quest'isola  corre  al  promon- 
torio del  Corvo  chiude  l'ultimo  golfo.  Tutti  questi  seni  son  conter- 
minati da  gruppi  e  catene  di  balze  spiccantisi  dall'Apenninó  e  sca- 
vati da  insolcature  profonde,  a  infinite  vallecole,  da  un  laberinto  di 
gole,  di  curve  e  burroni,  per  lo  cui  mezzo  s'adimano  rivi  e  torrenti 
che  dalle  soprastanti  pendici  ricevono  il  tributo  delle  acque;  però 
ne'  tempi  antichissimi  queste  valli  non  erano,  o,  a  dir  giusto,  il  mare 
in  esse^  ingolfandosi ,  lor  dava  aspetto  d'altrettante  baie  e  stazioni. 
Imperocché  essendo  allor  le  montagne  popolate  da  fitte  selve,  che, 
come  sacre,  rado  o  mai  s'abbattevano,  non  poteano  le  acque  travol- 
gere al  basso  i  terreni  che  doveano  tanti  secoli  appresso  alzare  le 
piaggio  marittime.  E  infatti  alle  piaggie  non  si  raccoglievano  i  Li- 
guri, poiché  piaggie  e  greti  non  eranvi  ancora  ;  le  castella  ed  i  pagi 
sedeano  sulle  alture,  e  quelli  che  veggiam  sorgere  sul  basso  de' lidi, 
non  hanno  origine  antica.  I  letti  delle  fiumane  e  le  valli  erano  adun- 
que i  porti  naturali  de'  Liguri.  Ciò  chiarisce  il  gran  numero  delle 
vetuste  stazioni  in  così  importuosa  regione,  tra  i  cui  monti  il  mare 
addentrandosi,  moltiplicava  le  rade  e  le  cale. 

(1)  Promontorium  Merulae.   Leandro  Alberti  lo  dice  Cavo  delle  Meire^ 
nome  che  tuttavia  serba  fra  i  terrazzani. 


142  RIVISTA  OOMTBMPORANBA 

Però  le  pioggie,  le  frane  e  le  nevi  rammollite  via  via  spolpando 
le  vette,  ne  avvallarono  le  spoglie  terrose,  onde  le  fondure  colma- 
ronsi,  e  i  torrenti  agglomerandone  ì  frantumi  alle  foci,  alzarono  le 
ripe  che  il  mare  crebbe  a  sua  volta  con  la  posatura  de'  fiumi  e  con 
dune  di  ghiaie  ammassate.  In  questa  guisa  il  limo  delle  montagne 
formando  le  prode,  riempio  i  tanti  seni  e  le  baie  che  col  nome  di 
porti  erano  un  tempo  in  Liguria,  e  che  per  la  più  parte  or  troviamo 
interrate.  Nò  ciò  avvenne  soltanto  sulle  nostre  costiere,  ma  ben  an- 
che in  quelle  d'Orbetello ,  d'Ostia ,  di  Taranto ,  Frejus  ,  Narbona , 
Nauplia,  Candìa,  Mileto  e  fin  sui  lidi  fenicii,  i  cui  porti  egual- 
mente scomparvero.  I  fiumi  minando  da*  monti  alzarono  ovunque, 
e  più  che  altrove  fra  noi ,  le  soggette  vallate ,  e  distesero  quella 
gran  zona  alluvionale  che  abbraccia  tanta  parte  d'Italia.  Tali  in- 
terramenti si  scorgono  in  singoiar  modo  presso  la  foce  padana,  I 
sedimenti  del  fiume  fecero  scomparir  le  lagune  che  ai  tempi  di  Stra- 
bene attorniavano  Ravenna,  e  quelle,  ch'or  ha  venti  secoli,  faceano 
d'Adria  un  gran  porto,  Adria  ch'or  dista  venticinque  mila  metri 
dal  mare  cui  legava  il  suo  nome.  Forse  anch'essi  i  colli  Euganei 
non  erano  un  tempo  che  un  gruppo  d'isole.  Fuor  di  dubbio  è  per- 
altro che  i  torrenti  i  quali  avvallansi  dal  lato  destro  del. Po,  cioè 
l'Arda,  il  Taro,  la  Braganza,  l'Enza,  la  Parma,  la  Secchia  ed  il 
Grostolo  spinsero  coir  assidue  lor  piene  dalle  falde  degli  Apennini 
l'Eridano  fin  dove  di  presente  egli  scorre.  Parma  e  Modena  erano 
un  giorno  paludi  (1)  :  l'agro  loro  assodavasi  di  limaccio  e  di  materie 
deposte  dalle  acque.  Mantova,  Como  e  Seggio  furono  pur  esse  gore 
e  marosi  ;  e  l'Arno  formò  l'agro  pisano,  come  il  Nilo  il  delta  d'Egitto. 
Questi  fatti  che  la  scienza  suggella  di  sua  autorevole  testimonianza 
ci  raffermano  nell'avvertita  sentenza,  e  varranno  ad  allucidare  alcune 
questioni  finora  rimaste  insolute. 

3.  —  Egli  è  facile  arguire  che  i  Liguri,  i  quali  per- la  sterilezza 
ed  asperità  delle  loro  giogaie  erano  costretti  ad  arrangolar  sulle  glebe 
per  {strappare  un  povero  alimento  alle  pietre,  dovessero  fin  dai  loro 
incunaboli  volgere  gli  occhi  alle  sottostanti  marine,  farsi  pescatore 
dapprima,  e  poi  corseggiatorì ,  e  perciò  calar  sulle  coste  e  cercar 
rade  e  stazioni.  Il  magnifico  golfo  di  Luni,  di  cui  il  Mediterraneo 
non  ha  l'uguale,  tirò  i  Liguri  assai  per  tempo  a  fame  comoda  stanza 
al  loro  naviglio  :  e  a  tal  induzione  è  rincalzo  una  tradizione  anti- 
chissima che  vuol  Luni  fondata  in  origine  dai  liguri  Apuani  piut- 
tosto sui  colli  che  inghirlandano  il  golfo,  che  non  verso  le  foci  del 
Magra. 

(I)  Cicer.  Epist,  Fam.  X.  —  Modena  in  lingua  etrusca  diceyasi  Mutiti  o 
Muini  che  Yale  aquitrinosa.  Dall'etrusco  Mut  o  Muta  deriva  il  moderno 
mota. 


POBTI  B  YIB  STBATB  DELL' ANTICA  UQUBU  143 

,  Questo  vasto  lembo  di  mare,  chiuso  a  levante  dal  monte  Caprione^ 
e  a  ponente  da  grandi  spicchi  di  rupi,  ha  distese,  quasi  argini,  tre 
isolette  innanzi  alla  bocca;  Pahnariay  che  ricorda  com'ivi  provassero 
un  giorno  le  palme ,  Tino  e  TinoUo ,  che  restringendone  il  troppo 
spazioso  accesso,  lo  fanno  sicuro  da  ogni  nodo  di  venti.  Lasciando 
da  parte  i  paraggi  del  lato  orientale  del  golfo,  come  Lerici  e  Pertusola, 
e  soffermandoci  invece  al  suo  lato  occidentale  in  quella  amenità  di 
prospetti  tra  San  Vito  e  Portovenere,  si  riscontra  una  serie  di  seni 
capaci  e  profondi  quanto  il  più  dir  sì  possa;  tali  son  quelli  di  Pa- 
nigaba,  deÙe  Orazio,  del  Varignano,  del  Castegno,  dell'Ulivo,  di 
Fezzano,  di  Cadimare  e  Marcia.  La  mitezza  del  clima,  il  sorriso  de' 
poggi,  quali  vestiti  d'aranci ,  d'ulivi  e  vitigni ,  quali  bruni  di  ci- 
pressi e  di  pini  :  il  biancheggiar  delle  ^ille  e  delle  borgate,  quali 
stese  sulle  poppe  de'  colli,  quali  specchiantisi  nell'azzurro  dell'onda 
che  bava  d'aria  mai  non  increspa:  e  in  lontenanza  il  contrasto  di 
fondi  valloncelli  boscati  di  castagni  e  d'abeti ,  e  sovr'essi  irte  ed 
aride  rocoie  su  cui  domina  la  Castellana^  quasi  regina  del  golfo, 
fanno  di  questi  ridotti  un  incanto  che  mal  può  ritrarsi  a  parole.  A 
buon  dritto  natura  destinò  questi  ameni  rivaggi  ad  essere  la  vera 
staziqne  delle  armate  italiane. 

E  tele  fu  un  giorno,  quando  la  potenza  toscanica  padroneggiò  i 
mari  e  fino  all'Alpi  (1)  allargandosi  dominò  la  penisola  (2).  Ivi  era 
il  principale  ricetto  delle  sue  forze  navali,  dacché  lo  tolse  ai  Liguri. 
I  Romani,  poco  dediti  al  mare,  punto  nulla  il  curarono;  Efmo  che 
lo  visiteva  quando  andò  centurione  in  Sardegna,  fu  il  primo  per 
avventura  a  volgere  la  loro  intesa  a  quella  meraviglia  del  golfo  : 

Sst  operae  pretium^  cives^  cognoscere  partum 
Limai. 

Slrabone  lo  dicea  maximus  non  solo,  ma  anche  pulcherrimuSy  magnae 
profunditatiSy  mvltos  intra  se  portus  complectens  (3)  ;  ed  Aulo  Persio 
che  fra  quelle  vaghezze  di  cielo  e  di  mare  sortiva'  la  culla,  canteva: 

mihi  mmc  ligus  ora 

Intepety  Aibernatqtie  meum  mare^  qiw  latus  ingens 
Dant  scopuli;  et  multa  litus  se  valle  receptat. 
Limai  portum  est  operae  cognoscere  ^  cives: 
Cor  jnbet  hoc  Enni  (4). 

(1)  NeirAIpi  marittime,  presso  Drap,  il  villaggio  di  Auma  accenna  forse 
il  limite  estremo  dell'impero  tuscanico.  Ruma  infatti  suona  in  etrusco 
borgata  di  confine.  Anche  il  primitivo  nome  dell'Albula  o  Tevere,  che 
segnava  ad  oriente  i  termini  della  Tuscia  media,  era  Rumon\  onde  il 
laziare  Roma.  V'ha  un  Rumo  in  Brianza  ed  un  altro  in  quel  di  Trento, 

(2)  Tit.  Liv.  Decad.  I,  lib.  V.  —  Serv.  ad  Uh.  JI  Georg,  v.  534. 

(3)  Strab.  Lib.  V. 

(4)  Satyr.  VI. 


144  BIVISTA  OONTBHPOBÀNBA 

Anche  SUio  Italico  e  Plinio  l'esaltano  a  gara,  e  vuoisi  che  VirgUiq 
descrivendo  un  porto  di  Libia,  ritraesse  quello  di  Luni  (1). 

Però  i  Romani  non  seppero  emulare,  come  sopra  si  disse,  gli 
Etruschi,  e  lo  neglessero  affatto.  Al  risorgere  de' Comuni  italici, 
Pisa,  quasi  erede  dell'etrusca  potenza,  mandando  in  Lerici  una  co- 
lonia, intese  a  farne  sua  scala  di  traffico  :  ma  questa  volta  il  valor 
ligure  cancellò  le  antiche  disfatte,  e  Meloria  segnò  la  caduta  dì  Pisa. 
Senonchè  i  Genovesi  al  par  de' Romani  poco  o  nulla  pregiarono 
queste  felici  posture;  anzi  è  fama  che  non  potendo  difenderle  da 
nemiche  ambizioni,  perchè  al  lembo  estremo  del  loro  paese,  stolta- 
mente avvisassero  deviare  la  Magra  e  costringerla  a  metter  foce  nel 
golfo,  acciò  i  sedimenti  del  fiume  via  via  lo  colmassero.  Con  miglior 
senno  i  Visconti,  sotto  il  cui  imperio  giacque  brevi  anni  la  signoria 
genovese  nel  secolo  xv,  intesero  a  fame  il  naturai  porto  delle  Pro- 
vincie lombarde  ;  ma  rivendicata  a  libertà  la  repubblica;  le  opere  già 
intraprese  a  quest'uopo  presso  il  Torrette  si  lasciarono  in  abbandono, 
talché  in  oggi  a  gran  pena  se  ne  scorgono  le  sole  rovine. -Più  tardi 
la  Signoria  murò  nel  seno  del  Yarignano  (1720)  un  lazzaretto,  ove 
le  navi  sospette  di  contagione  potessero  far  quarantena.  Napoleone  I 
riprese  il  grande  disegno  de'  Visconti,  ed  anzi  divisava  fondare  sul 
rivaggio  di  Panigalia  una  vast^  città  cui  avrebbe  legato  il  suo  nome. 
Tutto  fu  invano;  solo  all'Italia  fìa  dato  tornare  al  prisco  onore  il 
più  antico  e  degno  porto  d'Italia. 

La  signoria  degli  Etruschi  estendevasi  anche  sul  porto  di  Genova: 
poiché  fortissimi  sull'armi  navali  (nella  guerra  contro  i  Focesi,  la 
sola  città  di  Argilla  armò  sessanta  galee),  mal  poteano  comportare 
che  Genova  in  tanta  vicinità  di  confini  cogli  emporii  di  Luni,  Pisa, 
Cere,  Tarquinia  e  Populonia  sfuggisse  alla  lor  soggezione  ;  onde  le 
guerre  diuturne  che  si  chiusero  con  la  prevalenza  del  popolo  etrusco 
e  con  la  federazione  di  Genova  al  Nome  toscanico,  simboleggiata 
dal  Giano  bifronte.  E  se  questo  è,  come  ragionevolmente  si  tiene, 
ben  può  affermarsi  aver  Genova  fin  da  que'  tempi  smessa  la  sua  pri- 
mitiva selvatichezza,  e  fatta  emporio  de'  popoli  italici ,  dovesse  non 
men  di  Marsiglia,  ch'allora  cominciava  a  fiorire,  avversare  le  guerre 
ed  i  perpetui  rivolgimenti  ond'erano  involte  le  tribù  liguri.  Le  quali 
soprammodo  gelose  della  libertà  loro,  e  viventi  di  ratto  e  di  guerra, 
armata  mano  opponevansi  a  qualsivoglia  straniero  visitasse  a  cagion 
di  traffico  le  loro  marine  :  laddove  per  l'opposto  doveva  stare  a  cuor 
de'Genuati,  per  l'esca  del  guadagno,  porgersi   amici  e  manierosi 

(1)  Tum  quos  a  ni^reis  exegit  Luna  metallis 

iDsigDis  porta,  quo  non  spatìosior  alter 
Innumeras  capisse  rates  et  claudere  pontum. 

S.  Ital.  De  Bello  Punte,  Lib.  Vili, 

Vedi  Plin.,  Lib.  Ili,  8  —  Virgil.  Enetd.,  Lib.  ì. 


POBTI  B  TIB  STRATB  DBLL' ANTICA  LIGUBU  14& 

colle  foirestiere  nazioni ,  acciò  continuassero  ad  usare  ai  loro  porti. 
Questo  assiduo  contatto  con  altri  popoli  addolci  non  poco  la  nativa 
lor  indole.  Avvi  nelle  città  marittime,  al  dire  di  Cicerone,  certa  cor- 
ruttela e  mutamenti  di  costumi  ;  imperocché  vi  sMnnestino  di  nuovi 
parlari  e  nuove  discipline,  e  vi  s'apportino  non  solo  mercatanzie 
straniere,  ma  sì  nuove  usanze,  cosicché  ninna  parte  rimansi  intera 
delle  patrie  instituzioni.  Quinci  non  lievi  arguizioni  discorrono  a 
sgroppare  un  difficile  nodo  ;  quello  cioè  di  chiarir  le  ragioni  per  cui 
abbiano  i  Grenuati  nelle  lunghe  guerre  esercitate  dai  popoli  della 
ligure  federazione  contro  i  Bomani,  costantemente  tenuto  le  parti  ne- 
miche, dal  solo  caso  in  fuori,  in  cui  Magone  forzatamente  tiravali  a 
romper  fede  ai  Latini.  Queste  peraltro  verranno  agevoli  e  piane,  se  si 
considera  che  Tinfluenza  toscanica  ammorbidì  la  loro  innata  fierezza, 
e  gli  fé'  propensi  alla  pace  non  men  degli  Etruschi  medesimi,  i  quali, 
anziché  collegar  Tarmi  loro  a  danno  dì  Boma,  non  le  seppero  opporre 
che  sforzi  parziali.  Una  tal  confettura  acqueta  ogni  dubbio,  e  assume 
aspetto  di  verità  irrepugnabile,  avvegnaché  in  altra  guisa  non  possa 
comprendersi ,  come  abbia  Genova  immutabilmente  parteggiato  per 
una  politica  che  la  sceverava  dai  popoli  della  ligure  federazione. 

Del  resto,  il  porto  di  Genova,  da  cui  non  ha  molto  cavavasi  un 
superbo  rostro  di  trireme  appartenente  ai  secoli  della  romana  domi- 
nazione, era  fin  da  que'  tempi  di  tale  ampiezza  da  ricettare  le  sessanta 
navi  da  guerra  con  cui  vi  si  poneva  Publio  Scipione.  Esso  occupava 
assai  tratto  dell* odierna  città  ;  i  nomi  di  PTé$  (prati),  Campo^  Vigne^ 
Canneto^  Fossatello  e  Fossato  accennano  a  luoghi  in  prima  coperti  dal 
pelago,  e  appresso  vólti  a  coltura,  e  in  oggi  mirabili  per  superbi  edi- 
ficii  ;  i  nomi  della  Marina^  delle  Fosse  del  Colle,  di  Rivolta  {JRipa  alta), 
di  Matta  mora  (1)  a'  pie  di  Carignano,  e  non  pochi  altri  indizii  n'ac- 
certano che  anche  fra  questo  poggio  e  quel  di  Sarzano  ingolfavasi  il 
mare.  Perch'io  son  d'avviso  che  Genova,  oltre  l'attuale  suo  porto  reso 
in  oggi  sì  angusto,  avesse,  al  paro  di  quasi  tutte  le  antiche  città ,  un 
altro  men  ampio,  ma  più  sicuro  ridotto  nel  luogo  detto  tuttavia  la 
Marina,  che  appimto  sottostava  a  quel  colle  su  cui  primamente  la 
città  edificavasi.  Un  tal  colle,  detto  da  un'arce  sacra  a  Giano  Sarzam 
(Arx  Jani)  abbracciato  ai  due  lati  dal  mare  su  cui  sporgeva  a  foggia 
di  lingua,  fé'  attribuire  a  questa  città  la  denominazione  di  Genova, 
che  negli  antichissimi  idiomi  «Monh  punta  sull'acque  (2). 

(1)  Con  questa  voce  desunta  dagli  Arabi,  presso  1  auali  suona  ancor 
oggi  fosse  ai  grano,  i  Genovesi  designavano  il  luogo  dei  loro  granai,  come 
con  voce  egualmente  moresca  dicevansi  Reha  i  depositi  delle  mercatanzie. 

(2)  Difettando  gli  antichi  popoli  italici,  non  che  i  Romani,  della  lettera 
G,  presso  i  quali  è  noto  averla  introdotta  primamente  Garvilio,  usavasi 
invece  la  lettera  C;  onde  si  sarà  scritto  Cenua  anziché  Genua,  Quindi  da 
cen,  punta,  e  da  at? ,  aqua,  formavasi  il  nome  di  Genova.  Egual  radice 
riscontrasi  nei  nomi  di  Gen-^ava,  Ginevra:  e  di  Gen-abumt  Orléans,  poste 

Sivista  (?.  —  10 


146  BIVI8TA  OONTBHPOBÀNBA 

4.  —  Anche  il  suo  porto  avea  Savon  o  Savona,  non  potendo  noi 
consentire  con  chi  volle  locar  Savo  in  Saorgio  nel  contado  di  Nissza.  Né 
giova  che  Savo  da  Tito  Livio  sia  detto  oppido  alpino^  avvegnaché,  se- 
condo lo  storico  padovano,  i  Liguri  occidentali  fino  ai  Sabazii  apparte- 
nessero all'alpi  marittime;  al  che  pur  s'accosta  Strabene  dicendo,  nei 
Sabazii  aver  termine  il  claustro  alpino,  e  da  Genova  incominciar  gli 
Àpennini.  Inoltre,  se  si  pon  mente  che  Magone  fé'  stanziare  in  Savo 
dieci  navi  onuste  delle  spoglie  di  Genova  per  esso  lui  smantellata,  e 
che  a  tal  uopo  doveva  scegliere  un  luogo  di  presso  e  sul  mare,  ogni 
dubitazione  verrà  dileguata.  Questo  porto  già  in  parte  insabbiato  dalla 
vicina  JSansobbia  venne,  com'è  noto ,  distrutto  dai  Genovesi  nel  1525, 
i  quali  per  punire  la  contumacia  de'  Savonesi  v'affondarono  due  vec- 
chie navi  colme  di  pietre. 

I  Vada  Sdbatiay  che  ^estendevansi  fino  al  monte  alle  Mete,  non 
erano  anch'essi  che  un  ampio  sfondo,  una  rada,  ove  come  avvien 
di  presente,  ben  riparati  soeteneansi  i  navigli  ;  non  essendovi  di  veri 
porti  artefatti  traccia  alcuna  in  Liguria,  come  mostra  aperto  Stra- 
bene. Né  su  ciò  può  cader  dubbio,  sebben  Plinio  chiami  porUu  i  Vaia 
Sabatia^  avvegnaché  sogliano  i  cosmografi  antichi  adoperare  nel 
senso  istesso  le  voci  portus  e  statio,  testimone  il  Mazzocdii. 

5.  -^  U  porticello  di  Monaco,  cosi  detto,  secondo  Strabene,  per 
indicare  l'angolo  estreme  ove  i  Massalioti  poneaoo  a  svernare  le  ar- 
mate loro,  non  era  capace  di  molti  né  di  grossi  navili.  Quando  il 
console  G.  Ostilio  Mancino  ebbe  il  carico  della  guerra  contro  Nu- 
maozia,  per  via  di  terra  recavasi  a  Monaco,  ove  già  /essendo  le  navi 
in  assetto  di  vela,  udì  voce  che  dall'alto  tuonavagli  —  t'arresta,  e 
Mancino  1  —  Il  console  esterrefatto  die  volta  e  trasse  al  porto  di  Ge- 
nova, ove  stando  surto  co' legni,  favoleggiasi  che  un  immane  ser- 
pente, quasi  a  sviarlo  dalla  ingiusta  sua  impresa,  mentre  e'  sferrava, 
gli  sibilasse  incontro  e  s'immergesse  in  profondo.  Questo  sinistro 
prenuncio  fu  di  corto  seguito  da  una  orrenda  disfatta  toccata  dalle 
armi  romane.  Niun  altro  ricorde  ci  resta  intorno  a  questo  ridotto 
che  apparteneva  alla  tribù  dei  Vedianzi.  Sappiamo  soltasite  che  le 
sue  prode  venivano  talor  flagellate  da  un  furioso  rovaio  che  addi- 
mandavasi  Cercio^  e  che  spesso  impediva  l'appulso  alle  navi  (1). 

entrambe  in  identica  giacitura  a  quella  di  Genova:  Ginevra  suirangolo 
formato  dal  Lemano  ed  Orleans  su  quello  formato  dal  Loira. 
(1)  Quaque  sub  Herculeo  sacratus  nomine  portus 

Urget  rupe  cava  pelagu^;  non  Corus  in  illum 
Jus  habet,  aut  Zephyrus  :  solus  sua  litora  turbat 
Circius  et  luta  prohibet  statione  Monoeci. 

LucAN.  Phars.  Lib.  I,  v.  405. 
V.  anche  Viro.  Eneid.,  Lib.  VI,  v.  850. 
Ventus  Circius  armatum  hominem...  plaustrum  oneratum  percellit.  Cat., 
Origin.  L.  IH,   ap.  Aul    Geli.  L.  Il,  e.  22.  —  Pila.  L.  Il,  e.  47.  — Senec. 
Quaest.  naiur.  Lib.  V,  e.  17.  —  Strab.  Lib.  IV.  —  Diod.  Sic,  Lib.  V,  26. 


PORTI  B  VIE  STBATB  DJBLL' ANTICA   LIGURIA    .  l^ 

6.  —  Fin  qui  abbiamo  di  volo  rinfreflcato  la  memoria  di  quelle 
stazioni  che  tuttora  eussistooo;  dobbiamo  ora  tornare  in  veduta  le 
molte  che  sparvero,  ma  di  cui  ci  restano  non  dubbie  testimonianze 
nell'aspetto  de*  luoghi,  o  aperti  riscontri  negli  istorici  antichi. 

Yentimiglia  ch*era  stanza  di  un  numeroso  presidio  e  d*un  fla- 
mine (1),  il  che  non  consentivasi  che  a  grandi  e  illustri  città,  van- 
tava il  suo  porto;  e  presso  la  fontana  del  Borgo  dove  appunto  anco- 
ravano i  legni,  leggevasi,  or  fanno  più  secoli,  una  inscrizione  che 
accennava  ad  un  faro  ivi  eretto  a  comodo  de'  naviganti.  Questo  porto 
restò  affatto  deserto  quando  gli  Arabi  annidarono  in  Frassineto,  e 
Botari  devastò  la  Liguria^,  nel  qual  tempo  ^i  abitatori  delle  spiaggie 
marittime  fuggendo  i  luoghi  aperti,  ripararono  in  grembo  alle  so- 
prastanti montagne. 

Tanto  jmr  intervenne  del  porto  d'Albenga,  potentissima  un  giorno 
sul  mare.  La  sua  stazione  posta  allo  schermo  del  Capo  Vadino  che 
davale  il  nome  e  dell'isola  Gallmara  da  cui  distava  non  più  d'un  trar 
di  balestra,  fu  ingoiata  dal  fiume  e  sepolta  dall'arene  risospinte  dai 
flutti.  Il  Centa  che  porta  al  m^e  11  tributo  di  ventisette  milioni  e 
trecenquaranta  due  mila  metri  cubi  d'acqua  ogni  giorno,  menò  un 
di  le  vorticose  sue  piene  a  levante  della  città  ;  ma  appresso  abban- 
donato alle  proprie  licenze  si  sviò  dal  suo  letto,  scaricandosi  sopra 
il  porto  Vadino.  I  marosi,  gli  estuari  e  gli  sfondi  che  in  più  luoghi 
ti  si  parano  innanzi  in  vicinanza  del  mare,  chiariscono  gli  spaglia- 
menti  del  fiume,  che  con  acervi  di  ghiare  e  limaccio  n'interrava  il 
cratere,  senza  pur  intieramente  colmarlo.  U  lago  del  Serpente  e  quel 
di  Varenna,  subbìetti  di  favole  e  di  pietose  leggende,  son  baratri 
che  la  posatura  dell'acquie  non  ha  potuto  riempire. 

7""  D'altri  navali  ricetti  ci  resta  tuttavia  qualche  traccia,  tra  cui 
gioverà  ricordare  quello  di  San  Salvatore  presso  la  foce  dell'Entella, 
la  iella  Jlumana  dell'Alighieri  (2).  A  due  miglia  dal  mare  so  ne 
scorge  l'ampio  ricinto,  in  cui  sterrando  trovi  l'arena  sottoposta  agli 
strati  argillosi,  e  cavansi  ancore,  rostri  ed  altri  nautici  arnesi.  Il 
nome  stesso  di  Pónte  di  Mare  dato  al  ponte  di  S.  Maddalena,  benché 
discosto  oltre  un  miglio  dal  lido,  è  nuovo  rincalzo  alla  nostra  sen- 
tenza. Nel  suo  bel  mezzo  or  vi  torreggia  la  superba  basilica  d'In- 
nocenzo IV  de'  Fieschi  (anno  1244),  dominatori  di  queste  contrade. 

Il  ridentissimo  golfo  Tiffulio,  detto  or  di  Rapallo,  fioriva  anch'esso 
per  molte  stazioni  :  sussistono  tuttavia  quelle  di  Portofino  (Delphint 


(1)  Cicer.  Episi.  L.  Vili ,  EpisL  XV. 

ri  e  Ghia 
Da  bella. 

Dantb,  Purg.  Canto  XIX. 


(3)  Intra  Siestri  e  Chiavari  s*adima 

Una  fiumana  bella.... 


148  RIVISTA  CONTBMPORANBA 

portus),  sebben  ristretto  in  angustissima  cerchia,  e  di  Paragi  che 
con  ligure  appellazione  un  dì  nomavasi  Mosca.  I  vaghi  e  sicuri 
bacini  di  PrellOy  Trivello,  Poma  e  Langano  son  oggi  quasi  inter- 
rati. Del  tutto  scomparso  è  il  vasto  ridotto  che  dalle  foci  del  Boga 
0  Boato  girava  e  sfondavasi  fino  in  Val  di  Cristo^  stanza  di  un  ve- 
tusto cenobio,  nelle  cui  vecchie  mura  scorgonsi'  pendere  a  ganci 
grosse  annoila  di  ferro,  atte  già  a  securare  i  navili  dalla  furia  delle 
onde.  La  faccia  del  luogo  e  il  covar  che  vi  fanno  l'acque  paludose 
e  morte,  le  quali  forse  diedero  il  nome  a  Rapallo  {rea  pàlus)  con- 
fermano il  nostro  assunto.  Non  parlo  dell'antica  Tigulia  che,  a  nostro 
avviso,  è  d'uopo  ricercare  in  Trig^so,  come  la  Segesta  Tiguliorum 
neir  attuai  villa  di  Sesta  sul  Vara. 

Non  miglior  ventura  sortirono  le  rade  d'Albissola  {Alba  Dodlia)^ 
dì  Noli  {ad  Navalia)  e  di  Varigotti,  di  cui  peraltro  si  scorge  la 
cerchia  e  la  torre  che  la  sormontava,  forse  ad  uso  di  faro  o  di  pro- 
pugnacolo. Il  Fridegario  la  fa  distrutta  da  Rotari  nel  641.  La  sta- 
zione d'Alassio  posta  nel  luogo  che  serba  ancora  l'appellazione  di 
Porto  Selvo  e  ne'  portolani  di  Fos$fiy  soggiacque  pur  essa  alle  in- 
giurie del  tempo.  Taluni  la  dicono  rada  della  Zaigueglia. 

L'autore  dell'itinerario  marittimo  segna  tra  Monaco  e  Nizza  tre 
navali  stazioni  :  Avisio,  Anao  ed  Olivula.  Neppur  dr  queste  abbiam 
traccia,  dalla  terza  infuori  ch'è  l'Olivella.  L'OlfvtUa  detta  ne' tempi 
di  mezzo  Castrum  de  monte  Olivo  lasciò  di  sé  mesto  ricordo  in  alcuni 
ruderi,  che  scorgonsi  biancheggiar  di  lontano  sulla  pendice  dèi 
monte  Olivo.  Il  suo  porto  trovavasi  alle  falde  del  colle,  al  lato  orien" 
tale  del  seno  di  Villafranca.  Il  Petrarca  e  con  esso  il  Cluverio  e  il 
Beretta,  confuse  il  porto  di  Villafranca  con  quello  d' Olivula,  di  cui 
nel  1375,  epoca  del  viaggio  di  Gregorio  XI  da  Avignone  a  Roma, 
più  non  eravi  traccia  alcuna. 

Chi  volesse  annaspar  conjetture  intorno  ad  Anaonem^  potrebbe  ac- 
cennare che  questo  porto  fosse  non  già  la  rada  che  al  dir  del  Giof- 
fredi,  chiamavasi  Malo^  sì  un'altra  stazione  nella  penisola  di  S.  Ospi- 
zio detta  di  Sospiers^  in  quella  parte  che  riguarda  a  settentrione  la 
spiaggia  tra  Villafranca  ed  Eza.  Così  del  pari  YAvisio  portuSy  nome 
travisato  in  quello  d'Eza  tra  Villafranca  e  Monaco,  dovrèbbe  porsi 
là  dove  la  piaggia  d'Eza  ai  due  lati  incurvandosi,  lasciava  un  capace 
ricetto  alle  navi.  Senonchè  il  difetto  assoluto  d'ogni  memoria  non  ci 
consente  a  sgroppare  tai  nodi. 

Non  farem  cenno  di  Porto  Maurizio,  di  cui  cercheresti  indarno 
vestigio  che  accusi  l'esistenza  d'una  stazione  navale:  e  non  di  Nizza 
che  del  pari  ne  difettava.  Bensì  un  porto  d'un'entrata  maggiore  di 
quattrocento  tese  esisteva  tra  Frejus  (Forum  Julii)  ed  Antibo,  detto 
il  porto   Oa^ybio  dell'antica  Egitna^  il  moderno  porto  d'Agay,  che 


POETI  B  VIB  STBATB  DBLL' ANTICA   LIGURIA  149 

gualche  autore  confuse  con  quel  d' Olivula.  Ma  qui  facciam  sosta, 
non  essendo  del  nostro  argomento  allargarci  oltre  i  confini  ligustici. 

8.  —  Abbiamo  qua  e  là  tocche  di  volo  le  diverse  cagioni  che  con- 
corsero a  distruggere  i  porti  delle  nostre  costiere.  A  queste  s'ag- 
giunga Pavere  i  Romani  senza  intermissione  avversata  la  potenza 
marittima  de' popoli  italici,  per  cui  sempre  intesero  ad  assottigliare 
le  loro  forze  navali  e  sdegnarono  ristorarne  i  porti  e  le  rade.  Roma 
pose  ogni  studio  a  cancellare  i  caratteri  dei  popoli  che  conquistava  : 
la  sua  spada  abbatte  ogni  grandezza,  og^i  memoria  de'  vinti  ;  strozza 
ne' suoi  terribili  amplessi  i  nostri  commerci  e  nelle  sue  leggi  dichiara 
infami  il  lavoro  ed  il  trafSco.  Ogni  nostra  gloria  marittima  doveva 
quindi  perire.  Ond'è  che  a'  tempi  di  Strabene  il  quale  visse  intorno  il 
principio  dell'era  volgare,  la  Liguria  non  aveva  più  porti,  e  soltanto 
in  pochi  luoghi  poteano  approdare  le  navi  e  gittar  l'ancore  (1). 
Augusto  infine  ne  affrettò  la  rovina,  quando  aperse  un  ampio  arsenale 
a  Frejus,  e  pose  una  fiotta  in  Aquileja  e  in  Ravenna  e  un'armatetta 
sul  lago  di  Como  e  sul  Rodano,  senza  pur  darsi  un  pensiero  delle  an- 
tiche e  grandi  stazioni  della  Tuscia  e  della  Liguria  che  già  volgeano 
al  loro  declino.  Questo  superbo  dispetto  delle  nostre  cose  navali  rese 
per  avventura  mal  conte  le  seAolae  o  collegi  d'arti  marinaresche  che 
pur  erano  in  gran  fiore  tra  noi,  primo  germe  di  quelle  confraternite 
o  associazioni,  onde  uscirono  ne'  bassi  tempi  quelle  generazioni  ga- 
gliarde d'artefici  e  combattenti,  che  ogni  cosa  improntavano  di  loro 
audace  natura  e  che  volsero  perfin  le  Crociate  in  una  immensa  specu- 
lazione di  traffico. 

Fra  queste  corporazioni  giovi  toccar  quelle  dei  VessiUarii  Scalarii, 
Navicidarii  e  Centrones^  cioè  fabbricatori  di  centores  o  schiavine,  e  i 
Dendrqforij  cioè  i  somministratori  del  legname  atto  alla  costruzione 
de'navili.  Questo  collegio  d'artieri  doveva  sopramodo  prosperare  fra 
noi,  dove  le  montagne  arborate  d'abeti  e  di  larici,  piante  noderose  e 
ferrile  che  vigoreggiano  tra  i  nudi  scogli  e  il  battagliar  de' tifoni, 
offrivano  largo  campo  al  valor  degli  artefici.  Industria  antichissima 
e  tutta  nostra  era  questa:  di  che  fa  fede  Virgilio,  solerte  raccoglitore 
delle  italiche  tradizioni,  il  quale  cantando  della  ligure  armata  e  dei 
suoi  condottieri  che  trassero  in  soccorso  d'Enea,  descrive  la  nave 
superba  su  cui  veleggiava  CupavOj  rampollo  del  re  ligure  Ciffnc^ 
sulla  cui  poppa  sorgeva  sculto  un  ingente  Centauro,  che  levando  in 
alto  un  macigno,  sembrava  scaraventarlo  ne' flutti. 

E  qui  forse  converrebbe  indagare  per  che  modo  i  Liguri,  che  da 
prima  usavano  certe  lor  fuste   manesche  e  sottili,   le   convertis- 

(1)  Omnino  autem  universum  litus  a  Monoeco  portu  ad  Ètruriam  usque 
coDtiuuum  est,  et  portubus  caret,  nisi  quatenus  paucis  locis  appelli  ntives 
sinit,  et  defigi  ancoras.  3tiub.  L.  IV. 


150  UnnfiTA  OOKTBBfPO&ANBA 

sete,  suirese^ipio  de*  Fenieii,  in  navi  di  grsm  oorpi  e  tondegpgumiti 
e  come  appresso  salUosera  a  quella  bdkzsa  di  fimne  d'i  accenna  Vir- 
gilio. Seooncbè  queste  e  domiglianti  rìcerefae  ci  tparrebbero  per  av- 
Tentura  fuori  del  eercbio  ehe  ci  siam  divisato.  Soltaoto,  continuaodo 
il  primo  nostro  assunto,  diremo,  che  il  non  esservi  stato  in  Liguria 
alcun  prefetto  navale,  come  a  Como,  ad  Aquileja  e  al  promontorio 
Miseno,  ove  Plinio  esercitò  tal  ofileio,  mostra  il  niun  eonto  in  cui  ci 
aveano  i  Romani.  Eppur  grassi  guadagni  tirava  Roma  dai  nostri 
porti,  ove  le  mercatanzie  per  opera  d'ingordi  dazieri  pagavano  sfol- 
gorati balzelli  :  da  un  ottavo  fino  al  quarantesimo  del  loro  valore. 
Arrogi  ebe  il  fisco  attribuivasl  Tun  per  cento  sopra  ogni  vendita, 
e  il  venti  per  cento  sopra  ogni  schiavo'.  Peraltro  il  preaa»  di  questi 
cbe  a'  tempi  di  Catone  era  di  millecinquento  dramme  (denarios), 
cioè  di  milleduecnto  lire  ciascuno,  fu  appresso  si  teikue  tìbe  nelle 
Oallie  s'aveva  a  miglior  derrata  uno  sebiavo  ebe  un  an&^ra  di  vino. 

Soltanto  nel  V  secolo  siede  in  Liguria  un  Cornei  ripamm  e  ui^ 
Comes  porìuSy  il  cui  carico  era  più  ch'altro  un  nome  vano. 

9.  —  Facendoci  ora  a  trattare  delle  vie  strato  in  Liguria,  forz'ò 
rammentare  essere  appunto  le  vie  quasi  lo  specchio  delle  condizioni 
civili  d'un  popolo,  avvegnaché  agevolando  l'esercizio  de'  traffici  e  lo 
spaccio  delle  derrate,  come  le  vene  del  corpo  umano,  difEondono  in 
ogni  dove  il  battito,  il  calore  e  la  vita.  La  storia  della  lor  floridezza  e 
del  loro  decadiaiento  in  Italia  è  quella  del  popolo  italico. .  Salde  e 
maestose  segano  l'intera  penisola  a' tempi  della  romana  grandezza; 
manomesse  come  og^i  altra  cosa  gentile  nei  secoli  della  barbarie  e 
delle  civili  conflagrazioni,  ancor  esse  risorgono' al  rifiorire  de' tempi 
nuovi. 

Se  il  testimonio  di  Livio ,  di  Strabene ,  di  Posidonio  e  di  Floro 
intorno  l'efferata  selvatidbezza  de'  Liguri  rispondesse  al  vero,  assai 
di  leggieri  c'indurremmo  ad  opinare  che  la  Ligurria  difettasse  di  facili 
vie,  e  che  ogni  agevolezza  di  transito  dovesse  riferirsi  ai  Romani.  Ma 
interviene  ire  assai  circospetti  noli' aggiustare  piena  credenza  a  quegli 
scrittori  che,  avversi  al  ligure  nome,  ne  distrussero  le  prische  memo- 
rie, e  ciò  maggiormente  quando  il  discorso  della  ragione  e  le  stesse 
istorie  nemiche  dell'opposto  fan  fede.  Se  i  Liguri  aveaa  porti,  armate 
ed  eserciti,  doveva  di  necessità  il  loro  paese  essere  solcato  da  comode 
vie.  E  per  vero,  come  loro  potea  venir  fatto  senza  facili  accessi  di  met- 
tere in  punto  gli  eserciti,  e  traghettare  dalle  interne  foreste  i  legnami 
agli  arsenali  di  Luni,  di  Genova,  d'Albenga,  di  Yentimiglia  e  di  Mo- 
naco? È  fuor  di  contrasto  che  un'ampia  via  pel  eolle  di  Tenda,  detta 
poi  la  Domina^  v'aprirono  gli  antichi  Tesmofori  o  i  coloni  fenicii  ;  è 
pure  fuor  d'ogni  dubbio  che  Magone  circa  un  secolo  innanzi  a  Emilio 
Scauro  condusse  per  le  nostre  montagne  i  suoi  elefanti,  e  al  disopra 


PORTI  E  VIE  STRATB  DKLL'ANTIOA   LKJUBIJL  151 

d'AIbenga  per  il  passa  di  Nava  scese  in  riva  del  Tanaro.  Arroge  che 
Polibio,  il  quale  sessanta  anni  appresso  il  passaggio  d'Annibale,  va- 
lioò  l'Alpi,  ci  narra  che  ben  quattro  strade  a  lui  note  tracciavanle  : 
l'uoa  per  la  regione  dei  limrim  ove  il  Cartaginese  era  disceso:  due 
su  quel  ie' Salirsi  e  de'  EieU^  e  infino  la  quarta  per  gli  altipiani  della 
Liguria  marittima  (I).  Alcuni  anni  appresso  i  Romani  conobbero  anche 
i  passaggi  dell'alpi  Gamiche  per  le  valli  del  Tagliamento  e  del- 
l'Isonzo, e  quelle  pel  litorale  dell'Adriatico,  ove  i  monti  spianano  in 
verso  il  mare.  Le  cose  anzidette  chiariscono  non  potersi  esclusiva- 
mente gloriare  i  Romani  d'aver  apertole  prime  strade  nel  nostro  paese. 
Bensì  loro  assentiremo  il  vanto  superbo  d'averle  munite  e  rese  agevoli 
a  trarre  in  Soma^  con  più  prestezza  e  sicurtà  i  tributi  e  le  spoglie  dei 
vinti  (2)  e  a  condurre  da  un  \\xogo  all'altro  gli  eserciti  ohe  aveano  a 
disegno  lo  sterminio  dei  popoli,  i  quali  vegliavano  a  custodirle  e  a 
loro  contenderne  il  varco.  Tale  l'eroica  tribù  degli  Steni;  Il  Senato 
benché  già  dominasse  gran  parte  dell'Alpi,  divisava  tagliarvi  una 
gran  via  per  più  facilmente  domarne  la  contumacia  ;  perchè  impose  a 
Q.  Marcio  Re  d'assalire  quel  popolo,  che  più  gelosamente  d'ogni  altro 
guardava  il  valico  alpino.  Dopo  lunghi  e  disperati  conflitti  veggendosi 
i  liguri  Steni  d'ogni  banda  attorniati,  arsero  pagi  e  castella,  donne 
ed  infanti  sgozzarono  e  precipitaronsi  dentro  gì'  incendii  suscitati 
dalle  loro  mani.  Perfin  coloro  che  gemeano  in  cattività  de'uemici 
s'uccisero  di  laccio  o  di  &me,  mostrando  di  che  tempra  cuori  aves- 
sero in  petto.  Un  solo,  mirabile  a  dirsi,  non  v'ebbe  neppur  fra  i 
più  giovani  in  cui  l'amor  della  vita  potesse  tanto,  da  fiar  loro  so- 
stenere il  servaggio  (3).  CoA  il  passo  dell'alpi  Graje  (il  piccolo  S.  Ber- 
nardo) s'aperse  ai  Romani  coll'eccidio  d'un  popolo  intero.  Ma  il  tristo 
guadagnar  che  ne  fecero  !  poiché  continuo  i  montanari  loro  ne  dispu* 
tarono  il  varco.  È  noto  che  Valerio  Messala  inviato  a  debellar  l'Aqui- 
tania  fu  costretto  a  comperarne  il  passaggio:  e  tanto  pur  avvenne  a 
Sartorio,  il  quale  a  chi  di  ciò  l'appuntava,  rispose  :  non  si  paga  mai 
troppo  il  tempo  da  chi  medita  eccelsi  disegni. 

Per  l'opposto,  Cozio  figliuolo  di  re  Donno  che  signoreggiava 
l'aspre  regioni  poste  fra  il  Roccamelone  e  il  Monviso,  che  appresso 
dal  suo  nome  si  dissero  Alpi  Com ,  amicatosi  Augusto ,  agevolò 
il  passo  a'  Romani  con  nuove  tagliate  fra  i  suoi  dirupi;  (4)  onde  il 

(1)  Strab.  IV. 

(2)  Ut  omnia  tributa  velocitar  et  tato  transmitterentur.  Vroco^p. 

(3)  Paul.  Oros.  L.  V,  e.  14.  —  Fast.  Capit.  Fragm.  Pigh.  Tom.  \\\, 
pag.  83.  —  Epit.  Tit.  Liv.  LXII. 

(4)  Hujus  sepulcrum  reguli  (Cotii) ,  quem  itinera  struxisse  retulimus, 
Segusioneest  moenibus  proximum;  manesque  ejus  ratione  gemina  reli- 
giose coluntur.      Amm,  Marceli ,  Lib.  V. 


162  BtinSTA  CONTBMPOBÀNBA 

titolo  di  prefetto  ch'ebbe  a'tempi  di  Cesare,  gli  venne  dall'imperator 
Claudio  commutato  in  quello  di  re. 

Tornando  ora  al  nostro  compito,  s'egli  è  certo  che  i  Liguri  pos- 
sedeano  già  una  via  che  solcava  gran  parte  della  loro  costiera,  non 
che  altre  parecchie  che  dal  mare  metteano  alle  regioni  apenninicole 
e  alpine,  non  può  a'Romani  contendersi  d'averle  rassettate,  spianate 
e  aperte  alcun'  altre.  Noi  c'ingegneremo  a  divisarle  ed  a  seguirne, 
per  quanto  è  possibile,  il  corso,  additandone  le  mansioni  e  le  traccie, 
e  toccando  tutte  quelle  particolarità  che  hanno  appicco  al  nostro 
argomento.  • 

Eh.    CBLB8IA. 

{emtinua) 


153 


RASSEGNA  POLITICA 


Allorché  gli  animi  si  aUietavano  pella  speranza  che  si  sarebbe 
alla  perfine  ottenuto  dair Imperatore  de'Francesi  il  suo  uUinuUum 
sulla  questione  romana  in  senso  favorevole  all'unanime  desiderio 
degl'Italiani,  l'insospettata  nomina  del  sig.  Drouyn  de  Lbuys  a  Mi- 
nistro degli  affari  esteri  in  surrogazione  del  sig.  Thouvenel  amico 
dell'Italia  venne  a  soffocare  ogni  speranza,  anzi  originò  gravi  timori 
considerando  quale  fu  la  politica  del  sig.  de  Lhuys  quando  fu  altra 
volta  al  potere.  La  nomina  del  sig.  La  Tour  d'Àuvergne,  molto 
devoto  al  Papa,  all'ambascieria  francese  in  Roma,  e  la  traslocazione 
altrove  dell'ambasciatore  francese  presso  la  corte  italiana,  il  sig. 
Benedetti,  provatissimo  amico  della  causa  nostra,  confermano  le  in- 
duzioni che  realmente  l'indirizzo  politico  sulla  questione  di  Roma 
mutò;  gli  osanna  poi  che  canta  in  tutti  i  metri  il  sig.  La-Guerroniòre 
nel  suo  foglio  Za  Franee  rimuove  le  dubbiezze  che  alcuni  potevano 
ancora  conservare.  La  circolare  del  nuovo  Ministro,  in  date  del  18 
andante  assevera  che  non  sarà  cangiata  la  politica  imperiale,  ma  non 
dichiarando  esplicitamente  quale  dessa  sia,  lascia  campo  ad  ogni  ma- 
niera di  interpretazioni,  secondo  il  proprio  sentire;  sgraziatamente, 
raccogliendo  ogni  piccolo  sintomo,  si  viene  nella  convinzione  avere 
l'Imperatore  deliberato  di  continuare  a  sostenere  colle  armi  francesi 
lo  scettro  temporale  del  Papa ,  come  l'articolo  della  Franee  del  23 
andante  dà  per  positivo. 

Ewi  chi  attribuisce  questo  cangiamento  all'influenza  dell'Impe- 
ratrice in  voce  di  molto  devota  al  Pontefice  ed  a  concordi  rappre- 
sentanze dell'episcopato  francese,  nessun  membro  del  quale  non  è 
più  oggidì  gallicano;  altri  lo  attribuiscono  a.  dispetto  cagionato 
all'Imperatore  dalla  nota  del  ministro  Durando  che  vuoisi  sia  stata 
interpretata  come  comminatoria  di  una  risoluzione  ;  altri  perfine  a  se- 
greti negoziati  col  gabinetto  britannico,  per  far  cessare  i  gran  VMetmgs 
garibaldisti ,  in  cui  si  protestava  contro  l'occupazione  di  Roma  per 
parte  de' francesi,  i  quali  eccitavano  negli  operai  francesi  un'agitazione. 


154  RIVISTA  OONTBMPORANKA 

À  detta  di  costoro  si  sarebbe  pattuito  il  mantenimento  dell'integrità 
deirimpero  Turco,  ciò  che  implicherebbe  freddezze  nelle  relazioni 
colla  Russia,  a  patto  però  che  non  fosse  più  avversata  la  indefinita 
occupazione  di  Roma  da  truppe  francesi,  e  si  lasciasse  l'Imperatore 
arbitro  delle  sorti  del  papato.  Ora  il  sig.  di  Tbouvenel  essendo  av- 
versario della  politica  britanna  rispetto  alla  Turchia,  e  parteggiando 
pello  Czar,  l'Imperatore  lo  avrebbe  esonerato  dal  Ministero  degli  af- 
fiiri  stranieri  per  ottenere  impedite  le  proteste  in  Inghilterra  contro 
il  potere  temporale  del  Papa  e  la  presenza  di  soldati  francesi  in  Roma, 
senza  cui  quel  potere  svanirebbe  in  poco  d'ora. 

Profani  ne'segreti  dei  gabinetti  abbiamo  voluto  riferire  le  varie 
voci  corse  per  ispiegare  la  venuta  al  potere  di  chi  avversò  a  Parigi 
l'unità  italiana:  bene  osserveremo  che  la  notizia  della  nomiTMt  del 
sig.  Drouyn  de  Lhuys  fu  accolta  con  plauso  dalla  stampa  giorna- 
liera britanna  e  che  i  meetings  cessarono ,  perchè  mancato  loro 
l'appoggio  de' membri  del  Parlamento  ed  il  permesso  della  polizia; 
soggiungeremo  quindi  che  non  andavano  errati  coloro  i  quali  an- 
nunciarono che  il  giornale  La  Prance^  prossimo  a  venire  in  luce, 
diretto  dal  sig.  di  La-Guerronière,  sarebbe  stato  il  portavoce  delle 
idee  imperiali.  -  I  primi  numeri  sollevarono  lo  sdegno  universale, 
ed  il  giornale  fu  sollecito  a  dichiarare  non  essere  foglio  né  officiale 
né  officioso,  ma  i  fatti  sono  venuti  a  provare  come  le  antiche  relazioni 
tra  il  redattore  proprietario  di  quel  periodico  e  l'augusto  capo  del- 
l'Impero non  erano  state  interrotte,  e  conoscerne  egli  le  intenzioni, 
esseme  egli,  come  opportunamente  lo  chiamò  il  deputato  De  Cesare, 
il  rifelatore  (1). 

Pare  dunque  si  voglia  ripigliare  il  programma  di  Villafranca  in 
quanto  può  ancora  eseguirsi;  cioè  a  dire,  non  si  vuole  un'Italia, 
ma  tre,  ma  quattro,  e  se  più  meglio  ancora.  Quantunque  il  federa- 
lismo insanguini  oggidì  l'America  settentrionale  in  modo  da  spaven- 
tare gli  amici  dell'umanità,  il  sig.  di  La  Guerronière,  che  trovò 
(incredibile  a  dirsi!)  un  alleato  nel  sig.  Proudhon,  si  è  posto  a  strom- 
bazzarne le  beatitudini ,  attalchè  non  si  sa  come  non  abbia  proposto 
di  scindere  almeno  in  due  la  Francia,  facendo  un  impero  al  di  qua 
della  Loira  con  Marsiglia  per  capitale,  un  altro  al  di  là  con  Parigi, 
e  restituendo  per  debito  di  coscienza  Avignone  al  Papa,  stato  ven- 
duto a  denari  contanti  dalla  regina  Giovanna  con  rogito  di  cui  si 
hanno  gli  atti  autentici,  mentre  la  donazione  fatta  da  Pipino  di  Roma 
e  contomi  è  tuttora  controversa.  Questi  tre  Stati  dovrebbero  essere 
confederati  acciò  la  Francia  potesse  provare  le  delizie  attuali  della 
Confederazione  degli  Stati-Uniti. 

(1)  L'Alleanza  franco-italiana. 


BASdB<}NA  POLITICA  1S6 

Come  ai  dovrà  condurre  l'Italia  in  queste  gravi  contingenze?  A 
nostro  povero  avviso  ne  pare  essere  miglior  consìglio  quello  dato 
dal  foglio  inglese  Th$  TimeSy  cioè  di  temporeggiare.  L'attuale  enUnie 
eariiale  coir  Inghilterra  sarà,  come  le  precedenti,  passeggiera,  anche 
essendo  al  Ministero  il  sig.  Drouyn  de  Lhuys^  perchò  l'animosità 
tra  le  due  nazioni  è  troppo  radicata.  Il  Pontefice  dal  suo  canto  non 
vorrà  continuare  a  vivere  pel  beneplacito  di  Napoleone  ed  essere  in 
balìa  del  presidio  mandato  per  sostenerlo  in  trono.  La  situazione 
politica  delle  cose  in  Prussia,  massime  dopo  i  recenti  discorsi  di 
quel  Sovrano  alle  Deputazioni  municipali  con  cui  lascia  intravedere 
che  governerà  a  modo  suo  e  non  a  quello  della  Camera  elettiva,  è 
tesa  talmente  che  deve  rompersi ,  dal  che  ne  nascerà  un  subuglio 
nell'Alemagna  da  chiedere  necessariamente  l'attenzione  di  Napo- 
leone III  alle  agognate  rive  del  Beno.  In  quanto  alla  Turchia,  seb- 
bene soggiogati  i  Montenegrini  e  costretti  i  Serbi  a  contentarsi  di 
fatili  soddisfazioni,  la  pace  non  sarà  durevole.  Tra  gl'Islamiti  de- 
spoti ed  i  Cristiani  oppressi  non  vi  può  essere  pace.  Tutti  gli 
sforzi  dell'Inghilterra  cristiana  per  sostenere  la  Turchia  maomet- 
tana, non  produrranno  fuorché  la  prolungazione  dell'agonia,  ma  non 
mai  la  sua  salvezza;  e  se  l'Inghilterra  potè  lusingarsene  per  la 
vittoria  riportata  dopo  un  anno  di  parziali  sconfitte  dal  Sultano  che 
comanda  a  36  milioni  contro  i  Czernogori  che  non  sommano  se  non 
a  cento  trenta  mila,  —  la  recente  nuova  insurrezione  greca  che 
costringerà  il  re  Ottone  satellite  dell'Austria  ad  abbandonare  il 
regno  (anzi  già  se  n'era  annunziata  la  partenza)  tornerà  a  met- 
tere in  dubbio  se  possa  l'impero  Turco  in  Europa  continuare  a  sus- 
sistere. I  Sovrani  ed  i  Ministri  credono  di  vivere  ancora  ne'  se- 
coli ove  potevano  a  loro  capriccio  fare  e  disfare  gli  Stati.  Gli  avve- 
nimenti hanno  un  bel  provar  loro  che  nei  dì  che  corrono  le  volontà 
nazionali  vogliono  essere  prese  in  considerazione,  essi  stanno  per- 
tinaci in  queste  loro  pretese,  ed  a  vece  di  progressive  e  pacifiche 
ricomposizioni  di  assetti  politici,  seminano  rivoluzioni.  Quella  della 
Grecia  si  estenderà  nelle  isole  dell'Arcipelago,  nella  Tessalia  e  nella 
Macedonia.  L'Inghilterra  sarà  larga  d'armi  e  di  soccorsi  alla  Turchia, 
ma  ciò  nullameno  non  potrà  salvarla. 

Né  credasi  nemmanco  che  il  nuovo  Ministro  di  Francia  valga  a 
ridar  forza  all'Austria  malgrado  le  rosee  profezie  dell'  OstdeiUschepost, 
Ad  onta  di  tutte  le  moine  fatte,  l'Ungheria  non  si  lascia  adescare 
dalle  promesse  del  giovine  imperatore,  il  quale  ha  già  dato  saggio 
del  come  intenda  a  mantenere  lo  statuto  costituzionale  che  h^a  lar- 
gito. Il  gabinetto  viennese  è  astuto,  ma  il  patriotismo  magiaro  ha 
occhi  di  lince,  e  scorge  il  tranello  che  gli  si  prepara.  D'altra  parte 
l'elemento  slavo ,  cosi  preponderante  per  numero  nell'Impero  Au- 


156  BIYISTA  OOKTBKPOBANBA 

striaco ,  se  non  ne  rovescia  il  governo ,  vi  crea  piccoli  ostacoli  sì, 
ma  continui,  da  incepparne  razione.  L'antagonismo  tra  le  varie 
nazionalità  si  propaga  neiresercito  che  fu  la  tavola  di  scampo  del- 
TAustria  negli  anni  1848,  49  e  59,  così  a  lei  fatali.  Insomma  l'Im- 
pero è  cancrenato,  e  per  salvarlo  è  necessaria  l'amputazione. 

E  quand'anche  tardassero  a  scoppiare  insurrezioni  nella  Germania, 
tutto  lascia  presumere  che  nel  corso  dell'anno  prossimo  la  Russia 
sarà  teatro  di  sconvolgimenti.  I  poveri  polacchi  danno  agl'Italiani 
un  bell'esempio  da  imitare.  La  loro  indipendenza  politica  è  assai 
più  problematica  della  nostra.  A  noi  mancano  solo  Roma  e  Venezia, 
ai  polacchi  tutta  quanta  la  patria;  eppure  non  disperano;  e  con 
una  meravigliosa  pertinacia  rifiutano  le  libertà  che  lo  Czar  pare  di- 
sposto a  largir  loro  se  a  prezzo  dell'indipendenza  e  dell'integrità 
territoriale.  Nella  Russia  poi  i  mali  umori  vanno  crescendo  ne'boiari, 
nell'esercito  e  ne'contadini,  e  le  innumere  sette  religiose  spingono 
in  tutte  le  classi  a  chiedere  un  sistema  rappresentativo  che,  com'è 
composto  quell'Impero ,  ne  cagionerebbe  lo  sfascio.  Nel  Caucaso , 
quegl' indomiti  montanari  hanno  ricominciato  a  far  scorrerie  colla 
peggio  dei  Russi.  Nella  Finlandia  poi  evvi  tal  spaventosa  carestia, 
che  su  due  milioni  d'abitanti,  200  mila  non  hanno  più  modo  di  vi- 
vere assolutamente,  e  300  mila  devono  nutrirsi  d*erbe  selvatiche. 

Profittando  della  crisi  politica  che  minaccia  di  sconvolgere  la  Prus- 
sia, la  Danimarca ,  traendo  ardimento  dal  parentado  ch'è  per  strin- 
tra  la  dinastia  che  la  regge  con  quella  dell'Inghilterra,  provvede  in 
modo  da  incorporarsf  amministrativamente  lo  Slesvig,  questo  cavallo 
di  battaglia  delle  pretese  tedesche  su  cui  giurisconsulti ,  storici  e 
pubblicisti  di  tutta  l'Allemagna  scrissero  tanti  libri  da  comporne  una 
biblioteca.  Siffatte  provvidenze  hanno  maggiormente  inaspriti  gli 
unitarii  tedeschi  che  rimproverano  al  gabinetto  di  Berlino  una  ingiu- 
stificabile pazienza.  Ecco  un  altro  focolare  d'incendio  che  aspetta  gli 
si  appicchi  la  miccia. 

Inoltre  i  piccoli  principi  tedeschi,  scorgendosi  minacciati  di  essere 
ridotti  alla  condizione  di  vassalli  del  potere  unitario  che  si  vagheggia 
istituire  in  Francoforte,  vanno  parecchi  di  loro  a  gara  in  dare  prove 
di  liberalismo  onde  ascriversi  nella  lista  dei  candidati  alla  corona  uni- 
taria. È  saputo  quanto  abbia  già  operato  in  questo  senso  il  Duca 
di  Sassonia  Gotha,  il  cui  ritratto  è  divenuto  d'obbligo  in  tutte  le 
povere  stanze  degli  operai.  Ora  entra  nell'agone  il  Granduca  di 
Baden.  Egli  ha  testé  concesso  parità  di  diritti  civili  agli  Israeliti,  e 
dichiarò  di  lasciar  libero  a'  suoi  sudditi  di  recarsi  al  Von-Parlement 
in  Francoforte  il  dì  di  domani,  stabilito  per  discutere  fra  le  altre  la 
proposta  di  non  potersi  costituire  una  Germania  con  esclusione  del- 
l'Austria, che  anche  i  Tedeschi  vogliono  tutta  la  Germania  e  non 


BA8SB0NA  POLITICA  157 

lasciarne  staccata  veruna  parte  :  prese  inoltre  sotto  la  sua  protezione 
le  società  ginnastiche  che  sono  associazioni  politiche.  Mentre  altri 
sovrani  tedeschi,  nemici  non  pure  dell'unità  germanica  ma  di  tutto 
quanto  pute  di  liberale,  agiscono  in  senso  opposto  e  paiono  vogliano 
proprio,  coi  loro  provvedimenti  dispotici,  accelerare  lo  scoppio  della 
rivoluzione.  Essi  sono  il  vecchio  Re  di  Wurtemberg  il  più  innanzi 
in  età  dei  sovrani  deirEuropa,  il  Re  di  Anovria  e  l'elettore  di  Assia- 
Cassel.  Loro  segreto  alleato  è  il  Re  di  Baviera  che,  se  pur  osasse, 
ne  farebbe  altrettanto  ;  non  avendone  il  coraggio  sì  restringe  a  farla 
da  campione  del  papismo  e  dell'Austria,  ciò  che  fu  l'una  delle  cause 
dell'attuale  rivoluzione  della  Grecia  e  della  cacciata  del  suo  fratello 
Ottone ,  ma  con  ciò  sollevandosi  contro  la  Germania  protestante 
accumula  fasci  pel  futuro  incendio. 

Cagione  eziandio  di  disordini  in  qualche  Stato  europeo  esser  può 
la  guerra  civile  che  dilania  la  Confederazione  Americana.  Ove  si 
protragga  epperciò  accresca  la  miseria  degli  operai  nei  filati  in  co- 
tone, questi  possono  lasciarsi  trascinare  ad  atti  colpevoli  per  costrin- 
gere i  loro  governi  o  ad  intervenire  o  a  riconoscere  l'indipendenza 
degli  Stati  del  Sud.  Nell'un  caso  si  avrà  una  guerra  lontana  costo- 
sissima e  schiererà  la  Francia  dall' un  lato  e  l'Inghilterra  dall'altro. 
Rotto  l'accordo  fra  quelle  due  potenze  dominatrici,  la  conseguenza 
ne  sarà  di  doversi  la  Francia  occupare  di  tutt'altro  che  di  conser- 
vare il  potere  temporale  del  Papa. 

Noi  quindi  non  sapremmo  bastantemente  raccomandare  calma  di 
spirito  e  costanza  di  propositi  ai  nostri  concittadini  onde  poterne  subito 
cogliere  il  destro  per  riunire  le  membra  ancor  sparse  della  nostra  pa- 
tria. La  costituzione  delle  nazionalità  politiche  vollero  altrove  molti  anni 
di  lotte  e  di  sagrifizii.  Solo  i  popoli  che  perdurarono  nel  loro  intendi- 
mento la  conseguirono.  Noi  dobbiamo  né  violentare  lo  sviluppo  della 
crisi,  né  smarrirci  se  nuovi  incagli  sorgono  ad  inceppare  la  realizza- 
zione dei  nostri  desideri!  e  la  ricognizione  dei  nostri  santi  diritti. 
Dovremmo  intanto  trar  partito  del  tempo  sia  per  ordinare  le  cose  in- 
terne, assestare  la  mala  condizione  delle  nostre  finanze,  promuovere 
i  mezzi  industriali  della  nazione  e  preparare  armi  ed  armati  pei  di 
delle  battaglie.  Dovremmo  adoprarci  a  tutt'uomo  a  smettere  gli  odii 
provinciali,  municipali  e  personali  che  ci  frazionano  in  tante  piccole 
sette  e  ci  tolgono  quella  forza  ch'é  la  risultante  dell'unione.  Questi 
odii  sono  quelli  che  cagionarono  al  nostro  corpo  politico  gravi  ferite, 
le  quali,  se  non  vi  poniamo  eflìcace  rimedio,  non  si  potranno  sanare. 

I  nemici  della  nostra  unità,  che  conoscono  perbene  la  magagna 
secolare  della  nazione,  sanno  soffiar  dentro  a  queste  ire  provinciali  ed  a 
queste  personali  avversioni,  e  duole  il  dirlo,  ma  ottengono  il  loro  in- 
tento. Si  ha  un  bel  dimostrare  che  oggidì  l'esercito  è  italiano  non 


158  BIYISTA  GONTBMPOBÀNBA 

piemontese,  i  seminatori  di  zizzanie  gli  danno  sempre  questo  seéondo 
nome.  Quando  vi  era  il  ministero  Ricasoli  gridavasi  volesse  fare 
Italia  mancipia  della  Toscana.  Bravi  Minghetti  al  potere?  Gli  si 
bandiva  la  croce  addosso  buccinandolo  deliberato  a  porre  da  banda 
tutti  gl'impiegati  piemontesi.  Altri  subillano  che  le  provincie  Napo- 
letane e  le  Siculo  sono  ingovernabili  ;  che  bisognerebbe  lasciarle  di 
per  loro  a  districare  la  matassa,  negandosi  così  a  quel  reciprocò 
concorso  di  aiuti  che  solo  può  congiungere  e  dar  saldézza  alle  varie 
parti  dello  Stato. 

La*Camera  poi  è  scissa  in  tante,  diremmo,  chiesuole  da  non  avere 
più  veruna  maggioranza.  Il  Ministero  è  monco  :  sarebbe  indispen- 
sabile che  fosse  compiuto.  Ma  chi  eleggere?  Se  si  pone  innanzi  il 
Deputato  Tizio,  le  chiesuole  A.  B.  C.  lo  respingono  ;  se  Cajo  non  è 
voluto  da  altre,  se  Sempronio  è  alla  sua  volta  inviso  ad  altre  fra- 
zioni politiche.  Si  grida  da  taluni  :  Fate  che  regni  la  pubblica  si- 
curezza, senza  del  che  il  popolo  sarà  costretto  a  desiderare  la  re- 
staurazione degii  antichi  ordini  ;  altri  alla  lor  volta  cantano  :  doveirsi 
torre  lo  stato  d'assedio  nelle  provincie  australi ,  smettere  per  ogni 
dove  i  rigori  polizieschi ,  non  far  staggire  i  giornali  che  imprope- 
rano  contro  il  Gk)verno,  perchè  ciò  lede  la  libertà,  mentre  il  desiderio 
di  libertà  fu  quello  che  solo  costituì  il  nuovo  regno  d'Italia.  Ora  in 
questa  dissonanza  di  cervelli,  dirò  col  Guicciardini,  dove  sono  varii 
pensieri,  varii  fini,  non  può  esser  né  resoluzione  fondata,  nò  azione 
ferma  (1)  ;  e  come  potrà  il  Ministero  riordinarsi  per  ottenere  la  coe- 
sione e  l'influenza  di  cui  in  realtà  difetta  ?  Ognuno  gli  grida  raca, 
e  nessuno  gli  stende  la  mano  tanto  da  porlo  in  istato  di  trarre  per 
ora  la  nave  a  riva,  riserbandosi  a  riprendere  il  largo  con  altri  pi- 
loti al  timone  tornata  la  bonaccia. 

Gli  è  per  un  mare  così  tempestoso  che  la  nave  italiana  solcò 
rOceano  politico  nel  volgente  mese.  Se  le  burrasche  non  la  fecero 
affondare  devesi  non  al  pilota,  che  in  mezzo  alla  bufera,  o  più  non 
guardava  la  bussola,  o  forse  lo  stesso  ago  magnetico,  per  l'attra- 
zione esercitata  da  nembi  elettrici,  dava  false  indicazioni,  bene  si 
deve  al  contegno  calmo  della  ciurma,  e  dello  aver  tutti  dato  mano 
ai  remi  per  fuggire  dal  terribile  tifone. 

Ora  mi  verrebbe  opportuno  quell'antico  adagio  %  se  Sparta  piange, 
Messenia  non  ride;  ed  invero,  se  l'Italia  è  sbattuta  dai  marosi,  i 
fiotti  hanno  bersagliato  ben  anche  Inolte  altre  navi.  Vi  sono  taluni 
che,  scorgendo  essersi  Napoleone  III  reso  arbitro  dell'Europa ,  cre- 
dono nulla  possa  giungere  a  turbare  l'ordine  generale  s'egli  noi 
vuole.  È  noto  quel  detto  di  un  pubblicista  di  grido  :  Si  la  Prance 
est  satUfcMe^  V Europe  est  tranquille. 

(1)  Considerazioui  sui  discorsi  di  Machiavelli,  N.  58. 


RASSEGNA  POLITICA  159 

Se  lo  sii  non  indagheremo  ;  riconosciamo  soltanto  che  è,  almeno 
apparentemente,  tranquilla;  ma  la  qontinuazione  di  questo  stato  -di 
calma  dipende  dalla  continuazione  in  prospera  salute  dell'imperatore. 
Guai  se  si  ammalasse  e  durasse  a  lungo  infermo  ! 

É  la  forza  del  suo  volere,  l'assoluta  sua  autorità,  malgrado  il 
Sciato  ed  il  Corpo  legislativo,  che  paiono  essere  stati  creati  per  limi- 
tarla, che  la  mantengono  tale  :  del  rimanente  è  agevole  di  conoscere 
come  dall'un  lato  il  partito  clericale  appoggiato  dalle  popolazioni 
rurali,  dall'altro  i  liberali  avendo  per  sé  le  classi  operose  urbane,  si 
guatino  in  cagnesco.  Fra  i  due  ondeggia  il.  partito  dell'antica  di- 
nastia degli  Orléans,  il  quale  non  osa  pronunziarsi,  vuoi  per  Tuno, 
vuoi  per  l'altro, Aonde  poterne  ugualmente  usufruttuare.  l«a  mano 
di  Napoleone,  forte  per  la  devozione  dell'esercito ,  bavaglia  questi 
partiti  ;  ma  se  per  caso  la  lasciasse  cadere  solo  per  qualche  tempo 
o  per  troppa  stanchezza  o  per  mala  salute,  in  un  subito  tutta  la 
Francia  sarebbe  in  iscompiglio.  I  repubblicani  furono  sconfitti,  aut 
non  disparvero.  Si  sa  che  la  polizia  vigila  per  impedirne  i  conati, 
e  di  quando  a  quando  pubblici  provedimenti  vengono  a  far  fede 
delle  non  interrotte  associazioni  di  congiurati.  Ora,  ove  mai  lo  stato 
di  salute  impedisse  per  alcun  tempo  Napoleone  di  dirigere  esso  stesso 
il  Governo,  si  potrà  credere  che  all'imperatrice  Eugenia  sarebbe  dato 
di  frenare  le  opposte  mene  dei  partiti  politici  della  Francia?  Mai  no. 
Ma  si  dirà:  questa  vostra  supposizione  è  affatto  gratuita,  e  nulla 
ne  fa  presagire  la  possibilità.  Rispondo:  I  fogli  francesi  hanno, 
non  è  ancor  molto,  riferito  avere  l'imperatore  d'uopo  di  riposo,  e 
questa  essere  stata  la  causa  di  aver  protratto  più  a  lungo  la  sua 
assenza  da  Parigi.  Ora  l'intricata  condizione  in  cui  versa  l'Europa, 
la  guerra  civile  nell'America,  l'impresa  contro  il  Messico,  la  conti- 
nuata occupazione  di  posti  militari  nella  Cina  e  nell' Indo-Cina  non 
sono  certamente  per  concedergli  ozio  e  calma  onde  rifrancarsi  di 
forze  e  riacquistare  piena  salute,  epperò  quest'una  delle  contingenze 
ohe  possono  lasciar  modo  al  disbrigo  della  questione  romana  potrebbe 
eziandio  fra  non  molto  spazio  di  tempo  verificarsi.  Ma  quale  sarà  per 
essere  il  partito  che  abbraccierà  la  nazione  e  per  conseguenza  il  Go- 
verno, verrà  conosciuto  soltanto  dopo  che  il  Parlamento  nazionale 
convocato  pel  18  del  prossimo  venturo  novembre  si  sarà  pronunziato. 
Allora  soltanto  sapremo  se  l'attuai  Ministero  starà  ancora  al  potere 
0  se  lascierà  luogo  ad  un  altro,  il  quale  (nella  presente  disparità 
di  pareri  e  di  passioni  politiche)  durerà  eziandio  fatica  a  conseguire 
una  ragguardevole  maggioranza,  senza  la  quale  nessun  Ministero 
può  ben  dirigere  la  cosa  pubblica.  Vi  ha  chi  vaticina  tempestosi  di- 
battimenti, interpellanze  insidiose  e  proposte  irritanti  che  potranno 
costringere  il  Ministero  alla  grave  e  pericolosa  misura  di  sciogliere  la 


160  RIVISTA  CONTBMPOEANBA 

Camera.  —  Non  siamo  così  pessimisti,  e  vogliamo  credere  che  i  rap- 
presentanti della  nazione,  inspirandosi  alla  vista  dei  gravi  pericoli  che 
ne  circondano,  tempereranno  i  loro  desiderii,  e  per  volere  tutto  oggi, 
non  si  porranno  a  rischio  di  tutto  perdere  domani ,  e  si  persuaderanno 
hene  che,  come  disse  nel  1854  il  sig.  De  Feuillide  nella  Presse ^ 
ragionando  di  uno  scritto  del  sig.  Emilio  de  Grirardin  sulla  questione 
d'Oriente,  che  «  les.  nationalités  sont  l'oeuvre  du  temps,  non  d'un 
protectorat,  d'un  décret,  d'une  guerre».  Saremo  lietissimi  se  il 
tempo  venisse  a  mostrare  che  non  c'ingannammo  nelle  nostre  pa* 
triotiche  previsioni. 

Di  ciò  peraltro  che  siamo  convinti  che  il  tempo  non  sarà  per 
smentirci,  si  è  che  se  il  Ministro  facesse  comunicazione  alla  Camera 
della  supposta  proposizione  francese  di  lasciare  al  Papa  Roma  e  la 
sua  Comarca,  tutti  i  deputati,  non  uno  eccettuato,  risponderehbero 
unanimi  :  Non  possumus.  Che  se  il  Papa  non  crede  poter  cedere  i 
beni  che  Pipino  gli  regalò  sebbene  non  fossero  suoi,  la  Camera  non 
ha  veruna  facoltà,  come  non  ha  il  potere  di  smembrare  la  nazione. 
Può  bensì  rivendicare  le  parti  che  le  mancano,  ma  disitdlianizzare 
gl'Italiani  non  mai. 

Torino,  26  ottobre  1862. 

G.  Vbgbzzi-Ruscalla. 


Luigi  Pomba  Gerente. 


161 


COLONIA  PIEMONTESE  IN  CALABRIA 


STUI>IO    ETNOGRAFICO 


A  S.  A.  I.  il  Prioeipe  LUIGI  LUCIANO  BONAPARTB. 

Intento  a  compilare  una  carta  etnografica  deiritalia,  ogni  qual- 
volta nelle  mie  dubbiezze  ho  ricorso  alla  molta  vostra  dottrina  in 
fatto  di  dialetti,  voi  cortesemente  le  sciogliete,  attalchè,  se  mi  verrà 
fatto  condurre  a  buon  fine  questa  mia  lunga  ed  ostinata  impresa, 
dovrò  saperne  grado  specialmente  all'Altezza  Vostra. 

Desideroso  di  teslimoniarvene  le  più  sentile  grazie,  né  sapendo 
come,  pensai  dedicarvi  un  breve  Saggio  di  queste  mie  ricerche 
etnologiche,  lietissimo  se  incontrerà  il  vostro  ambito  suffragio. 

Laffezionato 
Vegezzi-Rusgalla 
Torino,  20  novembre  1862. 


Nella  estrema  parte  d'Italia,  dove  la  gran  catena  degli  Appen- 
nini rasenta  le  tepide  onde  del  Tirreno,  ai  piedi  dell'alpe  che  ha 
nome  la  Cresta  del  Bitonto^  fra  il  rivo  de'  Vani  a  borea  ed  il  rivo 
della  Scala  ad  austro,  nel  territorio  già,  negli  antichissimi  tempi, 
della  repubblica  Turina  ed  ora  della  provincia  della  Calabria  cite- 
riore, circondario  di  Paola,  mandamento  di  Cetraro,  sorge  sur  una 
montagnuola  un  paesuccio^  che,  giusta  l'anagrafe  data  dalla  stati- 
stica amministrativa  del  1861,  contava  1517  abitanti  dediti  alle  pa- 
cifiche cure  dei  campi  ed  in  ispecìal  modo  alla  cultura  dei  bachi 

Jtkriita  C.  —  li 


162  RIVISTA    CONTEMPORANEA 

da  seta.  Alpestre  n'è  il  territorio,  però  bene  vi  allignano  la  vite^  il 
fico,  l'olivo,  il  gelso  ed  i  cereali,  ma  ciò  che  fa  meglio  conosciuto 
questo  paese  si  è  una  sorgente  termale  di  antica  celebrità,  le  cui 
acque  sono  un  potente  rimedio  contro  le  affezioni  nervose  da  cui 
trasse  il  nome  il  vicino  paese  di  Fuscaldo  (Fmts  calidus). 

Esso  Comune  ha  nome  Guardia,  e  la  favella  de* suoi  abitanti  è 
diversa  da  quella  dei  Comuni  circonvicini,  come  è  diversa  la  foggia 
di  vestire  delle  donne,  non  che  alcune  costumanze  rurali. 

Oggidì  che  avventurali  avvenimenti  fecero  una  sola  famiglia 
degl'Italiani  di  tutte  le  provincie,  oggidì  che  sono  congiunte  sotto 
lo  slesso  scettro  l'alta  e  la  bassa  Italia,  mi  è  paruto  che  alcuni  rag- 
guagli sur  un  Comune  nelle  Calabrie  popolato  da  una  colonia  pie- 
montese potessero  avere,  se  non  altro,  il  merito  dell'opportunità  o 
per  dirla  con  un  francesismo  che  s'introdusse  nella  lingua  italiana, 
di  opportunità. 

Guardia  di  Calabria  ebbe  da  taluni  impropriamente  il  nome  di 
lombarda;  questo  predicato  spetta  all'altro  Comune  omofono  ch'è  nel 
Principato  ulteriore,  circondario  e  mandamento  di  S.  Angelo  di  Lom- 
bardi, come  risulta  da  atti  autentici  e  da  lungo  a  stampa  (1);  quindi 
reputiamo  abbiano  erralo  così  chiamandola  lo  storico  Giannone,  e 
dopo  lui  il  Bolla.  La  confusione  che  ne  derivò  fece  incappare  in  un 
grave  sbaglio  i  signori  cav.  Ferdinando  De  Luca  e  D.  Raffaele  Ma- 
striani,  i  quali,  nel  loro  Dizionario  corografico  del  Reame  di  Napoli 
(Milano  1852),  dicono  successa  in  Guardia  del  Principato  ulteriore 
la  strage  degli  eretici,  di  cui  sarà  discorso  qui  dopo.  L'appellativo 
che  conviene  a  questa  Guardia  di  Calabria  è  quello  di  piemontese, 
che  originarii  del  Piemonte  ne  sono  gli  abitanti.  E  se  veramente 
anche  Guardia  di  Calabria  è  stata  della  lombarda,  si  è  perchè  nel- 
l'età di  mezzo  davasi  il  nome  di  Lombardia  a  tutte  le  terre  italiane 
dal  Mincio  alle  Alpi  Cozie  e  marittime.  Lombardi  furono  detti  in 
Francia,  Svizzera  ed  Alemagna  i  mercatanti  Chieresi,  Astigiani  e 
di  Cavori'e  che  primi  istituirono  in  que' paesi  Monti  di  pietà  o  pre- 
stiti contro  pegno,  da  cui  ne  venne  a  tali  banche  in  Francia  il  nome 
di  Lombards  (2).  Di  più,  ancora  nel  secolo  xvn  il  Leger^  nativo 
delle  Valli  presso  Pinerolo,  cosi  si  esprime:  la  Lombardie  où  soni 
les  vallées  du  Piémont  (3). 

(1)  Natale,  Prospettiva  ed  effetti  del  sistema  feudale  per  la  causa  della  po- 
polazione di  Guardia  Lombarda.  Napoli,  10  gennaio  1798. 

(2)  Cibrario,  Scorte  di  Chieri,  §  xviii,  p.  246  della  3a  ediz.  Torino  1855, 
e  Blaire,  Des  monts  de  piété.  Parigi,  1856,  T.  i,  p.  9.  Ducange,  Glossar,  med, 
et  inf.  Latin,  ad  me.  Longobardi,  edit.  1845. 

(3)  Histoire  generale  des  églises  évangéliques  des  Vallées  du  Piémont.  Leyde 
"9,  Parte  i,  p.  155, 


COLONIA   PIEMONTESE  IN  CALABRIA  163 

1  varii  sierici  napoletani  che  mi  fu  dato  di  qui  consultare  non 
danno  notizie  né  del  come  né  del  quando  si  stabili  quella  colonia 
di  Piemontesi^nella  Calabria  ;  supplirò  al  loro  silenzio  traendole  da 
storici  piemontesi,  o  dirò  meglio  dagli  storici  delle  valli  di  questa 
parte  dell'Alpi  cozie  che  sono  ascritte  al  circondario  di  Pinerolo, 
provincia  di  Torino,  dove  da  tempo  antico,  e  certamente  innanzi 
all'eresiarca  lionese  Pietro  Valdo^  stanzia  una  popolazione  cristiana 
bensì,  ma  non  romana. 

Ecco  come  il  Gilio  (in  francese  Giles),  nativo  di  Perosa  e  pastore 
evangelico  alla  Torre,  paesi  entrambi  di  quelle  valli,  ch'ebbe  non 
pure  facoltà  ma  mandato  di  compulsarne  gli  archivi!  comunali  e  dei 
sinodi,  e  potè  inoltre  valersi  delle  tradizioni,  narra  quest'emigrazione 
de' suoi  concittadini  (4).  A  vece  del  testo  francese,  ci  è  paruto  meglio 
riprodurre  la  versione  italiana  data  dal  Priore  Rorengo  consignore  di 
Lusema  (grosso  borgo  valdese)  :  sia  perchè  cattolico,  sia  perchè  ag- 
giunse al  testo  qualche  particolare,  che  gli  fu  comunicato  verbai* 
mente  dallo  stesso  Gilio,  per  esempio,  laddove  asserisce  a  cosi  mi 
ha  detto  a  voce  l'autore  »,  non  senza  soggiungere  che  dalle  poche 
date  che  riferisce  si  desume  accennare  circa  l'anno  4345  (2). 

€  Essendosi  ritrovati  alcuni  Valdesi  con  un  gentiluomo  calabrese 
in  Torino,  alloggiati  insieme  in  un'osteria  (cosi  mi  ha  detto  a  voce 
l'autore)  in  familiar  discorso  si  fosse  rappresentato  che  le  valli 
erano  tanto  popolate  che  non  vi  si  poteva  più  cavare  il  vitto,  onde 
esso  gli  offri  terre  vacanti  nella  Calabria^  mediante  condizioni  ra- 
gionevoli, sopra  di  che  i  popoli  delle  Valli  mandarono  uomini  ca- 
paci per  riconoscere  il  sito  di  quei  terreni,  quali  ritrovarono  molto 
fertili,  essendovi  colline  e  pianure  ornate  di  ogni  sorta  di  alberi  frut- 
tiferi, come  di  noci,  castagne,  ulivi,  melangolo,  ecc.,  e  di  terreni 
atti  a  ricevere  ogni  sorta  di  sementi,  fecero  colà  convenzioni  che 
pagando  un  tributo  dei  terreni  che  possederebbero,  potessero  abi- 
tare a  parte  e  fra  loro  costituire  una  comunità  o  più,  e  stabilire  re- 
golatori, con  facoltà  d'impor  ìa^We  e  di  esigerle  senza  essere  obbli- 
gati di  prenderne  altra  permissione  né  renderne  conto  alcuno, 
eccetto  fra  di  loro.  Accordarono  ancora  coi  signori  e  magistrati 
di  tutti  i  diritti  ordinarti  e  casuali  che  gli  potrebbero  pervenire  e 
del  tutto  ne  ottennero  istromenlo  autentico,  il  quale  fu  dopo  con- 
fermato dal  re  di  Napoli  Ferdinando  di  Aragona  (3)  e  che  stabilito 

(1)  Histoire  des  églises  réformées  autresfois  appelées  vaudoises,  Ginevra, 
1644.  p.  18. 

(2)  Memorie  hislorichc  deltintroduitione  delVheresie  nelle  Valli  di  Lucerna, 
marchesato  di  Saluzzo  et  altre  di  Piemonte,  Torino,  1649,  p.  77. 

(3)  Ferdinando  I,  figlio  naturale  di  Alfonso  I,  tenne  la  corona  dal  1458 
al  1494.  Ferdinando  II,  figlio  di  Alfonso  11,  regnò  nel  1495  e  1496.  Gilio  non 
indica  la  data. 


164  BIVISTÀ   CONTEMPORANEA 

il  contratto  ritornarono  nelle  Valli  e  disposero  buon  numero  di 
gente  a  vendere  le  loro  ragioni  per  andare  nella  nuova  colonia  ed 
abitazione  come  fecero  parecchi  con  moglie  e  figliuoji  i  quali,  ar- 
rivati nella  città  di  Mottalto  ivi  vicino  cominciarono  a  fabbricare  il 
borgo  che  si  chiama  il  borgo  degli  oltramontani  (1). 

e  Dopo  cinquant'anni^  essendosi  moltiplicato  e  cresciuto  il  nu^ 
mero  con  altri  venuti  dalle  Valli,  edificarono  un  altro  borgo  un 
miglio  lontano,  chiamato  San  Sisto,  ove  vi  fu  dopo  una  delle  più 
celebri  chiese  riformate.  Indi,  secondochè  andavano  crescendo  e 
moltiplicando,  edificarono  Vaccarizzo,  Argentina  (2)  e  S.  Vincenzo. 
Poscia  il  marchese  Spinelli  gli  concesse  di  edificare  ne' suoi  luoghi 
la  Guardia^  terra  chiusa  e  muragliata  in  luogo  elevato,  presso  il  Me- 
diterraneo con  notevoli  privilegii  ed  in  tutti  questi  luoghi  moltipli- 
carono i  Valdesi...  grandemente  e  circa  il  4400,  essendo  i  Valdesi 
in  Provenza  inquisiti  ad  istanza  del  pontefice  che  sedeva  in  Avi- 
gnone, molti  ritornarono  nelle  valli  d'onde  erano  discesi  i  loro 
padri,  e  di  là,  accompagnati  da  molti  delle  Valli,  andarono  nelle 
frontiere  delle  Puglie...  e  col  tempo  edificarono  villaggi  ossia  terre 
chiuse^  cioè  Montelione,  Montauto  (3),  Faito,  la  Cella  e  La  Motta. 
Finalmente  circa  il  4500  alcuni  delle  Valli  andarono  ad  abitare 
nella  città  di  Volturara  vicino  ai  detti  villaggi  » . 

Con  altre  parole  e  qualche  disparità  nelle  date  narrò  prima  del 
Gilio  queste  emigrazioni  di  Valdesi  nella  Calabria  e  nel  Principato 
il  loro  più  antico  storico,  cioè  il  Perrin  da  Lione  (4),  al  quale  con- 
sta che  dai  barbi,  cioè  dai  pastori  delle  chiese  valdesi,  era  stato 
dato  l'incarico  di  scrivere  la  storia  dei  loro  religionarii.  Gioverà 
riferirne  il  passo  levato  ugualmente  dalla  traduzione  data  dal 
Priore  Rorengo  perchè  la  doppia  relazione  cresce  fede  al  racconto. 

(1)  Forse  è  il  borgo  che  oggi  dicesi  degli  escisi.  Vedi:  Giustiniani,  Di- 
zionario geografico  ragionato  del  regno  di  Napoli.  Ivi,  1802,  T.  v,  p.  130. 

(2)  Non  trovai  registrato  questo  nome  neppure  nel  Grand* Atlante  geO' 
grafico  del  regno  di  Napoli,  di  Gio.  Ant.  Rizzi-Zannoni,  inciso  nel  1808  in 
ben  34  fogli.  In  esso,  in  questo  spazio  di  territorio  evvi,  sovra  Fuscaldo, 
un  colle  segnato  Argentino  ;  vicino  a  Vaccarizzo  scorre  un  torrente  che 
dicesi  Argentina.  Vedi  Rodotà,  DelVorigine  e  stato  presente  del  rito  greco  in 
Italia,  Roma,  1763,  T.  4ii  ,  p.  69.  È  certo  che  il  paesuccio  San  Marco 
un  di  chiamavasi  Argentana.  Vedi  il  Giustiniani  (op.  cit.).  Nella  Breve 
descrizione  del  Regno  di  Napoli  in  Xll  provincie,  di  0.  Beltramo.  Napoli 
1686,  a  p.  418  è  segnato:  Argentino  con  18  fuochi. 

(3)  Altro  modo  di  scrivere  Montalto.  In  piemontese  direbbesi  Montaut, 
Alto  in  provenzale  antico  si  disse  aut  ;  nel  dialetto  napoletano,  giusta  il 
Galiani,  dicesi  auto.  Casentino,  Tasso  in  calabrese,  Cant.  xi,  strofa  37,  usa 
pur  esso  autu,  ma  nella  traduz.  del  Vangelo  di  s.  Mattia,  del  sig.  Lucente 
(Londra  1862)  è  scritto  avutu. 

(4)  Histoire  des  Vaudois.  Ginevra,  1618,  p.  169, 


COLONIA  PIEHONTRSE  IN  GAL  ABBI  A  165 

«  Circa  l'anno  1400,  ritrovandosi  nella  valle  di  Pragelato  (1) 
cresciuto  e  moltiplicato  il  numero  del  popolo,  fu  necessario  licen- 
ziare molta  gioventù  e  cercare  altra  abitazione;  giunta  in  quelle 
parti  (Principato  e  Calabria) ,  ritrovandosi  il  paese  inculto,  però  di 
natura  fertile  ed  opportuno  alla  produzione  di  grani,  vini,  olio  e 
castagne,  s'indirizzarono  ai  signori  diretti  e  con  essi  accordarono 
contratti  d'enfiteusi  sotto  varie  condizioni.  Indi  ritornata  la  detta 
gioventb  a  dame  ragguaglio  ai  parenti  e  ingrossato  il  numero, 
molti  di  essi  presero  moglie  e  ciascuno  condusse  la  propria  in  Ca- 
labria ove  fabbricarono  alcune  terre,  cioè  S.  Sisto,  la  Guardia,  Vac- 
carizzo,  Rosa  (2),  Argentina,  S.  Vincenzo  e  Monteleu  (3)  onde  i 
signori  di  detti  luoghi  si  stimavano  avventurati  d'aver  ritrovato  si 
buona  gente  a  coltivare  i  terreni  ». 

Il  Rorengo,  tradotti  questi  passi,  s'industria  a  mostrarli  in  con- 
traddizione onde  negare  una  emigrazione  .di  Valdesi  in  quelle 
parti  numerosa  abbastanza  da  formare  colonie,  il  perchè  muove  a 
sorpresa  come  il  Muston  (4)  la  cui  storia  dei  Valdesi  è  la  migliore 
di  quante  se  n'abbiano  (e  non  sono  poche)  abbia  citato  il  Rorengo 
come  narratore  di  queste  emigrazioni  ;  però  tutti  i  sofismi  del  priore 
Rorengo  sono  distrutti  dal  fatto,  come  verremo  in  seguito  spo- 
nendo, che  prova  essere  gli  attuali  abitatori  della  Guardia  real- 
mente di  schiatta  valdese  e  per  tali  stati  riconosciuti  quando  furono 
spente  le  colonie  di  Montalto,  San  Sisto  ed  altri  luoghi  testé  men- 
zionati. 

Il  pastor  Gillo  ben  meglio  del  Rorengo  poteva  conoscere  le 
cose,  giacché  il  suo  avo  paterno  era  appunto  stato  nelle  Calabrie  a 
visitare  que'suoi  compatrioti;  e  come  mai  egli  ed  il  Perrin  ne' suoi 
tempi,  in  cui  non  vi  erano  guari  relazioni  tra  queste  due  estreme 
parti  d'Italia  avrebbero  potuto  conoscere  resistenza  di  piccole  ed 
umili  borgate  come  quelle  di  S.  Sisto  e  Vaccarizzo,  come  sapere 
che  gli  Spinelli  di  Fuscaldo  erano  feudatarii  di  Guardia? 


(1)  La  valle  di  Pragelato  è  a  dritta  del  Chiusone  mentre  quella  di  Pe- 
rosa  è  a  sinistra.  Gli  abitanti  professavano  il  culto  valdese,  maTeditto  del 
re  di  Francia,  del  7  maggio  4685,  ordinò  la  distruzione  dei  tempii  pro- 
testanti e  ne  vietò  il  culto  sotto  gravi  pene.  Da  quella  data  a  giungere  al 
1750,  quella  valle  divenne  mano  a  mano  esclusivamente  cattolica. 

(2)  Credo  abbia  voluto  dire  Rose,  paese  oltre  il  fiume  Crati,  circon- 
dario di  Cosenza. 

(3)  Certo  vuol  dire  Montelione.  Leu  per  leone  è  in  più  idiomi  romanzi. 
Il  catalano  ha  lièo,  il  portoghese  léo,  il  provenzale  ha  pure,  secondo  THon- 
norat,  leou  ;  il  dialetto  bresciano  liti,  ma  il  daco-rumano  ed  il  macedo- 
rumano  hanno  precisamente  leu.  £  questo  un  esempio  di  derivazione  dal 
caso  retto  a  vece  del  sesto  caso  obliquo  latino. 

(4)  Histoire  complète  des  Vaudois  du  Piémont,  Parigi,  1857,  T.  i,  pag.  127. 


166  BIVISTA  CONTEMPORANBA 

Tal  è  Torigine  di  questa  emigrazione  di  eresiarchi  dall'alta  Italia 
nella  bassa  :  peraltro  quasi  un  mezzo  secolo  prima  già  altri  s'erano 
di  Lombardia  recati  nel  Reame  di  Napoli,  e  forse  parecchi^  se  non 
tutti,  erano  Valdesi,  giacché  vi  andarono  nel  4268,  cioè  dopo  la  di- 
struzione degli  Albigesi.  Ciò  risulta  da  due  documenti  inediti  che 
io  debbo  alla  cortesia  ed  amicizia  dell'esimio  signor  Lattari,  Diret- 
tore del  grand'archivio  di  Napoli^  e  che  per  la  loro  importanza  fo 
pubblici  in  calce  a  questa  monografia.  Essi  gioveranno  a  chi  vorrà 
scrivere  la  storia  delle  persecuzioni  religiose  in  Italia  nel  secolo  XIII 
stata  trasandata  dal  Mac-Crie,  sebbene  siano  state  più  crudeli  che 
quelle  del  secolo  XVI  e  XVII. 

Quanto  alla  data  della  emigrazione  di  cui  riferii  i  particolari, 
i  due  citati  autori  discordano.  Secondo  il  Gilio  avrebbe  avuto  prin- 
cipio poco  dopo  il  1315,  giusta  il  Perrin  all'anno  1370.  Il  già  citato 
Muston,  senza  dirne  il  perchè,  inchina  a  stabilirla  al  1350  (1). 
Nessun  storico  napoletano  ne  fa  parola,  fuorché  il  Morelli  in  un 
suo  recente  opuscolo  (2)  nel  quale  dice  che  questi  Valdesi  ven- 
nero a  stabilirsi  colà  «  l'anno  1497  sotto  il  governo  di  Federigo  II 
di  Arragona  figlio  di  Ferdinando  I ,  epoca  in  cui  si  sparsero  in 
molte  parti».  Senza  precisare  l'anno,  prima  di  lui  accennò  aver 
avuto  luogo  quella  immigrazione  durante  il  regno  di  Federico  II, 
l'egregio  bibliotecario  il  cav.  Palermo  (3). 

In  questi  dispareri  più  induzioni  fanno  reputare  doversi  stare, 
se  non  al  1268,  alla  data  del  1316  indicata  dal  Gilio,  giacché  quella 
del  Morelli  pare  si  riferisca  ad  una  posteriore  emigrazione  accen- 
nata dal  Leger  (i),  altro  storico  valdese,  ch'ebbe  luogo  circa  il  1475. 
Il  mio  avviso  si  fonda  sulle  seguenti  considerazioni.  Nel  1316, 
eletto  papa  Giovanni  XXIJ,  erasi  recato  ad  abitare  in  Avignone.  Ora 
tornando  ad  aver  vicino  alle  Valli  il  Pontefice,  i  Valdesi  dovevano 
naturalmente  bramare  di  allontanarsene  per  isfuggire  alle  perse- 
cuzioni, che  su  di  loro  i  suoi  antecessori  avevano  sempre  attirate, 
seguendo  il  precetto  evangelico  :  Citm  autem  persequeniiir  vos  in 
civitaie  ista,  fugiie  in  aliam  (s.  Matteo  x,  23).  Perchè  nel  1316  il 
reame  di  Napoli  si  ricomponeva  sotto  lo  scettro  di  re  Roberto  (5), 


(1)  Op.  cit.  T.  I.  127. 

(2)  OptucoU  starici  e  biografici.  Napoli,  1859.  Sulla  venuta  dei  Valdesi 
nella  Calabria  ci  tra,  pag.  35.  Basterebbe  a  provare  l'anteriorità  deiremi- 
grazione  dei  Piemontesi  valdesi  nel  regno  di  Napoli,  il  fatto  della  morte 
colà  avvenuta  del  barba  Tommaso  Bastia  d'Àngrogna  nell'anno  1409. 
Gilio,  op.  cit.,  p.  203. 

(3)  Archivio  storico  italiano,  Firenze,  1847,  Tom.  XI,  p.  XXI. 

(4)  Op.  cit.,  P.  11,  p.  7. 

(5)  Annali  d'Italia,  Ad  ann.  1316. 


COLONIA   PIEMONTESE  IN  CALABRIA  16*? 

epperò  griminigranti  potevano  sperare  di  essere  lasciati  tranquilli 
nella  loro  óuova  sede;  e  perchè  pare  possa  esser  probabile  che  il 
gentiluomo  calabrese  venuto  in  Torino  ad  ingaggiare  valdesi  fosse 
uno  del  seguito  di  Ugone  del  Balzo,  siniscalco  in  Piemonte  di  re 
Roberto,  che  guerreggiava  onde  ricondurre  all'obbedienza  parec- 
chi Comuni  ribellatisi  (i). 

Arrogi  che  e  sotto  il  governo  delle  due  Giovanne  i  baroni  occu- 
parono molte  regalie onde  vieppiù  si  eslesero  i  disordini  del 

sistema  feudale...  i  baroni...  usurparono  i  titoli  a  lor  modo  »  (2). 
Queste  parole  tratte  dagli  Atti  del  Comune  cui  spetta  veramente  il 
nome  di  Guardia  lombarda  nel  Principato,  nella  causa  contro  il 
principe  di  Scilla,  chiariscono  il  perchè  i  Piemontesi  immigrati  colà 
lasciarono  trascorrere  oltre  ad  un  secolo  e  mezzo  senza  far  confer- 
mare dal  potere  regio  le  convenzioni  baronali.  Solo  Ferdinando  li 
d'Aragona,  che  regnò  dal  1495  e  4496  rivendicò  con  due  prammati- 
che (I,  De  Salar,  e  De  Baron.)  i  diritti  sovrani,  misconosciuti  dai 
suoi  vassalli  feudatarii,  come  rilevasi  dalla  celebrata  Storia  della 
congiura  dei  baroni  di  Porzio.  Ciò  spiega  perchè  solo  nel  1497  i 
Valdesi  chiesero  la  regia  sanzione  ai  patti  che  aveano  stretto  coi 
feudatarii  di  Montalto,  Volturara,  Fuscaldo,  ecc. 

Perchè  in  quell'epoca  (1316)  Cuneo,  Possano  e  Cherasco  erano 
tornati  nella  sudditanza  dell'Angioino  di  Napoli  per  cui  le  relazioni 
tra  i  due  paesi  erano  tornati  a  rivivere  (3);  perché  in  quei  giorni 
il  Piemonte,  il  marchesato  di  Saluzzo  e  quello  di  Monferrato  erano, 
carne  ben  osservarono  il  Muletti  (4)  ed  il  Grassi  (5),  corsi  dalla 
sfrenata  soldatesca  delle  Compagnie  di  ventura  agli  ordini  del  testé 
nominato  Ugone  del  Balzo  e  di  Riccardo  Gambatesa,  altro  siniscalco 
del  Re  Angioino.  Quindi  per  desiderio  di  vita  tranquilla,  quei  val- 
leggiani  furono  volonterosi  di  emigrare  in  luoghi  che  reputavano 
essere  allora  calmi  e  felici  sotto  un  Re  a  quei  di  cosi  stimalo 
da  indurre  Firenze  a  sottomettersi  alla  sua  signoria,  e  che  aveva 
riconquistate  appunto  le  terre  calabresi  che  Federigo  di  Sicilia 
aveva  occupate  (6).  ^ 

Tutte  queste  circostanze  inducono  a  preferire  la  data  che  assegna 

(1)  Goflfredo.  Storia  delle  Alpi  marittime  ab  an.  ne'  Monumenta  hist,patr. 
Torino  1839,  p.  708. 

(2)  Natale,   Prospettiva  ed  effetti  del  sistema  feudale  per  la  causa  della  po- 
polazione di  Guardia  Lombarda.  Napoli,  10  gennaio  1798,  p.  78. 

(3)  Storia  dei  Principi  di  Savoia  del  ramo  dAcaja,  Torino,  1832,  T.  i, 
pag.  80. 

(4)  Storia  di  Saluzzo.  Saluzzo,  1830,  T.  iv,  p.  47. 

(5)  Storia  della  città  d'Asti.  Asti  1817,  t,  2,  p.  8. 

(6)  Villani.  Storia  fiorentina  (odiz.  Classici).  Milano  1802,  t.  V,  p.  77. 


168  BinSTA  CONTBMPOBANBA 

il  Perrin,  e  ciò  almeno  infintanlochè  la  pubblicazione  di  docamenti 
che  si  possono  trovare  negli  archivii  di  Cosenza,  Lucerà  o  Napoli 
non  ci  diano  altre  meno  incerte  indicazioni. 

Ritornando  alla  emigrazione,  il  Gilio  narra  che  la  prima  volta 
impiegarono  venticinque  giorni  a  recarsi  dalle  Valli  a  Montalto 
nella  Calabria  citra  (i).  Noteremo  di  passo  che  i  paesi  colà  edifi- 
cati ricevettero  nomi  omofoni  a  quelli  delle  loro  valli  native,  cioè 
Celle  (Selle),  che  è  nella  valle  di  Germagnano;  Castelluccio  se- 
gnato nella  carta  annessa  all'opera  di  Morland,  in  vai  d'Angrogna  ; 
Paltò,  per  il  jetacismo  proprio  del  vernacolo  calabrese,  da  Faetto 
nella  Valle  di  S.  Martino,  e  La  Motta  da  La  Motte  ai  piedi  del 
Leberon  vicino  ad  Aigues  in  Provenza  ove  si  erano  recali  dal  Pie- 
monte ;  sistema  che,  seguirono,  altrove  più  tardi,  dopo  la  cacciata 
dalle  valli  pinerolesi,  avvenuta  nel  4686,  di  quei  poveri  religionarii 
eseguita  dalle  truppe  del  Duca  di  Savoia,  ma  a  ciò  costretto  dalla 
prepotenza  di  Luigi  XIV  ;  che  la  Francia  è  da  secoli  avvezza  ad 
imporre  i  suoi  voleri  all'Italia  ed  allora  i  principi  di  Piemonte  erano 
troppo  piccoli  per  potervi  negare  obbedienza.  Molti  di  quei  ban- 
diti essendosi  rivolti  al  duca  Eberardo  Ludovico  di  Wurtemberg, 
n'ebbero  da  lui,  con  diploma  del  4699  (2),  assegnamento  di  terre 
tra  Maulbronn  e  Knittlingen,  ed  ivi  edificarono  casali,  cui  posero 
nome  di  Villar,  Pinasca,  Lusema  e  Mantoulles  (3),  per  ricordarsi 
cosi  meglio  i  paesi  ch'erano  stati  costretti  di  abbandonare  perchè 
dissidenti  in  fatto  di  religione,  cioè  perchè  protestanti. 

Le  storie  nulla  ci  dicono  di  quei  coloni  a  giungere  fino  all'anno 
4560,  cioè  all'epoca  in  cui  se  ne  fece  strage  perchè  scoperti  pro- 
fessanti la  religione  riformata. 

A  prima  giunta  parrà  impossibile  ch'abbiano  potuto  per  oltre 
a  due  secoli  lasciar  ignorare  aver  dessi  un  culto  distinto  da  quello 
della  Chiesa  romana.  Le  seguenti  considerazioni  peraltro  ne  mo- 
streranno la  possibilità. 

io  I  Valdesi,  cosi  leggesi  nel  Bert  (i),  ne' primi  tempi  della 
loro  separata  esistenza  erano  bensì  distinti  dalla  cattolica  Chiesa, 
ma  non  veramente  separati  da  essa  in  guisa  da  costituire  un  vero 
scisma. 

2o  Benché  seguissero  le  pratiche  del  loro  culto  speciale,  essi 

{{)  Gilio,  op,  cit.,  p.  19. 

(2)  Trorasi  stampato  in  Von  Moser,  Actenmdssige  Geschichte  der  Vat- 
denser im  Wurtemberg,  Zurigo,  1791,  p.  476. 

(3)  Hahn.  Geschichte  der  Ifaldenser  und  verwandter  Sekten,  Stuttgard, 
1847,  p.  229. 

(4)  I  Valdeii.  Torino,  1849,  p.  36. 


COLONIA  PIBlfOMTBSB  IN  OALABSIA  189 

si  erano  adattati  di  recarsi  ad  udire  la  messa  (1)  e  facevano  battez- 
zare i  loro  figliuoli  dai  preti  cattolici  (2). 

3«  Non  si  raccoglievano  per  pregare  in  verun  luogo  partico- 
lare, seguendo  quel  precetto  del  Vangelo  (Matteo  v,  6.)  Tu  autem 
eum  araveris  intra  in  eubiculum  tuum  et,  clauso  ostia j  ora  Patrem 
tuum  in  abscandito. 

4o  Essendo  iconoclastici,  ciò  che  indusse  taluni  a  crederli 
seguaci  di  Claudio  vescovo  di  Torino  (825-839)  eresiarca,  non  ba- 
dando che  il  culto  delle  immagini  già  era  stato  rigettato  dal  Con- 
cilio di  Francoforte  del  794  (3),  mal  si  poteva  conoscerne  il  culto. 
S'arroge  inoltre  ch'essi  là  non  cantavano,  se  insieme  raccolti,  delle 
preci  (4);  quindi  riusciva  impossibile  di  conoscerne  la  religione. 

5o  Perchè  le  visite  che  ricevevano  dei  loro  barbi  o  pastori 
delle  Valli  pinerolesi  non  avevano  luogo  fuorché  ogni  due  anni. 
Questi  giungevano  due  insieme,  Tuno  vecchio  detto  il  reggitore^ 
l'altro  giovane  chiamato  il  coadiutore.  Ma  dessi  non  solo  non  ve- 
stivano come  non  vestono  nemmeno  oggidì  un  abito  particolare, 
ma  esercivano  un  mestiere,  per  esempio  di  flebotomo,  fabbro,  pa- 
nieraio ecc.,  0  di  mereiai  ambulanti,  e  ciò  pour  leur  servir  de 
couverlure è^  les  voyayes  loinlains  (5). 

G^  Perchè  il  loro  soggiorno  nelle  colonie  non  durava  se  non 
alquanti  giorni,  e  tant'era  la  loro  cura  nel  celarsi  che,  per  farsi 
conoscere  dai  loro  correligionarii,  avevano  un  parlicolar  modo  di 
bussare  alla  porta. 

Arrivati  gli  emigranti  nel  4316  in  quelle  lontane  regioni  avranno 
indubitatamente  saputo  come  già  45  anni  prima  fossero  stati  i  dis- 
senzienti della  Chiesa  di  Roma  perseguili  e  martoriati  dal  governo. 
Ciò  gl'indusse  necessariamente  a  porre  ogni  studio  nel  tener  celato 
il  culto  che  professavano  per  non  correre  gravi  pericoli  di  strazii  e 
di  morte. 

(1)  Mac-Crie,  Histoire  des  progrès  et  de  Vextinction  de  la  riforme  en  Italie 
au  XVI  siede,  traduìt  de  Tanglais.  Parigi,  1831,  p.  280. 

(2)  Perrin,  op.  cit.,  p.  19. 

(3)  Klee  Mantbel  de  rhìstoire  des  dogmes  chrétiens,  traduz.  dal  tedesco  di 
Mabire.  Parigi,  1848,  p,  467,  L'anteriorità  deTaldesi  a  Valdo,  fu  dimostrata 
ad  evidenza  da  Allix  :  Some  remarks  upon  the  ecclesiastical  history  of  the 
ancient  Churches  of  Piemont.  Oxford ,  1821 ,  Gap.  xiz,  e  da  Monastier, 
Histoire  de  VÉglise  vaudoise  depuis  son  origine  et  des  Vaudois  du  Piémont, 
Tolosa,  1847,  Gap.  x.  Monsignor  Charvaz,  già  vescoTO  di  Pinerolo,  tentò 
provare  l'opposto,  ma  non  vi  riusci.  Peraltro  questo  libro  di  polemica  cat- 
tolica è  un  modello  di  temperata  disamina  e  di  spirito  cristiano.  Recherà 
ches  historiques  sur  Vorigine  des  Vaudois,  Parigi  1836. 

(4)  Gilio,  op.  cit.,  p.  16.  Muston,  op.  cit.,  p.  6  e  7. 

(5)  Gilio,  op.  cit.,  p.  16.  Hurter,  Histoire  dn  Pape  Innocent  III,  trad.  de 
Tallemand.  Parigi  1855.  T.  Ili,  p.  32. 


170  BIYISTA  CONTBMPOBANBA 

Se  avessero  perduralo  a  condursi  con  siffatta  segretezza  avreb- 
bero scampato  dalle  ire  del  clero  cattolico. 

Venne  la  riforma  di  Lutero.  Pubblicamente  abbracciato  nella 
Germania,  il  protestantismo  si  diffuse  in  altre  parti  d'Europa^  anzi 
penetrò  nello  stesso  regno  di  Napoli ,  massimamenle  pei  soldati 
tedeschi  del  re  cattolico  di  Spagna,  dopo  il  sacco  dato  a  Roma  nel 
4527  (1).  Ivi  il  Valdesio,  Flaminio,  Martire,  Ochino,  Curione,  nel 
1530-50,  osavano  professare  le  loro  dottrine  antiromane.  I  Valdesi 
delle  Calabrie  credettero  esser  giunto  il  momento  di  non  più  celare 
il  culto  per  essi  professato.  11  barba  Egidio  Gillio  che  poco  dopò 
tal  tempo  era  stato  a  visitarli,  li  consigliò  di  continuare  a  praticare 
il  loro  culto  con  circospezione;  ma  quando  egli  fu  partito, 
gl'impazienti  fecero  rigettare  questo  suo  prudente  avviso,  ed  i 
religionarii ,  ma  specialmente  quelli  di  Guardia  (2),  mandarono 
tosto  certo  Marco  Usegli ,  calabro-valdese ,  a  Ginevra  (giacché  i 
Valdesi  avevano  abbracciate  le  dottrine  di  Calvino)  per  avere  pa- 
stori; ed  in  questa  Roma  del  calvinismo  si  diressero  nel  1630  gli 
stessi  Valdesi  del  Piemonte  per  ottenere  pastori  onde  surrogare  i 
quattordici  spenti  dalla  terribil  peste  che  in  quell'anno  desolò  queste 
contrade.  Di  là  non  si  mandarono  miga  ai  Calvinisti  nel  reame  di 
Napoli  pastori  ginevrini,  sibbene,  perchè  li  sapevano  piemontesi, 
vi  mandarono  due  pastori  piemontesi ,  cioè  certo  Luigi  Pasquale 
di  Cuneo,  già  soldato  nelle  truppe  ducali  di  Savoia  e  che  aveva  ab- 
bracciato la  riforma  di  Calvino,  e  Giacomo  Bovetto  (3). 

Intanto  i  Valdesi  del  Principato  e  della  Calabria,  vieppiù  animati 
dai  progressi  che  udivano  farsi  dal  protestantismo  nel  reame  e  fuori, 
osarono  aprir  tempii  pel  loro  culto,  e  giunto  Paquale  a  San  Sisto 
non  il  Bovetto  (che,  s'ignora  il  motivo,  si  recò  a  vece  a  Messina,  ove 

(1)  Boehmer  nelle  Note  a,  Le  centodieci  divine  considerazioni  di  Giovanni 
Valdesso.  Halle,  1862,  p.  538. 

(2)  Compendio  dell'istoria  del  regno  di  Napoli,  per  Collenuccio,  Roseo  e 
Costo.  Napoli,  1771,  T.  Ili,  p.  209.  Costo  Ivi  dice  che  si  mandarono 
quattro  dei  capi  calabro-valdesi  a  Ginevra,  Gilio  a  vece  nomina  solo 
rUsegli. 

(3)  Mori  and  {History  of  the  evangelical  Churches  of  the  Volley  s  ofPied' 
moni,  Londra  1658),  seguito  in  ciò  da  Leger  (op.  cit.,  p.  204),  dice  che  si 
mandò  col  Pascal  Stefano  Negrino  a  Montalto  e  S.  Sisto,  ma  Gilio  dice 
<5he  il  Negrino  di  Bobi  era  stato  mandato  prima  a  surrogare  il  suo  avolo 
Egidio,  e  nomina  a  vece  il  Bovetto.  Meille  in  un  suo  articolo  inserito  nella 
Revue  Suisse,  T.  ii,  p.  691,  Losanna  1839,  sull'autorità  di  uno  scrittore  del 
Cantone  de'Grigioni,  dice  che  Pasquale  parti  con  un  altro  pastore  e  quattro 
maestri  di  scuola.  Però  Summonte,  Dell'istoria  della  città  e  regno  di  Napoli, 
ivi,  1675,  p,  339;  Porrino,  Teatro  eroico-politico  de'Goì^eimi  de' Vice-Re  del 
Regno  di  Napoli,  ivi,  1770,  T.  i,  p.  169;  e  Pacca  nel  Compendio  delVistoria 
del  Regno  di  Napoli,  ivi,  1771,  a  p.  209,  dicono  soltanto  due  pastori. 


COLONIA  PIEMONTBSB  IN  CALABRIA  171 

fa  posto  a  morte  come  eretico),  si  diede  a  predicare  le  dottrine  di 
Calvino,  non  con  la  pacatezza  di  prudente  pastore,  ma  colla  foga 
di  un  missionario  neoflto  (1).  Da  San  Sisto  andò  a  Guardia  ed  ivi 
del  pari  si  pose  a  fare  pubblica  propaganda  di  calvinismo. 

Giunti  a  quest'epoca  non  fanno  più  difetto  gli  storici  napoletani 
e  da  essi  come  del  luogo,  e  perchè  cattolici,  trarremo  il  racconto, 
e  non  da  quelli  delle  Valli  piemontesi,  che  per  essere  protestanti  a 
molti  sarebbero  sospetti,  sebbene  ingiustamente. 

Inteso  delle  predicazioni  di  Pasquale  in  Guardia  certo  Gian  An- 
tonio Anania  Cappellano,  confessore  e  maestro  delle  dame,  in  casa 
del  feudatario  cav.  Salvadore  Spinelli,  march.  Fuscaldo,  egli  si  fece 
sollecito  (come  riferisce  il  padre  Fiore  calabrese  (2)  ed  è  quasi  co- 
piato alla  lettera  da  Giannone)  (3)  a  scriverne  al  cardinale  Ghislieri, 
.  detto  l'Alessandrino,  perchè  di  Bosco  presso  ad  Alessandria  in  Pie- 
monte, che  fu  poscia  Papa  col  nome  di  Pio  V.,  ed  era  in  allora 
niente  meno  che  inquisitore  generale.  Egli  n'ebbe  per  risposta  Tin- 
carico  di  lasciare  ogni  altro  impiego,  per  tutto  dedicarsi  ad  estirpare 
l'eresie,  unendosi  per  ciò  con  gesuiti.  Lieto  della  missione,  D.  A- 
nania  ed  i  gesuiti  si  diedero  a  predicare  con  tutto  lo  zelo,  ma  nulla 
conseguendo  colle  polemiche  dommatiche,  minacciarono  dal  pul- 
pito l'intervento  repressivo  del  braccio  secolare,  il  perchè  que'Val- 
desi  cominciarono  a  levarsi  a  tumulto  ;  citati  nauti  i  giudici  laicali 
ed  ecclesiastici,  non  comparvero,  e  per  sottrarsi  alle  pene  incorse 
dalla  contumacia,  alcuni  gittaronsi  alla  campagna  (4). 

il  marchese  Spinelli  allora  ricorse  al  Vice-re  Duca  di  Alcalà 
spagnuolo,  il  quale  non  volendo,  nel  fervore  di  distruggere  l'eresia 
e  gli  eresiarchi,  lasciarsi  superare  dal  suo  concittadino  il  Duca 
d'Alba,  che  governava  le  Fiandre  in  nome  dello  stesso  re  Filippo  II 
di  Spagna,  ch'aveva  nel  1558  ordinato  fosse  dannato  a  morte 
chiunque  vendesse  o  comprasse  libri  proibiti  (5),  spedi  immanti- 
nenti  sul  luogo  Annibale  Moles,  giudice  di  Vicaria  per  costringerli 
a  rinnegare  l'eresia.  I  Valdesi,  sapendosi  innocenti  di  ogni  colpa 
contro  la  fede  dovuta  al  sovrano,  e  contro  le  leggi  civili,  opposero, 
nella  coscienza  del  loro  diritto,  resistenza  alla  pubblica  forza.  Da 
questa  soprafatti  quelli  del  Principato,  ripararono  per  le  dense  selve 
dell'Apennino,  ed  alcuni  si  gittarono  in  Guardia  che,  per  essere 
cinta  di  mura,  posta  sur  un'altezza  e  circondata  da  due  corsi  d'acqua 

(1)  Porrino,  op.  cit.,  p.  169. 

(2)  Calabria  illuslrata.  Napoli,  1691,  p.  83.     ' 

(3)  Storia  civile  del  Regno  di  Napoli,  Lib.  xxxii,  Gap.  v,  §  11. 

(4)  Pacca,  note  al  Compend.  delVist.  di  Napoli  già  citata,  T.  in,  p.  208. 

(5)  Prescolt,  Histoire  du  Hègne  de  Philippe  II,  Iraduit  de  l'auglais  par 
Renson  et  Ithier.  Bruxelles.  T.  ii,  p.  54. 


172  BIYISTA  CONTEMPOBÀNRÀ 

pareva  potesse  offrir  loro  agevolmente  modo  dì  difesa,  e  porli  cosi 
in  tempo  di  ricorrere  al  trono  regale,  onde  ottenere  facoltà  di  poter 
seguire  il  proprio  culto,  che  non  era  già  la  nuova  eresia  di  Lutero, 
ma  la  fede  evangelica  a  quella  di  più  secoli  anteriore. 

Il  marchese  Spinelli,  scorgendo  raccogliersi  in  un  comune  dei 
suoi  feudi  i  religionarii  discacciati  d'altrove  dalle  truppe  regie,  non 
volle  aspettar  queste  per  isnidarli,  onde  cosi  farsi  un  titolo  di  be- 
nemerenza presso  il  fanatico  e  sanguinario  Vice-re,  ma  prevedendo 
che  4^>i  pochi  uomini  d'arme  di  cui  poteva  disporre,  non  avrebbe 
potuto  impadronirsi  di  Guardia,  s'appigliò  ad  un  cosi  detto  strata- 
gemma, ma  meglio  direbbesi  gesuitico  ed  infame  tranello.  Eccone 
il  racconto  quale  dato  da  Tommaso  Costo,  autore  che  non  può  es- 
sere sospetto  ai  lettori  cattolici  i  più  intolleranti. 

e  Lo  tinelli considerando  quella  terra  (Guardia)  essere  in  < 

luogo  alto  e  fortissimo,  onde  avrebbe  avuto  troppo  che  fare  a  vin- 
cerla colla  forza,  pensò  di  usare  in  vece  di  essa  un  inganno^  e  fece 
in  cotal  modo.  Prese  cinquanta  uomini  di  Fiscaldo,  suoi  vassalli, 
dei  quali  si  fidava  assai,  e  sotto  nome  di  delinquenti,  li  mandò  alla 
Guardia,  come  in  prigionia  sicura^  e  mandò  con  essi  quasi  guardiani 
cinquanta  altri  giovani  tutti  armati  segretamente  di  archibugietti  a 
ruota.  Costoro  entrati  nella  Guardia  senza  verun  contrasto^  se  ne 
impadronirono,  e  delle  catene  de'  lor  compagni  incatenarono  i 
principali  della  terra  ;  il  che  fatto,  con  un  tiro  d'archibugione  av- 
visarono Io  Spinello,  che  ciò  attendeva  in  luogo  vicino  con  trecento 
altri  armati.  Andatovi  adunque  con  essi,  prese  prigioni  tutti  i  ri- 
manenti terrazzani,  che  dati  in  balia  della  corte,  furono  tutti  chi 
scannati,  qual  segato  per  mezzo  e  qual'altro  buttato  giù  da  un  al- 
tissimo balzo  fatti  crudelmente,  ma  meritevolmente  morire.  Stra- 
nissima cosa  a  udire,  fu  l'ostinazione  di  coloro  che  mentre  il  padre 
vedeva  dar  morte  al  figliuolo^  ed  il  figliuolo  al  padre,  non  pure  non 
mostravano  dolore,  ma  lietamente  dicevano  che  sarebbero  angeK 
di  Dio,  tanto  il  diavolo  a  cui  si  erano  dati  in  preda  gli  aveva 
acceccati»  (1). 

Questa  narrazione  che  termina  con  vilmente  improperare  ai 
martiri  di  una  religione  che  quei  Valdesi  avevano  per  vera,  ci  di- 
pinge tali  crudeltà  da  far  inorridire,  eppure  vi  hanno  di  molti  fa- 
resti cattotiei,  eome^  a  mo'  d'esempio,  gli  scrittori  della  Civiltà 
Cattolica^  dell' Armonia^  dello  Stendardo  in  Italiay  e  del  Monde  in 
Francia,  che  rimpiangono  quei  tempi,  e  non  solo  fanno  voti,  ma 
cospirano  onde  ricopiarne  le  sevizie  per  ricondurre  il  cattolicismo 
all'aurea  purezza  di  cui  godeva  quando  si  svenavano  gli  Albigesi  a 

(1)  Compendio  citato^  nella  nota  (41),  p.  210. 


COLONU  PIBtfONTBSB  IN  GALABBU  173 

Beziers,  si  rivocava  Tedilto  di  Nantes  e  8i  accendevano  i  roghi  in 
lepagna  per  ispegnere  nelle  fiamme  maomettani  ed  ebrei. 

A  maggior  edificazione  di  questa  mala  genia  di  fanatici  della 
intolleranza  cattolica,  vogliamo  ancora  riprodurre  tre  documenti 
sincroni  della  strage  di  que'  Valdesi.  Essi  furono  in  parte  già  pub- 
blicati dal  Pianta,  da  cui  li  copiarono  Mac-Crie  (1)  e  Monastier  (2). 
Essendo  tutti  e  tre  scrittori  protestanti,  si  poterono  asserire  apocrifi. 
L'egregio  bibliotecario  cav.  Palermo  li  diede  nuovamente  in  luce 
copiati  fedelmente  dagli  originali,  esistenti  nell'Archivio  mediceo 
carteggio  di  Napoli  (3),  epperò  non  è  più  dubbia  l'autenticità.  Eccoli 
per  intiero,  stante  la  somma  importanza  di  queste  tre  lettere,  ad  og- 
getto di  mostrare  l'origine  e  lo  sterminio  delle  colonie  piemontesi  in 
Calabria,  una  eccettuata.  -^  Questi  documenti  datici  da  un  biblio- 
tecario egregio,  cattolico,  e  stati  editi  in  Toscana  anteriormente  al 
i848,  ci  disposano  dal  riprodurre  la  lettera  in  data  del  37  giugno 
1561,  del  padre  inquisitore  Luigi  Dappiano  al  cardinale  Ghislieri 
che  dà  pure  parecchi  particolari;  ma  edita  dal  Gillo  (4),  scrittore 
protestante,  dai  gesuitanti  non  vi  si  presterebbe  fede. 

Lettera  i. 

S'intende  come  il  signor  Ascanio  per  ordine  del  signor  Viceré 
era  sforzato  a  partire  in  poste  alli  29  del  passato  per  Calabria,  per 
conto  di  quelle  due  terre  de'  Luterani,  che  si  erano  date  fuori  alla 
campagna  ;  cioè  San  Sisto  e  Guardia.  Sua  Signoria  a  Cosenza  al 
primo  del  presente  ritrovò  il  Signor  Marchese  di  Buccianico  suo 
cognato,  che  era  all'ordine  con  più  600  fanti  e  cento  cavalli,  per 
ritornare  a  uscir  di  nuovo  in  campagna,  e  quella  fare  scorrere,  e 
pigliare  queste  maledette  genti:  e  cosi  parti  alli  5  alla  volta  ddla 
Guardia,  e  giunto  quivi,  fecero  commissarii  et  inviò  auditori  con 
gente  per  le  terre  circonvicine  a  prender  questi  Luterani.  Dalli  quali 
è  stata  usata  tal  diligenzia,  che  una  parte  presero  alla  campagna; 
e  molti  altri,  tra  uomini  e  donne,  che  si  sono  venuti  a  presentare, 
passano  il  numero  di  1400;  et  oggi,  che  è  il  di  del  Corpo  di  Cristo, 
ha  fatte  quelle  giuntar  tutte  insieme,  e  le  ha  fatte  coadur  prigioni 
qui  in  Mont  Alto,  dove  al  presente  si  ritrovano:  e  dimandar  mise- 
ricordia, dicendo  che  sono  stati  ingannati  dal  diavolo  ;  e  dicono 

(1)  Op.  cit.  a  noia  (3). 

(2)  Hisioire  de  TEglise  vatidoise,  deputs  son  origine^  et  dei  Vaudois  duPié' 
mont.  Tolosa,  1847,  T. 

(3)  Archivio  storico  italiano  (del  Vie usseux),  Firenze ,  1849,  T.  ix,  p.  193, 

(4)  Op.  cit.,  p.  182. 


174  RIVISTA   CONTBMPOKÀNEA 

molte  allre  parole  degne  di  compassione*  Con  tutto  ciò  il  signor 
Marchese  e  il  signor  Ascanio  hanno  questa  mattina,  avanti  che  par- 
tissero dalla  Guardia,  fatto  dar  fuoco  a  tutte  le  case;  e  avanti  ave- 
vano fatto  smantellare  quella,  e  tagliare  le  vigne:  ora  resta  a  far 
giustizia,  la  quale,  per  quanto  hanno  appuntato  questi  signori  con 
gli  auditori,  e  fra  Valerio  qua  inquisitore,  sarà  tremenda;  atteso 
vogliono  far  condur  di  questi  uomini,  et  anco  delle  donne,  fino  al 
principio  di  Calabria,  e  fino  alli  confini,  e  di  passo  in  passo  farli 
impiccare. 

Certo,  che  se  Dio  per  sua  misericordia  non  muove  Sua  Santità 
a  compassione,  il  signor  Marchese  et  il  signor  Ascanio  ne  faranno 
di  loro  gran  giustìzia,  se  non  verrà  ad  ambi  due  comandato  altro 
da  chi  può  lur  comandare. 

La  prima  volta  che  usci  il  signor  Marchese,  fece  abbruciar  San 
Sisto,  e  prese  certi  nomini  della  Guardia  del  suddetto  luogo,  che 
si  ritrovarono  alla  morte  di  Castagneta^  e  quelli  fece  impiccar,  e 
buttar  per  le  torri  al  numero  di  60:  sicché  ho  speranza  che  avanti 
che  passino  otto  giorni^  si  sarà  dato  ordine  e  fine  a  questo  negozio, 
e  se  ne  verranno  a  Napoli. 

Di  Monf  Alto  alli  5  di  giugno  4561. 

Lettera  2. 

Fino  a  quest'ora  s'è  scritto  quanto  giornalmente  di  qua  è  pas- 
sato circa  a  questi  eretici.  Ora  occorre  dir  come  oggi  a  buon'  ora 
si  è  ricominciato  a  far  l'orrenda  iustizia  di  questi  Luterani,  che  solo 
in  pensarvi  è  spaventevole  :  e  cosi  sono  questi  tali  come  una  morte 
di  castrati;  li  quali  erano  tutti  serrati  in  una  casa,  e  veniva  il  boia 
e  lì  pigliava  a  uno  a  uno,  e  gli  legava  una  benda  avanti  agli  occhi, 
e  poi  lo  menava  in  un  laogo  spazioso  poco  distante  da  quella  casa, 
e  Io  faceva  inginocchiare,  è  con  un  coltello  gli  tagliava  la  gola^  e 
Io  lasciava  cosi:  dipoi  pigliava  quella  benda  cosi  insanguinata,  e  col 
coltello  sanguinato  ritornava  pigliar  l'altro,  e  faceva  il  simile.  Ha 
seguito  quest'ordine  fino  al  numero  di  88;  il  quale  spettacolo  quanto 
sia  stato  compassionevole  lo  lascio  pensare  e  considerare  a  voi.  I 
vecchi  vanno  a  morire  allegri,  e  gli  giovani  vanno  più  impauriti. 
Si  è  dato  l'ordine,  e  già  sono  qua  le  carra,  e  tutti  si  squarteranno, 
e  si  metteranno  di  mano  in  mano  per  tutta  la  strada  che  fa  il  pro- 
caccio fino  ai  confini  della  Calabria  ;  se  il  Papa  ed  il  signor  Viceré 
non  comanderà  al  signor  Marchese  che  levi  mano.  Tuttavia  fa  dar 
della  corda  agli  altri,  e  fa  un  numero  per  poter  poi  far  del  resto. 
Si  è  dato  ordine  far  venir  oggi  cento  donne  delle  più  vecchie,  e 


COLONIA   PIEMONTESE  IN   CALABRIA  175 

quelle  far  tormentare,  e  poi  farle  giustiziar  ancor  loro,  per  poter 
far  la  mistura  perfetta.  Ve  ne  sono  sette  che  non  vogliono  vedere 
il  Crocifisso,  né  si  vogliono  confessare,  i  quali  si  abbrucieranno  vivi. 
Di  Moni'  Allo,  alli  41  di  giugno  1564. 

Lettera  3. 

Ora  essendo  qui  in  Mont'  Alto  alla  persecuzione  di  questi  eretici 
della  Guardia  Fiscalda,  e  Casal  di  San  Sisto,  contro  gli  quali  in  un- 
dici giorni  si  è  fatta  esecuzione  di  2000  anime;  e  ne  sono  prigioni 
1600  condennatì  ;  et  è  seguita  la  giustizia  di  cento  e  più  ammazzati 
in  campagna,  trovali  con  Tarme  circa  quaranta,  e  raltri  tutti  in 
disperazione  a  quattro  e  a  cinque:  brugiate  Tuna  e  l'altra  terra,  e 
fatte  tagliar  molte  possessioni. 

Questi  eretici  portano  origine  dalle  montagne  d'Agrogna  nel 
principato  di  Savoia,  e  qui  si  chiamano  gli  Oltramontani  :  e'regnava 
fra  questi  il  crescitey  come  hanno  confessato  molli.  Et  in  questo 
Regno  ve  ne  restano  quattro  altri  luoghi  in  diverse  provincie:  però 
non  si  sa  che  vivin  male.  Sono  genti  semplici  et  ignoranti  et  uomini 
di  fuori,  boari  e  zappatori  ;  et  al  morir  si  sono  ridotti  assai  bene 
alla  religione,  et  alla  obbedienza  della  Chiesa  Romana. 
Di  Mont'  Alto,  alli  12  di  giugno  1562. 

Alcuni  storici  Valdesi  e  Napoletani  come  Collenuccio,  Summonte, 
Perrin,  lones,  ecc.,  hanno  asserito  che  tutti  quei  coloni  piemontesi 
furono  allora  esterminati  dalla  soldatesca  del  Viceré  e  dei  Vassalli 
di  Calabria  e  Principato.  Dessi  s'ingannarono.  Le  colonie  olirà  l'Ap- 
pennino di  Monlalto  (1),  Vollurara  e  S.  Sisto,  cioè  quelle  nel  Prin- 
cipato furono  spente  di  fatto  (sebbene  dagli  storici  si  taccia  se 
siano  0  no  stati  dai  feudatarii  signori  dei  luoghi  sagrificati  e 
martoriati  come  dal  Marchese  Spinelli),  ma  quello  di  Guardia  sop- 
pravisse.  Didatti  si  fece  grazia  della  vita,  al  dire  di  Costo  (2),  a 
quelli  di  Castelluccio,  Faito,  Celle  e  di  Monteleene,  grazie  al  pie- 


(1)  Egli  è  certamente  a  quest*eccidio  che  Montalto  come  Rose  dovet- 
tero la  soverchia  diminuzione  dei  loro  abitanti,  attribuita  al  feudalismo 
da  Zuccagni  Orlandini.  Corografia  fisica-storica-slatistica  delVIialia,  Fi- 
renze, 1845,  T.  XI,  Supplemento^  p.  290  e  293.  —  Notisi  che,  a  ripopolare 
i  borghi  di  Montalto,  Vaccarizzo  e  Volturara,  si  condussero  coloni  Alba- 
nesi nella  prima  città  siao  dal  1580,  degli  altri  non  trovo  la  data:  nel  1709 
furono  sollecitati  a  passare  dal  rito  greco  al  latino.  Rodotà,  op.  cit.,  T.  3, 
pag.  72,  101,  102.    . 

(2)  Compendio  citato,  p.  210, 


176  BIVI8TÀ  OONTBHPOBANRA 

toso  intervento  del  Vescovo  di  Bovino,  perchè  —  non  vi  è  dubbio  — 
abbracciarono  la  fede  Cattolica-romana  loro  insegnata  col  capestro 
e  la  mannaia,  modo  di  propagandismo  che  non  fu  certamente  quello 
degli  Apostoli,  sibbene  quello  dei  Papi  diventati  Principi  temporali. 
Nel  1560  secondo  il  citato  Mac-Crie  (1),  quei  coloni  piemontesi  a- 
scendevano  a  quattro  mila,  da  quanto  si  può  dedurre  dalle  narra* 
zioni  della  persecuzione  da  loro  sofferta,  una  metà  di  essi  furono 
posti  a  morte  ;  non  è  detto  quanti  giunsero  a  tornare  nelle  Valli 
Pinerolesi^  ma  considerando  l'operosità  con  cui  i  protestanti  di 
tutti  i  paesi  mutuamente  si  soccorrevano  e  si  aiutavano  nelle 
loro  sventure,  sono  proclive  a  credere  che  alcuni  abbiano  potuto 
pervenire  a  mettersi  in  salvo  nelle  Valli  (2)  ed  eziandio  nella 
Svizzera ,  altri  saranno  miseramente  periti  errando  pei  boschi 
delle  inospiti  balze  degli  Appennini,  ove  erano  nascosti  per  scam- 
pare dal  ferro  della  soldatesca.  I  superstiti,  perchè  non  ebbero  il 
coraggio  di  preferire  il  Cielo  alla  vita,  come  consiglia  il  Vangelo 
(S.  Matteo  cap.  X.  v.  39),  ottennero  il  perdono,  abiurando  la  fede 
avita,  a  condizione  però  di  non  più  ammogliarsi  fra  loro  (3).  Seb-r 
bene  k)  tacciano  gli  storici  è  certo  che  furono  tutti,  od  almeno  nella 
loro  grande  maggioranza  confinati  in  Guardia,  giacché  leggesi  nel 
Gilio  (4)  die  duecento  liberati  a  Montalto,  nel  Principato,  feudo  di 
un  altro  Barone,  furono  mandati  in  luoghi  vicini  a  Guardia,  come  a 
Getraro  e  Fuscaldo.  E  veramente  Guardia  era  rimasta  affatto  disa- 
bitata, e  in  una  località  si  può  dire  segregata,  alle  spalle  ha  monti 
scoscesi,  ove  non  vi  sono  paesi,  il  comune  era  murato  cosi  da  po- 
tersene chiudere  le  porte,  e  da  Fuscaldo,  come  da  Intronata  è  facile 
respingere  chi  si  attentasse  uscirne.  Di  più  il  Viceré,  non  che  Tin- 
quisizione  avevano  acquistato  prova  come  il  marchese  Spinelli 
non  si  lasciasse  muovere  da  sentimenti  di  misericordia  vèrso 
gli  eretici,  anzi  provasse  una  voluttà  nel  farli  scannare,  forse  egli 
era  ad  un  tempo  terziario  domenicano  ed  afiQgliato  ai  gesuiti.  Dal- 
l'altro lato  ci  pare  che  questi  neofiti  per  violenza  dovessero  bramare 
di  trovarsi  tutti  raccolti  insieme,  e  per  sfuggire  agli  schemi  dei 
cattolici,  per  esonerarsi  dallo  spionaggio  del  clero ,  e  sia  infine 
perchè  essendo  Guardia  poco  discosto  dal  mare,  mentre  Montalto 
e  le  altre  terre  sovranominate  ne  sono  assai  discoste,  ove  mai  si 
fosse  ripigliato  a  perseguitarli  avevano  una  via  di  scampo  pel  mare 

(1)  Hiftoire  du  progrès ,  etc.,  p.  281. 

(3)  Toutesfois  Dieu  fit  la  grice  à  plusieur^  hommes  et  femmes,  habillès 
la  plus  part  en  hommes,  d'arrÌTer  à  sauveté  en  la  vallèe  de  Luserne ,  par- 
tie  au  temps  mdme  de  la  persécution.  Leger,  op.  cit.,  Parte  ii,  p.  19. 

(3)  Fiore,  op.  cit.  83  e  Giannone,  op.  cit.  e  cap.  cit. 

(4)  Op.  cit.,  p.  182, 


COLONIA  PIBMONTSSB  IN   CALABRIA  177 

onde  torsi  immedialamenle  dalla  soggezione  del  re  di  Spagna.  Co- 
munque poi  la  cosa  sii  avvenuta  sta  in  fatto  che  di  tutti  i  menzionati 
paesi,  solo  le  donne  di  Guardia  hanno  conservato  fino  ad  oggi  una 
foggia  particolare  di  vestire,  hanno  una  breve  sottana  di  panno  rosso 
colla  vita  dello  stesso  colore,  ornato  di  gala  parimenti  rossa ,  con 
maniche  di  velluto  o  di  panno  nero.  In  capo  hanno  cappelli  intrec- 
ciati con  nastro  rosso  o  nero,  ed  in  questo  caso  come  segno  di  lutto: 
costumanze  tutte  che  le  vecchie  persone  di  Val  d'Angrogna  ricor- 
dano erano  seguite  nella  loro  fanciullezza,  ma  ora  ite  in  disuso  (i). 
Sta  in  fatti  che  solo  quei  di  Guardia  nel  circondario  di  Paola  bauio 
una  favella  dissomigliante  dai  vernacoli  calabresi. 

Questa  circostanza  diede  luogo  a  varie  opinioni  sulla  loro  ori- 
gine ne'  secoli  scorsi.  Il  Barrio  li  dice  Oltramontani,  e  soggiunge 
tu  bilingues  sunt  ;  nam  suam  et  latina  lingua  uluntur  (2).  Giustiniani 
il  geografo  li  vuole  Albanesi  !  (S)  Costo  assevera  che  traggono  orì- 
gine dai  Ginevrini  (4).  Summonte  dice  che  alcuni  derìvarono  da 
Ginevra  e  tace  degli  altri  (5).  Marafìotti  sta  contento  allo  scrivere: 
€  Guardia  abitata  da  gente  oltramontana,  stata  ingannata  da  alcuni 
Lombardi  venuti  d'oltre  Po  ;  ragionano  tra  di  loro  nella  propria 
lingua,  ma  con  noi  altri  ragionano  in  italiano  (6).  Giannone  poi 
dice  che  Guardia  e  vennero  ad  abitarla  da  oltre  i  monti,  e  parte  di 
Lombardia  Valdesi  ed  Albigesi  (7),  per  quantunque  nulla  induca  a 
credere  che  fra  quegli  emigranti  si  noverassero  Albigesi,  ch'erano 
già  stati  pressoché  tutti  esterminati  dopo  la  distruzione  di  Beziers 
nel  1218,  cioè  18  anni  dopo  la  bolla  pontificia  che  promosse  la 
Crociata  contro  questi  eretici  (8). 

Da  quanto  abbiamo  narrato,  è  facile  di  scorgere  come  inesatte 
siano  queste  derivazioni;  sqIo  potrebbe  sotto  un  aspetto  giustificarsi 
l'appellativo  di  Oltramontani,  perchè  non  significò  solo  l'abitazione 
oltre  monti,  ma  eziandio  eresiarca,  e  qui  potrebbe  esser  presa  in 
questo  senso,  giacché  lo  storico  d'Aubigny  dice  che  gli  eretici  rice- 
vevano i  varii  nomi  di  Valdesi,  Albigesi,  Ultramontani,  Gioseffini, 
Lollardi,  Fraticelli,  Piccardi,  Lionesi^  Gazari,  Patareni  ed  Aposto- 

(1)  Morelli,  op.  cit.,  p.  34,  nota  i. 

(2)  De  antiquitaU  et  situ  Calahrtce,  ...  cum  notis  Th,  Aceti.  Rem*,  1737, 
pag.  80. 

(3)  Op.  cit.,  ad  voc. 

(4)  Op.  cit.,  339. 

(5)  Op.  cit.,  209. 

(6)  Croniche  et  antichità  di  Calabria,  Padova,  1601,  p.  273. 

(7)  Op.  cit.  Lib.  xxxni,  Cap.  v,  §  ii. 

(8)  Morone.  Dizionario  di  emdizione  storico  ecclesiasHca.  Yenesia,  1850, 
T.  i.  pag.  203. 

JHvista  C.  —  12 


178  RIVISTA   CONTBMPORANBA 

liei  (1).  Solo  il  Carnovale,  storico  sincrono  a  quell'eccidio,  ne  dà 
Tesalla  provenienza^  dicendoli  Piemontesi  (2).  Peraltro^  che  si  sa- 
pessero essere  tali,  è  fatto  evidente  dal  documento  contemporaneo 
pubblicato  da  Pianta^  non  integralmente,  Mac-Crie,  Monastier,  ed 
integralmente  dal  cav.  Palermo,  e  qui  poco  dianzi  riferito,  giacché 
vi  si  legge  :  e  questi  Eretici  portano  origine  dalle  montagne  di  An- 
grogna  nel  principato  di  Savoia,  e  qui  si  chiamano  oltramontani». 
Che  se  non  è  Angrogna  in  Savoia,  si  nel  Principato  di  Piemonte, 
vuoisi  notare  che  nel  secolo  XVI  quel  Principato  faceva  parte  della 
Monarchia  di  Savoia^  il  cui  capo  intitolavasi  Duca,  essendo  noto  che 
solo  alla  pace  di  Utrecht  assunse  il  titolo  di  Re  di  Sicilia  (1713), 
pel  trattato  di  Londra,  scambiato  poscia  in  quello  di  Sarde- 
gna (1718). 

Che  siano  originarii  dalle  Alpi  del  Piemonte,  si  deduce  oltre 
alla  accennata  singoiar  foggia  di  vestire  delle  donne,  dallo  avere 
ogni  casa  un  picciol  orto  chiuso  tutt'intomo  da  siepe,  coll'ingresso 
munito  di  un  rozzo  cancello  fatto  di  rami  infitti  orizzontalmente 
nelle  due  aste  verticali  non  alte  un  metro,  come  nelle  montagne 
piemontesi  ;  —  dall'essere  quegli  abitanti  nella  gran  maggioranza 
di  capelli  e  d'iride  color  castagno;  dallo  avere  una  carnagione  più 
colorita  che  quella  dei  Calabresi  proprii,  e  di  essere  di  questi  più 
attivi  ed  operosi,  dimostrando  cosi  derivare  da  paesi  di  clima  vigo- 
roso, il  quale  sviluppa  maggiormente  il  sistema  nervoso.  Colà  le 
donne^  come  quelle  delle  Alpi  piemontesi,  vanno  a  spacciare  la  tela 
e  le  trine  che  tessero  durante  la  stagione  invernale.  Costumanza 
non  seguita  dalle  Calabresi.  —  La  persistenza  delle  costumanze, 
come  nota  il  De  Goubineau  (3),  è  un  essenziale  carattere  etnologico. 
Cosi  l'uso  ch'è  in  Normandia  e  non  nelle  altre  provincie  francesi 
di  circondare  di  faggi  e  d'olmi  le  case  rurali,  attesta  l'origine  scan- 
dinava di  quella  popolazione  (4).         ^ 

Ma  se  queste  rassomiglianze  di  costumi  e  dì  sembianze  potevan 
constatarsi  soltanto  dai  pochissimi  che  visitarono  per  caso  quelle 
due  cosi  distanti  regioni,  ben  si  poteva,  togliendo  ad  esame  il  ver- 
nacolo di  Guardia,  scovrire  Torigine  di  quegli  abitanti.  A  ciò  non 
posero  mente  i  numerosi  filologi  della  Calabria,  ed  è  l'assunto  prin- 
cipale che  mi  proposi  nel  dettare  questo  studio  etnologico.  Bene  il 
Morelli  nel  suo  opuscolo  già  citato  (5),  asserì  che  malgrado  un  tal 
tassodi  tempo  «  pure  continuano  a  conservare  il  loro  dialetto  patrio, 

(1)  Citato  da  Léger  a  p.  19,  Parte  i. 

(2)  Bistorta  et  descrittione  del  Regno  di  Sicilia,  Napoli,  1591  in  4«. 

(3)  Essai  sur  l'inégalité  dei  races  humaines,  Parigi  1855,,  t.  Ili,  p.  1851. 

(4)  Qavel.  Les  races  humaines,  Parigi  1860,  p.  309. 

(5)  Prefaz.,  p.  31. 


COLONIA  PISMONTBSB  IN  CALABBIA  179 

pronunziando  moUissime  parole  francesi  frammiste  alle  italiane  » 
e  su  34  che  riporta,  sole  tre  sono  francesi,  e  di  queste  tre  ne  ha  sba- 
gliate due.  Le  altre  SI  sono  omofone  ai  dialetti  valdesi  i  quali  non 
sono  dialetti  francesi,  discostandosi  assai  da  essi ,  sibbene  parlari 
quasi  identici  all'antica  lingua  de'trovatori  (1).  Ma  non  è  nei  voca- 
boli che  consiste  il  carattere  di  una  favella ,  si  nell'organismo, 
cioè  nella  grammatica.  Il  russo  aperse  l'adito  a  tutte  le  voci  di  lin- 
gue straniere,  ma  però  è  rimasto  russo.  Il  turco  fu  compenetrato  di 
voci  arabe  adiismisura,  ma  per  aver  conservato  il  suo  edificio  gram- 
maticale è  sempre  una  lingua  tatara.  Che  più?  nell'inglese  i  voca- 
boli normanni  superano  in  numero  gli  Anglo-Sassoni;  per  siffatta 
intrusione  di  un  elemento  straniero,  pati  di  molto  nella  gramma- 
tica, avendo  perduto  le  desinenze  nella  declinazione  de'  nomi  e 
nella  coniugazione  dei  verbi,  ma  non  diventò  una  lingua  neo-latina. 

Sebbene  tra  l'italiano  e  l'antico  provenzale^  lingua  spenta,  molta 
fosse  la  somiglianza,  attalchè  Raynouard  (2)  e  dopo  lui  Perticari  (3) 
pretesero  quella,  figlia  di  questa,  il  che  fu  provato  insussistente 
da  Lewis,  Diez,  Fauriel^  Galvani^  Bruce-White,  Schlegel,  e  per  ul- 
timo Max  Muller  (4),  però  le  differenze,  per  quantunque  siano 
piccole,  le  costituiscono  lingue  separate.  A  quel  modo  che  le  lingue 
eulte  determinano  le  nazioni,  i  dialetti  indicano  le  tribù,  clans 
eco,  cioè  le  frazioni,  o,  direm  meglio,  suddivisioni  delle  nazionalità. 

Se  ramtico  provenzale,  lingua  letteraria,  opperò  convenzio- 
nale (5)^  avesse  potuto  sopravivere  allo  stato  di  lingua  eulta,  i  [io- 
poli  di  Catalogna,  Valenza,.  Murcia  ed  Isole  baleari,  della  Francia 
olire  la  Loira,  e  dell'ItaUa  già  Gallia  cisalpina,  sarebbero  di  nazio- 
nalità provenzale,  e  per  tali  li  considerò  ancora  il  Fuchs  (6).  Spenta 
quella  lingua  per  la  perduta  indipendenza  politica,  i  popoli  suddetti, 
in  vista  della  molla  relazione  tra  l'antico  provenzale  ad  occidente 
collo  spagnuolo^  nel  centro  col  francese,  e  ad  oriente  coU'italiano, 
divennero  frazioni  delle  nazioni  spagnuola,  francese  ed  italiana,  ed 

(1)  Diez,  La  poesie  des  troubadours,  traduzione  da]  tedesco  di  De  Roisin. 
Parigi,  1845,  p.  232.  Muston,  op.  cit.,  T.  iv,  p.  92.  Perticari  esaminando 
il  noto  poema  la  Nobla  Leyczon,  trattato  religioso  dei  Valdesi,  scritto  nel 
secolo  XII,  dice:  «  Questa  è  lingua  italica  del  duecento,  tutta  simile  alla 
romana  del  cento  t.  DelV amor  patrio  di  Dante  e  del  suo  libro  intomo  al  voi-- 
gare  eloquio ,  Parte  n,  Cap.  xvj. 

(2)  Choix  des  poisies  originales  des  troubadours,  T.  vi.  Grammaire  com. 
parie,  Parigi,  1821. 

(3)  Op.  cit..  Parte  ii. 

(4)  The  science  of  language,  Londra,  1861,  p.  163. 

(5)  Milà-y-Fontasals,  De  los  trovadores  en  Esparia,  Barcellona,  1861,  p.  15. 
De  Laveleye,  Histoire  de  la  langue  et  de  la  littérature  proveti^ale,  Bruxelles, 
1845,  pag.  57. 

(€^  Die  romanischen  sprachen.  Halle  1849.  F.  Karte  von  Fischer. 


180  RIVISTA   CONTBMPOBANBA 

Ugual  sorle  si  ebbero  i  loro  vernacoli.  Diventarono  dialetti  di  quelle 
lingue  (1). 

Dal  sovra  esposto,  rimane  evidente  che  non  si  può  dire  francese 
il  dialetto  di  Guardia;  che  gli  esempi  riferiti  dal  Morelli  per  ciò 
dimosti^re,  non  calzano,  massimamente  perchè  non  dal  confronto 
meramente  glottico  si  desume  la  figliazione  e  fratellanza  delle 
lingue,  si  specialmente  da  quello  grammaticale. 

Allorquando  una  colonia  parla  un  idioma  di  carattere  affatto 
diverso  da  quello  usato  dalla  nazione  fra  cui  vive,  questo  meno  si 
guasta  dal  continuato  secolare  contatto,  perdio  gli  organismi  delie 
rispettive  lingue  sì  contrastano  ed  impediscono  l'amalgama  di  forme 
diverse.  Cosi  p.  e.  i  Baschi  nella  Spagna  e  nella  Francia,  gli  Albanesi 
nell'Italia  australe,  i  Tedeschi  dei  VII  e  XllI  comuni  nel  Veronese 
e  nel  Vicentino,  i  Normanni  nell'Yersey  hanno  potuto  conservare 
meno  corrotta  la  propria  favella;  ma  quando  una  colonia  parla  un 
dialetto  di  lingua  alfine  a  quella  della  nazione  fra  coi  si  recò  a 
vivere,  per  la  somiglianza  organica  delle  loro  favelle,  il  vernacolo 
dei  coloni  è  più  agevolmente  trasformato.  Da  ciò  lo  avere  nella 
Danimarca  il  frisone  assunto  caratteri  Danesi  e  nella  Gronfinga  ca- 
ratteri olandesi  ;  per  ciò  il  ruteno  o  malopusso  a  Leopoli  si  è  polo- 
nizzato  mentre  si  è  russificato  a  Kiow  e  Zy tornir;  e  per  prendere 
esempi  nelle  favelle  neo-latine,  il  genovese  parlato  da  una  colonia 
a  Mons,  dipartimento  del  Varo ,  ed  un  dialetto  occitanici)  parlato 
nelle  montagne  del  Morvand,  regione  della  lingua  d'OiI  (2),  sljn- 
bastardirono  al  contatto  di  parlari  della  stessa  famiglia. 

Ciò  volemmo  premettere  acciò  non  si  facciano  le  meravigliente 
quei  di  Guardia  hanùo,  mi  si  conceda  l'espressione,  calabrizzalo  il 
loro  vernacolo;  e  come  potevano  conservarlo  intatto  essendo  co- 
stretti a  parlare  calabrese  cogli  abitanti  di  tutti  i  paesi  vicini?  Come, 
se  era  vietato  di  accasarsi  tra  loro,  ma  dovevano  unirsi  con  cala- 
brese come  narrammo  qui  sopra?  eppure  ad  onta  di  tutto  ciò  soffri 
solo  alcune  intrusioni  di  vocaboli,  tenne  la  re  desinenziale  degl'in- 
finiti deiverbi,  la  mutazione  in  e  dolce  della  bilettera  pi  latina  come 
nel  genovese,  nel  napoletano  e  ne)  portoghese,  e  la  pluralizzazione 
assunse  talvolta  la  vocale  eufonica;  ma  i  verbi  come  nei  dialetti 
chiamati  dall'egregio  mio  amico  il  cav.  Biondelli  gallo-italici  (3), 
non  hanno  preterito  definito  imperfetto;  peraltro  a  vece  di  com- 
porlo come  il  perfetto  indefinito  usa  il  presente  d'andare  coU'infi- 

(1)  Vegezzi-Ruscalla,  Della  nazionalità  di  Nizza.  Torino,  1860,  p.  19,  e 
Diritto  e  necessità  di  abrogare  il  francese  come  lingua  ufficiale  in  alcune  t>alli 
della  provincia  di  Torino.  Ivi,  1861,  p.  22. 

(2)  De  Gembloux  Histoire  littéraire,,.  des  Palois.  Parigi,  1841,  p.  19, 

(3)  Saggio  sui  dialetti  gallo^italici,  Milano,  1853, 


COLONIA   PIBMONTBSE  IN  CALABRIA  l8l 

Dito  del  verbo  sostantivo.  Il  v^nacolo  di  Guardia  rigetta  parimenti 
la  desinenza  lo  Dei  partìcipii ,  come  i  dialetti  dell'alta  Italia.  La 
negazione  come  nelle  lingue  germaniche  viene  dopo  il  verbo , 
quindi  non  dice:  io  non  voglio^  ma  mi  vegi  pa:  Ich  will  nicht.  Il 
francese  avece  pone  il  verbo  in  mezzo  a  due  negative  :  Je  ne 
veux  pas. 

Un'osservazione  fonetica  qui  occorre,  la  quale  afforza  la  teoria 
dell'egregio  Sckleicher  e  di  S.  A.  I.  il  principe  Luigi  Luciano 
Bonaparte  (i).  Si  è  l'azione  del  ietacismo  che  a  quel  modo  ch'agi 
nel  calabrese  operò  nel  vernacolo  di  Guardia.  El  provenzale  antico, 
diventò  je^f,  essejesserSy  ìuru  liuru,  entre  jentrCy  jeure  da  eure 
(ora)  ecc.  (2). 

Cosi  vediamo  che  il  presente  del  verbo  bUi  (essere)  russo,  esmi, 
esiy  este  diventò  in  illirico  j'e^om,  je$i,jest  ecc.,  e  in  polacco  jsem, 
j$i,  jest;  zemUaTQSso  fatto  in  polacco  ziemlia  ecc.,  ed  in  Bucuresci 
alla  pronunzia  lo  stesso  verbo  sostantivo  offre  uguale  jelacisroo,  per 
cui  il  YaiHant  (3)  scrisse,  non  secondo  la  lingua  eulta ,  ma  della 
plebe,  iestijjeste  per  sei  ed  è,  e  jeram,  jerai,  jera,  jeram,  jeraizi, 
jera,  era,  eri  ecc.,  a  vece  di  e$ti,  este  ;  eramu,  crai,  era,  eramu,  ecc. 

Un'altra  osservazione  si  è  di  trasformare,  come  nei  dialetti  ca- 
labrese, di  Sicilia,  NapoU  e  Genova  e  come  nella  lingua  portoghese, 
la  pi  latina  innanzi,  in  e  dolce,  dicendosi  cchiù  per  più. 

Premesse  queste  poche  osservazioni. sulle  alterazioni  patite  dal 
vernacolo  d'Angrogna,  passando  alla  Guardia,  porgeremo  ora  un 
elenco  di  alquanti  sostantivi  accompagnati  da  pronomi  o  da  tempi 
di  verbi  col  confronto  del  dialetto  delle  Valli  o  d'Angrogna,  o  di 
S.  Martino  Porosa,  per  mostrare  come  abbia  conservato  il  dialetto 
di  Guardia  l'impronta  della  sua  derivazione  dal  provenzale  antico, 
cui  sono  ancora  somigliantissimi  i  dialetti  delle  regioni  elevate 
delle  terre  valdesi.  Essi  basterebbero  a  provare  l'essere  quei  di 
.  Guardia  origiaarii  dalle  valli  di  Pinerolo. 

Italiano  Dialetto  di  Guardia       d'Angrogna  di  Cosenza 

Mio  padre  Mon  paìre  Mon  paire  Patrima 

Mia  madre  Ma  maire  Ma  maire  Mammama 

Mio  avo  Mon  Donn  Mon  Donn  Nannuma 

(1)  Zur  vergleichende  sprachengeschichte.  Bonn,  1848.  Il  Vangelo  di 
s.  Matteo  volgarizzato  in  dialetto...  cosentino...  con  alcune  osservazioni 
Sul  permiUamento  delle  vocali,  del  principe  L.  L.  Bonaparte.  Londra  1862. 

(2)  Il  dialetto  friulano  offre  uguali  esempi  di  jetacismo:  essere,  era,  di- 
ventano yem.ycre;  difetto,  erba,  mezzo,  vedendo,  sono  modificati  in  dtfieto, 
jerbui  miexXf  viodind,  ecc. 

(3)  Orammaire  roumane,  Bukarest,  1840,  p.  50  e  53. 


182 

Mia  ava 
Tuo  zio 
Tua  zia 
Suo  fratello 
Sua  sorella 
Tuo  nipote 
Tua  nipote 
Mio  suocero 
Mia  suocera 
n  cappello 
n  berrettino 
La  camicioletta 
La  scarpa 
Le  calzette 
n  treppiede 
La  caldaia 
La  padella 
Il  cucchiaio 
La  forbice 
L'ago 
Il  ditale 
L'acqua 
La  pera 
Il  sole 
Le  orecchie 
Il  naso 
La  ginocchia 
Il  piede 
La  chioccia 
n  porco 
Il  bove 
L'asina 
Il  cane 
La  cagna 
La  gatta 
n  corvo 
La  capra 
Avete  pranzato? 
Avete  cenato? 
Vieni  qua 
Venite^qiaa 
Io  non  ho 
Tu  non  hai 


BIVISTA   CONTEMPOBANBA 


Ma  gnogna 
Ton  barba 
Tadant 
Son  fraire 
Sa  sorr 
Ton  nibù 
Ta  nessa 
Mon  siòre 
Ma  madona 
Lù  ciappel 
La  cùpalingh 
La  gipptingh 
Lù  cioussère 
LO  cotlssiet 
Lù  triesp 
La  peiloro 
La  pella 
La  chigliere 
La  tesuira 
La  ghiuglia 
La  diale 
L'aiga 
La  prùss 
La  soleglie 
Le  oreglie 
La  na 

Le  ginuglie 
Lapo 
La  chias 
La  pierch 
La  biuv 
La  ross 
La  vess 
La  vessa 
La  ciatta 
La  cuvrass 
La  ciabra 
Vi  se'disnà? 
Vi  se'sinà? 
Vengh  eissl 
Vene  eissl 
Mi  n'aju  pa 
Ta  n'a  pa 


Ma  nonna 
Ton  barba 
Ta  dant 
Son  fraire 
Sa  sorr 
Ton  nebu 
Ta  nessa 
Mon  messer 
Ma  madona 
Lu  ciappel 
Lu  ciapelin 
Lu  gippun 
Lu  ciausser 
La  ciaussa 
Lu  treipé 
Lu  peirOl 
La  peila 
Lu  cuglier 
La  tesoira 
La  ghiuglia 
Lu  diale 
L'aiga 
Lu  prass 
Lu  soleglie 
Le  oreglie 
Lu  na 
Le  ginuglie 
Lu  pè 
La  ciuss 
Lu  pierch 
Lu  biuv 
La  rossa 
Lu  vess 
La  vessa 
La  ciatta 
Lu  curbass 
La  ciabra 
Ve  seu  disnà? 
Ve  seu  sinà? 
Ven  aissì 
Vene  aissl 
Mi  n'ai  pa 
Tln'as  a 


Nannama 
Ziuma 
Ziama 
Frate  sue 
Suoru  sua 
Neputìta 

Id. 
Suocruma 
Socrama 
Lu  capiellu 
Lu  cuoppulino 
La  camisola 
La  scarpa 
Lecazette 
Lu  tripìdo 
La  cuadara 
La  fresstira 
Lu  cucciaru 
La  fuorfice 
L'agucchia  (l'acu) 
Lu  jiritale 
L'acqua 
Lu  piru 
Lu  sule 
Le  ricchie 
Lu  nasu 
Le  jinocchia 
Lu  pede 
La  hhjuocca 
Lu  puorcu 
Lu  vue 
La  ciuccia 
Lu  cane 
La  cane 
La  gatta 
Lu  cuorvu 
La  crapa 
Aviti  manciatu? 
Aviti  cenatu? 
Vieni  ccà 
Veniti  ccà 
Io  non  tiegnu 
Tu  non  hai 


COLONIA  PIBMONTBSR  !N  CALABRIA 


183 


Quello  non  ha 
Volete  questo? 
Io  ebbi 
Io  ho  avuto 
Io  fui 

Sono  stato  ricco 
Io  non  voglio 
Io  non  ne  voglio 


Jell  gn'a  pa 
Vole'  Isongh? 
Hi  vau  avere 
Mij'ai  ajù 
Mi  vo  jessere 
Mi  ssù  sta  ricch 
Mi  vegl  pa 
Mi  ne  v5gl  pa 


Chel  a  n'a  pa 
Vole'  ison? 
Mi  vau  aver 
Mi  ai  agù 
Siù  ita 
Siù  ita  ricch 
Mi  vOj  pa 
Mi  na  vdj  pa 


Ghillu  non  ha 
Vuliti  chistu? 
Io  ebbi 

Io  haju  avutu 
Io  fuessi 

Signu  statu  riccu 
Io  nun  vuogliu 
Io  non  ni  vuoglio 


Ma  una  pruova  ancora  più  conchiudente  e  più  evidente  si  avrà 
nella  versione  che  offriamo  ai  nostri  lettori  della  ben  nota  parabola 
del  Figliuol  Prodigo.  Le  ragioni  che  mi  Tecero  prescegliere  questo 
testo»  malgrado  le  ripetizioni  di  vocaboli  che  presenta,  già  le  ho 
fatte  conoscere  nel  già  citato  mio  opuscolo  :  StUla  nazionalità  di 
Nizza  (1),  la  cili  prima  pubblicazione  fu  appunto  in  questa  Rivista 
Contemporanea  (ottobre  1859),  è  quindi  superfluo. ridirle;  ram- 
menterò soltanto  che  avendosi  questa  parabola  voltata  in  85  dialetti 
francesi,  91  dell'alta  Italia  ed  in  71  svizzeri  ;  cioè  tedeschi,  romandi, 
italici  e  romanci,  sarà  a  tutti  agevole  l'istituire  paragoni  con  quelli. 
Di  presente  ne  basta  che  si  noti  come  l'amalgama  di  voci,  verbi  e 
desinenze  Calabre,  abbia  imbastardito  non  scancellato  il  carat- 
tere originale  del  vernacolo  di  Guardia.  La  traduzione  a  fronte  nel 
vernacolo  d'Angrogna  fu  condotta  neirintendimento  di  mostrare  la 
rassomiglianza  con  quello  di  Guardia,  il  perchè  si  è  adoperato  nella 
versione  delle  Valli  Angrogna  e  S.  Martino  di  esprimere  il  preterito 
perfetto  col  verbo  vaiy  come  è  indole  del  vernacolo  di  Guardia, 
mentre  in  quelli  si  usa  di  rado. 

Non  è  mio  assunto  lo  scendere  a  confronti  gioitici  e  gram- 
maticali tra  il  dialetto  delle  valli  Pinerolesi,  e  l'antica  lingua  dei 
trovatori,  né  ragionare  delle  alterazioni  patite  dal  dialetto  di  quelle 
Valli  del  secolo  XIV  in  cui  sono  scrìtti  i  loro  trattati  dogmatici  e 
disciplinari  pubblicati  da  Perrin,  Leger,  Monastier;  Hahn  ecc.  Tra- 
lascierò  dal  far  osservare  che  spartirey  spendù,  mondiglia  e  più 
altre  voci  non  sono  di  quella,  si  analogie  italiane.  Succede  lo  stesso 
in  altri  dialetti  occitanici.  Il  Raynouard  (2)  facendo  una  rivista  di 
un  Dizionario  del  dialetto  Lemosino,  cita  più  voci  che  sono  in  quello 
e  non  nella  lingua  provenzale.  Come  la  lingua  de'trovatori  non 
dittongizza  l'ó  breve  latino  di  porais;  nello  spagnuolo  si  muta  in 
uè;  ma  in  questi  due  vernacoli  del  pari  che  in  quelli  di  Valdieri, 
Castelmagno,  Elva  ed  Acceglio,  nelle  Alpi  piemontesi,  si  dittongizza 
in  te. 

(1)  Torino  1860. 

(2)  Journal  des  Savants.  Paris  1824;  p.  174  80-96. 


184  BIVISTA  CONTBMPOKANKA 

Scrivendosi  a  tanta  distanza  di  paesi  queste  due  versioni  da  per- 
sone, ignorando  rispettivamente  Taltro  vernacolo  e  coH'orecchio 
assuefo  a  pronunzie  diverse,  non  si  è  certamente  potuto  riprodurre 
l'esatta  fonologia,  né  seguire  un  uniforme  sistema  grafico.  Vo- 
lendo, per  quanto  era  in  noi,  rimediare  a  quest'inevitabile  diver- 
genza, ci  attenemmo  al  metodo  seguito  dall'egregio  nostro  amico 
Biondelli  (1),  cioè  dando  alla  u  sempre  il  suono  italiano ,  e  se- 
gnando Vu  lombardo  o  francese  con  due  punti ,  cosi  ù  come  nel 
tedesco.  Anche  il  suono  rappresentato  dall'rà  francese,  segnammo 
coll'd  punteggiato  tedesco  ;  cioè  col  raddolcimento  della  vocale  pri- 
mitiva, detto  in  tedesco  umlaut^  e  dal  Benlòw  deflessione  (2). 

Uno  studio  etnografico  non  è  uno  studio  linguistico:  oltrecchè 
io  non  avrei  la  dottrina  richiesta  a  scriverlo,  le  poche  osservazioni 
che  ho  qui  esposte,  credo  siano  sufficienti  a  dimostrar  la  speciale 
natura  del  volgare  di  Guardia,  per  quali  cagioiTi  e  come  abbia 
diversificato  da  quello  della  madre  patria. 


PAIABOIA  DEL  mimi  PBODIGO 

Vanoblo  di  8.  Luca,  Cap.  xv,  vbbs.  11-32. 


Tradotta  dal  testo  italiano  di  Giovanni  Diodati  (A)  —  nel  dialetto  di  Guardia  dal  Rev. 
Cav.  D.  Luigi  Vairo,  parroco  di  Guardia  (B)  —  in  quello  d'Angrogna  e  S.  Mar- 
tino, dal  Rev.  Jalla,  pastore  della  Chiesa  evangelica-valdese  di  Torino  (C)  — 
in  quello  di  Cosenza,  dal  sìg.  N.  N.  (D). 


V.  11. 

A.  Un'uomo  avea  due  figliuoli. 

B.  In  om  a  l'avia  dù  figli. 

C.  Un  om  s'avia  dui  filh. 

D.  *N  omu  avia  dui  figli. 

V.  12. 

A.  E  '1  più  giovane  di  loro  disse  al  padre,  Padre,  dammi  la  parte 

de'  beni  che  mi  tocca.  E  '1  padre  sparti  loro  i  beni. 

B.  Lu  msgù  piocitt  di  liùra  a  vai  dire  a  lù  pa'ire.  Palre  dùnnemm 

la  ptlrsitin  di  li  bengh  chi  m'attocc.  E  ÌH  paire  a  gli  vai  spari 
li  bengh. 

(1)  Saggio  sui  Dialetti  gallo-italici,  cit.  p.  XXIX  a  XXXII. 

(2)  Aperta    general    de  la  science    comparative  des  langues.    Parigi 
1858  p.  27. 


COLONU  PIBM0NTB8B  IN  CALABBIA  185 

C.  Lo  maj  picit  de  lur  vai  dire  a  lu  pajre  :  Pajre  dunname  la  pur- 

Sion  de  li  bengh  che  m'attoccia.  E  lu  pajre  lur  vaj  spartire 
li  bengh. 

D.  Lu  cchiù  giuvane  d'iddi  disse  a  lu  patre.—  Patre,  dammi  la  parte 

de  li  bieni  chi  me  tocca.  E  lu  patre  li  spartiu  le  rrope. 

V.  13. 

A.  E  pochi  giorni  appresso,  il  figliuol  più  giovane,  raccolto  ogni 

cosa,  se  n'andò  in  viaggio  in  paese  lontano  :  e  quivi  dissipò 
le  sue  facoltà,  vivendo  dissolQtamente. 

B.  E  pecchi  giùrni  apprè,  lù  figliù  majù  giùvin,  riùnitogni  cosa,  si 

ni  vai  annare  in  viegg  in  pajl  lontanù,  e  eillaj  a  vai  dissipa 
le  sue  robbe,  bi  vivire  dissQlùtament. 

C.  E  poch  gium  appré,  lu  fili  maj  giuve,  riunì  tut,  se  ne  vaj  au- 

nar  en  viagge  en  paj  luntan  ;  e  ejlaj  vai  dissipa  sa  robba,  b6 
viure  dissuhitament. 

D.  B  puecu  juemi  appriessu  lu  figliciellu,  cchiù  giuvane,  ricota  ogni 

cosa,  si  nne  jiu  *mmiaggiu  a  nu  paise  luntanu.  —  E  là  dis- 
sipau  la  rropa  sua  viviennu  dissolutamente. 

V.  14. 

A.  E,  dopo  ch'egli  ebbe  speso  ogni  cosa,  una  grave  carestia  venne 

in  quel  paese  ;  tal  ch'egli  cominciò  ad  aver  bisogno. 

B.  E  cure  jella  s'avia  spendù  ogni  cosa  addùnch  na  grande  care- 

stia a  vai  venire  en  cheli  pajl  e  jell  a  vai  cominsà  ad  aver 
bissognh. 

C.  E  curo  el  ha  agii  spendù  tuta  cosa,  una  gran  carestia  s'en  vai 

venir  en  chel  paj,  e  el  vaj  cumensà  a  aver  besugn. 

D.  B  dopu  ch'iddu  spised  ogne  ccosa  'na  gran  caristia  vinned'  a  chillu 

paise,  de  manera  ch'illu  cuminciau  ad  avire  bisuognu. 

V.  15. 

A.  Ed  andò,  e  si  mise  con  uno  degli  abitatori  di  quella  contrada, 

il  qual  lo  mandò  a'  suoi  campi,  a  pasturare  ì  porci. 

B.  E  a  vai  partiri,  e  si  vai  chiava  avùnd  ignungh  de  chelli  ch'abbi- 

tavan  en  chella  centra,  lù  quale  a  lù  vai  mand'  a  li  campi  seu 

a  paisser  li  pierchi. 
C   E  vaj  partir,  e  se  vaj  bùtar  sub  un  de  chelli  ch'abifavan   en 

chella  centra,  lu  qual  lu  vaj  manda  a  li  camp,  a  guvemar 

li  pierch. 
D.  E  jiu,  e  li  mise  ccud'unu  de  l'abitanti  de  chilla  cuntrada,  chi  lu 

mannaud'  alle  campagne  sue  a  pascere  li  puorci. 


186  RIVISTA.  OONTBMPOEANRA 

V.   16. 

A.  Ed  egli  desiderava  d'empiersi  '1  corpo  delle  silique,  che  i  porci 

mangiavano:  ma  nimmo  gliene  dava. 

B.  E  jell  a  dissidderava  di  s^accevattare  lù  corp  de  chelle  mondiglie 

di  ligùmmi  chi  mingiavano  li  pierchi,  ma  gnungh  i  gnene 
dava. 

C.  E  el  desiderava  d*umplirse  lu  corp  de  chella  mondiglia  di  legume 

che  mingiavan  li  pierch,  e  pa  nùn  gnene  donava. 

D.  Ed  illu  desiderava  de  s'inchiere  lu  cuorpu  de  le  cuorchiale  chi 

li  puorci  manciavanu  ;  ma  nuUu  li  nne  dava. 

V.  17. 

A.  Or,  ritornato  a  se  medesimo,  disse:  Quanti  mercenari!  di   mio 

padre  hanno  del  pane  largamente,  ed  io  mi  muoio  di  fame! 

B.  Ma  vignù  jentra  di  sé  a  vai  dire.  Canti  travagliatùri  di  mon  paire 

i  gli  anghj  pangh  abundansiiù,  e  mi,  mi  mierù  di  famm  1 

C.  Ma  vignù  ant  sé,  a  vaj  dire  :  Canti  travagliur  de  mon  paire  j' ann 

de  pan  fin  ch*j  volen,  e  mi,  mi  mdiru  de  &ml 

D.  Ora,  faciennu  judiziu  disse  :   Quanti  travagliatùri  de  patrimma 

hannu  pane  in  ahhunnanza,  ed  io  mi  muoru  de  fame  ! 

V.  18. 

A.  Io  mi  leverò,  e  me  n'andrò  a  mio  padre,  e  gli  dirò:  Padre,  io 

ho  peccato  contr'  al  cielo,  e  davanti  a  te  ; 

B.  Mi  mi  cacciti,  e  mi  ni  vaù  avùnd  mon  paire ,  e  gli  vaù  dire  : 

Paire,  mi  j  ai  picca  cùntra  a  lù  celù  e  d'annangh  di  tu  ; 

C.  Mi  vói  leva,  e  me  ne  vau  annar  ub  mon  paire,  e  gli  vau  dire  : 

Paire,  mi  ai  pecà  centra  al  cel,  e  d'innant  a  tu  ; 

D.  Mi  vuogliu  abbiare,  e  mmi  nne  vuogliu  jire  da  patrimma ,  e  li 

vuogliu  dire  :  Tata  aju  peccatu  cuntra  lu  cielu  e  cuntra  de  tle. 

V.  19. 

A.  E  non  son  più  degno  d'esser  chiamato  tuo  figliuolo  :  fammi  come 

uno  de'  tuoi  mercenarii. 

B.  E  mi  su  pa  ciù  dignù  di  jessere  chiama  ton  figliù,  famm  jessere 

com  ignùngh  de  li  travagliatùri  teu. 

C.  E  mi  siu  pa  pi  degne  d'esser  demanda  ton  filh  ;  fai  me  cum  a  un 

de  li  teù  travagliur. 

D.  Nun  signu  cchiù  dignu  d'essere  chiamatu  figliu   tuo  :   tienimi 

cum'unu  de  li  travagliatùri  tuì. 


COLONIA  PIBM0NTR8B  IN  CALABRIA  187 

V.  20. 

A.  Egli  adunque  si  levò,  e  venne  a  suo  padre  :  ed  essendo  egli  an- 

cora lontano,  suo  padre  lo  vide,  e  n'ebbe  pietà:   e  corse,  e 
.  gli  si  gittò  al  collo,  e  lo  baciò. 

B.  Ielle  dùngh  a  si  vai  caccia  e  vai  vinire  avùnd  son  paire,  e  com 

jera  ancora  Itlntanù,  son  paire  lù  vai  veire,  e  ne  vai  avere 
compassiùngh,  e  a  vai  cùrr  e  li  si  vai  tapp*  a  la  cpU,  e  lù 
vai  baiss. 

C.  El  adunco  se  levò,  e  san  vai  venir  ub  son  paire,  e  cum  a  Tero 

tutio  lontan,  son  paire  lu  ve,  e  n*en  vai  aver  compassiung  ; 
e  vai  curre,  e  li  se  vai  tappar  al  col,  e  lu  vai  balsar. 

D.  Illu  addunca  s'azau  e  bbinne  duve  lu  patre  ed  essennu  illu  an- 

cora luntanu,  lu  patre  lu  vitte,  e  nn'  ebbe  pietate,  cursedi  e 
li  si  jettand'  allu  cuollu,  lu  vasau. 

V.  21. 

A.  E  '1  figliuolo  gli  disse  :   Padre,  io  ho  peccato  contr'  al  cielo  e 

davanti  a  te:  e  non  son  più  degno  d'esser  chiamato  tuo 
figliuolo. 

B.  E  Iti  figlia  a  gli  vai  dire  :   Paire  mi  j  ai  picca  cùntra  la  cela 

e  d'annangh  a  tu,  e  mi  siju  pa  ciù  degn  di  jesser  chiama 
ton  figlia. 

C.  E  lu  filh  gli  vai  dire  :  Paire,  mi  ai  pecà  centra  al  cel,  e  d'innant 

a  tu;  e  sin  pa  pi  degne  d'esser  demanda  ton  filh. 

D.  E  ru  figliu  li  disse  :  Patre  aju  peccatu  cuntra  lu  cielu  ed  avanti 

de  tie,  e  nun  signu  cchiù  dignu  d'jessere  chiamatu  figliu  tuo. 

V.  22. 

A.  Ma  '1  padre  disse  a'  suoi  servitori:  portate  qua  la  più  bella  ve- 

sta, e  vestitelo,  e  mettetegli  un  anello  in  dito,  e  delle  scarpe 
ne'  piedi  ; 

B.  Ma  la  paire  a  vai  dire  a  li  servitari  seu  :  Portensi  eissi  la  vest 

maj  bella  e  vestensi-lu  e  chiavensi-lu  'n  aneli  a  la  di,  e  li 
ciousseri  a  i  pò. 

C.  Ma  lu  paire  vai  dire  a  li  seu  servitur  :  Portense  ejsl  la  vesta  mai 

bella,  e  vesti-lu  e  butà-li  un  anel  al  dò,  e  li  ciussier  a  li  pè. 

D.  Ma  lu  patre  dissed'  alli  servituri  sui  :  Purtati  ccà  la  cchiù  bella 

vesta  e  vestitilu  e  mintitili  n'aniellu  allu  jiritu  e  le  scarpe 
alli  piedi. 

V.  23. 

A.  E  menate  fuori  '1  vitello  ingrassato,  ed  ammazzatelo  :  e  mangiamo, 
e  rallegriamci  : 


188  BIVI8TA  OONTBMPOBANBA 

B.  E  portensi  lù  veli  'ngrassà  e  ammazzensì-lù,  miDgengh  e  fà^engh 

festa. 

C.  E  porta  ejsel  lu  veli  'ngrassà,  e  ammazzalu,  e  mìDgengh,  e  fa- 

sengh  lasta. 

D.  E  purteti  fora  lu  vitiellu  'ngrassatu  ed  ammazzatila  :  manciamu 

ed  allegramuasi. 

V.  34. 

A.  Perciocché  questo  mio  figliuolo  era  morto,  ed  ò  tornato  a  vita: 

era  perduto,  ed  è  stato  ritrovato.  E  si  misero  a  far  gran  festa. 

B.  Pirchì  chistù  mon  figliù  a  Fera  mort  e  vai  torna  a  vitt,  a  l'era 

pirdù  e  Tè  sta  ritrova.  E  si  vangh  chiava   a  fàire  na  gran 
festa. 

C.  Perchè  (^est  mon  filh  era  mort,  e  a  l' ò  toma  a  vita,  era  perdù, 

e  ò  istà  retrovà.  E  i  se  van  bùtar  a  far  dna  gran  festa. 

D.  Ppecchi  stu  figliu  mio  era  muortu  ed  è  tumatu  mmita,  era  per- 

dutu  ed  è  statu  truvatu.  E  si  misun  a  fare  gran  festa. 
V.  25. 

A.  Or  il  figliuol  maggiore  di  esso  era  a'  campi  :  e  come  egli  se  ne 

veniva,  essendo  presso  della  casa,  udì  '1  concento  e  le  danze. 

B.  Ma  lù  figliù  maiù,  grand  di  jell  a  l'era  a  li  campi  ;  e  comm'jell 

e  si  ni  vinia,  e  cure  a  l'era  daprò  la  ca  a  vai  judire  lu  cant 
eli  balli. 

C.  Ma  lu  filh  mai  grand  d'el  era  a  li  camp,  e  cum  a  se  n'en  venia, 

e  cum  a  l'era  dappè  la  ca,  a  vai  uvi  li  cant  e  li  bai. 

D.  Ora  lu  figliu  cchiù  granne  erad'  alli  campi  e  cumu  illu  sinne 

venia,  stannu  vicinu  alla  casa,  sentiù  li  suoni  e  l'abballi. 

V.  26. 

A.  E  chiamato  uno  de'  servitori ,  domandò  che  si  volesser  dire 

quelle  cose. 

B.  E  vai  chiamm'  ignungh  de  li  servitùri,  e  a  vai  dommand  chi  si 

vùlesser  dire  chelle  cose. 

C.  E  a  vai  demanda  un  de  li  servitur,  e  li  demanda  che  se  volessen 

dire  chelle  cose. 

D.  E  chiamatu  unu  de  li  servitùri  dimannau  chi  vulisseru  dire 

chille  cose. 

V.  27. 

A.  Ed  egli  gli  disse:  Il  tuo  fratello  è  venuto,  e  tuo  padre  ha  am- 

mazzato il  vitello  ingrassato  :  perciocché  l'ha  ricoverato  sano 
e  salvo. 

B.  E  cheli  a  gli  vai  dire:  Ton  fraire  a  l'è  vignù,  e  ton  paire  gli 

vai  ammazza  lu  veli  mai  'ngrassà  pirchì  l'a  riciviù  sand  e 
salvd. 


COLONIA  PIBMONTBSB  IN  GALABBIA  169 

C.  E  «el  gii  di  :  Ton  fraire  è  vegnti,  e  ton  paire  li  vai   ammazzar 

lu  veli  mai  'ngrassà,  perchè  a  l'ha  recebii  san  e  salv. 

D.  Ed  illu  li  disse:  Fratitta  è  vinutu  e  patritta  had  ammazzata  In 

vitiellu  'ngrassatu,  ppecchi  Tha  ricuperata  eanu  e  sarvu. 

V.  28. 

A.  Ma  egli  s'adirò,  e  non  volle  entrare:  laonde  suo  padre  uscì,  e 

lo  pregava  d'entrare. 

B.  Ma  jell  a  si  vai  addirari ,  e  velia  pa  jentrà ,  ma  lù  paire  a  vai 

sagli  di  fora,  e  lù  vai  prega  di  jentrari. 

C.  Ma  el  se  bùtà  en  colera,  e  velia  pa  entrar;  ma  lu  paire  vai  sagU 

de  fSra,  e  lu  vai  prejà  d'intrar. 

D.  Ma  illu  si  sdignau,  e  nu  voze  trasire  perciò  lu  patre  esciu  e  lu 

pregava  di  trasire. 


A.  Ma  egli,  rispondendo,  disse  al  padre  :  ficco,  gik  tanti  sani  io  ti 

servo,  e  non  ho  giammai  trapassato  alcun  tuo  comiuidafnento: 
e  pur  giammai  tu  non  m'hai  dato  un  capretto,  per  ralle- 
grarmi co'  miei  amici  : 

B.  Ma  jell  a  vai  rispùnd  a  VX  paire:  Mi  ti  serv'  da  tant  jaimi  e  mi 

j'aiu  &ttù  seflipre  so  che  mi  j  ai  ditt,  e  pa  mai  m'  avez  dùnnà 
un  ciabrett  pi  mi  rallegrari  cu  li  meu  eompagnungh. 

C.  l[a  el  reipund  al  paire:  Mi  te  servo  da  tanti  ann,  e  ai  sempre 

fait  so  che  tu  m'a  dit,  e  vu  m'avè  pa  mai  donna  Un  eiabrett 
per  raUegrame  ub  mi  compagnon. 

D.  Ma  illu  rispunniennu  dissed'  allu  patre  :  Eccu,  giÀ  tant'anni  io 

ti  siervu,  e  mai  nud  eju  mancatu  a  nullu  tuo  cummannu, 
e  puru  tu  mai  m*  hai  datu  nu  crapiettu  pe' scialare  ocu  l'a- 
mici mie. 

V.  30. 

A.  Ma  quando  questo  tuo  figliuol ,  e'  ha  mangiati  i  tuoi  beni  con 

le  meretrici,  è  venuto,  tu  gli  hai  ammazzato  il  vitello  ingrassato. 

B.  Ma  eCire  ehest  ton  figliù  ca  s'è  mingià  li  bengh  teu  a  bi  li 

mali  fìmmini  a  Tè  vignù,  ta  gli  vai  ammazza  lù  veli  maitk 
'ngrassà. 

C.  Ma  cure  chest  ton  filh,  che  s'è  mingià  li  teu  bengh   ub  la 

maria  fenna,  e  vegnù,  tu  li  vai  Itmmazzar  lu  veli  mai  'ngrassà. 

D.  Ma  quannu  chistu  figliu  tuo,  chi  hamanciatu  lerropetue  culle 

male  fimmine ,  è  venutu ,  tu  1*  hai  ammazzatu  lu  vitiellu 
'ngrassatu, 


190  B1VI8TA  OONTBHPOEANBA 

V.   31. 

A.  Ed  egli  gli  disse:  Figliuol,  tu  sei  sempre  meco,   ed   ogni  cosa 

mia  è  tua. 

B.  E  jcU  a  vai  dire:  Figlio  ti  ti  sii  tuttavia  avùnd  mi,  e  ogni  cosa 

mia  Tè  la  tua. 

C.  E  el  vai  dire  :  Filh  tu  tu  se  tutia  ub  mi,  e  tuta  cosa  mia  è  tua. 

D.  Ed  illu  li  disse  :  Figliu,  tu  si  sempre  ccu  mie,  ed  ogni  cosa  mia 

è  la  tua. 

V.  32. 

A.  Or  conveniva  far  festa,  e  rallegrarsi  :  perciocché  questo  tuo  fra- 

tello era  morto,  ed  è  tornato  a  vita  :  era  perduto,  ed  è  stato 
ritrovato. 

B.  leùre   convinia  chesta  danza  e  chesta  festa ,   pirchl  chest  ton 

fraire  a  Tera  mort  e  Tè  toma  a  vitt  ;  a  l'era  perdù,  e  s*è  sta 
ritrova. 

C.  Eùira  convenia  chesta  danza  e  chesta  festa,  perchè  chest  ton 

fraire  era  mort,  e  a  Ve  torna  a  vita  ;  a  l'era  perdù,  e  a  le  istà 
retro  va. 

D.  Ora  s'avia  de  fare  festa  ed  allegrarse ,  ppecchl  chistu  fratitta 

era  muertu  ed  è  turnatu  'mmita,  era  perdutu  ed  è  statu  truvatu. 

Chiuderemo  quest'articolo  facendo  osservare  una  curiosa  coin- 
cidenza di  nomi.  Discendenti  dai  prischi  Taurini,  stanziati  ai  pie 
delle  Alpi  Gozie,  abitano  oggidì  sur  un  lembo  marittimo  del  terri- 
torio, che  nell'età  remote  formava  parte  della  repubblica  Taurina. 

Le  persecuzioni  religiose  che  insanguinarono  gli  ultimi  secoli 
dell'età  di  mezzo,  furono  causa  di  questa  emigrazione,  come  furono 
causa  dello  sterminio  di  parecchie  di  quelle  colonie  nei  primi  secoli 
dell'evo  moderno.  Oggi  in  grazia  del  progresso  dell'incivilimento, 
eh 'è  assai  più  umano  di  ciò  che  fosse  il  sentimento  cattolico  all'e- 
poca della  maggior  potenza  dei  Papi,  non  si  fa  più  strazio  di  coloro 
che  professano  opposte  credenze  religiose  (fatta  astrazione  del  go- 
verno pontifìcio,  il  quale  è  necessariamente  intollerante).  Soltanto 
dal  fanatico  governo  della  Spagna,  che  rimane  quasi  stazionario 
nell'universale  incedere,  si  condannano  alla  galera  coloro  che  leg- 
gono la  bibbia  in  volgare  (1).  Quindi  quelli  di  Guardia  nulla  oggidì 

(1)  Nella  Correspondencia  de  Madrid  del  6  ottobre  ultimo,  è  riferito  che 
il  tribunale  di  Granata  condannò  losè  Alhama  Teva  a  9  anni  di  carcere  e 
Manuel  Matamoros  ad  8  anni,  entrambi  alPinterdizione  perpetua  dei  di- 
ritti civili,  per  aver  fatto  pubblica  professione  di  fede  evangelica.  Il  fìsco 
si  appellò  da  questa  sentenza  come  troppo  mite  !  ! 


COLONIA  PIBMONTBSB  IN  CALABRIA  191 

hanno  a  temere,  tornando  a  stringere  amichevoli  relazioni  coi  pie  - 
raontesi  abitanti  nella  madre  patria,  sebbene  quelli  siano  ferventi 
cattolici,  e  questi  zelanti  evangelici.  Le  differenze  di  culto  non  de- 
vono dividerci.  Tutta  Italia  in  oggi  aspira,  all'unita,  e  dal  Monte- 
bianco  al  Capo  Passaro,  dal  Brennero  al  Capo  Teulada,  qualsiasi 
culto  professino,  qualsiasi  lingua  parlino,  qualsiasi  la  plaga  che 
abitano,  e  quale  il  governo  che  li  regge,  tutti  sono  fratelli,  tutti 
italiani.- 

G.  Vbgezzi-Ruscalla. 


APPENDICE 


DIPLOMI  (ÌDediti)  Di  RR  CARLO  DANGIO' 

cavati  dai  registri  angioini  che  si  conservano  nel  grand' archivio  di  Napoli. 


I. 

Scriptum  est  comitibus,  marchionibus,  baronibus,  potestatibus, 
consulibus  civitatum  et  villarum,  comitatibus  ac  omnibus  alila  po- 
testatem  et  jurisdictionem  habentibus  et  aliis  amicis  et  fidis  suis,  ad 
quos  presentes  (sic)  lictere  (sic)  pervenerint.  Sa^utem  et  omne  bo> 
num.  Cum  dilecti  nobis  in  Chrìsto  firatres  predicatores  (sic)  in  terris 
carissimi  domini  et  nepotis  nostri  illustris  Regis  Francie  {sic)  inqui- 
sitores  heretice  {sic)  pravitatis  auctoritate  apostolica  deputati  in  Lom- 
bardia et  ad  alias  partes  Ytalie  (sic)  sicut  intelleximus,  proficìsci 
intendant  seu  mittere  nuncios  speciales  ad  explorandum  ibi  hereticos 
et  alios  prò  baresi  (sic)  fugitivos  qui  de  terris  predictis  (sic)  aufu- 
gerunt  et  se  ad  partes  Ttalie  {sic)  transtulerunt  et  prò  ipsis  bere- 
ticis  et  fugitivis  ad  loca  unde  aufugenint  per  se  vel  per  eosdem 
nuncios  reducendis  rogamus  vos  et  requirimus  quatenus  eisdem  fra- 
tribus  vel  praedictìs  eorum  nunciis  presentium  portitoribus  in  ex- 
quirendis  predictis  {sic)  vestrum  impendatis  consilium,  auxilium  et 


192  BIVISTA   CONTBMPORANBA 

favorem  ac  per  terras  et  potestates  Testras  et  amicorum  Testrorum 
ìpsos  salvo  et  secure  et  cum  rebus  societate  et  familia  suis  condu- 
catis  et  conduci  faciatis  eundo  redeundo  et  morando  ad  salvamentum 
et  liberationem  eoruin  efficacia  iutendentes  quotius  sibi  necesse  fuerit 
et  vos  inde  duxerint  requirendos  —  datum  apud  urbem  veterem  pe- 
nultima madii  prime  (sic)  indictionis. 

(Ex  Regesto  Andegavcnse,  A.  1269  fol.  64  é  ter^.) 


II. 

Karolus  etc.  universìs  justitiariis  secretis  baiulis  iudicibus  ma- 
gistrìs  iuratis  ceterisque  (sic)  uficialibus  atque  fidelibus  suisr  per 
regnum  Sicilie  (sic)  constitutis  etc.  Cum  religiosus  vir  frater  Ben- 
venutus  ordinis  minorum  inquisitor  heretice  (sic)  pìravitatis  Bege- 
batum  et  lacobucium  familiares  suos  latores  presentium  {sic)  prò 
capiendis  quibusdam  hereticis  per  diversas  partes  reg^i  nostri  mo- 
rantibus  quorum  nomina  inferius  continentur  mictat  ad  presens  (sic) 
et  petiverit  nostrum  sibi  ad  hoc  favorem  et  auxilium  exhiberi  fide- 
litati  tue  (sic)  etc.  quatenus  ad  requisitionem  dictorum  nunciorum 
vel  alterius  eorumdem  omnes  huiusmodi  hereticos  cum  bonis  eorum 
omnibus  tam  stabilibus  quam  mobilibus  se  seque  moventibus  ca- 
pientes  faciatis  personas  illorum  in  locis  tutis  cum  summa  diligentia 
custodire  -  bona  vero  ipsorum  ad  opus  nostre  curie  (sic)  fideliter  et 
sollicite  conservari  attentius  provisuri  ne  in  hoc  aliquem  adbibeatis 
negligentiam  vel  defectum  sicut  divinam  et  nostram  indignationem 
cupitis  evitare  et  nihilominus  de  iis  quae  ceperitis  faciatis  fieri  qua- 
tuor  publica  consimilia  instrumenta  quorum  uno  penes  vos  rétento, 
alio  penes  cum  qui  bona  ipsa  custodierit  dimisso  tertium  ad  cameram 
nostram  et  quartum  ad  magistros  rationales  magne  nostre  curie  (sic) 
destinetis  —  nomina  vero  hereticorum  (sic)  ipsorum  sunt  haec: 

Marcus  Petrus  Neri  —  Rigalis  de  Monte  —  Gilia  de  Montisano  — 
Ioannes  Bictari  —  Bigorosus  —  Bonadius  de  Regno  —  Boncivonga  de 
Veterelana  —Verde  filia  Guidcmis  Versati  —  Flore  de  colle  Casali  — 
Benerenutus  Malyen  de  Àqua  pendenti  — Meliorata  uxor  eiusque  {sic) 
olim  dicebatur  Altruda  —  Sabbatina  que  vocatur  bona  —  Magister 
Matteus  textor  —  Alda  uxor  eìus  —  Joannes^Ursi  —  Angelus  Ursi 
de  Guardia  Lombardorum  —  Vitalis  Maria  uxor  eius  —  Bemarda 
et  Bemardus  vir  eius  —  Gualterius  provincialis  —  Bernardus  sutor. 
—  Bemarda  uxor  eius  ->  Raymundus  de  Neapoli  —  Petrus  de  Majo 
da^ancto  Germano  —  Benedictus  Calderarius  -^  Petrus  Malanocta 
^  Maria  uoior  eius  ^  Maria  filia  ipsorum  -^  Salvia  et  Nicolaus  filius 


COLONIA  PIBÌIONTBSB  IN  CALABRIA  193 

eius.  Andreas  gener  eius  —  Benedictus  frater  diete  Salvie  (Ho)  — 
Bona  filia  eiusdem  —  Salvia  de  Rocca  magnifico  —  ludex  Bainaldus 

—  ludex  Guarinus  Boianus  Capocia  —  Petrus  lannini  —  Guillelmus 
frater  eius  —  Garaldus,  bonus  homo  Odorisi  —  lacobus  Verardonus 
Ioannes  mundi  —  Thomasius  Ioannis  Guarnaldi  de  Ferraria  —  Pe- 
trus bictari  nepos  Ioannis  bictari  —  Margarita  uxor  quondam  Zoclofi 
domini  Ferrane  (sic)  —  Sibilla  cog^nata  eius  de  Melphi  —  Magister 
Matteus  textor  —  Alda  uxor  eius.  Magister  Maurus  mercator  de  ca- 
salverò  —  Matteus  Ioannis  Golia  —  Ioannes  et  Gemma  filli  eius  - 
Suriana.  Matteus  Marratonus  —  Gemma  femina  eius  —  Binago  de 
Aliphia.  Magister  Mannetus  de  Bonafro  —  Nicolaus  frater  lacobi 
Maria  mater  eius  de  Boiano  ^  Guillelmus  de  Isernia  —  Sergius 
Margarita  uxor  eius  de  Sancto  Maximo  —  Yiatrix  filia  eius  —  Ro- 
bertus  filius  dicti  Ugonis.  —  laconus  riccus  ^  Magister  Bainaldus 
Scriba.  —  Canapadula  de  Beate  filius  —  Sconuele  de  Sancto  Sibato 

—  Conradus  tethinicus  qui  dicitur  morari  in  Fogia  —  Benevenutus 
lazeus  et  eius  uxor ,  qui  moratur  prope  Sanctum  Matinum  et  ste- 
terunt  in  Aliphia  —  datum  in  obsidione  Luceriae  decimosecundi  Au- 
gusti decime  (tic)  secunde  (sic)  indictionis. 

(Ex  Regesto  Aadegavense,  A.  1269  B.  f«  47.) 


MMita  C.  —  13 


194 


PORTI  E  VIE  STRtTE  KELl'iUim  LIGURU 


n 


SOHIVARie 


I.—,  Difetto  di  foutl  istoriehe  —  la  Tavola  PeuUngeriana  e  Vllùierario  é^JnUmino  — 
3.  T>  Bpiftggie  ligustiche.  —  5.  Porti  etruschi  di  Luni  e  di  Oenova.  —4.  Savo  e  1  f^ada 
Sabatia,  ^  5.  Il  porto  di  Monaco.  —  6.  Come  scomparvero  le  stazioni  navali  di  Yen- 
limiglia  e  d'AIbenga.  — >  7.  Porti  interrati.  —  8.  Collegi  ed  offici  marittimi.  —  9.  Vie 
liguri  anteriori  ai  Romani.  ^10.  VAurelià  e  V Emilia  di  Scauro  —  s^adotta  il  dome 
à^^urelia.  ^41.  Suo  corso  da  Luni  a  Tortona.—  12.  VEmUia:  da  Tortona  àk  Sabadl. 
—  43.  VRmilia:  dai  Sabazii  al  Varo.  —  44.  Ponti  romani  in  Liguria.  —  45.  La  Po- 
slumia,  —  16.  Mansioni  e  Mutazioni.  —  17.  Vie  municipali  o  minori.—  48.  Strutturi 
ed  altre  particolarità  delle  vie  militarL  —  19.  Cagioni  della  loro  rovina. 


10.  —  Egli  è  noto  che  dalle  trentasette  porte  di  Roma  partivano 
trentuna  vie  militari  e  strategiche,  e  ducento  quindici  strade  mag- 
giori. Centro  di  tutte  il  miliario  aureo  '  del  Foro.  Tre  peraltro  ne 
erano  le  principali.  VAppia,  il  cui  facìmento  risale  all'anno  442  di 
Roma,  fu  aperta  da  Appio  Cieco  censore,  e  attraverso  le  paludi 
Pontine  per  una  tratta  di  cenquarantadue  miglia  metteva  a  Capua. 
La  Flaminia^  tirata  dal  console  di  questo  nome,  correva  ben  tre- 
cento miglia  per  la  Sabina,  l'Umbria  e  il  paese  de'Senoni  infino  a 
Rimini;  qtiindi  col  nome  d'SmUia  proseguiva  per  la  Gatlia  Cisalpina 
fino  ad  AquHeja  al  dir  di  Strabene  (1).  Questo  secondo  braccio  di 
via  fii  costrutto  dal  console  M.  Emilio  Lepido  l'anno  567  di  Roma. 
Un'altra  umilia  pur  v'ebbe,  spesso  confusa  col  nome  d'Aurelia^  e 
di  questa  giova  occuparci. 

Valorose  e  potenti  oltre  ogni  dire  furono  quelle  tribù  che  in  età 
remotissime  tennero  que' dossi  montani  che  si  dissero  già  Pietra 
Apuana^  oggi  le  Panie.  Ivi  vuoisi  sorgesse  la  dubitata  città  d'Apua^ 
i  cui  abitatori  gittarono  le  fondamenta  di  Lim  e  d' Arringa  che  ap- 

(*)  Vedi  il  Fascicolo  precedente. 
(1)  Strab.  Lib.  V. 


POETI   B  yiB  STBATB  DBLL' ANTICA  LIGUBIA  195 

presso  fu  Lucca.  Fra  queste  due  terre  discorrea  la  Versilia  che  ha 
le  sue  fonti  nel  Montaltissimo  a  borea  e  sulla  Pania  della  Croce  a 
levante,  e  porta  i  npmi  di  Cardoso^  di  Fornacchia^  di  T^rrinca  e  di 
Serra^^  secondo  1  varii  torrenti  che  vi  fan  capo.  Questo  fiume  tenne 
già  un  corso  diverso,  come  quello  che,  piegando  a  mezzogiorno, 
mettea  foce  nel  mare  presso  a  Montroni;  Cosimo  I  de*Medici  lo  volse 
a  pigiente  a  beneficio  di  quelle  aduste  pianure.  11  contado  che  dalla 
Versiglia  ebbe  nome,  comprendeva  le  antiche  città  di  Biracelo^  Bon- 
delidj  Tursenay  e  il  Imcus  Feroniae,  che  appresso  si  disse  il  Foro  di 
Clodia  in  vicinanza  alla  foce  del  Serchio,  o,  come  per  altri  si  tiene, 
nella  valle  di  Montignoso,  cui  successero  Capezzano,  indi  Barga  e 
Pietrasanta.  Ivi,  oltre  VAurelia,  mettea  la  vìa  CasHa^  ch'era  un 
ramo  della  Flaminia.  UAureliay  volgarmente  nomata  la.  via  del 
Diavolo  per  la  meraviglia  che  ingenera  la  sua  salda  struttura,  si 
sprofonda  nelle  morte  acque  del  Giarde  ed  il  lago  di  Porta.  Ne  fu 
autore  Caio  Aurelio  Cotta  che  tenne  la  podestà  censoria  due  anni 
appresso  la  .prima,  guerra  punica. 

.  Senonchò  le  continue  rivolture  degrindomiti  Apuani  chiarivano 
i  Romani  della  necessità  d'una  via  che  agevolasse  il  passaggio  delle 
legioni  in  Liguria.  Più  .fiate  si  cimentò  tal  partito  in  Senato,  e 
massimamente  quando  i  consoli  Cajo  Flaminio  Nepote  e  Marco  E- 
milio  Lepido  ottennero  rilevate  vittorie  sopra  gli  apuani  ;  ma  la  dif- 
ficoltà dell'impresa  mandò  a  vuoto  il  disegno,  appagandosi  invece 
d'aprir  nuove  vie  nella  Grallia  Cisalpina  ed  in  Etruria,  onde  poter 
da  due  lati  tenere  in  rispetto  le  tribù  montanare.  Infatti  dopo  ben 
ottant'anni  d'inutili  armeggiamenti  non  altro  poterono .  profittare  i 
Latini  che  un  decorso  di  dodici  stadii  (un  miglio  e  mezzo  romano) 
per  servire  ad  una  via  lungo  il  mare  (1).  Soltanto  nell'anno  645  di 
Rjoma.M.  Emilio  $cauro,  già  illustre  per  la  eostruzione  del  ponte 
Milvio  e  l'asciugamento  delle  paludi  tra  Parma  e  Piacenza,  dopo 
aver  prodigato  i  liguri  transalpini,  credendo  aver  buon  pq^alle 
mani,  aprì  come  censore  la  via  militare  da  Luni  ai  Sabasj  che  dal 
suo  nome  si  disse  Emilia^  (2)  diversa  dall'altra  Emilia  di  Lepido 
che  da  Bimini  metteva  a  Piacenza.  L'Emilia  di  Scatiro  ebbe  da  al- 
cuni pur  il  nome  di  Cassia^  come  cqntinuazione  di  quel  ramo  della 
Castia  che  per  Viterbo  calava  in  Toscana.  Altri  pur  le  assegna  altri 
nomi:  ma  la  frequenza  con  cui  s'usava  VAurelia  venendo  da  Boma 
in  Toscana,  fé' considerare  VSmUia  di  Scauro  come  un  proseguimento 

(1)  Strab.,  L.  IV.  Questo  passo,  a  mio  avviso,  fa  alteralo  dai  trascrittori. 

(2)  Consu),  Ligures  et  Gt^ntiscos  domuit  atque  de  his  triumphavit.  Cen- 
sor,  viam  Emiliam  stravit,  pontem  Milvium  fecit,  ab  ipso  post  dictum 
Emilium.      Aur.  Victor.  De  Virit  ili.  e.  LXXII. 


196  KIVISTA   CONTBMPOBANBA 

di  .quella,  e  rigettare  le  altre  appellazioni.  Ond'è  che  noi  pure  per 
ragion  di  chiarezza  riserbando  il  nome  d'Jìmilia  a  quel  tratto  che 
vedrem  giungere  da  Tortona  ai  Sabazj  e  oltre  il  Varo,  e  di  cui  diremo 
in  appresso,  designeremo  con  Tappellazione  d'Aurelia  la  via  che,  dopo 
avere  attraversato  pel  corso  d' ottantacinque  miglia  le  città  litoranò 
d'Etruria,  cioè  Centumcellae^  Pyrgos,  Alsium  e  QravUcay  metteva  a 
Pisa  e  a  Luni  e  da  questa  a  Tortona,  in  ciò  spalleggiati  dagli  antichi 
itinerarii,  non  che  da  Cicerone,  Vopisco  e  Rutili©  Numaziano  (1). 
Gli  autori  moderni  confondono  indistintamente  i  nomi  à^Aurelia  e 
à: Emilia  {2), 

11.  —  Senonchè  occorre  anzitutto  mostrare  la  fallacia  d*una  opi- 
nione assai  radicata  nel  volgo  non  solo,  si  bene  ne^più  saputi  scrittori, 
secondo  la  quale  la  via  di  Scauro  traversando  la  Liguria  marittima 
correa  lungo  le  prode  da  Luni  ai  Vadi  Sabazj,  da  dove  superando  il 
dorso  degli  Àpennini  calava  a  Tortona.  Questo  errore  che  deriva  da 
un  passo  di  Strabene  cui  mal  si  seppe  chiarire  e  dalFavere  insieme 
stranamente  accozzato  la  Peutingeriana  e  Yltifierario  d'Antonine,  deve 
ornai  rilegarsi  fra  i  sogni.  Se  TEmilia  di  Strabene  (Àurelia)  avesse 
solcato  il  litorale  fino  ai  Sabazj  (da  non  confondersi  come  altri  fece 
con  una  tribù  d'egual  nome  che  stanziava  presso  Ceperano)  il  greco 
scrittore  non  avrebbe  ommesso  d'accennare  oltre  Pisa  e  Luni  a 
qualche  altra  stazione  intermedia,  siccome  Genova  allor  emporio  prin- 
cipale de*  Liguri.  Un  tal  silenzio  ci  rafferma  nella  sentenza  che  l' Àu- 
relia tenesse  un  diverso  andare  da  quello  che  le  vollero  attribuir  1*0- 
derico,  il  Berger,  e  dietro  le  lor  poste  tutti  coloro  che,  svariando  dal 
vero,  ne  fecero  subbietto  delle  loro  speculazioni. 

Il  solo  Spotorno  ed  assai  prima  il  Repetti,  parmi  sien  quelli  che 
neir  interpretazione  del  testo  di  Strabene  (3)  abbiano  colto  i^el  segno. 

Desideroso  di  mettere  un  po'di  luce  nella  tenebrosa  questione^  ri- 

(1)  Cicer.  Philipp.  XII.  —  Vopisc.  Vit,  Aurelian.  —  Rulil.  Numatian. 
I/tner. 

(2)  Sed  ili  ad  ani  imad  versione  digaum  est,  non  modo  tantum  totum  tra- 
ctum  a  Roma  ad  Vada  Sabatia  modo  viam  Aureliam ,  modo  Emiliam  tum 
inliistoriis,  tum  in  vetustis  inscriptionibus  esseappellatum,  sed  viam  etiam 
quae  postmodum  a  Vadis  Sabatiis  trans  Alpes  Arelatem  est  dieta,  in  qua 
munienda  neque  Cottae,  neque  Scauri  partes  ullae  esse  potuerunt,  atrau* 
qae  tamen  sibi  nomen  Aureliae  et  Emiliae  vindicasse,  quod  ejus  canti'* 

nuatio  haberetur,  quae  in  Alpes  iisdem  erat  vocabulis  nuncupata Hinc 

ex  crebris  commeantium  ac  remeantium  erroribus  confusio  ac  perturbatio 
priscorum  nominum  est  orta,  tum  maxime ,  cum  vetustate  obtritis  co- 
ìumnis  milliariis  initio  positis,  aliae  inferiori  aevo  in  earum  ]ocum  sunt 
substitutae Monti,  De  viis  Romanis. 

(3)  OìJtoc  ^è  ò  2xa3p^;  wtIv  6;  xaì  rnv  A^puXtav  é^òv  orp&oac  ^  ^i«  t»v  niia«M  itati 
Aouvuv  (axpi  Sft^Tcdv,  xarrtdOev  ^là  AipOovou;.         Strab.  Lìb.  V. 


POSTI  B  YIB  STRATB  DBLL' ANTICA   LIGURIA  197 

cercai  con  ogni  possa  l'aiuto  di  valorosi  ellenisti,  e  son  lieto,  per  tacer 
d'altri,  che  il  dottissimo  Mons.  Cavedoni  abbia  voluto  sugg^ellare  con 
l'autorità  del  suo  nome  l'opinione  di  cui  siamo  mantenitori.  Senza 
punto  entrar  nell'analisi  del  testo  greco,  il  che  ci  trarrebbe  a  disquisi- 
zioni troppo  discordi  dall'indole  del  nostro  lavoro,  eccone  il  letterale 
volgarizzamento,  quale  l'illustre  Modenese  inviava  all'amico  mio  G.  B. 
Passano,  che  mi  confortò  de'suoi  lumi  in  queste  lentissime  e  sazievoli 
trattazioni  —  IRc  autem  Scaurus  iìle  est,  qui  jSmiliam  viam  con- 
siravUy  quae  per  Pieas  et  Lunam,  Sàbatos  usque^  per  Derthonam 
(transit).  —  La  greca  particella  Bik  non  può  aver  altro  valore  che 
jw,  sottintesovi  il  verbo  passare.  Dal  che  si  trae  che  l'Emilia  (Au- 
relia)  anche  secondo  Strabene,  passando  per  Tortona,  progrediva  fino 
ai  Sabazj. 

E  che  tale  ne  fosse  il  vero  andamento  n'è  riprova  il  difetto  d'un 
vestigio  qualsiasi  in  tutto  il  lungo  decorso  da  Luni  a  Savona  pel 
litorale,  sia  di  costruzioni  o  di  pietre  miliari  o  di  monumenti  epi- 
grafici, di  che  pur  abbondano  le  altre  vie  consolari.  Arroge  che 
niun  antico  scrittore  lasciò  ricordo  che  accenni  a  passaggio  di  le- 
gioni lungo  la  costiera  marittima  fino  ai  Sabazj;  laddove  per  con- 
verso sappiamo  che  dai  porti  di  Pisa  e  di  Luni  sferravano  le  armate 
romane  a  perlustrare  il  litorale,  e  dalle  foci  del  Lavagna  e  dal  golfo 
Tigulio  (e  non  già  dallo  Sturla  come  tiene  il  Durandi,  avveg^nachè 
lo  Sturla  metta  in  Lavagna  nel  territorio  di  Carasco  al  di  là  del 
Oiovo)  salpò  il  console  Postumio,  quando  profiigati  i  Garuli,  i  Zo- 
picini  e  gli  Sreati  si  fé'  a  visitare  marina  marina  le  prode  degli  In- 
ganni e  degli  Intemeliiy  prima  d'assaggiarli  con  l'armi. 

Ne  va  in  conseguente,  che  l'argomento  tirato  dal  veder  segnate 
nella  tavola  Pentingeriana  e  n^W Itinerario  le  mansioni  d'una  via  da 
Luni  a  Savona  di  per  so  cade,  si  scarsa  è  la  fede  dovuta  a  docu- 
menti incerti  d'autore  e  di  tempo,  inesatti  per  error  di  distanze  e 
storpiamento  ne'nomi.  Con  più  aspetto  di  vero  bassi  a  ritenere  che 
una  tal  via  non  appartenesse  all'Emilia  di  Scauro,  ma  fosse  piut- 
tosto una  via  municipale  o  traversa  che  serviva  di  comunicazione 
fra  i  finitimi  pagi,  essendo  noto  che  i  Romani  lasciavano  alla  balia 
de' soggetti  aprir  que'tragitti  che  più  tornavano  lor  profittevoli,  co- 
me era  appunto  questo  del  litorale,  angusto  e  disagevole  al  dir  di 
Strabene  (1). 

Dicemmo  per  il  litorale  :  niun  peraltro  s' avvisi  cercarne  le 
traocie  in  vicinanza  del  mare.  Le  mansioni  di  Boron  (la  Vara)  e 
iAVAlpe  Penamo  (il  Bracco)  ne  sono  ancor  di  presente  discoste.  I 

(l)  Imminent  grandes  ac  praerupiae  montium  rupes,  angustum  relin- 
quentes  juxta  mare  transitum.     Strab.  Lib.  IV. 


198  KI VISTA  CDNTEBfPOKANBÀ 

luoghi  ad  MonUia^  ad  Salaria  (Moneglia  e  Solaro)  ed  altri  siffiitti 
che  veggiam  specchiarsi  ne'flutti,  sedeano  allor  sull'alture  ;  e  noi 
tuttavia  non  senza  meraviglia  contempliamo  negli  alpestri  villag^, 
tra  le  finestre  d'antichi  abituri,  infitti  alcuni  ferri  ed  ingegni,  i 
quali,'  come  la  tradizione  c'insegna,  usavansi  a  sospendervi  i  remi, 
le  reti  ed  altri  nautici  arnesi,  segno  non  dubbio  che  il  pelago  di  gran 
tratto  arretra  vasi  dai  luoghi  in  prima  occupati.  Infatti  le  pianure  di 
Chiavari,  quelle  d'Albenga,  le  valli  d!  Diano  e  d'Andora:  quelle  fra 
la  Bòrdighiera  e  la  Nervia  ed  altre  assai,  furono  un  di  sepolte  ne*flutti. 
Sarebbe  quindi  follia  l'argomentarsi  che  questa  via  litorana  corresse 
lungo  le  attuali  ripe  marittime  ;  egli  è  mestieri  internarsi,  dove  più 
dove  manco,  fra  i  monti,  antica  stanza  de' Liguri,  per  indagarne  gli 
aggiramenti  e  le  curve. 

-  Ripigliando  ora,  dòpo  queste  necessarie  intrammesse,  il  nostro  ra- 
gionaménto, e'  fa  d'uopo  porre  sott'occhio  al  lettore  il  vero  andamento 
della  via  militare  di  Scauro,  né  questo,  a  mio  avviso,  può  parer  dub- 
bio, se  si  ritiene  che  le  foci  ed  i  seni  delle  valli  fra  la  Magra,  Pontre- 
moli,  la  Cisa,  monte  di  Bardone,Fornuòvo,  Val  dì  Taro,  Borgo  san  Don- 
nino (Julia  Fidentia),  Firenzuola  (Florentia),  Tortona,  e  presso  Acqui 
fino  ai  Sabazj,  presentano  il  cammino  più  agevole,  più  diretto  e  più 
breve.  Vero  é  che  anche  dell'andare  di  questa  via  ci  mancano  monu- 
menti visibili,  e  he  diviseremo  con  più  acconcio  le  cagioni  a  suo  luogo; 
qui  sol  rileva  osservare,  che,  perduti  ne' bassi  tempi  i  nomi  d'Aurelia 
e  d'Emilia,  si  conobbe  con  l'appellazione  di  ClaudiayChe  noi  col  Be- 
retta  teniamo  le  venisse  assegnata  in  onore  di  Flavio  Claudio 
Giuliano ,  come  appresso  le  vennero  del  pari  assegnati  altri  nomi. 

12.  —  Questa  via  strategica  non  si  rimaneva,  come  dicemiho,  a 
Tortona,  ma  calava  ai  Sabazj,  e  a  questo  ramo,  di  cui  restano  grandi 
e  maestose  reliquie,  diamo  il  nome  d'Emilia,  avvegnaché  con  questo 
più  specialmente  Tindiziino  i  monumenti  in  essa  sterrati.  Essendo 
disegno  di  Roma  penetrare  nel  cuore  della  Liguria  per  infrenarne  le 
rivolture  e  tragittare  gli  eserciti  nella  Grallia  Cisalpina  e  da  questa 
nel  paese  de'  Liguri,  doveano  le  legioni  appianarsi  un  passo  nelle  in- 
terne Provincie  e  munirlo  in  modo  saldo  e  durevole.  Quind'é  che  la 
via  si  fé'  correre  in  parte  sulle  bricche  de'coUi  per  reggere  ad  ogni 
tormento  d'acque  e  di  frane.  A  porne  in  disegno  tutto  l'andar  ch'ella 
fa  da  un  termine  all'altro,  diremo  che  movendo  dalla  region  de'Sabazj 
in  luogo  mal  noto,  ma  forse  dai  Vadi,  stendevasi  sulle  poppe  de' gioghi 
fino  ad  ffasta,  picciol  luogo  sugli  Apennini  che  nel  X  secolo  apparte- 
neva alla  dizione  de'vescovi  Savonesi  ;  ivi  un  ramo  minore  scendeva 
ad  Alba  DocUia  (Albissola),  e  a  Ficus  Virginis  (Varazze);  il  principale 
traversava,  scemando  l'erte,  Cono/ico  presso  il  Cairo:  quinci  a  non 
molto  spazio  toccava  Crixio  che  noi  poniam  presso  Spigno  all'abazia 


POBTI  B  VIB  STBATB  DELL* ANTICA   LIGURIA  199 

di  8.  Quintino,  e  volteggiando  presso  Acqai  (1)  dava  a  Tortona.  Consi- 
derevoli avanzi  se  ne  scorgono  presso  Melazzo,  Monteehiaro,  Strevi  e 
Cassine.  Pressochò  intatta  conservasi  da  Castelnovo  Bormida  fino  a 
Tortona:  in  alcuni  luoghi  è  sepolta  da  franamenti  e  dirupi.  Cajo  Va- 
lerio fu  quegli  che  in  più  tratti  la  ristorava  in  un  colle  terme  d'Acqui. 
Appresso  continuata  oltre  Po ,  rannodò  Ivrea  ad  Aquileja ,  cor- 
rendo per  Vercelli,  Novara,  Milano,  Bergamo,  Brescia,  Veroua  e 
Vicenza.  ' 

13.  ^  I  Sabazj  non  erano  peraltro  il  limite  estremo  della  via  mili- 
tare di  Scauro  :  essa  pi^osèguìa  fino  ad  Arles.  Augusto  che  ne  fu  il 
continuatore  e  la  fregiò  di  colonne  miliari,  cominciavala  al  punto  in 
cui  quella  di  Scauro  avea  fine,  cioè  a  Vado,  otto  anni  innanzi  Tera 
volgare.  Il  nome  di  Omlia  Augusta  secondo  alcimi  assegnato  a- tal 
via,  è  assai  controverso  ;  onde  per  noi  si  respinge,  dovendosi  piut- 
tosto riferire  a  quel  tratto  che  dalla  Trebbia  per  attravetao  il  Pie- 
mcmte  correva  nei  dintorni  di  Nizza. 

Anche  il  ramo  di  via  proseguito,  da  Augusto  non  potea  correre 
di  presso  al  mare.  Se  fino  ai  dì  nostri  la  strada  litorana  era  chiusa, 
dovrem  noi  credere  fosse  aperta  e  spianata  or  fan  venti  secoli?  Chi 
non  ricorda,  imprecando,  i  trarupi  di  Noli  resi  infami  da  Dante  (2) 
e  le  paurose  ritorte  di  Vose  e  di  Caprazoppa?  Se  tanta  fortezza  di 
borri  e  di  balze  ci  mostra  che  l'antica  via  consolare  era  affatto  per- 
duta, pone  anche  in  sodo  che  la  stessa  non  poteva  condursi  in  vi- 
cinanza del  mare.  Il  paese  irto  di  stagliate  roccie  e  di  stagni,  onde 
il  nome  di  Vada  che  s'avviene  in  più  luoghi,  facea  si  che  la  strada 
dovesse  imboscarsi  e  secondare  gli  svolti  de' gioghi  men  repenti  e 
difficili. 

Infatti  da  Vado  (3)  ove  per  colli  disagiosi  Ventidio  portò  dalla 
Oallia  tre  legioni  ad  Antonio  disfatto  nella  giornata  di  Modena  (4), 

* 
(1]  Tum  Clastìdium,  Derthona  et  Aquae  Statiellorum  pauiisper  praeter 
yiam.    Strab.,  Lib.  V. 

(2)  Vassi  in  Sanleo  e  discendesi  in  N^li.    Dante. 
All'asprezza  di  questa  via  accenna  un  altro  poeta  del  secolo  xiv  : 

da  Porto  ad  Andona  (Andora) 

La  strada  so  :  ma  convien  ch'uom  si  spoltri 
Siccome  va  da  Finale  a  Savona, 

Da  Albenga,  da  Noli  anco  e  da  Veltri 
Fino  a  Genova.  E  Solino  allor  rise  , 
Poi  disse:  va,  che  del  cammin  qui  m*oltri. 

Per  quei  vallóni  e  per  quelle  ricise 
Andammo. 

Fazio  degli  Vherti,  Bit.  lib.  HI,  e.  6. 

(3)  Jacet  inter  Apenninum  et  Alpeis,  impeditissimus  ad  iter  faciendum. 

Brut,  ad  Cicer.,  Epist,  XIII. 

(4)  Cicer.  Fami/.  XI,  10. 


200  BIVISTA  CJONTEMPOBANKJl 

saliva  l'erta  di  Noli,  sboccava  a  Verzi  sul  Pinalese  e  per  Peglino 
ch'era  una  delle  tante  figuline  ligustiche,  Carbuta  presso  Rialto  e 
Madonna  della  Neve  riusciva  sopra  Magliolo.  Una  mansione  n'era 
il  PùUupicey  forse  oggi  Giustenice.  Due  altre  mansioni  sorgeano  fra 
Albenga  e  Yentimiglia:  il  l%eus  Bormani  e  Costa  Balenae.  Ivi  pure  ci 
verrà  fatto  tracciarne  le  ripiegature  e  gli  andari.  E  per  vero  da 
Albenga  che  allor  sedeva  alle  falde  del  monte  che  la  prospetta  a 
ponente,  saliva  sul  luogo  nomato  la  Rama,  dove  torcendo  a  sinistra 
conduceva  al  Tirazzo  o  Signora  della  Guardia  a  cavaliere  d'Alassio: 
scendea  sulla  Morula  non  lungo  d*Andora  e  per  il  promontorio  di 
Rollo  e  Villa  Faraldi  traeva  in  Val  di  Diano,  ove,  oltre  i  ponti  che 
n'accusano  il  corso  e  di  cui  diremo  a  suo  luogo,  se  ne  scorgono 
presso  S.  Siro  non  poche  reliquie.  In  questi  contorni,  fatto  stima 
del  divario  che  corre  fra  il  miglio  romano  ed  il.  nostro  che  d'un 
quinto  è  maggiore,  dee  porsi  il  Incus  Barmanij  ohe  l'itinerario  d'An- 
tonino segna  a  quindici  miglia  d' Albenga.  La  via  tirava  oltre  a 
Costa  Balsnae^  oggi  Costa  Rainera:  da  quell'antica  mansione  ebbe 
origine  Taggia,  la  quale  evidentemente  trasse  il  nome  dal  Tacua 
che  le  scorre  vicino:  ivi  non  pochi  avanzi  che  tuttodì  vengono  in 
luce  ce  n'indiziano  il  vero  decorso.  Quindi  fiancheggiando  il  Monte- 
negro conduceva  a  Ventimiglia,  da  cui  per  il  colle  di  Castel  d'Appio 
sfogava  verso  Lumone,  oggi  Mentono.  Ivi  un  braccio  secondario 
correva  a  Sospello,  alla  Briga  e  per  Tenda  calava  alla  valle  di  Pesio, 
alla  Chiusa  e  imboccava  la  grande  via  di  Tortona.  La  via  litorana 
saliva  al  Trofeo  d'Augusto  in  Alpe  summa  nel  luogo  detto  oggi 
Tu/rlìa  da  turris  in  via,  testimonio  infallibile  del  di  lei  corso  :  calava 
quindi  nella  vallata  del  Sembola  :  varcato  il  Paglione  e  seguendo  le 
regioni  dell'Ariana  e  le  falde  di  Merindola,  attraversato  il  rivo  di 
S,  Andrea  saliva  alla  capitale  dell'Alpi  marittime  Cemenelon,  oggi 
Cimella,  costeggiando  la  valle  della  Balma  alcun  poco,  e  quindi  il 
deflesso  del  colle  fino  al  luogo  detto  i  Quattro  Cammini.  Il  Varo  var- 
cavasi  presso  alla  foce  in  quel  punto  in  cui  secondo  Strabene  questo 
fiume,  traripando  nel*  verno,  allargavasi  fino  a  ben  sette  stadii  (1). 
Augusto  volendo  sicurare  il  passaggio  dell'Alpi  dalla  infestazion 
de'ladroni  (cosi  nomavansi  i  popoli  alpini  che  grossi  in  arme  ne 
contendeano  il  varco  ai  Romani)  indisse  loro,  quattordici  anni  in- 
nanzi l'avvenimento  di  Cristo,  una  guerra  sterminatrice,  e  allor 
maggiormente  munì  del  proprio  tal  via  per  quanto  gli  venne  assen- 
tito dall'asprezza  de'luoghi  ;  avvegnaché  correndo  essa  tra  ricise  e 
scheggioni  di  rupi  che  sportano  su  precipizii  ed  abissi,  onde  il  nome 
che  appresso  le  si  attribuì  di  Cornice,  non  era  possibile  per  quanto 

(1)  Stadium  125  nostros  efficit  passus  ;  hoc  est  pedes625.  PHn.  L.  H,  e.  23. 


POKTI  B  VIB  STBATB  DKLL'àNTIOA  UOURIA  201 

scarpellasse  a  punta  le  roccie,  Tincere  in  tutto  una  cosi  sdegnosa 
natura  (1).  Due  monumenti  attestano  la  piena  disfatta  de*popoli 
alpini  ;  cioè  la  mole  di  Turbia  pressoché  rovinata  e  l'arco  di  Susa. 
In  quel  tempo  fondavasi  altresì  Augusta  Praetoria  (Aosta)  neirintesa 
di  dominar  ()a  quel  yarco  le  gole  dell'Alpi  per  gli  appostamenti  e 
guati  de*  montanari  tuttavia  mal  sicure.  Altri  ristauri  vi  fecero 
apinresBO  i  successori  d'Augusto  murando  in  acconcie  posture  rocche 
e  Ibrtilizii  detti  ClausuraSy  onde  il  nome  di  Chiuse. 

Nel  villaggio  di  Garquier  presso  alla  Turbia  sterraronsi,  or  fan 
pochi  anni,  due  colonne  miliari  di  cui  Tuna  diceva  come  l'Emilia, 
per  gli  uscimentì  del  Retubia  e  per  vetustà  resa  inservibile,  venisse 
rì&tta  da  Adriano  del  proprio.  Il  Retubia  è  fuor  di  dubbio  il  Rotuba 
che  ancora  a  nostra  memoria  diceasi  la  Rotta.  La  seconda  colonna 
vennevi  apposta  dall'Imperatore  Antonino  che  forse  anch'esso  del 
suo  la  racconciava.  Albenga  mostra  pur  essa  un  monumento  che 
accenna  ad  un  Metilio  sopraintendente  dell' Aurelia  (Emilia)  e  pa- 
trono della  plebe  urbana.  Ciò  fa  manifesto  come  solesse  usarsi  in- 
distintamente il  nome  d' Aurelia  e  quello  d'Emilia. 

14.  —  Che  una  tal  via  s'aggirasse  per  attraversa  gli  svolti  delle 
montagne,  ne  son  certa  riprova  gli  stessi  ponti  antichissimi  che  in 
più  luoghi  sfidano  ancora  l'urto  de'secoli  :  e  là  dove  i  torrenti  più 
prossimi  al  lido  ne  van  tuttora  sguarniti,  le  fiumane  di  Diano,  Vlm- 
peroy  V Argentina,  e  la  Nervia  ne  son  cavalcate  a  quattro  e  più  miglia 
all'interno.  L'eccellenza  a  cui  giunsero  i  Latini  in  quest'arte,  vuoi 
per  saldezza  di  massi,  vuoi  per  la  riquadratura  e  il  commesso  dei 
marmi,  è  a  tutti  assai  nota;  il  ponte  di  Traiano  sopra  il  Danubio 
è  insuperabile  per  audacia  di  concetto  e  maestà  d'esecuzione.  Opera 
non  manco  grandiosa  era  fra  noi  l'acquedotto  che  movendo  da  Pietra 
Bissara  toccando  Arquata  e  Libama  correva  a  Tortona,  irrigandone 
l'agro  e  alimentandone  le  terme  capaci  di  ben  settecento  individui. 
S'ignora  in  qual  punto  valicasse  la  Scrivia  :  alcuni  ne  designano  il 
luogo  presso  il  ponte  di  S.  Bartolomeo:  altri  nelle  colossali  arcate 
di  cui  già  vedeansi  i  vestigi  nei  contorni  di  Precipiano.  Asti  di  due 
pmti  abbelliasi  :  l'un  sul  Borbore  presso  cui  s'eresse  un  arco  a  Oneo 
Pompeo  Strabene,  padre  del  Grande  ;  l'altro  marmoreo  sul  Tanaro 
gittatovi  da  Giulio  Cesare  quando,  .dome  le  Gallio,  ebbe  stanza  in 
quella  città.  Publio  Urvino  edile  ne  fu  creato  prefetto.  Avanzi  d'un 
ponte  antico  scorgonsi  anch'oggi  sul  Taro.  Di  romana  struttura  è 

(1)  Aagustus  Caesar  lairoaum  eccidio  viarum  structuram  adjecit,  quan« 
tum  omnino  licuit  perfici;  neque  potuit  ubique  perrumpere  naturam  sa- 
xorum  iDgentium,  praeruptarum  rupium  alias  vìae  impendentium,  alias 
subjacenlium,  ita  ut  \el  ìeviter  e  via  egressi  in  periculum  venirentine' 
yitabile,  cum  in  fuudo  carentes  valles  esset  decidendum.  Sirab,  L.  IV. 


BIYI8TA  GONTBHPOBAMBA 

un  ponte  saldissimo  detto  il  Pùnte  dette  FaU  ed  anche  d'Orlando  nel 
Finalese  sul  ritano  di  Pond  presso  la  borgata  di  Verzi  :  e  tale  opino 
sia  pure  il  Pùnte  del  Corvo  che  inarcasi  anch'esso  nella  vallata  supe- 
riore di  Final-Pia,  nomata  ne'tempi  di  mezzo  Campania  viUae  maris^ 
segno  non  dubbio  che  il  mare  un  di  s'ingolfava  in  que'luoghi.  Ben 
più  meraviglioso  si  è  il  Ponie^lv/ngo  a  levante  d' Albenga,  opera  del  iv" 
secolo  e  forse  di  Costanzo  imperatore,  sotto  le  cui  solide  arcate  in 
parte  sepolte,  un  di  il  Conta  menò  le  sue  piene.  Corre  oinqueceatot- 
tantotto  palmi  in  lunghezza,  e  in  larghezza  quattordici.  I  pilastri  del 
ponte  àeWSveno^  per  cui  la  via  militare  veniva  a  Diano  Castello,  atte- 
stano anch'essi  la  romanità  di  quell'opera.  Del  resto,  nulla  di  co- 
spicuo, tranne  la  leggerezza  e  solidità  loro,  come  murati  a  pietre  vive 
e  di  vena  fortissima,  offrono  questi  ponti  fra  noi.  Eglino  sona  in 
ispecie  assai  stretti  ;  il  che  non  toglie  che  in  alcun  d'essi  appaiano 
tuttavia  le  traccie  iiòWactus^  posto  nel  bel  mezzo  per  il  transito  dei 
cavalli  e  dei  carri,  non  che  sui  lati  il  rialto  de'marciapiedi  (decursoria) 
spalleggiati  di  parapetti  e  murelli  per  sicurare  i  pedoni. 

15.  —  Le  vie  strato  di  cui  finor  ci  occupammo  non  sono  le  più  an- 
tiche in  Liguria.  E  per  vero,  se  tornava  arduo  ai  Bomani  tagliare  le 
loro  strade  fra  popoli  riottosi  e  contumaci,  questa  difficoltà  venia 
manco  rimpetto  a  Genova  amica,  da  cui,  come  da  centro,  poteauo  le 
legioni  addentrarsi  in  tutta  la  regione  de'liguri.  Fino  dall'anno  606 
di  Roma  il  console  Spurio  Postumio  Albino  Magno  ponea  mano  ad  una 
via  che  collegasse  Genova  alla  region  cispadana  e  le  assegnava  il  suo 
nome.  Forse  e'  non  fé'  munirla  e  renderla  atta  al  passaggio  de' grossi 
eserciti,  non  potendo  noi  consentire  che  Genova,  già  .gagliarda  di 
traffici,  difettasse  di  facili  comunicazioni.  Comunque  sia,  la  PùiUtmia 
corrottamente  Costumay.  saliva  per  la  valle  di  Polcevera  a  Ponte 
Decimo,  il  cui  nome  ricorda  l'uso  i^Qtichissimo  di  segnare  le  strade 
con  pietre  miliari:  i  luoghi  di  CeptUma  ed  il  rio  Vinelasea  che  costeg- 
giava (1),  sono  ancora  mal  noti  ;  forse  pel  giogo  di  N.  S.  della  Vit- 
toria, meno  erto  e  repente,  calava  in  vai  di  Scrivia,  lambendo  le  terre 
ed  i  pagi  che  appresso  addomandaronsi  Borgo  de'Fornari,  Pieve, 
Isola  buona.  Ronco,  ViUavecchia,  Isola  e  Pietra  Bissara.  Ivi  la  mala- 
gevolezza de'passi  costrinse  i  romani  a  far  enormi  tagliate  di  massi 
calcarei,  mwcè  le  quali,  secondando  gli  aggiramenti  delle  montagne, 
metteva  a  Rigoroso  sott'esso  il  colle  Aventino,  oggi  Ventino,  fin  ad 
Arquata,  entrava  Libama  e  n'uscia  rimpetto  ai  monti  della  Crena  a 
libeccio.  Ove  partiasi  in  due  rami:  l'uno  correva  a  Gavi:  l'altro,  ra- 
dendo il  colledi  Brionte,  varcata  la  Scrivia  presso  Cassano,  per  Yilla- 
verDia  tirava  a  Tortona. 

(l)  Vedi  la  Tavola  di  bronzo  scoperta  in  Polcevera  nel  1506. 


POan  B  VTB  STBATB  DBLL' ANTICA   uaUBXA.  803 

16.  —  Ebbi  più  sopra  a  ragionar  di  stazioni  che  seguentemente 
incontravansi  ad  ogni  tanto  dì  via.  Nomavansi  mansioni  e  muiaHani. 
Le  mansioni  serviano  di  solito  a  stanza  delle  legioni  al  fin  d'ogni 
marùia  ohe  per  Io  più  computavasi  di  ventimila  passi  :  in  casi  urgenti 
di  yetktisei  mila  ;  poiché  il  soldato  romano,  sebbene  onusto  di  far- 
daggio  e  di  pali  di  circa  sessanta  libbre  di  peso,  facea  non  manco  di 
venti  miglia  in  cinque  ore.  Erano  le  mansioni  un  gruppo  di  case  e 
dificii  con  ampio  palagio  fornito  di  suppellettili  e  arredi  deg^ni  della 
maestà  deg^i  Augusti,  i  quali  vi  sostenevano  (1)  a  rifarsi  de'disagi  di 
lunghi  viaggi  e  di  militari  fatiche.  Ivi  raccoglieansi  i  tributi  delle 
terre  circostanti  e  serbavansi  le  salmerìe  per  le  legioni,  i  foraggi  per 
i  cavaAi.  Erano  amministrate  da  gran  personaggi  che  chiamavansi 
manc^:  e  Valentiniano  commise  a'consoli  che  tuttavolta  passassero 
in  vicinità  d*alcuna  mansione,  ne  inspezionassero  gelosamente  i 
granai,  importando  anzi  tutto  che  le  milizie  avessero  cilbi  sani  ed 
incorrotti. 

Soggette  alle  cure  de'man^pi  erano  pur  le  mutazioni.  Questi 
luoghi,  come  il  nome  l'indizia,  serviano  allo  scambio  de'cavalli  e  dei 
carri  ad  uso  pubblico,  avvegnaché  i^privati  ad  usarne  doveano  otte- 
nerne uha  special  permissione.  Al  tempo  de' Cesari  insti tuironsi  pub- 
bliche corse  (cursus  publici)  e  poste  regolari  {vehiculaiiones)  ogni 
cinque  0  sei  miglia:  ciascuna  d'esse  andava  fornita  di  quaranta  ca- 
valli :  Teodosio  ne  accrebbe  le  mute  fino  a  sessantaquattro.  Mera- 
viglia il  leggere  quanto  gl'imperatori  curassero,  sotto  severissime 
pene,  che  i  viaggiatori  e  gli  stradieri  non  avessero  a  patir  danno  e 
molestie.  E  dirò  cosa  strana,  ma  vera,  e  tale  da  tome  il  vanto  ai  mo- 
derni :  che  cioè  la  vigilanza  de' Cesari  sulle  pubbliche  corse  fu  spinta 
a  tal  segno,  da  vietar  che  i  cavalli  fossero  aspramente  battuti,  non 
altro  essendo  lecito  che  colla  voce ,  o  tutt'al  più  con  legger  sferza  in- 
citarli, se  pigri ,  (innocuo  titillo)  pena  il  bando,  ove  alcun  trasmo- 
dasse. Tali  cure  partorivano  mirabili  effetti,  quello  in  singoiar  modo 
della  rapidità  dei  messaggi,  a  tal  pervenuta  da  poter  corrersi  cento 
miglia  in  un  dì.  È  fama  che  Tiberio  alla  nuova  del  sinistro  di  Druse, 
facesse  in  ventiquattr'ore  ducente  miglia,  da  Lione  in  Germania.  Con 
tal  rattezza  propagavansi  in  ogni  angolo  dall'impero  le  nuove  per 
opera  de'  diarii  o  giornali,  de' quali,  al  dir  di  Svetonio,  fu  primo  in* 
ventore  Giulio  Cesare.  Nomavansi  acta  o  diurna  e  ve  n'aveano  nelle 
Provincie  e  perfinneir esercito.  Con  non  minore  velocità,  le  vie  schiu- 
deano  l'entrata  ad  ogni  forastiero  prodotto  :  ai  lavorj  della  Grecia 
come  alle  fiere  dell'Africa,  ai  frutti  di  Spagna  come  alle  mercatanzie 
della  Fenicia  e  della  Siria. 

(1)  Ecce  literae  de  instruendis  mansionibus,  iuvectio  ornameutorum  re- 
gaìium  quae  ingressurum  impératorem  significarent.    Svet.  in  Tib,  e.  X« 


S04  RIVISTA  OONTEMPORANBA 

La  gigantesca  costruzione  di  queste  vie  avute  ne'  bassi  tempi 
come  opere  d^incantamenti  e  di  genii,  doveva  richiedere  un  numero 
stragrande  d'artefici  e  d'operai.  Divideansi  in  quattro  specie:  pri- 
meggiavano gV ingegneri  che  aveano  il  carico  dei  lavori:  seguiano 
i  legionarii  che  vi  davano  opera  soltanto  nei  silenzii  dell'armi  :  i  pro^ 
vineiali^  con  che  si  sopperiva  ai  bisogni  de'più  disagiati  terrazzani: 
venian  da  sezzo  i  condannati  che  purgavano  ivi  la  pena  dei  lor  ma- 
leficii.  L'erario* della  repubblica  sostenea  questi  enormi  dispendii,  tut- 
tavolta  che  le  vie  percorressero  Provincie  soggette  aUa  senatoria 
giurisdizione:  se  provincie  di  Cesare,  il  Fisco;  se  vie  comunali, 
provvedeano  i  Municipii. 

17.  —  Imperciocché,  oltre  le  principali,  è  fuor  di  dubbio  che 
parecchie  vie  comunali  o  traverse  legavano  i  pagi  delle  cognate 
tribù,  e  dalle  terre  più  litorane  facean  capo  alle  con  valli  dell'Àpen- 
nino  e  della  Liguria  montana.  Una  d'esse  correva  da  Oenova  per 
la  valle  della  Trebbia  a  Piacenza,  e  forse  a  questa  devonsi  riferire 
le  traccio  che  in  più  luoghi  t'occorrono  sul  monte  Penna.  Verosi- 
milmente le  tribù  degli  Ercaii^  dei  Garruli  e  dei  Lapidiciniy  abita- 
tori della  Fontanabuona,  avean /oleato  il  loro  agro  d'una  via  che 
metteva  alle  foci  del  Lavagna  o  porto  di  S.  Salvatore.  La  tradizione 
di  questa  via  che  ne'bassi  tempi  si  nomò  Panatiera  sussiste  viva 
tuttora:  i  conti  di  Lavagna  per  privilegio  degl'imperatori  tedeschi 
ne  riscossero  lungamente  le  gabelle  ed  il  pedaggio.  Incisa,  villaggio 
d'Orerò,  nomavasi  un  giorno  Intercisa^  e  accenna  a  qualche  ramifi- 
cazione di  questa  via,  ovvero  a  qualche  tagliata  di  rupe  per  avere 
un  facile  accesso  in  vai  d' Avete. 

Genova  inoltre  dovea  senza  fallo  dar  mano  ai  Sabazj.  Diffatti  un* 
sentiero  tagliando  la  Ih)etuma  in  luogo  mal  noto,  tirava  a  Sestri 
di  ponente,  ove  sorgeva  il  sextum  lapidem.  Tra  Voltri  ed  Arenzuio, 
ascendendo  dall'aprica  villa  di  Vesima  né  appariscono  tuttavia  le 
vestigia.  Forse  anch'esso  il  nome  di  Vesima  rammenta  la  vigesima 
colonna  miliare,  sebbene  torni  oggi  assai  malagevole  misurar  cosif- 
fatte distanze,  ignorandosi  il  punto  da  cui  si  dipartivano  le  vie  co- 
munali. Un'altra  strada  movendo  da  Genova  solcava  la  riviera 
orientale:  i  nomi  di  Quarto  e  di  Quinto  ne  fanno  aperta  testi- 
monianza. 

Intorno  a  questi  sentieri  nessun  monumento  scritto  ci  resta  :  ina 
la  terra  è  gelosa  custoditrice.  de'proprii  fasti.  Le  spesse  reliquie  di 
massicci  petroni  che  ti  si  parano  innanzi  in  più  tratti  del  monte 
Armetta^  che  a  mezzodì  guarda  Varazze  e  a  settentrione  il  Sassello, 
c'inclinano  ad  opinare  qhe  su  que'bricchi  serpeggiasse  una  via  che 
facea  capo  iXM Emilia^  vincolo  di  comunicazione  colle  tribù  monti- 
giane  e  i  Stazielli,  di  cui  fecero   i  Romani   strazio  cosi  disonesto. 


POBTI  E  VIB  8TRATB  BBLL' ANTICA   LIGURIA  266 

Infatti  Armeiia  non  è  che  corruzione  A' Ermete^  poiché  soleanei  a 
Mercurio  dedicare  i  luoghi  elevati  e  le  pubbliche  vie,  sulle  quali 
sorgeano  erme  in  suo  onore,  e  a*  pie'  d'esse  i  viandanti  accatastavano 
ciottoli  e  sassi. 

Di  vie  n^iinori  o  traverse  è  altresì  testimonio  un  vetustissimo 
ponte  romano  nel  territorio  di  Quiliano,  che  mena  alle  foreste  della 
Consevola  e  delle  Tagliate:  non  che  gli  avanzi  d'un  tramite  fra 
Garessio  ed  Àlbenga  dalla  banda  d'Erli  e  di  Zuccarello,  Tantica 
regione  degli  EpaiUeri.  Rado  in  oggi  pie'  mortale  s'inerpica  a  se- 
guirne le  scabre  vestigia:  ma  in  que'ciottoloni  si  rigorosamente 
l'un  l'altro  addentati,  lo  storico  ravvisa  ancor  l'orme  che  v'impres- 
sero un  giorno  gli  elefanti  di  Magone.  Non  andrebbe  lontano  dal 
vero  chi  avvisasse  esser  questo  un  torcimento  di  quella  via  che 
correndo  le  falde  occidentali  dell'Alpi  marittime  toccava  la  Chiusa, 
Boves  e  Boccavione,  e  traversando  vai  di  Stura  fra  questo  fiume  e 
TAlpi,  camminava  al  colle  dell'Argentiera.  Era  questa  ab-antico  la 
via  che  attribuivasi  ad  Ibreole  (1)  simbolo  d'industre  colonia:  via 
cui  tanti  seeoli  appresso  (centovent'anni  innanzi  Tera  volgare)  D<f 
mìrìo  Enobarbo  trionfator  degli  Arverni  faceva  rassettare,  e  vi  le-* 
gava,  come  già  dicemmo,  il  suo  nome. 

Posciacbè  accennammo  a  Magone,  non  sarà  fuor  di  luogo  il  ri- 
cordare come  non  poche  terre  in  Liguria  si  gloriino  d'aver  dato  il 
passo  anche  ad  Annibale  e  ne  conservino  il  nome.  Lasciando  da  banda 
quanto  in  ciò  v'ha  di  favoloso  o  d'incerto,  dirò  che  nel  comune  di 
Pregala  fra  i  monti  Penice,  Lesima  ed  Ebro,  corre  presso  il  Barostro 
una  lunga  tratta  di  via  che  s'addimanda  strada  d'Aimiòaìe,  Non 
può  invero  cader  punto  di  dubbio  sulla  di  lui  presenza  in  que'luoghi. 
È  noto  com'  e'  dopo  avere  svernato  in  riva  alla  Trebbia,  tentasse  il 
valico  degli  Apennini,  ove  si  sformata  tempesta  si  ruppe  addosso 
all'esercito,  che  fu  costretto  a  dar  volta  e  accamparsi  a  dieci  miglia 
dalla  città  di  Piacenza.  Alcuni  di  appresso,  prodigato  Sempronio, 
questi  calò  sul  Lucchese,  molestato  nel  suo  sbarraglio  dai  Liguri, 
per  le  cui  forre  passava,  lasciando  nelle  lor  mani  cattivi  due  tribuni, 
due  questori  e  cinque  cavalieri. 

La  via  tenuta  dall'oste  Cartaginese  fu  senza  fistilo  fira  1»  Trebbia 
e  la  Nura,  via  che  fu  appresso  condotta,  attraverso  questo  fiume,  a 
Velleja.  Esistono  ancora  i  nomi  di  Quarto,  di  Settimo  e  di  Colonne 
a  mezzodì  di  Piacenza.  Da  Velleja  la  vja  varcando  la  foce  degli  A« 

(1)  Accenna  a  questa  via  Siiio  Italico  là  dovè  parlando  d*£rcole  canta  : 

Scindentem  nubes,  frangentemque  ardua  mentis 
Spectarunt  superi.  SU,  Ital,  L.  III. 

Virg.  Eneid.  L.  VI  —  Diod.  Sùml.  L.  IV.  19. 


20$*  BIVISTA  CONTBMPOIUNBA 

I 

p^inkii  a  Taverna  metteva  nella  vallata  del  Leno  e  quin<^i  in  quella 
del  Taro  e  della  Magra  da  cui  volgeva  in  Toscana. 

Per  l'opposto  la  via  che  fé'  Sempronio  nella  sua  fuga,  fu  TAu- 
relia  che  si  <}isse  poi  Claudia.  Un  braccio  minore  della  quale  tirava 
a  Velleja  e  passando  per  Settime  a  sinistra  della  Nura  riuscia  sovra 
Travi,  già  TrivimMy  poiché  ivi  metteano  tre  strade.  L'una  d'esse 
traeva  a  Roccazese,  come  rilevasi  dagli  atti  delle  ss.  Liberata  e  Ifau- 
stina  riferiti  dal  Giovio  ;  l'altra  costeggiando  la  Trebbia  solcava 
l'agro  libamese  fino  a  Bobbio,  e  continuando  a  sinistra  del  fiume  dava 
a  Vesmo,  cioè  ad  i>igesimuin  lapidem  e  calava  dalla  parte  del  Bi» 
sagno  (1)  su  Genova.  Della  terza  strada  non  trovo  riscontro  alcuno. 

Questi  ed  altri  sentieri  serpeggianti  pei  dossi  del  nostro  Apennino 
e  della  più  parte  de'quali  per  non  far  qui  troppo  lunghe  intramesse  io 
mi  passo,  erano  appunto  que'tramiti  vicinali  o  traverse  che  necessa- 
riamente dovean  collegare  i  finitimi  popoH.  Vi  presie^eano  i  maestri 
de'poffiy  cui  era  demandato  l'officio  di  tenerli  rassettati  e  vigilare  acciò 
i  soldati,  che  in  essi  s'avventuravano,  non  patissero  disagio  di  leg^a, 
di  sale  e  di  strame.  Vuoisi  che  Tinstituzione  de' maeitri  de' f agi 
ascenda  a  Numa  Pompilio  (2). 

18.  -*  Poste  le  cose  anzidette,  non  dispiaccia  al  lettore,  poiché  ci 
Siam  messi  su  queste  ricerche,  oh^o  tocchi  alcun  poco  di  altra  par- 
ticolarità chiamate  dall'argomento,  e  che  invano  si  cercherebbero  nei 
patrii  scrittori.  Per  quantunque  1  Latini  studiassero  tirare  aiilo  i  lor 
viottoloni  in  sulla  piana,  come  usavano  i  Cartaginesi,  ciò  non  potea 
venir  fatto  fra  le  gibbosità  di  alpèstri  regioni,  in  cui  carpando  a 
stento,  era  d'uopo  guadagnare  l'ertezza  de' gioghi,  far  gomiti  e  fac- 
cio, ore  i  torcimenti  del  terreno  il  portavano,  e  m  que'  filari  di.  mon* 
tagne  serrate,  giù  per  le  chine  men  trarupate*  e  dirotte,  calar  nelle 
valU  e  binroni,  per  superar  di  nuovo  altre  vette.  Perciò  assai  varia 
è  la  larghezza  delle  vie  consdari  :  non  mai  d'otto  o  di  sedici  piedi  (3) , 
ma. sempre  di  gran  lunga  maggiori.  I  lati  erano  muniti  di  margini 
che  levavansrin  altezza  a  due  cubiti. 

Isidoro 'riferisce  ai  Cartaginesi  il  costume  di:  selciare,  a  lastroni  le 
vie  (4)  :  in  Italia,  a  quel  che  ne^  trovo,  quattro  strati  per  lo  più  vi 

(1)  Bii-amnis^  e  più  anticamente  Feritor  o  Feritori,  Il  Fabretti  uel  suo 
lodato  Glossario  scrive  sul  testimonio  di  Plinio  che  questo  fiume  è  in 
o^i  Lavagna!!  ìf OH  è-nuaya  l'arte  di  compor  ].ibi:i  da  libri,; seoz^  darsi 
punto  la  briga  di  per  sé  chiarire  le  cose. 

(2)  Dionig.  Halicarn,  L.  II  et  IV. 

(3)  Viae  latitudo,  ex  lege  XII  Tabularam,  in  porrectum  octo  pedes 
habet;  in  anfraotum,  idest  ubi  flexumestf  sexdecim. 

Ga^'us  in  L.  8,  ff,  de  Servii,  praed.  rust, 

(4)  Primum  Poeni  dicuntur  lapidibus  stravisse.      Isid.  De  Orig. 


PORTI  B  VIB  8TRATB  MLL'aNTICà   LIGURIA  207 

si  scorgono.' L^inferiore,  che  i  Latini  diceano  si0iuinen,è  un  ammasso  di 
sabbione  e  di  pietre  accomodato  a  snoli  sopra  un  solido  fondo  che  appel- 
layasi  gremum;  se  il  fondo  era  acquitrinoso  o  non  fermo  abbastanza, 
lo  si  rassodava  con  subliche  e  palafitte  su  cui  basatasi  il  massicciato. 
Ciò  impedia  che  il  terreno  per  intenerirsi  che  faccia,  non  ammollasse, 
n  secondo  strato  (rudus)  è  un  misto  di  scaglie  e  lapillo  legati  con  calce: 
il  terzo  (nudeus)  è  un  formato  di  cemento,  di  creta  e  di  stabbio  insiem 
pesto  e  battuto  con  pesanti  arnesi  di  ferro;  il  suolo  superiore  che 
addomandavasi  summa  emsta  o  patimentwm  componevasi  d'enormi 
lastre  di  pietre  ad  angoli  e  spicchi,  legato  con  calcistruzzo,  e  Tune 
commesse  ed  immorsato  nelle  altre  con  mirabile  dicfeiplìna  e  saldezza. 
V'avea  nen)el  mezzo  un  rialto  (affffer)  a  scolo  delVacque  piòvane. 
Tale  ci  si  mostra  TEmilia  da  Tortona  ai  Sabazj  che  tanto  ancor  oggi 
s'eleva  sulla  faccia  de'  luoghi  per  essa  percorsi.  Ciò  chiarisce  il  nome 
che  il  volgo  le  dà  di  Leeaia  o  elevata  dal  suolo  :  avvegnaché  i  Ro- 
mani usassero  innalzare  le  lor  vie  sui  circostanti  torreni,  conficcane 
dovi  tigni,  agocchie  e  fittoni,  e  afforzandone  i  lembi,  per  r^ìderle 
men  soggetto  alla  violenza  delle  acque.  V'hanno  in  Francia  strade 
romane  che  s'alzano  fino  un  venti  piedi  dal  pianò;  non  minóre  eleva- 
zione s'ebbe  al  certo  l'Emilia,  se  si  tien  conto  di  quanto  s'aderse  il 
terreno  pel  disboscamento  delle  montagne  e  l'avvallar  delle  frane. 

l 'Quattro  strati  òhe  divisavano  questo  vie  consolari,  non  si  ti0con^ 
trano  nelle  minori,  atto  ai  carri  (actt^)  e  a  soli  pedoni  (iter),  neppur 
si  riscontrano  in  quella  tratta  della  Aurelia  che  da  Lutti  mettova  a 
Tortona.  Questa  inftttti  noù  resse  al  par  dell'Emilia  all'urto  del  tempo. 

Forse  un  tal  braccio  apparteneva  a  quel  genere  di  vie  che  si  di'^ 
ceano  terrena j  perchè  non  selciato:  otveno  gla/reaim^  perchè  appena 
rispintiato  da  ghiaia  o  da  torren  sabbionoso,  anziché  di  que' larghi 
cubi  di  selce,  che  davano  alle  lor  vie  'militari  un'impronta  aflMto 
pelasgica.  In  tal  credenza  mi  salda  il  vedere  che  di  questo  decórso 
di  via,  come  più  indietro  si  disse,  non  ci  restano  che  scarsi  vestìgi, 
locchfè  ìion  incontra  delle  altre.  Né  questo  sarebbe  il  solo  caso  di  tale 
struttura.  Anche  la  via  Appia  nelle  paludi  pontine,  che  pur  fu  detta 
regina  viarum,  si  vide,  nelle  scavazioni  ivi  fatto,  difettare  in  più 
luoghi  dei  quattro  strati  anzidetti,  ed  essere  stata  soltanto  coperta 
di  ghiaia,  sebben  Cesare,  quando  era  edile,  l'abbia  rifatta  à'sue  sjiese 
e  appresso  Nerva  e  Trajano. 

Le  distanze  segnavansi  da  colonne  miliari  di  forma  tonda  o  qua- 
drata, alto  da  otto  piedi,  e  sopra  ciascuna  d'esse,  oltre  il  numero, 
delle  miglia,  leggevasi  un  M.  P.  significanti  millia passuum.  Sene 
fa  autor  Cajo  Gracco,  il  quale  inoltre  sulle  vie  fece  ^>porre  di  dieci 
in  dieci  passi  acconci  petroni,  onde  tornasse  agevole  al  viaggiatore 
il  salire  a  cavallo,  essendo  allora  ignoto  l'uso  delle  staffe  che  rodammo 


208  BIVISTA    GONTBIfPORANBA 

dai  Longobardi.  La  legge  delle  XII  Tavole  proibiva  interrare  i  ca- 
daveri entro  il  pomerio  e  nella  cerchia  delle  città  ;  perchè  lungo  le 
vie  principali,  oltre  le  case,  gli  archi,  Tedicole  e  i  tempii,  allistavansi 
con  più  frequenza  ermi,  cippi  acherontici,  urne  (1)  cinerarie,  onde 
Tepigrafe  si  spesso  ripetuta  del  —  sisie,  viator,  —  Vedeansi  lungo 
la  Poetumia  e  l'Emilia  i  sepolcreti  e  gli  apogei  delle  fan^iglie  Elia^ 
Mettia,  RwtUiay  Augurina,  VUnUana,  Poplicola,  Cicurina,  JPetroniay 
Menrda^  Plotia  ed  altre,  dai  quali  s'estrasse  quantità  egregia  di  la- 
pidi, monete,  medagJi.e  e  lumi  di  cotto.  Arrogi  i  molti  vasi  che  un 
error  radicato  fa  credere  vari  lacrimtUorii^  cioè  serbati  a  ricever  le 
lagrime  degli  afflitti  parénti  ed  amici  :  laddove  per  Topposto  non  sono 
che  anfore  d*olio  e  di  profumi  con  cui  s'ungevano  i  trapassati.  D{ 
vasi  lacrimatorii  non  una  pai'ola  abbiam  dagli  antichi.  Presso  Tor- 
tona si  rinvenne  il  sontuoso  sarcofago  di  Publio  Elio  Sabino  innal- 
zatogli dalla  di  lui  madre  Antonia  Tmffo  con  la  scritta  —  i(mo  WMmo 
este  :  nemo  immortaiis  —  non  che  le  tombe  di  Cofo  Mario,  e  Tito  Fla- 
minio morto  virtuosamente  pugnando  sul  Reno  nelle  legioni  di  Druso 
e  d'altri  non  pochi.  E  steli  sepolcral*,  e  cippi,  ed  altre  anticaglie  sif- 
fatte sterraronsi  pure  in  qiiel  tratto  dell'Emilia  che  traversa  la  Li- 
guria marittima,  massimamente  in  Àlbenga,  Taggia,  Ventimiglìa  e 
presso  Drapp  in  prossimità  del  casale  che  dicesi  Ruma.  Questo  ramo 
dell'Emilia  che  da  prima  arrestavasi  ad  Àrles,  fu  appresso  continuato 
per  Narbona,  Tarragona  e  Cartagena  infino  a  Grade. 

Ad  ogni  sbocco  o  crocicchio  di  via  sorgeva  un  tempietto  od  edi- 
cula  dioata  ai  Lari  Compitali,  ed  ivi  se  ne  celebravano  i  ludi  (2). 
Era  questo  un  rito  antichissimo  italico,  ripristinato,  al  dir  di  Ma- 
crobio,  da  Tarquinio  Superbo,  il  quale  a  Mania  o  Zara  o  Larunda^ 
madre  de'  Lari,  custodi  e  proteggitori  de'  campi  (3j,  scannò  parecchi 
fanciulli,  il  che  mostra  come  i  sacrifizii  cruent:  non  fossero  ignoti  in 
Italia.  Appresso  alle  vittime  umane  sostituironsi  bulbi  d'aglio  e  papa- 
veri. Augusto  d'una  annoval  festa  con  che  si  propiziavano  i  Lari, 
due  ne  prescrisse,  l'una  alle  calende  di  maggio  e  Taltra  a  quelle  di 
giugno,  ordinando  che  le  loro  immagini  fossero  sempre  ornate  di 
fiori  (4). 

(1)  In  agris  sepulcra  fuisse  juxta  militares  et  publicas  vias  in  quibus 
cadavera,  ac  si  cremata  essent,  cineres  ponebant.  Pìnt,  Aer.  Roman, 

(2)  Compitalia  (ubi  viae  competuni). 

(3)  Vos  quoque  felicis  quondam,  nunc  pauperis  agri 

Custodes,  fertis  munera  vestra,  Lares. 

Tihul  lib.  I. 

(4)  Lares  ornare  bis  in  anno  instituit  vernis 
Floribus  et  aestivis. 

Svet.  Vii.  Aug.  cap.  31. 


POBTI  R  TIR  8TRÀTB  DILL^ANTIGA  UetTRU  209 

CSentro  di  tutte  le  grandi  vie  eh'ò  &ina  corresaero  oltre  a  cento- 
mila miglia,  nella  baiBea  Italia  fu  Roma,  nella  settentrionale,  Milano 
ed  in  parte  anche  Modena,  ove  facean  capo  la  Flaminia,  TAurelia  e 
la  Cassia  (1).  Boma  che  Ateneo  nomò  eompiudio  ieWwimerso^  per 
maglio  imperiare  sopra  le  genti,  volle  a  aò  avvicinarle  con  fwcjM  co- 
municasioni,  improntandole  sul  primo  della  gagliarda  sua  vita  e 
appresso  infiacchendole  co*  suoi  rotti  costumi.  Non  v'ebbe  città  d^ 
qualche  momento  che  non  ne  sentisse  le  potenti  influenze,  dalla  Bri. 
tannia  all'Euftttte,  dall'Atlante  alla  Scizia  ;  avvegnaché  non  manco 
di  quarantotto  ampie  vie  nella  sola  Italia  per  la  tratta  di  tremila 
leghe  corressero  da  Boma  a  Brindisi,  Beggio,  Aquileja,  Verona, 
Como,  Aosta,  Nizza  e  le  Alpi.  Nove  n'ebbe  pur  la  Sicilia,  che  in 
0^  n'è  priva  :  sei  la  Sardegna,  una  la  Corsica.  Sul  primo  queste 
vie,  del  pari  che  i  boschi  comunali,  davansi  in  cura  a'  censori  e  a'  tri- 
buni ;  da  seaqaK)  si  delegò  tal  officio  ad  uno  speciale  maestrato  che 
addomandavasi  mur$i9r  reipMice  ed  anche  ìegiiHy  assistito  da  una 
dieta  di  savii. 

19.  —  L'epoca  deUit  l<Hro  rovina  c'è  affatto  ignota.  Volendo  awen- 
ti^rare  qualche  probabile  oonjettura,  non  possiamo  obbliare  che 
l'Emilia^  la  quale  più  d'ogni  altra  serba  i  caratteri  che  i  Bomani  im- 
prontavano ne'lor  monumenti,  sussisteva  ancora  pressoché  intatta 
da  Tortona  ai  Sabazii  nel  secolo  XIII;  e  per  vero  sappiamo  che 
intomo  il  1282,  dovendo  la  signoria  genovese  costrurre  cinquanta 
galere,  ne  toglieva  il  legname  sul  monte  Ursale  nella  terra  di  Pa- 
reto, facendolo  traghettare  in  Savona.  Niun  sentiero  o  ricisa,  dal- 
l'Emilia  in  fuori,  costeggia  tal  selva:  ond'é  che  il  legname  non  po- 
teva carreggiarsi  in  verun  altro  modo. 

Quanto  alla  Postumia,  detta  nei  tempi  di   mezzo  Sirata  vMi^ 
Scrifim,  perché  dall' Apennino  a  Serravalle  lambiva  la  Scrivia,  ninno 
può  al  certo  ignorare  come  allora  fosse  in  gran  fiore,  dovendo  neces- 
sariamente accalcarvisi  quanto  ben  forestiero  andava  da  Genova  ai 
transalpini.  Essa  toccava  Asti,  che  fra  tutte  le  città  del  Piemonte 
aveva  il  primato  per  copia  di  ricchezze  e  vivezza  di  traffici,  a  tale,  che 
al  tempo  della  cattività  di  Tomaso  di  Savoia,  la  Francia  per  rappre- 
saglia sequestrava  nelle  sue  banche  otto  centinaia  di  lire  astesi,  che 
rispondono  a  meglio  di  otto  milioni  di  franchi.  Da  questa  città  le 
mercatanzie  genovesi  tragittavansi  al  Moncenisìo  per  tre  punti  diversi. 
Il  primo  d'essi  uscendo  dalla  attuai  porta  di  S.  Antonio  piegava  a 
mancina  verso  la  chiesa  degli  Apostoli  ;  a  Bavigpiano,  fatto  un  angolo 
retto,  tirava  a  destra  per  la  cresta  d'un  monticulo  detto  il  Cappèllo  e 

(1)  Tres  vite  sunt  ad  Mutinam  ....  a  supero  mari . 

Flaminia:  ab  infero,  Aurelia:  medio,  Cassia. 

Cicer.  Thilipp.  Xll,  ». 

SJMita  C.  - 14 


210  RIVISTA  CONTBMPORÀNBA 

trascorrea  fra  Baldicbierì,  Grambetta  e  Bellotto  a  sinistra  di  Villa- 
franca:  quindi  volgendo  a  settentrione  fra  Sobrito  e  S.  Paolo,  ve- 
niva a  Dusino  (a  duodecimo  lapide)  e  solcando  il  piano  di  Buttigliera 
e  Riva  metteva  a  Chieri,  Torino  e  Rivoli. 

La  seconda  via,  lasciata  Àsti  alle  spalle,  penetrava  in  vai  di  Ri- 
late, nomata  già  di  Giovenale,  e  per  la  regione  di  Terzo  {tertius  lapis) 
correva  a  Settime  {septimum  lapidem)  e  per  Montecliiaro,  Cocconato, 
Castagneto,  San  Raffaele  e  Castiglione  riuscia  parimente  a  Torino  ed 
a  Rivoli.  Più  usata  peraltro  era  la  via  che  pervenuta  a  Tortona 
varcava  il  ponte  de'  cavalieri  del  Tempio  e  a  circa  due  miglia  al  me- 
riggio di  Torino  piegava  a  Rivoli  e  Val  di  Susa.  Di  che  dolca  forte 
ai  Torinesi,  nel  cui  territorio  fin  da  tempi  antichissimi  era  il  sdltus 
Taurinontmj  cioè  il  passaggio  oltremonti.  Fin  dal  1111  privilegia- 
vali  Arrigo  V  con  la  concessione  della  via  romana  (1),  che  dalla 
loro  città  mettea  nella  Gallia,  in  un  colla  balla  sui  mercatanti  e  via- 
tori che  la  pervagavano,  e  vedeansi  perciò  vedovati  dei  grassi  proventi 
del  pedaggio  e  dei  balzelli  che  le  mercatanzie  liguri  dovean  pagare 
alle  porte  della  loro  città.  Ond'è  ch'entrarono  in  lega  con  Andrea 
Delfino  viennese,  il  quale  signoreggiava  le  valli  di  Oubc  e  della  Pe- 
rosa  (13  luglio  1226)  statuendo  dovesse  egli  contendere  il  passo  ai 
Genovesi  ed  Astigiani,  che  non  facessero  la  via  per  Tortona,  Torino 
e  Pinerolo. 

Se  la  Postumia  serbavasi  pressoché  intera,  l'Aurelia  da  Luni  a 
Tortona  è  affatto  perduta.  I  guasti  in  essa  avvenuti  per  la  sua  men 
salda  struttura,  come  già  avvisammo,  fur  tali,  che  fin  dal  v  secolo 
persuasero  Rutilio  Numaziano  reduce  in  Francia  da  Roma  a  non 
avventurarsi  a  quel  difficil  tragitto.  Il  poeta  giunto  a  Pisa  in  com- 
pagnia di  Palladio  (anno  di  Cristo  421),  visitò  il  simulacro  ivi  eretto 
a  suo  padre  Lacanio  già  rettore  della  Toscana  e  ne  udi  popolarmente 
le  lodi  ;  ma  funestato  all'aspetto  dei  visigotici  disertamenti  e  impos- 
sibilitato a  tener  la  via  Aurelia  già  intransitabile,  s'affidò  al  mare  (2). 
Allora  al  nome  d' Aurelia  sostituivasi  quello  di  Claudia  e  appresso 
s'ebbe  altri  nomi;  come  di  MofUe  Bardone,  Frandgena,  Francesca^ 
Romeay  lombarda  e  Pontremolese.  Per  l'alpe  di  Bardone  guidò  re  Gri- 
moaldo  nel  669  i  Longobardi  in  Toscana:  la  percorse  nell'895  Arnolfo 
re  d'Alemagna,  chiamato  all'impero  da  papa  Formoso,  e  un  anno 
appresso  il  Marchese  di  Toscana,  che  il  re  Lamberto  sconfisse;  nel 

(1)  Monum.  Hist.  patr.  Chartar,  1 ,  737. 

(3)  Electum  pelagus,  quoniam  terrena  viarum 

Piena  madent  fluviis,  cautibus  alta  rig^nt. 
Postquam  Tuscus  ager,  postquam  Aurelius  agger 
Perpessus  Geticas  anse  vel  igne  manus. 

Rut.  Num.  Itiner,  L.  I. 


POBTI  B  VIB  STBàTB  DELL* ANTICA  LIOUBIA  211 

1100  tenne  la  via  di  Pontremoli  Timperatore  Arrigo  IV,  e  ventanni 
dopo  papa  Calisto:  nel  1133  Lotario  re  d'Italia  e  Innocenzo  II  tras- 
sero dopo  la  dieta  di  Roncaglia  per  queste  balze  alla  volta  di  Roma. 
Non  dirò  degli  altri  illustri  personaggi  che  vi  transitarono,  come  Fe- 
derigo I  che  nel  1167  trovando  assiepato  ogni  passo  (1)  potè  a  fatica 
cogli  aiuti  d'Obizzo  Malaspina,  fra  incomodi  e  disagi  d'ogni  ra- 
gione, calare  a  Tortona  :  e  Federigo  II,  Corradino  di  Svevia,  Lodo- 
vico il  Bavaro,  Luchino  Visconti,  Carlo  Vili  e  tanti  altri  (2).  Il  nome 
di  Xomea  le  venne  dair essere  questa  la  sola  via  che  dopo  il  x  secolo 
tenevano  i  pellegrini,  i  quali  dal  settentrione  conducevansi  a  Roma 
ed  in  Palestina. 

Quando  al  primo  albeggiare  delle  libertà  municipali,  i  nostri  Co- 
muni gelosi  delle  proprie  franchigie,  più  non  videro  nei  loro  vicini 
che  altrettanti  nemici  <^  sterminarsi,  ognun  d'essi  intese  ad  isolarsi 
non  solo,  ma  a  porsi  anche  allo  schermo  dalF aggressione  dei  loro 
contermini.  Gran  parte  della  difesa  stava  appunto  nelFabbarrare  i 
passi  e  rendere  impervie  al  nemico  le  proprie  terre  :  quindi  le  strade 
si  manomisero,  onde  difficoltare  ogni  facile  accesso  o  sorpresa.  Arrogi 
la  micidial  guerra  che  per  ben  dieci  anni  esercitarono  Federigo  II  e 
i  Pisani  (1241)  contro  il  Comune  di  Genova,  seme  d'un  odio  che  non 
perdonava  neppur  coli' intera  disfatta  de' vinti,  e  che  maturava  larga 
messe  di  sventure  all'Italia.  Ben  due  fiate  i  nemici  col  nerbo  di  grosse 
ed  ordinate  milizie  penetrarono  col  ferro  e  col  fuoco  nel  cuore  della 
Liguria  per  istringersi  addosso  alla  città ,  la  quale  deserta  dai  popoli 
a  lei  soggetti,  altro  scampo  no)i  vide  che  scassinar  le  vie  che  a  lei 
davano,  asserragliare  i  contorni  e  francheggiarsi  di  quell'usbergo  di 
monti,  onde  l'attorniava  natura.  Questo  disperato  consiglio  sorti  a 
prospero  rìuscimento  di  cose  :  i  nemici  ritentarono  gli  aditi  antichi, 
ma  i  passi  resi  difficili  e  scabri  più  non  consentivano  il  varco  agli 

(1)  Apud  Pontremolum  divertit  a  publica  strata. 

Cardio .  Aragon.  In  vit.  Alexand.  III. 

(2)  Un  itinerario  del  1154,  opera  di  Nicolò  abate  Tragotense,  indica  il 
nome  d'alcune  borgate  fra  il  tratto  di  Piacenza  e  Luni.  «  A  Placentia, 
egli  scrive,  versus  austrum  diei  itinere  attingitur  Burgus  S.  Donnini. 
Has  inter  hospitium  extat  Erici.  Attingitnr  tura  flumen  Tarus  ingens  et 
parum,  quod  numquam  contaminatur  aut  miscetur,  omnis  enim  sordes 
ipsi  immissa  fundum  illieo  petit.  Uuic  ab  austro  est  vicus  Tari.  Trans- 
eundus  tum  mons  Bardonis.  Longobardìa  dicitur  regio  a  monte  Bardonis 

versus  austrum,   ad  alpes  versus  septentrionem  se  porri  gens Est  in 

monte  Bardonis  Crucis  emporium  (le  Cento  Croci),  et  villa  Francorum, 
tum  Pontremulus,  inde  iter  diei  ad  convivium  Mariae.  Inde  urbs  Luna , 
apud  quam  arenae  lunenses.  Decem  milliarum  itinere  transeundae  sunt 
hae  arenae  amoenae ,  burgis  undique  circumdatae  :  illic  latus  patet  pro- 
spectus.  Inter  Mariae  convivium  Lunamque.jacent  burgus  Stephani  (borgo 
S.  Stefano)  et  burgus  Mariae  (Sarzana)  ». 


212  RIVISTA  CX)NTBlfPORANBA 

eserciti.  Così  vennero  manco  le  grandi  vie  militari ,  e  a  breve  andare 
se.  ne  cancellavano  appieno  le  traccio.  E  per  vero  da  quel  secolo  in 
poi,  più  non  t'occorre  ne*  lig^uri  annali  alcun  cenno  di  cavalleria  geno- 
vese, che  pur  ne'  primordii  della  repubblica,  seguendo  i  fulgóri  su- 
perstiti della  tradizione  latina,  s' insti tui va  sulla  foggio  dett'<^iaA 
equestre  di  Roma.  Nel  secolo  dell'Alighieri,  la  Liguria  non  aerbava 
che  scarse  vestigia  dell'antiche  sue  vie,  e  i  sentieri  che  usavansi 
erano  di  tal  fortezza  ed  asperità ,  che  il  poeta  fraffrontandoli  alla 
roccia  die  dovea  salir  con  Virgilio,  cantava  : 

Tra  Lerici  e  TurUa  la  pii  diserta 
La  pii^  romita  via  è  una  scala 
Verso  di  quella  agevole  e  aperta  (1). 

Il  Petrarca  rammentava  a  sua  volta  —  isrrestrem  duritiemù$tér 
tìfusticos  seopulos  (2).  La  Liguria  tuffata  nei  negozii  marittimi 
dispettò  le  cose  terrestri ,  ma  le  nuove  e  vergini  vie  che  s'^iorae 
sui  flutti,  le  diedero  il  dominio  de*  mari,  e  aggiunsero  all'antico  un 
nuovo  emisfero. 

Eiff.  Gbimu. 


(1)  Dani.  Pwrgra^,  Canto  111. 

(2)  Petrarca.  Epitt.  famil,  L.  V,  3. 


213 


ST^ll  STORICI  E  AWIINISTRiTIVI 

I. 

DELLO  STATO,  DBfiLI  ORDINI  K  DBLLB  LEGGI  DI  TOSCANA 

NEL  4849 


I.  ivferteofi.  —  II.  Vife  Totcana  fri  i  rotUmi  di  tutu  i  tempi,  di  tulU  i  regni  —  IH.  Dal 
Medici.  —  Vf.  Di  Francesco  di  Lorena.  —  V.  Di  Leopoldo  I.  —  VI.  Di  Ferdinando  III. 
^TfiL  DeiBoi^nidi.  —  THI.  Dell'Elisa.  — IX.  Ristauro  del  quattordici.  —  X.  Di  Leo- 
poldo II,  uUimo  dei  GranducbI.  —  XI.  Leggi  civili.  —  XII.  Leggi  criminali.  —  XIII. 
Leggi  commerciali  e  militari.  —  XIV.  Leggi  di  procedura.  —  XV.  De'  tribunali.  — 
IVI.  Leggi  di  Lucca.  —  XVII.  Della  giustizia  amministrativa.  —  XVIU.  DelU  giustizia 
eeoBODiea. ,—  XIX.  Dell' Ammialstrazione  —  Comuni.  —  XX.  Distretti.  —  XXI.  Circon- 
darli —  Cempartimenti.  —  XXn.  Stato.  —  XXUI.  De'  Mlnlstrt  e  del  Consiglio  di  SUto- 
—  XXIV.  Condizioni  della  Finanza.  —  XXV.  Rendite  e  dispendll.  —  XXVI.  Riflessi 
ioUe  rendite  e  sui  dUpendiU  —  XXVU.  Degli  ordini  della  Finanza.  -  XXVIII.  Epilogo. 
—XXIX.  Leggi  sugli  acquUU  deUa  Chiesa.  —  XXI.  Loro  vicende.  —  XXXI.  Beni  della 
Chiesa  nel  quarantanove.  ~-  XXXII.  Istruzione  dei  chierici.  —  XXXIII.  Giurisdizione 
e  leggi  ecclesiastiche.  ~  XXXIV.  Dei  concordati  con  Roma.  ~  XXXV.  Della  istruzione 
pabbUca.—  XXXVI.  DeUa  stampa.  —XX  XVII.  Dell'esercito.  —  XXXVUL  DeHa  marina. 
XXXIX.  De'  tratUU.  —  XL.  Commercio  e  Industria.  XLI.  Livorno.  ^  XLIL  Contra- 
rietà dell'industria  e  commercio  toscano.  —  XLIII.  Dell'agricoltura.  —  XLIV.  Della 


(  continmziùne  ejlne  *  ) 

XXIX.  ^«  Alla  povertà  dei  Comuni  e  dello  Stato,  fitcea  contrasto 
Topulenza  della  Chiesa,  smisurata,  contennenda,  sebbene  antiche 
leggi  avessero  vfetato  che  nelle  larghe  bisaccie  del  clero  andasse  poco 
pet  volta  a  caseare  tutto  il  bene  degli  altri  uomini.  Già  Io  statuto 
fiorentino  del  1415  avea  limitato  la  facoltà  di  nuovi  acquisti  :  ma  poi 
il  volere  di  Martino  V,  l'arrendevolezza  de'capi  della  repubblica,  vi 

(*)  Vedi  nel  Fascicolo  precedente,  la  lettera  a  G.  Finali  e  la  prima  parte 
di  questo  scritto. 


214  EIVISTA   CONTEMPOBANBA 

tolsero  ogni  riparo  (114).  Ugual  divieto  era  in  quel  di  Siena  (115) 
a  Montemerano  fino  dal  1489:  Cosimo  I  lo  mantenne  :  Ferdinando  I 
lo  confermò  per  publico  bando  (116)  :  anche  Pistoia  nel  1593  se  ne 
fece  forte  a  vincere  Tingordigia  de'frati  e  preti,  che  ove  non  erano 
impedimenti,  invadeano  ogni  terreno.  Più  della  repubblica  i  Medici, 
più  de'Medici  i  Lorenesi,  furono  vogliosi,  siccome  il  lume  della  ci- 
viltà portava,  di  por  riparo  a  quella  sete  insaziabile  de'beni  altrui 
onde  veniva  ingiuria  alla  religione  ed  allo  Stato,  da  quelli  che  di 
sudditi  e  membri,  voleano  divenirne  compratori  e  signori.  E  fino  al 
quarantanove  eransi  mantenute  le  leggi  che  da  Leopoldo  ebbero  il 
nome,  e  ne  lo  ricambiarono  di  gloria,  le  quali  limitavano  gli  acquisti 
della  Chiesa,  governavano  i  beni  e  le  persone  dei  chierici  :  parte 
migliore  della  legislazione  toscana,  e  la  migliore  che  in  tali  materie 
vigesse  in  Italia.  Ma  poiché,  la  Chiesa  è  tanta  parte  della  fortuna 
pubblica,  de'mali,  dei  beni  degli  Stati,  e  causa  prima  della  povertà 
e  servitù  della  penisola,  stimo  ritrarne  le  condizioni  e  i  rapporti 
suoi  con  lo  Stato,  discorrendo  le  leggi  che  le  tolsero  i  privilegi, 
parte  dei  beni,  e  se  non  disfecero  le  usurpazioni  del  passato,  limi- 
tavano quelle  a  venire. 

Agli  acquisti  della  Chiesa  provvedevano  due  leggi  del  secolo 
scorso  (117):  la  prima  in  quindici  articoli:  questo  ne  è  il  succo:  la 
conservazione  della  ricchezza  pubblica  persuadere  di  porre  limiti  al 
passaggio  de'beni  nelle  manimorte  :  quindi  ogni  atto  che  in  esse 
trasferisse  dominio  o  possesso  di  beni  di  qualsivoglia  indole  e  specie, 
per  di  più  di  cento  zecchini,  fosse  nullo,  se  non  avvalorato  dall'as- 
senso del  principe.  Nelle  manimorte ,  così  dette  perchè  prendono  e 
non  rendono  e  ritengono  con  tenacità  meravigliosa,  erano  compresi 
i  corpi  morali,  le  università  ecclesiastiche ,  laicali  e  miste:  ninna 
legge  fu  mai  cosi  ampia  :  parve  soverchia,  ed  era  scarsa  :  soverchia, 
perchè  faceva  un  fascio  delle  comunità,  de'luoghi  pii  laici  od  ec- 
clesiastici ,  e  toglieva  agli  abitatori  de*conventi  ogni  diritto  a  rice- 
vere cosa  alcuna  dalle  loro  famiglie  ;  scarsa  poi ,  perchè  non  pre- 
vedea  né  riparava  le  astuzie  e  frodi ,  di  cui  furono  in  og^ni  età 
maestri  i  chierici ,  a  eludere  le  leggi,  torre  a'principi  la  potenza, 
agli  Stati  il  sangue ,  cioè  la  fortuna.  La  seconda  di  quelle  leggi, 
valeva  alla  prima  di  interpretazione  e  aggiunta  :  distingueva  im- 
plicitamente le  corporazioni  laiche  dalle  ecclesiastiche,  favoriva  le 
prime,  inseveriva  contro  le   seconde   che   eludessero  la  legge:  di- 

(114)  Decr.  19  maggio  1427  nella  Raccolta  di  leggi  e  statuti  relativi  alle 
manimorte,  di  A.  F.  Adami.  Venezia  1767. 

(115)  F.  Raccolta  suddetta. 

(116)  31  maggio  1592.  Vedi  Raccolta  suddetta. 

(117)  Leggi  li  marzo  1751  —2  marzo  1769. 


STUOn  STOBICX  fi  AilMlNISTRATIVI  2l6 

ceva  civilmente  morti  i  regolari  professi  :   gli  concedeva  solo  rice- 
vere legati,  fino  a  cinquanta  zecchini  di  contante,  dai  parenti  pros- 
simi ,  e  serbare  ,  nell'atto  che  professano  voti ,  una  rendita  di  ugual 
somma:  vietato  ai  secolari  Tufficio  dì  eredi  fìduciarii,  esecutori  delle 
volontà  altrui,  amministratori  di  chicchessia:  —  un'altra  legge  (118) 
gli  permise  poi  la  tutela  dei  pupilli ,  ed  eseguire  le  \iltime  volontà 
dei  congiunti  :  —  la  facoltà  di  testare  in  prò  d'istituti  laici  cosi  cor- 
retta :  a  chi  avesse  agnati  o  cognati  fino  al  terzo  grado  di  paren- 
tela, conceduto  il  lasciare  a  luoghi  pii  un  ventesimo  de'proprii  beni  : 
tutti  s'ei  non  avesse  parenti:   purché  in  ambo  i  casi  il  dono  non 
superasse  i  cinquecento  scudi.  A  ridurre  il  numero  dei  beneficii,  era 
disposto  che  per  dei  nuovi  dovesse  richiedersi  la  grazia  del  prin- 
cipe, ed  ei  l'avrebbe  concessa  sol  quando  lo  reputasse  convenevole. 
—  Queste  leggi  ricordano  i  nomi  del  Rucellai  e  dell'Alberti  che  le 
distesero,  le  scomimiche  da  Roma  minacciate  al  principe  che  le  fece 
sue,  i  piagnistei  e  le  maledizioni  del  clero,  l'ire  invelenite  de'retrivi. 
XXX.  —  Ma  se  la  ragione  dello  Stato,  il  lustro  della  religione, 
i  vincoli  del  sangue,  la  fortuna  dei  più,  aveano  conforto  da  quelle 
leggi,  intese  a  porre  argine  alla  piena  che  minacciava  travolgere 
e  inghiottire  la  ricchezza  pubblica,  nondimeno  più  avea  potuto  la 
tenacità  dei  chierici  a  serbare  gli  acquisti  che  non  il  poter  civile 
a  strapparli  ;  più  l'astuzie  de'chierici  ad  accrescerli,  che  non  il  vigor 
della  legge  a  limitarli.   E   neppure  venne  mai  dato   conoscere  a 
quanto  ammontassero,  meno  in  questi    ultimi  anni  in  cui  furono 
accatastati  gli  immobili:  della  ricchezza  mobile,  niun  computo.  Nel 
secol  scorso  erano  in  Toscana  venti  diocesi,  ventisette  mila  eccle- 
siastici, trenta  per  mille  abitanti  (119):  povero  e  questuante  il  clero 
secolare,  pingue  a  dismisura  il  regolare,  insulto  alla  miseria  pub- 
blica. Immuni  da  tributi,  le  proprietà  del  clero  sfuggivano  ai  cal- 
coli: le  querele  dei  laici,  le  contrizioni  e  le  menzogne  dei  chierici, 
norme  ugualmente  fallaci  per  cogliere  il  vero.  Nel  1737  (120),  im- 
posto loro   un  primo  tributo  —  trentadue  mila  scudi  —  aveano 
gridato  allo  scandalo,  al  sacrilegio:  ma  le  confessioni  loro  sebben 
menzognere ,  rivelarono  una  rendita  di  oltre  un  milione  e  cento 
mila  scudi,  da  beni  rustici  e  urbani,  esclusi  quei  de'cardinali ,  del 
sant'Ufficio,  dell'ordine  di  Malta,  e  i  beneficii  con  cure  d'anime,  e 
i  beneficii  vacanti:  cifra  quasi  uguale  a  quella  che  tutto  lo  Stato 


(H8)  Legge  9  ottobre  1788. 

(119)  Notizie  censuarie  del  1765  astratte  dagli  stati  dell'anime,  esistenti 
nella  filza  236  deirarchivio  della  Reggenza.  Le  riporta  lo  Zobi,  Storia 
Civile j  fra  Documenti. 

(120)  Bando  5  agosto  1737. 


216  BIYISTA  CONTEMPORANIU 

prodttceva  alla  finanza  (121)  :  ed  ancora  assai  lùitgi  dal  vero.  Tredici 
anni  dopo,  accurate  indagini  scoprirono  una  massa  di  beni  immo- 
bili e  fruttiferi  per  oltre  venticinque  milioni  di  scudi.  E  neppur 
questa  cifra  colse  il  segno. 

Varie  le  vicende  di  que'beni.  La  soppressione  dei  gesuiti  (122) 
fece  sparire  di  Toscana  dieci  collegi,  centreirtasei  individui,  due 
milioni  e  più  di  valori  :  restituì  alla  fortuna  pubblica  tanti  beni, 
per  ventimila  scudi  annui  (128)  :  picciol  vena  per  tante  aeque  che 
stagnavano.  La  mira  di  tarpare  una  potenaa  che  s'ascoiidea  e  mol- 
tiplicava nell'ombra  ,  suggerì  il  sottoporla  a  pubblici  pesi  (124)  ; 
favorire  il  passaggio  dei  beni  dalle  mani  morte  alle  vive,  mercè 
l'enfiteusi  (125)  costringere  taluna  corporazione  ad  alienare  in  quella 
guisa  i  suoi  beni;  abolir  le  decime;  vietar  le  questue;  sopjHrimare 
qua  e  là  confraternite,  abazie,  conventi,  fino  a  centocinquanta  ;  i 
loro  beni  alienare  per  oltre  tre  milioni  di  scudi  ;  soccorrere  con  emì 
11  clero  secolare.  —  Così  provvedendo  còl  soverchio  degli  uni  al 
necessario  degli  altri,  tornarono  al  secolo  beni  stagnanti  da  secoli. 
Opera  questa  incompiuta,  poi  martellata  dalle  mani  stesse  che 
aveanla  cominciata  ;  perchè  dei  conventi  disciolti  o  dissanguati,  al- 
cuni vennero  poco  dopo  restituiti ,  altri  straricchiti.  3olo  il  tur- 
bine che  nel  cominciare  del  secolo  infuriò  dalla  Francia  (126),  fece 
uguale  giustizia  di  tutti,  gettando  a  terra  conventi  d'ogni  ordine, 
sesso  e  colore  :  i  beni,  niuno  escluso,  riunì  a  quelli  dello  Stato:  onde 
colmarono  il  debito  pubblico,  confortarono  il  credito  e  la  pubblica 
fortuna.  Nemmeno  allora  si  conobbe  a  quanto  ascendessero  quei 
beni  :  certo  è  aolo  che  oltre  a  tredici  milioni  di  franchi,  pr(q;>rietà 
della  Chiesa,  isoritti  nel  gran  libro,  vennero  cancellati  (127)  ;  degli 
immobili  nessuna  stima  o  calcolo. 

XXXI.  -*-  Naufragata  nell'otto  la  fortuna  della  Chiesa,  era  tor- 
nata a  galla  nel  quattordici.  Ristabiliti  gli  ordini  religiosi,  grandis- 
sima parte  degli  antichi  beni  venne  loro  resa,  per  quasi  quarantadue 
milioni  di  lire:  altri  s'obbligò  rendere  lo  Stato,  e  pagarne  intanto 

(121)  Alla  morte  di  Gisngastone,  la  rendita  della  finanza  ascendeva  a 
1,314,000  scudi. 

(122)  Leopoldo  I,  il  28  agosto  1773  diede  Vexequatur  alla  Bolla  di  Cle- 
mente XIV,  21  luglio  1773  :  fu  il  più  sollecito  de'  regnanti. 

(123)  Queste  notizie  sono  date  dallo  Zobi,  Mannaie,  p.  174;  e  secondo 
egli  narra,  estratte  da  una  cronacbetta  ed  altre  carte  che  si  conservano 
neirarchivio  dell'arcispedale  di  S.  Maria  Nuova  di  Firenze. 

(124)  Legge  28  marzo  1770. 

(125)  »      20  dicembre  1769. 

(126)  i      24  marzo  1808. 

(127)  »       9  aprile  1809. 


STUDn  8T0BI0I  B  àJocnotìnLLTin  217 

i  fhrtti.  Coel  la  Chiesa  possedè  intorno  a  duecento  milioni  (1S8)^ 
sensa  tener  calcolo  degli  edificii  destinati  al  culto  o  ad  abitaaeni 
dei  preti.  Ha  d'allora  in  fino  al  quarantanove,  le  migUc^e  dei  bèni, 
li  nuoyi  acquisti  permessi  dal  GoTemo,  le  elemosine  dei  derotiy  i  iOc« 
corsi  della  stessa  finanza,  a  parroci ,  a  mense  ,  a  monasteri,  areano 
anco  aecresciuto  la  fortuna  della  Chiesa:  alla  ingordigia  dé'èbiefici, 
alla  cdposa  eonniyenza  del  Governo,  debol  riparo  le  leggi  del  secolo 
scorso. 

B  perciò  correndo  Tanno  quarantanove,  questi  erano  i  beni  delle 
manimorte  ;  la  superficie  loro  oltre  cinquecento  mila  quadrati,,  cioè 
un  dodicesimo  di  tutto  Io  Stato  (129):  la  rendita  imponibile  oltre  tre  mi" 
lioni  di  lire,  cioè  un  quattordicesimo  della  ricchezza  territoriale:  venti 
diocesi,  duemila  seicento  diciotto  parrocchie,  trecento  dodici  oonrenli, 
diciassettemila  ecclesiaiici,  sopra  un  milione  ed  ottocentomila  abitanti, 
dieci  per  mille  (130)  ;  la  rendita  imponibile  dei  laici  ventisette  lirv  m 
capo;  quella  degli  ecclesiastici  centoseesantasei.  I  valori  moUH,  i 
canoBù  liveliarii,  .i  frutti  de'  censi,  le  sovvenzioni  dei  devoti  ^  t  soo-* 
cotsi  delle  Stato  y  ornai  tributario  della  Chiesa  per  quasi  quattro^ 
centomila  lire  annue  (131),  sommavano  ad  altrettante  (132). 

Altre  laanimorte  erano  i  beni  dell'ordine  di  Santo  Stefimo;  Io 
istituì  Cosimo  I  a  celebrare  le  dis&tte  d^li  insorti  (133)  :  sparve  in- 
sieme ai  beni,  nel  cominciar  del  secolo  :  rivisse  nel  quattordici  :  fu 
dotato  di  cinquantamila  scudi  di  rendita:  da  allora  al  quarantanove^ 


(128)  Notevole  fu  questa  risposta  di  Ferdinando  III  ai  gemiti  che  il  Pon- 
tefice traeva  dalla  povertà  della  Chiesa  :  f  Mi  feci  render  conto  dei  pàtri- 
ff  monio  che  rimane  tuttora  ad  essa  nel  mio  granducato,  e  seppi  ehe  mai- 
«  grado  ìawertUà  dei  postati  tempii  ascende  all'incirca  a  una  rendila  di 
fl  quattro  milioni  e  mezzo  di  lire,  non  valutati  i  seminarii,  le  congregs- 
f  zioni,  le  opere  ed  altre  cause  pie,  né  l'aumento  che  avverrà  in  quel 
«  patrimonio  per  la  restituzione  dei  beni  al  clero  regolare...  Onde  la  Santità 
ff  vostra  vede  chiaro  quanto  viene  ad  accrescersi  il  fondo  capitale  tpet- 
e  tante  alla  Chiesa,  il  quale  oggi  ammonta  presso  a  poco  a  duecento  mi- 
•  lioni  di  lire  ».  Lettera  di  Ferdinando  IH  a  Pio  VII  in  data  30  agosto  1815. 

(129)  Risultanze  catastali:  Sopra  6,253,120  di  quadrati  imponibili,  ap- 
partengono alla  Causa  Pia  ben  519,561.  Vedi  Rapporto  stUr operazione  ca- 
tastale  dei  90  novembre  1834  di  Inghirami,  Paoli  e  Lapo  de'  Ricci.  Zobi 
ìicBhuale  p.  974. 

(190)  V.  Zaccagni  Orlandini  BÀcerche  statistiche  sulla  Toscana,  t.  1, 
Firease,  1851. 

(131)  V.  Rendiconto  della  Finanza  Toscana  per  gli  anni  184S49-50  Cai. 
Spese t  tit.  9,  Prospetto  viu. 

(192)  Aggiungasi  che  ndll'ex-ducato  di  Lucca,  ov'era  tm  catasto  divétta 
da  quello  di  Toscana,  i  beni  ecclesìAstici  eraao  esenti  dai  trìtmti. 

(193)  Qu^le  di  Montemurlo  1537  e  di  Scannagallol554,  ambe  oombai* 
tute  il  2  agosto,  giorno  di  santo  Stefano. 


218  BIVISTA  CONTEMPOBANEA 

ne  avea  acquistato  oltre  un  milione  e  mezzo,  per  commende  istituite 
da  privati,  in  prò  delle  loro  discendenze,  poi  dell' ordine.  Resto  di  feu- 
dalità In  pieno  secolo  decimonono,  nella  sostanza  veri  fìdecommissi, 
nella  forma  un'ingiuria  alla  legge  che  li  proibì,  e  a  quelle  che  limi- 
tavano gli  acquisti  delle  manimorte. 

XXXII.  —  E  nemmeno  potea  perdonarsi  alla  Chiesa  quel  gran 
cumulo  di  beni,  avuto  riguardo  al  loro  uso,  o  alla  istruzione  che 
dai  conventi  si  diffondesse  nelF intorno.  Erano  ben  lungi  le  tenebre 
di  quei  tempi,  in  cui  la  Chiesa  parve  l'arca  santa  intesa  a  serbare 
documento  della  sapienza  antica ,  ed  alla  ragione  de'muscoli  op* 
poneva  il  lume  della  civiltà ,  riparata  in  quegli  asili  di  quiete 
dalle  ingiurie  de' tempi.  Ambo  i  cleri  ora  erano  piuttosto  di  malo 
esempio  ai  laici,  che  di  aiuto  negli  studii.  Gli  studii  dei  chierici  ne- 
gletti, dammeno  di  quanto  la  civiltà  del  secolo  e  l'ufficio  loro  con- 
sente. Il  loro  numero  soverchio^  Ma  pochi  ottenevano  istruzione 
ne'  seminari!,  e  quei  pochi  scarsa  e  ripiena  di  pregiudizi!  :  i  più , 
qua  e  là  coglievano  un  po'  di  latino ,  qualche  dogma  ,  qualche 
sentenza  de'  santi  padri,  tanto  da  sciorre  i  quesiti,  pei  quali  vestir 
l'ordine  sacro,  buscare  un  ufficio,  scalare  una  cura.  Allora  agli  studii 
addio  per  sempre  :  .pochissimi  i  loro  libri  e  quei  pochi,  tutto  Tanno 
polverosi  o  preda  de' topi,  incuria  degna  di  altri  ministeri,  penuria 
tbllerabil  solo  ne'  tempi  in  cui  .il  prezzo  di  cento  volumi  superava  il 
benefizio.  Nulla  di  meglio  ne' conventi,  meno  quei  degli  Scolopii  e 
Barnabiti,  dediti,  e  con  gran  frutto,  alla  istruzione:  gli  altri  ricetta- 
coli di  rozzi  e  pigri  fuggi-fatica  :  né  miglioravano  là  dentro  se  stessi 
né  altri.  Sopra  trecentododici  chiostri,  ben  pochi  quelli  rallegrati  da 
sorriso  di  patria,  o  di  carità  e  riconoscenza  pubblica:  della  biblioteca 
e  della  cucina  loro,  questa  sola  in  riputazione  e  dentro  e  fuori  del 
chiostro  :  né  di  là  potea  venir  mai  dottrina  che  mettesse  radice  fra  gli 
uomini.  Frati  e  preti,  di  sovente  per  mondani  trascorsi,  segno  alle  risa 
ed  agli  schemi  dei  cittadini,  cagion  di  scandalo  nelle  campagne;  che  la 
religione  la  quale  non  alberga  in  petto  de'  leviti,  mal  si  fa  ricovero 
e  schermo  del  cappuccio  :  i  voti  a  frenar  le  ree  passioni  non  tengono. 
Stella  polare  ai  chierici  era  Roma  guida  della  vita  loro ,  cosi  nelle 
buone  come  nelle  ree  opere;  le  bolle,  i  decreti  delle  congregaizioni,  fin 
quelli  dell'Indice,  erano  il  lume  de'  loro  occhi  :  le  pretensioni  aposto- 
liche, articoli  di  fede  :  e  dopo  la  fuga  del  pontefice,  il  suo  esilio  a 
Gaeta,  e  i  trascorsi  di  Roma,  progresso,  civiltà ,  riforme ,  parevano 
ai  chierici  toscani,  lacciuoli  per  sovvertire  la  fede,  gergo  di  atei  e 
ipiiscredenti  :  non  più  adunque  progresso ,  non  più  scoperte  :  giri  il 
sole,  la  terra  stia  :  il  pontefice  imperi  sull'orbe;  poggi  in  cielo  poi 
capo ,  in  terra  con  le  sacre  piante  ;  tributari!   !  re ,  servi  gli  uo- 


STUDH  STOBICI  B  AMMINISTKATIVI  219 

mini:  tal  Chiesa,  tal  fede,  tal  scienza,  sola  àncora  di  salute  nell'uni- 
verso !  (134) 

XXXIII.  —  A  siffatti  animi  riuscivano  insopportabili  i  freni  di 
og^i  maniera,  che  ritrovavansi  nelle  leggi  dello  Stato.  Di  ben  dieci- 
mila individui  era  l'esercito  dei  chierici  secolari  :  il  loro  numero 
maggior  di  quello  dei  beneficii,  sebbene  molti  fossero  i  semplici,  quasi 
sinecure  a  stipendio,  e  quelli  di  regio  e  pubblico  patronato  :  i  primi  e  i 
secondi  davansi  per  concorso  (135)  :  gli  ultimi  ad  arbitrio  :  in  fticoltà 
de' vescovi  rifiutare  gli  eletti,  se  tristi  o  inabili  (136).  Le  congrue 
misere  :  molte  però  le  elemosine  per  messe,  mortorii,  suffragii  :  scarsi 
in  campagna  i  sacerdoti  e  le  parrocchie;  in  città  strabocchevoli: 
vario  il  numero  delle  loro  anime,  varie  le  entrate,  qui  troppe,  là 
scarse  o  nulle:  ai  parroci  privi  di  congrua  concedute  le  decime: 
vietata  ogni  pensione  sui  beneficii  curati  (137),  e  lo  andare  a  busca  di 
miglior  parrocchia  :  inamovibili  quelli  che  da  comunità  o  luoghi  pii 
dipendevano  (138):  obbligati  alla  residenza,  vietato  correre  a  feste  e 
uffici,  e  lucri,  altrove  (139).  Molti  poi  gli  ecclesiastici  a  stipendio 
delle  collegiate,  cui  prestavano  la  voce  in  coro  e  nulla  più  :  chi  ser- 
"viva  dieci  anni  in  una  chiesa,  acquistava  senz'altro,  diritto  agli  or- 
dini sacri.  Numerosi  gli  oratorii  privati  :  si  accrescevano  ogni  anno 
dei  nuovi,  che  Roma  concedeva  a  chi  nobile  e  ricco  poteva  pagarle 
la  grazia.  Vietato  poi  ai  vescovi  lo  ordinare ,  come  suolsi  dire  a 
patrimonio,  dove  l'utile  e  le  necessità  del  culto  non  lo  r  chiedano:  né 
per  ciò  diminuiva  il  numero  dei  secolari  (140). 

Dei  regolari,  tre  mila  frati,  quattromila  monache.  Fra  i  primi, 
meno  i  monaci  che  i  mendicanti  :  quelli,  di  civile  origine,  vestendo 
l'abito  crescevano  il  loro  stato:  questi,  di  oscura,  si  toglievano  a  una 
povertà  reale,  per  una  povertà  sol  di  nome:  allato  de' mendicanti 
molti  laici,  tutto  il  dì  a  busca  nelle  campagne  per  conto  del  con- 
vento. De'  conventi  di  monache,  taluno  vòlto  alla  istruzione  :  i  più 
alla  contemplazione  solitaria,  più  o  meno  evangelica:  ricche  entrate, 
pompe  frequenti  rallegravano  quelle  monachelle  :  il  parroco  del  sito 
né  vi  aveva  voce,  nò  confessione  :  confessori  bene  spesso  i  regolari 
del  medesimo  ordine:  cosi  lo  spiritual  coniugio  era  perfetto:  ma 

(134)  Il  Baldasseroni  scrivendo  al  maresciallo  Radetzki  Del  luglio  del 
49,  cosi  parlò  del  clero  toscano:  Il  clero  secolare  e  regolare  è  stato  fin  qui 
amico  dell'ordine  e  del  governo  e  benissimo  disposto  verso  la  Casa  Austriaca. 
V.  Doc.  Zob.  t.  2,  n»  cxxxii. 

(135)  Circolare    7  gennaio  1780. 


(136) 

13  luglio  1782. 

(137J 

16  novembre  1776. 

(138) 

1  gennaio  1784. 

(139) 

7  gennaio  1780. 

(140) 

21  aprile  1773 ,  li  gennaio  1778, 

2M  BIYIflTA  OONTBMPOSAKBA 

vtetato  era  a  qve' coniugii  lo  accomilEiàr  l#  dMtaDaé,  sounbiÉrsi 
doni,  ricordi,  immagini  sante.  Pei  frati  la  vestizione  ayve&ita  a  di' 
ciotto  annif  la  professione  a  ventiquattro;  per  le  monache,  quella  a 
venti^  questa  a  ^nt'aoiii  (141)  :  nò  doti  nò  doni  potevano  recare  al 
convento  (142).  Nello  spirituale  dipendevano  dal  vescovo,  nel  reità 
dal  poter  civile.—  Questi  nominava  gli  operai  de'  convénti  di  monaohe, 
confermava  i  cancellieri,  ministri  attuarli,  vicarii  generali  e  benéfi- 
ciarii di  già.  eletti  dai  vescovi  :  in  focoltà  de'  quali  era  lo  ammonire  e 
punire  gli  ecclesiastici  di  ogni  ordine;  tronca  ogni  dipendenaa  dei 
regolari  dai  generali  residenti  fuor  deUo  Stato  :  pena  ai  trasgressori 
il  rigor  della  legge:  i  provinciali  si  rivolgessero  ai  vescovi  pei 
n^gozii  ecclesiastici,  al  governo  pei  civili;  nullo  ogni  privilegio, 
grado  e  onore  conceduto  dai  generali  ai  regolari  senza  VexepuUur 
del  Governo  (143):  niun  straniero  poteva  aver  grado  nei  c<m- 
ventì  (144)  :  ninno  avervi  stanza  all'infùori  dd  mendicanti  (145)  : 
chi  vestisse  l'abito  fuor  dello  Stato,  diveniva  straniero  :  a  niun  pro- 
vinciale estero,  a  niun  sindaco  apostolico  (146)  conceduto  il  vie- 
tare e  il  sindacare  i  conventi  senza  l'assenso  del  governo  e  degli 
ordinarli  :  e  nissun  straniero,  senza  di  quello,  il  predicare  in  To- 
scana (147). 

I  sacerdoti  con  beneficio  residenziale  incardinati  alla  chiesa  ove 
esso  era  fondato  :  i  sacerdoti  semplici  alla  chiesa  parrocchiale  :  tutti 
insieme  e  canonici  e  regolari  dipendenti  dal  parroco  :  dovevano  aiu- 
tarlo ne'divini  uffloii,  nel  custodir  gl'infermi,  amministrare  i  Sacra- 
menti^ ammannire  la  istruzione  al  popolo.  Ai  parroci  vietato  ogni 
tributo  a  vescovi  forestieri  :  a  qualsiasi  ecclesiastico  ogni  tributo,  o 
tassa  in  prò*  di  Roma  (148):  occorrervi  il  ben^lacito  regio  (149): 
senza  di  quello  proibito  il  chiedere  dispense  a  Roma  per  canonici 
impedimenti,  all'ammissione  nel  clero,  a  conseguir  benefizii,  ordini 
sacri,  chiese  curate  (150).  I  benefizii  concessi  ai  soli  sudditi,  e  fra 
questi  a  quelli  che  di  già  servivano  la  chiesa  (151):  ninno  poteva 
fruir  di  più  di  un  bwieflzio.  In  potestà  poi  de' vescovi  distribuire  le 
rendite  ecclesiastiche  senz^  obbligo  aleuno  verso  Berna,  in  qualsivoglia 
modo,  e  in  qualunque  tempo  awwMsse  la  vacanza  de'baiéficti  di 
libera  collazione,  o  di  patronato  ecclesiastico  (152).  Le  censure  di 
Soma,  i  monitorii  di  scomunica,  senza  il  regio  assenso  né  potevansi 
pubblicare,  né  affiggere,  né  eseguire. 

(141)  Circolare  28  marzo  1785.  (147)  Circolare  27  anrile  1786. 

(142)  »         30  luglio  1783.  " 
*  (143)       »          26  ottobre  1784. 

(144)  »         31  giugno  1781. 

(145)  »  17  gennaio  1781. 
(i46)        »         22  marzo  1783. 


(148) 

15  giugno  17te. 

(149) 

31  giugno  1779. 

(150) 

IO  ottobre  1777. 

(151) 

5  agosto  1785. 

(152) 

12  agosto  1783. 

STU0U  6T0BI0I  B  AMMim6T&ATIVI  CBl 

Niaiuiì  privilegio  ii  foro  :  alla  Chiesa  di  Roma  negata  ogni  po- 
testà di  giudicale  sudditi  toscani  :  alle  curie  coneeduto  solo  il  eoBo- 
score  delle  eause  puramente  spirituali  :  potevuio  iniiggere  pene  di 
ugual  calibro  ddle  colpe,  cioè  spirituali  :  ai  tribunali  ordinarti  ri- 
serbate le  cause  di  sponsali  agli  effetti  civili,  le  benràciarie  cori 
nel  possessorio  come  nel  petitorio,  i  Jitigii  dei  chierici,  i  loro  delitti; 
niua  appello  a  Boma  dalle  sentenze  de'tribunali  ordinaria  :  unieo 
privilegio  dei  chierici  le  pene  irrogate  secondo  il  gius  canenieo. 
Cosi  le  cause  spirituali,  di  pertinenza  delle  curie  vescovili,  il  ma- 
trimonio  pel  quale  non  vi  era  altea  legge,  e  la  materia  dei  benefldi 
eedesiastict,  regolate  dal  diritto  canonico.  Nel  resto,  la  l^islaaene 
civile:  la  legge  uguale  per  tutti:  nei  diritti  e  nei  doveri,  nelle 
colpe  e  nelle  pene,  ne'privilegii  della  difesa,  nel  danno  dell'aceuea, 
nella  pluralità  dei  giudici,  nella  parità  di  foro,  nella  tutela  che  le 
Ic^fgi  luseordanrano  ai  beni  ed  fiUe  peroene,  gli  ecdesiastioi  dai  kftei 
ncw  si  distinguevano. 

P«ir  questo  modo  gli  ^ni  aveaao  dritti  e  doveri  pari  a  guelfi 
itìgU  altri  :  aacerdeid  della  chiesa,  sudditi  del  poter  civile  :  f  q^isee- 
patO  6  i  parroci,  r^tuiti  in  dignità,  non  pia  servi  di  Bomac  tm 
Tioseraito  de'regolari  e  i  loro  generali  all'estero,  interposti  i  vescovi  : 
fra  i  mescevi  e  la  Curia  Romana ,  interposto  il  potere  civile  :  pi& 
che  altrove  grande  l'autorìilà  de' vescovi,  ma  pur  sempre  #udditì  del 
pt ÌACif  e  :  vietato  ad  essi  il  pubblicar  pastorali  od  omelie  sensa  Tassenso 
dri  governo:  le  bolle  di  Boma,  di  nessuna  efEU^cia  se  non  vestite 
deU'exequatur  lìegio  :  i  poteri  della  chiesa  insomma  xlistinti  da  ^«ett 
dello  8t$tD  :  quiella  in  tutela  di  questo  :  questo  non  signore  out  pro- 
tettore :  e  nel  principe  raccdta  la  potestà  di  vegliare  a  che  epl  prCf 
testo  della  religione  non  si  turbi  la  economia  pubblica,  l'ordine  ci- 
vile e  morale  dello  Stato,  la  coscienza  d^le  famiglie. 

XXXIV.  -T-  Ma  ^e  di  questi  ordini  andavano  altieri  i  laici,  ne 
veilgogiaiavano  i  duerici,  frementi  qui  non  meno  che  altrove  di  ee^ 
sene  trattati  a  p^i  di  quelli  :  la  Curia  romaica  poi,  da  più  di  sftfESO 
sicei^ ,  1^  mostrava  orrore ,  ne  0K)veva  doglianze.  Nondimeno  il 
tksUo  edificio ,  compiuto  neJ  secolo  aoerae ,  resistito  aUe  mutarioni 
petitiidiie ,  all'iva  de'retrivi ,  ai  ocmati  de'chierici  onde  smuoverio , 
avea  vigili  custodi  e  strenui  difensori.  Poche  leggi  erano  nmpvfsse 
cosà  fortemente  nella  coscienza  di  un  popolo,  come  le  leopddine 
in  Toscana  :  onde  il  governo  avea  dovuto  rispettarle  più  che  ogni 
altro,  e  fino  al  quarantanove  fare  il  viso  acerbo  a  chi  gli  suggm:>iva 
modificarle:  di  tutto  pauroso,  avea  anche  avuto  paura  a  offendere 
il  sentimento  popolare,  e  quella  gloria  che  sentivano  i  toscftni  di 
aver  libero  qu^i  compiutamente  lo  Stato  dalla  Chiesa,  ridotta 
la  Chiesa  in  Chiesa,  i  beni  de*  chierici  come  beni  mondani^  tribù- 


222  KIVISTA  GONTBMPORANBÀ 

tarli;  le  persone  come  mortali  punibili.  Chi  più  avea  da  lamentare 
i  soprusi  de'chièrici  era  ragione  che  ponesse  amore  a  quelle  leggi 
che  ne  lo  aveano  liberato .  Altri  tempi  invero  aveano  scavezzato  in 
Toscana  la  Chiesa  a  ridosso  dello  Stato  :  donde  lotte  antichissime 
dell* uno  con  l'altra:  perdente  la  Chiesa  al  tempo  della  repubblica, 
vincitrice  co'Medici,  disfatta  co'Lorenesi.  Vero  è  che  anche  Cosimo 
vegliò  a  tutelare  lo  Stato  dalle  usurpazioni  de'chièrici,  mettendovi 
a  guardia  il  dipartimento  della  giurisdizione  (153).  Paolo  III  n'era 
ito  sulle  furie:  Cosimo  fermo.  Ma  poi  tirandolo  la  voglia  di  titol 
regio,  permise  che  alla  giurisdizione ,  Roma  opponesse  la  nunzia- 
tura ,  e  n'ebbe  in  grazia  il  titol  di  granduca,  nemmen  quello  di  re  ; 
donde  lotte  eterne,  lunghi  conflitti,  querele  acerbe  di  Roma,  ingiurie 
al  principe  ed  allo  Stato  :  finché  la  nunziatura  ebbe  rovesciato  la  giu- 
risdizione, e  lo  Stato  fu  allagato  e  invaso  da  chierici.  Sgomenti  i  Me- 
dici, ridanno  vita  alla  giurisdizione  perchè  contrasti  le  usurpazioni 
dei  chierici,  dia  braccio  alle  ragioni  de'laici  :  era  tardi,  perchè  quelli 
aveano  ornai  privilegio  di  foro,  leggi  proprie,  birri,  carceri,  solda- 
tesca, ricchezze  smisurate,  Sant'Ufficio,  immunità  reali,  personali, 
locali,  tribimali  e  giurisdizione  dappertutto.  Leopoldo  I  fece  argine 
a  tanta  piena,  distruggendo  la  nunziatura  e  il  Sant'Ufficio  :  le  Curie 
esautorò,  i  chierici  fece  pari  ai  laici,  e  da  quel  giorno  la  domina- 
zione ecclesiastica  in  Toscana  non  fu  più  che  una  memoria. 

Il  lungo  imperio,  la  precipitosa  disfatta,  lungi  dal  mettere  in  pace 
l'animo  de'chièrici,  aveano  essi  mirato  ognora  alla  riscossa,  morso 
sdegnosi  il  freno  delle  leggi  nuove  ;  ora  nel  quarantanove  vivevano 
nutrendosi  di  una  speranza ,  gravissimo  pensiero  dei  laici ,  che  il 
principe  vivendo  in  Gaeta  frammezzo  alla  Curia  apostolica,  piegasse 
alle  moine  del  Pontefice,  incappolasse  nelle  reti  che  là  gli  tendeano 
i  chierici,  perchè  falcidiasse  le  leopoldine.  La  speranza  degli  uni,  il 
timore  degli  altri,  divenivano  invero  escusabili  riflettendo  che  Roma 
non  era  mai  venuta  meno  di  lamenti  e  rimostranze,  dal  quindici  fino 
al  quarantanove  contro  quelle  sapienti  leggi,  ed  erasi  accerrita  vie  più 
dalle  ripulse  che  infino  allora  avea  avuto  da  chi  si  mostrava  geloso 
dei  diritti  dello  Stato.  Quante  volte  avea  tentato  di  stringere  con- 
cordati, altrettante  eranvisi  opposti  i  ministri  toscani.  [Il  Rucellai , 
al  principe  che  lo  richiedea  di  consiglio  avea  dato  questo  sanissimo: 
non  conviene  di  entrar  mai  in  trattati  con  la  Corte  di  Roma  (154); 

(1^)  Decreto  del  1545,  elaborato  da  Lelio  Torello  da  Fano. 

(154)  Ecco  le  parole  del  ministro  Rucellai  in  un  voto  disteso  il  14  luglio 
1769,  sopra  domanda  del  principe:  «Non  conviene  entrar  mai  in  trattato 
«  con  la  corte  di  Roma,  e  non  prestar  mai  rorecchio  a  farlo  per  via  di 
m  concordati,  perchè,  come  saviamente  si  rileva  dal  Giannone»  è  stato  sem- 
«pre  questo  il   solito  colpo  di  riserva,  che  quella  scaltrissima  corte  ha 


STUDII  STORICI  B  AMMINISTRATIVI  223 

notevole  poi  la  risposta  del  Bertolini  —  che  avendo  egli  (Leo-  ' 
«  poldo  I)  rivendicata  la  maggior  parte  de'suoi  diritti  sovrani  per 
«  la  via  di  fatto,  era  indispensabile  seguir  lo  stesso  metodo  nel  ricu- 
c  perare  il  poco  che  rimaneva:  altrimenti  si  correva  pericolo,  me- 
e  diante  un  concordato,  non  solo  di  non  ottenere  l'intento  rispetto 
e  al  poco  che  restava  a  rivendicare,  ma  di  rimettere  del  molto  che 
€  si  era  riacquistato  —  (155). 

Queste  e  le  seguenti  parole  dettate  da  Leopoldo  I  nel  partir  di 
Toscana,  ritraevano  in  certa  guisa  i  pensieri  impressi  nelle  menti 
de*laici  correudo  Tanno  quarantanove  :  né  avrebbono  saputo  dare  al 
principe  in  Gaeta  altri  consigli  che  questi  del  suo  avo  :  e  Non  sia 
€  mai  usata  condiscendenza  veruna  verso  la  corte  di  Roma,  quando 
te  si  tratta  di  giurisdizione  o  di  autorità  in  specie  nelle  materie  ec- 
€  desiastiche....  Non  si  faccia  innovazione  nel  sistema  ed  ordini 
e  veglianti  in  materia  di  chiesa  e  si  tengano  fermi  tutti  gli  ordini 
e  stabiliti  in  quanto  alla  giurisdizione  con  avere  in  vista  di  non 
e  ceder  mai  e  di  resister  sempre  a  tutte  le  pretensioni  della  Corte 
€  Romana,  senz'accordare  dispensa  o  facilitazione  veruna  in  questa 
«  materia.  Si  tenga  forte  nel  non  accettare  foglio,  dispensa  nò  breve 
e  alcuno  proveniente  da  Roma  senza  Texequatur  regio.  Si  tenga 
€  forte  l'ordine  dell'abolizione  della  nunziatura  e  suo  tribunale  e 
e  delle  curie  dei  vescovi  tanto  per  le  cause  civili  che  criminali. 
€  Non  sì  accordi  mai  dispensa  dalle  prescrizioni  contenute  nelle 
<  leggi  delle  manimorte  :  e  per  alienazione  dei  beni  ecclesiastici  non 
«  si  abbia  mai  ricorsoci  beneplacito  di  Roma  i.  (156)  I  quali  con- 
sigli, già  ripetuti  dal  Fossombroni,  dal  Frullani,  dal  Corsini  al  prin- 
cipe, ogni  volta  che  affacciavansi  pretese  della  Chiesa,  correvano  poi 
nel  quarantanove  alla  mente  de'sudditi,  perchè  da  poco  erano  le 
leggi  Leopoldine  scampate  da  grave  periglio.  Innanzi  la  morte  di 
Gregorio  XVI  avea  la  Curia  romana  dato  un  nuovo  assalto  alla  To- 
scana: e  chiesto:  libera  comunicazione  de' vescovi  con  la  Santa  Sede; 
facoltà  in  essi  di  delegare  a  chi  loro  aggrada  la  predicazione  apo- 

•  messo  in  uso,  e  ohe  mai  non  le  ha  fallito,  quando  si  è  yeduta  in  circo<- 
«  stanze  di  dover  piegare,  usando  ciò  per  stratagemma  onde  acquistar 
«  tempo,  senza  frattanto  nulla  recedere  dalle  sue  pretese,  poiché  in  nes- 
«  sun  concordato  havvi  dichiarazione   che  implichi    di  recedere  alcuna 

•  cosa  o  preteso  diritto  e  privilegio  di  fronte  alla  potestà  laica  » .  V,  Zobi, 
Si,  civ.  della  Toscana  dal  1737  al  1848. 

(155)  Queste  parole  trovansi  nella' memoria  14  febbraio  1779,  del  mini- 
stro Stefano  Bartolini,  esistente  nel  protocollo  n^  12,  Segreteria  di  Stato, 
anno  1779. 

(156)  Leggonsi  queste  parole  nelle  Istruzioni  lasciate  alla  Reggenza  il 
17  febbraio  1790.  Contengono  esse  127  articoli,  si  conservano  nel  proto- 
collo 2,  Segreteria  di  Stato,  anno  1790. 


23M  BinSTA  CONTBMPO&ANBÀ 

stolica  :  di  pubUìcare  pastorali  ed  altri  atti,  senza  sottoporli  all*ap- 
pfovasioiie  del  poter  civile:  che  le  materie  dei  veri  e  proprii  spon- 
sali fosseco  eegolate  dalle  leggi  canonidbie:  che  il  dritto  di  punire 
le  defeaioni  e  trasgressioni  deg^  ecclesiastici  tornasse  alle  cvurie,  e 
il  loro  giudizio  non  patisse  appello  innanzi  alla  potestà  laica  {157). 
Al  nuUviso  Gregorio ,  i  ministri  toscani  aveano  risolutamente  risposto 
di  no  :  ma  al  pontefice  Pio  (158),  che  si  annunciava  tutta  quanta  dol- 
eezia  e  carità  di  patria,  non  lo  seppero  :  nel  nome  suo  il  nunóo  chiese 
gli  m  consentissero  i  cinque  punti  Gregoriani  :  si  cominciò  (grande 
errore)  a  discuterli:  da  un  mal  passo  ad  un  altro,  il  Buoninsegni  venne 
Riandato  a  Boma,  onde  concertarvi  una  lega  italica,  e  il  concordato, 
tantoshè  lo  Stato  scampando  dall'Austria,  incappasse  nella  peggiore 
ddle  signorie,  quella  dei  preti.  Mal  scelto  il  messo,  perdiè  prete  che 
da  Boma  potea  attendere  un  cappello  di  vescovo.  Questo  ne  fu  il  frutto  : 
cIm  i  cinque  punti,  scorrendo  da  una  all'altra  delle  pie  mani  del 
Pontefice,  divennero  quindici  (159):  di  furbesca  dizione,  sostanza 
volfina»  veri  lacciuoli  per  gli  incauti,  tiri  mascagni,  perchè  il  gran- 
diioa,  come  disse  taluno,  spezzasse  lo  scettro  e  ne  gettasse  la  metà 
nel  Tevere.  Conosciuti  a  Firenze,  venneno  disconfessati  ;  il  Buonin- 
segni fu  in  voce  di  matto  :  ebbe  ordine  tornarsene  a  casa.  La  corte 
di  Aowa,  vòlta  allora  a  ben  altre  cure,  tacque  :  ma  quella  era  tregua 
e  nou  pace  d^iurabile  :  intanto  i  oasi  d'Italia  fugarono  il  Pontefice  e 
il  QrandMea  >  il  quale  gimgendo  a  Gaeta  si  trovò  petto  a  petto 
col  Poatofi09.  "-  Di  qui  le  paure  de'laici,  le  speranze  de'  duerici 
toscani,  Nel  corso  di  quest'istoria  vedremo,  anche  in  materie  giù- 
rifidinonali^  il  firutto  de'eonciliaboli  di  Gaeta. 

SXSlV.  "^  Lo  Stato  non  pcovvedea  meglio  all'istruzione  dei 
laici  di  quel  che  la  Chiesa  provvedesse  a  quella  de'chierici  :  gli 
uni  non  aveano  di  che  proprio  invidiare  agli,  altri.  Ora  non  essendo 
buona  le  leggi  che  punivano  i  delitti,  era  ragione  che  nemmeno 
tali  fossero  quelle  che,  diffondendo  la  istruzione,  pane  dell'intelletto, 
mirano  a  prevenirli  :  non  raccolte  in  forma  di  codice,  quasi  legge 
unica,  ma  sparse  disposizioni,  viete  consuetudini  faceano  l'ufficio 
di  legge.  Bra  cosi  sentita  la  necessità  di  un  nuovo  ordinamento, 
che  nel  quarantasette  venne  eletta  ima  commissione  a  comporlo.  Lo 

(157)  V.  Zobi,  St.  civile  della  Toscana,  dal  1737  al  1848,  t.  5.  p.  391. 

(i68)  Nel  47  a  chi  parlava  al  Pontefice  di  estendere  le  leggi  giurisdi- 
zionali del  i^anducato  anche  a  Lucca,  che  da  poco  era  annessa,  rispon- 
deva concitato  —  incontrerebbe  fnille  volte  la  morte  prima  che  annuire  a 
tollerare  un  tale  avvenimento,  V.  Nota  Bargagli  incaricato  di  Toscana  a 
Roma,  11  novembre  1847.  Doc.  Zobi,  t.  2,  n»  cxxtii. 

(159)  F.  Progetto  di  Concordato  disteso  dal  cardinal  Vizzardelii  e  mon- 
signor Boosinsegni  poi  firmato  da  entrambi  il  30  marzo  1848.  Lo  riporta 
)o  Zobi  St.  Civ.,  t.  5,  Doc.  61. 


STUDn  STOWCI  B  AMMINISTRATIVI  225 

stosso  statuto,  non  ardi  venir  fuori,  senz'annunciare  che  di  poco 
avrebbe  esso  tardato.  L'antica  sapienza,  non  so  se  deggia  dire  ìtaliea 
o  toscana,  scrìtta  ne' monumenti,  monumento  anch'essi  di  quanto  fra 
noi  sappia  l'ingegno,  stava  ad  imperituro  rimprovero  alla  incuria 
de' viventi.  La  libertà  di  insegnamento  antica  in  Toscana  quanto 
quella  del  commercio,  sconfortata,  minacciava  fuggire  una  terra  in 
cui  non  valeva  al  governo  che  di  pretesto  a  trascurare  l'insegna- 
mento. Solerte  quello  ad  arricchir  gallerie  di  belle  arti,  ordinare  gli 
archivi,  le  pergamene  degli  avi,  i  musei  di  fisica,  di  storia  naturale, 
le  accad^Qtue  ed  altri  istituti,  a  decoro  dello  Stato,  a  richiamo  dei 
stranieri,  avea  da  tempo  remoto  considerato  la  istruzione  come  un 
debito  tutto  domestico,  in  cui  lo  Stato  non  avea  da  metter  voce. 
Così  il  popolo  in  balìa  di  sé,  godea  non  la  libertà  dell'  insegna- 
mento, ma  quella  dell'ignoranza,  complice  il  governo.  Nel  bilancio 
dello  Stato,  la  istruzione,  umile  e  modesta,  appariva  per  un  solo 
milione,  del  quale  la  più  parte  era  volta  alle  arti  belle,  a  dotare 
l'accademia  della  Crusca,  librerie,  conservatorii,  ed  istituti  di  edu- 
cazione non  istruzione  (160)  :  poco  più  di  quattrocento  mila  lire  an- 
davano all'università  di  Pisa,  e  alla  clinica  nell'ospedale  di  Santa 
Maria  Nuova  (161).  E  qui  limitavasi  la  mano  del  governo  :  ogni 
altro  istituto  d'istruzione  o  era  a  carico  de'Comuni,  o  della  Chiesa, 
0  vivea  di  dotazioni  proprie,  o  della  carità  privata. 

Due  imiversità,  qualche  liceo,  rade  scuole,  erano  i  templi  consa- 
crati agli  studii  :  il  numero  dei  templi,  in  ragione  di  quella  dei  de- 
voti, volea  dire  degli  studiosi.  Delle  università,  quella  di  Pisa,  man- 
tenuta da  redditi  proprii  e  da  soccorsi  del  governo,  avea  sei  facoltà, 
filosofia,  matematica,  scienze  naturali,  teologia,  giurisprudenza  e 
medicina.  Quella  di  Siena,  università  libera,  avea  solo  le  tre  ultimcc 
Nella  prima  erano  quarantasei  cattedre:  nella  seconda  ventisette. 
Delle  quali  alcune  troppo  umili  meglio  avrebbero  convenuto  a  un 
liceo,  altre  troppo  sublimi  a  scude  di  perfezionamento:' dispregiando 
le  prime,  sgomenti  delle  seconde,  i  giovani  finivano  per  disfiorare  gli 
studii,  ftur  come  l'ape,  cogliere  un  po'  di  tutto,  e  nulla  di  nulla. 
Poi  il  soverchio  numero  delle  cattedre,  frastagliando  la  scienza,  che 
è  una,  in  infiniti  minuzzoli,  li  abituava  all'analisi,  non  li  sollevava 
aBa  sintesi.  Nissuna  cattedra  di  diritto  amministrativo;  nondimeno 
ve  n'era  una  di  economia,  sola  in  Italia,  eccezione  a  quel  vero,  che 
i  principi  più  temono  Teconomista  che  non  il  demagago.  A  quelle 
due  università  e  all'Arcispedale  di  S.  M.  Nuova  riducevasi  tutta 
quanta  la  superiore  istruzione.  In  peggior  stato  la  secondaria  e  l'ele- 


V.  Rendiconlo  della  Finanza  per  gli  anni  48,  49,  50,  Cat.  Spese, 
tit.  10,  prosp.  IX. 
(161)  Ibidem, 

BivUta  C.  -  16 


226  RIVISTA    CONTEMPORANEA 

mentare,  per  le  quali  niunà  provvisione  facea  il  Governo ,  abbando- 
nandole a  ridosso  de' Comuni  ode' privati.  La  secondaria  riducevasi 
a  pochi  licei,  uno  a  Lucca,  uno  a  Firenze,  uno  a  Pistoia  fondato 
dalla  virtù  del  cardinal  Forteguerri  :  qua  e  là  qualche  ginnasio,  li 
seminarli  dipendenti  dai  vescovi,  e  le  scuole  degli  Scolopii  e  dei  Bar- 
nabiti, i  quali  volgevano  alla  istruzione  pubblica  i  proprii  redditi.  E 
nuir altro.  L'istruzione  elementare  era  tutta  a  carico  dei  Comuni  :  qua  e 
là  qualche  scuola  or  con  due  or  con  un  solo  maestro,  mal  retribuito  e 
perciò  mal  scelto.  Taluna  scuola  normale,  eretta  da  Leopoldo  I,  era 
scomparsa  per  l'avversione  di  quelli  che  stimavano  la  ignoranza  del 
popolo  guarentigia  della  obbedienza  sua.  Un  privato,  Cosimo  Ridolfi, 
Hvea  aperto  trent'anni  addietro,  scuole  di  reciproco  insegnamento 
ed  avuto  il  conforto  di  diffonderle  per  molte  città  del  granducato: 
ma  poi  più  poterono  le  guerricciuole  de'  retrivi,  l'abbandono  in  cui 
le  tenne  il  Governo,  che  non  il  buon  volere  del  Ridolfi:  in  specie 
dopò  la  istituzione  degli  asili  infantili,  prima  avversati  dai  chierici, 
poi  favoriti  quando  ne  ottennero  la  direzione.  Per  ultimo  eranvi 
collegii  e  convitti,  diretti  con  varia  ragione,  il  più  gran  numero  in 
man  de' chierici,  non  sorvegliati  dal  poter  civile.  In  taluno  serba- 
vansi  forme  proprie  de' tempi  andati,  reminiscenze  di  feudalità;  i 
fanciuUetti  doveano  chiamarsi  l'un  l'altro  pel  titolo  non  pel  nome: 
e  perchè  non  straziasse,  come  un  corno,  un  oboe  fuori  di  chiave,  fra 
quella  nobilea  un  nome  senza  titolo,  non  vi  si  ammettevano  che  quelli 
i  quali  documentassero  una  nobiltà  almen  di  quattro  generazioni. 
Tale  il  collegio  di  Siena. 

Da  queste  scuole  doveasi  diffondere  l'irruzione,  il  pan  dell'a- 
nima, per  tutti  i  gradi  sociali.  Il  frutto  era  proporzionato  alla  se- 
menta. Fatta  una  somma ,  la  Toscana ,  terra  classica  delle  arti  e 
delle  scienze,  era  da  meno  degli  altri  Stati  d'Italia,  e  per  numero 
di  scuole  e  di  studiosi:  molti  i  Comuni  di  quattro,  sei,  otto  mila 
abitanti,  nei  quali  non  si  contavano  scuole  né  per  femmine  né  per 
maschi,  né  per  la  istruzione  del  leggere  e  dello  scrivere,  né  per  la 
religiosa:  così  condannavasi  il  popolo  a  durare  nell'ignoranza,  fra  i 
guai,  le  colpe,  forse  i  delitti,  che  nella  prima  educazione  e  nel  co- 
stume pubblico  hanno  la  ragione  e  accusano  la  impreveggenza  del 
governo.  Sopra  duecento  ottantamila  adolescenti,  otteneano  una  qual- 
siasi istruzione,  poco  più  di  un  decimo,  trentamila,  per  tre  quinti 
dai  Comuni,  due  quinti  da  privati  (162)  :  il  restante  morivano  senza 
avere  appreso  a  scrivere  la  lingua  che  sorbivano  col  latte,  a  leggere 
quel  che  dicevano.  Con  una  rendita  fondiaria  di  oltre  quarantacinque 
milioni  di  lire,  lo  sforzo  de' Comuni  e  dei  privati  a  prò  dell'istru- 

(162)  Ricerche  statistiche  sulla  Toscana  di  Zuccagni  Orlandini,  t.  1. 


STUDII  STORICI  B  AMMINISTRATIVI  227 

zione  secondaria  ed  elementare,  non  superava  le  trecento  settanta- 
quattromila lire  airanno;  e  sopra  un'entrata  di  quasi  quaranta  milioni ^ 
il  Governo  volgeva  all'istruzione  superiore  poco  più  di  trecentomila 
lire  (163)  :  alla  inferiore,  nulla. 

XXXVI (164). 

XXXYII.  —  Quel  che  risparmiavasi  nelF istruzione  andava  speso 
per  l'esercito  :  né  per  questo  avea  egli  vigor  di  corpo,  ardore  d'animo: 
ma  rotta  la  disciplina,  disonesto  il  costume,  virtù  nessuna.  Il  che  era 
mestieri  ascrivere  a  cause  antiche  e  recenti.  Nel  passato,  poca  propen- 
sione aveano  i  Toscani  mostrata  ai  ludi  di  guerra  :  sotto  la  repub- 
blica, soldavano  mercenari!  ;  la  milizia  disdegnavano  :  nobiltà  stava  nei 
trafSci ,  da  cui  non  si  toglieano  che  per  difenderli  se  minacciati. 
E  perciò  non  pensando  mai  a  offendere ,  non  furono  valenti  che  nella 
difesa.  Cosimo  I  avea  fidato  solo  nelle  milizie  mercenarie,  né  am- 
messovi i  Toscani,  se  non  quando,  commesso  alcun  fallo,  meritavano 
una  pena;  perciò  divisa  di  condannato  avea  da  essere  quella  del 
soldato,  luogo  di  pena  l'esercito,  unico  scampo  alla  galera.  Svigoriti 
poi  gli  animi  in  secoli  di  pace,  posposti  lungo  tempo  a  presidi  stra- 
nieri (165),  l'èra  napoleonica  non  avea  trovato  nerbo  d'uomini;  solo 
virtù  solitari  in  animosi,  il  cui  nome  andò  confuso  nelle  migliaia 
dell'Impero,  e  la  cui  vita  si  spense  in  estranee  contrade,  per  causa 
non  loro,  mercenarii  alla  lor  volta  anch'essi.  Il  ristauro  del  quindici 
richiamò  gli  antichi  ordini  della  milizia,  tali. quali  erano  due  secoli 
innanzi;  niun  profitto  dalla  scienza  napoleonica,  insegnata  in  un 
corso  di  venti  anni,  sopra  cento  campi  di  battaglia.  Scusavasene  il 
(ìovemo  col  dire  che  non  potendo  volger  l'animo  a  difendersi  da  stra- 
nieri assalti,  pei  suoi  sudditi  non  avea  d'uopo  di  agguerrita  milizia. 

(163)  Ibidem,  V,  Bilancio  della  Finanza  Toscana,  Cat,  Spese ^  tit.  10, 
Prospetto  IX,  per  gli  anni  47,  48,  49,  50. 

(164)  Leggi  sulla  stampa,  !<>  maggio  1847  e  17  maggio  1848. 

(165)  Da  ciò  Tavversione  dei  Toscani,  nel  secolo  scorso,  al  servigio 
militare.  Reco  quel  che  la  Reggenza  scrìveva  al  granduca  Francesco  li 
(V.  Nota  17  novembre  1759,  Archiv.  centr.  di  Slato,'filza  83,  n*>  1.)  «  Sussi- 
fl  stendo,  dopo  tanti  anni  di  felice  tranquillità,  un'avversione  naturale  al 

«  servizio  di  guerra,  non  esservi  stato  altro  compenso che  di  obbligare 

f  le  comunità  a  descrivere  li  più  capaci  e  mandarli  per  forza,  'accompa- 
f  gnati  dagli  esecutori  (birri),  senza  di  che  poche  teste  si  sarebbero  armo- 
«  late  ».  V,  Doc.  Uff.  pubblicati  nel  1860,  t.  2,  Doc.  lviii.  —  Leopoldo  I  ebbe 
poi  in  fastidio  la  milizia:  per  lungo  tempo  non  mantenne  più  di  quattro 
compagnie.  Poi,  con  Decr.  22  febbraio  1790,  disciolse  anche  quelle:  pre- 
sidiò la  capitale  con  birri  e  facchini.  La  sbirraglia  fu  sempre  per  lui  la 
prediletta  delle  milizie.  Nel  1797  il  Fossombroni,  in  uno  scritto  ^nviato  al 
generale  Bonaparte,  diceva  del  popolo  toscano:  «  essere  cosi  dissuefatto 
fl  dalle  idee  di  guerra,  che  il  solo  passaggio  di  poca  truppa,  lo  mette  in 
«  pensiero  •.  V,  Gualt.  Mem.  Stor.  t.  2,  Doc.  cxxxvii. 


228  RIVISTA   dONTEMPORANEA 

Cause  più  recenti,  del  poco  conto  in  che  erano  tenuti  da'  sudditi 
e  dal  Governo,  le  milizie  dello  Stato  si  erano  queste.  Ribattezzata 
da  un  lavacro  di  fuoco,  da  un  nuvolo  di  palle  a  Curtatone  e  Mon- 
tanara, aveanò,  ritornando  in  patria,  trucidato  il  loro  duce  •  né  eransi 
scoperti  i  rei,  o  se  scoperti,  non  eransi  puniti.  Poi  le  innovazioni  a 
cui  si  volle  dai  Triumviri  sottoporre  quel  rimasuglio  d'uomini,  e  le 
ultime  vicende ,  aveano  dato  il  colpo  di  grazia  alla  disciplina.  Prima 
di  quelle  novità,  erano  così  distribuiti  :  un  reggimento  di  veliti,  due 
di  linea,  dieci  compagnie  di  artiglieri,  due  squadroni  di  cavalli,  sei- 
mila uomini  al  più:  coi  presidii  e  cogli  invalidi  settemila  (166):  coi 
volootarii  rimasti  alle  bandiere,  ottomila  :  Indisciplinata  gente,  male 
armata,  peggio  vestita;  le  artiglierie  scarse,  le  munizioni  disformi 
dalle  bocche  (167)  ;  pochi  cavalli  ai  pezzi,  meno  ai  traini  :  da  reputarsi 
un  miracolo  lo  averli  trascinati  oltre  il  confine,  il  tener  con  essi  la  cam- 
pagna, il  ricondurli  a  casa.  Prima  e  dopo  la  fuga  del  principe  dallo 
Stato,  i  governanti  toscani  aveano  mirato  ad  accrescerli  fino  a  quattor- 
dicimila :  meglio  a  guardia  loro  che  della  patria.  Venne  creata  un'Ispe- 
zione generale  delle  armi  speciali  (168)  :  mutaronsi  gli  archibugi,  si 
crebbero  fino  a  quattro  i  reggimenti  di  fanti,  più  quello  de'  veliti  :  le 
batterie  pure  fino  a  quattro,  di  otto  pezzi  ciascuna,  un  qrfarto  da  asse- 
dio (169):  un  reggimento  di  artiglieri  diviso  in  due  battaglioni  e 
sedici  compagnie:  una  compagnia  di  zappatori,  tre  di  artefici:  tre 
battaglioni  di  bersaglieri  :  due  di  guardia  municipale  :  poi  altri  corpi 
sotto  il  nome  di  Battaglione  Italiano,  Battaglione  Pieri  (170),  Legione 
Zanardi,  Legione  Estera,  Legione  Livornese.  Moltiplicati  i  quadri, 
mancavano  gli  uomini  :  il  numero  stragrande  de'  reggimenti,  de'  bat- 
taglioni, delle  legioni,  non  era  che  una  jattanza,  una  ostentazione 
di  operosità,  con  cui  si  avvisarono  conquider  gli  animi,  respingere 
gli  impeti,  difendere  i  confini.  Notevole  è  che  negli  ufficii  della 
guerra  non  trovasi  documento  del  numero  dei  militi,  che  allora 
fossero  sotto  le  bandiere  (171)  :  non  può  arguirsi  che  dalle  paghe. 
I.  pochi  valorosi,  che  in  Lombardia  aveano  combattuto  nel  nome 
d'Italia,  ed  eran  puri  del  sangue  del  loro  duce,  confusi  ad  accoz- 
cagha  d'ogni  nazione,  fuggiasca  nei  perigli,  usa  al  viver  licenzioso, 

(166)  V.  Note  al  Rendiconto  della  Finanza  Toscana  pel  1847,  ov'è  indi- 
cata la  cifra  di  7068  come  numero  medio  de' militi  toscani. 

(167)  Il  gen,  de  Laugier  nel  Rapporto  29  maggio  1848  al  ministro  della 
guerra,  dice  :  gli  obizzi  per  difetto  di  non  analoghe  cariche  erano  inservibili, 

(168)  Lettera  28  dicembre  1848  del  Ministro  della  Guerra  e  quello  delle 
Finanze,  in  cui  sono  esposti  i  pensieri  sull'esercito. 

(169)  Decreto  7  dicembre  1848. 

(170)  Cosi  chiamato  dal  nome  del  maggiore,  quello  stesso  che  insieme 
all'Orsini  attentò  ai  giorni  di  Napoleone  III. 

(171)  7.  Note  al  Rendiconto  della  Finanza  Toscana  per  gli  anni  48-50. 


STUDII  STORICI  E  AMMINISTRATIVI  229 

procacciante  grosse  paghe  (172),  o  pascolo  a  spirito  torbido  :  gente  che 
nò  ispirava  fede  a  governanti  (173),  amore  al  loro  duce  (174),  sicurezza 
alle  proprietà,  timore  ai  nemici.  Nondimeno  la  prova  superò  Taspet- 
tazione:  all'entrare  de' Tedeschi,  in  un  baleno  abbandonati  i  confini, 
gettate  le  armi,  gli  impedimenti  precipitati  ne' burroni  o  distrutti, 
le  inonorate  divise  sparse  pei  campi,  peste  per  le  vie,  i  vili  a  dirotta 
giù  pei  clivi  delle  Alpi,  libero  il  passo  a  nemici  attoniti  di  tanta 
viltà.  Fuggendo  apprèsero  mutato  in  Firenze  il  Governo,  caduti  i 
triumviri,  ristaurato  il  principe,  sospese  le  paghe:  e  allora  divennero 
infesti  nell'interno  (175) ,  più  che  non  lo  erano  stati  ai  nemici  nel 
confine. 
*  Per  queste  vicende,  la  spesa  dell'esercito  che  alla  metà  (176)  e 


(172)  Odasi  ciò  che  della  Guardia  Municipale,  la  meglio  pagata,  scri- 
veva il  Marmocchi,  ministro  dell'interno,  al  Guerrazzi,  da  Livorno,  disp. 

I  marzo  1849  •  sono  due  grandissime  piaghe,  la  e  la  Municipale 

a  indisciplinata  e  ladra,  spavento  dei  galantuomini  e  del  commercio ,  do- 
A  lore  grandissimo  dei  buoni  patrioti  ».  |Reco  questo  ed  i  seguenti  giudizii, 
perchè  meglio  si  scorgano  i  frutti  della  dominazione  Lorenese,  e  delle 
improntitudini  popolari. 

(173)  Assai  più  notevoli  e  severi  sono  i  giudizii  che  di  quell'accozzaglia 
fece  il  Guerrazzi.  App,  air  Apologia,  p.  72.  'k  Di  due  maniere  ebbi  a  espe- 
fl  rimentare  volontarii,  foranei  e  nostrali:  pellegrini  i  primi  della  libertà 
«  non  mica,  bensì  di  quante  osterie  e  postriboli  occorrono  da  un  estremo 
«  all'altro  della  penisola:  e  se  non  tutti,  almeno  in  parte,  e  spesso  fedi- 

c  fraghi  e  ladri e  quando  non  riescano  nei  mal  sortiti  disegni,  si  sban- 

•  dano  con  vergogna.  Dei  nostrali  poi,  alcuni  erano  mossi  da  amore  san- 
«  tissimo  di  patria,  altri  da  ingegno  torbido,  da  speranza  di  scioperato 
a  vivere  e  da  presagio  di  facile  vittoria  ».  V.  Gazz.  di  Torino,  1861,  n«  169. 

(174)  Il  generale  D'Apice  scriveva  il  27  febbraio  1849  al  Guerrazzi  : 
«  Che  faranno  le  truppe  nel  momento  dell'attacco?  io  l'ignoro».  E  addì 
8  marzo  al  ministro  della  guerra:  «  Qui  viviìamo  ad  imprestiti.  La  prima 
t  volta  che  un  capitano  si  presenterà  alla  compagnia  dicendo  non  vi  è 
t  denaro,  io  resterò  senza  truppa  ».  E  addi  6  aprile  di  nuovo  al  Guerrazzi: 

II  Sempre  più  mi  confermo  della  falsa  posizione  in  cui  mi  trovo.  Se  il  ne- 
«  mico  penetra  per  l'Abetone  marcia  su  Firenze.  Se  per  Garfagnana  scende 

a  diritto  a  Lucca Nell'uno  e  nell'altro  caso  io  sono  tagliato  fuori  con 

I  le  poche  truppe  che  ho,  e  sulla  fedeltà  delle  quali  uon  posso  contare  e 
ff  perdo  l'onore  ».  A  questi  rapporti,  piacevolmente  rispose  il  ministro 
della  guerra:  «  Eimanendo  senza  soldati  è  inutile  chiedere  istruzioni, 
«  mentre  se  avviene  la  temuta  diserzione,  io  non  saprò  come  rimediarvi  ». 

(175)  V,  Ricordi  sulla  Commissione  Governativa  Toscana  del  1849  di  L. 
G,  Cambray-Digny,  Gap.  ix.  La  indisciplina  poi  era  tale  che  da  soldati 
venne  minacciata  la  vita  del  generale  Mei  ani  :  anche  il  maggior  Pieri,  che 
fu  poi  complice  dell'Orsini ^  corse  pericoli. 

(176)  F.  Bilancio  di  previsione  pel  1757,  in  cui  l'amministrazione  della 
guerra  figura  per  lire  2,244,466.  Trovasi  fra  i  documenti  originali  passati 
dairarchivio  mediceo  a  quello  delle  riformagioni.  F.  Zobi,  Stor,  civ,  della 
Toscana,  t.  I ,  Doc.  XXVII. 


230  EIVISTA   CONTBMPORANKA 

alla  fine  (177)  del  secolo  scorso  superava  di  poco  i  due  milioni,  e 
nel  quarantasette  (178)  non  giungeva  ai  cinque,  ascese  nel  qua- 
rantotto (179)  a  dieci  milioni.  Nel  quarantanove  la  si  previde  di 
undici.  Il  piccolo  esercito,  alla  meglio  riordinato,  col  disperdere  i 
riottosi,  sciogliere  i  quadri  che  non  aveano  militi,  cancellare  i  reg- 
gimenti fantastici ,  tornare  agli  antichi  (130) ,  constava  allora ,  di 
due  di  fanti ,  uno  di  veliti ,  qualche  compagnia  di  artiglieri,  altre 
di  cacciatori,  uno  squadrone  di  cavalli,  le  compagnie  de' veterani, 
dei  cannonieri  di  costa,  de'presidii,  e  nulla  più:  in  tutto  settemila 
uomini.  Erano  cosi  raccolti  :  la  coscrizione  dava  i  militi  (181):  l'an- 
zianità e  il  favore  gli  ufficiali  :  niun  collegio  o  scuola  militare,  nem- 
meno per  le  armi  dotte  (182)  :  mancanza  solo  giustificata  dal  niiln 
conto  in  cui  esse  erano  tenute.  Tutto  il  materiale  dell'artiglieria  e 
le  munizioni  erano  stimate  nel  bilancio  del  quarantasette  (183)  per 
poco  più  di  due  milioni  :  in  quello  del  quarantanove,  dopo  i  seguiti 
aumenti,  per  tre  milioni  e  novecento  mila  (184):  accrescevasi  poi 
ogni  anno  per  poco  più  di  quarantamila  lire  (185)  :  pegli  artiglieri 
spendevasi  quasi  un  milione  :  il  costo  medio  di  un  ufficiale  dell'eser- 
cito non  giungeva  a  lire  duemila  per  anno  :  quel  de'  militi  a  seicento 
lire.  Così  il  mantenimento  de' corpi  militari  assorbiva  circa  sette 
milioni  :  altri  tre  andavano  in  quelle  spese  che  diconsi  non  eflfettive. 
La  disciplina,  assai  migliore  da  quel  ch'era  sotto  i  triumviri,  quando 
la  turba  predicando  ai  soldati  essere  cittadmi  anch'essi,  li  trascinava 
fuor  delle  fila,  ad  accender  baldorie  su  per  le  piazze,  ed  aiutare 
schiamazzi  ne'  circoli.   Ma  non  era  più  severa  di  quella  che  negli 

(177)  Governo  della  Toscana  sotto  il  regno  di  S.  M.  Leopoldo  I.  Stamperia 
Cambiagi,  1790.  La  spesa  della  guerra  pel  1765  ammontò  a  L.  1,918,294. 
13.  3,  compreso  la  marina,  e  nel  1789  a  L.  2,272,951.  6.  4. 

(178)  F.  Rendiconto  della  Finanza  Toscana  pel  1847. 

(179)  V,  Rendiconto  della  Finanza  Toscana  per  gli  anni  1848-50. 

(180)  Co' decreti  13,  17,  19,  27  aprile  1849  vennero  disciolti  i  corpi  della 
Guardia  Municipale:  de'volontarii  Guarducci,  Petracchi  e  Peva:  il  Batta- 
glione Italiano;  il  Battaglione  Bersaglieri:  il  22  aprile  aperti  nuovi  ruoli 
pe' Yolontarii  che  intendessero  servire  3  anni:  il  27  richiamati  i  disertori, 
e  bandita  una  nuova  leva. 

(181)  Leggi  8  maggio  1828  e  8  agosto  1826. 

(182)  Il  primo  pensiero  d'istituire  un  collegio  militare  in  Toscana,  uopo 
è  dirlo  a  lode  del  vero,  nacque  nel  ministro  della  Guerra  d'Ayala;  il  quale 
ne  rendeva  conto  al  ministro  delle  Finanze,  in  data  28  dicembre  1848  con 
queste  parole  :  avere  vagheggiato  assai  sottilmente  il  pallido  pensiero  di  un 
militare  liceo, 

(183)  L.  2,013,771.  V,  Rendiconto  della  Finanza  Toscana  nel  1847. 

(184)  L.  3,935,190.  F.  .  »  »  1848-50. 

(185)  Nel  1847  si  spesero  presso  a  poco,  secondo  il  solito,  31,418  lire: 
nel  1848  L.  131,851:  nel  1849  L.  108,052:  nel  1850  L.  57,024,  e  cosi  via 
via  si  diminuì  :  onde  il  materiale  era  pochissimo. 


STUDII   STORICI   E   AMMINISTRATIVI  231 

anni  innanzi  il  quarantotto  veniva  lamentata  ogni  volta  occorresse 
discorrere  del  soldato  toscano.  Ed  a  ragione,  perchè  non  erano  mu- 
tate le  leggi,  per  le  quali  in  tempo  di  pace,  i  delitti  dei  militari 
non  punivansi  dappiù  di  quelli  dei  civili  ;  e  la  impunità  ottenuta  dai 
rei,  anche  in  tempo  di  guerra,  fino  da  quelli  che  aveano  assassinato 
il  loro  duce,  avea  tolto  agli  occhi  de' militi  ogni  prestigio  alla 
legge.  Tale  era  lo  stato  dell'esercito  toscano  tenuto  in  poco  conto 
da'cittadini,  in  nessuno  dal  principe  e  dalle  milizie  austriache.  Qual 
fosse  poi  il  suo  ufficio  arduo  era  il  conoscerlo,  una  volta  che  il  prin- 
cipe non  mostrava  fede  che  negli  austriaci  :  ai  confini  omai  invasi 
non  occorreva  difesa  :  la  indipendenza  dello  Stato  era  una  vana  pa- 
rola co'  nemici  dentro  casa  ;  ed  alla  interna  sicurezza  vegliavano 
meglio  assai  de'  militi  toscani  le  turbe  de'  poliziotti  e  de'birri. 

XXXVIII.  —  Ninna  forza  marittima,  dacché  Leopoldo  I  vendendo 
le  migliori  navi ,  disfacendo  le  malconcie ,  vi  avea  dato  il  colpo  di 
grazia.  Nissuno  avea  più  pensato  a  ristaurarla.  L'annua  spesa  della 
marina  che  nei  bilanci  del  secol  scorso  appariva  (186)  per  più  di 
quattro  cento  mila  lire,  nel  quarantanove  era  appena  di  centocin- 
quanta mila  (187)  :  così  distribuite  :  centoquaranta  mila  al  corpo,  il 
quale  componeasi  di  tredici  ufficiali  e  centotredici  marinai  :  dieci- 
mila appena  a  mantenere  il  materiale,  composto  di  un  solo  e  pic- 
colo vapore,  due  o  tre  bastimenti,  qualche  barca  da  approdo  e  nul- 
l'altro.  Basti  che  ne'bilanci  della  finanza  era  valutato  tutto  il 
materiale  marittimo,  lire  duecento  novantatre  mila  (188).  A  queste 
proporzioni  era  ridotta  la  marina  che  in  altri  tempi  avea  corso  i 
più  lontani  mari,  resistito  alle  tempeste,  cercato  tesori  e  lidi  scono- 
sciuti, vinte  battaglie,  superate  le  flotte  de'  maggiori  Stati  dell'Eu- 
ropa. Non  scuole  navali  ;  non  premii  a  naviganti  ;  non  cantieri.  Elba 
e  Livorno,  e  la  spiaggia  che  dai  confini  della  provincia  di  Pisa  si 
distende  fino  a  quelli  dello  Stato  Ecclesiastico,  inutil  beneficio  della 
fortuna.  Così  venendo  meno  la  marina  guerresca,  mentre  gli  altri 
Stati  centuplicavano  la  propria,  perde  pure  ogni  riputazione  la  com- 
merciale :  che  i  noleggiatori  preferivano  munirsi  di  patenti  di  quegli 
Stati  che  aveano  forza  a  proteggerli. 

XXXIX.  —  Mancando  omai  una  marina  che  tutelasse  le  ragioni 
de'  sudditi  e  del  governo,  affidaronsi  a  trattati,  i  quali  aveano  da  pro- 
teggere la  bandiera,  i  traffici,  le  vite  dai  barbareschi,  il  commercio  da 
ingiuste  restrizioni, 
dei  defunti, 


restrizioni,  i  patti  di  reciprocanza  marittima,  le  proprietà 
ti,  i  parti  dell'ingegno ,  le  ragioni  dei  privati,  l'esecuzione 


(186)  F.  Bilancio  di  previsione  pel  1757.  Archiv.    delle  Riformagioni  : 
Gov.  della  Toscana  sotto  il  regno  di  S.  M.  Leop.  I.  Zobi,  Si,  civ.^  1. 1  e  2. 

(187)  V.  Rendiconto  della  Finanza  Toscana  nel  1848-50. 

(188)  F.  Rendiconti  del  1847-48-49-50. 


232  RIVISTA   CONTEMPORANEA 

delle  criminali  sentenze.  Di  questi  trattati,  alcuni  erano  di  antica 
età,  via  via  corretti  da  altri,  o  rinnovati,  così  per  rinfrescare  gli 
obblighi  o  aggiungere  forza  ove  mancava  fede  di  contraente.  E  tutti 
insieme,  i  vecchi  e  i  nuovi  componevano  il  dritto  intemazionale  del 
Granducato. 

Cinque  trattati  con  Turchia:  il  primo  (189)  e  il  secondo  (190) 
antichissimi,  davano  ai  Toscani  abilità  di  commerciare  coll'impero, 
ma  con  bandiera  e  patente  dell' imperatore  de' Romani  :  un  terzo  del 
secol  scorso  (191),  concedeva  lo  stabilir  consolati  negli  scali  di  Tur- 
chia, le  merci  pagassero  il  tre  per  cento  del  loro  valore  e  senz' altri 
aggravii,  potessero  spandersi  per  ogni  dove:  altri  due  trattati  del 
trentatre  (192)  e  del  quarantuno  (193)  confermavano  quegli  accordi, 
altri  patti  aggiungevano,  base  le  reciprocità,  fine  avvantaggiare  i 
traffici  de' Toscani  in  Levante.  Due  trattati  con  Tripoli  (194)  e  Tu- 
nisi (195)  avvisavano  di  por  termine  nel  secolo  sc<^so  a  piraterie, 
sicurare  il  commercio,  i  navigli  de'  Toscani,  dai  ladronecci  dei  cor- 
sari, che  fin  nel  porto  di  Livorno,  un  tempo,  ardivano  inseguirli. 
Patti  che  non  giiarentiti  da  una  propria  fiotta,  racoomandavansi  alla 
buona  fede  tripolina  e  tunisina,  fede  corsara,  peggio  che  punica.  Con 
Tunisi  altri  trattati  confermarono  questi  accordi  (196) ,  abolirono  la 
schiavitù  (197),  restituendo  i  catturati:  per  ultimo,  imo  del  venti- 
due (198)  fermava  amistà,  libero  il  commercio,  navigazione  tran- 
quilla ;  le  merci  toscane  pagassero,  come  in  Turchia,  il  tre  per  cento 
del  loro  valore;  i  consoli  giudici  dei  litigiiira  toscani  ;  le  proprietà 
dei  defunti  si  serbassero  agli  eredi  ovunque  fossero.  Uguali  accordi 
con  Tripoli  nei  trattati  del  diciotto  (199),  del  ventuno  (200)  e  del 
ventinove  (201).  E  fin  qui  reggevano.    Con  Austria  resse  a  lungo 

(189) 1561.  É  inedito.  Lo  accenna  lo  Zobi,  Storia  civile  della 

Toscana^  t.  5. 

(190)  Diploma  di  Maometto  IV,  12  febb.  1667.  É  inedito.  V,  Zobi,  t.  5. 

(191)  Trattato  di  pace  e  di  commercio  dei  25  maggio  1747.  V.  Raccolta 
delle  Leggi  toscane. 

(192)  Trattato  di  pace,  amicizia  e  commercio  12  febb.  1833.        Ibid. 

(193)  Trattato  di  commercio  7  giugno  1841.  Ibid. 

(194)  Trattato  di  pace,  di  commercio  ecc.  27  gennaio  1749.         Ibid. 

(195)  »  »  »  23  dicembre  1748.       Ibid. 

(196)  Trattato  supplementare  13  gennaio  1758.  Ibid. 

(197)  Preliminari  di  pace  26  aprile  1816.  Ibid. 

(198)  Trattato  di  pace  11  ottobre  1822.  Ibid. 

(199)  Articoli  preliminari  di  pace  24  dicembre  1818.  Ibid. 

(200)  Trattato  di  pace  ecc.  21  aprile  1821.  Ibid. 

(201)  Trattato   supplementare  5   marzo  1829^.    Inedito.  Lo  accenna  lo 
Zobi,  St.  dv.,  tom.  5. 


STUDn  8T0BICI  ^  AMMIKISTRATIVI  2S3 

una  convenzione  del  secol  scorso  (202),  poi  confermata  da  altra  (203) 
che  da  ambedue  le  parti  riduceva  i  dazii  su  grasce  e  tessuti  alla 
metà  dell* usato:  nutrimento  questo  agli  scambii  fra  i  due  Stati. 
Altri  trattati  di  commercio  e  navigazione  con  Inghilterra  (204) ,  di 
navigazione  con  Svezia  (205),  di  reciprocità  di  trattamento  deUe  ri- 
spettive bandiere  con  gli  Stati  Uniti  (206),  col  Belgio  (207),  con 
Prussia  (208),  con  Austria  (209),  con  Svezia  e  Norvegia  (210).  Acce- 
duto agli  accordi  di  Francia  e  Inghilterra  sull'abolizione  della  tratta 
de*  Negri  (211):  con  Svezia  (212),  con  Austria  (213),  con  Prussia  (214), 
col  Belgio  (215),  con  la  Svizzera  (216;  cancellato  il  barbaro  diritto 
detto  di  albinato,  per  cui  erano  del  principe  i  beni  dello  straniero, 
che  senza  lettere  di  naturalità  morisse  fuor  di  patria  :  e  per  ultimo 
stipulato  con  Austria  (217)  e  con  Francia  (218)  Testradizione  dei  rei. 
Questi  i  trattati  con  Testerò.  In  Italia  poi  era  Toscana  vincolata 
air  estradizione  dei  rei  d*ogni  specie  e  dei  disertori  con  Parma  (219), 
Modena  (220),  Sardegna  (221),  Roma  (222):  alFabolizione  delFalbi- 


(202)  J:diUo  di  Francesco  II  granduca  di   Toscana,  23  febbraio   1748. 
F.  Raccolta  delle  Leggi. 

(203)  Trattato  di  commercio  16-27  ottobre  1769.  Inedito.  Le  sue  disposi- 
zioni sono  inserite  nel  motuproprio  18  die.  1775.  Raccolta  delle  Leggi. 

(204)  Trattato  di  commercio  e  navigazione  5  aprile  1847.  Ib. 

(205)  Trattato  di  navigazione  15  ottobre  1847.  Ib. 

(206)  Dichiarazione  1  settembre  1836  del  presidente  degli  Stati-Uniti. 
7.  Zobi.  S^  civ.,  t.  4. 

(207)  Dichiarazione  20  dicembre  1839  del  ministro  degli  affari  esteri  del 
Belgio.  V.  Raccolta  delle  Leggi. 

(Ì08)  Dichiaraz.  scambiata  dal  governo  toscano  col  governo  di  Prussia, 
9  aprile  1847.  F.  Raccolta  delle  Leggi. 

(209)  Dichiaraz.  scambiata  dal  governo  toscano  ool  governo  d'Austria, 
24  aprile  1847.  F.  Raccolta  delle  Leggi. 

(210)  Dichiaraz.  scambiata  dal  governo  toscano  col  governo  di  Svezia 
e  Norvegia—  26 gennaio,  25  giugno  1841.  F.  Raccolta  delle  Leggi. 

(211)  Atto  di  accessione  24  novembre  1837  ai  trattati  30  novembre  1831 
e  22  marzo  1833  fra  Francia  e  Inghilterra. 

(212)  Dichiarazione  5-6  maggio  1819  del  governo  toscano  e  del  ministro 
svedese  in  Firenze.  F.  Raccolta  delle  Leggi. 

(213)  Convenzione  31  agosto  1821.  F.  Raccolta  delle  Leggi. 

(214)  Dichiarazione  25  apr.  1826  fra  i  due  Stati.        Ibid. 

(215)  »  7  aprile  1848.  Ibid. 

(216)  »  28  agosto  1839.  Ibid. 

(217)  Due  convenzioni  12  ottobre  1829.  Ibid. 

(218)  Convenzione  11  settembre  1844.  Ibid. 

(219)  Due  convenzioni  2  agosto  1817.  Ibid. 

(220)  Convenzione  20  giugno  1818.  Ibid. 

(221)  »  7  die.  1825  e  12  genn.  1836.         Ibid. 

(222)  •  15  febbraio  1827.  Ibid. 


234  RIVISTA  CX)NTBMPOBANBA 

naggio  con  Parma  (223),  Sardegna  (224),  Napoli  (225):  alla  tutela  delle 
produzioni  dell'ingegno  dalla  pirateria  libraria,  con  Austria  e  Sarde- 
gna (226),  Modena  (227)  e  Parma  (228)  :  alla  reciprocità  di  tratta- 
mento delle  navi,  nei  porti  dello  Stato,  con  Roma  (229):  un  trattato 
di  commercio  e  navigazione  avea  solo  con  Sardegna  (230).  Questi 
i  legami  del  Granducato  cogli  Stati  italiani. 

Fra  tante  convenzioni ,  è  notevole  che  poche  fossero  di  com- 
mercio, e  quelle  poche  antichissime  :  in  Italia  una  sola  :  più  che  a 
prosperità  dei  traffici,  moltiplicità  di  trattati  a  riavere  i  delinquenti: 
confusi  i  rei  di  Stato  con  quelli  di  dehtti  comuni. 

Poche  le  legazioni  e  i  consolati  a  rappresentare  all'estero  le  ra- 
gioni dello  Stato,  amicargli  le  Corti,  doppiarne  i  rapporti,  tutelarne 
i  traffici  e  i  sudditi.  Fino  al  quarantasei  non  avea  la  Toscana  che 
tre  legazioni,  a  Vienna,  a  Parigi,  a  Costantinopoli.  Nel  quaransette 
vi  aggiunse  quella  di  Roma.  Nel  quarantotto  quelle  di  Napoli  e  To- 
rino. A  Londra,  a  Pietroburgo,  a  Madrid,  a  Lisbona,  all'Aja,  a  Ber- 
lino, non  avea  alcun  ministro.  La  spesa  delle  legazioni  giungeva 
appena  a  trecentomila  lire  per  anno  (231).  Ma  anche  più  imperdo- 
nabile era  la  scarsità  dei  consolati:  nulla  costavano  allo  Stato:  in 
alcuni  luoghi  le  ragioni  dei  Toscani  erano  affidate  ai  consoli  del- 
TAustria:  là  dove  poi  lo  Stato  avea  consoli  proprii,  o  erano  stranieri 
a  Toscana  o  mercanti  che,  soddisfatta  la  boria,  si  industriavano  a 
rimuoverne  i  pesi  :  e  vi  riuscivano  a  meraviglia  :  sicché  né  le  ra- 
gioni dei  privati  aveano  mai  efficace  protezione,  nò  lo  Stato  ricevea 
lustro  da  quei  consoli.  E  il  Governo,  il  quale  dava  fondo  ogni  anno 
a  quasi  una  entrata  di  quaranta  milioni,  qui  usando  una  malconsi- 
gliata  economia,  coglieva  questo  frutto,  di  isolare  Toscana  nel  bel 
mezzo  d'Europa,  mantenerla  all'infuori  de' grandi  commerci,  lontana 
da  grossi  centri,  impoverire  i  sudditi,  ed  assottigliare  ogni  anno  le 
risorse  dello  Stato;  necessità  allora  di  prestiti  o  nuove  imposte. 

XL.  —  Nondimeno  la  ricchezza  nazionale  mantenevasi  pei  buoni 
ordini  economici ,  ch'erano    la    miglior  parte  dell'armatura  dello 


(223)  Trattato  2  agosto  1817.  V,  Raccolta  delle  Leggi. 

(224)  •  5  gennaio  1818.  Ibid. 

(225)  Decreto   del  Re  di  Napoli  3  maggio   1819.   Inedito  in  Toscana. 

V.  Raccolta  delle  Leggi  delle  Due  Sicilie. 

(226)  Accessione  7  dicembre  1840  al  trattato....  fra  Austria  e  Sardegna. 

(227)  »  7-10  febbraio  1843  al  trattato  suddetto. 

(228)  »  14  febbraio  1843. 

(229)  Notificazione  del  governo  di  Livorno,  23  febbraio  1847,  con  cui  al- 
l'art. 3  si  stabilisce  il  trattamento  della  bandiera  pontificia.  V.  Gazzetta 
di  Firenze ,  n.  24  del  1847. 

(230)  Trattato  5  giugno  1847. 

(231)  V.  Rendiconto  della  finanza  1848-49-50,  cat.  Spese,  tit.  3,  prosp.  II. 


STODII  STOEICI  B  AMMINISTRATIVI  235 

Stato ,  meraviglia  e  scuola  agli  estranei  (232),  vergogna  agli  altri 
Stati  d'Italia  pei  quali  pareva  invero  non  valesse  esempio  o  scuola. 
Ora  risalendo  alla  origine  di  quegli  ordinamenti,  verrà  in  chiaro 
come  i  Toscani  fino  al  quarantanove  ne  menassero  un  giusto  vanto, 
e  il  Governo,  il  quale  potè  aprire  il  confine  ai  nemici  de' suoi  sud- 
diti, non  ardisse  mai  vulnerare  quegli  ordini.  Notevolissimo  indizio 
della  civiltà  toscana,  le  buone  leggi  dello  Stato  essere  cosi  impresse 
nella  coscienza  de' cittadini,  che  il  Governo  non  potesse  falcidiarle, 
senza  offenderli,  e  quanti  erano  i  cittadini,  altrettanti  fossero  i  vi- 
gili custodi  di  quelle  leggi.  Perchè  da  quelle  riconosceano  la  ric- 
chezza di  cui  godevano.  Avea  essa  patito  varie  vicende:  prospera 
quando  ne' secoli  andati  era  quasi  privilegio  delle  repubbliche  ita- 
liane, scadde  poi  con  la  loro  fortuna.  Prima  cagione  di  prosperità 
le  crociate,  per  cui  i  mercatanti  toscani  si  spinsero  in  Levante,  reca- 
ronvi  merci ,  trassero  tesori  :  sì  un  tesoro  anch'essi  vi  portarono, 
quel  della  civiltà,  che  disdegna  i  confini,  vince  le  distanze,  ha  a 
patria  il  mondo.  Firenze  e  le  altre  città  italiane  erano  allora  i  ban- 
chi degli  Stati  europei  :  la  libertà  moltiplicò  quelle  ricchezze  :  poi  il 
principato  le  assottigliò:  i  mali  ordini  le  distrussero:  traffici  e  so- 
stanze s'apersero  altre  vie,  approdarono  ad  altri  lidi.  Si  aggiunsero 
le  scoperte  dell'America,  e  del  Capo,  sconsigliate  guerre  in  Levante 
a  mutare  i  centri  della  mercatura ,  torla  a  noi ,  recarla  in  paesi 
da  poco  sbarbariti.  La  concorrenza  fece  il  resto.  Grandezza  di  Stati, 
grossi  eserciti ,  gloriosa  marina ,  avea  dato  i  mari  e  i  traffici  in 
mano  a  Inglesi,  a  Fiamminghi,  a  Spagnuoli,  poi  a  Francesi:  per 
opposte  cagioni  li  aveano  perduti  le  città  italiane:  e  dove  più  era 
bisogno  di  scienza  a  vincere  la  potenza  degli  stranieri,  eran  nate 
leggi  disparatissime,  irrazionali,  aiuto  alla  concorrenza  degli  altri 
popoli.  Anche  in  Toscana  la  si  aiutò  per  mille  guise ,  con  leggi 
restrittive ,  proibitive ,  che  volendo  fare  dei  traffici  un  privilegio, 
e  proteggerli  di  troppo,  tolsero  loro  il  sole,  che  sol  li  vivifica  e 
scalda ,  quel  della  libertà.  Di  qui  erano  nati ,  per  manco  di  sa- 
pienza, dazii  enormi  sulle  materie  di  cui  avea  più  d'uopo  l'in- 
dustria, divieti  per  quelle  ch'erano  del  suolo,  dogane  da  città  a 
città,  molteplici  sistemi  di  esazione,  varietà  di  imposte  :  quant'erano 
i  Comuni  altrettanti  gli  Stati  dannati  al  cerchio  di  poveri  interessi, 
a  versarsi  in  ogni  ramo  di  traffici,  quant'erano  le  necessità  del  Co- 

(232)  Riccardo  Cobden,  venuto  in  Italia  nel  47,  parlò  cosi  innanzi  ai- 
rAccademia  de' Georgofili :  «Lasciatemi  aggiungere  che  noi  avemmo  il 
fl  vostro  buon  esempio;  noi  non  isdegnammo,  ve  l'assicuro,  di  citare  l'e- 
«  sempio  della  Toscana,  perchè  stampammo  un  rapporto  sul  sistema  del 
u  libero  commercio  di  questo  paese,  rapporto  ehe  fu  consegnato  a  ciascuno 
r  dei  membri  della  nostra  Camera  dei  Comuni  ».  F.  poi  la  nota  241. 


236  RIVISTA   CONTEMPORÀNBA 

mune:  veri  piccoli  mondi,  che  aveano  a  bastare  a  sé  e  provvedere 
solo  per  sé.  Notò  uno  scrittore,  che  una  merce  la  quale  fosse  da  Li- 
vorno inviata  a  Cortona,  toccava  dieci  dogane,  quarantaquattro  im- 
poste, perdendo  un  sesto  del  suo  valore  (233).  Non  migliori  le  in- 
dustrie :  statuti  senza  numero,  privilegii  d'ogni  ragione,  fuor  di  una 
àola:  fin  allo  spirare  del  secol  scorso,  erano  vissute  le  corporazioni 
dell'arti  :  lo  esercizio  era  un  privilegio  :  il  privilegio  sottraeva  i  pri- 
vilegiati al  gius  e  al  foro  comune:  i  figli  seguivano  la  sorte  del 
padre:  obbligo  in  essi  di  appararne  il  mestiere:  vietato  il  torsi  da 
una  per  altra  ofScina  senza  il  consenso  dei  padroni  e  de' consoli 
dell'arte  :  mercedi  scarse  ;  insufiScienti  al  cibo  quotidiano  :  gli  operai 
in  peggio  stato  de' coloni:  sicché  l'industria  difettava  di  braccia  : 
soverchia  protezione  la  soffocava,  essa  che  per  vivere  ha  duopo  di 
aria  libera  :  e  soventi,  capitali,  ingegno  e  forze  produttive  si  fran- 
geano  in  vani  sforzi.  Onde,  fra  queste  pastoie  e  mali  ordini,  nel 
secolo  scorso  la  industria  era  nulla;  languido  il  commercio:  né 
bastava  a  inanimirlo  che  Livorno  fin  dai  tempi  di  Cosimo  I  fosse 
porto-franco  :  le  importazioni  valutavansi  otto  volte  più  delle  espor- 
tazioni :  queste  al  più  otto  milioni  :  due  terzi  erano  manifatture  (234): 
la  popolazione,  stazionaria,  indizio  infallibile  di  miseria. 

Tali  erano  (235)  le  condizioni  dei  traflSci  e  dell'industrie  quando 
nel  secolo  scorso  spuntò  l'aura  della  loro  libertà:  guai,  di  cui  anche 
nel  quarantanove  talun  vecchio  poteva  serbare  ricordo.  Pochi  poi 
ignoravano,  e  qui  consisteva  il  vanto  di  Toscana,  che  sedici  anni 
prima  del  Quesnay  (236),  trentuno  del  Galiani  (237),  trentasei  di 
Adamo  Smith  (238),  Sallustio  Bandini  (239),  umile  prete,  avea  a 
principe  qui  granduca ,  in  Vienna  imperatore ,  favellato  di  libertà 
commerciale  :  e  quando  il  Colbertismo  imperava  in  Europa,  e  prima 
che  Turgot  lo  combattesse,  e  Roberto  Peel  molti  lustri  dipoi  lo 
distruggesse  in  Inghilterra,  il  Neri  (240)  toglieva  in  Toscana  i  vin- 

(233)  Carli.  Saggio  politiro  ed  economico  della  Toscana,  Milano  1787.  Lo 
scrisse  nel  1757  ;  ebbe  gli  appunti  dalla  Dogana  di  Pisa,  ov'era  direttore 
F.  M.  Gianni,  che  poi  fu  senatore  e  ministro. 

(234)  Carli.  Ibidem. 

(235)  Sul  commercio  e  sull'industria  toscana ,  V.  Pignotti,  Saggio  sul 
commercio  dei  Toscani;  Zobi,  Manuale  economico. 

(236)  Quesnay.  TraUalo  sulla  libertà  dei  grani,  inserto  neirEnciclope- 
dia.  Parigi  1755. 

(237)  Galiani.  Dialoghi  sul  commercio  dei  grani.  Parigi  1770. 

(238)  Smith.  Sulla  ricchezza  delle  nazioni ,  1775. 

(239)  Bandini.  Discorso  economico  sulle  maremme  senesi,  scritto  nel  1736, 

f presentato  a  Francesco  II  nel  1739,  quando  il  Galiani  avea  undici  anni,  e 
0  Smith  ne  avea  nove.  Quel  discorso  venne  stampato  solo  nel  1775, 
morto  l'autore. 

(240)  V,  Memoria  del  Neri  a  difesa  della  legge  sul  libero  commercio 
dei  grani,  inserta  nelTappendice  ai  Provvedimenti  annonarii ,  del  cav.  Fab- 
broni. 


STUDII  STOfilCI  B  AMMINISTRATIVI  237 

coli  del  commeFcio,  sbrigliava  i  traffici  e  le  industrie,  nel  nome 
de' principi!  che  alBandini  valsero  in  vita  fama  di  pazzo,  e  dopo  morte 
gloria  imperitura  :  la  quale  principi  e  scrittori  fecero  poi  loro  (241), 
frodandola  al  Bandini,  quando  egli  non  parve  più  tocco  da  pazzia  o 
fu  gloria  apparire  prima  di  lui  pazzi.  Così  il  commercio,  nato  libero, 
avvincolato  poi,  tornò  libero  in  Toscana  prima  che  altrove.  Ora 
poiché  le  leggi  nuove  non  vennero  distrutte  mai  più,  discorren- 
dole brevemente ,  avrò  raccolto  in  questo  fuggevole  quadro,  quelle 
che  erano  in  vita  nel  quarantanove,  a  gloria  e  prosperità  dello  Stato. 
Vincoli  distrutti,  libertà  diffusa  negli  ordinamenti  economici,  ma  a 
gradi,  a  spizzico,  tanto  che  il  passaggio  dalle  restrizioni  ai  benefici! 
del  libero  scambio  avvenisse  senza  gravi  perturbazioni.  Erasi  inco- 
minciato dal  commercio  dei  grani,  un  tempo  costretti  a  restar  dove 
erano,  marcir  sul  sudo,  se  abbondavano  :  prima  conceduto  il  trarli 
dmlla  sola  maremma  per  dodici  anni  (242),  poi  lo  introdurli  nello 
Stato  per  quattro  mesi  (243),  indi  per  sedici  (244),  e  per  ultimo, 
meno  lievi  limitazioni,  a  tempo  indefinito  (245)  :  sparvero  ancor 
quelle  (246):  la  congregazione  dell'annona  e  le  magistrature  che 
aveano  a  scopo  satollare  e  invece  affamavano,  caddero  per  non  ri- 
sorgere :  la  vigilanza  del  Governo  nei  prezzi  de'  prodotti  del  suolo, 
nelle  sussistenze,  si  parve,  quale  è,  nefiasta  (247):  e  il  commercio 
dei  grani  divenne  libero.  Tolti  i  gravosi  dazi!  sui  frumenti  esteri, 
eran  pure  scomparsi  quelli  che  fra  città  e  città  ne  contrariavano  la 
circolazione  (248),  il  divieto  di  fabbricare  o  vendere  pane,  le  tasse  e 
privative  sul  vital  nutrimento. 

Sancito  il  principio  del  libero  scambio,  che  prima  o  poi  afliratel- 
lerà  tutti  !  popoli  per  via  di  scambievoli  profitti,  mancava  il  trame 
il  maggior  partito,  onde  i  germi  che  Toscana  racchiudeva  in  seno 
e  fino  allora  imbozzacchiti  per  manco  di  spazio  e  di  libertà,  frutti- 
ficassero. Quel  che  più  ripugnava  ai  principii  della  sana  economia, 
le  gabelle  sulle  prime  necessità  erano  state  moderate  :  scosso  l'antico 

(341)  11  governo  inglese  nel  1827  richiese  alla  Toscana  comunicazione 
delle  leggi  sulla  libertà  del  commercio  dei  grani  e  delle  modificazioni 
che  aveano  subito  negli  ultimi  trent*anni. 

(343)  Nel  1739 ,  ma  solo  per  due  terzi  d^lle  granaglie  raccolte  nelle 
maremme. 

(343)  2  aprile  1764. 

(244)  7  aprile  1766. 

(245)  18  settembre  1767. 
(346)  24  agosto  1775. 

(247)  Diceva  il  Fossombroni  :  «  Un  governo  fa  troppo  poco  quando  non 
fa  nulla  per  regolare  i  prezzi  delle  cose  ;  per  fare  abbastanza,  dee  assicu- 
rare il  pubblico  che  non  farà  mai  nulla  in  quel  senso,  e  'specialmente  noi 
commercio  delle  sussistenze  ». 

(248)  Decreto  15  settembre  1766, 


238  RIVISTA  CONTBMPORÀNBA 

sistema  daziario  (249)  :  le  dogane  distrettuali  così  regie  che  dei 
Comuni,  le  tariffe  estratti  parziali  erano  scomparse:  serbatasi  una 
sol  linea  doganale,  quella  della  frontiera:  una  sol  tariffa  per  Tin- 
troduzione,  estrazione  e  transito  delle  merci:  alle  porte  delle  città, 
il  dazio  consumo,  vario  dall'una  all'altra:  tolti  i  balzelli  sui  pesi  e 
misure  che  tormentano  il  piccolo  commercio  e  di  poco  aiutano  l'era- 
rio. Compiuta  poi,  nel  secol  scorso,  una  nuova  tariffa  daziaria,  via 
via  corretta  e  ampliata,  vivea  ancora  nel  quarantanove  :  buona  dap- 
prima, non  lo  era  più  quando  lo  svolgersi  dei  traflSci  e  di  una  più 
di  altra  industria,  ne  chiesero  una  migliore  e  consona  alle  mutate 
condizioni. 

Anche  l'industria  crasi  emancipata  dalle  antiche  pastoie  (250): 
i  vincoli  alle  arti  ed  ai  mestieri,  gli  obblighi  degli  operai,  le  patenti 
di  esercizio,  i  monopolii  opificiarii,  le  privative,  i  privilegii  d'ogni 
maniera,  il  magistrato  supremo  e  le  corporazioni  delle  arti,  i  tribu- 
nali e  gli  statuti  che  vi  presiedevano,  le  leggi  che  offendevano  la 
libertà  dell'uomo,  e  isterilivano  l'industria,  omai  non  erano  più  che 
nella  memoria  de'  nostri  vecchi  :  distrutti  i  limiti  alle  mercedi  eransi 
resi  agli  operai  i  diritti,  i  doveri,  la  dignità  di  liberi  uomini.  Queste 
innovazioni,  per  le  quali  il  commercio  e  la  industria  riebbero  lena 
e  sangue,  compiute  mentre  in  Europa  signoreggiava  il  protezionismo, 
aveano  sollevato  a  molta  altezza  il  piccolo  granducato,  da  meritare 
le  acerbe  critiche  degli  uomini  che  sogliono  a  priori  condannare 
ogni  novità. 

Quelli  invece  che  lo  staiu  quo  giudicano,  negli  ordini  civili,  segno 
di  regresso,  e  negli  economici  padre  di  povertà,  faceano  lamento 
che  questi  fossero  nel  quarantanove  tal  quale  erano  sessant'anni  in- 
nanzi: onde  Toscana  già  fosse  addietro  a  quegli  Stati  che  da  lei 
ebbero  il  primo  esempio.  E  che  le  industrie  fossero  abbandonate  di 
soverchio  a  se  stesse:  la  iniziativa  privata  dovesse  supplire  all'in- 
curia del  Governo  :  nissuna  scuola  di  arti  e  mestieri  :  al  naturai  genio 
degli  abitanti  lasciata  la  cura  di  migliorarli ,  alle  forze  ed  alla  ope- 
rosità loro  quella  di  regolare  i  traffici,  accrescerli,  aprirgli  nuove 
vie.  Le  Camere  di  commercio  da  anni  molti  aveano  cessata  ogni  vi- 
gilanza :  sicché  non  illuminavano  il  Governo  sulle  necessità  dei  ne- 
gozii,  né  i  cittadini  :  Governo  e  governati,  fiduciosi  omai  nella  bontà 
degli  ordini  leopoldini,  si  tenevano  a  quelli,  e  pareva  loro  non  occor- 
resse di  più  alla  felicità  dello  Stato.  Vero  é  che  da  qualche  anno  (261) 

(249)  Decreto  31  agosto  1781. 

(250)  Decr.  1  febb.  1770,  2  giugno  1767,  9  dicem.  1768,  4  aprile,  10  set- 
tembre, 25  ottobre,  5  e  9  dicembre  1771,  21  gennaio,  9  maggio  1772 ,  18 
gennaio,  20  febbraio,  17  marzo,  26  aprile,  14  giugno  1773  ecc. 

(251)  Decreto  12  luglio  1839. 


STTJDIl  STORICI  B  AMMINISTRATIVI  239 

Ogni  triennio  avveniva  in  Firenze  una  mostra  delle  arti  e  manifatture  : 
la  emulazione  era  eccitata  per  via  di  premii  :  i  perfezionamenti  per  via 
di  confronti  :  aperti  alcuni  tronchi  di  ferrovia,  quel  da  Livorno  a  Fi- 
renze, da  Siena  ad  Empoli,  da  Firenze  a  Pistoia,  da  Lucca  a  Pisa  ;  in 
tutto  un  duecento  chilometri  :  in  progetto  altre  linee  :  ma  poco  assai 
poteano  influire  sulla  industria  parziali  mostre  di  quella  toscana,  e 
sul  commercio,  tronchi  di  ferrovie,  racchiuse  dentro  i  confini  dello 
Stato.  Più  linee  telegrafiche,  ma  a  sola  disposizione  del  governo, 
non  del  pubblico.  Poi  nessun  stabilimento  di  credito,  fuori  delle  ban- 
che e  le  casse  di  risparmio  :  le  une  e  le  altre  di  fondazione  privata  : 
queste  erano  più  di  venti,  di  cui  la  centrale  in  Firenze  (252):  di 
quelle  una  a  Livorno,  una  a  Firenze  (253)  e  nelle  principali  città  : 
aveano  statuti  varii,  e  liberi  un  dall'altro. 

Ma  quantunque  gli  ordini  economici  poco  avessero  progredito 
in  dodici  lustri,  la  industria  e  il  commercio  eransi  andati  svolgendo^ 
singoiar  virtù  di  quegli  ordini.  Fra  le  industrie  prosperavano  nel 
quarantanove  le  minerali  quantunque  nate  da  poco  :  quella  del  ferro 
dell'Elba,  ì  forni  fusori  di  Follonica,  il  rame  di  Montecatini,  di  Mon- 
tevaso,  di  Rocca  Federighi,  il  borace  di  Montecerboli,  il  piombo  e  il 
mercurio  di  Pietra  Santa,  il  fossile  di  Montebamboli  ;  principali  ric- 
chezze, che  la  industria  privata  trae  dalle  viscere  della  terra  e  reca 
all'estero,  ove  le  scambia  con  cereali,  cotoni  e  bestiami.  Altre  indu- 
strie, i  cappelli  e  le  treccie  di  paglia,  i  panni  di  Prato,  gli  alabastri 
di  Volterra,  i  coralli  di  Livorno,  i  mosaici  di  Firenze,  i  tessuti  di 
Pisa,  le  paste  di  Pontedera,  e  le  sete,  gli  olii,  il  vino,  i  legnami.  Colle 
industrie  prosperavano  i  commercii  (205). 

L'importazione  che  nel  secolo  scorso  era  otto  volte  più  della  espor- 
tazione, nel  quarantanove  stimavasi  a  fatica  \in  terzo  di  più  :  taluno 
credeva  invece  fosse  assai  di  meno  (255)  :  la  esportazione  che  dodici 
lustri  innanzi  limitavasi  ad  otto  milioni  di  lire,  nel  quarantanove  su- 
perava di  certo  i  cinquanta  milioni.  Fra  le  merci  esportate  notevole 
l'aumento  seguito  nelle  treccie  e  cappelli  di  paglia,  che  nel  secolo 
scorso  giungevano  appena  a  un  mezzo  milione  di  lire  (256)  e  nel 
quarantanove  superavano  i  dodici  milioni:  all'incontro  la  esportazione 
delle  sete  e  dei  drappi  serici  era  discesa  da  quattro  a  due  soli  milioni 
di  lire.  La  proporzione  fra  l'entrata  e  l'uscita  dei  prodotti  e  delle 

(252)  Furono  inlrodotle  in  Toscana  nel  1829»  e  approvate  dal  governo 
il  30  marzo  1830. 

(253)  Gli  statuti  approvati  con  le  notificazioni  8  agosto  e  4  ottobre  1826. 

(254)  V.  Zobi,  Manuale,  p.  423-5.    Prospetto  comunicatogli  dal  governo 
pel  1841. 

(255)  Ibidem,  p.  426. 

(256)  r.  Carli.  Saggio  politico  ed  economico  mila  Toscana, 


240  BIVISTA  CONTBMPOKANBA 

merci,  non  meno  che  l'indole  delle  tariffe  doganali,  si  rivela  dai  risul- 
tati della  finanza  (257)  :  le  gabelle  di  introduzione  ai  confini  frutta- 
vano nel  quarantanove  circa  tre  milioni  e  seicentomila  lire.  Quelle 
di  estrazione,  poco  più  di  duecentocinquantamila:  il  transito  un 
centomila  lire:  il  resto  dei  proventi  doganali,  quasi  cinque  milioni, 
nasceva  dal  dazio  di  consumo.  Di  grande  utilità  sarebbe  lo  accertare 
il  prodotto  delle  industrie  e  l'ammontare  dei  traflSci,  prima  o  dopo 
i  nuovi  ordini,  onde  così  metterne  a  prova  la  bontà.  Ma  fin  qui 
niuno  potè  compiere  un  simil  studio  (258)  :  fino  al  quarantanove  e 
più  innanzi,  non  oravi  alcun  ufficio  che  ne  raccogliesse  gli  elementi. 
Anzi  composta  da  privati  negli  anni  avanti  una  società  di  statistica, 
il  Governo  l'approvò  (259),  il  buongoverno,  allora  onnipotente,  no: 
quello  ammise  lo  statuto  della  Società  (260),  questo  proibì  ai  Comuni 
di  somministrarle  notizia  alcuna.  Cose  che  ad  estranei  appariran 
false,  eppur  son  vere. 

XLI.  —  Ma  sebbene  privi  di  notizie  statistiche,  là  dove  anche  ai 
ciechi  ed  ai  più  avversi  si  pare  il  frutto  del  libero  scambio,  ò  Livorno. 
La  popolazione  che  nel  secol  scorso  non  giungeva  a  quarantamila  (261), 
superava  nel  quarantanove,  gli  ottanta  (262)  :  tutti  vòlti  ai  traffici, 
airindustrie  o  al  mare.  La  cinta  della  città  che  allora  era  meno 
di  tre  miglia,  ora  giungeva  a  cinque.  Solo  da  due  secoli  avea  grado 
di  città  :  da  tre,  il  porto-franco,  il  quale  avea  più  giovato  a  stranieri 
che  ai  Toscani  :  stranieri  i  capitali,  i  mercatanti  e  le  merci  :  minima 
parte  quelle  dello  Stato  :  ora  la  libertà  de*  grani,  Tabolizione  dei 
ceiq>i  al  commercio  interno,  avvivando  quello,  avea  trasformato  Li- 
vorno :  di  scalo  a  prodotti  stranieri ,  era  divenuto  sfogo  ai  proprii 
ed  alimento  ai  traffici  dell'Italia  centrale.  Congiunta  a  Firenze  da 
una  ferrovia ,  attendeva  e  attende  si  compia  la  rete  delle  italiche, 
per  versarsi  potente  in  ogni  veicolo  del  commercio:  quella  intanto 
di  Firenze  vi  recava  le  derrate  dello  Stato,  e  univa  Livorno  alle  più 

(257)  Rendiconto  della  finanza  toscana  nel  1848-50,  cat.  Entrate,  tit.  II, 
art.  I,  prosp.  I. 

(258)  Tuttavia,  molte  utili  indicazioni  trovansi  nelle  opere  statistiche 
del  Serristori  e  del  dott.  John  Bowring. 

(259)  Rescritto  li  settembre  1824. 

(260)  Rescritto  16  maggio  1825.  Vedi  Antologia,  voi.  XXIX  a  XXVII. 

(261)  Il  Fossombroni ,  ministro  di  Ferdinando  III,  in  uno  scritto  in- 
viato nel  1797  al  generale  Bonaparte  (F.  Gualtexio  Mem,  Stor,,  t.  2,  Do- 
cum.  cxxxvii),  riporta  queste  parole  dell'Arnould,  dalle  quali  apparisce  il 
progressivo  sviluppo  di  Livorno,  e  la  popolazione  sua  nella  fine  del  secolo. 
«  La  popolazione,  che  nel  1767  non  giungeva  che  a  30  mila  abitanti,  supe- 

«  rava  i  58  mila  nel  1781 Gli  Israeliti  nel  1784  erano  7  mila,  e  nel  1790 

e  più  di  18  mila  t.  Notevole  è  lo  sciamare  degli  Israeliti  dalla  Toscana  da 
allora  ad  oggi.  Nel  1849  Livorno  ne  conteneva  poco  più  di  4  mila. 

(262)  F.  Zuccagni  Orlandini,  Ricerche  statistiche  sulla  Toscana,  t.  i. 


STuDii  Storici  b  amministrativi  241 

prospere  città  della  Toscana.  L'olio,  giunto  ch'era  dall'interno  e  dal- 
l'estero, si  riponea  in  certi  bottini,  cosi  chiamavansi,  specie  di  docchi, 
ove  capono  ben  venticinquemila  barili:  sono  trecento  ventiquattro 
recipienti,  murati,  vestiti  di  lavagna,  capaci  di  sessanta  a  ottanta 
barili  per  ciascuno.  Li  grani  serbavansi  in  grandi  fossi  o  pozzi  mu- 
rati e  asciutti.  La  media  quantità  che  colà  ritrovavasi  era  più  di 
quattrocentomila  sacca.  Livorno,  un  tempo  città  sol  di  commercio, 
lo  era  divenuta,  dacché  cessò  il  sistema  regolamentario,  anche  delle 
industrie:  nel  quarantanove  prosperavano  quelle  del  corallo,  la  ma- 
nipolazione dei  cenci,  fabbriche  di  sapone,  di  cf|pelli  di  paglia,  di 
vele,  cordami,  di  tartaro,  di  biacca,  di  salnitro,  raflSnerie  di  borace, 
conce  di  pelli,  mulini  a  vapore,  fra  le  principali  industrie  :  dei  loro 
prodotti,  picciol  parte  andava  in  Toscana:  il  più,  si  spandeva  in 
Levante  e  nelle  Americhe.  Ma  sovra  ogni  altra  industria,  rigogliosa 
quella  della  costruzione  delle  navi  :  si  aiutava  de'  legnami  indigeni  : 
nata  fin  dai  tempi  dei  Medici,  poco  o  nulla  aveva  progredito:  il  suo 
grande  sviluppo  data  da  questo  secolo:  quasi  la  industria  privata 
vergognasse  dell'avvilimento  in  cui  il  Governo  avea  gettato  la  ma- 
rina dello  Stato,  e  si  studiasse  costruirne  una  nuova.  Il  numero  dei 
bastimenti  mercantili  che  nel  secolo  scorso  appena  giungeva  a  cento, 
nel  quarantanove  superava  ]i  trecentocinquanta,  della  capacità  di 
ventimila  tonnellate  (263):  salivano  in  quelli,  duemila  e  cinque- 
cento marinai.  Il  movimento  marittimo  nel  porto  di  Livorno  era  di 
ottomila  legni  per  anno,  capaci  di  ottocentomila  tonnellate.  Le  imbar- 

cagioni  potevansi  valutare tonnellate  :  gli  arrivi  per la  somma 

dei  suoi  traffici  superava  li milioni.  Sopra  novantamila  abi- 
tanti, ventiquattro  case  di  commercio  possedevano  più  di  un  mi- 
lione: taluna  anche  otto  o  dieci:  un  quarto  di  esse  erano  toscane  :  le 
altre  oriunde  straniere  :  il  maggior  numero  greche  e  ricchissime. 
Nondimeno,  nullo  era  lo  spirito  di  associazione  ;x  tutto  compievasi  per 
isforzi  individuali  :  anco  i  legni,  di  qualunque  portata  fossero,  appar- 
tenevano a  un  solo:  basti  che  non  un  sol  vapore  mercantile  avea 
bandiera  toscana. 

XLII.  —  Tali  erano  le  condizioni  commerciali  dello  Stato.  Diffi- 
cile il  dire  se  omai  fosse  giunto  a  un  punto ,  oltre  il  quale  non 
gli  fosse  conceduto  il  far  cammino ,  finché  o  il  Governo,  o  le  associa- 
zioni private  non  aiutassero  i  traffici,  con  una  considerevole  marina 
od  altri  modi  ;  e  la  Toscana  rimanesse  in  mezzo  a  Stati  con  cui  non 
potea  moltiplicare  gli  scambii.  Perchè  un  sol  trattato  di  commercio 
avea  in  Italia,  col  Piemonte,  un  semplice  accordo  con  Roma  pegli 

(263)  V.  Suir avvenire  di  Livorno ,  discorso  del  prof.  Bonaini,  Ietto  al- 
rAccademia  dei  Georgofili  il  1«  giugno  1856.    V,   Torelli ,  Avvenire  del  s 
commercio  europeo,  t.  IH. 

Rivista  C.  -  16 


242  RIVISTA   CONTEMPORANEA 

approdi:  nissuno  di  ferrovie,  di  telegrafi:  le  proprie  linee  ammezzate, 
tronche  ai  confini,  colpa  i  diversi  umori  e  sistemi  che  oltre  quelli 
prevalevano.  Piemonte  oppresso  dal  protezionismo,  Roma  da  ordini 
empirici,  convenevoli  tutto  al  più  a  terre  allor  allora  scoperte  dal- 
l'acque 0  dalla  civiltà.  Non  sarebbe  facile  il  dire  che  cosa  avesse 
potuto  la  Toscana  accomunare  con  que'  Stati,  se  prima  essi  non  si 
fossero  sollevati  fino  a  lei,  od  ella  non  avesse  rimesso  parte  della  sua 
libertà  commerciale.  Finché  adunque  le  relazioni  fra  Toscana  ed  i 
vicini  erano  difficili  come  quelle  con  la  Cina  o  l'India  ;  ed  i  prodotti 
suoi,  perseguitati  A^onfini  da  dazii  enormi,  come  le  merci  russe  o 
inglesi,  le  industrie  e  le  arti  non  potevano  sperare  un  gran  sviluppo. 
Il  contrabbando,  è  vero,  si  intromettea  fra  le  produzioni  toscana  e  le 
dogane  nemiche,  in  specie  dal  lato  di  Romagna  ;  ma  i  fabbricanti  non 
poteano  doppiare  i  loro  prodotti  sperando  salute  dal  contrabbando  : 
sfuggivano  quindi  le  migliorie,  perchè  il  frutto  non  dava  compenso 
ai  sacrificii  :  produceano  non  secondo  le  materie  prime  dello  Stato  o 
il  genio  inventivo  degli  abitanti,  ma  in  ragione  dei  bisogni  locali 
e  delle  probabilità  dello  smercio.  Così  avveravasi  per  Toscana  quel 
che  potea  dirsi  di  tutta  Italia,  che  il  lavoro  era  mal  distribuito,  le 
industrie  spostate  dai  loro  naturali  luoghi,  e  i  prodotti  contro  genio: 
dal  che  la  mediocrità  loro.  Il  vapore  avea  rese  libere  le  navi  dai 
venti,  le  ferrovie  eransi  sostituite  alle  rotabili,  il  telegrafo  avea  sop- 
presso le  distanze,  spostati  i  grandi  centri  della  mercatura,  molti- 
plicati i  rapporti,  fusi  gli  interessi  degli  Stati  in  Europa,  in  tutto  fi 
móndo,  meno  che  in  Italia:  ove  perfin  la  Toscana,  vessillifera  al 
mondo  di  libertà  commerciale,  non  avea  potuto  fare  un  passo  dal  di 
in  cui  raggiunse  il  massimo  di  quella  prosperità  che  da  leggi 
ottime,  picciolezza  di  Stato,  e  guerricciuole  di  dogane  nemiche,  le 
era  consentita. 

XLIII.  —  Nondimeno  la  popolazione  che  alla  metà  del  secolo 
scorso  era  di  ottocentomila,  e  nel  cominciar  di  questo  un  milione 
e  cento,  era  giunta  nel  quarantanove  a  oltre  un  milione  e  sette- 
centomila (264):  né  parca  dovesse  arrestarsi  qui.  Cagion  dell'aumento, 
legge  davvero  universale ,  la  prosperità  dello  Stato  :  e  di  questa , 
il  libero  scambio  ch'erasi  sostituito  ai  vincoli  ed  alla  protezione, 
e  la  libertà  agricola,  la  quale  avea  spezzate  le  servitù  rurali.  Il 
che  mi  invita  a  conchiudere  questo  quadro,  discorrendo  le  leggi 
che  vegliavano  all'agricoltura,  e  le  condizioni  della  piU  laboriosa 
parte  della  popolazione. 

Non  è  dato  bene  intendere  il   moto   ascendente  della   ricchezza 


(264)  V.  Zuccagni  Orlandini,  Ricerche  statistiche  sul  granducato  di  To- 
scana, tom.  I.  Rendiconto  della  finanza  toscana  1847-48-49-50, 


Studii  Storici  b  amministrativi  243 

territoriale  toscana,  senza  volgere  per  un  istante  le  spalle  al  presente, 
e  riguardare  un  secolo  addietro.  Allora  lo  Stato  potea  dirsi  unità 
immaginaria,  e  il  diritto  di  proprietà  il  più  dubbio  di  tutti  i  diritti: 
cinquanta  feudi  sbocconcellavano  lo  Stato  :  vincoli  d'ogni  maniera 
isterilivano  il  suolo.  Principe  e  villici  alle  prese,  quello  co'feudatarii, 
questi  co' padroni.  Un  terzo  del  suolo  era  campi  e  pascoli:  il  resto 
boscaglie,  roccie  e  paludi  :  i  miasmi ,  nell'estate  vi  fugavano  i  vil- 
lici :  privilegi  ed  esenzioni  richiamandoli,  sospingevanli  a  morte:  tagli, 
colmate,  e  argini,  impotenti  a  ridar  salubrità  a  tanta  parte  di  suolo: 
onde  sopra  ottanta  miglia  quadre,  solo  ottocentomila  abitanti,  cento 
per  miglio.  La  proprietà  era  indivisa,  ristagnante  da  secoli,  privilegio 
del  clero,  de' feudatari i,  de' nobili  d'ogni  grado  e  ragione:  scarsa 
parte  aveano  cittadmi  e  villici  :  proprietà  sol  di  nome  ;  conferiva 
obblighi;  nulla  più  (265).  Era  privilegio  de' ricchi  sopra  le  terre  dei 
poveri,  la  caccia,  la  pesca  :  privilegio  di  quelle  terre,  le  servitù  di 
pascolo,  macchiatico,  legnatico:  de'  villici  le  servitù  personali,  l'obligo 
di  abbandonare  il  ricolto,  frutto  dì  tanti  sudori,  per  lavorare  a  strade 
ed  opere  pubbliche,  quando  da  feudatarii  o  da  Comuni  n'erano  ri- 
chiesti. Vietato  lo  sboscare  senza  licenza,  l'escavar  miniere,  ricercar 
tesori,  monumenti,  piantar  tabacco,  coglier  sale  ;  le  imposte  a  ca- 
priccio; fallaci  le  stime  de' beni;  immuni  quelli  de' feudatarii,  del 
principe,  del  clero:  fra  i  privilegii,  quello  per  cui  lo  spendivendolo 
de'  conventi  avea  diritto  scegliere  su  mercati  il  meglio,  prima  che 
altri:  gravi  multe  ai  contravventori.  Ricordo  altri  vincoli  perchè  diano 
ragione  del  come  la  condizione  dei  villici  fosse  abbietta,  le  leggi  fi- 
scali, il  suolo  incolto.  Era  vietato  il  vendemmiare  senza  licenza  del 
giudice:  obbligo  denunciare  il  ricolto,  il  nascimento  del  bestiame, 
le  vendite  :  gabelle  per  ogni  dove,  il  divieto  di  circolar  frumenti,  il 
prezzo  legale  dei  ricolti,  le  decime,  le  privative,  fin  per  la  vendita 
del  pane,  le  tasse  fin  sui  macinati,  il  sigillo  delle  carni,  cause  di 
frequenti  carestie,  assottigliavano  il  rozzo  e  scarso  nutrimento  che 
i  villici  aveano  a  dimezzare  ai  loro  figliuoli.  I  ricoveri  loro,  tugurii 
da  metter  pietà:  rovinavano  per  la  incuria  de' ricchi,  i  quali  faceano 
parsimonia  di  puntelli  a  salvar  la  vita  di  chi  si  frangea  tutto  il  di 
l'omere  per  essi  :  ninna  legge  proteggea  il  patto  colonico  :  in  potestà 
de*  possedenti  rimandare  i  villici,  anche  prima  che  la  terra  loro  avesse 
resa  centuplicata  la  semente:  due  pesi,  due  misure  pei  dritti  e  do- 
veri de'  padroni  e  de'  servi  :  quelli  liberi  di  scacciarli  ;  questi  non  li- 
beri di  irsene:  l'aratro,  gli  arnesi  rurali,  unica  ricchezza  del  povero 
colono,  strappati  da  padroni  inumani  a  que'  miseri  quando  più  aves- 

(265)  La  collezione  delle  Leggi  Medicee  è  piena  zeppa  di  vincoli  alla 
proprietà  terriera.  V,  Cantini,  Collezione  delle  Leggi  Medicee.  Sono  volumi 
XXIII. 


244  RIVISTA   CONTEMPOBANBA 

sero  mangiato  di  quel  che  la  terra,  tormentata  da  essi,  avesse  loro 
prodotto;  e  bene  spesso  non  valeva  cader  sfiniti  sul  solco  per  me- 
ritar un  salario  che  saziasse  la  fame.  Vita  sordida,  miseranda,  finché 
0  gli  stenti,  0  carestia,  o  alluvioni  li  toglieano  a'  patimenti.  Cosi  la 
cultura  del  suolo  circoscritta  da  secoli,  non  ardiva  spandersi,  e  né 
i  ricolti,  nò  la  prima  e  più  ricca  derrata,  che  è  Tuomo,  moltiplica- 
vansi,  secondo  che  i  terreni  bisognosi  di  abitatori  richiedevano. 

Ora  dal  secol  scorso  al  quarantanove,  tutto  era  mutato.  Chi  conti 
la  popolazione  d'allora  e  d'oggi,  indaghi  quanto  fruttasse  il  suolo, 
e  quanto  ora  frutti,  confronti  la  mutata  ubertà  de' terreni,  il  numero 
de'  proprietarii,  i  vincoli  d'allora  con  le  nuove  leggi,  la  Toscana  di 
un  secolo  fa,  con  la  Toscana  del  quarantanove,  quei  rimarrà  oltre- 
modo colpito  dalla  trasformazione,  in  specie  agricola,  e  benedirà  al 
principio  che  operava  il  miracolo.  I  feudi  non  erano  più  (266)  :  i  fi- 
decommessi  disciolti  (267):  parte  delle  manimorte  riscattate  mercé 
l'enfiteusi  :  leggi  provvide  limitavano  i  nuovi  acquisti  del  clero, 
disfacevano  le  immunità  d'ogni  specie,  sottoponeano  agli  oneri  dello 
Stato  i  beni,  siano  chiesaici  o  laici,  privati  o  regii,  ninno  escluso: 
non  v'erano  più  servitù  di  pascolo,  di  legnatico,  di  macchiatico  (268), 
nò  ogni  altra  limitazione  al  diritto  di  proprietà  :  liberi  omai  gli  sbo- 
scamenti (269),  la  escavazione  di  miniere  (270),  la  ricerca  di  tesori. 
Nissuna  privativa  di  caccia,  così  odiosa  a  poveri  coloni  (271),  libera 
la  pesca,  la  circolazione  dei  prodotti,  la  vendemmia  senza  licenza 
del  giudice  (272).  L'obbligo  di  denunciare  i  ricolti,  le  contrattazioni, 
la  nascita  del  bestiame,  le  gabelle  senza  numero,  quelle  sui  ma- 
celli (273),  sul  macinato,  omai  eran  ricordo  di  un  tempo  fortunata- 
mente trascorso.  Le  servitù  personali,  le  comandate,  abolite  dal  prin- 
cipio che  vuole  liberi  gli  uomini,  e  non  meno  i  villici  che  i  proprie- 
tarii. Innanzi  alla  legge  erano  uguali  e  gli  uni  e  gli  altri  :  anzi, 
quasi  a  premio  di  loro  fatiche  ,  in  special  modo  proteggevansi  i 
coloni  :  durante  la  seminagione  o  il  ricolto ,  non  potevano  essere 
molestati  per  debiti,  e  neppur  dai  tribunali ,  meno  che  per  delitti 
comuni.  I  bestiami  aratorii ,  e  gli  arnesi  rurali ,  unica  ricchezza 
di  quei  miseri,  erano  per  legge  dichiarati  proprietà  intangibili:  in 
facoltà  di  quelli  come  dei   padroni   il   disciogliersi   dal  patto   colo- 


(266)  Legge  29  aprile  1749. 

(267)  »  Giugno  1747,  23  febbraio  1789. 

(268)  «  Abolite  nel  1766. 

(269)  »  20  gennaio  1776,  24  ottobre  1780. 

(270)  »  5  agosto  1780,  13  maggio  1788. 

(271)  »  13  giugno  1772,  26  ottobre  1773,  24  febbraio  1781. 

(272)  »  18  marzo  1786. 

(273)  »  Abolita  il  16  novembre  1824. 


s 

ti 


STUDn  STORICI  E  AMMINISTRATIVI  245 

nico  (274),  date  certe  condizioni  di  modo  e  di  tempo.  Cosi  ragricol- 
tore  in  nessuna  parte  d'Italia  era  protetto,  e  pari  al  padrone,  come 
in  Toscana. 

Non  è  meraviglia  se  emancipata  la  proprietà  e  la  industria,  venne 
colà  in  grand'onore  l'agricoltura,  ed  i  proprietarii,  non  più  oppressori 
de'  coloni,  si  diedero  a  migliorarne  Je  condizioni.  Che  anzi  si  vide 
cosa,  a  cui  in  Italia  già  da  tempo  erasi  disusati  :  i  ricchi  e  quelli 
che  a  ricchezza  aggiungevano  nobiltà,  volgersi  all'agricoltura,  ed 
onorarsene,  a  mo'  degli  antichi.  Cessato  il  pregiudizio  che  l'arte 
agraria  fosse  solo  arte  pratica,  vi  erano  giornali  e  scuole  di  coltiva- 
zione, patrono  ora  il  Governo,  ora  privati  :  un'accademia  detta  dei 
Georgofili  (275),  già  da  un  secolo  vegliava  attenta  alle  migliorie  del 
suolo  (276),  omai  prediletta  occupazione  degli  ottimati.  I  Ridolfi,  i 
Capponi,  i  Ricasoli,  dopo  le  sventure  del  quarantanove,  erano  a  quella 
ritornati,  pronti  a  lasciare  i  campì,  ove  un'altra  volta  la  patria  avesse 
duopo  de'  suoi  cittadini. 

Per  queste  leggi  e  provvisioni,  la  ricchezza  del  suolo,  la  cultura, 
il  numero  degli  abitanti  andavano  crescendo  ogni  anno  :  la  proprietà 
che  nel  secolo  scorso  potea  dirsi  privilegio  di  pochi,  erasi  ridotta  in 
frammenti.  Il  catasto  (277)  avea  quattordici  anni  innanzi  numerato 
centoquarantaseimila  proprietarii,  dodici  ogni  cesto  abitanti,  sopra 
una  superficie  di  sei  milioni  e  cinquecentomila  quadrati  (278),  im- 
ponibili di  una  rendita  al  di  sopra  di  quarantotto  milioni  di  lire: 
il  medio  possesso  era  perciò  di  quarantatre  quadrati,  la  media  rendita 
di  trecento  lire.  Fuor  della  causa  pia  ecclesiastica  e  laica,  la  quale  avea 
un  dodicesimo  del  suolo,  con  una  rendita  di  oltre  tre  milioni  di  lire, 

(274)  Legge  2  agósto  1785. 

(275)  La  fondò  il  Montelatici  nel  1753  :  auspice  il  governo.  V.  Som- 
mario storico  degli  studii  e  vicende  deirAccademia  de'  Georgofìli  nel 
primo  secolo  di  sua  esistenza  per  M°  Tabarrini.  Firenze  1853. 

(276)  Può  ben  dirsi  che  quell'accademia  stette  ognora  a  guardia  dei 
principii  economici  del  Bandini,  del  Neri,  del  Fabbroni  :  pronta  a  stridere, 
tanto  che  la  udisse  tutta  Toscana,  se  il  Governo  s'attentasse  manometterli. 
Gli  accademici  discutendo  di  economia,  di  pastorizia,  di  prosciugamenti, 
s'addestravano  per  ben  altre  discussioni.  Uno  scrittore  vivace  notò  già  che 
da  essa  uscirono  i  Mirabeau  i  Barnave  in  sessantaquattresimo  del  1848. 
Con  più  ragione  può  dirsi  che  di  là  uscirono  quelli  che  condannarono  al- 
Tostracismo  la  dinastia  di  Lorena  nel  59.  Certo  è  che  l'Accademia  de' Geor- 
gofili iniziò  i  Congressi  scientifici,  le  Casse  di  risparmio,  gli  Asili  d'in- 
fanzia, le  Scuole  di  mutuo  insegnamento:  per  le  sue  cure  venne  aperto  il 
Liceo  di  storia  naturale  in  Firenze;  fu  a  capo  d'ogni  utile  impresa;  acqui- 
stò e  mantenne  grandissima  autorità,  tantoché  il  Governo  ne  insospettì. 

(277)  Rapporto  sull'operazione  catastale  del  30  novembre  1834  dell' In- 
ghirami  Paoli  e  Lapo  de' Ricci. 

(278)  Il  quadrato  agrario  toscano  è  di  10  mila  B  quadre  :  un  miglio  è 
di  B  2833  1(3:  il  B  sta  al  metro  come  583,626  sta  a  1,000,000. 


246  BIVISTA   CONTBMPORANBA 

il  maggior  de'  proprietarii  era  il  Granduca  per  quasi  ottantamila  qua- 
drati, ed  una  rendita  imponibile  di  quasi  mezzo  milione:  non  più  di 
dieci  aveano  una  rendita  maggior  di  centomila  :  sol  ventuno  più  di 
cinquantamila  :  le  proprietà  al  di  sopra  di  diecimila  lire  annue,  eran 
quattrocentocinquanta:  da  cinquemila  a  diecimila  eran  settecento- 
cinquanta :  da  mille  a  cinquemila  eran  seimila  :  da  cinquecento  a 
mille  più  di  settemila  :  da  cento  a  cinquecento  più  di  iirentunmila  : 
per  ultimo  possedeano  da  una  lira  a  cento  di  rendita  imponibile  ben 
ottantottomila  (279).  Cosi  spartita  la  proprietà,  ragion  volea  si  dif- 
fondesse la  cultura.  Mentre  nel  secolo  scorso  a  stento  un  terzo  del 
suolo  era  a  campi  e  pascoli,  nel  quarantanove,  sopra  sei  milioni  e 
mezzo  di  quadrati,  settecentomila  erano  a  viti,  cinquecentomila  a 
ulivi,  un  milione  a  frumenti,  quattrocentomìla  a  castagni,  un  mi- 
lione ed  ottocentomila  a  pasture,  meno  di  altrettanti  eran  boscaglie, 
roccie,  strade,  acqua,  paludi  (280).  La  esportazione  dei  prodotti,  che 
nel  secolo  scorso  appena  giungeva  a  quattro  milioni  di  lire  (281), 
potea  dirsi  nel  quarantanove  quasi  otto  volte  più.  Fra  quelle  v'erano 
tre  milioni  di  sete  :  undici  di  cappelli  e  treccie  di  paglia  :  sette  di 
olio  (282)  :  due  milioni  e  mezzo  di  sai  borace  :  quattro  di  legname 
da  costruzione:  sette  di  grano  gentile.  La  libertà  economica,  mol- 
tiplicando i  prodotti  e  le  proprietà,  faceva  del  toscano  forse  il  più 
agiato  popolo  d'Italia,  sebbene  il  terreno  da  cui  traeva  l'alimento, 
non  ne  fosse  il  più  ferace  :  in  ragion  della  prosperità ,  crescevano 
ogni  anno ,  di  ben  quindicimila  gli  abitanti  :  cento  che  erano  per 
miglio  quadro  eran  divenuti  duecento:  i  coloni  nella  proporzione  di 
quarantaquattro  a  cento  (283):  i  proprietarii  di  dodici  a  cento:  ai 
bisogni  della  popolazione  bastava  la  ricchezza  del  suolo:  la  emigra- 
zione era  scarsa  :  a  ninno  mancava  né  il  pane  né  il  tetto,  né  i  soc- 
corsi nella  vecchiaia  :  agiatezza  quasi  in  ogni  dove,  povertà  in  pochi 
luoghi ,  miseria  in  nessuno. 

XLIV.  —  Nondimeno,  accosto  a  vigneti  e  campi  fertilissimi  dis- 
sodati dalla  man  dell'uomo,  erano  luoghi  paludosi  ove  i  miasmi, 
le  febbri^  lo  squallore  della  natura,  resistevano  a  fatiche,  a  tesori, 
a  scienza  con  cui  volevansi  mutare  in  lieti  ed  ubertosi  campi.  Di- 
scorrendo quanto  vi  fu  compiuto,  e  quanto  recalcitrò  a'  costringimenti 
dell'idraulica  e  dell'uomo,  avrò  detto  qual  fosse  lo   stato  di  quella 

(279)  Statistica  ufficiale.  V.  Gazz.  di  Firenze,  gennaio   1848.  Zobi,  Ma^ 
nuale  degli  ordini  economici. 

(280)  Risultanze  catas/ali. 

(281)  r.  Carli,  op,  cit, 

(i>82)  r.  Zobi,  Mannaie,  p.  423,  prospetto  comunicatogli   nel    1841  dal 
Governo. 
(t>83)  V.  Zobi,  Stor,  di',  t.  5,  p.  823, 


STUDII  STORICI   E  AMMINISTBATIVI  247 

tanta  parte  di  suolo,  correndo  Tanno  quarantanove.  Da  lunga  età, 
in  Toscana,  narrasi  di  luoghi  ove  i  miasmi  e  le  malattie  fugavano  i 
villici,  lieti  serbar  la  vita  rinunciando  ai  ricolti:  privilegii  e  doni 
invano  tentavano  richiamarli  a  cogliere  una  ricchezza  che  uccidea. 
Opere  di  varia  ragione,  fatte  qua  e  là  da  privati  e  principi,  a  mi- 
gliorare quelle  paludi,  s'ebbero  alcune  buon  risultato,  altre  no.  Co- 
simo I  avea  incominciato,  Ferdinando  I  e  Leopoldo  I  proseguirono 
a  sciugare  il  pian  di  Pisa  dalle  acque  putride.  La  vai  di  Nievole, 
oggi  amenissimo  giardino,  cent'anni  fa  palude,  crudele  alle  vite, 
ingrata  alle  fatiche  degli  uomini  :  le  acque  che  da  poggi  scendevan 
pure  e  schiette,  giunte  al  piano  si  spandevano  e  si  corrompevano  : 
miasmi  perigliosi  :  la  estate  mortale.  Sovra  ottomila  abitanti  nel  1756 
perirono  seicento.  Oggi  è  lieta  di  verdure,  di  vigne,  di  casolari,  di 
villici,  d'acque  pure,  di  ricolti  :  gli  studii  del  Fossombroni,  la  virtù 
dell'idraulica,  il  danaro  dello  Stato,  fecero  il  miracolo.  Val  di  Chiana, 
lunga  sessanta  miglia,  sparsa  di  paludi,  vedova  di  case  e  di  coloni, 
era  sepoltura  pegli  arditi,  luogo  di  pena  ai  condannati,  sgomento  a 
ogni  uomo.  In  men  di  ottantanni  sparirono  gli  stagni,  li  bassi  piani 
colmati  col  limo  de'  colli  che  fiancheggiano  la  valle  :  l'acque  allac- 
ciate/costrette  in  canali  e  bacini  :  l'aria  divenne  pura;  lieto  il  sog- 
giorno :  fecondi  i  campi  ;  giardino  e  granaio  di  Toscana. 

Restava  la  Maremma  (284)  :  dai  confini  del  pian  di  Pisa,  agli 
Stati  della  Chiesa  scorre  lungo  il  mare  sessanta  miglia,  s'addentra 
a  terra  diciotto.  Rinomanza  infausta  vi  ha  il  pian  di  Grosseto,  aria 
letale,  acque  putride,  febbri  e  sepoltura  ai  viventi.  Da  quanti  secoli 
l'aria  e  l'acque  vi  siano  corrotte,  il  suolo  contristato  da  ogni  ma- 
niera di  guai,  e  luogo  di  pena  a  rei  o  a  vittime  dei  rei,  non  v'ha 
istoria  che  lo  dica.  La  tradizione  s'abbuia  nella  più  remota  antichità, 
da  apparir  caso  recente  quel  della  misera  inanellata  a  chi  la  trasse 
viva  in  maremma,  ove  si  disfece  (285).  Poeti  e  prosatori,  lungo  i 
secoli,  fecero  piangere  le  nostre  fanciulle  con  pietose  leggende  (286) 

(284)  Infiniti  gli  autori  che  ne  discorrono  :  nominerò  1  principali  :  Sal- 
lustio Bandini.  Discorso  economico.  —  Governo  della  Toscana  sotto  Leo- 
poldo I. —  Memorie  del  Bonificamento  delle  maremme,  del  cav.  Tartini, 
1838.  —  Zobi,  Manuale.  —  Storia  civile.  —  Memorie  economiche  e  stati- 
stiche sulle  maremme  toscane,  del  D^  Salvagnoli ,  1846.  —  Rapporto  sul 
Bonificamento  delle  maremme  dal  1828  al  1859,  di  Ant.  Salvagnoli ,  fatto 
per  ordine  del  Governo  della  Toscana. 

(285)  Dante,  Purg.,  Canto  V,  135. 

(286)  Il  Sestini,  nella  leggenda  della  Pia,  cosi  descrive  la  Maremma: 

Acque  stagnanti  in  paludosi  fossi , 
Erba  nocente  che  secura  cresce 
Compressa  fan  la  pigra  aria  di  grossi 
Vapor  d'onde  virtù  venefica  esce: 


248  BIVISTA   CONTEMPOSAMSA 

di  chi  vivo  era  colà  costretto  a  sorbir  miasmi,  e  sepolto.  La  pietà 
de'  viventi,  la  carità  del  natio  luogo,  la  vanità  di  compiere  opera 
soventi  tentata ,  voluta  sempre ,  compiuta  mai ,  aveano  già  indotto 
i  principi  a  seppellirvi  qualche  milione  in  lavori  e  fatiche  sterili. 
Francesco  II  vi  chiamò  una  colonia  dei  Lorenesi  :  die  a  ogni  fa- 
miglia un  moggio  di  terra  a  grano,  un  altro  a  vigne,  ulivi  e  orto  : 
due  buoi,  una  vacca,  due  pecore,  gli  arnesi  rurali,  le  sementi.  Di 
mille  ch'erano,  pochi  scampando  alla  malsania  rividero  la  dolce 
patria  :  gli  altri  perirono.  La  maremma  restò  quale  era.  Leopoldo  I 
offerse  (287)  la  libera  proprietà  dei  beni  a  chi  li  asciugasse,  privi- 
legii  d'ogni  maniera:  s'accinse  a  lavori  idraulici:  costaron  due  mi- 
lioni: non  n'ebbe  frutto:  né  di  lui  riman  colà  vestigio.  Intanto  si 
disputò  sui  rimedìi,  e  chi  disse  bastar  l'idraulica,  chi  sane  leggi 
economiche,  chi  privilegii,  chi  libertà  illimitata,  a  ridurre  feconda 
e  sana  la  maremma  ;  chi  disse  una,  chi  altra  sentenza.  Le  dispute, 
le  male  prove,  poi  i  rivolgimenti  napoleonici  sospesero  i  lavori:  li 
riprese  Leopoldo  II  nel  ventinove.  Dall'avo  e  da  alcune  esperienze 
di  privati  (288),  ebbe  egli  l'esempio,  gli  eccitamenti  dal  Fossom- 
broni,  e  più  che  dai  guai  del  suolo,  la  spinta  a  tentar  l'impresa 
dalla  vanità  e  speranza  di  compierla.  Boria  e  nullaggine  fin  nel  par- 
larne a  sudditi  (289)  :  aver  raccolti  quanti  lumi  dava  l'istoria,  la 
scienza  e  la  pratica:  voler  compier  l'opera,  senz'aggravio  alcuno  ai  sud- 
diti, e  da  solo  e  presto  e  bene:  chiudesser  la  bocca  e  gli  occhi  e  non  gli 
riaprissero  che  a  lavoro  compiuto  :  non  avrebbero  atteso  un  pezzo  (290). 
Il  disegno  era  questo  :  come  già  fecesi  per  Valdichiana,  colmar  le 
bassure,  prosciugarle  allacciando  l'acque,  ridurle  a  campi  :  ma  innanzi 
tutto,  vincer  la  malsania,  sperdendone  la  causa,  il  palude  di  Casti- 
glione, da  ridursi,  come  fu  un  tempo,  a  lago,  versandovi  l'acque 

E  qualor  più  dal  sol  vengon  percossi 
Tra  gli  animanti  rio  morbo  si  mesce , 
Il  cacciator  fuggendo  da  lontano 
Monte,  contempla  il  periglioso  piano. 

(287)  Decreto  9  febbraio  1769. 

(288)  I  Gherardesca  dal  1780  al  1840  bonificarono  la  vasta  tenuta  di 
Bolgheri  fino  alle  terre  di  Bibbiena  e  Castagneto  nelle  maremme:  Tacque 
allacciarono:  oggi  aria  sana,  ubertà,  sestuplicato  il  ricolto  e  la  popola- 
zione. In  Val  di  Nievole  i  Peroni  colmarono  la  tenuta  di  Bellavista. 

(289)  Decr  27  novembre  1828. 

,  (290)  Il  Vieusseui  scrisse  il  1®  marzo  1829  ai  ministri  Corsini  e  Fossom- 
broni,  chiedendo  poter  discorrere  neW Antologia  della  Maremma,  tesserne 
la  storia,  scriverne  i  mali,  i  rimedii.  Gli  fu  negato.  Un  primo  articolo  in 
cui  levava  a  cielo  il  concetto  di  Leopoldo  11,  ed  attestava  la  riconoscenza 
de*  Toscani  per  quella  impresa,  venne  dalla  censura  barbaramente  muti- 
lato. Diffidavano  fin  delle  lodi.  Il  Vieusseux  dovè  abbandonare  il  campo  : 
cose  incredibili,  e  pur  vere. 


STUDII  STOBICI  B  ÀMMINISTBATIVI  249 

deirOmbrone,  deviato  dal  suo  naturai  letto.  L'ardito  concetto  del 
Fossombrone  ebbe  mende  frivoli,  esperienze  fallaci,  contraddittorie, 
colpa  chi  dovea  eseguirlo,  e  del  principe,  che  ad  averne  proprio 
tutto  il  merito  vi  mettea  voce  e  lìngua  a  sproposito.  Nondimeno  un 
canale  costrutto  in  sedici  mesi,  da  cinquemila  operai,  mille  per 
miglio,  scaricò  Tacque  dell*Ombrone  nella  palude:  poi  dovè  allar- 
garsi perchè  angusto:  lenta  seguiva  la  colmatura:  il  limo  recato 
dairacque  ingombrando  lo  sbocco  nella  palude,  venne  aperto  altro 
sfogo,  braccio  al  canale.  Né  bastò  :  fu  tentato  colmar  la  superior 
parte  del  lago,  scaricandovi  la  Bruna,  la  Sovata,  influenti  impetuosi, 
che  più  volte  rupper  gli  argini  e  si  squagliarono  nell'abitato.  E  con- 
venne attenersi  alle  sole  acque  dell'Ombrone  e  da  quelle  attendere 
la  lenta  colmatura  del  lago.  Altrove  altre  opere  :  la  colmatura  dello 
stagno  di  Scarlino  :  Orbetello  a  traverso  lo  stagno  di  questo  nome, 
congiunta  per  una  diga  al  promontorio  Argentaro  :  nel  pian  di  Pisa, 
prosciugati  gli  stagnuoli  di  Vada,  il  lago  di  Rimigliano  :  i  latifondi 
Vada  e  Cecina,  paludoso  il  primo,  selvoso  il  secondo,  ambo  proprietà 
del  demanio,  vennero  dissodati,  ceduti  a  privati,  ricoperti  di  caso- 
lari e  di  abitanti.  L*opera  de' privati,  aiutando  quella  del  Governo, 
colà  il  successo  fu  splendido. 

Ma  quel  che  altrove  era  farmaco,  per  maremma,  appariva  inutil 
sperpero  di  scienza,  arte,  forze  e  tesori.  Venti  anni  di  lavori  indefessi 
aveano  inghiottito  venti  milioni  (291),  distrutte  le  illusioni  de'  cor- 
tigiani, moderate  le  borie  del  principe,  e  la  speranza  nutrita  da 
questa  generazione  di  vedere  l'opera  &  fine.  Vero  è  che  la  misera 
provincia  erasi  in  venti  anni  vestita  qua  e  là  di.oliveti,  di  vigne 
e  campi,  di  casolari,  di  armenti,  aperto  il  petto  a  nuove  vie,  a  ci- 
sterne, difesa  da  torrenti  :  avea  allacciate  l'acque  disperse,  arginati 
i  fiumi,  sorretti  i  ponti,  mutati  più  lagaccioli  in  campi  fertilissimi, 
aggiunto  nel  padule  di  Castiglione  acqua  ad  acqua.  Né  le  morti, 
le  febbri,  i  miasmi,  eran  scomparsi,  gli  abitanti  moltiplicati,  la  sa- 
nità protetta  dalla  malaria.  Le  vicende  del  quarantotto,  la  fuga  del 
principe,  la  sfiducia  dei  più  aveano  distolto  l'animo  da  quelle  cure, 
rallentati  i  lavori:  onde  i  guai  si  rigeneravano,  e  non  incontrando 
impedimenti  s'accrescevano.  Il  clima  mite  in  inverno,  soffocante  in 

(291)  Nel  Rendiconlo  della  finanza  a  tutto  il  1847  figurano  spesi 
15,540,567  15  per  la  maremma 

337,000  -—  pei  piani  di  Vada  e  Ceima,  oltre  a 
2,570,000  —  spesi  da  privati. 
Nel  rendiconto  del  48-49-50 
apparisce  :  402,410  —  pel  1848 

251,734  —  pel  1849 

L.  19,101,411  15 


250  RIVISTA  CONTBMPOBANBA 

estate:  in  quella,  sciami  di  villici  (292),  cittadini,  fin  le  autorità 
del  luogo,  fuggivano  ogni  anno  le  esalazioni  letali  :  i  lavori  dell'in- 
verno devastati  dagli  armenti:  i  ricolti  perigliavano  la  vita  di  chi 
attendeva  a  mieterli  :  povertà  per  chi  fuggiva  :  morte  a  chi  restava  : 
e  sovente  pena  meritata  a  chi,  restando,  faceva  suo  l'altrui.  Tale 
era  la  condizione  della  maremma  :  rigogliose  le  piante  palustri,  tanto 
più  copiose  e  letali  le  esalazioni:  i  monti  a  ridosso  le  paravano  i 
venti,  le  serbavano  accumulati  i  miasmi  della  terra.  Alle  acque  che 
discendono  da  colli,  e  nel  basso  si  ammelmano,  andavan  miste  acque 
minerali,  pregne  di  gas  o  di  pestilenza.  Quelle  che  le  avrebbono 
recato  sanità,  si  precipitavano  ne' fiumi,  e  si  versavano  al  mare: 
quelle  putride  ristagnavano.  Onde  la  malsania  con  varia  ragione  era 
infesta  nel  piano,  a  pie'  de'  colli  che  accerchiano  la  maremma,  su 
per  le  pendici,  in  cima  a  monti,  e  giù  nelle  convalli.  Per  tanti  guai, 
nissun  farmaco. 

Dal  golfo  della  Spezia  fino  a  Gaeta  (293),  regna  malaria  :  di  in- 
certa intensità:  ove  sono  maggiori  paludi,  più  mite  :  ove  minori,  più 
perversa  :  là  infesta,  ma  sol  ne*  dintorni  de'  luoghi  umidi  :  qui,  a 
molte  miglia,  negli  asciutti  campi,  sin  pei  colli,  a  ridosso  de'  tugurii. 
11  cielo  questo  privilegio  diede  a  Toscana. 
Novara  li  10  settembre  1862. 

Enricx)  Pani  Rossi. 


(292)  V.  Notizie  e  considerazioni  intorno  l*agro  Grossetano  del  barone 
Bettino  Ricasoli. 

(293)  V.  Memorie  su  la  condizione  idrografica  della  maremma  Veneta, 
e  le  bonificazioni  cui  è  suscettibile,  del  cav.  Paleocapa.  Venezia  1848. 


251 


BABA-DOKIA 


A  S.  A.  S.  LA  PRINCIPESSA  ELENA 

PRINCIPESSA    REGNANTE   DEI    PRINCIPATI    RUMANI 


Ti  risovvenga  del  materno  affetto, 
Nessun  mai  ti  amerà  dell'amor  mio. 
Giusti. 


Alta  era  la  notte,  le  stelle  brillavano  nel  firmamento,  spandendo 
una  luce  soave  e  melanconica  sulla  terra  ;  l'aura  accarezzava  molle- 
mente i  fiori  e  muoveva  a  dolce  susurro  le  fronde  e  la  luna  inargen- 
tava i  fiotti  del  mare  cosi  da  parere  tante  lame  d'argento  guizzanti 
sulle  onde. 

Bella  nott&,  tutta  profumata. 

Fra  le  piante  di  aranci  ed  i  cupi  leandri  avanzavasi  mestamente, 
a  passo  tremante  ed  incerto,  una  donna,  sfinita  in  volto,  ma  nulla- 
meno  ancora  bella,  di  una  bellezza  foriera  di  vicino  tramonto  ;  mezza 
velata  pareva  un'ombra  vagando  in  cerca  della  sua  amica;  di  fre- 
quente passava  la  mano  nella  sciarpa  che  cingeva  i  suoi  fianchi,  e 
sembrava  volesse  con  quel  moto  frenare  i  battiti  ineguali  e  rapidi 
del  suo  cuore;  si  fermava,  guardava  di  quando  a  quando  il  cielo 
con  occhi  languenti,  quasi  chiedendo  aita,  e  poscia  tremolanti  e 
lagrimosi  gli  abbassava  al  suolo. 

Dopo  lunga  e  penosa  via,  fatta  lentamente  fra  piante  ove  nessun 
sentiero  indicava  esservì  una  meta,  soSermossi  un  istante;  pareva 
che  non  potesse  ire  più  oltre,  tanto  erano  folte  le  macchie  di  spini  e  di 
virgulti  ;  non  però  si  aperse  colle  mani  un  varco,  e  dopo  breve  tratto 
di  cammino  entrò  in  una  misteriosa  grotta.  Era  quel  luogo  certa- 
mente conosciuto  da  ben  poche  persone,  giacché  le  piante  e  Tederà 
rampicante  ne  celavano  l'ingresso. 


252  RIVISTA  CONTEMPORANEA 

In  quella  grotta  la  bella  ma  languente  donna  si  buttò  in  ginocchio; 
le  mani  alzate  supplichevoli  verso  il  cielo ,  orava  invocando  la  pietà 
divina  ;  sebbene  a  stento  potesse  proflFerire  le  parole,  pure  un  nome 
distinto  esci  va  dalle  pallide  sue  labbra.  —  Fatima!  —  Ah  il  cuor 
di  una  madre  trova  sempre  vigore  quando  si  tratta  dei  figli  !  quella 
donna  cosi  soffrente,  chiedeva  al  cielo  di  lasciarla  vivere  una  vita 
peggior  della  morte ,  onde  potere  allevare  la  sua  figlia  ;  la  sua 
cara  Fatima.  Quel  sentimento  faceva  sì  che  raccogliesse  l'estreme 
forze  che  le  rimanevano  per  continuare  una  vita  che,  se  non  fosse 
stata  madre,  ne  avrebbe  aflFrettata  la  fine;  anzi,  allorché  aveva  la 
figlia  a  sé  dappresso,  vi  sarebbe  detto  ritornata  in  salute  e  ringiova- 
nita per  folleggiare  con  lei,  e  nasconderle  ch'era  per  lasciarla  orfitna 
e  deserta  in  terra.  Quali  contrasti!  Una  donna  disavventurata  e 
morente  vestita  a  festa,  presso  ad  un  palagio,  nascosta,  a  ginocchio  in 
una  grotta  ;  una  sultana  pregando  di  soppiatto  il  Dio  dei  cristiani  I 

Essa  non  era  di  sangue  musulmano  :  essa  aveva  nell'harem  per- 
durato nella  religione  di  Cristo  ;  ed  in  quella  con  tutta  cura  ed  in- 
finito zelo  aveva  allevato  la  sua  creatura,  ma  per  ciò  nascondere 
alle  schiave  dell'harem,  aveva  dovuto  insegnarle  la  sua  lingua  ma- 
tema,  ch'era  affatto  diversa  dalla  tatara  favella. 

Da  piccina  Fatima  fu  quindi  educata  alla  virtù  ed  all'amore  della 
patria  di  sua  madre.  La  sultana  le  dipingeva  coi  colori  più  avve- 
nenti il  bel  paese  che  l'aveva  vista  nascere,  e  provava  ineffabile 
consolazione  nello  scorgere  i  rapidi  progressi  che  faceva  quella  sua 
creatura,  la  quale,  già  dimostrava  sarebbe  stata  di  carattere  perse- 
verante più  di  lei  stessa,  e  maggiormente  bella.  Però  questa  singo- 
lare avvenenza  le  dava  martello,  perchè  a  lei  era  stata  causa  d'in- 
felicità; oh  quanto  aveva  maledetto  di  essere  la  più  bella  dell'harem, 
e  quindi  assunta  al  grado  di  favorita.  Triste  onore  che ,  essendo 
cristiana,  abborriva. 

La  sultana,  sempre  inginocchiata  ed  immobile  in  quello  speco, 
come  se  rapita  in  estasi,  rivede  tutto  il  suo  passato  trascorrerle  len- 
tamente dinanzi  gli  occhi  ;  vede  sua  patria,  la  sua  famiglia,  le  tra- 
versie patite,  gli  accidenti  singolari  di  cui  fu  vittima,  e  tenebroso 
le  si  presenta  l'avvenire! 

Balza  in  piedi esce  dalla  grotta,  guarda  le  stelle,  e  vede  essere 

l'ora  già  avanzata.  L'alba  era  per  sorgere,  e  lunga  via  deve  anco  A 
fare  per  giungere  all'harem  senza  lasciar  conoscere  che  n'era  stata 
alcune  ore  assente;  non  ha  tempo  da  perdere,  e  s'avvia  quanto  più 
sollecitamente  le  poche  forze  le  consentono;  di  quando  in  quando 
si  sofferma,  perchè  ogni  rumore  del  vento  che  scherza  fra  le  fronde, 
le  fa  credere  di  essere  ricercata  e  punita,  ed  allora  paventa  di  essere 
divisa  dalla  sua  cara  figlia,  dal  solo  bene  ch'abbia  sulla  terra,  e  con 


BABA-DOKIA  253 

novello  ardore  ripirende  la  via;  fra  rincertezza  ed  il  timore  giunge 
nelle  sue  stanze;  tutto  è  silenzio,  nessuno  saprà  quella  sua  gita 
notturna,  potrà  ancora  recarsi  altre  volte  ad  orare  nella  grotta  dive- 
nuta il  suo  segreto  santuario. 

n  mattino  la  sultana  era  assai  male  perchè  la  veglia  erasi  troppo 
stancata  !  Poche  speranze  rimanevano  di  salvarla,  sentiva  che  la  sua 
ora  estrema  stava  per  giungere  a  passi  veloci,  non  cercava  ad  illu- 
dersi !  Le  sue  schiave  piangevano,  pensando  al  rischio  di  perdere  la 
loro  buona  signora. 

Contro  l'uso  consueto  dei  Musulmani,  un  certo  Radamante  e  la 
sua  famiglia  avevano  libero  accesso  nell'harem.  La  sultana  lo  fece 
chiamare  a  sé,  e  cosa  gli  disse  ?  nessuno  lo  seppe,  solo  dopo  quella 
conversazione  la  povera  derelitta  aveva  aspetto  più  calmo,  anzi  sor- 
ridente. 

Rimasta  sola,  chiamò  a  sé  dappresso  Fatima  ;  le  baciava  la  fronte 
e  chiudendole  gli  occhi  colle  scarne  dita,  le  palpava  le  ciglia  fine  e 
spesse;  povera  madre!  erano  le  ultime  carezze  che  le  prodigava,  e 
voleva  largamente  profittarne  !  la  fanciulla  con  tutto  cuore  eonrìspon- 
deva  e  si  smarriva  nello  scorgere  la  sua  diletta  madre  cotanto  in- 
ferma. Bene  quella  tentava  di  farle  credere  non  sentirsi  tanto  male, 
ma  non  poteva  riuscire  ad  ingannarla;  povera  Fatima!  che  non 
avrebbe  dato  per  riavere  la  madre  sua  in  salute  ! 

La  sultana  considerando  che  ogni  istante  che  perdeva  incaresze 
sarebbe  stato  tolto  al  poco  che  rimanevale  su  questa  terra,  fece  se- 
dere la  ,sua  figlia  accanto  al  suo  funebre  letto,  e  prese  a  dirgli: 

—  Fatima,  poche  ore  mi  rimangono  a  vivere  ;  giurami  di  serbar 
segreto  ciò  che  sto  per  narrarti. 

—  Madre  mia!  dolce  madre,  lo  giuro;  ma  tu  non  morrai,  tu  non 
lascierai  la  tua  diletta  sola  su  questa  terra,  oh  no:  io  ti  voglio 
seguire. 

—  Cessa,  mia  cara;  Dio  cosi  vuole,  e  noi  dobbiamo  adorare  i 
suoi  decreti;  ho  assai  vissuto;  ho  lottato  contro  tutte  le  avversità 
che  mi  si  pararono  innanzi,  per  renderti  felice.  Dio  infrange  i  miei 
sforzi  a  mezza  via  ;  sia  fatta  la  sua  volontà  ;  ora  ascoltami  :  se  avessi 
vissuto  infinoacchè  tu  fossi  stata  grandicella,  non  ti  avrei  svelato  questo 
segreto,  ma  spero  che  tu  essendo  ragionevole  e  pia,  benché  acerba 
d'anni,  saprai  seguire  i  ricordi  ed  i  consigli  di  chi  tanto  ti  ama,  e 
tanto  ha  porte  sofferto. 

Ti  ho  educata  nella  fede  cristiana  ch'è  la  mia  religione  e  quella 
de'  miei  maggiori,  e  che  seppi  conservare  in  questo  harem,  ove  fui 
forzatamente  rinchiusa  :  oh  mia  dolce  Fatima  !  Iddio  ti  preservi  dal- 
l'iliade di  mali  ch'io  sofferei 

Fatima  udendo  che  la  voce  di  sua  madrosi  affievoliva,  le  porse 


264  RIVISTA   CONTBMPORANBA 

una  coppa  di  un'acqua  aromatica  ;  dessa,  dopo  averne  bevuto  alcuni 
sorsi,  potè  riprendere  lena  e  proseguire. 

—  Sui  quindici  anni  io  era  bella  ed  i  miei  genitori  erano  fieri 
della  mia  bellezza  1  Incauti  !  che  triste  dono  fu  per  me  !  Io  era  adoc- 
chiata da  tutti  ;  e  la  rinomanza  della  mia  leggiadria  sì  era  divul- 
gata in  lontani  paesi. 

La  mia  patria,  cara  figlia,  ben  lo  sai,  non  è  la  Turchia,  né  l'isla- 
mismo la  mia  religione  ;  lo  sai  perchè  ti  ho  insegnato  la  vera  fede, 
quella  di  Cristo,  il  Salvatore.  Permani  in  essa,  e  ti  sii  guida  il  Van- 
gelo in  ogni  tua  azione. 

Se  mai  ti  è  dato. un  di  essere  libera,  ritorna  nel  mio  paese  ch'è 
tra  il  Dniester,  i  Carpazii  ed  il  Danubio,  cioè  nella  Rumania,  qui 
detta  Bogdania.  Là  è  la  mia  dolce  patria  ;  là  ove  sono  sepolti  i  miei 
genitori,  sotto  zolle  che  non  mi  fu  dato  d'irrorare  colle  mie  lacrime; 
oh  mia  Fatima,  ama  quel  paese  ;  che  quello  è  la  tua  vera  patria  ; 
io  ricordo  le  dolci  acque  della  Dumbowitza,  il  maledetto  Pruth  (1)  e 
le  nevose  cime  dei  monti  Butcegi  ;  ricordati  che  il  tuo  cuore  deve 
battere  sempre  costante  a  due  amori  ;  a  quello  di  patria  e  quello 
della  religione  ;  sciagurata  se  vi  manchi. 

Io,  continuò,  aveva  diletto  di  passeggiare  poco  lungi  della  mo- 
desta nostra  abitazione  ;  non  aveva  le  pompe  orientali  di  queste  sale, 
però  era  ben  più  felice.  A  me  piaceva  dilungarmi  alquanto  da  casa, 
massime  verso  sera  per  potere  contemplare  la  luna  e  le  stelle  del  fir- 
mamento, e  godere  la  brezza  della  marina. 

Una  sera  alcuni  Tatari  che  passavano  colà ,  furono  colpiti  dal 
mio  sembiante,  risolsero  di  subito  rapirmi  ;  circondarmi,  turarmi  la 
bocca  colle  loro  ruvide  mani,  fu  Taffare  d'un  istante. 

Venni  rapita  all'improvviso  ;  le  mie  lagrime,  le  mie  grida  sofib- 
cate  non  valsero  ad  intenerire  quei  barbari,  uno  di  essi  mi  prese  fra 
le  sue  nerbute  braccia,  e  salito  sur  un  cavallo  morello  mi  pose  in 
groppa,  gli  altri  cavalcavano  a  lui  accanto  disposti,  all'uopo,  di  re- 
spingere chi  si  fosse  posto  sulle  loro  traccio  per  liberarmi. 

Non  seppi  mai  se  la  mia  famiglia  abbia  avuto  contezza  del  mio 
ratto,  sebbene  qualche  pastore  potrà  forse  averle  detto  di  avermi  visto 
trasportata  da  una  masnada  di  Tatari.  Poveri  i  miei  genitori  !  Chi 
sa  se  avranno  sopravissuto  a  questa  loro  e  mia  disgrazia? 

Tradotta  dopo  più  giorni  di  viaggio  per  lande  deserte  nell'arida 
Crimea,  qui  fui  venduta  a  MengeliGherai ,  Chan  dell'orde  No- 
gaiche  che  vi  erano  attendate 


(1)  Evvi  una  ballata  popolare  contro  il  Pruth,  di  cui  l'egregio  B.  Ales- 
sandri pubblicò  il  testo  e  la  versione  francese.  V.  Ballades  et  chants  popu^ 
laires  de  la  Roumanie,  Parigi  1855,  pag.  XIV. 


bàba-dokia  255 

Non  potè  proseguire  nel  lungo  racconto  delle  sue  triste  vicende 
perchè  il  favellare  l'aveva  maggiormente  indebolita  ;  tratto  a  tratto 
ripigliava  facoltà  di  parola,  ma  non  poteva  sviluppare  un*idea,  e  se 
ne  valeva  per  esortare  la  sua  figlia  ad  osservare  fedelmente  la  fattale 
promessa  dì  seguire  i  suoi  avvertimenti. 

Alcune  ore  dopo  la  sultana  spirava  fra  le  braccia  della  sconsolata 
Fatima  I  la  povera  fanciulla  erasi  gettata  sovra  il  corpo  esanime  della 
sua  madre,  la  baciava  chiamandola  ad  alte  grida  ;  invano  le  schiave 
vollero  strapparla  fuori  di  quella  stanza,  non  fu  possibile:  allora  chie- 
sero di  Radamante,  il  quale,  avendo  un'influenza  sullo  spirito  dell'or- 
fana^ la  costrinse  con  dolce  violenza  a  lasciare  quel  luogo. 

Come  tutto  divenne  tristo  per  l'infelice!  Le  splendide  sale  del- 
l'harem si  mutarono  per  lei  in  nera  carcere  ;  increscioso  le  divenne 
persino  il  ridente,  olezzante  e'  sontuoso  giardino ,  che  accerchiava 
la  reggia  del  Chan.  Il  cielo  sfolgorante  di  Crimea  nella  tetra 
solitudine  del  suo  cuore ,  gli  sembrava  d'ogni  luce  privo.  Ahi 
l'infelice  ! 


Chiedea  Tusale  immagini 
La  slanca  fantasia, 
E  la  tristezza  mia 
Era  dolore  ancor. 

Leopardi. 

Radamante  era  padre  di  quattro  fanciulli,  cioè  di  un  maschio  e 
tre  femmine,  la  maggiore  delle  quali  era  coetanea  di  Fatima,  ed  il 
figlio  n'era  maggiore  di  cinque  anni. 

Egli  era  un  rumano  della  Moldavia,  stabilito  in  Crimea  pel  suo 
commercio.  Aveva  grand'intelligenza  ed  era  patriota  a  tutta  prova. 
Da  ben  vent'anni  commerciava  ne*  porti  del  mar  Nero,  e  colla  sua 
probità  nei  traffici,  erasi  cattivata  la  confidenza  e  la  stima  dei  so- 
vrani e  dei  negozianti  di  tutti  quei  paesi.  Stefano  il  grande  ,  vai- 
voda  di  Moldavia,  lo  sceglieva  per  inviar  lettere  e  regali  al  Chan 
Mengeli-Gherai,  e  perciò  era  di  firequente  in  viaggio  dall'un  paese 
all'altro. 

Il  sultano  trovandosi  debitore  di  somme  ragguardevoli  a  Rada- 
mante,  gli  aveva  concesso  libera  entrata  nell'harem  a  lui  ed  alla 
sua  famiglia,  ove  andava  a  smerciare  stoffe,  gioielli  e  orificerie  ;  non 
è  mestieri  il  dire  quanto  questa  famiglia  fosse  cara  alla  infelice  sul- 
tana; con  essa  ella  poteva  ragionare  della  sua  terra  natale,  e  par- 
lare la  comune  lingua,  poiché  la  patria  consiste  in  essa.  La  nazione 


256  RIVISTA   CONTEMPORANBA 

sta  oeiridioma  che  da  bambino  sMmpara  e  che  perdura  sulle  labbra 
e  nel  core,  ricordando  così  le  dolci  prime  fasi  della  vita. 

Fatima  non  aveva  altra  consolazione,  fuorché  il  poter  vedere  i 
Radamanti  ;  con  essi  soli  erale  concesso  favellare  della  sua  genitrice, 
poiché  la  povera  orfana  ogni  dì  sentiva  maggiormente  il  peso  della 
perdita  fatta;  in  ogni  condizione  la  morte  della  madre  è  per  una 
figlia  grande  disgrazia,  ma  per  lei  era  più  grande  ancora  :  non  aveva 
perduto  soltanto  la  madre,  ma  la  maestra,  Tamica,  la  correligionaria 
e  quella  con  cui  poteva  parlare  il  rumano.  Chiusa  fra  le  mura  del 
harem,  non  poteva  nemmanco  avere  il  conforto  di  svagarsi  dalle  tristi 
imagini  colla  vista  di  nuovi  oggetti  e  di  altre  persone.  A  lei,  della 
città  che  abitava  era,  si  può  dire,  noto  soltanto  il  nome.  E  questa 
città  chiamavasi  CaflFa,  eretta  sulle  rovine  dell'antica  Teodosia  dagli 
attivissimi  nostri  Genovesi ,  che  vi  avevano  stabilito  fondachi  ed 
uno  scalo,  come  dicevasi  nel  medio  evo,  ed  in  oggi  diciamo  Colonie. 
Ivi  coll'attività  e  l'industria  di  cui  erano  e  sono  ancora  dotati,  fe- 
cero lapide  fortune,  ed  erano  diventati  i  padroni  di  Caffa,  l'avevano 
munita  di  fortificazioni  per  riparare  1  loro  tesori  dalle  invasioni  dei 
Tatari  attendati  in  Crimea ,  ed  avevano ,  si  può  dire,  il  monopolio 
della  navigazione  del  mar  Nero  ;  im  console  eletto  annualmente  da 
Genova,  era  ivi  spedito  a  governatore.  I  loro  statuti,  fondati  sulla 
più  retta  giustizia,  erano  cosi  apprezzati  che  i  Tatari  chiedevano  di 
esserne  retti. 

Venezia,  per  disavventura  d'Italia,  sempre  rivale  a  Genova,  ve- 
deva con  invidia  la  crescente  prosperità  dei  Genovesi  in  quel  litorale, 
ove  anch'essa  possedeva  alcuni  piccoli  fondi  ;  volendone  scemare  il 
potere,  spedì  nell'anno  1296  una  flotta  per  abbattere  le  colonie  ge- 
novesi e  distruggere  da  capo  a  fondo  questo  grand'eraporio  dei  li-, 
guri  commercianti.  La  colonia  genovese  stata  sarebbe  irrevocabilmente 
perduta ,  se  non  fosse  stato  dell'inverno  freddissimo  sopragiunto , 
il  quale  fece  perire  il  terzo  dell'armata  veneta  che  si  era  ancorata 
sotto  il  comando  di  Giovanni  Soranzo  nel  mare  di  Azof  (1)  per  cui 
più  non  trovandosi  in  grado  di  continuare  a  guerreggiare  contro  i 
Genovesi,  abbandonò  la  Tauride,  ch'era  stata  creduta  un  paradiso 
terrestre,  e  la  provarono  inferno.  La  vittoria  di  Curzola  nel  mare 
Adriatico  riportata  dai  Genovesi  sui  Veneziani,  condusse  le  due  re- 
pubbliche a  stringere  un  trattato  di  pace,  per  cui  quelli  rimasero 
tranquilli  signori  del  litorale  della  Crimea,  mentre  deirintemo  con- 
tinuarono ad  essere  padroni  i  Tatari. 

Maometto  II  che  voleva  vendicarsi  di  una  sconfitta  a  Berat  avuta 
dai  Moldo-Valacchi,  spedi  un'armata  di  quarantamila  uomini  con 

(1)  Canale.  Bella  Crimea,  Commentarti  storici,  T.  I,  p.  202.  Genova  1855. 


L 


BABA-DOKIA  '     257 

482  vele,  sotto  il  comando  di  Ahmed  Pascià,  ad  attaccar  nella  Tau- 
ride  (1)  i  Genovesi,  che  sospettava  li  proteggessero;  con  tutta  la 
ferocia  di  un  barbaro  guerriero  li  vinse,  perchè  colti  alla  sprovve- 
duta. Ohiesta  ed  ottenuta  una  tregua,  il  di  dopo  gli  Ottomani,  entrati 
in  Gaffa  e  negli  altri  luoghi  dei  Genovesi,  passarono  a  fil  di  spada 
tutti  i  commercianti  Moldavi  che  si  trovavano,  ed  il  cui  numero 
ascendeva  a  160.  Di  più  scannarono  il  nunzio  di  Stefano  il  grande. 
Fu  vendetta  atroce,  iniqua,  ma  Maometto  voleva  lavare  l'onta 
sofferta. 

Onde  umiliare  i  Genovesi  e  ridurli  all'impotenza,  Maometto  se* 
questrò  tutti  i  loro  beni  e  rapì  le  loro  più  belle  figlie  per  condurle 
nell'harem  di  Costantinopoli;  centocinquanta  adolescenti  dell'età  dai 
undici  ai  quindici  anni  furono  destinati  al  servizio  della  corte  im- 
periale, 0  ad  essere  di  forza  arruolati  nel  corpo  dei  Gianizzeri,  dopo 
peraltro  di  averli  costretti  ad  abbracciare  l'islamismo. 

Miserando  spettacolo  I  lo  scorgere  tanti  giovinetti  rapiti  ai  geni- 
tori, e  più  di  uno  di  essi  imitò  Virginio  il  romano,  trafiggendo  la 
propria  figlia  anziché  vederla  disonorata  ;  ed  i  figliuoli  invocare  la 
morte  onde  salvarsi  dalla  schiavitù  e  dall'apostasia. 

Badamante  in  questi  frangenti  aveva  perduto  la  sua  fortuna  pel 
naufiragio  di  un  bastimento  che  veleggiava  alla  volta  di  Gaffa  ;  at- 
talchè  fu  compiutamente  rovinato.  Per  campare  si  pose  a  fare  il 
dragomanno,  come  quello  a  cui  erano  famigliari  più  lingue;  ma 
per  non  insospettire  i  Turchi,  diedesi  per  greco  di  nazione,  onde  così 
essere  prescelto  a  condurre  a  Costantinopoli  i  cencinquanta  giovani 
schiavi,  eletti  ad  essere  del  servigio  del  Serraglio  sui  mille  e  cin- 
quecento di  cui  si  erano  impadroniti. 

Badamantino  era  in  cerca  ddla  sua  sorella  che  credeva  si  fosse 
nascosta  in  qualche  luogo  remoto,  per  fuggire  alle  persecuzioni  di 
qualche  musulmano.  Vagando  per  ogni  dove,  ed  essendo  già  notte, 
penetrò  nei  giardini  dell'harem,  e  mentre  stava  guardando  se  dietro 
qualche  pianta  si  fosse  riparata  la  sorella,  tutto  ad  un  tratto  udì  un 
grido  acuto: 

—  Badamantino,  per  pietà,  salvami  ! 

—  Fatima?  che  fai  qui  mia  buona  amica?  Tu  forse  ignori  che 
in  questi  giorni  Gaffa  è  posta  a  sangue  e  a  ruba? 

—  Senza  saperne  i  particolari  bene,  le  tremende  scene  mi  sono 
note,  e  la  voce  di  esser  Gaffa  caduta  in  mano  dei  Turchi  fino  a  noi 
pervenne.  Gli  è  appunto  nel  trambusto  destato  da  questa  notizia  che 
io  potei  evadermi  dalle  custodite  sale  dell'harem.  Iddio  pietoso  si  è 

(1)  Hammer.  Histoirede  VEmpire  oUoman.  T.  3,  p.  197.  Parigi  1836,  e 
Canale,  Op.  cit.,  T*  2,  p.  143. 

XivUta  C.  —  17 


258  RIVISTA  OONTBMPORANBA 

mosso  a  pietà  di  me  facendomiti  incontrare,  perchò  tu  potrai  sa^Tarmi, 
Ma  di'?  come  sei  qui  penetrato  in  queste  ore  vespertine? 

— -  Cerco  la  sorella  mìa  da  più  ore  ;  ma  zitto  I  vi  sono  dei  Gianiz- 
zeri  ;  ritieni  il  fiato  Fatima,  affinchè  non  ci  sentano,  altrimenti  siamo 
perduti  entrambi,  e  per  sempre. 

In  quello  i  giovanetti  si  gettarono  in  terra,  rannioehiandoei  come 
più  potevano  fra  mezzo  ad  odorosi  mirteti  che  li  nascondevano  agli 
sguardi  investigiatori  dei  Turchi;  come  i  loro  cuori  balzavano  dalia 
spavento!  —  Baba-Dokia!  mormoravano  sommessi  ad  ogni  istante; 
potessimo  essere  presso  a  te:  saremmo  sicuri;  qui  tutto  ò  contro 
di  noi,  Baba-Dokia!  se  tu  potessi  vederci  ed  udirci,  ci  concederesti 
aiuto. 

E  colle  orecchie  tes«  giudicavano  al  rumore  dei  passi  se  venivano 
alla  loro  volta,  ed  allora  tremavano;  se  se  ne  dilungavano,  riapri- 
vano il  cuore  alle  speranze.  Alla  perfine,  fattosi  animo,  uscirono  dal 
nascondiglio  per  allontanarsi,  ma  ad  ogni  istante  scorgevano  altri 
Gianizzeri  a  poca  distanza,  ed  allora  o  dieteo  piante  od  in  messo  a 
cespugli  cercavano  uno  scampo;  cocd  mano  a  mano  si  trovarono 
presso  la  misteriosa  grotta  in  cui  soleva  inginocchiarsi  la  sultane. 
Fatima,  nel  ricalcare  le  traccio  della  sua  genitrice,  si  lasciò  cadere 
in  ginocchio,  ed  alzò  la  mente  a  Dio  ;  Radamantino  cercava  al  fioco 
chiarore  degli  ultimi  barlumi  del  crepuscolo,  di  conoscere  s'erano  in 
luogo  sicuro,  e  parendogli  che  al,  reputò  meglio  il  soffermarsi  tutta 
la  notte,  che  arrischiare  di  smarrirsi  volendo  uscire,  ovvero  di  ca- 
dere nelle  mani  della  soldatesca  sbandata. 

—  Radamantino,  odo  voci, ascolta vengono  qua sono 

i  Turchi 

—  Zitto  paurosa,  confida  nelFEssere  Supremo,  e  non  temere  ;  ma 
dando  questi  consigli,  egli  tremava  come  una  foglia  al  vento  ;  voleva 
infondere  valore  e  coraggio  nella  sua  compagna,  mentre  egli  stosso 
era  sbigottito. 

Tutta  la  notte  fu  un  lungo  martirio:  Radamantino  pensava  al 
padre  ;  quanto  doveva  essere  afflitto  nel  non  averlo  più  visto,  e  come 
avrebbe  creduto  che  fosse  stato  o  ucciso  da  Tatari  o  rapito  dai  Turdii. 
À  vece  Fatima,  scossa  la  mente  dai  ricordi  del  luogo,  parevale  ria- 
vere la  madre  ai  lati,  e  udirne  le  sante  parole.  Ma  alla  perfine,  stenca 
dalla  troppo  lunga  commozione,  cadde  assopite  sopra  il  muschio  che 
stondevasi  quasi  teppeto  sul  suolo  e  sulle  mura  di  quella  grotte. 

Radamantino  l'udì  addormenterai  e  si  pose  a  far  da  scolte  alla 
sua  giovine  amica,  con  quell'acute  vigilanza  con  cui  il  cane  sta  a 
guardia  del  suo  padrone. 

Cosi  trascorse  la  notte;  svegliatasi  ai  primi  albori  mattutini,  i 
due  giovanetti  si  fecero  a  studiare  come  dovevano  fare  per  uscire 


BABA-DOKTA  259 

inoflfidrvati,  quando  ad  un  tratto  udirono  un  calpestìo  vicino,  e  poco 
dopo  una  voce 

—  Mio  padre,  esclamò  Radamantìno^  e  un  raggio  di  gioia  gF ir- 
radiò il  volto« 

U  povero  Badamante  era  stato  tutta  la  notte  in  cerca  di  quel 
suo  benedetto  ragazzo.  Fini  col  sospettare  si  fosse  nascosto  nella  grotta 
per  isfnggire  a  qualche  insidia,  e  bene  si  era  apposto  ;  egli  poi  co- 
nosceva tutti  gli  andirivieni  di  quello  speoo,  il  quale  aveva  un'uscita 
fuori  dei  giardini,  mettendo  in  una  deserta  via  dì  Gaffa. 

Useiti,  non  senza  che  la  pia  Fatima  tralasciasse  di  ringraziare 
Iddio  dell'averla  salva ,  RadamMite  condusse  i  giovanetti  a  casa,  e 
non  trovando  altro  mezzo  di  scampo  per  Fatima ,  le  fece  indossare 
abiti  maschili,  e  coA  l'imbarcò  sulla  galea  che  dovea  trasportarli  a 
GostefitinopoU  ;  nessun  ostacolo,  grazie  alla  sagacità  di  Badamante, 
s'oppose  a  questo  imbarco. 

Ànehe  Mengrii^Ghlierai  Chan,  ch'era  stato  fatto  prigione,  fu  indi- 
rizzato in  essa  città;  però  vi  giunse  prima  dei  giovanetti  eletti  pel 
serrag^o,  i  quali  saliti  sulla  nave,  diedero  un  ultimo  addio  a  CafiSa  ; 
lamentandone  la  rovina. 

Fatima  poi  era  doppiamente  triste,  perchè  abbandonava  per  sempre 
la  terra,  ove  grtacevano  le  spoglie  della  sua  genitrice,  per  la  quale  nu- 
triva così  sacro  ricordo,  da  essere  divenuto  un  culto. 


III. 


Tempeste  il  mar  minaccia, 
L'aria  di  nembi  è  piena, 
Ma  Valma  è  pur  serena, 
Ma  disperar  non  sa. 

Metast.,  Trionfo  di  Clelia, 


n  naviglio  ottomano,  forte  di  più  galee,  salpò  dalla  sponda  fio- 
rita della  Crimea  lasciando  dietro  di  sé  i  profumi  balsamici  delle 
odorose  piante  che  stanno  in  riva  al  mare;  procedeva  velocemente 
spinto  dal  ritmico  movimento  di  cento  remi.  Quando  ebbe  percorso 
parecchie  miglia,  i  fanciulli  rimasero  costernati  per  non  vedere  più 
se  non  cielo  ed  acqua,  e  tristamente  fissavano  i  loro  sguardi  nell'in- 
finito con  indescrivibile  dolore  ;  sembrava  che  volessero  coi  fitti 
sguardi  al  cielo  sollevare  un  lembo  dei  misteri  della  vita  e  vedere 
ciò  che  il  destino  loro  preparava;  la  notte  già  stendeva  il  suo  manto 
tutto  smaltato  di  brillanti  stelle,  e  quel  tenebrore  infondeva  negli 
animi  un  non  so  che  di  religioso  al  dolore,  per  cui  quasi  unanimi 


260  KIVISTA  OONTBMPOBANEA 

8i  fecero  a  pregare  per  se  stessi  e  pei  loro  genitori  orbati  dalla  fe- 
rocia musulmana. 

Solo  un  uomo  passeggiava  con  passo  calmo  sul  ponte  della  galea; 
la  sua  alta  statura  pareva  maggiore  fra  le  ombre  della  notte,  e 
quando  i  raggi  di  Diana  gli  battevano  in  volto,  scorgevasi  esaere  in 
sulla  quarantina  ;  i  suoi  lineamenti  non  erano  belli,  ma  esprimevano 
im  carattere  franco  ed  ardimentoso,  che  ingenerava  di  subito  sim^ 
patia;  però  certi  moti  impazienti  di  quando  a  quando  lasciavano  tras- 
parire che  non  trovavasi  nel  suo  stato  abituale. 

Quest'uomo  era  Radamante  ;  egli  pensava  alla  sorte  di  coloro  che 
lo  circondavano  ;  pensava  a  suo  figlio  ed  a  Fatima  appena  trilustre  ; 
età  in  cui  le  illusioni  si  belle,  fresche,  poetiche  e  buone,  fanno  cre- 
dere universale  la  virtù;  quei  due  giovanetti  così  schietti,  lindi  ed 
impressionevoli  all'udire  narrare  una  generosa  azione,  loro  s'inumi- 
diva il  ciglio  di  gioia  e  di  pietà.  Ahimè  I  quante  volte  in  un  istante  si 
distruggono  quelle  candide  nature  e  quella  confidenza  nell'avvenire  ! 

Le  cure  affettuose  che  Badamante  aveva  per  i  giovani  genovesi 
lion  valevano  a  consolarli  della  loro  disgrazia  ;  ricordavano  di  aver 
lasciato  in  Gaffa  dei  genitori,  che  mai  più  non  avrebbero  potuto  riab- 
bracciare ;  imbarcati  sopra  diverse  galee  non  potevano  neppure  divi- 
dere assieme  le  loro  pene,  gridavano  forte:  pietà i  come  se  fossa 
apparso  qualche  buon  genio  nel  firmamento  atto  a  salvarli,  ed  i 
barbari  turchi  se  ne  beffavano  chiamandoli  giaurri;  quanti  diversi 
sentimenti  I  '  chi  crederebbe  al  vedere  ,  scorrere  si  tranquillamente 
quelle  galee,  che  in  esse  si  racchiudevano  rapitori  e  rapiti,  lagrime 
e  dileggi,  fiducia  di  vendetta  e  certezza  di  possedimento,  libertà 
e  schiavitù. 

Vogavano  le  navi,  quando  una  di  quelle  tempestose  bufere  che 
regnano  nell'Eusino,  sorse  ad  agitare  le  onde  con  furore;  trovayansi 
al  largo;  non  eravi  tempo  di  giungere  ad  un  porto  per  ripararsi; 
quella  dolce  luce  della  luna,  che  bagnavasi  brillante  e  pura  nelle 
acque  tratiquille,  si  nascose  dietro  a  nubi  spesse  e  rossigne,  nunzie 

di  un  orribile  uragano! Le  onde  soUevavansi  impetuose  e  nere, 

formando  una  spuma  bianca  che  flagellava  le  galee,  lo  spavento 
invase  non  solo  i  trasportati,  ma  i  remigatori,  i  piloti  ed  i  capitani 
del  naviglio;  era  un  silenzio  profondo,  lugubre  silenzio  di  morte; 
dopo  alcune  pause  la  bufera  ricominciava  a  muggire  con  maggior 
furore  ;  il  vento  fischiava  fra  l'alberatura  delle  navi  e  ne  rompeva 
i  cordami. 

Quei  giovani  che  pochi  istanti  prima  erano  addolorati  si,  ma  in  sa- 
lute, divennero  dallo  spavento  come  agonizzanti  ;  e  mandavano  chi 
gemiti,  chi  urli,  chi  strida.  Solo  Radamante  fra  il  furore  ed  il  mug- 
gire della  tempesta  rimane  calmo  coU'occhio  fisso  nel  cielo  tempo- 


BABA-DOKIA  261 

stivo,  e  di  tpatto  in  tratto  mormorava  con  voce  mipplichevole  :  Baba- 
Dokia!  poi  ritornava  impavido  a  contemplare  quel  tremendo  spet- 
tacolo, scorgevasi  avere  presentimento  che  dal  male  dovesse  scatu- 
rirne un  bene,  cioè  un  mezzo  di  salvamento;  a  ciò  pensava 

Tutto  ad  un  tratto  il  vento  diede  una  tale  spinta  alla  galea  su 
cui  egli  trovavasi,  che  fu  separata  dalle  69  altre  che  componevano 
con  quella  la  flotta  turca,  e  buttò  in  mare  il  pilota.  Radamante,  senza 
metter  tempo  in  mezzo,  espertissimo  com'era  delle  acque  del  mar 
Nero,  si  pose  al  timone  e  diresse  il  bastimento  in  altra  direzione, 
invocando  TEnte  Supremo  per  toccare  la  meta  agognata.   , 

Dissipatasi  la  bufera,  il  mare  poco  a  poco  tornò  nuovamente  tran- 
quillo e  placido.  Radamante  aveva  diretta  la  prua  verso  le  sponde 
della  Moldavia.  I  marinari  turchi  accortisine  si  spaventarono  gran- 
dem^te  della  direzione  presa,  ed  il  trovarsi  alla  mercè  di  esso  lui 
non  li  assicurava  nullamente;  ma  egli,  buon  parlatore,  seppe  dar 
loro  ad  intendere  che  non  avrebbe  preso  terra  su  quelle  sponde,  ma 
costeggiato  per  sicurtà  di  navigazione,  intendendo  approdare  a 
Sinope. 

I  giovanetti  tornarono  pur  essi  a  racquetarsi ,  quantunque  si 
trovassero  sfiniti  da  un  così  lungo  e  fortunoso  viaggio.  Da  cinque 
giorni  e  cinque  notti  stavano  neirEusino  senza  poter  toccare  le  sponde. 
Badamantino  e  Fatima  ch'erano  sempre  rimasti  l'uno  a  lato  dell'altro, 
parevano  un'anima  sola,  un  solo  cuore  in  due  corpi.  Quei  giovanetti 
provavano  reciprocamente  una  immensa  simpatia,  che  vieppiù  s'ac- 
cresceva per  la  comunanza  dei  dolori  e  delle  speranze.  Fatima  era  tutta 
impaurita  e  nondimeno  si  sforzava  di  non  piangere  e  si  tratteneva 
fin  anco  dal  sospirare  ;  solo  rimaneva  chetamente  appoggiata  a  Ba- 
damantino come  s'egli  fosse  stato  la  sua  àncora  di  salvezza. 

L'alba  del  quinto  giorno  sorgeva  ed  al  chiarore  incerto  dell'au- 
rora videro  un  punto  nero. 

—  Terra  1  terra  I  fu  un  grido  generale  ;  in  quelle  parole  tutto  si 
racchiudeva,  la  gioia  era  generale,  i  Turchi  poi  pienamente  convinti 
delle  parole  di  Radamante,  presero  pur  essi  parte  alla  comune  gioia, 
credendo  di  essere  in  faccia  all'Anatolia  e  non  solo  d'essersi  salvati, 
ma  di  aver  soverchiato  nella  navigazione  le  altre  navi  da  cui  il  vento 
li  aveva  separati,  e  si  lusingavano  d'essere  i  primi  ad  avere  parte  del 
bottino^  allorquando  avrebbero  deposto  ai  piedi  del  sultano  i  tesori 
raccolti  ed  i  giovani  genovesi  rapiti. 

Radamante  quando  fu  presso  terra  s'accorse  ch'era  all'isola  dei 
Serpenti,  che  forma  un  triangolo  colle  bocche  di  Kilia  e  di  Sulivan  del 
Danubio,  che  dai  Greci  è  detto  Fidonisi  e  dai  Turchi  Ilane-Adassi  (1): 

(1)  Corréard.   Guide  marxlime  et  stratégique  dan$  la  Mer  Noire,  Parigi 
1854,  pag.  65. 


262  RIVISTA  CONTEMPORANEA 

nulla  disse,  anzi  fece  saputo  trovarsi  poco  distante  di  Burga  e  mu- 
linava in  so  come  sbarazzarsi  dai  Turchi  ;  questi  ch'erano  tutti  dei 
pascialati  interni  dell'Asia  minore,  epperò  non  conoscevano  quel  mare, 
credettero  alle  parole  di  Eadamante. 

Il  quale  gittò  Tàncora  per  potere  rinnovare  le  provigioni  d'acqua 
potabile,  di  cui  da  alcuni  giorni  erano  quasi  privi,  ciò  che  aveva 
fatto  soffrire  doppiamente,  perchè  è  duro  trovarsi  in  metóo  all'acque 
e  quasi  morire  di  sete. 

I  Turchi  si  slanciarono  nei  palischermi  impetuosamente,  portando 
seco  loro  gli  otri  per  riempirli  d'acqua  fresca,  stanchi  a  dar  dei  reir  ' 
nei  fiotti  tempestosi.  I  tamarindi,  i  mirti  e  le  mortelle  erano  folle 
su  quella  spiaggia  e  spandevano  un'ombra  soave,  cosicché  i  Turchi 
furono  tratti  ad  assidervi  presso  ed  ivi  consumare  la  frugale  refezione 
dei  marinari,  epperò  si  sdraiarono  placidamente  sulla  morbid'erba, 
e  stanchi  com'erano,  finirono  coU'addormentarsi.  Lungo  fu  il  sonno, 
ma  appena  desti  si  fecero  solleciti  a  riempire  gli  otri  nella  più  lim- 
pida fontana  che  zampillava  ai  pie  di  quegli  odorosi  arbusti. 

Ciò  fatto  s'avviarono  carichi  delle  otri  alle  sponde  del  mare  per 
tornare  a  bordo.  Allah!  Allah  I  sclamarono  esterrefatti.  La  galea  aveva 
levate  le  àncore  ed  era  già  in  alto  mare  salpando  a  piene  vele 
verso  settentrione  ;  i  Turchi  si  posero  ad  urlare  nel  vedersi  così  in- 
degnamente traditi  ;  nulla  potrebbe  ridire  le  loro  smanie  ;  essi  invo- 
cavano da  Maometto  la  punizione  di  coloro  che  gli  avevano  abban- 
donati. Ma  vedendo  che  cotesto  loro  smanie  non  mutavano  la  loro 
situazione,  con  quell'apatia  propria  degl'Islamiti,  si  racquetarono 
dicendo  :  Non  vi  è  Dio  che  Dio,  e  Maometto  è  il  suo  profeta. 

Radamante,  lietissimo  della  riuscita  del  suo  stratagemma,  quando 
fu  ad  alcune  miglia  dall'isola,  dirizzò  la  prua  a  libeccio  per  andare 
alle  bocche  del  Danubio  e  precisamente  al  lido  di  Bulina,  però  avendo 
ancora  remiganti  ch'erano  tutti  Musulmani,  loro  disse  che  avendo 
felicemente  toccato  terra  dopo  tanti  marosi,  voleva  regalarli  con  be- 
vanda gradevole  ;  in  questa  gittò  una  polvere  narcotica.  Bevutone  i 
marinari ,  in  breve  caddero  in  profondo  sonno ,  allora  Radamante 
aiutato  dai  giovanetti  più  robusti  li  prese  e  li  gittò  uno  ad  uno 
nel  mare. 

Sbarazzato  da  quelli,  collocò  i  giovanetti  ai  giglioni  dei  remi.  For- 
tunatamente il  vento  spirava  propizio  alla  meta,  per  cui  quasi  senza 
quelli  adoperare  venne  a  poca  distanza  dell'isola  di  Mohan  ;  vi  erano 
sulla  spiaggia  dei  pastori.  Fatima,  che  sempre  era  accanto  a  Rada- 
mantino,  diede  un  grido  di  gioia. 

—  Senti,  oh  senti  quel  canto!  È  quello  che  la  madre  m'insegnava! 

—  Una  do'ina  !  dissero  ad  una  Radamante  ed  il  suo  figlio. 

—  Siamo  dunque  nella  Rumania?  Oh  me  benedetta!  potrò  porre 


BABA-DOKIA  263 

i  piedi  su  quel  suolo  che  vide  nascere  la  mìa  genitrice,  che  m'in- 
segnò ad  amare  sovra  ogni  altra  cosa  dopo  Domenedio  ! 

E  la  giovinetta  piangeva  di  consolazione ,  e  nella  brezza  marina 
le  pareva  udire  la  soave  voce  della  sua  madre  a  parlarle  della  sua 
patria;  la  gioia  di  toccare  quella  terra  promessa,  le  fece  dimenticare 
il  ribrezzo  che  le  aveva  cagionato  il  vedere  a  buttare  nell'onda  i 
Turchi  ebri  e  addormentati.  Sebbene  in  quella  età  le  ire  di  popolo  a 
popolo  fossero  cruenti  e  feroci,  attalchè  si  considerava  opera  laudevole 
il  far  soffrire  tormenti  ai  nemici,  Fatima,  oltreché  aveva  indole  buona 
e  pietosa,  era  stata  dalla  sua  madre  educata  nello  spirito  vero  cri- 
stiano, quello  che  consiste  nel  versetto  del  Vangelo:  f  Nauti  a  Dio 
non  vi  sono  pagani  e  credenti,  ma  tutti  figli». 

Badamante  non  stette  inoperoso  contemplando  la  gioia  de*  suoi 
figli  ;  ma  tosto  innalzò  all'albero  di  trinchetto  la  bandiera  Moldava 
fra  le  grida  della  giovine  ciurma,  che  chiamava  i  pastori  a  darle 
aita;  ciò  che  meglio  valse  allo  scopo  si  fu  il  suono  della  zampogna, 
che  Badamante  aveva  Imboccata  e  con  cui  ripeteva  melanconicamente 
la  melodia  delle  dolne  rumane,  il  che  attrasse  l'attenzione  dei  pastori 
meravigliati. 

Allora  due  robusti  Mohani  si  gettarono  nel  mare  portando  in 
ispalla  grosse  gomene,  di  cui  slanciarono  l'un  capo  sulla  galea  ;  altri 
pastori  che  erano  sulle  sponde  si  posero  a  tirare  a  tutta  forza  la  nave 
e  cosi  prese  terra  malgrado  la  respingente  onda  del  fiume. 

Radamante  prima  di  scendere  dalla  galea  volse  lo  sguardo  alle 
montagne  moldave,  fra  le  quali  signoreggiava  altero  il  Pione  — 
Baba-Dokia,  sclamò,  ti  ringrazio  !  —  Fatti  scendere  i  giovanetti  in 
mezzo  ai  buoni  pastori  che  accorrevano,  gareggiando  far  festa  ai 
sopravenuti ,  che  scendendo  presti  dalla  galea,  non  appena  posto  il 
piede  in  terra  s'inginocchiavano,  e  perchè  Genovesi ,  gridavano  — 
Ave  S.  Giorgio  !  —  il  gran  santo  protettore  della  marina  e  delle  co- 
lonie liguri. 

I  capi  dei  lìohani  mandarono  alcuni  pastori  sul  bastimento  onde 
vi  stessero  a  guardia,  e  con  essi  rimasero  alcuni  Genovesi,  gli  altri 
ch'erano  già  sceei  a  terra  furono  collocati  chi  nelle  celibe,  cioè  ca- 
panne dei  contadini,  altri  in  tane  sotto  terra;  e  nell'une  e  nelle  altre 
si  accese  un  vivace  fuoco ,  e  dato  tutto  ciò  che  possedevano ,  cioè 
latte,  cacio,  e  pesce,  li  rifocillarono  ;  ciò  che  più  li  fece  contenti  si 
fu  la  mamaliga,  cioè  la  polenta  :  mangiandone  Radamante  si  sen- 
tiva ritornare  giovanetto. 


264  RIVISTA  CONTEMPORANEA 

IV. 

La  feccia  sua  era  faccia  d'uom  giusto. 
Inferno,  e.  XVII. 

Che  bel  spettacolo  eia  il  vedere  sdraiati  su  foglie  di  sorgo  quei 
giovanetti  addormentati  ed  abbracciati  stretti  uno  all'altro  ;  i  loro 
sogni  dovevano  essere  dorati,  poiché  il  sorriso  errava  sulle  loro  labbra; 
Fatima,  sempre  vestita  da  giovanetto,  teneva  stretta  la  mano  di  Rada- 
mantino  nella  sua,  ed  aveva  il  capo  mollemente  appoggiato  sulla 
sua  spalla. 

Il  mattino  i  Grenovesi,  nello  svegliarsi,  rimasero  tutti  stupefatti  ; 
avevano  sognato  di  trovarsi  nuovamente  in  grembo  alle  loro  famiglie. 
Con  quanto  dolore  la  loro  illusione  scomparve  !  Con  qual  invidia  non 
guardavano  la  mandra  di  agnello  che  pascevano  su  quell'erbosa 
spiaggia.  Sono  liberi  ;  sono  con  ohi  loro  die  vita. 

—  Perchè  non  siamo  com'essi? 

—  Dio  aiuta  chi  pone  fiducia  in  lui ,  disse  Radamante  ;  censi* 
derate  per  quale  strana  vicenda  di  avvenimenti  scampammo  dalle 
unghie  di  que' barbari  infedeli?  Ciò  vi  dovrebbe  persuadere  che  la 
mano  di  Dio  vigilava  sopra  di  noi;  abbiate  fede  e  lo  scoraggia- 
mento non  entrerà  ne'  vostri  cuori.  Chi  sa  che  fra  non  molto  ritor- 
nerete in  grembo  delle  vostre  famiglie  ;  dopo  una  serie  di  sciagure, 
sentirete  viepiù  la  dolcezza  dell'amore  dei  vostri  genitori  ;  ma  se  a 
vece  di  secondarmi  fate  i  piagnoloni,  io  non  potrò  proseguire  nella 
difficile  intrapresa  di  restituirvi  alla  vostra  patria. 

—  Troppo  lungi  siamo  da  essa  ;  l'orizzonte  è  tutto  fosco  non  vi  è 

il  menomo  barlume  di  speme rispose  un' giovane  più  degli  altfi 

attempatene  :  non  rivedremo  mai  più  i  nostri  cari. 

Poco  ottenne  Radamante  colle  parole  sue.  Venuta  l'ora  di  levar 
l'ancora  li  fece  imbarcare,  ed  aiutati  dagli  ospitali  Mohani,  salpò 
alla  volta  di  Ealia  e  dopo  otto  ore  di  navigazione  vi  giunse. 

Sbarcati  entrarono  in  Kilia,  anticamente  Achillea  o  distoma- 
thum;  era  allora  una  fortezaa  ohe  difendeva  l'entrata  nelle  bocche 
del  Danubio  e  cosi  proteggeva  la  navigazione  dei  Moldavi  su  quel 
gran  fiume  e  sul  mar  Nero.  Vi  era  un  forte  presidio  capitanato  dal 
governatore  Pascalab  Isaia. 

Radamante  si  recò  tosto  da  lui,  gli  narr^  la  catastrofe  di  Caffa,  i 
patimenti  sofferti  nella  navigazione  e  come  eransi  liberati  per  un 
miracoloso  fatto.  Il  capitano  l'udì  compassionando  ed  ammirando  la 
di  lui  sagacità,  e  gli  promise  agevolargli  il  modo  di  recarsi  da  Ste- 
fano Domnu  o  Vaivoda  di  Moldavia,  a  cui  la  posterità  diede  l'ap- 


BABA-DOKIÀ  266 

pellativo  di  Grande,  onde  chiedere  protezione.  Non  solo  Isaia  fu 
mosso  a  pietà  dei  Genovesi,  ma  tutt'i  Kiliesi  ch'erano  accorsi,  udendo 
la  notizia  di  quel  meraviglioso  sbarco,  accolsero  amorevolmente  i 
poveri  giovanetti,  i  quali  si  credettero  tornati  nelle  loro  famiglie  e 
perciò  s'abbandonarono  a  novella  speranza. 

Dopo  ciò  Radamante  condusse  la  sua  giovane  ciurma  in  chiesa, 
acciò  ringraziassero  il  Signore  dello  averli  salvi.  Fatima  nel  porre 
i  piedi  in  quella  sacra  soglia,  si  senti  talmente  compresa  da  senti- 
mento religioso  che  senza  l'aita  di  Badamantino  sarebbe  caduta  a 
terra;  gl'insegnamenti  della  religione  cristiana,  l'imponenza  del 
culto  greco,  la  maestà  delle  basiliche  di  cui  le  aveva  tante  volte 
parlato  la  sua  madre  le  tornavano  a  mento  ;  vedeva  cogli  occhi  ciò 
che  le  avevano  dipinto  le  parole;  l'altare,  le  sante  immagini,  i  can- 
delabri, i  turiboli,  l'augusto  rito.  Oh  con  quanta  commossione  si 
prostrò  sino  a  terra!  né  potè  sciogliere  un  accento,  tanto  era  sorpresa. 
Il  pallore  del  suo  volto  era  fatto  più  evidente  da  due  cerchia  nere 
sotto  gli  occhi,  che  palesavano  la  sua  stanchezza  e  rendevano  mag- 
giormente strano  che  quella  persona  fosse  vestita  d'abito  maschile. 
Badamantino,  finito  ch'ebbe  di  recitare  la  sua  prece  di  ringrazia- 
mento, stette  tutt'occhi  a  guardare  la  giovinetta;  la  trovava  più 
bella  del  consueto  e  le  pareva  illuminata  da  luce  celeste  ;  quando  si 
fece  cenno  di  uscire  dalla  basilica.  Fatima  non  aveva  più  forza  da 
reggere  in  piedi  e  a  mala  pena  potè  strascinarsi  sorretta  dal  suo  fido 
compagno. 

Tutto  la  sorprendeva,  il  vedere  quelle  donne  libere  andare  e  ve- 
nire senza  essere  bavagliate;  quale  differenza  con  i  costumi  tatari, 
allora  soltanto  capi  quante  pene  la  ^ua  povera  genitrice  aveva  do- 
vuto sopportare. 

Intanto  Isaia  spedi  un  n^esso  onde  recasse  la  novella  dell'arrivo 
di  Radamante  a  Stefano  il  Grande,  che  trovavasi  allora  a  Citate- 
Alba,  cioè  la  Città  bianca,  poco  distante  da  Xilia;  indi  fece  subito 
disporre  un  camerone  onde  alloggiare  i  Genovesi,  ai  quali  i  merca- 
tanti Genovesi  e  Veneti  stabiliti  in  quella  città  furono  larghi  di  ogni 
maniera  di  conforti. 

Stefano  il  Grande,  sagace  politico  come  era,  da  anni  teneva 
d'occhio  alle  mene  dei  Turchi  per  ampliare  il  proprio  dominio  nel- 
l'Europa. Egli  aveva  preveduto  che  Maometto  II  avrebbe  invaso  la 
lontana  Crimea  e  che  la  colonia  di  Caffa  era  troppo  debole  per 
resistere;  previdp  che  dopo  il  conquisto  della  Crimea  si  voleva 
volgere  le  armi  contro  la  Moldavia,  aggredendola  ad  austro  sul  Da- 
nubio, a  borea  sul  Dniester,  cioè  l'antico  Tyras  Danastrum  ;  il  per- 
chè aveva  fatto  costrurre  alcuni  forti  lungo  la  spiaggia  Moldava 
dell'Eusino.  Egli  si  era  data  l'alta  missione  di  salvare  la  eulta  Europa 


366  EIVISTA   CONTEMPOBANEA 

dalle  invasioni  del  Turco,  che  cercava  trarre  dalla  sua  la  mal  accorta 
Polonia.  I  potentati  dell'Europa  non  secondarono  quel  gran  principe, 
e  le  conseguenze  ne  furono  immense  :  Venezia,  Austria  e  la  Polonia 
ebbero  a  patirne  irrimediabil  danno.  L'invidia  cosi  negli  Stati  come 
negli  individui  produce  sempre  rovina. 

Oiunto  il  messo,  Stefano  lo  rimandò  tosto  al  capitano  in  Kilia 
annunciando  il  suo  prossimo  arrivo. 

Il  governatore  Isaia  e  Radamante  s'intesero  onde  preparare  un 
degno  ricevimento  al  Vaivoda. .  Sapendolo  schiettamente  religioso 
indovinarono  che  il  suo  primo  passo  stato  sarebbe  lo  andare  subito 
nella  basilica,  opperò  Radamante  ivi  fece  schierare  i  Genovesi  nauti 
al  peristilio,  ed  egli  là  sotto  espose,  per  offerire  in  regalo,  tappet 
di  Persia  e  d'India,  e  gemme  di   Golconda  montate  in  collane 
braccialetti  ed  orecchini  ;  anfore  antiche,  medaglie  ed  armi  tempo 
state  di  gioie.  Fece,  diremmo,  un  bazar  delle  mercatanzie  che  aveva 
con  sé  trasportate.  La  vista  di  queste  splendide  cose  valse  a  temperare 
l'inquietezza  in  cui  erano  i  giovani,  giacché  paventavano  di  trovarsi 
al  cospetto  del  Vaivoda ,  il  cui  nome  avevano  inteso  a  pronunziare 
con  ispavento  dai  Turchi.         ♦ 

Un  forte  grido  s'udì  dalle  torri  :  Erano  le  sentinelle  che  annun- 
ciavano Tarrivo  del  Vaivoda,  i  bronzi  squillavano  a  festa  e  si  con- 
fondevano colle  musiche  militari  ;  il  popolo  prorompeva  in  applausi. 

Fatima  era  tutt'occbi  a  guardare  le  truppe  che  sfilavano  nella 
via  con  bandiere  spiegate,  i  capitani  le  fecero  schierare  sulla  piazza. 
Il  clero  sul  peristilio  della  chiesa  ed  il  venerando  metropolita  coi 
santi  evangelii  in  mano,  attendevano  che  ponesse  piede  su  quelle 
sacre  soglie.  Radamante  si  era  nicchiato  col  figlio  e  Fatima  nell'in- 
tercolonio  del  peristilio. 

—  Fratello?  Vedi  come  brillano  le  armi?  Guarda  come  i  cavalli 
ftinno  scoppiare  scintille  dalle  dure  selci  battendovi  sopra  l'ugne 
ferrate?  Di'  un  pò?  Siragunano  fórse  tanti  armati  per  essere  vicini 
i  Turchi  ed  i  Tatari?  Dio  miot  tion  stiamo  qui  ad  aspettare  che 
si  combatta.  Fuggiamo. 

—  Fatima,  tu  cosi  coraggiosa  fra  le  tempeste,  hai  paura  di  cosa 
che  non  sai  se  sia  vera? ora  che  slamo  al  cospetto  dell'immor- 
tale vincitore  dei  barbari,  ora  fatti  animo. 

Stefano  entrò  nella  città;  cavalcava  un  destriero  arabo  di  man- 
tello bianco  dall'occhio  ardente  e  vivace ,  era  tutto  coperto  dalla 
schiuma  e  dalla  polvere  della  strada.  Il  Vaivoda  scese  lentamente  ; 
s'incaminò  verso  la  chiesa.  I  giovani  genovesi,  caduti  in  ginocchio, 
stavano  nell'atto  di  chi  chiede  protezione  :  Stefano  era  piccolo,  brutto 
di  aspetto  severo,  ma 

e  La  faccia  sua  era  faccia  d'uom  giusto  » 


BABA-DOKIA  267 

il  SUO  «guardo  aveva  il  riflesso  delle  lame  d'acciaio;  se  fissava  una 
persona  in  volto  pareva  volesse  scrutarne  i  più  minuti  pensieri  r  egli 
così  severo  e  duro,  fu  non  pertanto  commosso  scorgendo  a  sé  pro- 
strati que' poveri  ragazzi, 

Radamante  si  accostò  reverentemente  al  principe,  e  lo  informò 
di  tutti  i  particolari  dell'avvenuto  :  Stefano  volle  poscia  interrogare 
tutti  i  giovanetti,  e  quando  stava  per  ritirarsi,  la  bellezza  di  Fatima 
lo  fece  sofiTermare,  e  quantunque  abitualmente  pallido  lo  divenne 
ancor  di  più. 

Ritiratosi  nel  palazzo,  riunì  il  suo  consiglio  onde  deliberare  sulla 
sorte  dei  Genovesi.  La  politica  e  l'umanità  li  poneva  sotto  la  sua 
protezione;  fu  deciso  che  i  Boiardi  più  ricchi  adotterebbero  alcuni  di 
quei  giovanetti,  altri  sarebbero  istruiti  a  spese  del  Governo.  I  più 
svelti  li  destinò  ad  essere  suoi  paggi.  Con  ciò  Stefano  voleva  fersi 
via  a  stringere  un'alleanza  politica  colla  repubblica  di  Genova  in 
que'  giorni  ancora  molto  potente  in  mare.  Quanto  a  Fatima,  la  cui 
bellezza  cattivava  tutti  gli  animi,  Stefano  decise  di  mandarla  presso 
alla  sua  madre,  la  principessa  Elena,  e  sua  moglie,  la  principessa 
Voquitza,  figlia  di  Vlad  signore  della  vicina  Valachia.  Radamante 
poi,  che  aveva  salvo  tanti  cristiani,  si  ebbe  in  dono  una  terra;  e 
fu  dato  un  impiego  in  Corte  al  suo  figliuolo. 

Così  quell'immortale  Vaivoda  non  dimenticò  nessuno.  Conosciu- 
tesi queste  sovrane  determinazioni,  il  pot)olo  applaudì  alla  nobile 
decisione  verso  quei  giovanetti,  perchè  sapeva  che  Italiani  e  Moldavi 
discendono  del  pari  dalla  gran  gente  latina,  epperò  sono  fratelli. 


Deh  !  eiò  non  dir  :  non  hai  tu  madre  m  queela 
Reggia? 

Alfieri,  Polmk$  a.  Il,  s.  Ili. 

Fatima,  felicissima  dell'esser  fuggita  dall'harem  di  Caffa,  nuUa- 
meno  provò  dolore  quasi  pari  a  quello  provato  il  dì  che  fu  orbata 
della  madre,  nel  separarsi  da  Radamantino.  Stefano  che  la  vide  pian- 
gere, per  consolarla,  le  promise  che  in  ogni  anno  li  avrebbe  uniti 
per  qualche  giorno. 

—  Che  farò  senza  di  te?  diceva  Fatima  a  Radamantino ,  a  cui 
questi  rispose  : 

—  Ed  io,  quando  non  udrò  più  quelle  labbra  di  corallo,  da  cui 
pare  sgorghino  rose  e  viole,  chiamarmi  dricemente,  oome  vivrò? 


268  BIYISTA  CONTBMPOBÀNBA 

0  Fatima,  ora  io  sento  che  Tesserti  presso  è  bisogno,  è  necessità 
per  me. 

—  Badamantino  fa  core,  che  se  ti  vedo  cosi  sfiduciato  non  reggo 
ad  abbandonarti.  Io  chiederò  al  grande  Stefano,  cosi  buono,  di  la- 
sciarmi sempre  indossare  questi  abiti  maschili  onde  stare  teco. 

—  No,  Fatima,  tu  non  devi  continuare  a  vivere  sotto  mentite 
vesti  ed  a  nasoondere  quella  squisita  bellezza  di  cui  ti  fu  largo 
Iddio.  Tu  devi  essere  ornamento  nella  Corte  della  madre  e  della 
sposa  dell'ottimo  principe  che  regge  questa  avventurata  Moldavia. 
Io  saprò  rassegnarmi  al  mio  fato. 

Radamante,  vedendo  le  lagrime  dei  due  giovanetti,  pensò  esser 
meglio  abbreviare  quegli  istanti,  e  pregò  Isaia,  stato  incaricato  di  con- 
durla alla  principessa,  di  disporre  alla  più  presto  per  la  sua  partenza;  il 
Pescalab vi  aderì;  poche  ore  dopo  entrava  nel  palazzo.  Non  ridiremo  i 
pianti  della  giovane  nel  separarsi  dal  padre  e  dal  figlio,  che  facilmente 
i  lettori  li  supporranno,  ma  solo  che,  salita  in  vettura,  si  allontanò 
rapidamente  da  Kilia.  La  residenza  delle  principesse  era  a'  piedi  dei 
monti  Carpazii  a  Neamtzo  (1),  ovvero  Piatra;  nel  cui  castello  passa- 
vano rinvemo.  Alla  bella  stagione  andavano  in  campagna  in  una  villa 
ad  un  quarto  di  lega  da  Domnesti.  Fatima  arrivò  quando  appunto 
stavano  villeggiando. 

Da  Eilia  a  Neamtzo  vi  è  lungo  tratto,  giacché  quella  sta  alle 
bocche  del  Danubio  e  Tattro  alle  sorgenti  del  fiume  Bistritza  neirin- 
temo  della  Moldavia  ;  dopo  un  viaggio,  che  a  Fatima  parve  etemo, 
benché  fosse  tutto  attraverso  a  ridenti  prati  e  costeggiando  il  fiume, 
giunse  finalmente  a  Neamtzo;  dopo  essersi  puliti  gli  abiti  sciupati 
dal  lungo  viaggio,  Isata  la  condusse  alla  villa  ove  trovavasi  la  prin- 
cipessa Elena.  Questa  raccolse  con  tanta  bontà  che  la  giovine  si 
senti  allargare  il  cuore.  Isaia,  dopo  d'aver  preso  gli  ordini  delle  no- 
bili donne,  riprese  la  via  di  Kilia  ove  affari  del  Governo  lo  richia- 
mavano. 

Fatima  non  aveva  mai  visto  delle  signore  d'illustri  natali  e  guar- 
dava con  femminile  curiosità  quell'abbigliamento,  composto  da  una 
veste  listata  di  seta  bianca  e  azzurra,  su  cui  la  sopraveste  di  stoffa 
e  colore  uguale  scendeva  sino  alla  coscia;  lunga  sciarpa  che  faceva 
più  giri,  rannodava  al  petto  una  guemizione  colla  forma  d'un  arco, 
toccando  al  basso  fino  all'osso  iliaco;  e  la  sommità  dell'arco  princi- 
piava al  cavo  del  petto;  superiormente  all'arco  girava* una  gorgiera 
tutta  ricamata  in  oro,  indi  un  colletto  di  tela  bianca  attaccato  da 

(1)  Questo  castello  dicesi  dagli  Slavi  sii  stato  edificato  dai  Cavalieri  di 
Malta  di  lingua  tedesca.  Ora  come  i  Tedeschi  son  detti  in  russo  Niameise^ 
da  ciò  il  nome  suo.  Vedi  The  frontiers  landi  of  the  Chriéttan  and  theTurk. 
Londra  1853,  T.  2,  p.  31. 


BABÀ-DOKTA.  269 

un  piccolo  spillo.  Lungo  manto  di  porpora  trapunto  da  fino  lavoro  e 
scendente  fino  a  terra  aveva  per  guarnizione  grosse  treccie  d'oro  che 
giravano  tutto  attorno;  il  davanti  poi,  fino  allametà,  ornato  di  gal- 
loni lunghi  una  spanna  e  fatti  delle  stesse  treccie  d'ora,  disposte  alla 
ussara,  e  cosi  pure  sulle  spalle,  tre  per  tre,  ^soa  un  grosso  bottone 
su?  ogni  cordone,  questo  di  pietre  preziose  ;  il  colletto  del  manto  era 
composto  d'una  spallina  di  pelliccia  poco  presso  pari  jalle  cosi  dette 
palatine  d'oggidì  :  il  manto  era  foderato  della  stessa  pelliccia;  ma  ciò 
che  maggiormente  attrasse  gli  occhi  di  Fatima,  si  fa  l'acconciatura 
del  capo;  i  capelli  trecciati  battevano  sulle  tempia  compressi  da 
una  corona  ducale,  come  raffigurata  nei  blasoni,  tutta  oro  e  gioie; 
cioè  quattro  punte  fioriformi  più  elevate  e  quattro  minori  ;  la  fascia 
dall'altezza  di  quattro  dita  tutta  lavorata  a  cassetti  in  rilievo,  con 
gemme  di  ogni  colore.  Dal  punto  delle  tempia  scendevano  fino  agli 
omeri  due  enormi  fiocchi,  composti  da  sei  catenelle  d'orp,  pendenti 
da  un  fermaglio  ed  aventi  dal  capo  mferiòre  un  bottoncino.  Vesti-* 
menta  ricchfssima  nel  suo  complesso,  di  cui  può  aversi  miglior  con- 
cetto nel  ritratto  della  Principessa  cb'è  a  Corte  di  Arges,  e  ohe  venne 
riprodotto  nella  magnifica  Rivista  Romana  di  luglio  del  corrente  1862. 
.  Più  semplicemente,  ma  a  quella  foggia,  avevano  pure  vestita  Fa- 
tima, che  non  trovava  pel  momento  cosa  di  buon  gusto>  avvezza  come 
era  allo  sciolto  e  comodo  vestire  delle  tatare  di  Crimea. 

La  dolcezza  ed  il  carattere  della  giovane,  la  sua  fede  cristiana  le 
valsero  tutta  la  benevolenza  della  principessa  Klena,  \%  quale  non 
sapeva  più  staccarsi  un  istante  dalla  sua  protetta;  ogni  giorno  veniva 
un  popa  ad  insegnarle  i  dogmi  della  religipne  oitodossa,  tutte 
queste  cure  e  cortesie  fecero  sì  che  la  giovane  si  trovava  felice,  e 
l'essere  lontana  da  Radamantino  non  era  giù  disperato  dolore,  ma 
soltanto  tranquilla  mestizia. 

Quanto  le  piaceva  ire  a  passeggiare  pel  giardino,  oppure  andare 
con  mistero  a  visitare  Baba-Dokia,  in  cui  tanto  fidava.  Radamantino 
le  aveva  raccomandato  di  trattenersi  sovente  con  essa,  ed  ella,  osser- 
vatrice del  consiglio,  ogniqualvolta  poteva  escire  dal  palazzo,  colà  si 
recava  ;  d'altronde  quei  siti  erano  cosi  pittoreschi  e  ridenti  da  non 
saziarsi  mai  di  rivederli. 

—  Mio  Dio,  su  questa  terra  non  ho  più  nulla  a  desiderare  fuorché 
la  mia  madre;  oh  se  me  l'avessi  a  lato,  sarei  la  più  felice  delle 
donne.  Queste  parole  le  sfuggirono  un  dì  ch'era  per  i  viali  del  giar- 
dino. La  Principessa  l'intese  e  le  disse  : 

—  Ingrata,  non  sono  per  te  ima  madre  affettuosa?  Fatima,  co- 
teste  tue  parole  mi  fanno  male  ;  io  t'amo  quanto  amo  il  mio  figlio, 
e  ti  do  prova  del  mio  affetto  ogni  volta  che  mi  è  dato  di  farlo  !  Io 
assunsi  di  essere  tua  madre,  e  sono  gelosa  che  tu  possa  amare  di 
più  quella  che  perdesti  in  Caffa. 


270  RIVISTA  CONTEMPORANEA 

—  Perdonami  I  o  Frìnoipessa,  io  non  intesi  offenderti  con  queste 
parole  che  dissi  a  me  stessa.  Sento  che  qui  sono  felice,  conosco  ed 
apprezzo  tutte  le  gentilezze^  la  bontà,  l'affetto  che  immeritevolmente 
tu  accordi  a  me  povera  infelice.  Procurerò  di  testimoniare  il  meglio 
che  io  sappia  la  mia  riconoscenza,  e  mattino  e  sera,  nella  basilica 
come  nella  mia  camera,  prego  Cristo  Salvatore  e  la  Vergine  Panagia 
di  rimunerarti  con  ogni  maniera  di  felicità.  Ma  non  ti  offendere  se 
fira  le  delicatezze  della  mia  vita  attuale  io  ricordo  lagrimandp  l'in- 
felice che  mi  dio  vita  e  ch'oggi  dorme  l'eterno  sonno  in  una  terra 
ch'è  in  man  degrinfedeli. 

Fatima  in  poco  fu  convenevolmente  istrutta  nella  religione  cristiana 
ed  il  vescovo  disse  ch'era  tempo  di  amministrarle  il  battesimo.  L'au- 
gusta cerimonia  fu  stabilita  e  si  compì  a  Piatra  con  grande  apparato^ 
Essendo  imposto  dal  rito  greco  che  il  battesimo  abbia  luogo  coU'im- 
mersione  in  un  fiume«  come  praticava  s.  Giovanni  nel  deserto,  Fatima 
fu  battezzata  nella  Bistritza  e  la  principessa  Elena  fu  la  santola  ;  il 
venerando  metropolitano  Teoktite  le  diede  l'acqua  egli  stesso  e  le 
pose  nome  Dominica,  come  aveva  desiderato  la  sultana  sua  madre 
prima  di  morire.  Non  ò  duopo  dire  quale  numerosa  folla  intervenne 
a  quella  cerimonia,  le  sventure  della  giovine  erano  diventate  popo- 
lari, al  che  si  aggiungeva  ohe  la  Principessa,  onde  rendere  cara  Fa- 
tima ai  suoi  vassalli,  l'aveva  elotta  a  sua  elemosiniera  ;  ogni  largi- 
zione della  Principessa  passava  per  le  mani  di  Fatima,  dal  che  ne 
venne  che  nella  città  di  Piatra  e  su  tutto  il  monte  Pione  era  dessa 
chiamata  la  Ninfo  generosa  e  soccorritrice.  À.Fatima  piaceva  salire 
su  per  gli  scabri  massi  di  quel  monte,  ne' quali  distratto  in  tratto 
erano  intagliati  grossolani  altari;  più  in  alto  saliva  la  giovine  e  più 
le  pareva  avvicinarsi  al  cpeatore,  tant'era  la  pienezza  e  la  purità  della 
sua  religione.  I  monaci  dei  conventi  della  Moldavia  predicavano 
modello  delle  giovanetto  questa  neofita.  In  ima  parola  :  quando  no- 
minavano Dominica  sedevano  aggiungervi  il  predicato  :  la  santa  ! 


VI. 

Gloria  il  precede,  e  de'  marziali  il  coro 
Genj  l'accerchia ,  e  dietro  a  lai  si  stanno 
In  aer  librate  con  perpetuo  corso 
Sorte,  Vittoria  e  Fama. 

Ugo  Foscolo,  Ode  a  Bonaparte, 

Corsero  alcuni  anni  ;  in  ognuno  di  essi,  quando  capitavano  i 
giorni  in  cui  a  Fatima  ed  a  Radamantino  era  dato  di  trovarsi  sotto 
lo  stesso  tetto,  quelli  erano  i  giorni  d'immensurabile  felicità.  Stefano 
amava  Radamantino,  sia  per  l'intelligenza  che  dimostrava,  come  pel 


BABA-DOKU  271 

coraggio  di  cm  dava  prova,  e  prevedeva  che  sarebbe  stato  utile  un 
di  la  0ua  mente  ed  il  suo  braccio  alla  terra  rumana. 

Ma  se  il  tempo  fuggiva  veloce  per  que'  giovanetti,  lentamente  si 
addensavano  le  nubi  in  politica.  Stefano  che  sempre  era  in  lotta  ora 
coi  Turchi,  ora  cogli  Ungheresi,  ed  ora  coi  Polacchi,  guardava  im- 
pavido l'avvenire  perchè  aveva  fidanza  nella  propria  strila. 

Chiari  non  andò  che  si  verificarono  le  sue  previsioni. 

I  Turchi  capitanati  da  Maometto  II  si  ragunarono  oltre  il  Da* 
nubio,  per  aggredire  la  Moldavia  subitamente  senza  lasciare  tempo 
al  Vaivoda  di  stringere  alleanze.  Inteso  di  ciò  Casimiro  lY,  re  di 
Polonia,  e  conoscendo  che  questo  progetto  sarebbe  riuscito  fatale 
alla  cristianità,  spediva  ambasciatori  al  sultano,  pregandolo  di  so- 
spendere la  sua  marcia  ;  questi  rispose  che  la  sua  armata  era  desi- 
derosa di  vendicare  il  suo  onore  militare;  ciò  non  pertanto  l'avrebbe 
ritirata  di  Bulgaria  e  ricondotta  nell'Anatolia,  se  Ste&no  si  sotto- 
mettevp  a  pagare  un  tributo,  a  rendere  i  prigionieri  Turchi  fotti  nella 
guerra  precedente,  ed  a  sgombrare  i  forti  di  Kilia  e  d'Akerman  (il 
forte  bifmco). 

Stefono  conscio  di  tutto  ciò  e  sdegnato  delle  pretese  del  gran 
Signore,  umilianti  per  lui  e  pel  suo  popolo ,  convocò  l'Assemblea  dei 
beiari  e  loro  espose  le  cose:  tutti  respinsero  unanimi  quelle  domande 
insultanti,  e  giurarono  di  morire  sul  campo  di  batta^ia  anziché  fore 
olocausto  a  Maometto  della  libertà  d'una  nazione  che  erasi  difésa 
sempre  con  tanto  onore. 

L'esercito  Moldavo  mosse  quindi  verso  il  Danubio,  su  cui  i  Tur- 
chi avevano  di  già  gittate  cinque  ponti  di  barche  per  tragittarlo. 

Fatima  colla  principessa  Blena  si  recarono  a  visitare  il  principe 
innanzi  che  partisse  co' suoi  soldati:  tristo  fu  l'addio.  Badamante 
era  dei  primi  del  corteggio  militare  di  Stefiino,  e  suo  figlio  gli  era 
scudiere 

Quando  furono  per  salire  in  arcioni  onde  porsi  a  capo  d^'armata, 
Fatima  prese  per  le  mani  Badamantino  e  gli  disse: 

—  Giurami  di  non  mai  abbandonare  ciò  che  sto  per  rimetterti. 
Tu  lo  porterai  ognora  su  di  te;  gli  ò  un  talismano  che  ti  salverà 
da  ogni  pericolo:  ciò  dicendo  trasse  di  tasca  una  borsa  di  perga- 
mena bianca  ;  egli  la  guardò  e  giurò.  -^  Allora  essa  lo  fece  ingi- 
nocchiare dinanzi  a  sé,  e  passatogli  al  collo  il  cordone  serico  che 
riteneva  la  borsa,  gli  disse:  — ^  in  questa  semplice  borsa  bianca 
vi  sono  tre  cose,  le  più  sante  che  io  possegga;  tu  le  porterai 
sempre  appese  al  collo  come  ora  io  te  le  ho  messe:  la  bianca 
borsa  ti  ricordi  il  candore  della  nostra  dolce  amistà;  ciò  che  vi 
sta  dentro,  ti  risowenga  il  nostro  passato,  quando  tornerai  me  ne 
farai  restituzione;  l'uno  é  un  lembo  della  veste  che  lamia  madre, 


272  RIVISTA   OONTBMPOEANEA 

di  benedetta  memoria,  portava  il  di  che  morì  ;  l'altro  è  una  pianti- 
cella di  muschio  che  staccai  nella  misteriosa  grotta  ove  quella  ìg^nota 
martire  della  fede  cristiana  orava  il  nostro  Dio  Salvatore  :  ciò  ti  sia 
di  spinta  a  pugnare  contro  il  miscredente  mussulmano  ;  l'ultimo  è 
un  pezzo  di  roccia  che  mi  diede  Baba-Dokia,  e  non  occorre  che  io 
te  ne  dica  di  più.  Iddio  ti  protegga  come  già  ne  protesse  in  quella 
memoranda  notte  ove  ci  trovammo  riuniti. 

Radamantino  le  strinse  la  mano  e  con  venerazione  la  portò  alle 
sue  labbra;  non  osava  alzare  gli  occhi  sino  a  lei,  si  sentiva  contur- 
bato ed  aveva  tema  di  lasciare  scorgere  che  le  lagrime  gli  inumi- 
divano le  ciglia  :  la  giovinetta  se  n'accorse  e  trovò  bene  dì  allonta- 
narsi d'alcuni  passi  onde  parlare  al  principe  ed  a  Radamante;  ma 
la  tromba  diede  il  segnale  della  partenza;  i  cavalieri  balzarono  in 
sella ,  diedero  degli  speroni  e  partirono.  Già  erano  discosti ,  e  le 
donne  rimaste  sul  luogo  agitavano  ancora  1  fazzoletti  bianchi  spe- 
rando fossero  visti,  ma  la  polvere  sollevata  dai  cavalli  e  dai  fanti 
s'interponeva  agli  sguardi. 

Fatima,  rientrata  nel  palazzo,  si  lasciò  cadere  sui  tappeti  sin- 
ghiozzante e  quasi  convulsa.  Lo  sforzo  violento  che  aveva  fatto  per 
essere  in  apparenza  calma  l'aveva  affranta  ;  le  sue  donne  fecero  ogni 
possibile  per  confortarla  ;  ma  esse  pure  avevano  chi  il  padre,  chi  11 
figlio,  chi  il  flratello  o  l'amante  all'armata.  Trascorsero  alcune  ore  ; 
Fatima  rinvenne,  e  chiesta  la  protezione  di  Dio,  si  sentì  bastevol- 
mente  forte  per  rassegnarsi  a  quella  crudele  separazione. 

L'indomani  la  principessa  Elena  colle  sue  donne  si  ritiravano  nel 
castello  di  Niamtzo  ch'era  una  formidabile  fortezza,  come  abbiam 
detto  ;  colà  non  temevano  di  essere  assalite.  Il  forte  era  grande  così 
da  poter  contenere  numerosa  schiera  di  armati  ;  i>erò  in  quei  dì  non 
eranvi  che  donne  e  vecchi,  giacché  tutti  gli  atti  a  portare  le  armi 
erano  partiti  col  loro  sovrano. 

Stefano  giunse  sulle  sponde  del  Danubio  quando  l'esercito  turco 
stava  per  tentarne  il  passaggio.  Ogni  orda  che  giungeva  a  porre 
piede  sulla  terra  moldava,  era  a  prezzo  di  numerosi  morti  e  feriti  ; 
che  i  Moldavi  loro  contrastavano  arditamente  il  passo.  Avrebbe  in 
poco  fugati  i  Mussulmani  ove  non  fosse  stato  il  tradimento  di  Ylad 
principe  di  Yalachia  e  suocero  di  Stefano,  anzi  venuto  al  trono 
merco  sua,  il  quale,  per  ambizione  di  estendere  i  suoi  dominii,  si 
era  alleato  col  gran  sultano.  Stefano  si  trovò  importante  avere  a 
combattere  due  forti  armate,  tra  entrambe  di  300,000  uomini,  ed  egli 
non  noverava  fuorché  47,000  combattenti.  Questa  immensa  disparità 
di  forze  che  avrebbe  fatto  fuggire  senza  trar  colpo  ogni  altro  capi- 
tano, non  solo  non  intimori  Stefano,  anzi  gì' ingenerò  nel  petto  mag- 
giore audacia  e  temerità. 


BÀBÀ-DOKIA  273 

I  corpi  dell'esercito  moldavo,  ch'erano  etati  collooati  a  difesa  dei 
passi  dei  monti  Carpazii  si  videro  perduti  per  avere  il  traditore 
Ylad  di  Yalachia  guadato  il  Danubio  sur  un  altro  punto  e  tagliate 
le  comunicazioni  tra  essi  ed  il  corpo  principale  eomandato  dal  vai- 
voda.  Questi,  visto  non  esservi  altro  scampo,  si  ritrasse  verso  la 
sponda  destra  della  Moldava,  incendiando  tutti  i  paesi  ch'era  costretto 
di  abbandonare  per  togliere  cosi  ai  nemici  vettovaglie  e  riparo. 

Maometto  erasi  già  avanzato  sino  a  fiomanu  e  lungava  il  Se- 
reth^  opperò  le  truppe  nemiche  fiancheggiavano  quelle  di  Stefano; 
bisognava  o  fuggire  alla  dirotta  o  pugnare  disperatamente.  Il  paese 
è  ivi  tutto  piano,  ed  è  la  parte  più  fertile  della  Moldavia.  Ne'  tempi 
di  cui  discorro  erano  i  campi  e  le  rive  smaltati  di  fiori  silvestri  che 
ti  rapivano.  In  mezzo  a  quella  pianura  ove  Stefano  elesse  combattere 
una  lotta  esiziale,  fece  erigere  una  gran  cr<Mie  in  legno,  acciò  fosse 
simbob  della  causa  per  cui  si  combatteva  ;  quella  croce  era  gigan- 
tesca cosi  da  dominare  tutta  l'estesa  pianura. 

I  spahi  ed  i  seckli,  cioè  la  cavalleria  scelta  e  quella  dei  presidi!, 
cominciarono  a  correre  in  ordinati  squadroni,  calpestando  quelle  pra- 
terie e  spaventando  i  buffali  ed  i  buoi  che  fuggivano  verso  la  mon- 
tagna sorpresi  da  quell'improvviso  correre,  dalle  grida  e  dal  suono 
delle  trombe.  I  cavalieri  Moldavi  ch'erano  a  guardia. dei  valichi, 
vistisi  soverchiati  dal  numero  degU  aggressori,  si  posero  in  salvo  con 
precipitosa  fuga.  I  miseri  abitanti  delle  celibe  o  capanne  rurali,  ve- 
dendo sorgiungere  i  Turchi,  abbandonarono  le  loro  povere  dimore 
per  rifuggirsi  in  Niamtao. 

n  mattino  della  domenica  il  grosso  dell'armata  mussulmana  irò* 
vavasi  schierato  contro  il  piccolo  esercito  moldavo.  Ahi  giorno  ne- 
fasto !  Stefano  capitanava  i  suoi  bravi  aiducdbi ,  che  come  leoni  si 
cacciarono  nelle  fila  ottomane,  facendo  ampie  stragi.  Ma  Timmensa 
soldatesca  turca,  posta  in  seconda  fila,  concedeva  di  riparare  tosta- 
mente alle  perdite,  anzi  le  fece  prendere  l'offensiva.  Costretti  dal- 
l'onda crescente  dei  Musulmani,  gli  aiducchi  indietreggiano  e  si 
accalcano  attorno  alla  croce,  continuando  a  combattere  eroicamente  e 
morendo  con  coraggio  a  prò  della  patria. 

Stefano,  visti  cadere  i  suoi  fidi ,  non  pone  tempo  in  mezzo ,  si 
slancia  neUe  schiere  ottomane,  ed  animando  i  suoi  colla  voce  e  col- 
l'esempio,  pervenne  a  trattenere  il  nemico  dall'innoltrarsi  maggior- 
mente nel  paese. 

Nel  secolo  xv  gli  eserciti  moldavi  non  avevano  l'ordinamento  at- 
tuale: erano  composti  di  compagnie  di  cavalli  e  di  fanti,  armati 
come  Livio,  il  gran  storico  di  Roma,  ci  dipinge  i  Numidi,  o  come 
narra  Cesare  lo  fossero  i  soldati  di  Ambiorige.  I  boiari,  vassalli  al 
vaivoda,  scendevano  in  campo  ognuno  di  essi  traendo  seco  buon 

Rivista  C.  —  18 


274  niVlSTA  CONTBMPOBANEA 

numero  di  combattenti  armati  di  lande,  picche,  massze,  ascio,  gia- 
velline  o  freccie;  I  boiari  avevano  chi  tre  chi  quattro  cavalli  ca- 
duno ,  acciocché  stanco  l'uno ,  potessero  salire  sur  un  altro  per 
continuare  a  combattere;  i  semplici  combattenti  a  cavallo  avevano 
selle  ma  senza  arcioni,  la  sciabola  e  l'arco  ovvero  la  lancia  come  i 
Polacchi.  I  Moldavi  non  avevano  la  disciplina  militare  odierna,  non 
l'avevano  nemmeno  i  Turchi  ;  ma  compensava  questo  difetto  il  fa- 
natismo religioso  d'ambe  le  parti. 

Badamante  ed  il  suo  figlio  non  s'erano  mai  scostati  dai  fianchi 
del  principe,  ed  avevano  come  lui  pugnato  da  eroi;  essi  avevano 
giurato  di  fare  sacrifizio  della  loro  vita  a  prò  di  lui  che  gli  aveva 
accolti,  amati  e  favoriti. 

Il  sopragiungere  di  una  notte  tenebrosissima  sospese  necessa- 
riamente la  pugna  ;  ma  essa  durante,  Stefano  e  suo  figlio  Alessandro 
accompagnati  dai  due  Badamante,  travestiti  da  semplici  arcieri,  vi- 
sitarono il  campo,  sia  per  raccogliere  i  Moldavi  feriti,  sia  per  ispiare 
le  posizioni  ;  ciò  conseguito,  si  ritirarono  nelle  tende. 

In  questo  mentre  nel  castello  di  Niamtzo  le  donne  attendevano 
con  febbrile  impazienza  di  conoscere  l'esito  di  quella  tremenda  gior- 
nata, e  salivano  suile  torri  per  {scorgere  più  lungi  l'atteso  arrivo  di 
qualche  messo;  la  sera  si  ritiravano  ed  inginocchiate  davanti  ad 
\m  crocefisso ,  salmodiavano  unite  dame  e  serve  ;  era  edificante  il 
vedere  prostrata  tutta  una  popolazione  chiedente  al  Dio  degli  eserciti 
cristiani  la  salvezza  del  paese  e  dei  loro  parenti. 

Era  il  lunedì  26  luglio  1476  ;  un  triste  presentimento  pesava  sul 
cuore  della  madre  del  vaivoda  e  della  sua  nuora,  la  principessa  Yo- 
quitza,  figlia  di  Ylad  il  traditore;  tutto  il  di  stettero  ora  pregando, 
ora  salendo  sugli  spaldi  delle  fortificazioni,  spinte  colà  per  ispiare 
come  piegassero  gli  eventi. 

Nulla  fu  loro  dato  scorgere  ;  il  perchè  passarono  una  notte  nel- 
l'ansia la  più  crudele  ;  l'alba  si  alzò  tingendo  di  liste  sanguigne  le 
nubi  all'oriente,  pronube  di  grandi  sventure.  La  coraggiosa  princi- 
pessa Elena  era  sempre  in  vedetta  sulle  torri  ;  verso  sera  vede  giun- 
gere migliaia  cavalieri  al  galoppo  seguiti  da  fanti  ;  ma  la  polvere 
della  strada  che  sollevavano,  non  lasciava  conoscere  chi  fossero  dessi. 
Ahimè  I  erano  i  Moldavi,  che  respinti  e  fuggenti  venivano  a  ripararsi 
dietro  le  forti  mura  di  Niamtzo. 

Elena  si  affacciò  alle  feritoie  sovrastanti  alla  porta  della  fortezza 

e  (1)  —  Non  aprite,  gridò,  che  non  è  mio  figlio Essa  però  aveva 

riconosciuto  Stefano  che  giungeva,  per  la  prima  volta  in  vita  sua, 

(1)  Ubicini.  UUnivert  ou  HUtoire  et  description  de  tout  ìetpeuplet»  Paris, 
T.  2,  pag,  43. 


BABA-DOKTA  275 

sconfitto  ed  umiliato.  Udendo  la  voce  di  sua  madre  rispose:  Madre! 
non  riconosci  il  tuo  figlio?  Al  che  la  forte  donna  replicò  (1):  Ah  tu 
ti  sei  scordato  ch'io  sono  la  tua  madre!  Ricalca  le  tue  orme;  fa  che 
ti  rivegga  vittorioso  o  mai  più.  Meglio  morire  che  dovere  la  sua 
salvezza  ad  una  donna!  Queste  magnanime  parole  che  non  hanno 
altro  riscontro  che  in  quelle  di  Vetturia  a  Coriolano,  furono  udite 
daihoiari  e  dai  soldati  ch'erano  giunti  *con  Stefano.»  Furono  scintilla 
che  rianimò  il  loro  coraggio.  Stefano  giurò  df  ritornare  alla  pugna 
e  di  morirvi  anziché  indietreggiare  di  un  passo,  ed  i  suoi  hrandendo 
in  alto  le  armi  replicarono  :  Lo  giuriamo  con  te  ! 

La  principessa  Voquitza,  questa  avvenentissima  donna,  ch'era 
pur  essa  salita  sul  terrazzo  che  copriva  la  porta  del  forte,  animata 
da  fuoco  patriotico,  incuorava  i  soldati  a  ricominciare  la  battaglia. 
Pareva  su  quegli  spaldi  una  dea  ;  i  lunghi,  fini  e  biondi  capelli  gli 
cadevano  mollemente  abbandonati  sugli  omeri  bianchissimi  e  mezzo 
scoperti,  facevano  mille  aggraziate  anella  attorno  all'eburneo  collo. 
Fatima  alla  sua  volta  rimproverò  acerbamente  Radamante  dello  aver 
seguito  il  vaivoda  anziché  perire  da  forte  sul  campo  della  gloria. 

I  fuggitivi  Moldavi  tornarono  incontro  il  nemico  per  vie  traverse. 
Sorpresero  di  fianco  Taccampamento  ottomano.  I  Turchi  sdraiati 
stavano  festeggiando  la  riportata  vittoria  nel  di  precedente.  Stefano 
irruppe  fra  le  tende  come  un  fulmine  di  guerra ,  coi  dodicimila 
uomini,  che  solo  gli  restavano.  —  Il  grido  era:  Viva  Traiano!  in 
ricordo  del  fondatore  delle  colonie  romane  in  Dacia.  I  Musulmani 
suonarono  ben  tosto  a  raccolta.  Una  pugna  acerrima  ne  segui. 
Trentaniila  rumani  di  Moldavia  furono  morti,  ma  la  vittoria  rimase 
a  loro,  perchè  gli  Ottomani  vi  lasciarono  centomila  uomini,  e  furono 
vergognosamente  costretti  a  fuggire. 

Quella  giornata,  cosi  splendida  per  la  Moldavia,  era  costata  cara 
assai.  Radamante  capitanava  1  giovani  Genovesi,  ed  erano  rimasti 
sempre  a  lato  di  Stefano  facendo  predigli  di  valore,  ma  nella  lotta  il 
vaivoda  fu  dal  suo  destriero,  ribelle  al  freno,  trascinato  in  mezzo  ai 
Turchi,  che  subito  lanciarono  freccie,  e  ferirono  mortalmente  il  ca- 
vallo. Radamante  vistolo  cadere,  scende  dagli  arcioni  e  dà  al  principe 
il  suo  buon  destriero,  ma  in  quello  una  freccia  evidentemente  desti- 
nata a  Stefano,  lo  colpisce  in  un  occhio  e  penetra  nel  cervello.  Ra- 
damente spira  dicendo  :  —  Baba-Dokia  !  confido  a  te  i  miei  figli.  — 
6aba-Do e  non  potè  proseguirei 

Inutile  il  ridire  come  la  perdita  di  cosi  provato  amico  e  di  cosi 

(1)  J.  A.  Vaillant.  La  Rumarne.  Paris  1844,  T.  1 ,  p.  256.  —Vi  è  nel 
libro  intitolato  :  Canti  e  lagrime  di  D,  Bolintineanu  (in  rumano).  lassi  1852, 
una  bellissima  ballata  su  questo  episodio,  intitolata:  Stefano  il  grande  e 
sua  madre. 


276  RIVISTA  CONTEMPORÀNEA 

strenuo  scudiero  fosse  riuscita  acerba  al  vaivoda.  Non  però  ristette; 
che  la  salute  della  patria  era  il  suo  supremo  amore.  Badamantino 
fu  da  quella  irreparanda  sventura  cangiato  in  tigre.  Roteando  Tazza 
si  cacciò  tra  una  falange  turca  ed  immolò  un  ecatombe  di  spahì  per 
vendicare  il  suo  padre.  I  Genovesi  non  furono  a  lui  secondi  e  tanto 
fecero,  che  poco  mancò  non  s'impadronissero  dello  stesso  visir  co- 
mandante dell'esercito  ottomano. 

La  valle  ove  successe  questa  memorabile  battaglia  si  chiama 
tutt'ora  la  Valle  Alba,  cioè  bianca,  per  la  infinità  di  cadaveri,  che 
rimasti  spolpati,  ricopersero  colle  loro  ossa  biancheggianti  quel  piano. 
Durarono  più  anni  insepolti  ;  la  putrefazione  de'  cadaveri  ammorbò 
l'aria,  e  la  Valle  Alba  divenne,  da  saluberrima  ch'era,  pestifera,  per 
cui  rimase  deserta.  Oggidì  ancora,  che  tornò  ad  essere  sana,  spin- 
gendo l'aratro  a  rompere  le  zolle ,  si  riconducono  alla  luce  molte 
ossa  dei  caduti  in  quel  memorando  giorno. 


VII. 


Chiusa  fiamma  è  più  ardente  ;  e  se  pur  cresce, 
In  alcun  modo  più  non  può  celarsi. 

Petrarca,  Canzone  XVI. 

Lasciamo  che  Stefano  il  Grande  attenda  nella  pace  a  rimarginare 
le  molte  piaghe  cagionate  dalla  guerra  ai  suoi  Moldavi  e  ricondu- 
ciamoci in  Crimea. 

Il  Chan  Mengelì-Gherai  era  uomo  di  sentimenti  superiori  ;  ben- 
chò  tataro  non  era  come  i  Tatari  barbaro  e  rozzo.  Ristabilito  sul  trono 
da  Maometto  II,  in  condizione  di  vassallo  del  gran  sultano,  non 
erasi  mai  dimenticato  la  sua  sultana  favorita,  di  cui  conservava  la 
più  soave  rimembranza,  per  modochè  ricordava  ad  ogni  istante  la  di 
lei  fanciulla ,  Fatima ,  il  sospiro  del  suo  cuore ,  ed  avrebbe  dato  il 
trono  per  ritrovarla.  Essendo  certo  che  crescendo  in  età  sarebbe 
cresciuta  in  bellezza,  iva  fantasticando  in  quale  mano  sarebbe  ca- 
duta ;  povero  padre  I  era  pure  da  compiangere  ! 

Egli  si  era  promesso  di  serbar  sempre  presso  a  so  Fatima,  di 
rivivere  nei  nipoti  che  dessa  gli  avrebbe  dati.  Aveva  potuto  cono- 
scere, quando  l'aveva  bambina  nell'harem ,  il  carattere  amoroso  ed 
arrendevole  di  lei.  Oh  quante  volte  la  chiamava  sospirando  pei  viali 
del  giardino  o  per  le  sale  del  suo  palagio,  ma  non  riceveva  risposta. 
Invano  le  sue  molte  donne  cercavano  svagarlo,  Mengeli-Gherai  era 
sempre  nella  più  profonda  malinconia. 


BABA-DOKIA  277 

Fatima  vedeva  ogni  giorno  Eadamantino,  poiché  era  scudiere  di 
Ste&no;  da  alcun  tempo  la  Moldavia  godeva  pace,  opperò  dessi,  tro- 
vandosi abitare  lo  stesso  palagio,  potevano  vedersi  di  spesso.  Questa 
loro  vicinanza  accese  in  essi  un  vivissimo  amore,  che  iva  ingigan- 
tendo ogni  giorno  ;  però  sì  tacquero  a  vicenda  questo  loro  affetto. 

Un  mattino  in  cui  Fatima  erasi,  secondo  il  suo  costume,  recata  a 
pregare^'in  un  tempietto  che  sorgeva  in  fondo  del  giardino,  tratta 
dal  tepore  che  regnava,  dal  profluvio  di  odori  ch'emanavano  da  mille 
varii  fiori,  e  dal  canto  degli  augelli  ch'ivano  saltellando  di  fronda 
in  fronda,  si  pose  a  sedere  a  mezza  via,  e  quasi  assorta  dall'incante- 
simo di  quel  sito,  se  ne  stava  cogli  occhi  fissi  nel  zBif&ro  del  cielo. 

Badamantino,  che  era  pur  esso  nel  giardino  a  godere  l'aria  tepida 
di  un  cosi  bel  giorno,  continuando  il  suo  passeggio,  vide  di  lontano 
Fatima,  immobile  e  pensierosa.  Piano  piano  le  si  accosta,  e  quando 
ne  fu  distante  solo  tre  passi,  si  fermò,  non  diremo  a  contemplarla, 
ma  a  venerarla.  In  quello  una  nidiata  di  uccelletti  ch'era  fra  i  rami 
di  un  cespo  di  mirteti  presso  cui  stava  Fatima,  sciolse  improvviso 
il  volo.  A  quel  rumore  dessa  fu  scossa,  china  gli  occhi,  e  vede  a 
poca  distanza  di  sé  Radamantino  con  un  ginocchio  a  terra,  i  gomiti 
poggiati  sull'altro,  e  tenendosi  coUe  palme  il  volto.  A  quella  vista 
le  sue  guancie  divennero  come  bragia  rosse,  volle  profferir  parola, 
ma  non  seppe.  Radamantino  meno  timido,  si  alzò,  e  postosi  a  sederle 
a  fianco,  prese  le  sue  mani  fra  le  sue,  cosi  disse  : 

—  0  Fatima,  io  benedico  di  essere  sceso  a  respirar  quest'aria 
così  serena  e  balsamica,  ed  in  mezzo  a  questi  fiori,  perchè  mi  par 
luogo  eletto  onde  svelarti  l'animo  mio.  Sappi  che  io  t'amo  d'im- 
menso amore.  Lo  tacqui  sin  ora,  ma  non  posso  più  frenare  il  mio 
labbro.  Non  ti  ricorderò  come  fummo  uniti  da  fanciulli ,  le  nostre 
comuni  vicende  vuoi  tristi  vuoi  felici,  e  l'amicizia  che  legò  tua  madre 
al  mio  padre.  —  No.  Io  ti  chiedo  di  dirmi  soltanto  se  m'ami,  o  s'io 
devo  morire. 

—  Eadamantino quale  discorso tu  lo  sai,  ogni  volta  che 

ci  troviamo  soli  assieme,  provo  un  inesprimibile  imbarazzo  ;  sii  cor- 
tese di  lasciarmi,  giacché  il  tempo  fugge,  ed  io  devo  recarmi  a  fare 
l'ordinaria  preghiera  del  mattino. 

—  Cosi  mi  parli?  crudele!  Il  tuo  labbro  mentisce,  perché  nelle 
occhiate  che  ci  siamo  avvezzi  a  ricambiarci,  io  lessi  parole  d'amore, 
promessa  e  giuramento  di  amarmi. 

—  Ebbene  ti  risponderò  che  le  hai  interpretate  quali  erano.  Ar- 
rossisco al  confessarlo,  perché  io  credeva  che  il  mio  segreto  non  si 
fosse  a  te  palesato.  Ma  ora  che  l'hai  scoverto,,  ora  che  senti  dal 
mio  labbro  a  dirti:  io  t'amo,  devo  farti  riflettere  che  la  reciproca 
nostra  condizione  non  é  assicurata.  Noi  qui  siamo  accolti  e  trat« 


278  RIVISTA  C0NTBMP01.ANEA 

tati  con  ogni  maniera  di  riguardi.  Il  tuo  padre  facendo  olocausto 
della  sua  vita  al  grande  Stefano,  ti  ha  dato  certamente  diritti  alla 
sua  gratitudine.  Ma  in  uno  Stato  ch'è,  può  dirsi,  in  continua  guerra, 
possiamo  noi  calcolare  che  la  nostra  attuale  posizione  sii  per  essere 
durevole?  Se  un  altro  rovescio  come  quello  di  Valle  Alba  incogliesse 
il  Vaivoda,  e  che  più  non  potesse  avere  la  rivincita,  di'  un  po',  che 
sarebbe  di  noi? 

—  Oh  Fatima,  se  nelle  risoluzioni  si  avesse  sempre  a  pensare 
alla  dimane,  non  mai  si  prenderebbero.  È  un  sotterfugio  per  dilazio- 
nare la  nostra  unione.  Consenti  che  io  domandi  la  tua  mano  al  Vai- 
voda, giacché  l'amor  mio  è  cosi  intenso,  che  mi  bisogna  o  coronarlo 
o  morire. 

—  Sempre  fai  di  queste  brutte  minaccio.  No,  Badamantino,  non 
è  ancora  tempo  a  ciò.  L'ottima  principessa  Elena  non  vorrebbe  sepa- 
rarsi da  me  in  questi  tempi  di  pace  incerta  e  sospetta,  ed  io  sarei  ingra- 
tissima  se  la  lasciassi.  Aspetta  che  la  Moldavia  tomi  tranquilla,  ed 
allora  ti  darò  mano  di  sposa,  per  non  mai  più  dividermi  da  te  ;  ti 
seguirò  nelle  battaglie  come  nelle  peregrinazioni,  sarò  con  te  nella 
città,  come  bisognando  nelle  capanne;  ma  ora  abbandonare  la  Prin- 
cipessa, che  tanto  fece  per  me,  mi  sarebbe  impossibile  cosa. 

La  giovine  donna  mandò  fuori  queste  parole  a  stento,  che  senti- 
vasi  fascinata  dallo  sguardo  di  Radamantino,  il  quale  strettele  le 
mani  nelle  sue  e  guardandola  con  occhi  di  fuoco,  pareva  volesse 
costringerla  a  dirle  di  subito  quel  si  che  implorava. 

—  Badamantino,  abbassa  gli  occhi,  che  que'  tuoi  sguardi  m'in- 
cendiano  lasciami,  per  quell'amore  che  ti  ho  palesato,  Badaman-  ' 

tino  lasciami. 

—  No  ;  non  partirai  prima  di  aver  deciso  della  mia  vita  ! 

—  Ascolta  :  risolutamente  ti  dico  che  adesso  non  ti  do  risposta  ; 
domani  toma  in  questo  giardino  ;  là  alle  soglie  del  tempio  ti  dirò 
ciò  che  ho  deciso. 

—  Bipetimi  che  m'ami  ;  quelle  parole  mi  daranno  forza  ad 
aspettare. 

Ed  allacciando  la  giovine  per  la  vita,  se  la  strinse  al  petto,  le 
impresse  un  vivo  ma  puro  bacio  sulla  candida  fronte,  e  parti. 

Dessa  tornò  a  sedere  agitatissima ,  poi ,  rimessa  dall'orgasmo 
.  provato,  si  recò  nel  tempio,  ma  in  tutte  le  immagini  che  pendevano 
dalle  pareti  raffigurava  Badamantino.  Chiese  quindi  supplice  ft  Dio 
ed  alla  sua  Madre  d'inspirarle  la  risposta  che  dare  gli  doveva. 

Il  mattino  susseguente  era  bello  e  sereno.  Fatima  s'avviò  pian 
pianino  per  que'  viali  :  bramando  quasi  di  tardare  ad  essere  al  co- 
spetto del  suo  amante;  temente  e  pensierosa,  proseguiva  il  pas- 
seggio, allorché  trovossi  ad  un  tratto  faccia  a  faccia  di  un  uomo 


BABA-DOKU  279 

che  all'aspotto  dimesso  reputò  un  mendicante  ;  la  giovine  gli  porse 
alcune  monete,  ma  questi  prendendola  dolcemente  per  mano,  si  pose 
a  dirle  in  lingua  tatara,  e  con  accento  flebile  ed  affettuoso. 

€  Figlia  d'Oriente  !  (1)  tu  nata  là  dove  sorge  la  luce  e  la  vera 
«  fède  ;  tu  nata  nel  paradiso  terrestre,  nelle  sale  principesche  della 
€  corte  di  Bakchi-Serai  !  La  tempesta  del  mar  Nero  ti  trasse  a 
«  queste  sponde  tutte  zeppe  del  sangue  musulmano  I  Vedi  le  tue 
€  sorelle  di  Crimea  fra  le  perle  ed  i  profumi  voluttuosF  deir Arabia, 
e  sono  alTapice  della  felicità,  non  provano  altro  dolore  se  non  quello 
e  di  saper  la  loro  cara  Fatima  schiava  di  giaurri  in  terra  straniera! 
e  Obbedienti  al  Profeta ,  molti  di  noi  ci  diemmo  a  percorrere  le 
€  terre  dall'Oriente  all'Occidente,  non  curando  alcun  pericolo  per  ri- 
€  trovare  le  tortorelle  smarrite.  Dopo  tante  indagini,  ti  ho  trovato. 
€  Allah  è  grande  !  Allah  vuole  il  tuo  ritomo  1  Fatima,  io  sono  il  più 
€  felice  di  tutti  i  mortali  !  ti  ricondurrò  nella  tua  patria  !  vieni,  se- 
€  guimi.  Maometto  fuggi  pur  esso  dalla  Mecca,  ma  la  sua  fuga 
€  assicurò  il  trionfo  dell'Islamismo.  Un  santo  ardore  ti  dia  le  ali  ai 
«  piedi!  Vieni! 

Fatima  credette  costui  fosse  un  mentecatto,  ma  quello  continuava 
pur  sempre  a  dire  :  il  Profeta  me  lo  impose;  e  traeva  la  giovine  con 
tutta  foraa  verso  di  lui  ;  allora  sbigottita  Fatima,  prese  a  fare  conti- 
nuamente segni  della  croce,  credendo  fosse  un  demonio  venuto  a  ten- 
tarla, ma,  nò  i  segni  di  croce,  né  le  preghiere  valsero  a  respingere 
quell'uomo. 

n  Tataro^,  scorgendo  non  essere  facil  cosa  indurre  colle  parole 
quella  creatura  a  seguirlo,  pensò  adoperare  la  violenza.  Fatima  fatta 
ardimentosa  dal  pericolo ,  e  sebbene  si  trovasse  là  sola ,  e  dove  le 
grida  non  giungevano  ad  essere  intese  nel  palagio,  ributtò  con  forte 
colpo  nel  petto  il  Tartaro  dalla  pelle  giallognola  e  dagli  occhi  obliqui, 
e  gli  disse: 

—  Scellerato  Nogaio!  mi  accorgo  che  tu  sei  un  Nalba  escito 
ddl' inferno  per  tentare  la  mia  fede.  Io  sono  figlia  d'una  martire 
cristiana  che  mi  educò  nella  fede  di  Cristo,  del  vero  Dio.  Egli  è  mio 
scudo,  mia  salute,  e  nel  suo  santo  ed  adorato  nome  t'impongo  d'al- 
lontanarti !  Toma  ai  tuoi  idoli  bugiardi  ed  alle  steppe  del  Volga,  in- 
nanzi che  taluno  qui  venga  a  farti  prigione. 

n  Tataro  a  queste  parole  sali  in  sulle  furie  barbariche.  Era  un 
iman,  ed  è  noto  quanto  questi  religiosi  musulmani  siano  fanatici 
di  ricuperare  i  giovani  islamiti,  caduti  m  potere  dei  cristiani.  Era 
giunto  a  scoprire  ove  eransi  rifugiati  i  giovani  Genovesi,  per  via 
di  alcuni  Turchi,  ch'erano  stati  con  quelli  condotti  in  làoldavia,  o 

(1)  G.  Asaky.  Nouf)eUe$  historiques  de  la  Uoldo-Roumanie.  Jassy  1859* 


280  RIVISTA  CX)NTBMPORANEA 

commessi  la  chiamano,  Bogdaula,  ed  aveya  pare  saputo  ivi  trovarsi 
Fatima;  si  diede  quindi  a  trovar  modo  di  parlarle '  da  sola,  e  di  ra- 
pirla, sperando  di  riceverne  gran  ricompensa  da  Mengeli-Gherai. 
L' iman  aveva  combattute  le  ultime  battaglie ,  e  quella  stessa  di 
Vair  Alba  ;  conosceva  palmo  a  palmo  le  città,  rumane,  ed  erasi  intro- 
dotto nel  giardino  aspettando  il  destro  per  sorprendere  Fatima,  in- 
durla colle  impromesse  di  felicità  e  di  onori  a  seguirlo ,  e  non  ade- 
rendo, involarla. 

Appunto  avendo  visto  tornar  vane  le  parole,  T afferrò  per  un 
braccio,  e  coU'altro  trasse  un  yatagan  di  sotto  le  vesti,  e  glielo 
infisse  nel  seno. 

Ahi!.....  mi  muoio! 

Badamantino  che  era  stanco  del  lungo  aspettare  alla  sogHa  del 
tempio,  cominciava  impazientarsi  ed  a  dubitare  fosset  preso  a  dileggio 
il  suo  amore  :  s^avviò  importante  verso  il  palazzo,  quando  gli  parve 
udire  la  voce  di  Fatima;  si  slancia,  divora  lo  spazio  che  ne  lo  sepa- 
rava, e  giunse  in  tempo  per  vedere  l'Iman  pugnalare  La  giovinetta 

e  cadere 

come  corpo  morto  cade. 

Slanciarsi  sul  Tataro ,  trapassarlo  colla  spada  fu  istantaneo  ;  poi 
si  pose  non  a  gridare,  si  ad  urlare,  attalchè  mosse  a  scompiglio  le 
guardie  della  corte  del  Vaivoda. 

Intanto  egli  sollevò  Fatima  ch'era  caduta  in  terra,  immersa  nel 
proprio  sangue  ed  in  quello  del  Tataro  da  lui  svenato.  Fattosi  col- 
Taiuto  di  servi  a  trasportarla  negli  appartamenti  della  principessa, 
là  venne  spogliata  perchè  respirava  ancora  :  figuratevi  il  dolore  del 
giovine,  nel  vederle  fitto  nelle  carni  il  pugnale;  ma  oh  prodigio I 
la  lama  aveva  scivolato  tra  le  vesti  ed  un  reliquiario  od  amuleto 
che  aveva  appeso  al  collo,  e  cosi  non  era  entrato  che  di  sghembo 
nelle  carni.  Quando  messa  a  letto,  Badamantino  entrò  in  camera,  ed 
avendo  udito  come  la  ferita  era  leggiera,  perchè  il  pugnale  aveva 
urtato  contro  un  corpo  duro  che  la  giovine  aveva  dentro  un  sac- 
chettìno,  e  nascosto  sotto  le  vesti ,  cadde  in  ginocchio,  e  Baba-Do- 
kia,  sclamò ,  quanto  ti  devo  I  —  Voltosi  poscia  alla  principessa  che 
era  accorsa  presso  alla  sua  amica,  le  disse  :  —  Ti  ricordi  quando  noi 
due,  prima  di  partire  per  la  battaglia  in  cui  peri  il  mio  povero  padre, 
fummo  a  visitare  Baba-Dokia,  e  stettimo  tanto  tempo  colà,  e  come 
ella  ci  diede  un  pezzetto  del  macigno  1  noi  lo  conservammo  gelosa- 
mente, lo  spezzammo  in  tre  parti,  uno  l'ebbe  mio  padre,  poveretto  I 
al  quale  non  giovò,  l'altro  Fatima,  io  il  terzo.  Ebbene  ora  fu  salva 
da  Baba-Dokia.  Oh  appena  Fatima  sarà  guarita,  io  ascenderò  la 
vetta  del  monte,  e  là  a  ginocchio  ti  renderò  grazie  di  avermi  salvato 
colei  che  amo  immensamente.    . 


BA6A-D0KIA  281 

Dopo  alcun  tempo  Fatima  rinvenne  ;  la  ferita  era  medicata,  né 
lasciava  timore  che  s'inasprisse  ;  il  dolore  era  leggiero.  Quando  seppe 
com'era  stata  miracolosamente  salva,  essa  pure  ricordò  Baba-Dokia 
e  rese  grazie  a  Dio.  Radamantino  lasciò  la  sua  amante  colla  prin- 
cipessa, e  fu  a  ricercare  se  negli  abiti  dell'iman,  per  esso  ucciso, 
trovava  qualche  traccia  di  chi  era  ;  e  rinvenne  un  berat  con  cui  era 
raccomandato  a  tutti  i  credenti  in  Maometto,  onde  potesse  far  preda 
di  Giaurri.  Inoltre  quello  scellerato  aveva  legato  sul  petto  un  Bacchet- 
tino, Io  svolse,  e  trovò  che  era  quello  stesso  perduto  dal  suo  padre 
alla  battaglia  di  Vali' Alba,  e  che  l'iman  aveva  reputato  dover  essere 
un  talismano. 

—  Baba-Dokia,  disse  Radamantino,  tu  mi  salvasti  l'amante  e 
drizzasti  il  mio  ferro  a  vendicare  la  morte  di  mio  padre. 

Tornato  presso  a  Fatima  le  narrò  l'esito  delle  sue  ricerche,  e  dessa 
alla  sua  volta  raccontò  alla  Principessa  minutamente  l'accaduto,  e 
d'animo  schietto  com'era,  non  le  tacque  che  si  era  recata  nel  giardino 
per  dar  risposta  a  Radamantino  che  gli  aveva  fatto  preghiera  di 
sposarlo,  e  soggiunse  ch'era  risoluta  di  dire  ch&  pazientasse,  non 
volendo  separarsi  da  lei  in  giorni  ove  la  guerra  rumoreggiava  an- 
cora d'intorno,  e  quando  sapevasi  che  Maometto  II  anelava  a  trar 
vendetta  della  sconfitta  di  Valle  Alba. 

La  buona  Elena  la  rampognò  d'averle  nascosto  questa  sua  in- 
clinazione, e,  lungi  dallo  sconsigliamela,  diede  il  suo  assenso  alla 
loro  unione. 

Avuto  questo  insperato  assenso ,  Fatima  creda  essere  giunto 
il  tempo  di  palesare  il  vero  essere  suo,  e  raccontò  al  Vaivoda,  alla 
principessa  Elena,  ed  a  Maria,  seconda  moglie  di  Stefano,  essere 
dessa  figlia  del  Chan  di  Crimea  Mengeli-Gherai,  come  la  sua  madre 
fosse  stata  la  sultana  favorita,  e  come  da  lei  educata  nrila  fede  di 
Cristo,  non  che  i  particolari  della  sua  fuga.  Il  principe  spedi  allora 
un  messo  a  Mengeli,  che  trovavasi  a  Bakchi-Serai,  onde  informarlo 
che  la  sua  figlia  viveva,  ch'era  stata  battezzata,  ed  ora  andava  sposa 
al  prode  Radamantino,  e  ch'egli,  Stefano,  ravvisava  in  quest'unione 
un  avviamento  ad  una  stretta  alleanza  fht  i  due  Stati.  Mengeli-Gherai 
il  quale  non  era,  benché  Tataro,  nemico  del  nome  cristiano,  e  tro- 
vando opportuna  un'alleanza  col  Vaivoda,  accolse  bene  il  messo,  e  lo 
rinviò  con  sontuosi  regali  per  la  sposa,  a  cui  mandò  dire  reputar 
buone  tutte  le  religioni  che  riconoscono  un  Dio  solo  e  onnipotente  : 
ch'egli  era  felice  di  sapere  la  sua  diletta  figlia  prospera  e  avventu- 
rata, e  conchiudeva  mandandole  la  sua  patema  benedizione. 

Quella  benedizione  allietò  oltremodo  Fatima,  perché  l'ebbe  come 
vaticinio  di  felice  avvenire.  Stabilito  il  dì  delle  nozze,  in  quelle  si 
fecero  di  grandi  feste,  a  cui  presero  parte  tutti  della  città.   Il 


282  BIVISTA  OOMTBHPOHANBA 

venerando  archimandrita  della  Moldavia  Teoktiste  li  sposò  nell*an- 
tica.  basilica  dedicata  a  S.  Dimitri,  e  pronunciò  un  eloquente  ser- 
mone, inteso  a  dimostrare  come  la  fede  e  la  virtù  ottengano  meritato 
premio. 

Pochi  giorni  dopo  Radamantino  colla  sua  sposa  si  recavano  in 
pellegrinaggio  al  monte  Pione,  onde  andare  compiere  il  voto  &tto 
a  Baba-Dokia;  non  è  d'uopo  il  dire  quanto  quella  gita  fosse  fatta 
con  animo  lieto  ;  essi  si  amavano  tanto,  avevano  posto  il  loro  amore 
alla  prova  d'infinite  sventure  e  di  aspri  dolori  e  confidavano  pertanto 
che  avrebbero,  uniti,  godute  felicità  future. 


Vili. 

Antica  storia  narra  cosi. 
Carrer. 

Coloro  che  avranno  avuto  la  gentilezza  di  leggere  questo  mio 
povero  e  disadorno  racconto,  vorranno  certo  sapere  chi  sia  Baba-Do- 
kia. Cotesto  giusto  desiderio  io  intendo  soddisfare,  ma  qui  non  posso 
più  appoggiarmi  alla  storia,  giacché  Baba-Dokia  non  vive  che  nelle 
leggende  e  nella  tradizione  orale  dei  Rumani,  ed  in  canzoni  popolari. 

Nell'anno  100  d.  C.  TAiano  mosse  contro  Decebalo  re  dei  Daci, 
il  quale,  non  pago  di  esser  giunto  ad  imporre  a  Roma  un  annuo 
tributo,  iva  raccogliendo  sotto  le  armi  i  vicini  Sarmati,  accresceva 
gli  apparati  bellici  e  intendeva  di  ritornare  ad  aggredire  i  Ro- 
mani. Vinto ,  chiese  ed  ottenne  la  pace ,  ma  poco  dipoi  tornando 
a  porsi  in  armi,  Traiano  tornò  nel  103  a  combatterlo.  Oli  apparecchi 
della  guesra  ed  il  ponte  sul  Danubio  richiesero  tre  anni  di  tempo. 
Nel  107  Sarmiz-getusa,  la  metropoli  dello  Stato,  venne  in  potere 
di  Traiano,  e  Decebalo,  dopo  aver  imprecato  l'esterminio  de' Romani, 
8i  cacciò  il  ferro  nella  gola,  e  morì  per  non  cader  prigione.  Traiano 
fece  ampia  strage  dei  Daci,  e  per  ripopolare  quelle  terre,  vi  mandò 
numerose  colonie,  da  cui  discendono  gli  attuali  Moldo-Valachi,  ed 
a  cui  devono  la  loro  lingua  semi-latina.  Ciò  è  storia:  ora  diremo  la 
leggenda. 

Decebalo,  secondo  questa,  aveva  una  figlia  di  straordinaria  bel- 
lezza che  chiamavasi  Dokia.  Traiano  la  vide,  e  se  ne  innamorò  per- 
dutamente; però  essa  non  volle  mai  saperne  di  lui,  poiché  era  presa 
d'amore  per  Zamolxi,  ora  avuto  per  Dio  della  guerra,  della  divina- 
zione, della  medicina,  della  poesia  e  dei  defunti  (1),  ma  che  fu  le- 

(1)  Bergmann.  Lei  Gètes.  Strasbourg  1859,  p.  191  e  seg. 


BÀBA-DOKIA  283 

gl'alatore,  pontefice  e  re  dei  Ceti,  grand'uomo  che  insegnò  le  dot- 
trine di  Numa,  Gothama,  Mokavira  e  Pitagora  a'  suoi  vassalli. 

Decebalo  essendosi  ucciso  anziché  arrendersi  a  Traiano,  Dokia 
per  non  cadere  cattiva  di  questi,  fuggi  sul  monte  Pione  che,  come 
abbiamo  di  già  detto,  è  nella  giogaia  dei  Carpazii  ;  ma  Traiano  che 
voleva  possederla  ad  ogni  costo,  l'inseguì  per  tutte  quelle  rapide 
balze,  e  quanto  maggiori  erano  gli  ostacoli,  tanto  più  grande  era  in 
lui  il  desiderio  di  raggiungerla. 

Nascosta ,  come  usava  2«amolxi ,  in  misteriosa  grotta ,  viveva 
nelle  tenebre,  e  nutrivasi  di  erbe  crude,  ma  Traiano  scopri  il  luogo 
dov'erasi  rifugiata,  e  penetrò  nello  speco.  Allora  la  misera  Princi- 
pessa uscitane  fuori  da  un  pertugio,  incontrata  una  mandriana, 
scambiò  le  sue  ricche  vesti  di  seta,  il  manto  di  porpora  e  la  gem- 
mata corona,  contro  gli  umili  abiti  ed  un  velo  bianco  di  quella, 
ed  ivi  rimase  a  custodire  il  gregge. 

Mezza  velata  e  coi  capelli  sciolti  stavasene  sulla  cresta  del  monte 
che  chiamasi  Ciahlòu,  vigilando  l'armento,  quando  Traiano,  ch'aveva 
riconosciuto  l'inganno  delle  mutate  vesti,  le  corse  incontro  ;  dove 
fuggire?  non  vi  ò  mezzo.  L'imperadore  di  Soma  le  parla  del  suo* 
amore  ;  n'ò  respinta  con  fierezza,  ma  quelle  ripulse  accrescono  la 
fiamma  nel  cuore  del  vincitore  dei  Daci,  stende  la  mano  ed  afferra 
l'infelice  Dokia  con  tutta  forza.  È  nel  procinto  di  cader  preda  della 
passione  di  chi  aveva  sterminato  1  Daci,  non  ha  più  mezzo  di 
■campo;  ma  le  sorge  pensiero  d'invocare  Zamolxi  onde  la  salvi  dal 
disonore. 

Traiano  l'abbraccia,  se  la  stringe  amorosamente  al  petto;  ma 
«ente  un  freddo  scorrergli  per  le  mani,  ma  trova  un  corpo  resistente 
alla  pressione;  ch'era  avvenuto?  Dokia  era  stata  mutata  in  sasso, 
che  iva  giganteggiando,  mentre  Traiano  esterrefatta  la  contemplava. 
Zamolxi,  dicono  le  leggende,  era  stato  il  primo  ed  unico  amore  di 
Dokia,  e  col  suo  potere  l'aveva  cosi  tolta  dalle  ugne  dell'imperiale 
suo  tentatore.  Ma  Traiano,  prosegue  la  leggenda,  continuò  ad  amarla 
benché  metamorfosata  in  macigno;  anzi,  toltasi  di  capo  la  corona 
dei  Cesari,  la  pose  su  quello  della  statua,  e  perdurò  finché  egli  visse 
ad  amarla* 

Una  di  queste  canzoni  popolari  riferita  dall'egregio  Asaki  cosi 
appunto  Gonchjude: 

Trajan  vede  acesta  «ina 
Desi  està  vincitor 
Fromusetii  ei  s'inchina 
Se  subgioga  de  amor 
Il  Pione  è  visitato  oggidì  da  quanti  vanno  pei  Carpazii,  indottivi 
dai  popolani  i  quali  credono  ancora  al  magico  potere  della  cima  più 


284  BIVISTA  CONTEMPORANEA 

alta  del  Ciahldu,  che  parte  dalla  natura,  parte  dall'arte  fu  cosi  ri- 
dotta da  raasomigliare  di  lungi  ad  una  statua  circondata  da  venti 
pecore  (1)  che  sono  altre  cime  di  monti  minori  circostanti.  Un'altra 
cima  maggiore  s'innalza  fra  quelle  gregge,  quella,  dicesi,  è  l'aquila 
che  Traiano  pose  a  guardia  nel  partire,  onde  vigilasse  su  Dokia.  A 
queste  elevate  cime  fanno  corona  rupi  scoscese,  che  addossate  a  quelli 
paiono  antri ,  e  la  leggenda  dice ,  essere  U  ove  Dokia  si  riparò, 
quando  fuggi  alle  ricerche  di  Traiano. 

Divinizzati  dalla  popolare  superstizione,  essa  divenne  il  genio 
protettore  del  paese,  ed  in  oggi  se  in  Moldavia  trovi  un  all)ero  di 
grossezza  straordinaria,  il  contadino  ti  dirà  che  Baha-Dokia  vi  ballò 
attorno. 

Ad  essa,  come  a  genio  o  ninfa  buona,  si  attribuiscono  i  tempo- 
rali ;  se  tuona,  si  crede  siano  i  suoi  sospiri  che  si  spandono  per  le 
regioni  del  cielo.  Dessa  volge  a  suo  talento  i  primi  giorni  di  pri- 
mavera, opperò  sono  designati  ditele  DoUeij  cioè  giorni  di  Dolda; 
forse  ciò  deriva  dacché  nel  rito  greco  non  unito,  santa  Doquie  si 
celebra  al  cominciamento  di  marzo  :  la  quasi  omofonia  dei  nomi  con- 
fuse la  Ninfa  e  la  Santa.  Però  mi  fu  detto  da  chi  sa  di  lingue 
slave,  che  il  nome  di  Baba-iDokia  deriva  da  quelle  nelle  quali  Babà 
o  Babcia  significa  vecchia  donna,  e  Doi^  spirito,  genio  e  simili,  il 
che  equivarrebbe  a  dire:  spirito  antico  o  vecchia  fata. 

Il  Pione  diventò  quindi  il  soggiorno  degli  oracoli  ;  vi  si  trovano 
statue  rozzamente  intagliate  nel  granito.  I  Rumani  che  sono  ancora 
cosi  entusiasti  di  Traiano  da  (dare  alla  via  lattea  il  nome  di  via  di 
Traiano,  che  gli  attribuiscono  fatti  portentosi,  hanno  ad  un  tempo 
in  venerazione  Baba-Dokia,  e  se  oggidì  le  classi  eulte  si  ridono  di 
siflEatte  volgarissime  credenze,  i  contadini  le  hanno  per  verità  incon- 
trastata. À  confermarli  in  ciò  s'aggiunge  il  fatto  che  nelle  spelonche 
di  que'  monti  si  ripararono  i  cristiani  per  iscampare  dalle  persecu- 
zioni dei  barbari,  e  vi  costruirono  segreti  altari ,  come  nelle  cata- 
combe di  Roma.  Ivi  si  condusse  la  celebre  principessa  Elena,  moglie 
del  Domno  Pietro  Mejear  detto  Rareche,  ed  ivi  pure  nel  1821  venne 
a  spirare  la  misteriosa  Serafina;  Chi  era  quella  bella  giovine  accorsa 
presso  il  creduto  simulacro  di  Baba-Dokia?  Nessuno  fin  ora  lo  seppe. 
Chi  sa  quanti  ancora  della  Rumania  continueranno  ad  ire  al  monte 
Pione  in  pellegrinaggio  !  Durevolissime  sono  nel  popolo  le  supersti- 
ziose credenze,  e  l'Europa  australe  ed  occidentale  che  pure  mena 
vanto  di  gran  coltura,  ribocca  ancora  di  credenti  nelle  meraviglie 
novelle  dei  medium  che  fan  parlare  i  morti. 

(1)  De  Kogalnichan.  Hisioire  de  la  Valachie  et  de  la  Moldavie.  Berlin 
1837.  T.  1,  p.  9. 


BABA-DOKIÀ  285 

Tal  ò  in  quante  minori  parole  mi  fu  possibile  la  leggenda  di 
Baba-Dokia  :  ora  darò  fine  al  racconto. 

Fatima  e  Radamantino  mentre  stavano  contemplando  l'informe 
statua  del  genio  benefico  della  Moldavia,  un  pezzo  del  sasso  di  cui 
è  composto,  loro  cadde  ai  piedi  ;  essi  l'ebbero  come  un  segnale  che 
la  loro  unione  era  gradita ,  ne  trassero  lieti  auguri! ,  e  lo  conser- 
varono quale  miracoloso  talismano. 

Stefano  IV  il  grande  ebbe  per  uso  di  far  costrurre  un  monumento 
religioso  per  ogni  battaglia  ch'aveva  vinto.  Avendo  in  quarant'anni 
di  regno  vinto  quaranta  volte,  altrettanti  monumenti  eresse.  Per- 
altro quello  rammemorante  la  gran  battaglia  di  Val  Alba  lo  eresse 
venti  anni  dopo  con  istraordinaria  pompa  in  mezzo  a  quelle  pianure. 
Consiste  in  ima  chiesa  dedicata  all'Arcangelo  Michele ,  la  quale 
attesta  oggidì  una  delle  più  grandi  epoche  della  storia  Moldava,  e 
sotto  l'altare  maggiore  fece  collocare  le  ossa  di  Radamante  che 
erano  state  raccolte  e  deposte  in  luogo  privato.  Nell'orbita  dell'oc- 
chio stava  ancora  infitta  la  freccia  che  lo  aveva  ucciso.  Nella  piazza, 
nauti  la  chiesa,  ^i  fece  scavare  una  grandissima  fòssa  per  deporvi 
le  spoglie  dei  caduti  in  quel  giorno  per  la  fede  di  Cristo  e  per 
la  patria. 

Radamantino  e  Fatima  vissero  prosperi  a  lungo;  ogni  anno,  il 
di  anniversario  di  quella  battaglia,  deposero  una  corona  di  sempre- 
vivo sulla  tomba  dell'uomo  a  cui  l'uno  doveva  la  vita,  l'altra  di 
averla  salva,  entrambi  la  loro  vera  e  durevole  felicità. 

Ida  Vegbzzi-Ruscalla. 


286 


FRANCESCO  BURLAMACCHI 


(•) 


PREFAZIONE 


Fu  saggio  pensiero  del  Governo,  presieduto  dall'illustre  e  bene- 
merito Ricasoli,  quello  d'innalzare  una  statua  a  Francesco  Burla- 
macchi,  martire  dell'Italia  in  que'  tempi  che  l'unità  e  indipendenza 
di  essa  era  desiderata  da  pochi  alti  intelletti,  è  quasi  tutti  gl'Italiani 
si  curvavano  ai  regoli  che  malmenavano  questa  patria  divisa  e  do- 
minata dalla  tirannide  di  Carlo  quinto.  Gli  Strozzi  e  gli  altri  esuli 
fiorentini  vanamente  tentarono  di  contrastare  al  colosso  che  oppri- 
meva la  penisola.  Burlamacchr  tentò  di  liberar  la  Toscana  dalla 
signoria  di  Cosimo,  ed  è  certo  che  nel  magnanimo  disegno  egli 
comprendeva  tutta  Italia, — La  vita  e  la  morte  di  questo  generoso 
mi  parvero  argomento  nobilissimo  per  la  letteratura  civile,  alla 
quale  i  tempi  sono  per  buona  ventura  singolarmente  propizii.  Ne 
la  storia  tacque  il  suo  nome  né  le  sue  gesta.  Il  Benerini,  negli 
Annali  Lucchesi,  dettati  con  tanta  eleganza  di  latinità,  con  quella 
schiettezza  che  gli  è  propria  ne  favellò,  e  le  sue  pagine  si  legge- 
ranno recate  in  italiano  nelle  note  a  questo  componimento.  Lo 
Zeller,  quai^tunque  francese ,  nella  sua  bella  storia  d'Italia  ram- 
mentò il  Burlaraacchi.  Carlo  Minutoli  di  Lucca  ne  diede  fuori  un'ac- 
concia biografia  ove  non  manca  bontà  di  lingua  e  di  concetto,  e 
abbondanza  di  notizie.  Trista  cosa  è  che  comici  ciurmadori  abbiano 

(*)  Vedi  la  Nota  in  calce  al  presente. 


FBANOESCO  BURLAMACOHI  287 

contaminata  la  veneranda  sembianza  del  martire  con  alcuno  di  quei 
drammi  che  sono  il  disonore  del  teatro  italiano,  il  quale  con  tali 
produzioni  insensate,  invece  di  risorgere,  va  ognor  più  declinando. 
Io  feci  argomento  di  una  novella  storica  i  casi  dell'infelice  Bur- 
lamacchi.  Nulla  alterai  di  quanto  costituisce  il  fatto,  che  ciò  mi 
sarebhe  sembrato  profanazione,  ma  aggiunsi  Telemenlo  fantastico. 
Coloro  che  volessero  vituperarmi  per  aver  posto  nel  mio  lavoro  un 
personaggio  allegorico,  rimando  all'Ariosto,  die  diede  aspetto 
umano  alla  Frode,  alla  Discordia,  allo  Sdegno.  Il  metro  variai  con- 
forme parevami  necessario ,  mentre  lo  sciolto  è  più  adattato  alla 
descrizione  e  alla  storia,  e  l'ottava  più  alla  Leggenda.  Quanto  allo 
stile  cercai  di  tenermi  in  un  termine  tale  che  le  diverse  opinioni 
letterarie  se  non  venivano  appagate ,  almeno  non  fossero  urtate. 
Come  considerai  debito  d'onesto  cittadino  il  propugnare  que' santi 
principii  che  sono  indispensabili  al  bene  dell'Italia ,  cosi  reputai 
obbligo  d'italiano  scrittore  il  curare  più  ch'io  potessi  la  bellissima 
nostra  lingua.  Dalle  esagerazioni  fui  sempre  lontano,  credendole 
di  sommo  pregiudizio  cosi  nelle  lettere  come  in  politica.  Una  libertà 
temperata  fu  e  sarà  sempre  lo  scopo  de'  miei  pensieri.  So  che  non 
vi  verrà  fatto  carico  per  avere  staccata  una  pagina  dalla  lugubre 
storia  delle  cospirazioni.  L'indipendenza  si  ottiene  con  grandissimi 
sagrifizii.  Nei  tempi  del  servaggio,  una  lotta  perpetua  si  ordisce 
contro  la  tirannide.  Quando  l'indipendenza  è  quasi  compiuta^ 
quando  la  guerra  suprema  della  nazionalità  si  combatte  aperta- 
mente ne'  campi,  quando  la  tirannide  più  non  esiste,  allora  i  gene- 
rosi si  mostrano  a  fronte  scoperta^  e  la  cospirazione  è  un  delitto. 
Credo  di  far  cosa  grata  alla  gioventù,  narrandole  la  vita  del  Burla- 
macchi  ,  credo  di  non  dispiacere  agli  uomini  di  lettere  con  argo- 
mento di  storia  civile.  Se  la  congrega  di  coloro  che  preferiscono  le 
ciance  arcadiche  mi  sdegna,  io  ne  godrò.  Essi  sono  nemici  d'ogni 
progresso,  e  odiano  la  letteratura  che  sta  per  sorgere  sotto  gli  au- 
spizii  della  nazione  e  del  Re. 


288  BinSTA  CONTEHPOBANEA 


Ridea  la  primavera,  e  i  campì  e  Tonde 
Una  feconda  voluUade  empia. 
Esultavan  d*amor  grilali  colli, 
E  dalle  violate  alpi  e  dai  gioghi 
Degli  Apennini  armonioso  spirto 
Si  diffondea  di  vita  e  il  fiammeggiante 
Dell'eterea  beltà  sole  immortale  I  ^ 

Delle  vergini  selve  il  verde  opaco 
Contrasta  con  la  porpora  e  col  puro 
Candor  de' fiori,  una  serena  calma 
Dolce  conforta  l'inesausto  grembo 
Della  natura,  e  degli  umani  in  core 
Scorre  un'aura  d'amor,  aura  di  festa 
E  l'inno  cui  risponde  ogni  remota 
Plaga  de' firmamenti  e  in  Dio  si  posa. 

In  un  bosco  di  grandi  arbori  denso, 
Che  stendono  le  fresche  ombre  perenni 
Alle  falde  di  eccelso  agevol  monte 
Vagheggiato  dai  rai  primi  dell'alba 
Stassi  un  italo  saggio^  a  cui  le  mura 
Della  libera  Lucca  e  i  suoi  palagi 
É  spesso  dolce  di  cambiar  col  vivo 
Aere  delle  montagne.  Una  tranquilla. 
Angusta  casa  fra  le  piante  in  riva 
D'un  torrente  bianchieggia.  È  quella  il  sacro 
Asilo  di  Francesco.  Ivi  solingo 
Con  se  medesmo  si  raffronta,  e  chiuso 
In  quei  recessi,  con  devoto  amore 
Pensa  all'Italia.  D'una  bruna  veste 
Cinte  ha  le  membra»  la  sua  man  sostiene 
Il  volume  di  Dante^  in  cui  s'affisa 
L'infiammato  pensiero.  Il  mite  sguardo 
Del  sol  di  maggio  ne  rischiara  il  viso, 
E  di  gioia  serena  e  fuggitiva 
La  pace  melanconica  ne  tempra. 


PBANCESCO  BUBLAMACCHI  289 

Ratte  nel  meditar  Tore  trapassa. 
Ma  in  mezzo  alla  quiete  impertarbata 
Della  foresta  e  fra  i  profondi  studi 
Gli  ribolle  nel  cor  as$idua  cura 
Che  toglie  ogni  dolcezza;  è  della  patria 
La  forte  carità  che  lo  consola 
E  lo  af&igge  ad  un  tempo;  è  il  ver  che  sempre 
Gli  compare  dinanzi  e  lo  persegue, 
E  la  natura  gli  riveste  a  lutto  ; 
È  il  santo  ver  che  a  lui  rivela  Iddio, 
E  i  disastri  d'Italia  Ei  scorge,  e  grida  : 
€  I  concetti  di  Dante  e  Machiavello 
Speme  non  danno,  ma  dolore  all'alma. 
Oh  potessi  obliar,  potessi  il  nome 
Di  libertade  non  udir  più  mai! 
Ma  fora  invan  che  in  ogni  libro  è  scritto 
Ove  si  renda  a  sapienza  un  culto, 
E  se  noi  fosse,  lo  imprimeva  eterno 
La  potenza  di  Dio  ne'  cuori  umani. 
Né  impero  di  tiranni,  o  l'ignoranza 
Delle  barbare  genti,  o  la  feroce 
Ira  sacerdotal  può  cancellarìo. 
Italia  è  serva,  a  sue  divine  membra 
Si  raddoppian  catene,  il  giogo  ispano 
Sovr'essa  incombe,  e  il  giogo  empio  di  Roma. 
Cosmo  è  sgherro  di  Spagna  :  oh  come  è  fatta 
La  bella  Flora  che  cotanto  amai 
Miserabile  in  volto  e  taciturna  ! 
Nelle  case  superbe  e  per  le  strade 
Regna  il  vigil  sospetto  e  la  paura. 
Al  calar  della  notte  è  trasportato 
Chiunque  alletti  generosi  sensi 
Nelle  carceri  tetre.  Etruria  intera 
É  fatta  schiava  di  genia  codarda. 
Ciò  non  puote  durar:  come  un  sol  uomo 
I  popoli  percossi  insorgeranno  : 
Pugneranno  guerrieri  a  mille  a  mille 
Folti  come  le  piante  onde  s'imbruna 
Questa  annosa  foresta!...  Eppur  s'illude 
Forse  il  mio  spirto,  e  a  più  remote  etadi 
Forse  è  serbato  il  ridestar  dall'urne 
I  sepolti,  ed  in  man  della  gran  donna 
Ripor  lo  scettro—  Ebben  se  all'opra  solo 

JHvista  C.  —  19 


290  BIVI8TA  OONTBMPORJLNBA. 

Esser  deggio  il  sarò...  morir  mi  giova 

Vittima  di  uno  splendido  pensiero. 

Mi  muove  invidia  il  glorioso  fato 

Di  Ferruccio  trafitto  in  Gavinana  : 

Anch'io  morrò  di  gloriosa  morte. 

E  quando  Italia  le  catene  infranga 

Fia  la  memoria  riverita  e  sacra 

Del  mio  martirio...  Ah  da  me  lungi  oscuri 

Presagi,  e  fere  vision  funeste... 

L'incominciata  tela  omai  si  compia... 

Con  mente  immacolata  e  cor  securo, 

Affrettiamoci  all'opra...  E  concitato 

Muove  i  passi  veloci  in  riva  all'acque 

Dai  balzi  d'inaccessa  erta  irrompenti. 

E  con  cupo  fragor  levando  intomo 

1  larghi  sprazzi  di  canuta  spuma, 

Ei  rimira  nell'acque  il  vario  scherzo 

Dei  colori  dell'In  e  il  tempestoso 

Impeto  orrendo  che  le  spinge  in  ginso 

Finché  tacciono  accolte  in  verde  piano. 

Quel  fremito  incessante  e  quel  riposo 

Ei  rassomiglia  al  traboccar  dell'alma 

Quando  la  invade  irrequieta  forza 

Di  passion  tremenda,  e  alfin  prostrata 

0  tocca  da  un  gentil  riso  di  fede 

Ritoma  in  calma.  E  mentre  ei  va  pensoso. 

L'acume  dello  sguardo  innanzi  appunta 

Nell'atto  di  chi  attende  una  persona 

La  cui  sembianza  è  il  ciel  per  gli  occhi  suoi. 

Per  poco  dileguar  da  quella  fronte 

Le  nubi,  e  in  foco  si  colora  il  viso 

Mansueto  del  giovane.  E*  repente 

Ode  un  scalpito^  e  mira  in  bianco  velo 

Agitato  dall'aure,  e  fra  la  densa 

Ombra  de'  rami  su  destriero  ardente 

Bellissima  una  donna  avvicinarsi... 

S'innoltra,  giunge,  è  dell'amato  in  seno. 

Taccion  le  labbra,  ma  un  sublime  affetto 

Favellano  gli  amplessi  ed  i  sospiri. 

Esultano  gli  amanti  entro  il  sereno 

Gaudio  degl'immortali. — Alfin  giungesti 

0  mia  desiderata  Elena,  o  bella 

Viatrice  de'  monti,  o  rilucente 


FRANCESCO  BURLAM.VCOHI  291 

Deir  italico  suol  inclita  rosa  ! 
Ogni  di  t'attendea,  morta  sembrava 
A  me  natura  senza  il  tuo  sorrìso. 
Mi  fuggia  la  speranza  :  oh  alfin  tu  giungi 
Cara  speme  ed  amor  del  mio  pensiero  ! 
Oh  come  sei  leggiadra!  oh  come  è  puro 
Il  seren  del  tuo  volto,  oh  come  è  fresca 
L'aura  del  tuo  respiro  !  ah  ch'io  di  nuovo 
Baci  le  anella  della  bionda  chioma 
E  de'  labbri  la  porpora  !  Tal  era 
L'estasi  di  Francesco  :  in  lei  rimira 
Il  suo  mondo,  il  suo  ciel,  mira  il  presente 
E  il  futuro  ;  è  per  esso  Elena  il  dolce 
Inno  che  canta  con  assidua  voce 
L'angelo  della  vita  appresso  a  Dio.  — 
Da  che  te  non  vedea,  tristezza  cupa 
M'ingombrava  la  mente...  errava  sola 
Di  loco  in  loco,  e  più  non  m'era  grato 
L'aspetto  della  mia  città  natale. 
Ben  io  giva  a  pregar  nella  sublime 
Maestosa  dimora  al  Dio  vivente 
Edificata  allor  che  il  longobardo 
Dente  mordea  l'Italia...  ah  la  preghiera 
Dai  dubbi,  dall'angoscia  era  interrotta 
Perchè  in  te  solo  io  vivo,  e  te  lontano, 
Sento  ogni  gioia  dileguar  com'ombra. 
Posan  gli  amanti  nel  quieto  asilo 
In  Qdati  colloqui.  A  tarda  notte 
Producono  le  gioie,  i  rapimenti 
D'una  verace  voluttà  celeste. 
Pura  siccome  la  beltà  sovrana 
Che  serena  si  spande  in  sul  creato. 
Tranquillo  è  il  loro  amor  come  la  Luna 
Da  cui  piove  si  doke  estasi  all'alma. 
Non  li  turba  giammai  l'inverecondo 
Piacer  che  è  meta  a  se  medesmo,  e  i  sensi 
Stanca  ed  il  ben  dell'intelletto  offusca, 
Il  volgare  piacer  che  da  virtude 
E  da  verace  amor  si  discompagna. 
E  quando  la  virginea  alba  ogni  plaga 
Dell'orizzonte  fra  brillar,  alacri 
Pigliano  la  foresta  e  procedendo 
Pel  frondoso  sentier,  miran  gli  augelli 


292  BIYISTA  CONTBHPORANBA 

Che  stormendo  si  destano,  le  lepri 
Che  dileguano  rapide  dinante 
Alla  pesta  improvvisa,  e  i  paurosi 
Conigli,  e  le  coperte  in  bruno  vello, 
Lucidissime  martore  striscianti 
Lungo  le  fratte.  Oh  come  quel  concorde 
Di  mille  e  mille  creature  liete 
Risvegliarsi  alla  vita,  onde  s'informa 
L'universo,  riempie  all'uom  lo  spirto 
Di  soave  conforto  !  Egli  in  cotanta 
Varietà  d'innumeri  viventi 
Vagheggia  Tamistade  e  l'armonia 
Che  dal  superno  fonie  immortalmente 
Alla  terra  deriva  !  A  poco  a  poco 
Dileguano  le  piante  e  il  monte  appare. 
I  fidi  amanti  sull'eccelsa  cima 
Giunsero.  L'acre  è  più  vivace  e  sgombro. 
Par  che  l'azzurro  cielo  in  suo  splendore 
S'approssimi  alla  terra  e  si  congiunga 
In  un  amplesso  la  natura  a  Dio. 
In  prato  di  minuta  erba  coverto, 
StillaDCe  ancor  di  mattutine  gemme 
^  Giunser  gli  amanti,  e  la  mirabil  scena 

Vagheggian  lungamente  onde  s'adorna 
Quell'ampia  solitudine.  Del  monte 
Si  digradano  i  gioghi  e  una  distesa 
Incomincia  di  colli  e  di  convalK , 
E  si  miran  paesi  e  casolari, 
E  fiumi  serpeggianti  in  mezzo  ai  campi. 
E  più  lungo  le  mute  acque  di  un  lago 
Azzurreggiano  in  grembo  alla  pianura. 
Ivi  è  fama  sorgesse  una  cittade, 
E  che  la  sotterranea  onda  improvvisa 
Palagi,  templi  sommergesse  e  torri 
E  le  misere  genti  :  or  vincitrice 
Regna,  e  il  cupo  silenzio  e  l'aura  morta 
Che  intorno  spira  infondono  ribrezzo 
Nella  squallida  notte  al  passeggiero. 
Scorre  la  vista  desiosa  intomo, 
E  del  Tirreno  mar  nella  profonda 
Immensità  si  perde.  0  dell'Eterno 
Opre  divine  !  ahi  che  da  questa  eccelsa 
Meraviglia  di  luce  e  di  grandezza 


FRANCESCO  BUBLàHàCCHI  293 

Miseramente  si  disgiunge  Tuonio 

Delle  tenebre  amico  e  della  colpa! 

Ove  son  le  virtudi^  ove  il  coraggio. 

Ove  la  patria?  —  A  questo  Elena  trasse 

Un  profondo  sospiro:  il  bel  colore 

Delle  guance  leggiadre  impallidìa 

Alle  parole  di  Francesco,  e  il  raggio 

Della  felicità  rapidamente 

Dalla  fronte  pudica  dileguava. 

Francesco  al  sen  la  strinse  :  o  mia  diletta 

Non  accorarti.  Ed  ella:  ahi  troppo  miro 

D'un  tremendo  proposto  e  disperato 

La  fiera  impronta  nelle  tue  parole  1 

E  dunque^  egli  risponde,  esser  la  sposa 

D'un  codardo  vorresti  ?  Il  del  ti  diede 

Con  superna  bellezza  anima  grande, 

Plaudir  tu  devi  ai  generosi  afletti 

Di  me  che  t'amo  :  ah  si  :  l'Italia  io  posi 

In  cima  a  tutti  i  miei  pensieri,  ad  essa 

Sacro  è  il  mio  braccio  e  l'intelletto.  Oh  come 

A  questi  accenti,  la  beltà  rifalse 

Dell'angelica  donna  :  un  bacio  impresse 

Delì'amator  sul  volto,  e  lungamente 

Lo  tenne  stretto  all'amoroso  seno. 

—  Oh  almen  ch'io  corra  la  tua  sorte,  e  sia 
Compagna  ne'  perigli  I  E  quando  il  fido 
Stuol  degli  amici  donerai?  ~  Fra  l'ombre 
Del  solingo  Castel  che  là  rimiri. 

Questa  Qotte  ti^arranno.  A  che  reclini 
Gli  occhi  e  li  copri  eoo  le  J>iandìe  mani? 
E  infrenate»  le  Idgrime  rimiro 
Fra  le  dita  stillar?  —  Al  reo  pensiero 
Di  cotanti  perigli  e  guerre  e  morti 
Regger  non.  po6Sp!  Tu  valente  e  giusto. 
Di  giusti  e  di  valenti  avrai  corona. 
Ma  i  mille  e  mille  a  tirannia  venduti 
Come  vincer  potrete?  Il  ferreo  scettro 
Di  Carlo  Quinto  sull'Italia  incombe... 

—  In  difficili  imprese,  in  grandi  esempli 
L'alto  cor  si  .dimostra,  e  della  patria 

Il  santissimo  amore*  Or  via  :  si  taccia 
D'ogni  infausto  presàgio  e  non  ti  attristi 
Di  prossimi  perigli  il  fero  aspetto. 


294  RIVISTA  CONTBMPOEANBA 

Scorriamo  in  questo  solitario  monte 
Un  di  sacro  airamore.  Amore  è  il  solo 
Sorriso  dell'Eterno  airuom  che  soffre. 
Amore  è  il  sacro  anelilo  che  muove 
Dal  sen  della  natura  e  mai  non  cessa.  — 
E  lentamente  per  Verboso  piano 
Che  dal  monte  s'avvalla  essi  tacendo 
"Volgono  il  piede.  Elena  intomo  guarda, 
E  de'  leggiadri  augelli  il  vario  stuolo 
Che  sgombri  di  timor  cantano  arcane 
E  divine  armonie,  li  fior  alpestri 
Che  olezzano  sui  pruni  e  sovra  i  rovi, 
E  il  monte  aprico,  tutto  ivi  conforta 
Alla  semplice  vita,  ai  puri  gaudi 
Dei  felici  mortali.  Elena  esclama: 
Questo  asilo  mi  sembra  una  ridente 
Tranquilla  oasi  fra  le  angosce  orrende 
Di  che  son  piene  le  città.  Natura 
Qui  i  suoi  figli  carezza  e  li  conforta 
E  li  prepara  all'immortal  letizia. 
Spazia  la  fantasia  nelle  serene 
Gioie  degl'innocenti  anni  primieri. 
Una  fola  il  delitto  e  vani  sogni 
Qui  rassembran  la  morte  e  la  sventura.  *— 
Il  culmine  vedean  d'una  capanna 
Fumar,  quasi  invitando  a  queto  albergo 
E  a  grata  mensa.  Ivi  adagiarsi.  Cara 
Come  una  mammoletta  verginella 
Una  fanciulla  umil  con  dolce  riso 
Li  accoglie.  Appresso  è  il  genitor  canuto 
Che  volge  i  consolati  occhi  alla  vaga 
Signora  al  cui  sì  grazioso  aspetto 
Sembra  il  tugurio  illuminarsi.  0  amici, 
Con  accento  cortese  ella  comincia, 
Vostro  tetto  ospitai  a  voi  ne  trasse. 
0  buon  vegliardo,  al  tuo  desco  ne  avrai 
Oggi  siccome  figli.  — Era  Francesco 
Dall'ombre  sorto  dell'assidua  cura 
Pari  a  spirto  che  avvolto  in  fosca  nube 
Alfine  nell'aperto  aere  si  slanci- 
Col  remeggio  dell'ali.  —  E  invero  il  loco 
Una  piaggia  pareva  ignota  al  mondo, 
Ignota  al  duolo  che  persegue  in  terra 


FBANCBSOO  BURLAMACX3HI  296 

Ogni  mortale.  La  donzella  e  il  vecchio 
Onorarono  gli  ospiti,  e  gnstose 
Villerecce  vivande  apparecchiàro 
E  soave  lièo.  Dopo  gli  amanti 
Ritornerò  a  goder  Tauretta  e  il  sole, 
E  il  verde  opaco  delle  piante,  e  i  fiori 
Che  l'odorosa  valle  in  sé  racchiude. 

Ma  già  del  sol  la  fiammeggiante  lampa 
Tingeva  il  mar  di  un  roseo  sanguigno 
Tal  che  la  donna  abbrividi,  rivolse 
I  bei  lumi  languenti  al  suo  diletto 
Che  s'orridea  d'un  mesto  riso.  Oh  mira, 
Elena  disse,  come  cupo  è  il  sole  ! 
Par  che  voglia  del  mar  sull'azzurrino 
Specchio  lasciar  di  sangue  orrida  impronta  ! 
—  In  tanto  strazio  dell'Italia  e  duolo 
Come  non  gemerà  tutta  la  sacra 
Genitrice  natura?  Ah  qui  non  giunge 
L'esecrato  flagel  di  tirannia. 
Ma  sento  il  rombo,  e  l'onde  e  i, campi  e  il  cielo 
Piangon  l'iniqua  servitù  ferale.  — 
Già  s'annottava  e  la  gentil  fanciulla 
Poggiata  al  braccio  di  colui  che  adora 
Sen  giva  oltre  la  valle  ed  oltre  il  colle. 
E  scendeano  a  un  castel  che  di  mine 
Cinto  la  negra  fronte  ergea  superbo 
Fra  i  burroni  e  le  selve.  Il  ponte  alzossi. 
Ei  del  castello  superar  le  scale 
Irradiate  da  pallide  tede. 
Parca  che  fosse  quel  palagio  il  cupo 
Albergo  del  silenzio  e  del  mistero. 
Penetrarono  in  vasta  aula,  ove  accolto 
Stava  nobil  consesso.  Erano  gravi 
I  volti,  né  parola  ancor  s'udia. 
Come  Francesco  con  la  donna  entrava 
Si  levaron  guastanti:  eran  guerrieri  • 
Chiusi  le  membra  nella  ferrea  magh'a, 
E  sofi  in  nera  vesta  :  a  tutti  al  fianco 
Balenavano  Tarme.  —  I  Fiorentini 
Esuli  si  vedean  torbido  il  ciglio 
Ploranti  invan  la  libertà  perduta, 
E  i  proscritti  di  Siena,  ove  il  feroce 
Spirto  di  Carlo  con  orrende  fraudi 


296  KIVISTA   CONTEMPORÀNEA 

Preparava  la  strada  all'abborrita 
Medicea  signoria.  —  V'eran  romani 
Fervidi  petti  che  riporre  il  seggio 
Anelavan  d'Italia  in  Campidoglio, 
Spezzando  alla  tirannide  papale 
Gli  atroci  artigli.  Ai  duci  loro  intomo 
Faceano  riverenti  ala  i  soldati 
In  due  schiere  partiti.  A  tutti  in  mezzo 
Cosi  Francesco  a  favellare  imprese  : 
AI  germanico  impero  è  omai  soggetta 
L'Italia.  Vive  la  Venezia,  vive 
Genova  ancora,  ma  Fiorenza  é  morta.  ' 
Roma  e  l'altre  città  son  monumenti, 
Splendide  tombe  agl'itali  infelici. 
Pier  Strozzi  veglia  a  meditar  vendette, 
E  in  esso  e  in  suo  fratel  e  in  tanti  e  tanti 
Egregi  spirti  cui  Tesiglio  accora, 
E  in  noi  vive  l'Italia.  Ad  opra  grande 
Noi  c'apprestiamo  a  liberarla.  A  un  grido 
Pisa  si  leverà,  fia  nostro  il  grido  : 
Dal  suo  letargo  sorgerà  Fiorenza. 
L'intera  Etruria  accoglierà  bramosa 
Di  libertà  il  vessillo.  In  forte  armata 
L'Emilia  scorreremo  e  le  Romagne 
Che  farem  sgombre  dai  tiranni.  Il  crudo 
Paolo  Farnese  fia  tolto  dal  soglio 
Vacante  agli  occhi  del  figliuol  di  Dio. 
Libera  Italia  comporrassi  in  bella 
Stabile  monarchia.  —  Questi  pensieri 
Son  pure  i  vostri  —  a  noi  valor  non  manca. 
Né  invan  le  gesto  di  cotanti  eroi 
Ci  occuparon  le  notti.  —  È  gran  virtude 
Il  sagrificio  pei  fratelli  schiavi. 
Cristo  l'oppressa  umanità  redense 
Col  purissimo  sangue.  A  noi  serena 
Sarà  la  vita,  che  si  presto  ha  fine, 
Adornata  del  lauro  degli  eroi. 
E  bellissima  pur  sarà  la  morte, 
Che  arrideranno  a  noi  nell'ora  estrema 
Gli  Angeli  della  patria  e  della  fama.— 
Alle  parole  di  Francesco  un  plauso 
Eccelso  risuonò  :  brillar  gli  acciari, 
E  ripetean  quelle  vetuste  mura 


FRA.NCBSCO   BUBLAMÀCCHI  297 

D'Italia  il  nome.  Si  scoteano  a  tanto 
Fragor  i  palchi  oscuri  e  le  colonne 
Marmoree^  e  sulle  basi  i  simulacri 
Tremar  pareano  de'  baroni  estinti. 
Fu  proferito  dai  guerrieri  il  giuro 
Di  liberar  l'Italia.  Indi  si  sciolse 
Li  congrega  :  echeggiò  per  la  convalle 
Dei  destrieri  Io  si^alpito  e  il  nitrito. 
E  al  corruscar  di  cento  faci  intomo 
Fiammeggiava  Torror  della  foresta, 
E  i  villan  che  scorgean  dalle  capanne 
L'insolito  splendore,  immaginerò 
Del  castello  gli  antichi  abitatori 
Usciti  dall'averno^  e  de'  demòni 
La  tregenda  agitar  l'aere  notturno, 
Come  fama  correa  fra  quelle  genti 
Cui  Terrore  offuscava  e  l'ignoranza.  — 
Sul  palafreno  Elena  ascese  unita 
Al  suo  diletto,  e  fra  le  care  braccia 
Obliava  le  angosce  e  le  sventure 
Di  che  foriero  l'avvem'r  sentìa. 


II. 


Alfin  ti  veggio,  o  Piero!  Io  sospirai 
Per  lungo  tempo  dì  mirarti  »  e  il  senno 
Accór  di  tue  parole.  Infìn  dai  primi 
Anni  mi  piacque  più  di  gemme  e  d'oro 
La  dolce  liberti  del  mio  paese, 
E  tè  sempre  pensai  valido  capo 
All'alta  impresa  di  cacciar  tiranni. 

Me  la  morte  del  padre  e  di  Fiorenza 
Il  tristo  fato  clic  la  gcHa  appiedi 
Della  medicea  stirpe  abbominata 
Rendon  viepiù  devoto  a  questa  santa 
Causa  d'Italia.  —  Oh  un  sol  desio  scaldasse 
Quanti  son  cittadini  !  ed  una  tuba 
Dall'Alpi  a  Scilla  diffondesse  il  suono  ! 
Ma  quei  tempi  sparirò  in  che  la  voce 
Magnanima  di  Roma  e  mille  e  mille 
Guerrier  chiamava  sotto  il  suo  stendardo. 
Noi  non  abbiam  che  per  svenarci  il  ferro. 


998  BIVISTA  CONTEMPORANBA 

E  grida  sol  per  maledirne  t  orgoglio 
Cieco  e  d'infame  servitù  le  frodi 
Ne  fér  nemici  l'un  deiraltro,  il  sangue 
Degritali  è  venduto  allo  straniero. 
L'ultimo  asilo  delle  nostre  sorti 
È  la  misera  Siena  !  ivi  tremenda 
Sarà  la  pugna^  vincitrice  altera 
Bisorgerà  la  patria  o  fia  sepolta  I 
Ne  protegge  la  Francia,  ahi  ma  soverchia 
L'ispana  possa I — E  che?  dunque  il  pensiero 
Che  mi  ràione  dentro  il  cor  fia  vano  ? 
Negatali  non  speri?  e  Pier  s'oblia 
Dell'ardimento  delle  sue  parole? 
Lo  Strozzi  allor  prendea  la  mano  al  prode 
Ingenuo  Burlamacchi.  Era  una  bella 
Estiva  sera,  e  di  Venezia  intenti 
Guardavano  i  palagi  e  le  lagune 
Ove  una  brezza  discorrea  soave 
Nunziando  la  pace  e  la  speranza  ! 
Oh,  lo  Strozzi  esclamò,  come  lucente 
E  maestosa  sulle  sue  riviere 
Siede  dell'Adria  la  signora  !  io  miro 
Qui  più  sereno  il  c\e\,  più  puri  gli  astri. 
Il  feroce  velen  di  tirannia 
Non  contrista  quest'aure  !  ancor  tremendo 
Rugge  il  leone  t  l'aquila  gdfagua 
Sbigottita  si  fugge  ad  esso  innante... 
Né  gli  amplessi  dei  re  contaminàro 
Di  questa  donna  le  virginee  membra 
Che  trono  ha  in  seno  ai  tempestosi  flutti! 
Oh  salve,  salve  ancor  per  lunghe  etadi 
Bella  sposa  del  mar  !  1  ira  di  Roma 
Qui  non  insegue  il  peregrin  che  pensa! 
Dormono  il  ferreo  sonno  i  tuoi  nemici 
Entro  de'  paurosi  antri  battuti 
Dal  flagel  delle  tue  libere  spume!! 
Perchè  non  corron  tue  gagliarde  navi 
ÀU'Etruria  infelice,  alla  prostrata 
Napoli,  a  Roma?  oh  se  non  puoi  torrenti 
D'armati  riversar  sui  nostri  liti, 
E  trarre  a  vita^  a  liberta  gli  schiavi, 
Sorgan  le  tue  frementi  onde,  congiunte 
Alle  tirrene  le  città  sommergi 


mKSCBSOO  BtJRLAMACCHI  299 

E  i  popoli,  e  tu  sola  a  noi  rimani! 
Cosi  Piero  favella,  e  generoso 
Alle  idee  di  Francesco  egli  consente^ 
Ma  U  loco  e  il  tempo  statuir  non  puote 
Che  cominci  Fimpresa  :  è  ancor  difetto 
Di  pecunia  e  di  gente,  è  duopo  ai  capi 
Del  veneto  senato  aprire  il  tutto  ; 
Fallir  non  può  che  da  Venezia  giunga 
Qualche  soccorso  a  Libertà.  Francesco 
Melanconicamente  i  detti  accoglie 
Del  fiorentino  eroe  cui  più  matura 
Esperienza  fa  veder  la  grande 
Difficoltà  dell'opra.  Afirena  il  santo 
Impeto  ardente,  esso  gli  dice  :  un  moto 
Inopportun  può  perderti,  e  saria 
Il  sagrificio  vano.  Il  gran  momento 
Lunge  non  è...  t'aifida,  e  me  vedrai 
Por  per  la  dolce  libertà  la  vita. 

Era  conforto  ad  essi  il  sacro  aspetto 
Deiraltera  cittade  e  del  senato. 

E  sovente  scorgevano  la  bruna 

Misteriosa  gondola  notturna 

Che  alla  pena  adduceva  i  prigionieri. 

Tetro  siccome  TErebo,  de*  Dieci 

Era  il  solenne  tribunal,  per  tutto 

Vigile  come  il  tempo  esso  spiava, 

E  improvviso  colpia  come  la  morte. 

Era  della  Repnbblicd  la  torre 

Ferrea,  l'invitto  scudo,  era  la  nube 

Che  Venezia  toglieva  alla  sventura, 

Ma  che  recava  in  sen  lutto  e  ruina. 

Stipate  in  porto  stavailo  le  salde 

Armate  navi  memori  d'antichi 

E  novelli  trionfi  in  sul  feroce 

Arabo  predator  che  il  cinquecento 

Settanta  ed  un  dalla  possente  Lega 

Benedetta  da  Pio  fora  conquiso. 

E  maestoso  galleggiar  sull'acque 

Vedeano  regalmente  il  Bucintoro 

Aspettando  la  bella  alba  foriera 

Delle  nozze  annuali.  0  gloriosa 

Venezia  !  oh  come  ti  cangiasti  !  è  muta 

Di  Libertà  la  squilla  in  sul  tuo  lido. 


300  RIVISTA  OONTEHFOEANBA 

Ove  pasciuto  del  tao  sangue  stassi 
Meriggiando  il  Croato,  il  tuo  Leone 
Sparso  di  limo  ti  contempla  e  piange^ 
E  seco  piange  il  mar,  la  terra,  e  il  cielo! 
E  tu  1^  dinta  di  gramaglie,  immersa 
In  tristisfimia  notte  e  Tallègria 
Delle  piazze  ft^equenti  e  de'  teatri 
In  gemiti  è  conversa.  Ahi  quella  grande 
Di  magnanime  geste  e  di  possanza 
Repubblica  per  tanti  anni  vissuta, 
Fra  le  braccia  spirò  dì  quel  monarca 
Che  rardimento  delle  forti  imprese 
Contaminava  col  tuo  reo  mercato! 
E  te  costrinse  a  servitù...  abborrito 
Da  coloro  che  oppresse  in  su  remoto 
Scoglio  periva!  Distruggete,  o  genti, 
^  Cui  l'almo  sol  di  civiltà  risplende 
Cotanto  avanzo  di  barbarie,  il  crudo 
Austriaco  dispotismo!  Alfm  ti  sveglia 
Da'  tuoi  sonni,  o  Germania,  i  tuoi  diritti 
Riprendi,  e  spezza  a  chi  t'opprime  il  trono! 
Popol  che  danna  a  fieri  oltraggi,  a  morte 
Una  misera  terra  e  generosa. 
Degno  è  che  Dio  lo  asconda  nell'etema 
Notte  d'abisso.  E  tu  nepote  al  grande 
Napoleon,  la  sua  colpa  cancella. 
Compi  la  eccelsa  impresa;  Emanuele 
All'esercito  franco  i  suol  congiunga, 
E  sia  disgombra  dall'adriache  rive 
La  teutonica  rabbia,  e  varcai  l'Alpe  ! 


m. 


Entro  la  queta  sua  romita  stanza. 
In  balia  del  dolore.  Elena  posa. 
È  smorta  quell'angelica  sembianza. 
La  voce  è  mesta,  l'anima  affannosa. 
Come  riso  d'amore  e  di  speranza 
Il  sol  penetra  ov'ella  sta  nascosa  : 
E  a  lei  di  luce  variopinta  lista 
Fere  gli  occhi  turbati  e  la  contrista. 


FBANCBSCO  BUBLAHACCHI  301 

Dal  roseo  vespro  alla  gioconda  aurora 

Sempre  ella  pensa  all'amor  suo  lontano. 

Or  s'abbandona  disperata,  ed  ora 

Va  carezzando  una  lusinga  invano* 

Spesso  all'Eterno  si  rivolge  e  plora, 

E  par  che  abborra  ogni  consorzio  umano*    • 

Né  di  Francesco  altrui  richiede  mai,     ,       * 

Trepida  sempre  di  perigli  e  guaì. 
Dubita  che  il  vivissimo  desio   , 

Ch'egli  ha  di  liberar  la  patria  terra 

Sia  noto  a'  tristi  che  nel  petto  rio 

Giurerò  a' generosi  eterna  guerra. 

Gli  esplorator  cu;  maledice  Iddio, 

Peste  che  dall'averno  si  disserra, 

E  cui  propaga  la  medicea  corte 

Teme,  e  la  presa  di  Francesco,  e  morte. 
Sta  raccolta  in  suoi  funebri  pensieri, 

E  racchiuso  il  dolor  si  fa  più  atroce. 

Il  bianco  petto  a'  zefiri  leggeri 

Espone,  e  canta  con  pietosa  voce 

Venture  di  donzelle  e  cavalieri 

Che  in  Terra  Santa  seguitar  la  croce. 

E  le  religiose  fantasie 

La  beano  di  dolcissime  armonie. 
È  poggiata  al  verone,  e  della  bruna 

Aria  il  mistico  velo  la  circonda. 

E  dall'azzurro  ciel  Tumida  Lui^ 

Limpida  bacia  quella  chioma  bionda. 

Non  vede  umana  creatura  alcuna  : 

Non  ascolta  che  il  suon  cupo  dell'onda 

Che  il  Serchio  vqlee  con  assiduo  corso, 

Sceso  de'  monti  dal  selvoso  dorso  : 
Quando  repente  in  grembo  del  giardino 

Che  bello  si  spandeva  ed  odoroso 

Vide  un  guerrier  che  il  capo  lento  e  chino 

Tenea  nel  cavo  della  palma  ascoso. 

Dalle  pene  parca  d'aspro  cammino 

Infra  l'erbe  ed  i  fior  prender  riposo, 

Ma  non  mirava  il  ciel  né  la  verdura 

Come  spenta  per  lui  fosse  natura. 
Stette  alcun  tempo  a  riguardar  la  bella 

L'ignoto  cavalier,  che  alGn  la  muta 

Faccia  chiusa  nell'elmo  alza  e  l'appella 


302  SIYISTA  CX)NTBHIK)BANBA 

Col  cenno  della  mano,  e  la  salata. 
E  sospirando  s'avvicina,  ed  ella 
Un  ignoto  terror  nella  abbattuta 
Anima  sente,  un  fascino  la  invade, 
E  l'estrano  a  seguir  si  persuade. 

Pensa  del  suo  fedel  sia  messaggero 
Che  giunto  nella  notte,  e  della  vita 
Con  gran  periglio  le  dirà  sincero 
I  casi  di  colui  che  Tha  ferita. 
Pur  quell'aspetto  immobile  e  severo 
Ella  riguarda  pallida  e  smarrita. 
E  indugiarsi  vorria,  ma  un  senso  arcano 
Via  la  rapisce  ed  il  contrasto  è  vano. 

Segue  la  forza  violenta  ignota 
Che  la  trascina,  e  avvolta  in  bianca  veste 
Già  del  giardino  è  nella  piaggia  nota, 
E  la  volta  contempla  ampia  celeste. 
La  rugiada  le  stilla  in  sulla  gota, 
Le  luci  affisa  desiose  e  meste 
Ove  la  cupa  manda  ombra  il  guerriero 
Che  ha  bruna  l'armatura  ed  il  cimiero. 

Raccapriccio  sentiva  a  lui  dappresso 
La  giovinetta  ed  egli  in  gentil  modo 
E  con  parlare  placido  e  sommesso 
L'assecurava,  e  le  dioea  :  quel  nodo 
Che  te  congiuoge  con  eterno  amplesso 
A  Francesco  conobbi,  e  il  cor  mi  rodo 
Ch'e'  ne  voglia  gettar  l'anima  forte 
In  un'impresa  la  cui  fine  è  morte. 

Elena  trema  a  tai  tristi  parole  : 
E  come?  gli  risponde,  e  non  t'affida 
Negl'Italiani  la  virtù  che  vuole? 
Mente  il  popol  non  ha  né  cbi  lo  guida? 
Ma  dimmi  ov'e  il  mio  amore  e  se  del  sole 
La  desiata  luce  a  lui  sorrida. 
Vive,  e' risponde,  e  tornerà  fra  poco  : 
Ma  gli  sarà  fatale  il  natio  loco. 

In  ogni  accento  del  guerriero  è  pena 
Che  contrista  la  donna  innamorata. 
Ahimè,  ella  dice  :  la  crudel  catena 
Che  grava  Italia  ognor  iia  raddoppiata. 
Vieni»  e'  soggiunge  :  di  funerea  scena 
Spettatrice  sarai  :  di  un'esecrata 


FBANCBSCO  BUBLAHACORn  203 

Turba  che  immerge  Italia  in  aspri  gtiai 

Le  parole  terribili  udirai. 
Sale  aiutata  dairestranea  mano 

Lievemente  la  donna  in  sul  desUìero. 

Hanno  dintorno  un  vasto  aperto  piano 

La  bellissima  donna  e  il  cavaliero. 

L'ardente  corridor  giunge  lontano 

E  divora  con  gran  foga  il  sentiero. 

Ad  essi  si  dileguano  davante 

E  fiumi  e  campi  e  casolari  e  piante. 
Ove  si  ratto  il  tuo  destrier  ne  adduce? 

Ella  tremando  al  cavalier  dicea  : 

Fra  poco  ginngerem  pria  che  la  luce 

Le  montagne  rischiari  e  la  vallea. 

E  pervennei^o  alfin  ove  di  truce 

Solenne  aspetto  una  torre  sorgea 

Appresso  a  un  monaster  che  sovra  balza 

Orrida  gli  archi  acuti  al  cielo  innalza. 
Odono  per  l'aperto  aere  il  funebre 

Prolungato  suonar  d'una  campana 

Che  rompe  mestamente  le  tenèbre 

E  l'ardua  ne  rintrona  erta  montana. 

Scosso  il  caltor  dischiude  le  palpebre  : 

Quel  suon  gli  desta  una  paura  arcana. 

Involontario  sente  Elena  in  core 

Un  moto  di  sgomento  e  di  terrore. 
Parca  che  il  bronzo  col  suo  tristo  accenlo 

Nunzìasse  a'  mortali  una  sventura. 

E  piangesse  d'un  ultimo  lamento 

La  ferale  agonia  della  natura. 

Era  in  quel  suono  un  torbido  concento 

Di  duolo  e  d'ira,  e  le  severe  mura 

E  la  torre  dell'aUo  monastero 

Spiravano  squallor  di  cimitero. 
Entran  del  tempio  augusto  i  penetrali 

Da  lampade  e  da  faci  illuminati. 

Dalle  pareti  pendon  sepolcrali 

Drappi,  gli  altari  in  nero  son  velati. 

Nel  coro  con  aperti  brevìali 

Sta  vociando  un  lungo  ordin  di  frati. 

Di  Domenico  sono  i  crudi  atleti 

Che  Intolleranza  han  scritto  in  lor  decreti. 


304  RIVISTA  OONTEMPORANBÀ 

Finir  le  preci,  e  un  monaco  salia 
Sul  pergamo,  e  con  voce  alla  e  sonora 

I  fulmini  scagliava  all'eresia 

E  a  chi  la  patria  e  libertade  adora. 
E  laudava  la  perfida  genia 
Della  Spagna  che  i  liberi  martora, 
E  deirinfame  inquisizion  le  dure 
Carceri,  i  palchi^  i  roghi,  e  le  torture. 

e  Sia  benedetto  in  ogni  tempo  il  vero 
Che  noi  vogliamo  e  che  sostiene  i  troni  ; 
Del  ciel  le  chiavi  abbiaro  noi  soli  e  Piero  : 
Chi  dissente  da  noi  non  si  perdoni. 
Dei  popoli  si  esplori  opra  e  pensiero: 
Riconoscan  da  noi  del  cielo  i  doni. 
Per  le  vie,  nelle  case,  e  dentro  i  tempi 
Siano  i  nemici  perseguiti  e  gli  empi. 

Scorra  nella  famiglia  e  nella  scuola 
Come  favilla  che  propaga  incendi, 
La  novella  dottrina  di  Loiola, 
E  taccian  le  bestemmie  e  i  libri  orrendi. 
Quella  scienza  si  diffonda  sola 
Che  fa  principi  e  papi  reverendi, 
E  la  ragion  sommette  e  la  sbugiarda, 
E  delle  cose  il  primo  aspetto  guarda. 

Beati  gl'ignoranti,  ed  anatèma 
Agli  spiriti  arditi  e  senza  freno 
Che  di  Roma  sconoscon  la  suprema 
Àutoritade  e  il  dominar  terreno, 
E  morte  e  dannazion  sovr*essi  prema. 
Non  godano  del  cielo  il  bel  sereno. 

II  mondo  è  nostro,  e  chi  la  vita  ha  grata 
A  noi  curvi  la  fronte  umiliata. 

n  traditor  che  contro  i  re  cospira. 
Benché  tiranni  sian,  pur  con  accenti, 
Deirinquisizione  incontri  l'ira. 
Dal  novero  sia  tolto  de'  viventi. 
Chi  pensa  antica  libertà,  delira. 
Delira  chi  vuol  tor  l'itale  genti 
Dal  giogo  estranio,  e  chi  l'alma  ha  rubella 
Al  prence,  al  papa,  e  d'unità  favella. 

All'uom  che  contro  noi  sorge  e  fatica 
A  far  quaggiù  della  sua  patria  acquisto. 
Dio  dalle  sfere  eccelse  maledica. 


FBÀNCB800  BXTBLAUAGCHI  305 

Maledicano  ì  santi  e  Gesù  Cristo  ». 

A  tai  bestemmie  nella  chiesa  antica 

Si  spensero  le  faci,  e  corse  un  tristo 

Rumore,  e  i  frati  con  le  voci  austere 

Cantaro  lentamente  nUserere. 
La  fanciulla  credè  come  obi  teme 

Sempre  disastri,  ed  altro  mai  non  pensa 

Che  fosser  yolte  le  parole  estreme 

Al  suo  diletto,  e  senti  ambascia  immensa. 

Ma  non  muove  parola,  ma  non  geme, 

E  sol  ricerca  fra  quell'ombra  densa 

L'uscita,  allor  che  in  mezzo  all'aer  vano 

Sente  afferrarsi  da  gelata  mano. 
Era  il  guerrier  che  la  traea  pe'  campi 

Fuor  deirinfauste  profanate  mura. 

La  Luna  chiusi  avea  gli  argentei  lampi, 

E  più  la  notte  s'era  fatta  oscura. 

Misero  l'uomo  nel  cui  seno  avvampi 

Di  patria  e  libertà  la  fiamma  pura  ! 

Il  guerriero  sclamava  :  e  sospiroso 

Poi  ripeteva  :  ah  non  avrai  più  sposo. 
Ah  tu  adopra  i  consigli,  e  la  preghiera 

Perchè  si  arresti  nell'impresa  via  ! 

Quell'italo  valor  quella  sua  fera  * 

Costanza  ah  tronca  in  sul  fiorir  non  sìa  I 

Cosi  dicea  lo  sconosciuto,  ed  era 

La  sua  favella  addolorata  e  pia. 

La  fanciulla  che  tutta  st  commosse 

Più  e  più  volte  domandò  chi  fosse. 
Mai  di  risposta  e'  non  le  fece  dono 

Finché  son  giunti  del  giardino  appresso. 

Allor  si  volse  mansueto  e  prono 

Alla  fanciulla  con  soave  amplesso. 

Poscia  le  disse:  il  Disinganno  io  sono. 

Disgiungerti  da  me  non  fé  concesso. 

Ove  il  pie  volgerai  languido  e  stanco, 

Io  ti  sarò  perpetuamente  al  fianco. 
La  tua  A  bella  giovinezza  lieta 

Delle  prime  sue  stelle  è  fatta  priva. 

È  infelice  l'amor,  è  senza  meta 

Omai  la  tna  giornata  fuggitiva. 

Ma  ti  resta  nell'alma  mansueta 

Quella  dolcezza  die  dal  cor  deriva. 

Sivista  C.  —  20 


306  BinSTA  OONTBMPOBANSA 

La  coscienza  tua  serena  e  para 
La  punta  del  dolor  farà  men  dura. 

Poi  d'improvviso  dileguò  com'ombra 
0  pari  a  tenue  nebbia  :  ella  rimase 
Tutta  di  duolo  e  di  spavento  ingombra, 
E  più  non  lascia  le  paterne  case  : 
0  se  pur  esce,  un  fitto  vel  ne  adombra 
Le  belle  forme  che  il  pallore  invase: 
Quando  ascolta  che  alfine  il  desiato 
Oggetto  del  suo  amor  è  a  lei  tornato. 

Brillò  di  gioia,  se  lo  strinse  al  seno, 
E  lungamente  stettero  abbracciati. 
Francesco  s'attristò  perchè  il  baleno 
Vide  languir  de*  begli  occhi  turbati. 
T'allegra,  e'  dice,  or  che  al  natio  terreno 
Propiz!  arrideran  prossimi  fati. 
Ella  piena  di  fé,  d'amor,  di  zelo, 
Lo  sguardo  volge  lagrimoso  al  cielo. 

Ma  sempre  nel  pensiero  la  funesta 
Dell'ignoto  l'aspetto  e  la  parola  : 
Né  a  Francesco  giammai  fa  manifesta 
La  cura  che  l'affligge,  e  a  sé  la  invola. 
E  sorride,  e  la  gioia  in  lui  ridesta, 
Che  nulla  quaggiù  tanto  ne  consola 
Come  il  sorriso  della  donna  amata, 
Unico  fiore  in  terra  sventurata. 

Perchè  ascondi  le  crude  ansie  del  core  ? 
Egli  le  dice:  oh  ti  conforta  omai. 
Credi  alla  patria,  alla  virtù,  all'amore  : 
In  gravi  pene  dolorasti  assai. 
Pensa  all'istoria  dell'antico  onore 
Di  questa  Italia,  e  rasserena  i  rai. 
Mira  di  Liberta  Tetereo  fonte 
Dischiuder  l'onde  sue  per  l'orizzonte. 

Che  parli?  rispondea  la  giovinetta: 
Il  tuo  coraggio,  il  patrio  amor  t'illude. 
Vittime  siamo  di  un'iniqua  setta, 
È  fatale  la  nostra  servitude. 
Vano  è  fidarsi  di  una  gente  abietta 
Che  non  prezza  l'amor  né  la  virtude. 
Gli  stessi  amici  ancor  t'inganneranno: 
Ti  graverà  sull'alma  il  disinganno. 


FBANC5BSC0  BURLAMAOOHI  907 

Come  Testremo  accento  proferìa 
Si  fece  smorta  :  ma  a  Francesco  ignota 
Era  viltà,  né  mai  lasciato  avria 

L'opra,  in  cui  l'alma  si  flssava  immota. 

Ogni  difficoltà  lieve  apparla 

Al  suo  pensiero,  e  l'ora  non  remota 

Che  soccorrer  dovea  la  patria  schiava  > 

Con  grandissimo  amore  ei  vagheggiava. 
Festeggiato  venia  nella  natale 

Cittade  industre,  e  per  l'eccelsa  mente 

E  pel  fervido  cor  prodigo  sempre 

Ài  miseri  d'aita  e  di  pietade. 

I  generosi  suoi  gagliardi  sensi 

Commoveano  le  turbe  onde  fu  eletto 

A  capo  del  Comune  :  allor  fea  cerna 

Della  milizia,  e  richiamava  i  duci 

Dei  montanari  validi  di  membra 

E  tenaci  di  cor  :  nella  memoria 

A  tutti  ei  toma  la  promessa  i  giuri 

E  dell'opra  il  solenne  approssimarsi. 

I  suoi  più  cari  egli  trattiene  a  mensa 

E  in  lunghe  veglie,  e  della  patria  il  genio 

Con  intrepida  fronte  e  mesto  sguardo 

In  mezzo  a  lor  s'aggira.  —  I  più  valenti 

Di  Pistoia  e  di  Siena,  i  Fiorentini 

Esuli  arditi  anelavano  il  giorno 

Della  riscossa  al  Medici  imprecando. 

E  per  TEtruria  intera  a  poco  a  poco 

Si  propagava  la  compressa  fiamma, 

E  giungea  nell'Emilia,  e  rinverdia 

In  Roma  gli  assopiti  odii  e  la  speme. 
Contendenti  a  recarsi  entro  le  avare 

Mani,  di  una  fanciulla  orfana  il  censo 

Perchò  a  loro  di  sangue  era  congiunta, 

Duo  presentarsi  :  di  Francesco  il  voto 

Dovea  la  lite  giudicar:  Pissini 

Che  il  segreto  sapea  della  congiura 

Era  Tun  d'essi  :  ei  con  ardor  fea  ressa 

Che  data  la  fanciulla  in  sua  balla, 

Ministro  ei  fosse  de'  suoi  pingui  averi. 

—  L'orme  sante  giammai  della  giustizia 

Non  lascerò  :  sovra  gli  affetti  regna^ 

E  poggia  a  meta  generosa  ed  alta 


308  BinSTA  CONTBMPOBANEA 

Che  ogni  gioia  mortai  vince  d'assai.  — 
Cosi  dicera  Burlamacchi,  ed  ebbe 
Pissini  il  niego.  Violento  l'arse 
Della  vendetta  l'inquieto  spirto, 
E  a  Fiorenza  il  condusse.  —  Era  di  sgherri 
Cinto  Cosmo  e  di  colpe  e  di  paura. 
E  notturne  le  orribili  sembianze 
Delle  vittime  sue  volgeangli  in  tosco 
Tutto  il  dolce  che  vien  dalla  possanza, 
Pur  assassinii  e  stragi  ei  replicava 
Con  assidua  vicenda.  In  cor  sentla 
E  tristezza  ed  orror;  e  sulla  fronte 
Livida  e  nel  rotar  del  bieco  sguardo 
Del  tiranno  apparia  l'anima  atroce. 
Dio  non  concesse  all'uom  die  per  delitti 
Fosse  felice  :  ei  dalla  mente  invano 
Del  passato  cacciar  l'impronta  pnèla. 
Ne' banchetti,  alla  danza,  e  nelle  tresche 
Esso  come  funerea  ombra  lo  insegue. 
Gli  avvelena  le  tazze,  e  il  fa  nei  sonni 
Vacillando  balzar,  che  nelle  fibre 
Scorre  e  nel  sangue  immedicabil  lue 
L'implacato  rimorso.  Il  traditore 
Pissini  accolto  dell'iniquo  duca 
Nei  recessi  svelò  l'ardita  trama 
Del  magnanimo  eroe.  Cosmo  a  gran  pena 
Respirando,  fremeva  e  impallidia. 
Poi  dopo  lungo  e  torbido  silenzio  : 
Forsennato,  sciamò^  colui  che  tenta 
Romane  imprese.  Italia  omai  non  brama 
La  libertà,  ma  i  ceppi.  Esperimento 
A  lungo  fé'  che  sia  l'empia  tregenda 
Di  popolar  governo,  ove  ogni  Ciompo 
Sorge  ed  impera,  ove  alle  Leggi  è  franto 
L'augusto  scettro,  e  ambizione  abietta 
Il  seggio  pone  sull'altrui  mine. 
Corrotti  a  dominar  popoli  imbelli, 
Necessaria  è  la  forza...  oh  questi  pochi 
Che  di  vieti  pensier  nutron  la  mente, 
Torli  tosto  convien  come  dal  campo 
Venenosa  zizzania:  è  ver  che  inorme 
D'ogni  alleanza  a  me  terror  non  reca 
Francesco  Burlamacchi  :  io  non  l'avea 


FBANCESCO  BURLAMACCHI  309 

Nomare  inteso.  Sconsigliato  amico 
Di  Piero  Strozzi  che  giurommi  morte, 
Avrai  la  pena  della  tua  stoltezza  ! 
A  te  mio  difensor  e  dello  Stato 
Degno  premio  darò.  —  Cosi  dicea 
Colui  che  strinse  nelle  mani  il  freno 
Dell'intera  Toscana,  e  di  bugiardo 
Splendor  vesti  la  tirannia.  —  Giungea 
Di  Lucca  ai  magistrati  un  fero  scritto 
Del  signor  di  Fiorenza.  Egli  svelava 
Di  Francesco  la  trama  rampognando 
Lor  trascuranza,  e  la  codarda  e  cieca 
Fiducia,  e  la  nativa  inerzia,  e  il  crasso 
Delle  cose  di  Stato  animo  ignaro.  — 
Del  reo  chiedeva  la  persona  :  è  un  empio, 
Dei  principi  nemico  e  della  Chiesa. 
A  me  fia  consegnato,  e  innanzi  alFalto 
Di  Cesare  cospetto  io  d'ogni  colpa 
Purgherò  la  repubblica.  —  Tremàro 

I  magistrati  al  favellar  del  duca. 

Porre  in  ceppi  Francesco,  e  non  di  Cosmo 
Ma  di  Cesare  darlo  in  signoria 
Fu  statuito.  In  guisa  tal  gli  abietti 
Di  libertà  macchiavano  il  vessillo, 
Ipocriti  gelosi  a  cui  la  patria 
Era  un  palmo  di  terra,  e  s'avean  fatto 
Dio  dell'argento,  paurosi  schiavi 
D'ogni  tiranno,  non  ardian  d'Italia 

II  santo  Home  pronunciar  giammai. 
Non  anco  certo  del  fatai  momento 
Che  cominciata  si  sarìa  l'impresa. 
Mentre  indugiavan  degli  Strozzi  assenti 
Le  risposte,  i  sussidi,  in  dolorosa 
Ansia  Francesco  trapassava  i  giorni^ 
Trapassava  le  notti.  A  lui  repente 
Venne  un  amico  :  sei  tradito,  fuggi. 
Gli  disse  :  tutto  rivelò  Pissini 

Di  Fiorenza  al  tiranno  :  i  magistrati 
Arrestarti  imponean  per  suo  comando. 
Può  sol  la  fuga  a  te  salvar  la  vita.  — 
Cor  devoto  all'Italia,  a  Libertade, 
Non  paventa  di  morte.  A  compier  l'opra 
Duopo  è  ch'io  viva,  e  di  fuggir  m'è  forzai 


310  BIVISTA   CONTBMPORANBA 

Una  città  di  traditori  preda 
E  di  vili  e  d'inrami.  —  Alla  diletta 
Fanciulla  del  suo  cor  volse  il  pensiero, 
E  in  ogni  fibra  si  senti  commosso    ' 
Dall'amor^  dall'angoscia .  Elena  stava 
Inginocchiata  a'  suoi  materni  altari, 
E  quando  lui  mirò  pallido,  ansante, 
Sorse  trepida,  e  fu  per  venir  meno, 
E  tutto  il  sangue  rifiuille  al  core. 
£  qual  trista  vicenda  or  qui  ti  reca? 
Gli  disse  :  io  veggo  nella  tua  sembianza 
Una  cruda  sventura.  —  Esci,  con  tronchi 
Sommessi  accenti,  rispondea  Francesco  : 
Tutto  è  scoperto,  ch*io  mi  tolga  è  forza 
Di  una  vile  repubblica  agli  sgherri. 
La  giovinetta  lo  guardò  ;  represse 
La  tema  naturai  che  le  agitava 
Con  gran  tumulto  la  virginea  mente, 
Abbandonerò  il  tempio,  e  con  serena 
Calma  la  man  gli  strinse,  e  sparsa  il  volto 
Di  bellezza  celeste,  e  i  lumi  ardenti 
Di  sovrumano  intemerato  amore. 
Parca  la  Fede  che  con  dolce  riso 
n  martire  sostenga  al  passo  estremo. 
Cosi  ella  parla  :  della  tua  diletta 
Non  dubitar  :  non  io  la  tua  costanza 
Ammollirò:  noi  fuggiremo  insieme. 
Me  nella  vita  avrai,  me  nella  morte 
Indivisa  compagda.  —  Angelo  mio  ! 
Ei  le  risponde  :  ah  non  sia  mai  ch'io  tragga 
Nel  fiero  abisso  della  mia  sventura. 
Di  tua  soave  giovinezza  il  raggio  ! 
Lascia  che  solo  io  parta,  e  soffra  io  solo 
Del  fato  ì  colpi.  -^  La  gentil  fanciulla 
Gli  cingea  con  le  braccia  il  capo  stanco, 
E  un  bacio  sulle  sue  labhra  imprimendo, 
Oh  come  in  te,  sclamava,  o  mio  Francesco, 
Trasformata  mi  sento!  in  te  respiro. 
In  te  penso  !  in  te  vivo  !  A  che  impedirmi 
Di  seguirti  dovunque?  Io  ne  morrei 
Da  te  lontana  !  Fuggirem  f  la  notte 
Noi  non  dovrà  trovar  fra  queste  mura  : 
Ella  vestissi  di  virili  panni 


FEANCB8G0  BUBLAMACCHI  311 

Le  belle  membra,  e  in  sulla  sera  entrambi 

A  una  porta  giungean  —  passò  la  donna  — - 

Ma  dal  custode  traditor  fu  chiusa 

A  Francesco  l'uscita.  —  Elena  vide 

11  negro  cavalier,  che  d'improvviso 

Con  violenta  man  la  trasse  in  sella 

Del  suo  corsier  che  via  ratto  qual  lampo 

Galoppa,  e  agli  occhi  vigili  dispare 

Delle  attonite  guardie.  In  cotal  guisa 

La  Provvidenza  l'angelo  terreno 

Dai  crudi  artigli  delle  umane  belve 

Con  sollecita  e  pia  cura  involava. 

Ella  gridar  volea,  chiamar  il  dolce 

Diletto  amico,  ma  gemiti  e  grida 

Un  affannoso  spasimar  precluse, 

E  Francesco  restò  come  un  mortale 

Dalla  estrema  speranza  abbandonato. 

Pur  la  forza  dell'alma  in  lui  crescea, 

E  intrepido  sali  rapidamente 

Le  scale  del  Palagio,  ove  a  consulta 

Dei  Rettori  del  loco  il  gregge  stava.  — 
Voi  mi  cercate  per  donarmi  a  Cosmo 

0  al  tiranno  d'Italia.  Ecco  me  stesso 

A  voi  consegno.  La  prigion,  gli  strazi 

Non  prostreranno  della  mia  virtude 

La  fortissima  tempra.  A  me  fia  caro 

Per  la  patria  morir.  Dal  sangue  mio 

A  mille  a  mille  sorgeran  gagliardi 

Vendicatori  in  più  felice  etade 

Quando  diffuso  fia  siccome  fiamma 

L'odio  pel  vile  usurpator  straniero, 

E  della  patria  il  generoso  amore. 

Il  mio  capo  cadrà,  sorrideranno 

Di  Cesare  gli  sdiiavi,  e  in  prima  voi 

Autori  del  mio  fato  ;  e  lungamente 

A  lauta  mensa  vi  godrete  il  tristo 

Servaggio  della  patria  e  il  disonore. 

Da  fallaci  promesse  io  fui  deluso  : 

Solo  mi  trovo  nella  morte.  È  questa 

Per  me  una  gioia  che  sul  capo  mio 

Si  verai  l'omicida  ira  degli  empi. 
Or  ben  pochi  ardiran  pure  una  stilla 

Darmi  di  pianto,  e  l'ossa  mie  macchiate 


312  RIVISTA  CONTBMPOBANBA 

Dalla  salma  saran  dell'assassino. 

Ma  la  incorrotta  storia  ai  venti,  all'acque 

Ripeterà  il  mio  nome,  è  le  commosse 

Genti  in  udirlo  brandiranno  il  ferro 

A  voi  maledicendo,  alla  congrega 

Ipocrita  che  regna  in  Vaticano, 

E  dell'Italia  a  tutti  i  rei  tiranni.  — 

Fu  in  carcere  racchiuso,  e  mai  da  quelle 
Labbra  né  il  nome  degli  amici  suoi 
Fu  pronunciato  e  non  fu  detto  mai 
Il  modo  dell'impresa.  Ahi  lo  perdea 
La  sua  cieca  fiducia  in  alme  vili 
Che  lui  gravàro  per  salvarsi.  Il  vulgo 
Che  un  giorno  lo  plaudia  converse  l'inno 
In  vitupero.  Entro  le  volte  oscure 
Di  una  prigione  il  martire  sereno 
Sue  virtudi  espiava.  I  Reggitori 
Del  Lucchese  governo  il  consegnerò 
Di  Cesare  al  Vicario,  e  trasportato 
Venne  a  Milano.  Dell'Italia  ognora 
A  vicenda  peggior  volgean  le  sorti. 
Trionfavan  le  ree  turbe  di  Spagna 
E  le  alemanne,  e  ribadian  sul  collo 
Delle  italiche  genti  il  duro  giogo. 
Chiuso  al  pensiero  della  sua  grandezza 
In  orgiC;  in  feste  rumorose  il  vulgo 
Gavazzava  ridendo,  e  s'assopìa , 
0  curvo  stava  nell'abietto  fango 
Della  miseria  a  servitù  codarda. 
Ingloriosa  e  squallida  compagna. 
Ed  i  pochi  pensanti  oltre  i  materni 
Monti  per  lidi  inospiti  e  lontani 
Balestrava  l'esiglio,  o  delle  cupe 
Carceri  racchiudean  l'orride  gole. 
E  Tirannia  della  Licenza  a  fianco 
Con  ferro  e  fuoco  disertava  i  campi 
E  le  case^  e  versava  onde  di  sangue. 

Col  zel  fervente  che  avvalora  il  giusto 
Nei  giorni  estremi  della  prova,  il  forte 
Martire  dell'amore  e  della  fede 
Aspettava  il  suo  fato.  A  lui  né  il  ringhio 
Delle  scolte  selvagge  e  non  l'insulto 
De*  togati  carnefici,  né  il  fiero 


FBANCESCO  BURLAMACCHI  313 

Mentito  aspetto  e  lo  esplorar  maligno 
Di  venduto  a'  tiranni  empio  levita 
Abbattevan  lo  spirto.  Egli  godea 
Nel  santo  orgoglio  del  divin  pensiero 
Che  Io  trasse  in  balia  de  sanguinosi 
Ministri  rei  della  giustizia  umana. 
Si  succedono  lenti  e  tristi  i  giorni 
Sempre  uniformi.  Il  prigionier  rassembra 
Navigante  gettato  in  alto  mare 
Ove  sol  regni  incresciosa  calma. 
Né  un  zefiro  le  cupe  onde  commuova. 
Né  l'orrida  quiete  del  naviglio 
Di  procella  s'allegri  alla  speranza. 
Guarda  dalle  vetuste  oscure  sbarre 

I  campi,  i  clivi  del  lombardo  piano, 
E  il  bellissimo  ciel  che  si  profonda 
Incoronato  di  ridenti  stelle, 

E  contempla  le  torri  ed  i  palagi 
Onde  lieta  é  Milan.  e  E  tu  congiunta 
Con  le  amiche  cittadi  all'alemanno 
Spezzasti  la  lorica.  A  mille  a  mille 
Morser  la  polve  gli  oppressori  tuoi. 
E  Federigo  con  ardente  rabbia 
Disperato  pugnò  :  la  lena  affranta 
Sparso  di  sangue  fu  gettato  a  terra. 
Morto  il  disse  la  fama,  onde  gemendo 
Al  falso  annunzio  la  regal  consorte 
Le  gramaglie  vesti.  Tu,  gran  cittade. 
Vendicasti  le  stragi  e  lo  sterminio 
Che  ti  disperde,  e  l'Attila  novello 
Tremò  d'Italia  al  nome.  Or  giaci  preda 
De'  successori  suoi,  ninno  ti  scuote 
Dal  tuo  letargo,  né  il  soffrir  t'incita 
A  rinnovare  il  memorando  esempio. 
Tu  giaci  e  giacerai  per  lunghe  etadi 
Irrisa  allo  straniero.  —  In  questi  accenti 

II  martire  proruppe  e  si  sottrasse 
Alla  vista  del  suol  contaminato, 

E  si  rivolse  meditando  a  Dio. 
Le  lunghe  veglie,  ed  i  digiuni  e  il  vario 
De'  pensieri  perpetuo  avvicendarsi 
Assopirgli  lo  spirto,  e  un  breve  oblio 
Di  refrigerio  a  lui  spargea  le  membra. 


314  RIVISTA  CONTBMPORÀNBA 

Rapito  esser  gli  parve  entro  remota 
Melanconica  landa  ove  fremea 
L'ira  del  vento,  e  spaventose  nubi 
Ingombravano  il  cielo.  Ivi  non  piante^ 
Non  fior  coprian  Tinaridito  suolo 
Vedovo  d'erbe.  Gli  parea  con  moto 
Assiduo  viaggiar,  sicché  il  respiro 
Dai  raddoppiati  aneliti  era  tronco. 
Eppur  correa  correa  finché  ad  un  bivio 
Giunse  ove  stavan  di  diverso  aspetto 
Due  giganti  custodi  in  sul  sentiero. 
L'un  d'essi  rivesUa  di  Cherubino 
L'eteree  forroei  e  risuonava  il  bianco 
Velo  dell'ale  ai  fremiti  del  vento. 
Ma  nel  suo  volto  mansueto  e  caro 
Era  misto  al  gioire  acerbo  duolo 
Che  gli  rigava  d'affannoso  pianto 
Le  bellissime  luci.  Egli  recava 
Palma  vivente  nella  destra,  e  un  divo 
Raggio  d'amor  gli  coloria  la  fronte. 
L'altro  ha  voho  infuocato,  ampie  son  l'ale 
Di  vipistrello,  e  dalla  bocca  immonda 
11  blasfema  prorompe.  Ei  posto  a  guardia 
È  d'un  giardino  ove  recenti  rose 
E  gigli  e  gélsomin  smaltano  il  suolo, 
E  d'amorose  ninfe  un  lieto  coro 
A  voluttade  il  passeggero  invita. 
Questo  che  Dio  cacciò  genio  tremendo 
Entro  la  lava  de'  profondi  abissi 
E  de'  mortali  a  pervertir  la  mente 
Ognor  corre  la  terra,  al  peregrino 
Che  incerto  mira  i  duo  sentier,  s'avventa, 
Per  man  lo  piglia,  e  lo  conduce  in  loco 
Ove  di  mille  fortunate  gioie 
S'offre  la  vista.  Il  più  beato,  esclama. 
De'  mortali  sarai  :  Toro,  le  gemme, 
La  bellezza,  l'amor,  fian  tuoi:  soggette 
Avrai  le  umane  belve,  e  tremeranno 
A  te  dinante,  e  ti  farà  corona 
La  pompa  del  poter.  Lascia  i  pensieri 
Delia  patria  infelice:  é  una  chimèra 
Che  ti  stringe  in  catene.  Omai  confessa 
A  chi  ti  opprime,  die  follie  sognasti. 


PBAN0H800  BURLAMACCHI  315 

I  complici  rivela,  e  accanto  ai  troni 
Starai  seduto,  e  fra  i  più  cari  amici 

Di  Cesare  e  di  Cosmo...  Indietro,  o  vile 
Perfido  genio,  rispondea  France9Co: 
Torna  all'avemo  ove  piombar  ti  fea 

II  fulmine  divino.  Io  non  pavento 

La  scure,  ma  la  colpa.  —  Allor  s'appressa 
L'Angelo  del  martirio,  e  dolcemente 
S*accompagna  a  Francesco  :  il  ciel  s'oscura, 
La  folgor  piomba,  e  dalle  fiamme  avvolto. 
Ululando  il  demon  vinto  si  fugge.  — 
Trista  foriera  del  supremo  giorno 
Che  al  giusto  splenderà,  bella  di  tutti 

I  suoi  fulgóri  comparìa  Taurora. 

E  come  s'introdusse  il  primo  raggio 
Entro  l'orride  volte,  all'improvviso 
Quella  ferale  oscurità  disparve. 
Ed  ecco,  0  dolce  desiata  vista  ! 
Stargli  dinante  la  sembianza  il  guardo 
Della  sua  donna  più  serena  e  lieta 
Di  pria.  L'alloro  le  cingea  la  bionda 
Chioma  scorrente  in  fin  sul  niveo  collo, 
E  sovra  il  petto  die  fervea  d'^^more. 
Era  rosea  la  guancia  e  dealbata 
Della  dolcezza  di  un  celeste  lume 
Che  dal  volto  di  Dio  si  dipartiva. 
Oltre  ogni  umana  qualitàjeggiadro 
Era  il  suo  corpo,  e  procedean  suoi  passi 
Lievi  com'aura  che  lambisce  i  fiori. 
Alla  divina  creatura  innante 
Egli  si  prostra  e  grida  :  ah  sei  pur  dessa  ! 
É  quella,  è  quella  la  soave  forma 
Che  pria  mi  fece  delirar  d'amore! 
Oh...  ma  più  bella  sei,  più  sovrumana. 
Dimmi...  è  giunto  per  me  di  libertade 

II  giorno,  il  giorno  che  saremo  uniti 
Perpetuamente?  Oh  parla  I  Ed  ella  :  oh  alfine 
Ti  riconforta,  disse;  è  pien  di  colpe 

n  mondo  che  abbandoni,  in  breve  assunto 
Sarai  nel  gaudio  etemo...  Io  ti  precessi... 
E  Dio  mi  concedeva  i  tuoi  supremi 
Istanti  consolar.  Oh  (orse  in  cielo, 
Dicea  l'amante,  trasportata  fosti 


316  BIVISTA   CX)NTEMPORANBA 

Vivente  ancora,  o  pur  di  te  non  vedo 
Che  l'ombra?  or  dimmi,  e  gli  scendea  dagli  occhi 
Diffuso  il  pianto,  ove  restò  la  vaga 
Tua  spoglia^  e  qual  sventura  ahimè  t'uccise? 
Ella  inchinava  mestamente  il  volto 
Roseo  al  pallido  volto  del  suo  fido  : 
Di  un  bacio  etereo  ne  sfiorò  le  labbra, 
Ed  ei  senti  la  tenera  carezza | 
E  in  quell'ambrosia  dolce  in  quel  profumo 
Pregustò  il  gaudio  dell'eterna  vita. 
Poi  :  SI  morii,  rispose  quella  Eletta, 
Nella  terra  morii,  ma  vivo  in  cielo. 
E  mi  fu  dato  rivestir  col  volto 
Che  tanto  un  di  ti  piacque  i  sacri  segni 
Che  fan  tremar  la  tirannia.  Rimira  I 
Io  son  la  Libertà  :  questa  è  la  spada 
Da  cui  salvate  sorgeran  le  genti, 
E  l'empio  abbatterà  giogo  straniero 
Che  opprime  Italia.  Il  tuo  sangue  innocente 
Raccolto  in  questo  calice,  alle  sfere 
Votivo  salirà.  —  Cosi  dicendo 
Pose  un'aureola  luminosa  in  capo 
Del  suo  fedele,  e  fiammeggiando  sparve. 
Venner  gli  sgherri  :  si  scagliar  sul  giusto 
Con  sacrileghe  mani,  il  truciderò. 
Esultando  parti  l'anima  grande. 
Ed  a  quella  di  Lei  che  lo  aspettava. 
Con  anelo  desio  si  ricongiunse. 

Pietro  Raffaelli. 


NOTA 


Il  1546,  se  la  fortuna  non  avesse  fallito,  sarebbe  stato  memorabile  alla 
posterità.  Fedelmente  narrerò  la  cosa  come  la  raccolsi  dai  processi  ;  la 
quale  fu  da  Tarii  variamente  narrata.  Francesco  Burlamaccbi ,  d*antica 
nobiltà,  di  alto  ingegno,  cupido  di  gloria,  nel  1544  avea  formato  il  disegno 
di  liberar  la  Toscana.  Questi  leggendo  le  storie  di  Plutarco,  e  meditando 
come  insigni  personaggi ,  Timoleone  ,  Arato  ,  Pelopida  ,  Filopemene  ed 
altri,  con  poche  schiere,  molte  e  grandi  cose  avessero  effettuato ,  ebbe 


FEANCE8C0  BURLAMACCHI  317 

ambizione  di  tentare  eguali  ardimenti,  parendogli  egregio  se  liberata  la 
Toscana,  una  sola  Repubblica  ne  avesse  costituita ,  talché  i  Toscani  fos- 
sero sgombri  di  ogni  guerra  civile  ,  e  invitti  contro  gli  esterni  ;  una  tal 
forma  di  repubblica  gli  antichi  Etruschi  aver  seguitato,  ed  esser  pervenuti 
a  gran  gloria.  Meditando  come  ciò  potesse  farsi,  il  seguente  modo  gli  oc- 
corse alla  mente  :  —  la  cosa  avrebbe  avviamento  scegli  fosse  creato  pre- 
fetto della  milizia  montanara,  che  non  si  avrebbe  dato  sospetto  se  avesse 
chiamato  i  soldati  in  città  sotto  pretesto  di  riconoscerli  e  farne  rivista. 
A  Mozano  si  sarebbero  trovati  1400,  egli  avendo  loro  spediti  sulla  sera, 
li  seguirebbe.  £  venuta  la  notte^  dopo  che  si  fossero  ristorati,  li  condur- 
rebbe al  monte  S.  Giuliano,  comandando  al  capitano  di  Camaiore,  che  in 
un'ora  determinata  venisse  con  sue  schiere  per  le  gole  di  Chiesa  per  con- 
giungersi seco,  ed  ivi  a*  duci  da  lui  corrotti  aprirebbe  l'arcano.  E  men- 
tendo il  nome  del  Senato,  per  la  cui  autorità  e' fingerebbe  di  operare,  sul 
far  della  notte  troverebbesi  a  Pisa ,  e  la  leverebbe  a  libertà.  E  non  dubi- 
tava che  i  cittadini,  per  odio  alla  servitù  eccitati  da  quella  voce,  lo  aiute- 
rebbero. £  sperava  ancora  che  Vincenzo  Poggi,  capitano  della  cittadella  , 
si  sarebbe  a  lui  associato.  Liberata  Pisa,  meditava  di  volare  a  Firenze  per 
opprimere  alla  sprovvista  il  duca:  e  mandate  altre  milizie  a  Pescia  e  a 
Pistoia  eccitare  in  diversi  luoghi  tumulto  e  crescer  terrore.  Era  certo  che 
le  altre  città  avrebbero  seguito  il  moto,  e  i  parenti  degli  esuli  avrebbero 
preso  le  armi ,  e  i  Senesi  avrebbero  recato  soccorsi.  Gli  stessi  Lucchesi 
sarebbero  stati  aiutatori  per  non  sembrare  di  stare  oziosi  in  tanto  incen- 
dio.  —  Tali  disegni  in  cui  v'era  molto  coraggio  e  temerità,  il  Burlamacchi 
aperse  ad  un  uomo  della  plebe,  a  lui  famigliare,  a  Cesare  Benedini,  pratico 
nell'arte  della  guerra.  E  questi  li  disse  ad  Andrea  Pissini,  da  lui  speri- 
mentato fedele.  Ma  il  denaro ,  strumento  d'ogni  impresa ,   mancava.  A 
somministrarlo  stimava  opportuni  gli  esuli  fiorentini,  i  quali  per  amor  di 
patria  e  di  libertà  tutto  opererebbero.   Stabilì  d'abboccarsi  con  Piero  e 
Leone  Strozzi,  figli  di  Filippo,  per  l'odio  che  aveano  contro  gli  oppressori 
per  vendicarsi  della  patria  e  del  padre.  Né  Toccasione  mancò.  A  Lucca 
era  tornato  in  que'  di  da  Marsiglia  Sebastiano  Carletti,  compagno  che  era 
stato  di  Leone,  cavaliere  dell'ordine  di  Rodi,  e  chiamato  Priore  di  Capua 
nei  condurre  l'armata  de'  Turchi.  A  costui,  avendolo  chiamato  a  sé,  quasi 
per  conoscere  i  paesi  e  le  guerre  ove  s'era  trovato ,  6nalmente  comunicò 
il  disegno,  e  sei  procurò  aiutatore  presso  lo  Strozzi,  il  quale  se  avesse 
supplito  venticinque  o  trentamila  fiorini  d'oro  ,  la  cosa  sarebbe  fatta.  Il 
Carletti  in  breve  andò  a  Marsiglia,  e  allo  Strozzi  espose  la  cosa.  Il  quale, 
sebbene  temesse  dell'esito ,  pure  per  sete  di  vendetta  e  per  ira  contro  i 
Medici,  lodato  il  disegno  di  Burlamacchi,  impose  al  Carletti  di  rispondere, 
'  e  confermarlo  nel  suo  proposto,  ma  pria  di  muoversi  esser  d'uopo  un  col- 
loquio. Ma  lo  Strozzi  poco  dipoi  partito  per  l'Inghilterra,  fu  posta  dila- 
zione alla  cosa.  Il  Burlamacchi  intanto  conciliavasi  molti  Pistoiesi,  Fio- 
rentini e  altri.  Aperse  pure  l'arcano  ad  alcuni  Senesi  che  per  le  civili 
discordie  cacciati,  stavano  a  Lucca  esuli.  Erano  essi  Marcello  Linducci, 
Gio.  Battista  Umidi,  Lodovico  Sergardi ,  e  M.  Antonio*  Vecchi,  i  quali 
erano  stati  principali  autori  del  tumulto  di  Siena,  e  per  comando  di  Ce- 
sare proscritti.  Burlamacchi  insinuatosi  nell'animo  loro  •  dopo  vari!  di- 
scorsi ,  gli  aperse  il  proprio  disegno.  L'Umidi  sprezzava  la  cosa  come 
piena  di  pericolo.  Burlamacchi  diceva  che  il  solo  ostacolo  era  Cosimo. 
Il  quale,  poiché  Firenze  fosse  liberata,  potea  compensarsi  con  l'alluo- 
gargli  ventimila  scudi  d'oro  nel  regno  di  Napoli.  Queste  cose  erano  ac- 


818  vBIYlSTA  CONTBMPOItANBA 

colte  come  ciance,  che  mai  oltre  la  lingua  non  ayrebbero  trapassato.  Il 
Carletti  dall'Inghilterra  tornato  in  Lucca,  il  Burlamacchi  sapendo  che  lo 
Strozzi  sarebbe  Tenuto  in  Venezia ,  certo  che  il  tempo  era  opportuno, 
finse  un  viaggio  per  altro  luogo,  e  parti  per  Venezia.  Ivi  col  Priore  par- 
lando, esposto  il  suo  disegno,  ne  riportò  parole  e  speranze ,  chò  ordina» 
togli  di  perseverare  neirimpresa,  gli  disse  che  venendogli  il  destro,  non 
sarebbe  scarso  di  denaro  e  d'aiuti.  Tornato  il  Burlamacchi  a  jLucca,  poco 
dipoi  spedi  a  Venezia  Cesare  Benedini  che  annunciasse  esser  giunto  il 
tempo,  e  ove  indugiassero,  più  non  sarebbe  opportuno,  che  egli  alle  pros- 
sime calende  di  luglio  sarebbe  entrato  facilmente  Anziano.  Frattanto  due 
mesi  utili  si  perdevano,  né  fidava  che  un  tanto  secreto  sarebbesi  tenuto 
a  lungo  nascosto.  Lo  Strozzi  disse  a&oo  imaatttra  la  eota  e  per  FasteaML 
di  Piero  e  per  difetto  di  pecunia,  e  con  tale  risposta  accomiatò  il  Bene* 
èktd.  Frattanto  vennero  le  calende  di  luglio.  £  il  Burlamacchi  andò  a 
palagio,  e  fu  eletto  Anziano  e  in  luogo  del  morto  Baldassarre  Monteca- 
tini, fu  per  la  seconda  volta  creato  gonfaloniere.  In  tal  magistrato, 
morti  i  genitori  di  una  fanciulla  ricchissima,  che  due  fra  i  più  prossimi 
volevano  alimentare  in  propria  casa,  il  Burlamacchi  ignaro  della  sventura 
che  di  ciò  gli  dovea  derivare,  diede  la  sentenza  contro  Andrea  Pissini,  uno 
de' competitori.  Questi  sdegnato  per  l'ingiuria,  determinò  di  vendicarsi 
col  tradimento,  onde  andato  a  Fiorenza,  il  tutto  aperse  a  Cosimo,  da  coi 
liberalmente  fu  accolto  e  premiato ,  e  ritenuto  perchò  non  corresse  peri* 
colo.  Il  Benedini,  inteso  che  Andrea  non  v'era  più,  e  che  a  Firenze  era 
andato,  ammonito  dalla  coscienza  dell'accaduto,  andò  dal  Burlamacchi,  e 
molto  accusandosi  per  aver  fidato  in  nn  traditore,  affermò  che  erano  sco* 
perti  e  traditi.  Il  Burlamacchi ,  attonito  ,  stabili  di  fuggire  ;  ma  il  suo 
grado  gli  ostava,  tanti  essendo  gli  osservatori.  Preso  dal  timore  impose 
al  Benedini  di  uscire  sul  tramonto  dalla  porta  di  s.  Pietro ,  e  aspettarlo. 
S  chiamato  a  sé  un  donzello,  gli  comandò  significasse  al  capo  che  pre* 
siedeva  alla  porta,  non  fosse  chiusa  se  non  fatta' la  notte,  e  se  sul  far 
della  notte  avesse  visto  alcuno  uscire  col  capo  coperto,  non  gl'impedisse 
il  passaggio:  tal  essere  il  comando  del  Principe  e  de' Censori,  ed  esser 
cosa  di  Stato.  L'Umidi  fu  quindi  da  lui  avvisato  a  che  ne  fossero,  e  gli 
mostrò  una  lettera  in  cui  si  attestava  l'innocenza  degli  esuli  senesi,  e  che 
avrebbe  lasciato  nella  sua  stanza.  L'Umidi  temendo  per  sé  e  pei  compagni, 
tutto  riferi  al  segretario  Bonaventura  Barili.  E  con  esso  tornato  in  pa- 
lazzo donde  Burlamacchi  era  partito  per  coprire  la  fuga,  narrò  il  tutto 
agli  Anziani.  Intanto  Burlamacchi  era  giunto  alla  porta ,  ma  come  Dio 
volle ,  poiché  se  fosse  evaso,  la  città  avrebbe  corso  grandi  pericoli,  Baccio, 
franteso  l'ordine  del  principe,  lo  riferi  al  prefetto  in  senso  contrario,  onde 
venuto  alla  porta  col  capo  coperto,  fu  respinto.  Toltagli  tale  speranza, 
il  misero  tornò  a  casa.  £  a  Pietro  e  Nicolò  Burlamacchi,  e  a  Lodovico  che 
per  via  se  gli  era  accompagnato,  aperse  la  propria  calamità,  fissi  lo  rim- 
proverarono di  stoltezza,  perché  con  tal  fatto  la  famiglia  e  la  repubblica 
avesse  minato.  £  poco  dopo  vennero  messi  degli  Anziani  ohe  lo  citavano 
a  palazzo.  £gli,' domandato  se  fossero  vere  le  cose  che  venivano  raccon- 
tate, tutto  per  ordine  confessò,  e  in  quella  notte  fu  custodito  in  palagio 
finché  il  Senato  avesse  provvisto.  Nell'altro  giorno  radunatosi  nella  curia, 
decretò  fosse  chiuso  in  una  torre ,  e  levatogli  il  ferro  perché  contro 
se  stesso  non  potesse  infierire.  E  fu  imposto  al  birre  posto  alla  sua  cu- 
stodia, di  respingere  ogni  cibo  dai  congiunti  spedito,  come  sospetto  di 
veleno,  ed  eletti  sei  giudici  che  col  pretore  e  con  gli  altri  giudici  faces. 


FBANCBSCO  BU^LAMACCHI  319 

sarò  il  processo.  Spediti  ambasciatori  a  Cesare  in  Spagna,  e  in  Milano  a 
Ferrante  Gonzaga  perchè  riferissero  il  fatto  ;  destinato  Gerardo  Macca- 
rini  ad  andare  in  Firenze  per  attestare  al  duca  il  lutto  della  città  e  della 
famigliatane  quali  nulla  apparteneva  la  colpa  dell'uom  temerario.  Ma 
Cosimo  temendo  che  tali  disposizioni  dal  capo  della  repubblica  e  dal  pre- 
fetto militare  non  senza  grave  causa  fossero  prese,  e  che  tal  cosa  larga- 
mente propagata,  molto  riguardasse,  col  mezzo  di  Angelo  Nicolini  suo 
ambasciatore  richiese  il  Burlamacchi  al  Senato  sotto  fedo  che  lo  avrebbe 
restituito  sano  e  salvo  :  poiché  insignito  di  quella  dignità,  e  presso  i  suoi 
difficilmente  avrebbe  confessato  il  vero.  Fu  risposto  al  Legato  che  Bur- 
lamacchi era  tenuto  in  catene  in  nome  di  Cesare,  e  senza  il  suo  comando 
a  ninno  potersi  consegnare,  ma  che,  onde  non  ci  fosse  sospetto  di  frode, 
avrebbero  sofferto  che  venisse  interrogato  dai  suoi  giudici,  presso  il  Que- 
store che  avrebbe  mandato,  senza  che  alcun  cittadino  fosse  presente.  Ma 
Cosimo  ostinatamente  il  chiedeva,  e  i  Padri  intendendo  che  si  trattava 
d*indurlo,  o  per  tormenti  o  con  la  speranza  dell'impunità,  ad  incolpare 
l'innocente  repubblica,  spedirono  uno  sopra  un  altro  ambasciatore  a  Ce- 
sare e  suoi  procuratori  in  Italia  per  allontanare  la  temuta  infamia  e  pe- 
ricolo. E  alnne,  favoriti  da  Granuela,  ottennero  che  Nicolò  Belloni  fosse 
mandato  ad  interrogarlo.  Il  quale  interrogato,  e  acerbamente  toHimito 
perchò  i  complici  pubblicasse,  mai  niuno  nominò  oltre  coloro  de' quali  si 
ò  detto.  £  richiesto  della  causa  che  lo  aveva  spinto  a  tale  pazzia,  niun'al- 
tra  ne  arrecò  tranne  questa,  che  tolte  le  discordie,  santamente  dai  popoli 
si  vivrebbe.  Il  Questore  tornato  a  Milano,  lo  dimostrò  reo  di  morte.  Ma 
arendo  i  Burlamacchi,  con  permesso  del  Senato,  spedito  prima  a  Firenze, 
quindi  in  Milano  Girolamo  Luochesìni ,  loro  parente ,  a  pregar  Cesare 
perchò  la  morte  fosse  rimessa,  attribuendo  li  fallo  anzi  a  vanità  e  pazzia 
che  a  malignità,  Cesare  consenti  se  Cosimo  ratificasse  :  il  quale  con  tal 
condizione  gli  concesse  la  vita,  cioè  che  fosse  in  suo  potere  guardato. 
n  quale  beneficio,  come  insidioso,  essendo  disprezzato  dal  Senato  e  dai 
gentiluomini,  Francesco,  per  comando  di  Cesare,  fu  condotto  nella  rocca 
di  Milano,  e  dopo  un  biennio  decapitato.  Cosi  espiò  il  grande  ma  infe- 
lice tentativo ,  e  con  la  sua  morte  la  repubblica  fu  assoluta.  Bmiuxi , 
An,  Lucchesi,  Lib.  15,  pag.  354  fino  a  364. 

Per  mostrare  come  gli  Annali  del  Benerini  siano  avuti  in  grande  stima 
da  letterati  celebri,  basti  il  dire  che  Pietro  Giordani  tradusse  il  presente 
brano,  e  la  sollevazione  degli  Straccioni.  Nelle  note  al  mio  racconto  in- 
titolato Lodovico  Ariosto  in  Garfagnana ,  ho  tradotto  dal  Benerini  alcune 
cose  importanti  alla  storia,  ed  ho  tenuto  lo  stesso  modo  che  tenni  nel 
tradurre  il  tratto  sul  Burlamacchi. 


320 


RASSEGNA  POLITia 


La  Società  editrice  che  s'impose  per  norma  di  osservare  le  più 
delicate  convenienze,  vuole  che  nei  due  ultimi  fascicoli  deUa  Uhisté 
Contemporanea  di  quest'anno  sia  compiuta  la  stampa  di  quegli  ar- 
ticoli, di  cui  nei  numeri  precedenti  già  si  è  cominciata  la  pubbli- 
cazione. Questa  lodevole  determinazione  ha  tolto  le  pagipe  destinate 
per  la  Rassegna  Politica  ;  peraltro  questa  mancanza  sarà  meno  sen- 
tita ove  si  rifletta  che  nel  corso  di  questo  mese  né  la  quistione  ita- 
liana, nò  quella  greca,  o  Vungarica,  o  la  tedesca,  o  la  polacca,  o 
l'americana,  hanno  progredito  ;  per  lo  contrario  si  è  per  ogni  dove 
più  ingarbugliata,  mentre  è  neccessario  che  facciano  o  l'una  o  l'altre 
un  passo  per  poterne  prevedere  lo  scioglimento. 

Probabilmente,  almeno  per  alcuna  di  esse,  nella  Bassegna  del 
mese  venturo  si  potrà  vaticinare  il  modo  con  cui  potrà  distrigarsi 
questa  cosi  intricata  matassa  ;  in  quella  prenderemo  le  mosse  dal  25 
ottobre  per  cosi  rimediare  alla  mancanza  di  essa  nel  numero  presente. 


G.  Vbgbzzi-Ruscalla. 


APPENDICE  AL  FASCICOLO  DI  NOVEMBRE 


OSSERVAZIONI 

all'articolo 

LO    SCARICATOIO    DI    CLAUDIO 

del  Big.  L.  DE  LA  VARENNE 

inserito  nel  fascicolo  di  Ottobre  della  Rivista  Contemporanea 

AL  DIRETTORE  DELLA  RIVISTA 

La  geatilezza  colla  quale  accoglieste  le  reclamazioni  verbali  fattevi  intorno  all'articolo  sullo  Scaricatoio  di  Clau- 
dio, Interramento  del  lago  Fucino,  pubblicato  neirultìmo  numero  della  pregievolissima  Rivista,  m'inanimisce  a  pre- 
garvi d'inserire  le  seguenti  rettificazioni  necessarie  a  dissipare  i  molti  errori  che  sono  in  esso  e  che  potrebbero  fuorviare 
su  questo  proposito  la  pubblica  opinione. 

Osserverò  innanzi  tutto  che  quell'articolo  non  è  uno  studio  di  chi  lo  sottoscrisse,  ma  semplicemente  una  compila- 
zione iatia  senza  cura,  intomo  alla  quale  nulla  ridirei  (abbenchè  ne  avrei  tutti  i  diritti),  se  non  avesse  avuto  l'autore 
l'infelice  idea  di  aggiungervi  supposti  particolari  d'istoria  contemporanea  sui  primordii  della  società  di  prosciugamento, 
che  sono  immaginarii  nella  forma  e  nel  fondo. 

Il  compilatore  mi  tribuisce  elogi  che  vorrei  meritarmi  e  mi  riconosce  meriti  ch'io  bramerei  avere,  e  quantunque  io 
lo  ringrazii  dell'opinione  troppo  favorevole  che  mostra  aver  di  me,  non  posso  far  a  meno  di  far  notare  che  attribuen- 
domi ciò  che  non  m'appartiene,  non  mi  dà  quello  che  mi  spetta  di  diritto,  ciò  che  costituisce,  e  che  egli  chiama  con 
cert'enfasi  la  parte  tecnica  e/i  un  po'  arida  dei  lavori  di  cui  pretende  fare  la  descrizione. 

Quella  parte  tecnica  è  copia  e  riproduzione  letterale  di  due  note  pubblicate  da  lui,  una  nel  1853  l'altra  nei 
1861,  e  fatte  con  due  fini  affatto  diversi.  In  quella  del  1858  da  lui  riprodotta,  non  ebbe  cura  di  sopprimere  cose  che 
non  hanno  più  sorta  di  senso  in  codesta  riproduzione,  né  di  correggere  frasi  al  futuro  perchè  relative  ad  opere  ancora 
da  farsi  quando  scrìssi  la  suddetta  nota,  ma  interamente  terminati  ora  ch'egli  la  ristampò.  La  giustizia  e  le  conve- 
nienze imponevano  perciò  al  compilatore  il  dovere  dì  imitare  l'esempio  ch'io  gli  dava  e  ch'egli  ha  fedehnente  copiato 
come  tutto  il  rìmanente  ;  Queste  misure  furono  da  noi  prese  e  copiate  sul  piano  tracciato  nel  1835  dall'ingegnere 
del  Governo  A  fan  de  Rivera,  o  ch'avesse  dichiarato  spettarmi  tutto  il  rìmanente. 

Siffatto  uso  senza  discernimento  di  documenti  pnbbhcati  gli  uni  nel  1853  gli  altri  nel  1861,  condusse  a  ripetere 
cose  con  che  si  reputavano  esatte  nel  1853,  ma  non  riconosciute  per  tali  nel  1862. 

Diffatti  nel  1853  io  non  conosceva  il  lago  Fucino  e  l'emissario  di  Claudio,  se  non  che  dai  lavori  del  commendatore 
Alan  di  Rivera  e  dal  piano  su  piccola  scala  che  li  accompagnava.  Io  aveva  appena  passato  qualche  giorno  sulla  faccia 
del  luogo,  l'emissario  era  inaccessibile  in  quasi  tutta  la  sua  lunghezza.  Di  più  io  non  mi  ero  proposto  di  fere  un  lavoro 
né  storico  né  tecnico,  ma  soltanto  di  riunire  tutti  i  dati  per  far  conoscere  il  più  esattamente  possibile  la  natura  dei  la- 
vori da  Carsi  per  procurare  offerte  d'intraprendere  una  si  grand'opera.  ' 

La  Compagnia  non  aveva  ancora  intrapreso  verun  studio,  opperò  io  avevo  molta  cura  di  dire  da  quali  persone  io 
aveva  avuto  le  informazioni.  In  allora  prima  di  hr  gli  studii  dissi  che  l'emissario  aveva  5,660  metri  di  lunghezza  ; 
nel  1861  ne  riconobbi  5,679  m.,  56. 

Se  il  compilatore  fosse  stato  più  chiaroveggente,  non  avrebbe  data,  come  fece  nel  1862,  le  due  lunghezze  nello 


stesso  articolo  od  almeno  avrebbe  spiegato  il  perchè  delle  discordanze.  Ma  ciò  era  cosa  impossibile  a  lui,  non  sapendo 
di  ciò,  né  il  perchè,  né  la  causa.  Ebbe  inoltre  torto  marcio  di  ripetere  che  il  principio  dell'emissario  è  a  oriente  d*A- 
vezzano,  mentre  è  ad  austro^  e  l'emissario  ò  tutto  diretto  ad  occidente. 

Non  avrebbe  del  pari  dovuto  ripetere  ciò  ch'io  dissi  allora  stando  ad  Afan  de  Rivera,  che  i  pozzi  Romani  erano  in 
numero  di  32,  giacché  quanti  seguirono  queMavtri,  da  lungo  tempo  sanno  ch'erano  34  per  lo  meno,  forse  35 
e  anche  maggiori.  Nel  1853  io  diceva  con  poca  precisione  che  la  superficie  del  lago  era  al  presente  di  ettari 
1 4,  550.  Non  avrei  dovuto  dire  la  superficie  del  lago,  bensì  Testensione  della  concessione  ;  cosa  affatto  diversa,  perchè 
già  in  quell'epoca  la  superficie  del  lago  era  più  grande.  Se  non  avesse  testualmente  copiato,  scrivendo  nel  1862  uà 
articolo  scritto  assai  anteriormente .  dandogli  un'apparenza  di  attualità,  avrebbe  dovuto  sapere  che  la  triangolazione 
del  lago  ed  il  piano  furono  fatti  colla  più  scrupolosa  esattezza  nel  1860,  da  cui  risultò  essere  allora  la  superficie 
delia  conca  lacustre  di  15,792  e.  91  o.  Questo  particolare  non  è  di  poco  rilievo,  perché  il  piano  e  questa  misura 
furono  i  primi  ad  essere  stabiliti  in  modo  preciso  dopo  il  1835,  e  il  lago,  come  sanno  tutti,  si  ampliò  durante  questo 
periodo  di  9  m.  12. 

Insomma,  senza  falsificare  la  verità,  quando  si  conoscono  seriamente  i  lavori  del  prosciugamento  del  Fucino,  non 
si  può  ridire  nel  1862  ciò  ch'io  dissi  nel  1853  dietro  Afan  de  Rivera,  cioè  che  la  contrada  8d)bondava  in  materiali  di 
ogni  sorta  ed  in  operai  abili  in  ogni  maniera  di  lavori.  Una  triste  esperienza  dimostrò  l'errore  di  siffatte  informazioni. 
La  mancanza  di  una  grande  quantità  di  materiali  utili  e  di  esperti  operai  in  questo  genere  di  lavori,  la  gran  difficoltà 
di  procurarsi  gli  uni  e  il  difetto  degli  altri  in  quel  paese  quasi  privo  di  mezzi  di  comunicazione,  hanno  singolarmente 
aggravato  la  spesa  di  questa  colossale  intrapresa ,  e  furono  causa  di  molti  e  gravi  incagli ,  vinti  soltanto  a  prezzo  di 
penosissimi  sforzi  e  di  gravi  sagrifizi  pecuniarii  per  trarre  dall'estero  il  personale  dirigente,  gli  operai,  gli  stru- 
menti, le  macchine,  i  carri  e  persino  le  bardature  dei  cavalli  e  gli  uomini  per  condurli  e  fare  i  trasporti. 

Dopo  aver  copiato  senza  cambiar  sillaba  tutta  la  mia  nota  dei  1853,  senza  correggere  uuo  degli  errori  in  cui  caddi 
sui  lavori  presenti,  sulle  misure  e  sulla  valutazione  delle  terre,  l'autore  della  compilazione  mi  abbandona  per  poco 
onde  copiare  da  Giorgio  Sand  la  descrizione  degli  Abbruzzi,  poi  ritorna  subito  a  me  e  termina  di  copiare  la  mìa 
nota  del  1853,  e  senz'altro,  colle  seguenti  tre  parole  Per  tal  modo,  rappicca  questa  nota  alla  mia  Memoria  del 
186i ,  che  ripete  con  altrettanta  esattezza  e  fedeltà.  In  questa  parte  almeno  le  misure  ed  i  dati  sono  esatti,  perchè 
furono  i  risultati  dei  nostri  lavori.  Se  facciamo  il  riassunto  dell'articolo  summentovato,  lo  vedremo  composto  di  26 
pagine  e  mezza,  di  cui  3  tolte  a  Giorgio  Sand,  14  spettano  a  me,  e- due  o  tre  a  tutti  razzolate  in  dizionarii  storici  e 
geografici,  una  pagina  e  mezza  poi  di  racconti  dell'inaugurazione  dell'emissario  sono  cavate  dai  giornali  di  Napoli  ;  una 
mezza  pagina  è  presa  dalla  traduzione  di  Tacito  fatta  dal  Davanzati,  totale  22  pagine  su  26  e  li2.  Restano  4  pagine  e 
mezza  che  sono  di  tutta. proprietà  del  compilatore,  e  queste  nessuno  certamente  vorrà  contestargliele  ,  ma  contro 
queste  io  debbo  altamente  protestare  perchè  calunniano,  però  senza  nominarli,  uomini  onorevoli,  e  diffamano  una 
Compagnia  degna  di  tutto  rispetto  e  beffeggiano  cose  rispettabili:  tutto  ciò  sotto  pretesto  di  dare  un  breve  cenno  ed 
una  pagina  inedita  degP intrighi  delVex  reame  di  Napoli. 

Ristarò  dal  far  osservare  la  sconvenienza  colla  quale  pretende  dare  ra^uagli  intimi  sul  principe  di  Torlonia,  che  i 
lettori  della  Rivista  ne  avranno  di  subito  fatta  severa  giustizia.  Il  discorso  triviale  ch'egli  fa  tenere  col  ministro  Pe- 
ruzzi  non  può  idearsi  se  non  da  chi  per  educazione  non  può  stare  coi  due  onorevoli  interlocutori.  Ciò  malgrado  io  nego 
ricisamente  quanto  è  detto  in  queste  poche  pagine  intomo  alla  vergognosa  origine  che  si  dà  alla  concessione,  aUa  ridi- 
dicola  e  criminosa  condotta  che  si  attribuisce  ai  primi  amministratori  della  Società,  e  dico  altamente  che  quanto  vi 
si  dice  del  principe,  del  sig.  di  Montricher  e  del  direttore  della  Compagnia  le  sono  villane  invenzioni  del  compilatore. 

La  concessione  pel  prosciugamento  del  lago  Fucino  fu  fatta  dal  re  Ferdinando  \l.  non  ad  alcuni  stranieri  per 
rimeritare  segreti  e  sinistri  servigi,  ma  bensì  ad  una  Società  anonima  napoletana  rappresentata  dal  principe  di  Cam- 
poreale,  dal  marchese  Gcerale,  amministratori  delegati  della  Compagnia  della  quale  era  presidente  il  principe  A.  Tor- 
lonia come  principale  fondatore,  congiuntamente  ai  signori  Degas  padre  e  figlio  banchieri  a  Napoli  Pubblici  atti  fanno 
di  ciò  fede.  Il  principe  essendo  uno  dei  fondatori  della  Società,  è  assurdo  il  dire  che  il  direttore  solleticò  la  sua 
ambizione  di  associarsi  ad  opera  degna  dell'antica  Roma,  per  farlo  entrare  in  tale  Società  ch'egli  concorse  potente- 
mente a  formare.  Prima  bassi  a  fondare  poi  a  dirigere  ciò  che  si  è  fondato,  quindi  il  fondatore  precede  il  direttore, 
ciò  è  chiaro  anche  ai  fanciulli. 

Falsissima  del  pari  è  l'asserzione  della  istituzione  di  consiglio  qualunque,  oltre  quello  di  amministrazione  ordinata 
dalla  legge  per  tutte  le  Società  anonime.  I  consigli  di  direzione,  i  direttori  del  contenrioso  e  tutta  la  sequela  d'impie- 
gati di  cui  egli  parla  non  hanno  mai  esistito  se  non  nel  cervello  del  compilatore  dell'articolo.  Giammai  la  Compa- 


gnia  ebbe  altri  impiegati  salariati  dalla  sua  amministrazione  a  Napoli  olire  ad  un  direttore,  un  contabile,  un  commesso, 
e  ad  Avezzano  un  agente,  in  tutto  soli  quattro.  Mai  nessun  membro  del  Consiglio  di  amministrazione  ebbe  stipendio 
né  indenoità  pei  giorni  di  presenza,  malgrado  l'assiduità  con  cui  ognuno  adempì  agli  assunti  oneri.  Ha  quindi  bassa- 
mente calunniato  dicendo:  e  Fra  stipetidii,  indennilà  ed  assegni  di  presenta  ciascun  amministratore  s'era  fatto  un 
grasso  appanaggio  e  se  ne  stava  in  panciolle  », 

In  ognuno  dei  più  minuti  particolari  in  cui  entra  Tautore  per  far  credere  alla  sua  intiera  conoscenza  del  lavoro, 
tutto  è  inesatto.  Cosi  egli  pone  il  seggio  della  Società  alla  sua  orìgine  in  piazza  Medina,  N<»  61,  mentre  era  al  banco 
dei  signori  Degas  padre  e  figlio  di  dove  fu  poi  trasportato  dall'incaricato  per  procura  del  principe  nella  casa  e  vicino 
aU'ufficio  del  suo  corrispondente  in  Napoli. 

Lascio  al  buon  senso  dell'universale  a  giudicare  il  valore  delle  ragioni  date  per  ispiegare  l'acquisto  di  tutte  le  azioni 
della  Compagnia  dal  Prìncipe,  egli  dice  ciò  essere  successo  perchè  Ferdinando  II  poteva  a  suo  capriccio  togliere  l<* 
concessione  alla  Compagnia.  Ove  ciò  fosse  stato  vero ,  lungi  dal  consigliare  l'acquisto ,  avrebbe  indotto  a  vendere 
tutte  le  azioni  per  non  esporre  i  proprìi  capitali  ai  capricci  di  un  sovrano. 

Per  ultimo,  non  so  dove  l'autore  abbia  pescate  le  cifre  ch'egli  assegna  alle  spese  dell'intrapresa,  alle  emissioni  di 
azioni,  alle  transazioni  del  principe,  ma  dichiaro  che  sono  tutte  erronee  e  che  questi  pretesi  dati  storìci  non  hanno 
ombra  di  venta,  come  non  hanno  quasi  mai  senso  comune.  Ora  quando  si  scrìve  per  un  pubblico  rispettabile  bisogna 
saper  rispettare.  Debito  dello  scrìttore  conscienzioso  è  di  rendere  ad  ognuno  ciò  che  di  giustizia  gli  si  deve.  Questo 
principio  fu  trascurato  dal  compilatore  dell'artictlo  intitolato  Dello  scaricatoio  di  Claudio. 

Temendo  di  essere  di  troppo  prolisso ,  intralascio  dil  raddrizzare  gli  errori  di  minor  importanza  ;  e  se  ciò  non 
ostante  queste  mie  rettificazioni  vi  parranno  soverchiamente  lunghe ,  non  dovete  dame  carìco  a  me ,  sì  all'autore 
della  compilazione. 

Checché  ne  sia,  signor  Direttore,  vi  prego  di  aggradire  i  miei  rìngraziamenti  anticipati  e  i  sensi  della  mia  distin- 
tissima considerazione. 

Torino,  15  novembre  1862. 

Vostro  devotissimo  Leon  de  Rotrou. 


321 


LA  PENimA  SLAVO-ELLENICA 


STUI>II     STAXISTIOI 


11  principio  cristiano  che  ormai  ha  trionfato  nelle  istituzioni 
civili  dell'Europa  occidentale^  e  che  sta  per  attuarsi^  attraverso  gli 
sforzi  di  un  dolorosissimo  parto  ^  nel  diritto  pubblico  interno  non 
meno  che  nelle  relazioni  internazionali  degli  Stati  che  la  compon- 
gono, è  tuttora  una  lettera  morta  per  una  gran  parte  dell'Oriente, 
dove  pure  riportò  le  sue  prime  vittorie,  e  donde,  circondato  dal- 
l'aureola della  scienza  e  dell'arte,  ha  spiccato  il  volo  per  estendere 
il  suo  dominio  sull'Occidente.  Ognuno  intende  che  noi  vogliamo 
discorrere  di  quel  lembo  dell'Oriente  che  spazia  da  ambi  i  versanti 
dell'Emo,  ed  è  bagnato  dal  mar  Nero,  dal  mar  di  Marmara,  dal- 
l'Egeo e  dall'Adriatico.  Certo  l'emancipatrice  forza  del  cristiane- 
simo alleato  alla  civiltà  ha  operato  anche  colà  meraviglie  in  questo 
mezzo  secolo,  e  Grecia,  Serbia  e  Rumania  risorte,  e  il  Montenegro 
indomato  e  indomabile  ne  fanno  fede.  Ma  non  è  men  vero  che  il 
compito  è  appena  a  mezz'opra,  e  che  dal  petto  di  ben  sette  milioni 
di  Slavi  e  di  un  milione  di  Greci,  a  tacere  delle  minori  stirpi, 
scoppia  ad  ogni  tratto  un  grido  di  dolore,  che  la  diplomazia  eu- 
ropea non  potrà  a  lungo  soflbcare ,  e  che  spremuto  da  secolari 
martiri!,  anela  alla  riscossa  deirasialica  barbarie  e  al  trionfo  della 
Croce  e  della  civiltà  che  n'è  inseparabile.  Noi  crediamo  che  l'Occi- 
dente, il  quale  sta  raddrizzando  vecchie  ingiustizie  in  casa  propria, 
non  vi  resterà  a  lungo  sordo,  e  che  non  lascierà  compiere  il  secolo 
che  ha  varcato  mezzo  il  suo  corso,  e  lo  fa  ad  ogni  momento  va- 
cillare sui  cardini,  esponendolo  ad  una  conflagrazione  generale. 

Lasciando  all'avvenire  la  cura  di  sciogliere  pacificamente  o  vio- 
lentemente questo  nodo  gordiano  della  politica  europea,  è  certo 
che  fra'  mezzi  più  legittimi,  tranquilli  ed  efficaci  di  affrettarne  la 
soluzione  è  quello  di  richiamare  l'attenzione  degli  uomini  di  vaglia 
degli  Stati  più  civili,  i  quali  professano  sincero  culto  alla  libertà, 
SipUta  C.  -  31 


322  RIVISTA  CONTBMPORÀNBA 

ed  hanno  ferma  fede  nella  fraterna  solidarietà  che  lega  le  sortì 
civili  ed  economiche  di  tutti  i  popoli  su  quelle  regioni  infelicissime 
dell'Oriente  a  noi  contermine,  nelle  quali  non  si  sa  se  più  la  na- 
tura abbia  largheggiato  de' suoi  doni ,  o  se  la  gente  che  tuttora 
sovr'esse  esercita  il  dominio  del  ferro  e  del  fuoco,  abbia  più  fatto 
per  renderli  inani. 

Fare  quanto  sta  nelle  minime  forze  nostre  per  attrarre  Tinte- 
resse  e  la  commiserazione  dell'Europa  civile  su  quella  porzione 
de'  nostri  fratelli  slavi  che  gemono  nell'oppressione  al  di  là  della 
Dinara,  e  su  quella  nobilissima  schiatta  greca  che  ha  con  essi  co- 
munanza di  sventure,  affinità  di  costumi  e  di  fisionomia  morale, 
procurar  a  tal  fine  di  conoscere  e  far  conoscere  le  condizioni  eco- 
nomiche e  civili  di  queste  due  razze^  le  quali  attingono  alle  me- 
morie delle  lotte  per  la  fede  e  per  la  nazione  da  oltre  a  quattro 
secoli  sostenute ,  la  fede  incrollabile  in  un  avvenire  che  la  loro 
concordia  potrà  sola  affrettare,  crediamo  debito ,  non  sappiamo  se 
pili  cristiano  o  patriotico ,  della  nuova  generazione  degli  Slavi  di 
Dalmazia,  i  quali  non  abbiano  concentrato  i  loro  affetti,  e  collo- 
cato il  loro  ideale  entro  le  muraglie  cinesi  della  dalmata  autonomia. 

A  sdebitarci  possibilmente  da  quest'obbligo,  ci  siamo  posti  a 
delineare  questi  cenni  statistici  sulla  penisola  slavo-ellenica,  se- 
guendo le  traccie  dTuh  coscienzioso,  paziente  e  completo  lavoro 
del  barone  di  Reden  sulla  Turchia  e  sulla  Grecia  (i),  il  quale  fu 


mi 

del  ba 


Turchia  e  Grecia  nel  loro  potenziale  sviluppo^  schizzo  storico-statistico 
barone  Federico  di  Reden.  Francoforte  sul  Meno,  presso  Carlo  Teo- 
doro Yòlker ,  2  voi.  stampati  negli  anni  1854  e  1856.  Il  barone  Reden 
nacque  nel  1804  a  Wendling-hausen,  nel  principato  di  Lippa  Desmold,  e 
fermò  la  sua  dimora  nel  regno  di  Annover.  Elettovi  deputato  per  la  Cad- 
merà de' Deputati,  contribuì  alla  redazione  della  liberale  costituzione  del 
1833 ,  ed  entrò  nel  1834  come  sef^retario  generale  del  ministero  delle 
finanze.  Nel  1839,  quando  il  nuovo  re  Ernesto  Augusto  rovesciò  lo  Sta- 
tuto, egli  diede  la  sua  dimissione.  Nel  1843  il  ministero  degli  affari  esteri 
del  re  di  Prussia  lo  chiamò  a  far  parte  della  sua  amministrazione.  Nel 
1848  fu  mandato  a  Francoforte  dalla  Camera  di  Annover  quale  deputato 
per  rAssemblea  Nazionale.  Sciolta  questa ,  egli  continuò  ad  abitare  a 
Francoforte,  tutto  intento  agli  studii  di  statistica,  ne*  quali  s'era  acquistato 
una  riputazione  europea.  Si  annoverano  fra  le  sue  opere  più  celebrate  : 
Geografia  aenerale  comparata  del  commercio  e  deìV industria — §tati8tica  com* 
parata  delle  grandi  potenze  delVEuropa  —  Statistica  finanziaria  generale  e 
comparata.  Egli  ebbe  a  fare  diversi  viaggi  scientifici  che  ^li  procurarono 
il  mezzo  di  raccogliere  una  scelta  di  documenti  statistici  senza  para^- 
gone.  Queste  notizie  valgano  ad  accrescere  autorità  ai  dati  che  saremo 
per  esporre  sulTOriente.  L'illustre  statista  mori  nel  1860,  se  ben  mi 
ricordo  (*). 

{*)  Avremmo  voluto  che  l'autore  di  questarticolo  avesse  consaltato 
l'Etno^afia  della  Turchia  europea  di  Lelejan  inserita  nelle  Geograph, 
Mitthetlungen  di  Petermann  (Gotha  1863)  per  essere  le  anagrafi  raccolte  da 
Lelejan  negli  anni  1856  e  57,  epperò  posteriori  a  quelle  di  Reden  (V-R.). 


LA  PBNISOLl  SLAYO-BLLXNICA  233 

de'  più  delti  e  diligenti  cultori  di  statistica  della  Germania;  ed  ebbe 
a  sua  disposizione,  nel  comporre  Topera  da  noi  citala,  gli  scritti 
più  accreditati  e  più  recenti  che  siansi  pubblicati  da  un  secolo  in 
Europa  suirOrìente.  Ci  gode  poi  l'animo  di  poterlo  studiare  colla 
guida  di  uà  dotto,  onesto  e  spassionalo  tedesco,  poiché  i  dati  che 
ne  offre,  e  i  giadìsii  che  esprime  sulla  penisola  de' Balcani,  e  sulle 
ODBdizioiii  economiche  e  civili  delle  razze  che  l'abitano,  portano 
rimproiUt  di  una  sincerità  e  imparzialità  rara^  ed  hanno  un  par- 
ticolare valore  che  le  più  appassionate  elucubrazioni  francesi  e  in- 
glesi BOB  potrebbero  avere. 

E  ci  siamo  iBdotti  a  fare  questo  lavoro  di  carità  e  pazienza 
(ch'altro  merito  noi  bob  vogliamo  rivendicare)  perchè  crediamo 
che,  anziché  mostrarci  grati  all'Italia  per  la  coltara  che  in  gran 
parte  le  dobbiamo,  col  servircene  per  ribadire  il  servaggio  morale 
del  nostro  popolo^  e  precludergli  la  via  a  più  degno  e  libero  avve- 
nire, noi  adempiremo  assai  meglio  l'obbligo  della  riconoscenza 
verso  dì  lei ,  adoperandoci  a  farle  conoscere  questo  lembo  del- 
rOrieBte  su  cui  essa  ha  mietuto  pel  passato  tante  glorie,  ed  ai  cui 
destini  economici  e  civili  essa  non  rimarrà  estranea  per  lungo 
tempo.  E  un  altro  motivo  a  ciò  ne  mosse,  che  con  quel  dolore  non 
scevro  di  compiacenza  che  é  proprio  di  un  necessario  sacrifizio, 
qui  dobbiamo  accennare.  L'Oriente  é  pure  la  terra  promessa  ai 
padri  nostri;  noi,  giunti  al  mezzo  del  cammino  di  nostra  vita^  non 
possiamo  che  mirarla  da  lungi ,  avendo  fatto  troppo  poco  per  la 
nasioBè,  onde  meritare  di  arrivarvi.  Ma  il  tempo  perduto  per  colpa 
Bostra  ed  altrui  possiamo  in  parte  riacquistare,  additandola  alla 
nuova  gtBerazioBe,  nel  cui  cuore  non  peranco  avvizzito  dalle  abi- 
todini  del  servaggio ,  si  deve  fondare  l'edifizio  della  patria  rina- 
sceBle>  e  iBsqpiaBdole  che  la  fede>  la  scienza  e  l'amore  le  condur- 
raBBO  colà  dove  a  aoi  non  fu  dato  che  gittare  alla  sfuggita  uno 
sguardo. 

Postura  geografica 

Lia  pettisola  slavo-èlle&ica  abbraccia  politicamente  la  Turchia 
europea  cogli  Slati  a  lei  vassalli  di  nome  della  Serbia  e  Rumania, 
e  il  regno  di  Grecia,  ed  é  una  delle  tre  grandi  penisole  lanciate 
sul  MedtterruBeo,  che  per  meravigliosa  postura,  fecondità  di  suolo, 
genio  e  vigor  naturale  delle  razze  die  l'abitano  può  misurarsi 
colla  peni^  iberica  e  cOH'ilalica. 

Prendendo  particolarmente  a  considerare  le  due  grandi  sezioni 
politicfae  in  cui  si  divide,  diremo  che  la  Turchia  europea  é  collo- 


324  RIVISTA  CONTBMPOBANBA 

cala  fra  il  38o  y^  e  il  48°  di  latiludine,  il  33o  */,  e  4>  V2  di  lon- 
gitudine, e  confina  verso  il  nord  e  il  nord-ovest  da  Czernowicz  fino 
a  Cattare  per  una  lunghezza  di  315  m.  g.  q.  coll'impero  d'Austria, 
verso  l'ovest  da  Cattare  fino  a  Prevesa  per  72  miglia  di  costa  col 
mare  Adriatico  e  Jonio,  verso  il  sud  fra  i  golfi  d'Arta  e  di  Volo  per 
23  miglia  colla  Grecia,  e  nuovamente  per  145  miglia  di  costa  col 
mare  Egeo,  e  per  43  col  mar  di  Marmara,  e  finalmente  verso  l'est 
col  mar  Nero  per  102  miglia,  e  colla  Russia  dalle  foci  del  Danubio 
a  Czernowicz  per  92  miglia.  Da  qui  si  scorge  che  la  Turchia  eu- 
ropea ha  362  miglia  di  confine  marittimo  e  430  di  confine  terrestre, 
delle  quali  180  di  fiumi  navigabili,  come  il  Danubio,  la  Sa  va  e  il 
Pruth,  circostanza  rimarchevolissima  che  rende  il  paese  accessibile 
ai  commerci  ed  alla  civiltà. 

La  Grecia  indipendente  cosi  come  venne  coartata  e  immiserita 
dalla  diplomazia  europea  del  1830,  che  volle  farne  unente  politico 
non  vitale,  è  posta  fra  il  36o  e  il  39*»  di  latitudine,  il  38o  e  il  44*  di 
longitudine,  e  confina  da  tre  parti  per  una  costa  lunga  205  miglia 
col  mare  Jonio  ,  col  Mediterraneo  e  colF Arcipelago ,  mentre  dal 
nord  per  23  miglia  confina  colla  Turchia. 

«  Agli  occhi  del  geologo,  osserva  Cyprien  Robert  descrivendo 
la  penisola  che  formò  soggetto  de' suoi  studii  (1),  questa  regione 
non  presenta  che  un  caos  di  montagne,  le  quali  s'incrociano  senza 
direzione,  senza  una  ordinata  catena,  e  che  per  una  singolare  ec- 
cezione invece  di  sollevare  le  loro  vette  nel  centro  del  paese, 
l'ergono  alla  frontiera  presso  l'Adriatico  e  il  Danubio,  sull'Arcipe- 
lago. Le  valli  di  questi  monti  che  sboccano  tutte  nell'interno  della 
penisola ,  possono  in  questi  punti  diversi  essere  ermeticamente 
chiuse  all'artiglieria  e  alle  armate  straniere.  I  meandri  agghiac- 
ciati della  catena  albanese  chiamati  dagli  antichi  Albii  0  Albani, 
donde  forse  le  Alpi  presero  il  loro  nome,  si  avvallano  verso  il 
nord-est,  è  seguono  la  Sava  sino  al  Danubio,  dove  si  frastagliano 
in  diramazioni  innumerevoli  che  formano  la  Serbia  e  la  Bulgaria 
occidentale.  Una  di  queste  catene  sembra  che  abbia  raggiunto  i 
Carpazii  al  di  làdell'Istro,  e  sbarrato  un  tempo  presso  Orsova  il 
Danubio,  il  quale  spezzando  queste  roccie ,  ha  formato  le  famose 
cateratte  della  Porta  di  ferro.  Queste  montagne,  tutte  dirupate  e 
coronate  di  alte  foreste,  sono  i  Balcani,  l'antico  Emo.  Esse  deli- 
neano la  valle  danubiana,  costeggiano  il  mar  Nero  coi  loro  bastioni 
a  picco,  separano  la  Bulgaria  dalla  Tracia,  e  attraverso  questa  pro- 
vincia projettano  fino  al  Bosforo  e  ai  Dardanelli  diramazioni  di  col- 
line chiamate  altra  volta  Dardaniche.  Tutti  i  monti  collocati  al  nord 

(1)  Les  Slaves  en  Turquie,  voi.  I,  p.  10-15,  passim  (Paris,  Passard  1852). 


LA  PENISOLA  SLAVO- ELLENICA  325 

della  classica  penisola  sono  oggidì  slavi ,  e  formano  la  difesa  più 
formidabile  de'  popoli  di  questa  razza  ;  quelli  del  sud  rimasero 
per  la  maggior  parte  greci. 

La  catena  abbastanza  regolare  del  Rodope^  dalle  cime  coperte 
di  nevi  eterne,  separa  la  parte  greca  dalla  parte  slava  dell'impero 
d'Oriente;  numerose  e  larghe  gole  fendono  questa  catena  per 
modo,  che  straripando  attraverso  queste  aperture ,  le  due  razze 
non  possono  non  incontrarsi.  Un  altopiano  elevato,  lungo  il  quale 
scorre  la  Mariza,  fiume  de'  Bulgari,  congiunge  le  falde  del  Rodope 
greco  a  quelle  de' Balcani  slavi.  Le  due  grandi  schiatte  sono  dun- 
que senza  frontiere  naturali ,  e  s'incontrano,  per  cosi  dire,  ad 
ogni  passo  che  fanno.  •  Ond'è  che  si  trovano  disseminati  per  tutta 
la  Grecia  Slavi  in  qualità  di  agricoltori  e  pastori,  e  Greci  alla  lor 
volta  dirigono  l'industria  e  il  commercio  in  quasi  tutte  le  Pro- 
vincie slave  >. 

É  osservabile  che  ciascuno  dei  principali  gruppi  di  montagne 
greco-slave  ha  in  ogni  tempo  servito  di  propugnacolo  ad  una  na- 
zionalità, e  di  asilo  ai  vinti.  Tal' è  pei  Greci  l'Olimpo,  il  quale  alto 
6000  piedi,  non  è  accessibile  che  attraverso  sentieri  sospesi  sopra 
abissi,  nel  fondo  de' quali  spumeggiano  i  torrenti^  ovvero  stagnano 
i  laghi  formati  da' mari.  In  grazia  ai  precipizi!  che  lo  circondano, 
questo  baluardo  della  nazionalità  greca  sarebbe  inespugnabile  ove 
fosse  difeso  da  alcune  centinaia  di  palicari.  L'Olimpo  fmisce  dal 
lato  di  Macedonia  con  un  muro  a  picco  alto  3000  piedi  che  sovrasta 
all'orribile  gola  di  Platamona;  dal  lato  opposto  esso  copre  la  valle 
incantevole  di  Tempe,  e  difende  la  Tessaglia.  Questa  provincia  che 
si  estende  assai  in  lunghezza,  ed  è  fecondata  dal  Penco,  forma  una 
specie  di  circo  ;  sui  gradi  interni  di  questa  vasta  arena  s'asside- 
vano una  volta  settantacinque  fiorenti  città. 

L'Olimpo  tessalìco  comunica  coll'Athos  attraverso  il  mare  e  le 
catene  dell'alta  Macedonia;  là  è  il  centro  militare  della  penisola 
che  domina  Greci  e  Slavi.  Chi  possederà  le  sue  vette  vi  troverà 
sempre  l'indipendenza,  e  potrà  spesso  minacciare  quella  degli  altri. 
Da  questo  punto  sovrano,  culla  di  Filippo  e  di  Alessandro,  si  stacca 
isolato  il  monte  sacro  del  popolo,  il  Monte  SanlOy  l'Athos,  massa 
calcare  di  6300  piedi,  confine  della  Macedonia  dalla  parte  di  mare, 
come  n'è  l'Olimpo  sul  continente. 

L'Albania,  tumultuoso  caos  di  roccie  sovraposte  le  une  alle  altre, 
oppone  ad  ogni  conquista  i  suoi  formidabili  monti  Acrocerauni. 

I  Greco-Slavi  dell'Epiro  hanno  per  asilo  l'Agrafa  o  il  Rudo,  il 
quale  quantunque  si  elevi  per  8400  piedi,  è  pur  ricoperto  di  ver- 
gini foreste...  Le  catene  disordinate  che  attraversano  l'Epiro  si 
appoggiano  in  gran  parte  alle  falde  del  Rudo.  Una  parte  della 


326  RIVISTA  CONTBIIMRAlfSA 

Livadia  col  suo  Parnasso  dalle  aride  ed  atte  citte  di  22M  metri 
colle  gole  dell'Età  e  colle  sue  gloriose  terroopili  dipende  pure 
dairAgrafa. 

Le  tribii  slave  hanna  andi'esse  i  loro  campi  d'asilo  e  le  loro 
montagne  sacre.  Per  la  Bulgaria  è  il  monte  Rik>  e  il  Tisoka»  Tan- 
tico  Scardo,  che  si  crede  alto  9600  piedi  ;  per  la  Serbia  é  il  Riid- 
nìk  ;  per  i  cristiani  della  Bosnia  e  dell'CrzegovÌBa ,  il  terribile 
Monte  Negro, 

La  Bosnia  è  anch'essa  una  cittadella  fortificata  dalla  natura. 
L'estremità  nord-ovest  della  penisola ,  l'alta  Valacchtfiy  come  la 
Transilvania,  offre  pure  un  inestricabile  labirinto  di  gole*  di  cui 
chi  sarà  padrone,  purché  appartei^a  al  paese,  potrà  senza  peM 
arrestare  le  più  forti  armate  d'invasione. 


Superficie  e  Popolasione 


A.  Turchia 

Dobbiamo  qui  cominciare  col  chiedere  scusa  ai  nostri  lettori 
se  sotto  il  nome  generico  di  Turchia  abbracciamo  non  solo  le  Pro- 
vincie immediatamente  soggette  alla  Porta  Ottomana ,  ma  ancbe 
gli  Stati  quasi  vassalli  della  Serbia  e  della  Rumania.  Reden  scrisse 
rOpera  di  cui  diamo  un'analisi  alla  vigilia  di  quella  guerra  d'Orieote 
della  quale  ci  sovviene  che  l'illustre  Vuk  Stefanovic  soleva  dird 
quando  essa  ferveva  :  €  non  so  se  gli  alleati  o  i  Russi  riusciranno 
vincitori  nella  lotta,  so  questo  solo  che  i  Torchi  ci  perderanno». 
La  pace  di  Parigi  infatti  che  non  fece,  ci  si  permetta  l'espressione, 
che  tagliare  le  unghie  agli  artigli  dell'aquila  russa  (e  Voltaire  ebbe 
a  dire  che  non  si  può  impedire  alle  unghie  di  crescere),  col  devol- 
vere alle  grandi  potenze  la  tutela  dei  cristiani  di  Turchia,  saMioaò 
l'abdicazione  morale  e  politica  dell'impero  Ottomano ,  mentre  lo 
faceva  ironicamente  entrare  nel  concerto  europeo.  Non  tardarono 
infatti  d'allora  i  Principati  Danubiani  a  riunirsi  in  uno  Stato  solo, 
che  si  chiamò  Rumania,  e  la  Serbia  a  compiere  quella  rivoluiione 
che  coU'espulsione  della  dinastia  dei  Karagiorgevic  tolse  di  mezzo^ 
le  influenze  straniere  che  ne  paralizzavano  il  movimento  nazionale 
e  civile.  Presentemente  Serbia  e  Rumania,  poco  men  della  Grecia, 
trattano  da  potenza  a  potenza  colla  Sublime  Porta,  e  le  sono  vas- 
salli come  lo  era,  fate  conto,  l'ex-reame  di  Napoli  alla  Sesta  Sede 
quando  le  presentava  annualmente  il  di  di  s.  Pietro  la  mula  bianca. 


LA  PENISOLA  SLATO- ELLENICA  327 

Vedremo  a  suo  tempo  come  l'adeguata  conoscenza  de'  fatti  econo- 
mici e  civili  della  Turchia,  aveva  fatto  presagire  alFillustre  Reden 
la  crisi  che  a  gran  passi  si  avvicinava  in  Oriente,  e  gli  aveva  sugge- 
rita una  soluzione  che  non  è  la  radicale,  ma  che  vi  si  avvicina,  che 
in  parte  è  compiuta,  e  in  parte  sta  compiendosi  giorno  per  giorno. 
Tanto  è  vero  che  Teconomia  e  la  statistica  danno  molte  fiate  ]a 
chiave  de' più  astrusi  problemi  politici.  Noi  intanto,  per  non  alte- 
rare l'ordine  osservato  dall'autore,  ci  atterremo  alla  divisione  del 
lavoro  da  lui  dataci,  e  alla  generale  denominazione  di  cui  egli  si 
è  servito.  Queste  parole  gioveranno  per  metterci  in  regola  coi  no- 
stri lettori  e  eolla  nostra  coscienza,  la  quale  si  solleva  al  solo  pro- 
nunciare un  nome  che  richiama  alla  memoria  il  servaggio  di  sette 
milioni  de'  nostri  fratelli,  e  non  ci  avrebbe  dato  pace  ove  l'aves- 
simo senza  protesta  applicata  anche  a  quelli  che  fortunatamente  se 
ne  riscossero. 

Le  Provincie  immediatamente  soggette  alla  Porta  si  compartono 
in  i3  luogotenenze,  di  cui  qui  presentiamo  un  quadro,  cl^e  ne  in- 
dica la  superficie  e  la  popolazione  giusta  i  rilievi  del  1844. 

Superficie 
Provincie  in  miglia  g.  q.      Popolazione 

I.  Romelia  od  antica  Tracia  col  distretto 

di  Costantinopoli 450         1,800,000 

Il-V.  Bulgaria  ,   divisa  nelle  provincia  di 

Silistria,  Widdino,  Nissa  e  Sofia    .      1839         3,000,000 
VI.  Salonichio,  che  abbraccia  una  parte 

della  Macedonia  e  della  Tessaglia  .        575  \ 
VII.  Jannina,  che  abbraccia  l'antico  Epiro  (     ^  -^  ^^ 

con  altra  parte  della  Tessaglia  e  (      ^,/uu,uuu 

Macedonia 770  ; 

VIII-X.  Scutari ,  Perserius  e  Monastir  con 

altra  parte  della  Macedonia  .     .     .        891         1,200,000 
XI.  Bosnia,  che  comprende  la  Bosnia,  la 

Croazia  turca  e  l'Erzegovina     .     .      1268         1,100,000 

XII.  L'Arcipelago  da  Saipotraki  a  Rodi    .        561   j        «^  ^^ 

XIII.  Creta  colle  isole  vicine      ....        153  {        '^'"^ 


Totale  delle  provincie  immediate  .  6507  10,500,000 

Provincie  quasi  vassalle 

Moldavia 736  1,400,000 

Valachia 1330  2,600,000 

Serbia :  ,    .    .  998  1,000,000 


Totale  della  Turchia  europea    .      9571       15,500,000 


328  BinSTA   CONTHMPOBANBA 

La  Turchia  europea  comprende  5,  20  Vo  ^^^^^  supjBrficie,  e 
5,  82  o/o  della  popolazione  di  tutta  l'Europa.  Sotto  il  primo  rap- 
porto le  stanno  innanzi  solamente  la  Russia,  la  Svezia  e  Norvegia, 
l'Austria,  la  Confederazione  Germanica,  la  Francia  e  il  nuovo  regno 
d'Italia  :  sotto  quello  della  popolazione  la  precedono,  oltre  a  questi 
Stati,  ringhilterra,  la  Russia  e  la  Spagna.  La  proporzione  fra  la 
popolazione  e  la  superficie  dà  però  alla  Turchia  appena  il  cinquan- 
tesimo posto  fra  gli  Slati  d'Europa,  non  contandosi  per  media  più 
di  1624  abitanti  sopra  un  miglio  g.  quadr.  Questi  rapporti  non  si 
conservano  uguali  dapertutto ,  e  per  esempio  nella  Romelia  si 
numerano  4000  abit.  sopra  1  Q ,  nella  Macedonia,  nella  Tessaglia 
e  nell'Epiro  2007,  nella  Serbia  1002,  nella  Bosnia  solamente  876! 
É  osservabile  però  che  persino  là  dove  la  popolazione  è  più  divisa, 
essa  si  trova  in  una  grande  sproporzione  coi  mezzi  di  sussistenza 
onde  la  natura  ha  fatto  ricco  questo  paese. 

La  postura  geografica ,  l'estensione  del  territorio  e  il  numero 
degli  abitanti  farebbero  della  Turchia  una  potenza  di  prim'ordine, 
se  non  le  mancassero  tutte  le  altre  naturali  e  morali  condizioni  per 
divenirla,  se  anzi  quegli  elementi  che  sono  fattori  di  civiltà  e  di 
forza  negli  altri  Stati,  non  rendessero  impotente  l'impero  Ottomano 
a  qualunque  sviluppo  civile  e  politico.  Due  sono  le  grandi  cause 
della  sua  necessaria  e  sempre  crescente  decadenza ,  le  condizioni 
etnografiche  e  religiose  de*  popoli  che  lo  abitano.  È  importante 
quindi,  per  apprezzarle  a  dovere,  che  colla  scorta  dell'Ubicini,  non 
imparziale  turcofìlo,  ma  intelligente  cultore  di  questi  studii,  indi- 
chiamo come  si  scomparta  la  popolazione  della  Turchia  per  nazio- 
nalità e  per  religione. 


I.  Per  naziofialilà 

1.  Osmani 1,100,000 

2.  Slavi 7,200,000 

3.  Rumani 4,000,000 

4.  Albanesi 1,500,000 

5.  Greci 1,000,000  (?) 

6.  Armeni 400,000 

7.  Ebrei 70,000 

8.  Tartari 230,000 


15,500,000 


LA  PBMI80LA  SLATO-BLLIMIOA  9t» 

II.  Per  religione 

i.  Musulmani 3,800,000 

2.  Greci  non  uniti     .     .    .  11,870,000 

8.  Cattolici  ; 260,000 

4.  Ebrei 70,000 


15,500,000 


Queste  cifre  di  Ubicini  vogliono  essere  rettificate  e  illustrate, 
perocché  formano,  si  può  dire,  i  termini  di  quel  problema  politico 
e  sociale,  che  si  appella  la  questione  d'Oriente. 

I.  Le  nazionalità 

La  più  numerosa  schiatta  della  Turchia  europea ,  chiamata 
presto  0  tardi  a  dominare  la  penisola  dalla  Sava  al  Rodope ,  è 
quella  degli  Siavi  meridionali.  Due  rami  di  quest'albero  giovane  e 
vigoroso  vi  si  trovano  i^adicati:  i  Bulgari  e  i  Serbi. 

I  Bulgari,  quantunque  Ugri  di  origine,  vennero  assimilati  dagli 
indigeni  slavi  numerosissimi  che  soggiogarono,  mercè  sovratutto 
rinfluenza  del  cristianesimo  e  del  rito  greco  orientale  che  abbrac- 
ciarono. Essi  spaziano  in  numero  di  ben  4  milioni  e  mezzo  d'ambi 
i  versanti  dei  Balcani,  dalle  foci  del  Danubio  ai  confìni  della  Grecia. 
DiiTerenze  di  carattere  e  di  costume  distinguono  il  Serbo  dal  Bul- 
garo. Il  Serbo  è  bellicoso,  previdente,  risoluto,  memore  e  tenace 
delie  avite  tradizioni,  anelante  alla  riscossa  :  il  Bulgaro  è  pacifico, 
laborioso,  diligente,  morìgeratissimo,  appassionato  cultore  de'campi 
e  della  pastorizia ,  e  però  fra  tutte  le  razze  che  coabitano  nella 
Turchia,  il  più  agiato  ed  alieno  da' rivolgimenti  politici.  Recentis- 
sime indagini  che  non  potevano  essere  note  a  Reden,  fanno  cono- 
scere che  i  Bulgari  coU'aumento  della  pubblica  ricchezza,  e  colla 
dilTusione  dell'istruzione  che  acquistò  in  questi  ultimi  anni  vaste 
proporzioni,  preparano  pacificamente ,  lentamente ,  ma  infallibil- 
mente la  loro  emancipazione  politica.  Sarebbe  quindi  adesso  a  du- 
bitare quanto  allora  osservava  il  Reden,  che,  cioè,  stanziati  parte 
al  di  qua,  parte  al  di  là  dell'Emo,  essi  non  abbiano  coscienza  della 
loro  unità  nazionale,  e  restino  indifferenti  alla  ricordanza  di  quelle 
gesta  del  loro  glorioso  passato  che  accendono  d'entusiasmo  i  Serbi 
e  i  Montenegrini.  É  certo  però  che  i  Bulgari  del  nord  differiscono 
alquanto  per  costume  e  per  dialetto  da  quelli  del  sud,  i  quali  non 
poterono  restar  estranei  all'influenza  de'  Greci  contermini. 


9tè  VrWUnx  CONtBlCMBAIflA 

Altro  ramo  degli  Slavi  sono  i  Serbi  che  distinguonsi  in  Serbi 
propriamente  detti,  e  Bosneri.  Abbiamo  accennato  alFìndote  guer- 
riera de'  primi,  ne'  quali  il  sentimento  dell'indipendenza  è  predo- 
minante, ed  ha  potuto  già  rivendicare  in  libertà  sino  dal  1829 
quella  porzione  di  territorio  che  costitnisoe  il  principato  di  Serbia, 
ed  occupa  una  vantaggiosissima  posizione  politica  e  commerciale, 
e  però,  come  o^erva  Reden ,  forma  il  ponte  pel  quale  la  civiltà 
penetrerà  nella  penisola  orientale.  1  Serbi  del  principato  son  un 
milione  incirca;  ve  ne  sono  500,000  dispersi  per  la  Bosnia,  Albania 
e  Bulgaria.  A  quésto  ramo  appartengono  specialmente  i  Serbi  che 
trovanti  in  Austria  ,  ed  abitano  col  nome  di  Slavoni  (238,000)  la 
Slavona,  con  qnello  di  Skekaci  e  Bunjevad  (405,000)  gran  parte 
della  Yoivodia  e  del  Sanato  ;  di  Morìacchi  (1),  Dalmati,  Ragusei  e 
Bocchesi  (298,000),  la  Dalmazia.  In  numero  di  342,000  stanziano 
ne'ConCni  militari,  di  437,000  occupano  la  maggior  parte  del- 
ristria  sino  all'Arsa  colle  isole  del  Quamero;  70,000  trovansi  dis- 
pera lungo  i  confini  meridioBaK  dallUngherìa.  In  Russia  non  ve 
ne  ha  più  di  i500.  Il  numero  totale  de'  Serbi  ammonterete  dun- 
que a  circa  3,101,500.  I  BosneH  co' Croati  della  Graina  (Groaria 

(1)  Il  poTero  Reden  non  ebbe  la  sorte  di  sopravivere  alla  grande  scoperta 
che  Hi  Morlaoohi  discendenti  dal  Lazio !(^)  Se  Tigooranza  delle  cose 
patrie  nella  quale  siamo  creBciuti  non  ci  seryisse  di  scnsa,  certi  spropo- 
siti storici  ed  etnografici  che  uscirono  alla  luce  fra  noi  da  quando  sorse 
la  questione  àeWannessìonc,  sarebbero  imperdonabili.  Uno  de'  grandi  ar- 
gomenti portati  in  campo  per  avversarla  fu  una  certa  differenza  di  lin- 
guaggio cke  si  Tolle  trovare  fra  la  popolazione  della  Dalmazia  e  quella 
di  emazia  e  Slavonia.  Ora^  il  dialetto,  i  costumi,  la  storia  e  le  eìucuVra- 
zioni  de*  pia  dotti  slavisti  provano  che  più  della  metà  degli  abitanti  di 
questi  ultimi  due  regni  (in  cui  son  compresi  i  Confini  militari)  sono  Serbi 
né  più  né  meno  de*  Morìacchi,  de' Ragusei  e  de*  Bocchesi  ;  mentre  i  Croati 
trovansi  in  parte  della  Croazia  civile  non  solo»  ma  sono  disseminati  lungo 
i!  litorale  dalmate  sino  al  Primorige  di  Macarsca,  ed  occupano  quasi  tutte 
le  nostre  isole.  C  così  che  si  vide  il  curioso  spettacolo  che  gli  autonomi 
della  Dalmazia  al  di  qua  della  Karenta,  non  volevano  unirsi  a' Croati, 
mentre  questa  parte  della  provincia  pur  ne  aveva,  e  ne  ha;  e  invece  tutti 
i  Bocchesi  e  i  Ragusei  che  sono  puro  sangue  serbo ,  e  che  soli  potevano 
essere  tentati  farlo  valere,  e  andare  superbi,  sovratutto  i  secondi,  di  ben 
altra  autonomia  della  nostra ,  si  sono  dichiarati  unanimi  (se  tolgasi  la 
hoirghesia  di  Ragusa)  per  l'annessione  alla  Croazia.  Quanto  poi  ai  Latino- 
Morlacchi  (scusate  per  carità,  lettori,  questa  cacofonia)  non  ci  resta  altro 
&  dire  se  non  che  pur  troppo  un  oceano  di  erudizione  non  vale  una  goc- 
ciolina di  buon  senso. 

(*)  Questa  voluta  discendenza  derivò  dall'essersi  in  antichi  documenti 
dato  ai  Zinzari  o  Macedo-rumani  l'appellati vo  di  Mauro-vlaki,  cioè  Va- 
tacchi  neri.  Vedasi  Lelejan.  Ethnoqr.  der  Europ,  Turkei.  Gotha  1869 , 
p.  ».  (V-R) 


LA.  fmiioij^  njLTo^nuiaoA  sn 

turca)  e  cegli  abitanti  deU'En^oviM  (Dalmazia  torca)  in  avmero 
di  360,000,  aacendoM  ad  1,450,000.  La  diCGeraua  dì  r^Opasm  a 
di  diritti  fra  i  domnatorì  e  i  vinti  di  queata  regione  ha  fatto  dèfla 
Bosnia  una  delle  più  turbolenti  provincie  della  Tardiia  ewopea. 
Al  momento  ebe  acriviamo ,  TEnegovina  ccì  suo  Vukalofic  é  in 
armi,  ed  unita  al  Montenegro  combatte  e  vince  gli  Ottomani ,  e 
tiene  in  scacco  qoeirOmer-Paacià  die  dopo  aver  rinnegato  la  ftde 
e  la  patria ,  doveva  trovare  in  Dalmazia  chi  gli  (aceaae  il  panagi* 
rico  1  Nella  Bosnia  stessa,  gli  Slavi,  che  abjorata  la  fède  jdifisero 
col  nemico  le  spoglie  della  nazione,  si  avvicinano  ai  poveri  nya, 
incominciano  a  deporre  gli  odii  religiosi  e  civili  die  lì  tenevano 
divisi,  e  si  apparecchiano  alla  lotta  contro  Toppressore  comune. 

Se  si  aggiungaiM)  i  490,000  Montenegrini  che  da  quattro  secoli 
combattono  contro  i  Turchi,  e  che  furono  gli  antichi  e  fedeli  aUeati 
di  Venezia,  comunque  da  questa  tahrolta  abbandonati,  nelle  guene 
sostenute  contro  il  nemico  della  cristianità,  e  i  430,000  Zagorj,  si 
può  calcolare  che  gli  Siavi  abitanti  nella  Turchia  europea  ascen- 
dono a  7,700,000,  e  però  superano  di  mezzo  milione  il  numero 
indicato  da  l^Hani. 

I  Rumeni  sono  in  numero  di  4,300,000  nella  Turchia,  ove  ai 
calcolino  anche  i  Ihcedo-Rumani  che  sono  in  numero  di  350,000, 
e  che  akri  annovera  fra  i  Slavi.  Oltreché  in  Middavia  (1,350,000) 
e  Valacchia  (3,480,000) ,  si  trovano  sparsi  nella  Bulgaria,  nella 
Tessaglia,  nell'Albania^  nelFEpiro  e  in  altre  parti  della  Turdiìa  in 
numero  di  120,000.  Se  si  tiene  calcolo  dei  Ruroani  dell'Austria 
che  in  nomerò  di  2,650^000  sono  disseminati  nella  Transilvania, 
Ungheria,  Voivodia,  Banato,  Bocovina  e  Confini  militari,  e  di  quelli 
delfai  Russia  che  in  numero  di  408,000  stanziano  nella  B^ssa- 
rabia  (1),  latta  questa  schiatta  si  può  dire  che  ascenda  a  7,460,000 

(1)  Dopo  la  pace  di  Parijndel  1856,  parte  della  Bessarabia  ooa  uaa 
popolazione  di  presso  a  190,OD0  abitanti  fu  separata  daHa  Russia,  ed  unita 
alla  Romania  (*j. 

(*)  Ecco  come  si  può  calcolare  la  Nazione  Rumana  : 

Principati  uniti 4,010,000 

la  Russia —aecondo  VEtn^grafia  di  D.  Brckert 

(Pietrob.  1861) 770,000 

In  Turchia,  Daco  e  Macedo-rumani  ....  350,000 
Kell'Àustria,  giusta  la  statistica  ufficiale  del  B. 

C»6rnig                         ,    .  2,4aè/m 

Nella  Serbia,  secondo  Lelejan    ......  401,000 

In  Grecia,  giusta  TAyer 40,000 


7,71^,00»  (▼•«* 


332  BIVISTA  OONTBMPOBANBA 

anime.  Reden  opina  che  per  le  condizioni  naturali  favorevolissime 
del  suolo  che  occupa^  e  per  l'indole  vivacissima  e  geniale  de'  suoi 
abitanti,  questa  razza  sarebbe  destinata  ad  esercitare  una  grande 
influenza  sull'Oriente  se  fosse  attiva/ vigorosa  e  morigerata.  Ma 
queste  qualità,  a  parere  dell'autore,  mancano  ai  Rumani.  Gli  av- 
venimenti succeduti  nella  Rumania  dopo  la  pace  di  Parigi  infirme- 
rebbero però  quest'opinione ,  avendo  essi  provato  che  i  Rumani 
non  ismentiscono  il  sangue  latino  che  loro  corre  per  le  vene ,  e 
che  mostrano,  se  anche  a  un  grado  minore,  la  maturità  politica  e 
il  senno  civile  della  schiatta  consorella. 

.  Gli  Albanesi  si  divìdono  in  due  rami  principali,  i  Toski  dell'Al- 
bania  meridionale  e  i  Gheghi  della  centrale  e  nordica,  che  si  dif- 
ferenziano pel  dialetto  che  parlano^  e  si  detestano  talmente,  che  la 
Porta  Ottomana  sa  adoperare  gli  uni  contro  gli  altri.  Questo  popolo 
da  una  parte  non  occupa  che  il  territorio  che  prende  il  suo  nome, 
dall'altra  stanzia  in  mezzo  a  popoli  a  lei  estranei.  Gli  Albanesi  si 
trovano  in  tutta  la  regione  posta  fra  la  Morata  e  la  Toblica,  for- 
mante la  Serbia  turca ,  e  più  che  altrove  hanno  stanza  nel  regno 
di  Grecia.  Formano  in  numero  di  200,000,  la  quinta  parte  della 
sua  popolazione,  e  la  maggioranza  di  questa  nella  Beozia,  nell'At- 
tica, nella  Megaride,  nell'Argolìde,  e  in  molte  delle  sue  isole.  Nella 
Turchia  europea  sono  in  numero  di  1,600,000.  Non  si  può  sor- 
passare che  in  Austria  se  ne  trovano  2500  presso  Zara  e  ne' Confini 
militari ,  e  ben  86,000  nel  Napoletano  dove  emigrano  sino  dal 
1460  (1). 

Gli  Armeni,  in  numero  di  150,000,  sono  dediti  per  Io  più  al 
commercio,  ed  occupano  le  città. 

Dei  125,000  Israeliti ,  37,000  abitano  Costantinopoli,  6000  la 
Tessaglia,  62,000  la  Moldavia,  ecc. 

Lo  spirito  di  partito  ha  esagerato  il  numero  dei  Greci  della 
Turchia  europea,  confondendoli  con  tutti  quelli  che  professano  la 
religione  greco-orientale.  Reden  non  vuole  seguire  alla  cieca  Tubi- 
cini, ma  dall'analisi  della  popolazione  delle  singole  provincie  della 
Turchia  quale  fu  rilevata  in  scritti  speciali,  deduce  e  ritiene  che  il 
loro  numero  si  possa  stabilire  a  1,050,000,  di  cui  285,000  nelle 
isole,  265,000  nella  Tessaglia,  320,000  nella  Romelia  e  a  Costan- 
tinopoli, 180,000  nelle  rimanenti  provincie. 

Le  notizie  ufficiali  fanno  ascendere  il  numero  degli  Osmani  a 
1,100,000.  E  tuttavia  Reden  ritiene  ch'esso  sia  esagerato,  e  non 
superi  1,055,000,  di  cui  270,000  nella  capitale,  210,000  nella  Ro- 

(1)  Non  a  86,000,  sibbeae  asceadono  neiritalia  meridionale  a  122,000, 
secondo  la  statistica  data  dal  Morelli  (Napoli  1859)  ;  nell'Austria  2000, 
secondo  Czòrnig;  in  Russia,  giusta  il  Latham,  1,300.        (V-R) 


LA  PENISOLA  3LAT0-BLLBNI0A  333 

raelia,  375,000  nella  Bulgaria,  fra' quali  molti  Bulgari  rinnegati, 
150,000  nelle  provincie  di  Salonicchio  e  Jannina,  e  50,000  altrove. 
Ed  ecco  lo  specchio  che  Reden  presenta  della  popolazione  della 
Turchia,  divisa  per  schiatte,  rettificando  quello  di  Ubicini. 


i.  Slavi-. 

Per  cento 

a)  Bulgai 

i  .    .    4,500,000 

27,97 

b)  Serbi  . 

.    .    1,500,000 

9,32 

e)  Bosnesi   .    .    1,450,000 

9,02 

<Ó  Altri  rami    .       250,000 

1,58 

7,700,000 

47,89 

3.  Rumani 

.    .    4,300,000 

26,74 

3.  Albanesi 

.    .    1,600,000 

9,94 

4.  Osmani  .    , 

.    .    1,055,000 

6,55 

5.  Greci     ,    . 

.    .    .    1,050,000 

6,53 

6.  Armeni  . 

.    .    .       150,000 

0,9S 

7.  Ebrei 

.    .    .       125,000 

0,78 

8.  Zingani  .    . 

.    .         80,000 

0,49 

9.  Tatari    . 

.    .        25,000 

0,15 

To 

tale    .  16,085,000  (1) 

100,00 

Se  anche  i  singoli  dati  di  questo  prospetto  possono  essere  ine- 
satti, le  proporzioni  che  vi  si  osservano  sono  certe,  e  suggeriscono 
alcune  importanti  conseguenze. 

Fra  i  popoli  che  abitano  la  Turchia  europea,  i  Bulgari  e  i  Ru- 
mani sono  ì  più  numerosi^  formando  gli  uni  e  gli  altri  un  quarto 
della  popolazione  totale.  Che  se  si  abbracciano  tutti  gli  Slavi,  questi 

(1)  Secondo  Kolb,  Handbuch  der  Vergleichenden  StatisUk.  Lipsia  1B69. 
p.  382,  queste  cifre  dovrebbero  essere  : 


Slavi 

6,200.000 

Rumani 

4.000,000 

Albanesi    . 

1.500,000 

Osmani 

2.100,000 

Greci 

1,000,000 

Armeni 

400.000 

Ebrei 

70.000 

Zingani 

240,000 

Tauri 

.        ,            44,000 

È  però  evidente  che  si  attribuì  un  numero  eccessivo  agli  Osmani.  Ve- 
dasi Lelejan  (op.  cit.).       (Y^B.) 


SM  vmnA  ommcPOftJLiaiA 

soli  le  oofititaìscMo  U  metà,  e  coi  Ruintm  tre  quarti ,  mentre  gii 
A)bAfi6SÌ  rìwtrano  col  10  V« ,  gli  Osmaiii  e  i  Greci  sepànatamefite 
con  6 1/2  V<»-  E  tuttavia,  osserva  raotore,  questi  ultimi,  quali  ante- 
sigaani  della  Chiesa  Onenlale  esercitano  una  preponderante  in- 
fluenza sui  destini  della  penisola,  e  sono  alla  testa  dei  movimenti 
politici  che  la  sconvolgono. 

II.  Beligiatie 

L'Ubicini  /  che  nella  seconda  edizione  della  sua  opera  sulla 
Turchia  accrebbe  di  un  miUone  la  popolazione  di  razza  turca,  per 
esser  fedele  al  preconcetto  diviaamento  di  giustificare  in  qualche 
modo  la  signoria  degli  Osmani,  riduce  gli  11,370,000  professanti 
la  religione  greco-orìenlile  della  prima  edizione  a  sdii  10,000,000 
nella  secoiJa>  e  fa  salire  i  Kaomettani  da  3,800,000  a  4,550,000. 
Beden  dopo  accurati  studti  giunge  a  diversi  risultati,  e  dà  il  vero 
suo  posto  a  ciascuna  deHe  cmifessioni  religiose  detta  penisola. 

I  dati  piò  precisi  e  sicori  risguardano  i  Cattolici.  Di  915,000 
che  si  trovano  in  tutto  l^impero  Ottomano  fra  Latini  (650,000), 
Greci  uniti  (35,000),  Armeni  uniti  (75,000) ,  Sirj  e  Caldei  uniti 
(35,000)  e  Maroniti  (140,000),  650,000  vivono  nella  Turchia  eu- 
ropea cosi  divisi  ; 

Costantinopoli 60,000 

Albania  del  aord  con  7  vescovati 

e  103  parrocchie   ....  96,000 

Ersegovina 43,000 

Arcipelago ,    .  110,000 

Altre  Provincie 843^000 


Intuito    .    .    650,000 

I  fedeli  delia  Chiesa  Oriaitale  ammontano  a  ben  11,080,000. 
Alla  religione  Maomettana  appartengono:  i  Turchi,  quelli  fra  gli 
indigeni  che  subito  dopo  la  conquista  degli  Osmanidi  per  sottrarsi 
al  servaggio  e  alla  spogliazione  abjurarono  la  fede  de'  padri ,  e 
finalmente  i  piccoli  recenti  gruppi  di  rinnegati.  Essi  ammontano  in 
tutto  a  3,970,000,  de'quali,  1,055,000  Osmani,  3,915,000  di  altre 
razze.  È  interessante  in  proposito  il  seguente  quadro  che  ne  offre 
Reden ,  adesso  sovratulto  che  i  Maomettani  i  qual  non  apparten- 
gono alla  razza  dominante  cominciano  ad  avvicinarsi  ai  Crìsiiani* 


hx  ftaiìBOLA.  auvo-BLunucA 


aa» 


Prorinoie 

1.  Costantinopoli    .    . 

2.  La  restante  Romelia 

3.  Bulgaria 
4*  Albania 

5.  Salonicchio  e 

6.  Bosnia 

7.  Isole    . 


Jannina 


Maomettani 

Osmani 

Di  a)tr«  razze 

Totali 

270,000 

205,000 

475,000 

210,000 

260»000 

470,000 

375,000 

920,000 

1,295,000 

— 

850,000 

850,000 

150,000 

390,000 

640,000 

50,000 

(  170,000 
120,000 

220»000 

120»000 

Totale    .    .  1,055,060      2,915,000      8,970,000 
ovvero    26,24  7^    ow,  73,76  •/, 

Questi  dati  potrebbero  avere  un  capitale  valore  ove  tn  giorno 
avvenisse  cbe  i  Maomettani  indigeni  facessero  causa  comune  coi 
cristiani*  La  questione  d'Oriente  forse  allora  scioglierebbesi  senza 
grandi  scosse  inteme  e  senza  immani  catastrofi. 

I  Maomettani  sono  i  padroni  assoluti  del  paese ,  signori  della 
vita  e  delle  sostanze  de'raja.  Ad  essi  i  pubblici  incarichi  senza  i 
pubblici  pesi,  ad  essi  privilegii  e  lavori  neiresercizio  del  traffico  e 
dell'industria.  La  pacificazione  civile  de'  vincitori  e  dei  vinti»  de' 
seguaci  di  Maometto  e  di  Cristo  che  si  voleva  garantire  col  trattato 
di  Parigi,  è  rimasta  una  lettera  morta,  la  quale,  ove  si  volesse  se* 
riamente  attuare,  porterebbe  l'immediato  scioglimento  dell'impero 
Ottomano ,  provocando  da  prima  l'opposizione  armata  (come  se 
n'ebbero  prove  recenti)  dei  Musulmani,  poscia  una  generale  solle- 
vazione de' Cristiani.  L'impero  Ottomano  ò,  per  la  base  stessa  su 
cui  posa,  condannato  ad  essere  tale  qual'è^  ovvero  (se  tenta  rifor- 
marsi radicalmente)  a  non  essere.  D  Corano  infatti  arma  il  discen- 
dente de'  CaliflB  del  potere  religioso  e  civile  per  la  soggezione  as- 
soluta di  tutti  coloro  che  non  lo  abbracciano.  La  teocrazia  trova 
colà  la  sua  più  alta  personificazione,  e  non  può,  pel  fondamento 
religioso  cbe  le  serve  di  base,  chiamare  alla  partecipazione  de'  di- 
ritti civili  chi  non  è  musulmano.  Vi  si  tollerano  le  altre  religioni, 
ma  la  suprema  podestà  sulle  persone  e  sulle  cose  non  può  appar- 
tenere che  ai  soli  veri  credenti,  ai  seguaci  di  Maometto. 

Come  signore  del  paese,  il  Maomettano  abita  perle  più  la  città. 
Esso  è  incapace  di  una  continuata  e  forte  ginnastica  dello  spirito, 
e  insuscettibile  delle  bellezze  e  de'  vantaggi  deirintellettuale  col- 
tura. E  d'altra  parte  vive  ancora  delle  memorie  dd9e  famose  gesta 


BinSTA  OONTBMPOHANBA 

de'  padri,  e  ritiene,  illuso  com'è  dalla  supremazia  ch'esercita^  che 
il  passato  sia  presente ,  per  cui  ha  un  esagerato  sentimento  di 
se  medesimo  che  cade  nel  ridicolo.  Esso  associa  all'orgoglio  una 
gran  dose  di  simulazione  sviluppata  per  forza  del  despotisme. 
Gl'istinti  e  i  costumi  orientali  e  la  licenza  santificata  dal  Corano  lo 
hanno  dem<^ralizzato,  ed  hanno  scavato  un  abisso  fra  esso  e  i  Cri- 
stiani, e  reso  impossibile  qualunque  avvicinamento,  qualunque 
parallelo  sviluppo  di  essi.  Questi  contraposti  non  possono  essere 
tolti  dalle  buone  qualità  del  Maomettano,  quali  sono  l'ospitalità, 
lo  spirito  d'equità,  il  rispetto  delle  virtù  sociali,  la  gratitudine  e 
la  compassione,  e  quella  pronta  rassegnazione  alla  volontà  divina 
che  lo  rende  capace  di  qualsivoglia  sacrifizio.  Egli  è  per  questo  che, 
sebbene  egli  abborra  qualunque  mortificazione  del  corpo,  tuttavia 
sostiene  con  pertinacia  gli  stenti  più  difficili  tostochè  i  precetti 
della  sua  fede  e  la  cupidigia  di  lucro  ve  lo  animano. 

Le  confessioni  religiose  della  Turchia  Europea  si  scompartono, 
dietro  le  diligenti  ricerche  di  Reden,  come  segue  : 


1.  Chiesa  orientale    . 

2.  Maomettani      .    . 

3.  Chiesa  cattolica     . 

4.  Israeliti  .... 

5.  Zingani  .... 

6.  Altre  conressioni  . 

11,080,000 

3,970,000 

650,000 

125,000 

80,000 

180,000 

(1) 

Per  cento 

> 

» 
> 

68,86 
24,69 
4,05 
0,79 
0,49 
1,12 

Totale    .    . 

16,085,000 

100,00 

Due  terzi  dunque  di  tutti  gli  abitanti  della  Turchia  europea 
appartengono  alla  Chiesa  orientale,  e  un  quarto  solo  alla  religione 
di  Maometto. 

Non  vi  sono  dati  precisi  per  conoscere  il  movimento  della  po- 
polazione nella  Turchia.  Un  fatto  solo  è  eerto,  che  i  Cristiani  sono 
in  aumento,  comunque  questo  non  possa  essere  rilevante  pel  triste 
slato  intellettuale,  economico  e  politico  in  cui  la  razza  dominante 
li  tiene.  Ma  questa  alla  sua  volta  è  in  continuo  decrescimento. 
Mentre  sino  alla  fine  del  secolo  xvii  essa  lanciava  eserciti  di  Otto- 

(l)  Secondo  Kolb  (op.  cit.)  le  cifre  sarebbero  : 


(V-R) 


Greci-Orientali 

10.000.000 

Maomettani 

4,550,000 

Cattolici  . 

640,000 

Israeliti    . 

70,000 

LA  nNlSOLA  8Li.yO-BLLRNICA  337 

mani  sulle  conlrade  civili  dell'Europa ,  e  ne  riempiva ,  dopo  le 
colossali  battaglie  sostenute  colla  Cristianità ,  i  vuoti  con  mirabile 
rapidità,  Tesercito  attuale  di  Abdul-Aziz  non  giunge  a  quei  200,000 
uomini  che  il  granvisir  Kara-Mustafà  condusse  nel  168S  sotto. le 
mura  di  Vienna.  Che  scegli  anche  riuscisse  con  improbi  sforzi  a 
formarne  uno  cosi  numeroso,  potrebbe  rifarlo  dopo  una  sconfitta? 
Nessuno  tampoco  lo  sogna. 

Prova  indubbia  della  decrescenza  degli  Ottomani  è  la  diminu- 
zione della  popolazione  turca  nelle  città  in  cui  sogliono  abitare, 
p.  e.,  Brussa,  che  aveva  100,000  abitanti,  non  ne  ha  adesso  che 
50,000  ;  Erzerum  vide  i  suoi  100,000  abitanti  ridotti  a  45,000  ; 
Cesarea,  che  al  tempo  dell'impero  d'Oriente  ne  avea  400,000,  ora 
ne  conta  25,000  ;  Antiochia  che  ne  aveva  600,000^  ora  ne  numera 
6,000;  Jannina  vide  ridotti  i  suoi  40,000  che  aveva  sotto  Ali  Pascià 
a  5,000;  Prevesa  che  nel  1820  aveva  8,000  abitanti,  ora  ne  ha 
3,000;  Arta  che  nel  1814  aveva  15,000,  ora  ne  ha  5,000;  Scutari 
che  nel  1831  ne  contava  40,000,  adesso  non  ne  ha  più  di  18,000. 

Cosi  le  leggi  della  natura  si  fanno  ministre  della  Provvidenza, 
e  minano  resistenza  stessa  di  coloro  che  sull'opposizione  altrui 
fondano  il  loro  impero. 

Due  fonti  principali  dell'aumento  di  popolazione  dei  Maomet- 
tani si  sono  esaurite,  l'acquisto  di  schiavi  stranieri  (specialmente 
di  prigionieri  di  guerra  e  di  Circassi),  e  la  conversione  all'isla- 
mismo diminuita  d'assai  e  pressoché  cessata.  Cause  gravissime  del 
decrescimento  de'  Turchi  sono  la  demoralizzazione^  la  poligamia, 
quantunque  minore  di  ciò  che  si  crede,  l'abuso  di  bagni  a  vapore, 
il  d^eneramento  fisico  della  razza  e  la  conseguente  accresciuta 
mortalità  sovratutto  ne'  bambini,  la  barbarie  del  regime  e  l'abban- 
dono del  pubblico  benessere,  per  cui  Tagricoltura ,  il  commercio, 
l'industria  e  i  mezzi  di  comunicazione  si  trovano  in  pessima  con- 
dizione, l'infelice  stato  sanitario  e  igienico  del  paese,  e  finalmente, 
almeno  per  lo  passato,  la  peste,  la  quale  comunque  sparita  da  al- 
cuni anni,  a  parere  di  Reden,  non  è  ancora  spenta. 

A 'completare  questo  quadro  cosi  poco  attraente,  é  interessante 
quanto  non  ha  guari  il  professore  dell'Università  di  Oxford,  Goldwin 
Smith,  scriveva  nel  Daily  News  sull'insanabile  decadimento  della 
razza  turca  a  conferma  dell'opinione  di  Reden  ed  a  confutazione 
di  quella  di  lord  Palmerston ,  che  per  iscusare  in  qualche  modo 
l'appoggio  dato  al  recente  prestito  del  governo  ottomano  in  Inghil- 
terra, esprimeva  la  ferma  speranza  nella  rigenerazione  della  Tur- 
chia. (  Se  noi  avessimo  veduto  un  solo  cadavere  di  questa  natura, 
scriveva  il  prof.  Smith,  forse  potremmo  scambiare  la  contrazione 
postuma  de' muscoli  col  ritomo  della  vita.  La  malattia  delle  finanze 


338  RIVISTA   CONTEMPORANEA 

non  è  la  radice  del  male.  La  radice  del  male  è  riposta  in  un'ab- 
biella  immoralità  ch'esclude  qualunque  spirito  di  mortificazione  e 
di  sacrifizio,  qualunque  sforzo  necessario  pel  rinascimento  di  una 
nazione.  I  Turchi  non  sono  una  nazione,  ma  un'orda  degenerata, 
guasta  fino  alle  midolla,  e  moribonda.  Le  orde  de'  Franchi  e  de' 
Goti  sarebbero  forse  nello  stesso  modo  deperite,  se  una  migliore 
religione  non  avesse  combattuto  la  loro  libidine^  e  piantato  in  essi 
il  germe  della  vita  nazionale  p  .  Lord  Palmerston  dice  che  «  la  ri- 
forma delle  finanze  è  la  base  della  forza  di  una  nazione».  Io  mi 
permetterò  di  osservare  che  la  riforma  della  giustizia  di  cui  vi  ha 
necessità  in  Turchia,  non  lo  sia  meno.  Senonchè  condizione  del- 
l'una e  dell'altra  è  la  nazionale  moralità,  e  questa  manca  affatto, 
né  vi  è  pur  speranza  che  alligni.  Un  turco  farà  discreti  sforzi,  anzi 
commetterà  i  più  gravi  delitti  onde  procurarsi  danaro  pe'  suoi  pia- 
ceri, ma  non  muoverà  un  dito  per  pagare  i  suoi  debiti,  e  mollo 
meno  quelli  dello  Stato.  Un  turco  povero  ha  bensì  le  negative  virtù 
dell'indigenza,  ma  ove  lo  s'innalzi  al  potere,  diventa  vittima  della 
più  grossolana  voluttà,  e  per  conseguenza  della  corruzione,  né  altro 
miglior  fine  si  propone  nella  sua  vita  politica. 

Lord  Palmerston  ha  senza  dubbio  uno  scopo  diplomatico 
«  l'equilibrio  europeo  »  davanti  agli  occhi.  Io  dal  mio  canto  con- 
fesso che  né  coH'aiuto  della  storia  né  con  quello  della  geografia 
arrivo  a  indovinare  come  l'esistenza  di  una  mera  impotenza  possa 
giovare  alla  conservazione  dell'equilibrio  europeo.  La  popolazione 
della  Turchia  non  è,  come  dice  lord  Palmerston,  una  •  razza  misla  • . 
Essa  consta  di  due  distinti  e  nemici  elementi,  i  conquistatori  che 
sono  per  sparire  e  le  schiatte  vinte,  la  cui  nazionalità  fu  salvata 
da  rovina  mercè  la  religione.  Né  ho  il  più  lontano  motivo  da  rite- 
nere, che  per  l'ingerenza  da  noi  presa  nelle  condizioni  finanziarie 
della  Turchia,  l'odio  religioso,  come  dice  Palmerston,  si  ammansi, 
e  finisca  col  cessare  affatto.  Santa  Sofia  era  una  volta  chiesa  cri- 
stiana, ed  ora  è  moschea  turca.  Essa  è  destinata  di  nuòvo  e  presto 
a  ridivenire  tempio  cristiano.  Per  molti  motivi  io  devo  combattere 
una  politica  che  sarebbe  cagione  onde  uno  Stato  cristiano  come 
l'Inghilterra  provi  dolore  anziché  gioia  per  un  simile  mutamento». 

B.  Grecia  indipendente 

Questo  Slato  componesi  di  una  parlo  continentale  che  si  estende 
al  disotto  di  una  linea  tracciata  fra  i  golfi  di  Volo  ed  Aria  (Attica, 
Megaride,  Etoha,  Acarnania,  Beozia)  sino  allo  stretto  di  Corinto; 
della  penisola  di  Morea  (Laconia,  Messenia,  Acaja,  Elide,  Argolide, 


LA  VENISOLA   SLAVO-ELLBNICA  339 

Arcadia);  deirisola  di  Eubea,  delle  Sporadi,  delle  Cicladi  e  d*Idra. 
La  sua  superficie  abbraccia  solamente  895,88  ra.  g.  q. ,  e  forma 
appena  il  4/2  per  O/O  di  quella  dell'Europa,  e  2/3  della  grandezza 
della  Baviera.  Essa  si  divide,  dal  1845,  in  10  nomarchie  (circoli) 
e  49  eparchie  (distretti). 

La  popolazione  della  Grecia,  all'epoca  della  fondazione  del  reame 
(7  marzo  1832)  conslava,  secondo  Thiersch,  829,985  abitanti,  se- 
condo Urquharth  867,000.  Questa  cifra  sembra  tropp'alta,  perchè 
l'anagrafe  del  1835  la  portava  a  674,185  abitanti,  quella  del  1840 
ancor  più  esatta,  a  856,470.  La  popolazione  degli  anni  1844, 1850, 
1852  appare  la  seguente  : 

1844  1850  1852     i}) 

930,300  995,866  1,002,112 

L'emigrazione  cagionata  dalla  poca  fecondità  del  suolo  di  alcune 
Provincie,  e  l'assenza  all'estero  di  molti  Greci  ritardano  l'aumento 
della  popolazione,  la  quale  nell'anno  1852  non  contava  per  media 
pili  di  1119  abitanti  sopra  un  miglio  g.  q.,  ed  occupa  sotto  questo 
aspetto  appena  il  53^  posto  in  Europa.  Ove  lat5recia  avesse  la  den- 
sità della  popolazione  della  Prussia,  essa  dovrebbe  avere  2,970,000 
abitanti.  —Solamente  quattro  città  hanno  più  di  10,000  abitanti. 
Atene  con  circa  32,000,  Idra,  Ermopoli  e  Patrasso  nell'Acaja;  85 
contano  da  2000  a  10,000. 

La  quasi  totalità  della  popolazione  professa  la  religione  greca 
orientale.  Vi  sono  24,000  cattolici  nelle  isole  e  piazze  di  commer- 
cio eon  un  arcivescovo  e  tre  vescovi,  1000  Maomettani,  dì  cui  la 
maggior  parte  nell'Eubea  (Negroponte),  e  qualche  centinaio  di  pro- 
testanti ed  ebrei  nelle  piazze  commerciali. 

Due  razze  del  tutto  distinte  abitano  la  Grecia.  La  diversità  della 
statura,  dell'aria  del  viso,  de'  costumi  e  della  lingua  che  non  ha 
niente  di  comune  col  greco  antico  e  moderno,  fanno  conoscere  a 
colpo  d'occhio  gli  Albanesi  come  stranieri.  Emigrati  nel  xrv  e  xv 
secolo  dall'Illirio  e  dall'Epiro,  essi  occuparono  la  più  gran  parte 
dell'Attica^  della  Beozia,  di  Corinto^  le  coste  vicine  del  Peloponneso 
e  qualche  parte  dell'interno  della  penisola ,  e  più  tardi  le  isole 
dldra,  Spezia  e  parte  di  quelle  di  Andros  e  Negroponte.  Comun- 
que avessero  i  caratteri  di  una  razza  del  tutto  distinta ,  e  formas- 

(1)  La  statistica  del  1856  dà  1,067,216  anime.  —  I  cattolici,  giusta  il 
Kolb  (3ediz.),  sono  30,000.  — Per  nazionalità  novera  700,000  greci  pro- 
prii,  280,000  Albanesi,  20  a  30,000  Armeni  (credo  abbia  voluto  dire  Ru- 
mani),  e  500  Israeliti.  (V-R) 


340  RIVISTA.   CONTBMPORANBA 

sero  la  quinta  parte  della  popolazione ,  e  potessero  quindi  pesare 
sui  destini  della  Grecia,  essi  non  pensarono  mai  alzare  altare  con- 
tro altare,  né  congiurare  coi  nemici  del  paese  pel  servaggio  morale 
e  civile  di  una  patria ,  della  quale  divennero  cittadini  dopo  avere 
commisto  il  proprio  sangue  col  sangue  greco  nella  guerra  decen- 
nale dell'indipendenza.  Per  quanto  questo  giovine  Stato  sia  laceralo 
da  partili,  è  certo  ormai  che  questi  due  popoli  si  guardano  come 
fratelli  e  figli  di  una  medesima  patria,  e  che  tulli  gli  Albanesi  par- 
lano, oltre  alla  propria,  la  lingua  greca,  e  che  ormai  anche  le  lor 
donne,  quasi  tutte,  conoscono  ambo  gl'idiomi.  Reden  sostiene  in 
opposizione  alla  credenza  di  molti,  che  gli  Albanesi  sono  indefessi 
agricoltori  e  lavoratori,  e  che  piuttosto  peccano,  a  suo  parere, 
d'indiflerentismo  ed  ostinazione,  e  sono  superati  da'  Greci  in  ope- 
rosità ed  abilità. 

n  nostro  autore  non  vuole  agitare  la  questione  se  i  Greci  mo- 
derni sieno  i  discendenti  di  Milziade  e  di  Temistocle ,  e  di  coloro 
che  fondarono  l'impero  d'Oriente,  ovvero  se,  come  altri  vuole,  de- 
rivino dai  coloni  dell'Anatolia  e  parlino  una  lingua  che  è  una  bar- 
bara trasformazione  del  greco  antico.  Non  si  può  però  negare, 
lasciando  intatta  la  questione,  una  perfetta  corrispondenza  di  doni 
naturali  fra'  Greci  antichi  e  moderni,  sia  ch'essa  derivi  dall'identità 
del  suolo,  del  clima  o  del  linguaggio,  questo  puntello ,  come  dice 
Reden  ,  d'ogni  intellettuale  e  morale  sviluppo,  o  da  quelle  poche 
goccie  di  sangue  greco  antico  che  si  trovano  ancora  nella  presente 
generazione,  e  che  con  magica  forza  penetrano  la  massa  del  san- 
gue straniero.  Questa  corrispondenza  si  trova  senza  fallo  in  quella 
mirabile  facoltà  di  discorrere  propria  della  patria  di  Demostene  e 
di  Eschine,  e  posseduta  spesso  anche  dai  Greci  più  incolti  e  mollo 
più  dagli  istrutti.  Questo  dono  che  i  Greci  chiamano  dono  della 
lingua  consiste  nel  trovar  sempre  la  parola  acconcia  e  nello  spar- 
gere sul  discorso,  mediante  un' aggradevole  intonazione,  luce  ed 
ombre.  Non  vi  ha  dubbio  che  tutti  i  meridionali  dal  più  al  meno 
la  posseggono,  ma  nessuno  in  modo  cosi  perfetto  e  mirabile  come 
i.  Greci. 

Da  un'oppressione  senza  esempio  nelle  storie,  e  che  presente- 
mente pesa  sugli  Slavi  e  sui  Greci  della  Turchia  europea,  i  popoli 
ohe  abitano  la  Grecia  indipendente  si  sono  sollevali  a  Stalo  libero. 
Non  è  quindi  da  meravigliarsi  se  si  veggano  tuttora  le  traccio  di 
quella  demoralizzazione,  che  è  una  necessaria  conseguenza  del 
despotismo  e  della  tirannide.  Se  la  rapina,  la  frode  e  il  mendacio, 
queste  infauste  armi  di  cui  i  Greci  si  servirono  altre  volte  per 
combattere  chi  li  opprimeva,  non  sono  ancora  spariti  dopo  conse- 
guita l'indipendenza,  si  può  egli  dire  per  ciò  che  abbiano  guastato 


LA   PENISOLA   SLAVO-BLLBNICA  341 

nelle  radici  il  carattere  nazionale  greco,  come  alcuni  sostengono? 
Reden  risponde  risolutamente  che  iiOy  e  dice  che  se  l'istruzione 
nulla  può  sopra  una  natura  pervertila,  e  se  invece  è  dimostrato 
che  dall'epoca  del  risorgimento  della  Grecia,  la  moralità,  il  rispetto 
alla  legge ,  l'onestà  hanno  progredito,  si  deve  conchiudere  che 
quelle  reliquie  di  un  triste  passato  non  sono  passate  in  natura. 
Quest'opinione  si  fonda  sulla  certezza  che  nella  Grecia  sono  diffuse 
virtù  civili  e  private  che  non  potrebbero  coesistere  con  una  demo- 
ralizzazione radicata  o  generale,  e  che  anzi  sono  capaci  ad  estir- 
pare poco  a  poco  i  tristi  effetti  di  spaventevoli  calamità.  Se  un 
egoismo  senza  cuore  sì  fosse  insignorito  degli  animi,  quei  vizii  dai 
quali  singoli  soltanto,  come  in  ogni  paese  sono  attaccati,  sarebbero 
insanabili.  Ma  quando  vediamo  da' Greci  praticate  le  più  belle  virtù 
familiari,  e  il  candore  del  costume,  la  fedeltà  coniugale,  l'ospitalità 
tenuti  in  onore^  quando  ricordiamo  quei  prodigii  di  eroismo  pale» 
sali  nella  guerra  dell'indipendenza  che  hanno  rinnovato  le  gloriose 
lotte  di  Maratona,  di  Salamina  e  delle  Termopile,  dobbiamo  dire 
che  un  popolo,  il  quale  conserva  cosi  profondo  il  cullo  della  fami- 
glia e  della  patria,  non  solo  non  è  guasto,  ma  è  capace  di  qualun- 
que grandezza  morale  e  civile.  Purtroppo  avviene  che  quando  il 
despotismo  col  suo  braccio  di  ferro  e  colle  arti  più  abbiette  del  mal 
governo  ha  cercato  di  uccidere  fisicamente  e  moralmente  un  popolo, 
per  ultimo  oltraggio  cerca  di  diffamarlo,  onde  non  possa  più  ri- 
sollevarsi nella  coscienza  di  se  medesimo  e  nell'estimazione  delle 
genti  civili.  Ma  anche  questo  attentato  alla  vita  morale  delle  na- 
zioni fallisce,  e  viene  il  tempo  in  cui  esse  subitamente  e  mera- 
vigliosamente affermano  la  propria  esistenza,  e  rivendicano  la 
propria  fama. 

Questo  quadro  che  abbiamo  delineato  de'Greci  moderni,  mentre 
pone  in  rilievo  le  virtù  e  i  difetti  della  loro  indole,  contraddice  da 
una  parte  alle  accuse  lanciate  ad  essi  da  certi  dotti  che  a  volo  d'uc- 
cello hanno  visitato  la  Grecia,  e  si  son  querelati  di  non  aver  po- 
tuto ritrovare  la  loro  antica  Eliade,  e  smentisce  le  calunnie  che 
lo  spirito  di  partito  spargeva  a  loro  carico,  e  che  trovavano  ali- 
mento sino  dalla  fondazione  del  regno  nei  palazzi  degli  amba- 
sciatori delle  potenze  protettrici.  Non  è  lontano  il  tempo  in  cui 
si  dipingeva  a  tetri  colori  l'amministrazione  interna  della  Grecia, 
perchè  un  principe  russo  potesse  salirne  il  trono ,  mentre  l' In- 
ghilterra ad  impedire  che  ciò  avvenisse,  maltrattava  il  piccolo 
reame  più  duramente  delle  isole  Jonie  da  lei  protette  (1).  Se  le 

(I)  Lo  avere  i  Greci  prescelto  per  suffragio  universale  a  loro  Re  il  prin- 
cipe Alfredo  d'Inghilterra  in  luogo  del  detronizzato  Ottone  il  Bavaro, 
prova  che  l'Inghilterra  non  bistrattò  quel  reame.  (V-R) 


342  BIVISTA  CONTEMFOBANBA 

polenze  protellrici,  conchiude  quest'oneslo  e  illustre  (edesco,  aves- 
sero fatto  la  Grecia  tanto  grande  da  essere  Capace  di  un  regolare 
sviluppo^  e  da  non  avere  bisogno  della  loro  struggilrice  tutela , 
allora  i  trentanni  che  scorsero  dalla  fondazione  del  reame  avreb- 
bero potuto  servire  di  giusta  base  a  un  sicuro  giudizio  sull'avve- 
nire del  popolo  greco. 

Se  ci  fosse  dato  di  passare  in  rassegna  le  condizioni  economiche 
della  Grecia,  mostreremmo  ch'essa,  ad  onta  degli  angusti  confini 
del  suo  territorio,  della  scarsezza  della  popolazione  e  degli  intrighi 
della  diplomazia  ha  fatto  relativamente  maggiori  progressi  del 
Belgio,  e  ci  persuaderemmo  che  la  Grecia  e  la  Serbia,  posta  al- 
l'altro estremo  della  penisola,  sono  le  due  leve  del  risorgimento 
deirOriente  europeo. 


Aw.  Costantino  Vojnovic. 


343 


PENSIERI 

SUL  ROMANZO  INTIMO  ITALIANO 

DOPO   MANZONI  ^> 


Fede  e  Bellezza^  racconto  di  Niccolò  Tommaseo.  Egli  è  uno 
studio  psicologico ,  il  quale  appartiene  al  genere  del  Werther  e  dello 
Jacopo  OrtiSy  avvegnaché,  come  l'autore  medesimo  dichiara,  sotto 
nomi  supposti  vi  si  descrivono  le  vicende  di  due  amanti  misteriosi. 
Il  Tommaseo  nell' ordire  il  suo  racconto  non  si  lasciò  guidare  a  rigor 
di  logica,  ma  procedette  innanzi  a  sbalzi,  con  volo  direi  quasi  ca- 
priccioso e  lirico.  Lungi  dal  seguire  le  ordinate  e  progressive  fasi 
di  un  racconto,  egli  pasta  indifferentemente  da  un  oggetto  all'altro; 
ora  narra,  ora  disserta,  ora  descrive;  non  usa  verun  artificio  per 
nascondere  il  fine  a  cui  mira  ;  ha  spirito,  eleganza,  sentimento,  ma 
non  la  volontà  necessaria  per  isfuggire  gli  accidenti  del  cammino 
che  lo  distornano  dalla  meta;  in  sostanza  il  Tommaseo  in  codesto 
suo  pregievolissimo  scritto  arieggia  piuttosto  il  moralista  od  il 
poeta,  che  il  romanziere.  Ma  sotto  il  suo  punto  di  vista,  quanta  sa- 
pienza, quanta  bellezza  ha  egli  saputo  includere  in  sì  picciol  volume! 
Da  ogni  pagina,  da  ogni  linea,  per  così  dire,  trapela  Tindole  ardita 
e  delicata  del  pensatore,  del  patriota,  dell'esule  ispiratosi  a  reli- 
gione pura,  a  filosofia  vera  e  profonda,  a4  immaginazione  vivissima, 
ad  affetti  alti  ed  intensi,  e  perchè  si  tratta  di  uno  tra'  più  eleganti 
scrittori  del  nostro  tempo,  e  di  tal  componimento,  m  cui,  più  che  il 
soggetto  della  narrazione,  deve  ammirarsi  lo  stile  e  la  lingua,  credo 
sia  pregio  dell'opera  citarne  all'opportunità  qualche  brano,  nel  men- 
tre che  ne  andrò  facendo  l'analisi. 

Il  libro  si  divide  in  quattro  parti.  Nella  prima  l'italiana  Maria 
imbattutasi  in  Bretagna  con  Giovanni,  pur  esso  italiano,  gli  racconta 

(*)  Vedi  il  fascicolo  di  Aprile. 


344  BIVISTA   CONTBMPOBANEA 

la  propria  vita  per  simpatia  nata  in  fra  loro.  Ciò  avviene  lung^  le  rive 
deirOdet,  mentre  l'uno  e  l'altra  discendono  insieme  quel  fiume.  Il 
modo  di  descrivere  è  succoso,  a  brevi  tratti,  incisivi,  parlanti  ;  il 
metodo  è  raro,  le  idee  poetiche  e  vive,  lo  stile  e  la  lingua  eletti. 
Ecco  in  qual  modo  egli  comincia  la  sua  narrazione. 

e  Scendevamo  il  fiume.  Le  rive  ora  accostate,  ora  ritraendosi  in 
«  seni  ameni,  ora  lasciando  all'acque  quiete  ampio  letto,  mostravano 

<  qui  l'ombre  rade  e  là  più  fitte,  qui  l'erboso  declivio,  là  il  poggio 
«sassoso,  segnato  di  sentieretti  che  s'inerpicano  lenti  per  l'erta. 
«  L'erbette,  che  facevano  sdrucciolevoli  gli  scogli  dappiede,  col  verde 
«  vivo  avvivavano  il  luccicare  dei  fiori  sopra  tremolanti  ;  sotto  il 
«  cielo  placido  e  fosco  gli  alberi  parevano  spandere  più  rigogliosa 
«  la  vita.  Montava  il  flusso  marino  ;  e  scossa  ad  ora  ad  ora  da  un 
«  buffo  di  vento  gocciolava  la  pioggia  :  sotto  la  pioggia  vogavano 
«  in  silenzio  pescatori,  uomini  e  donne,  a  cercare  nell'alto  il  vitto 

<  alla  povera  famiglinola.   Era  di  giugno,  ma  rigido  il  tempo  :  se 

<  non  che  una  modesta  pace,  una  delizia  raccolta  spirava  nell'aria, 
«simile  alla  malinconia  di  timida  giovinezza.  Il  canto  lontano  del 
«  gallo  chiamava  a  destarsi  la  campagna  dormente  :  e  molti  uccelli 
«  con  le  vispe  voci  facevano  alla  primavera  restia  dolce  invito.  Maria 
«guardava  alle  nubi,  alle  acque  dell' Odet,  a  Giovanni;  egli  sotto 
«le  nebbie  della  Bretagna  pensava  all'Italia.  Sbarcarono  a  dritta  ;  e 
«lasciato  ire  il  barchetto  a  Benodet,  si  raccolsero  in  una  casuccia 
«abbandonata,  e  misero  fuori  un  desinarin(^di  verdura,  ova,  frutte; 

<  e  il  sedile  ch'era  lor  mensa  e  la  terra  sparsero  di  fiori  bianchi,  gialli, 
«  celesti,  colti  sui  massi  sporgenti.  Finito,  sedettero  sull'orlo  dell'ac- 
«qua,  che  il  cielo  era  un  po' serenato  >.  Maria  è  la  vittima  di  un 
fallo,  è  la  donna  errante,  e  la  sua  vita  che  comprende  una  serie  di 
strani  casi,  di  speranze  e  delusioni,  di  amori,  di  tradimenti,  di  sven- 
ture, la  si  legge  con  piacere,  curiosità  e  compassione  ad  un  tempo. 
Orfana  a  sedici  anni,  per  la  morte  del  padre  veterano  delle  guerra 
napoleoniche,  fu  costretta  partire  di  Pisa,  onde  ricoverarsi  presso 
una  zia  in  Corsica.  Passando  di  Bastia  ella  usci  sola  per  vedere  dal 
poggio  alla  Croce  il  cimitero,  ove  sepolti  suo  padre  e  sua  madre. 
Tenere  immagini  !  «  Salii  l'erta  ansando.  La  luna  dava  sul  colle  de- 
«  solato,  sulle  tombe  rade,  sulle  umili  croci.  Cercai  col  pensiero  sot- 
«  terra,  tra'  cadaveri  ignoti,  le  due  spoglie  care  ;  mi  parve  di  ritro- 
«varie;  e  inginocchiata  pregai.  Bitta  in  piedi,  guardai  la  marina 
«  spumante,  la  città  queta,  il  cielo  sereno  ;  diedi  un  ultimo  sguardo 
«al  poggio  della  morte;  e  scesi,  ora  incespicando  ne' cardi,  ora 
q: sdrucciolando  a  passi  spessi  pèrla  rapida  china». 

Poco  dopo  capitata  in  Ajaccio  certa  Blandin,  vedova  di  un  cugino 
del  padre  di  Maria,  coLpretesto  di  rafSnarne  l'educazione  conduce 


PBN8IBBI  SUL  ROMANZO  INTIMO  trALIAKO  945 

•eco  la  gioTinetta  a  Parigi,  ma,  perdutissima  donna  ch'ella  era, 
per  gittarla  inTece  nel  &ngo  della  corruzione  parigina. 

B  qui,  dopo  il  bel  quadretto  casalingo,  in  cui  si  descrivono  alla 
partenza  di  Maria  le  amorose  cure  della  buona  zia  di  Aiaccio,  ti 
YÌen  sott'occbìo  l'orrìbile  dipintura  della  donna  traviata.  Com'ella 
deplora  la  sua  triste  situazione!  eli  disonore!....  Questo  mi  dice- 
€  vano  gli  sguardi,  il  silenzio  della  gente.  L'anima  nessuno  la  vede; 
<  e  con  che  sentimenti  nobilitassi  il  mio  stato,  con  che  dolori  lo 
e  espiassi,  nessuno  sapeva:  ma  ch'era  mantenuta,  lo  vedevano  tutti. 
«  n  mondo  è  cosi  ;  i  più  corrotti  scusano  certe  cose  in  generale  e 
e  per  sé  ;  nel  fatto,  e  in  altri,  le  dannano  con  freddezza  spietata.  Egli 
e  verso  di  me  di  giorno  in  giorno  men  tenero  ;  qualche  lite  per  baz- 
f  zecole  stiracchiata  fino  a  stuccare  ;  qualche  bottata  di  nobile,  tnddà 
€  e  acuta.  Io  lo  lasciavo  fare  chiusa  in  silenzio  tra  rassegnato,  su- 
€  perbo,  tìmido,  e  disperato.  Mi  struggeva  sola  in  pensieri  senza  la- 
€  grimo  ».  La  Maria  era  stata  venduta  dalla  Blandin  ad  un  principe 
russo,  il  quale  ben  presto  l'abbandonò.  La  disperazione  di  una  donna 
deserta  ed  oppressa  non  potrebbe  essere  meglio  descritta. 

e  Àf^na  ebbe  chiusa  la  porta,  caddi  sopra  una  peggìolà  come 
e  tramortita.  Quanto  cosi  rimanessi,  non  so.  Scossa  a  un  tratto,  presi 
«  una  ooroncina,  memoria  di  mia  madre  :  i  cento  franchi  che  la  mia 
€  povera  zia  d'Àiaccio  mi  aveva  messi  insieme  al  partire  ;  e  cosi  in 
«  capelli,  uscii  lungo  Senna.  Uscii  senza  pensiero  di  morte.  Chi  ha 
e  forza  d'uccidersi,  è  segno  che  soffre  meno,  perchò  il  gran  dolore 
€  tronca  la  volontà.  Non  conoscevo  nessuno  a  chi  confidarmi.  Fosse 
«  stata  aperta  una  chiesa,  o  il  giardino!  Il  primo  pensiero  fu  prò- 
€  strarmi  a  pregare  ;  poi  gettarmi  sotto  un  albero  delle  Tuillerie,  ed 
«  abbracciare  la  terra,  e  gridare  il  pianto  senza  parola.  Giunsi  al 
«  Ponte  reale,  e  mi  posi  sugli  scalini,  la  fronte  sulle  ginocchia,  i 
e  capelli  sugli  occhi  ;  sopra&tta,  più  che  disperata,  non  poteva  fis- 
€  sare  il  pensiero  nello  stato  mio  ;  quel  che  io  sentissi,  non  rammento  : 
e  ma  veggo  ancora  la  notte  tranquilla  e  cupa,  la  luna  simile  a  nu- 
€  vola  pallida ,  le  stelle  dubbie ,  ritirate  nel  fondo.  Stavo  come  in 
f  letargo». 

Muore  frattanto  la  Blandin  nel  carcere  dei  debitori  a  Clicby,  e 
Maria  si  rifugia  per  lavorare  presso  Rosa,  giovine  operaia  lucchese. 
Se  non  che  vedendo  come  questa  ingelosisce  del  suo  damo,  ella  per 
prudenza  è  costretta  allontanarsi.  Sono  scene  piene  di  verità  e  di 
cuore.  La  morte  dell'iniqua  Blandin  è  dipinta  al  vivo  con  pochi 
tocchi. 

e  Di  via  di  Sèvre  in  via  Clicby  camminammo  noi  due  poverette,  mal 
e  coperte  ;  e  l'acqua  diaccia  spruzzata  dal  vento  c'inzuppava  di  sopra, 
e  la  mota  da' piedi.  Arrivammo  intiriszitei  tossicando,  al  letto  di  lei 


34ft  BIVISTA  CONTBMPOBANBA 

ceche  moriva.  Quanto  mutata  dairaucor  vispa  donna  d*un  mese  fa! 
«  L'alito  sibilante,  rotta  la  voce  e  dura,  le  occhiaie  azzurre  sul  giallo, 
«  le  grinze  intorno  fitte  e  schifose  più  che  di  vecchia  ;  gli  occhi  er- 
«ranti.  Sole  le  braccia,  belle  tuttavia,  facevano  più  spaventosa  la 
e  morte.  Sprofondata  in  sé  quell'anima  pareva  non  sentire  le  cose 
«  di  fuori,  e  pur  si  protendeva  a  quelle,  e  cercava  brancolando  la 
«vita.  Mi  disse:  addio  per  sempre.  Maria.  Vi  ringrazio;  domando 
«  perdono.  Pigliate  esempio.  Pregate  per  me  che  non  lascio  nessuno 
i(  al  mondo.;...  Dio  mio!  —  Si  contorse,  si  distese,  e  spirò  n.  —  Quindi 
Maria  trovandosi  affatto  sola,  dopo  molto  girovagare,  dopo  molte 
lusinghe  di  amori  e  di  amicizie,  disillusa,  schifita,  col  mezzo  dì  un 
buon  prete  vien  posta  fra  le  suore  di  carità  di  Lione.  —  Più  tardi 
inviata  da  queir  ecclesiastico  presso  la  famiglia  di  lui  a  Quimper  in 
Bretagna,  quivi  ella  trovò  accoglienza  di  cuore,  e  lavoro. 

~7  La  seconda  parte  del  racconto  del  Tommaseo  contiene  la  vita 
di  Giovanni,  la  quale  è  descritta  in  un  giornale,  dove  questi  aveva 
segnato,  come  asserisce  egli  stesso,  a  sbalzi  dal  28''  al  35^  anno  del- 
Tetà  sua,  molti  proprii  casi,  impressioni  e  pensieri  in  tempi  e  luoghi 
diversi,  e  sopra  diversi  oggetti.  Vi  è  in  quel  quaderno  gran  copia 
di  alti  concetti  filosofici  e  religiosi,  vi  è  largamente  impresso  T amore 
della  patria,  lo  studio  del  cuore  umano,  e  delle  razze  europee  ;  vi  è 
infine  una  poesia  elevata  e  vergine,  che  si  rivela  ad  ogni  pagina 
con-  immagini  vive,  nuove,  e  con  frasi  concettose,  rapide,  profonda- 
mente espressive.  I^  vita  di  Giovanni  consiste  in  viaggi  da  lui  fatti 
in  Italia  e  in  Francia,  in  fine  dei  quali  conobbe  Maria,  a  cui  diede 
il  suo  giornale  perchè  lo  leggesse. 

Cosi  l'autore,  a  luogo  di  fare  una  nuova  minuziosa  narrazione, 
adopera  questo  ingegnoso,  quantunque  non  peregrino  mezzo,  per  dare, 
con  qualche  varietà,  contezza  delle  avventure  del  nuovo  amante  di 
Maria.  Come  sono  belle  le  meditazioni  poetiche,  e  le  descrizioni  ! 

,  «  Le  bellezze  sono  nell'anima  del  riguardante,  messevi  e  commos- 
«sevi  da  Dio;  le  cose  di  fuori  non  fanno  che  destare  l'armonia  del- 
«  l'interno  strumento.  La  natura  men  bella  ti  rimanda,  ti  riconduce 
«  alla  bellissima  che  già  contemplasti,  o  nella  quale,  non  sentita,  pò- 
«  sasti  come  fanciullo  dormente  tra' fiori.  E  allora  un'acqua  torba 
«  che  sotto  cielo  nebbioso  non  renda  il  verde  fitto  della  sponda,  una 
«riviera  acclive  ed  ignuda,  un' isoletta  alberata  tutta,  una  proda 
«  qua  e  là  ingiardinata,  dove  nella  Loira  si  guardi  la  rosa  del  Gange; 
«allora  lo  scorrere  tacito  de'battelli  sulle  meste  acque,  e  gli  alberi 
«  delle  barche  che  alla  vista  si  confondono  con  que'  della  riva,  o  pa- 
«  jono  crescere  sul  medesimo  suolo,  e  le  case  sparse  che  dalla  spiaggia 
«vanno  salendo  il  dolce  pendio;  allora  un  uomo  che  seduto  su  un 
«ponte  legga  o  guati  quasi  stupido  l'acqua  che  infaticabile  va;  al- 


PENSIERI  STL  BOMÀNZO  INTIMO  ITALIANO  347 

«  lora  un  lume  che  nejla  notte  trapeli  dalle  finestre  mal  commesse 
«di  lontana  casupola  e  poi  dispaia;  un  raggio  di  sole  che  vincaia 
«  nube,  e  distingua  d'ombre  vive  e  di  luce  la  terra,  e  saluti  la  cara- 
«pagna  assorgente  a  quel  cenno,  com'esule  fuggitivo  saluta  la 
«donna  amata  e  amorosa;  allora  una  scossa  di  pioggia,  e  il  rusi- 
«gnolo.che  suJl'umide  foglie  canta  un  poco  e  poi  tace;  ogni  atto, 
«ogni  ammiccare  a  te  della  santa  natura,  ti  riferiscono  di  vitali 
«saette  d'amore  l'anima  consenziente  ]>.  — 

E  quanto  nuove  ed  intime  le  riflessioni  sulla  donna  1  «Rao- 
«  colgo  nella  memoria  le  donne  che  pensai  con  affetto.  Sotto  a  quei 
«  visi  arridenti,  come  sotto  maschera  fine  ma  opaca,  altri  vi  si  na- 
«  scondono  (gli  aspetti  deir anime)  assecchiti,  contratti,  grondanti  di 
«pianto.  Oh!  chi  potesse  in  un  punto  vedere  quant*arie,  e  quante 
«cere,  e  quante  fisionomie  fece  aspetto  di  donna  dalla  pubertà  al- 
«Fagonia!  Varietà  tremenda,  tremenda  unità.  Lieta  schiera  a  ve- 
«  derla  !  Candide  nel  pallore,  candide  nel  rossore,  pallide  nel  bruno 
«  bramoso;  ardite  fattezze  o  tenere;  gracili  o  forti,  alte  o  poche  della 
«persona;  di  città,  di  campagna;  sull'erta,  sul  pendio  della  vita; 
«da' suoi  spregiate  o  dilette;  beate  di  povertà  monda  o  afflitte  di 
«gn^ve  ricchezza;  in  Dio  raccolte,  di  lui  non  curanti;  significanti 
«  l'amore  con  lode  lontana ,  con  lunghi  sguardi ,  con  brevi  parole, 
«  con  dimestichezza  procace.  Non  lunga  schiera,  e  pur  troppa  !  E  già 
«  1  nomi  delle  più  mi  fuggirono:  e  i  visi  riflessi,  quasi  in  acqua  com- 
«  mossa,  tremolano  nel  pensiero,  e  l'un  nell'altro  si  confondono:  e 
«  da  quell'ondeggiare  contraffittti  per  poco  si  ricompongono  più  gen- 
«tili  che  main. 

Da  codesto  scambio  di  confidenza  nacque  un  mutuo  affetto  tra 
Giovanni  e  Maria  che  li  condusse  al  matrimonio,  ed  è  in  eiò  la  ma- 
teria della  terza  parte  del  libro,  nella  quale  è 'da  osservare  una  pro- 
fonda analisi  del  cuore  umano.  Cosi  la  quarta  parte  abbraccia  la  vita 
coniugale  dei  due  amanti,  fino  alla  morte  di  Maria,  che  mancò  per 
tisi.  Dopo  la  magnìfica  descrizione  del  duello  tra  Giovanni  ed  un 
francese,  che  aveva  in  sua  presenza  insultato  l'Italia,  bisogna  ammi- 
rare in  quest'ultima  parte  dell'opera  il  quadro  della  malattia  e  della 
morte  di  Maria,  che  è  quanto  di  più  toccante  e  vero  possa  immagi- 
narsi, e  sforza  il  lettore  al  pianto.  Basterebbe  questa  sola  descrizione 
per  assicurare  al  Tommaseo  la  fama  di  valentissimo  scrittore  e  filo- 
sofo. —  In  conclusione  il  racconto  Fede  e  Bellezza,  sebbene  succinto 
e  povero  di  grandi  e  svariati  intrecci,  non  può  non  essere  caro  ài 
lettori,  specialmente  istruiti,  i  quali  dovranno  mai  sempre  accordargli 
il  pregio  inestimabile  di  uno  stile  puro  ed  elevato,  il  naturale  e  ragio- 
nato svolgimento  delle  passioni,  una  certa  novità  di  forma,  ed  un  sor- 
prendente artificio  nell' esporre  le  soavi  e  sublimi  idee,  di  cui  è  pieno. 


348  BITISTA  00NTBMP0BAN1EA 

Non  avevo  appena  gettate  sulla  carta  queste  mie  osservarioni 
sull'opera  del  Tommaseo,  quando  mi  pervennero  i  racconti  del  gio- 
vine veneto  Ippolito  Nievo,  svegliatissìmo  ingegno  ahi  groppo  imma- 
turamente e  crudelmente  rapito  airitalia  nel  più  bel  verde  degli  anni 
suoi,  dappoiché  dopo  avere  strenuamente  combattuto  nelle  file  di 
Garibaldi,  spari  nel  1861  fra  le  deplorate  vittime  del  piroscafo  VEr* 
cole  ingoiato  dal  mare  mentre  salpava  dalle  coste  di  Sicilia.  Bgli  ci 
ha  lasciato  II  Conte  Pecoraio,  Angelo  di  bontà,  e  Le  Avventure  del 
barone  di  Nicaetro,  oltre  alcune  novellette. 

Nel  Conte  Pecoraio  il  Nievo  descrive  le  vicende  di  una  giovinetta 
contadina  del  Friuli  Maria  di  Torlano,  figlia  del  così  detto  Conte 
Pecoraio,  perchè  povero  pastore  di  pecore,  sebbene  legato  in  paren- 
tela col  conte  feudatario  di  quel  castello.  La  storia  di  Maria  di 
Torlano  ha  molta  analogia  con  quella  dell'Angiola  Maria  di  Garcano; 
però  vi  è  questa  diversità,  che  nella  Maria  friulana  abbiam  lo 
sconcio  di  una  seduzione  con  tutte  le  sue  conseguenze  non  troppo 
indicate  pe'  libri  che  debbono  porsi  anche  in  mani  di  costumate  fan* 
ciuUe.  —  Codesta  giovine  friulana  era  amata  schiettamente  dal  buon 
contadino  Natale  Romano,  ma  partito  questi  per  l'esercito,  ella  restò 
vittima  del  conte  Tulio  di  Torlano,  sfrenato  e  malvagio  figlio  della 
feudataria.  Convinta  che  il  suo  seduttore  l'abbandonava  a  fine  di 
sposarsi  con  una  ricca  damina,  ella  s'involò  dalla  casa  patema  per 
nascondere  gli  effetti  del  suo  disonore,  e  andò  ramingando  qua  e  là, 
finché  divenuta  madre  ebbe  modo  di  allogarsi  col  suo  bambino  in 
qualità  di  serva  presso  la  doviziosa  famiglia  Del  Campo  a  Bereguardo. 
Dopo  alquanti  giorni  giunse  all'improvviso  il  fidanzato  della  giovine 
padrona  Emilia  Del  Campo,  e  qual  non  fu  Tangoeciosa  sorpresa  della 
infelice  Maria  scorgendo  in  lui  non  altri  che  il  conte  Tulio  di  Tor- 
lano !  Quadro  importante,  uno  dei  migliori  e  dei  meglio  toccati  del 
romanzo.  L'iniquo  conte  Tulio,  intimorito  che  la  presenza  di  Maria 
in  casa  Del  Campo  possa  guastare  il  suo  matrimonio  con  Emilia,  si 
appigb'a  ad  orribil  mezzo  per  allontanare  la  infelice  giovinetta.  Egli 
è  forse  per  riescire  nell'in&me  progetto,  quando  arriva  colà  Santo» 
il  padre  di  Maria,  il  cosi  detto  Conte  Pecoraio,  che  è  sulle  traccio  del 
seduttore  di  sua  figlia  per  vendicarsi  alfine  di  lui.  Il  vilissimo  Tulio 
sen  fugge.  Santo  inseguendolo  il  trova  nel  di  appresso  moribondo 
per  febbre  acuta  di  cervello,  che  nello  spavento  gli  è  sopragiunta  » 
ed  in  poche  ore  lo  trae  a  morte.  La  Maria,  fuggita  anch'essa  col 
bambino  all'arrivo  del  padre  irritato,  vien  sorpresa  per  via  dalla  neve 
e  dal  freddo,  e  si  rifugia  in  una  cappella  sulla  via,  dove  le  muore 
il  figliuolbio  fra  le  braccia.  La  è  una  rara  pagina  di  dolore,  di  pietà, 
di  tenerezza ,  e  merita  bene,  che  io  qui  la  citi  come  saggio  di  eie* 
vate  scrivere. 


PBMSIBIII  SUL  BOMANZO  INTIMO  ITALIANO  349 

t  Si  partì  dunque  il  mattino  dopo,  lesta  lesta/  parendole  quasi 
d'essere  a  casa,  non  badando  al  cielo  gelido  e  bianchiccio,  donde 
si  staccavano  a  quando  a  quando  granelli  di  pioggia  ghiacciata. 
Avera  fotto  cinque  miglia  dal  casolare,  oye  aveva  passato  la  notte, 
quando  saltò  addosso  al  Luigino  un  febbrone  così  improvviso  e 
ga^iardo,  che  quel  suo  corpicciuolo  sobbalzava  fira  le  braccia  della 
madre;  e  costei  si  guardò  intomo,  a  vedere  d*onde  potesse  sperare 
soccorso,  ma  pertutto  era  uno  spazio  interminabile  di  pascoli  lu- 
centi di  brina;  e  solo  lontano  lontano,  e  sulle  prime  colline  sor- 
gevano alcuni  caseggiati.  Sedette  allora  smarrita  affatto  sopra  un 
mucchio  di  ghiaia  con  quel  bambino  in  grembo  ad  aspettare  la 
morte,  e  la  sembrava  dire  con  quello  stanco  atteggiamento  :  —  Io 
ho  fiitto  quanto  ho  potuto,  o  buon  Dio!  provveder  oltre  tocca  a 
voi.  —  Le  nubi  intanto  si  sdoglievano  in  larghe  falde  di  neve,  che 
vivano  giù  lente  lente  senza  sibilo  di  vento  o  mugghio  di  bu- 
fera; e  la  Maria  infetti  non  se  ne  accorse,  finché  qualdie  fiocco 
essendone  volato  sul  viso  al  bambino,  levati  essa  gli  sguardi  vi- 
trei nel  cielo,  li  smarrì  per  quell'infinito  turbinio  di  candidi  wfàc- 
chi.  La  neve  fioccava  da  un  quarto  d'ora;  ond'ella  levandosi,  tutta 
bianca  le  vestimenta,  con  quel  bimbo  sfrato  paurosamente  con- 
tro il  seno,  in  atto  di  stupore  ed  afihnno,  presso  quel  monticello  di 
ghiaia  simile  al  tumulo  di  un  giustiziato,  off!riva  la  vera  immagine 
della  disperazione.  Tutto  ad  un  tratto  parve  scendere  il  soffio  di 
Dio  in  quella  statua;  le  rigide  membra  si  sciolsero,  e  si  mise  ad 
una  corsa  sfrenata;  finché  adocchiata  sul  ciglio  della  strada  una 
cappella,  quali  ve  n'hanno  per  qué'  stradali  deserti,  a  ricovero  dei 
passeggieri,  scese  ad  accovacciarsi  in  un  angolo,  proteggendo  della 
persona  il  bambino  contro  il  freddo  e  il  nevischio.  Ma  quella 
creaturina  traeva  a  stento  il  respiro;  invano  sua  madre  le  porse 
il  petto  già  quasi  inaridito  !  Indarno  la  scaldò  del  suo  fiato,  la  co- 
pri de'suoi  baci,  la  inondò  delle  sue  lagrime  I  Indarno  pregò  Iddio 
e  la  Madonna  che  si  togliessero  lei,  di  tanto  peccatrice,  e  salvas- 
sero il  figliuol  suo!  Oià  le  membra  tenerelle  parevano  sciogliersi 
come  la  cera,  e  le  Iabl»ra  appassivano  come  foglie  di  rosa  colte 
dalla  brina,  e  gli  Dcchì  sì  socchiudevano,  quasi  beati  di  aprirsi  di 
dentro  a  una  luce  più  bella  ;  e  la  Maria ,  sperando  che  cosi  lene- 
mente si  addormentasse,  lo  cullava  sulle  ginocchia;  mentre  l'anima 
di  lui  tornava  al  grembo  di  Dio  così  pura  come  quando  n'era  uscita. 
Bestando  dal  ninnare  al  vederlo  cosi  quieto,  voleva  essa  stringergli 
meglio  una  pezzuola  intomo  al  collo;  e  nel  por  mano  a  ciò  sfio- 
ratagli la  bocca  la  sentì  fredda  come  la  neve.  Quel  freddo  le  corse 
al  cuore,  alla  povera  madre!....  e  già  prima  che  la  sua  mano  fosse 
giunta  a  interrogare  il  petto  del  bimbo,  stramazzò  sul  pavimento, 
stringendo  quel  corpo  inanimato  fra  le  braccia», 


368  BIV18TA   CONTEMPOBANBA 

AUa.  perfine,  cessati  i  guai,  rappattumata  col  genitore,  ella  torna 
alla  casa  paterna,  ed  isposandosi  al  Natale  giunge  a  gustare  la  fe- 
lioità  domestica.  Nel  capitolo  28**,  in  cui  Natale  Romano,  reduce 
dall'esercito,  incontra  Maria  nella  cappella  quasi  esanime  nell'atto 
che  il  di  lei  bambino  è  morto,  e  la  conforta,  e  non  solo  non  le  rim- 
provera il  fallo,  ma  ne  attribuisce  a  se  stesso  la  colpa  per  essersi 
da  lei  allontanato,  si  racchiude  tanta  potenza  d'affetti,  da  poter  de- 
stare  la  più  profonda  commozione. 

Non  manca  in  questo  lavoro  del  Nievo  qualche  stramberia  nel- 
l'intreccio, qualche  capitolo  nojoso,  molta  ricercatezza  nello  stile  tal- 
volta soverchiamente  leccato,  ma  in  genere  vi  è  un  fine  morale  e 
retto,  molta  verità,  e  soprattutto  molto  cuore,  perlocchè,  tutto  ben 
considerata,  merita  di  essere  definito  un  bel  racconto. 

—  LAngth  di  bontà  è  un  quadro  di  costumi  veneziani  del  secolo 
passato.  Il  vecchio  inquisitore  Permiani  vuol  provvedere  alla  sua 
successione,  e  si  sposa  alla  leggiadra  giovine  Morosina  figlia  del 
podestà  Alvise  Yaliner.  Mirando  il  vegliardo  freddamente  al  suo  fine, 
permette,  anzi  favorisce  apertamente  e  segretamente  i  convegni  fra 
la  sua  sposa  e  il  primitivo  di  lei  amante,  il  giovine  cavalier  Celio 
Temi.  È  un  esempio  assai  sfacciato  della  corruzione  di  quei  tempi, 
ma  la  curiosità  vi  è  in  sommo  grado,  sono  piacevoli  i  dialoghi,  belle 
le  descrizioni,  ed  elevati  i  concetti.  La  virtù  di  Morosina  impedisce 
che  quella  immoral  tresca  si  compia.  Frattanto  Celio  si  reca  presso 
Asolo,  e  prende  parte  ad  una  ribellione  contro  la  Repubblica  ;  i  ri- 
belli sono  arrestati,  d'ordine  degl'inquisitori,  a  meno  del  cavalier 
Temi  (le  parzialità,  il  protezionismo  fu  il  vizio  di  tutti  i  luoghi  e 
di  tutti  i  tempi),  lasciato  andar  via  libero  per  segreta  istruzione  del 
Formiani,  il  quale  tenta  ancora  una  volta  di  farlo  unire  con  Moro- 
sina. I  due  giovani,  benché  innamorati,  virtuosamente  si  dividono, 
donde  la  mente  del  vecchio  si  eleva  a  più  degno  progetto,  e  venuto 
a  morte,  lascia  a  Morosina  la  sua  eredità,  ch'ella  poi,  dopo  sei  mesi 
di  lutto,  divide  con  Celio  sposandolo,  e  vivendo  "con  lui  felicemente. 
Il  finale  è  preveduto,  molto  comune  e  freddo,  e  si  rassomiglia  a 
quello  di  molte  vecchie  fovole*  Il  Nievo  ha  voluto  darci  nel  Forrnhini 
il  carattere  rifonttante  del  più  spudorato  dei  mariti,  e  per  evitare  un 
intreccio  troppo  indecente  ha  dovuto  ideare  in  Morosina  un  angelo 
di  bontà  inverosimile,  e  quasi  impossibile.  Nullameno  la  figura  po- 
litica e  sociale  ddr inquisitore  è  ben  disegnata,  e  quella  di  Morosina 
spicca  mirabilmente  lucida  fra  tante  fosche  o  ridicole  ombre  che 
l'attorniano.  Nell'insieme  questo  romanzo  mi  sembra  inferiore  al- 
l'altro del  Conte  Pecoraio.  — 

Le  Avventure  del  barone  di  Mcastro  costituiscono  una  novella, 
0  racconto  fontastìco,  che  ha  qualche  rapporto  coi  viaggi  di  Ro- 


PBKSIBRI  SUL  BOMANZO  INTIMO  ITALIANO  38(1 

binson  Crosuè ,  ma  con  questa  differenza ,  che  liobinson  viaggiò 
per  pura  curiosità,  ed  il  barone  di  Nicastro  per  un  fine  altamente 
filosofico,  quale  era  quello  di  cercare  la  virtù,  ovvero  la  concordia 
della  virtù  colla  felicità,  la  trina  armonia  diaiettica  di  Pitagora.  Fatto 
il  giro  dei  due  mondi ,  dopo  infinite  e  strane  sventure  in  tutti  i 
punti  conosciuti  e  presso  tutti  i  popoli  del  globo,  il  barone  di  Nicastro 
toma  al  suo  castello  in  Sardegna,  e  stabilisce  il  principio,  frutto  delle 
sue  lunghe  esperienze  -  Pesar  poco,  pensar  nulla.  —  Questo  racconto 
è  più  nuovo  e  più  originale  di  tanti  altri.  Prescindendo  dalle  esa- 
gerate finzioni  di  alcuni  fatti  che  hanno  dell'ariostesco,  vi  è  grande 
abbondanza  di  giuste  riflessioni  filosofiche,  di  osservazioni  analitiche, 
e  di  spiritosi  frizzi  rapporto  alla  società  ;  vi  è  un  attento  studio  dei 
costumi  di  tutti  i  popoli,  ed  in  pochi  e  rapidi  cenni  l'immagine  della 
multiforme  e  disseminata  razza  umana.  La  curiosità  poi  vi  è  grande, 
e  si  legge  con  piacere  dal  princìpio  alla  fine.  Il  dialogo  del  barone 
col  dotto  francese  è  vivissimo,  e  porge  un'idea  piuttosto  esatta  della 
moderna  società  di  Francia.  Non  vi  mancano,  secondo  il  solito  me- 
todo del  Nievo,  buoni  principii  fondamentali,  e  lungi  dal  seminarvi 
i  principii  sovversivi,  di  cui  sono  soventi  infarciti  alcuni  moderni 
componimenti,  l'autore  vi  ha  intromesso  le  basi  del  vero  e  della  mo- 
ralità, e  quando  il  barone  prima  di  morire  si  convince,  che  la  sor- 
gente delle  infinite  contraddizioni,  delle  infinite  miserie  nostre  non 
è  altro  che  il  dualismo  fra  l'anima  e  il  corpo,  egli  non  trova  un 
termine  conciliatore,  una  quiete  finale,  che  nel  pensiero  dL  Dio  !  — 
Le  belle  doti  di  mente  e  di  cuore,  ed  il  retto  giudizio  del  Nievo 
brillano  similmente  nelle  sue  tre  novellette. 

La  corsa  di  prova.  Comincia  con  una  pittoresca  descrizione  del 
lago  di  Grarda;  narra  poi  la  semplicissima  istoria  di  due  giovani 
sposi  bresciani,  che  per  aver  lasciato  la  loro  tranquilla  dimora  di 
Gargt»no  sul  detto  lago,  per  fare  il  giro  dell'Europa,  corsero  rischio 
di  perdere  labro  folieìtà,  di  odiarsi,  e  dividersi.  Tornati  a- Gtirgntno, 
furono  di  nuovo  tranquilli  e  beati,  dietro  il  principio  propugnato 
dall'autore,  che  Vuomo  fa  il  luogo ^  e  U  luogo  fa  Vuomo,  -  Siegue  La 
pazza  del  Sagrino.  La  descrizione  del  lago  Segrino,  con  cui  si  apre 
la  noT^a,  è  tanto  più  notevole  per  la  sua  originalità,  perchò  a  di^ 
fetenza  di  quelle,  che  in  più  scritti  si  leggono,  del  lago  di  Garda, 
del  lago  Maggiore  o  di  Oomò,  tutti  luoghi. di  delizia,  ci  fa  conoscere 
un  lago  solitario,  mesto,  silenzioso,  non  favorito  dalia  natura,  il 
raoooiito  poi  è  pienissimo  d'interesse.  La  povera  Celeste,  giovino- 
contadina  pazsa,  eommove  sino  alle  lagrime.  La  scena  in  cui  si  di- 
vide volonterosa  dal  cadavere  di  sua  madre,  è  ideata  con  grande 
ingegno,  e  maestrevolmente  sviluppata  ;  quelle,  alle  quali  dà  luogo 
la  di  lei  ingeouità,  fra  Camilia,  GKuliana,  e  Leonardo,  sono  mirabili-* 


3S2  RIVISTA  CONTBMPOEANBA 

Iti  coDclusione  questo  raccontino  è  un  vero  modello  d'ifpirazio&e,  di 
poesia,  di  novità,  di  affetti.  ~  In  ultimo,  La  viola  di  San  Boitimìo  è 
moralissima,  si  legge  col  più  vivo  interesse  e  non  la  cede  in  pregio 
alle  altre.  Se  la  morte,  ed  ahi  quanto  deplorabile  ed  inattesa I  non 
rapiva  si  presto  il  Nievo,  l'Italia  dopo  oodesti  saggi  poteva  e  doveva 
molto  aspettarsi  da  lui. 

eletto  Arrighi  pubblicò  nel  1857  —  Qli  ultimi  cariandoli,  e  più 
recentemente  —  la  seapiglialura  e  il  6  fetbraio.  —  I  detti  due  ro- 
manzi contemporanei  racchiudono  in  alto  grado  il  segreto  di  farsi 
leggere  avidamente.  Se  negli  scritti  del  Nievo  prevale  forse  Tarte 
di  descrivere  e  la  forza  di  muovere  gli  aflfetti,  in  questi  dell' Arrighi 
è  maggiore  rartificio  d'intrecciare  con  sorpresa  e  diletto,  vi  è  più 
sviluppata  la  parte  comica  ed  il  frizzo,  più  profonda  ed  accurata  la 
fettura  delle  scene  intime  della  società  moderna.  Il  titolo  W  ultimi 
eorianioU  non  va  inteso  materialmente ,  ma  simbolicamente,  perchè 
l'Arrighi  ha  voluto  alludere  in  quel  racconto  ai  primi  tentativi  ddk 
grande  rivoluzione  italiana  del  1847 ,  la  quale  innalzando  le  menti 
a  pih  alte  cose,  doveva  per  omseguenza  produrre,  secondo  lui,  l'abo- 
lizione di  certi  futili  passatempi,  dei  quali  si  erano  beati  per  tanti 
areftdici  anm  i  tranquilli  e  buont^nponi  nostri  antenati.  Difitti  qual'è 
il  nodo  del  romanzo?  Ismene  ama  gelosamente  Paolo  suo  marito; 
una  lettera  anonima  indirizzatale  dalla  Barbattola  (che  ha  qpedali 
motivi  di  astio  verso  Paolo)  viene  a  spargere  nel  suo  cuore  il  ve- 
leno del  sospetto,  die  il  suo  sposo  ami  un'altra  donna.  Per  fktalità 
Costanzo  di  Gastebanto  di  lei  cugino  la  conferma  nella  crudele  idea 
partecipandole  un  supposto  intrigo  di  Paoto  con  donna  amata  da  lui. 
Ne  deriva,  die  Ismene  cade  inferma,  e  spinta  dalla  gdosia  weone 
sola  di  notte  alla  casa  della  pretesa  rivale;  ma  affranta  dal  dolore 
e  raccolta  sul  suolo  semiviva,  non  appena  tra^>ortata  nel  suo  appar* 
tamento,  abortisce  e  muore.  Ora  la  creduta  rivaie  di  Ismmie  era  Ida 
Piertini,  bella  e  giovine  vedova,  ma  seria  ed  onesta,  e  Pado  freqoMi- 
tava  soltanto  la  casa  Piertini  perchè  vi  era  il  convegno  di  una  se- 
greta società  politica,  di  cui  egli  faceva  parte.  La  morte  d'Ismene 
non  è  che  il  preludio  di  altrettante  sventure,  mentre  Paolo,  Castel- 
santo,  ed  altri  molti  debbono  fuggire  da  Milano  per  la  discoperta 
congiura;  da  ultimo  l'autore  ci  annunzia  freddamente,  che  dopo 
qualche  tempo  Costanzo  sposò  Ida,  e  che  Paolo  si  ritirò  in  campagna. 
È  una  chiusa  che  lasda  l'animo  rattristato,  e  per  giustificarla  con- 
viene app\into  supporre,  che  l'Arrighi  abbia  vduto  dare  al  finale 
del  suo  racconto  una  tinta  cupa,  che  meglio  potesse  imprimere  nd- 
l'animo  del  lettore  non  tanto  i  gravi  effetti  della  vendetta  e  ddla 
calunnia,  quanto  le  dolorose  conseguenze  ddla  persecuzione  politica 
e  della  oppressione  straniera*  —  Non  taceremo  che  leggendo  codesto 


PBNSIBBX  BVL  BOMANZO  INTIMO  ITALIANO  »  353 

TomBxao  focemmo  ii^lcbe  pota.  -^  La  descrisiond  della  società  ari- 
stocratica in  caaa  Cellarovìgo  (€ap.  7)  ci  sembrò  troppo  sminuzzata 
e  lansfuida,  come  il  pottegolezs&o  di  dònne  popolane  (Cap.  10)  presso 
la  Sarbattola  alquanto  noioso,  forse  perchè  troppo  protratto.  I^a  to- 
letta di  GaateUanto,  cbe  deve  recarsi  al  veglione  (Cap.  14)  *è  descritta 
con  tali  dettigli  che  vanno  sino  alla  leggièrezza,  e  nel  veglione 
stesso  (Cap.  15)  vi  è  tj^oppa  profusione  di  spirito,  che  non  sempre 
è  spirito-,  ma  talvolta  diventa  saccenteria.  Infine  ci  parve  poco  ve- 
rosioaile,  pho  Castelsaoto,  non  appena  spirata  la  misera  Ismene,  la 
caca  c^gina,  ai  recasse  al  caffè,  là  dove  precisamente  se  ne  stavano 
radunati  alcuni  suoi  scapati  amici  a  smaltire  la  c$na  del  saòtato 
grasso  a /uria  di  sif  ari  e  di  ptmck.  L'uomo  il  più  leggero  della  terra 
potrebbe  «ppena  giunger»  a  tanto,  e  Gastelsainto  non  apparisce  di 
tal  imip«;a  in  tutto  il  jra^oonto.  È  d*uopo  concludere,  che  l'autore  lo 
figùnge  jcolà  soltanto  perchè  aveva  bisogno  di  lui  appunto  in  quel 
ln^o,  onda  oompire  Tideato  gruppo,  il  quale,  ommesso  l'incidente 
inverosimile,  desta  interesse.  B  per  verità  se  il  romorìo  festose  di 
quei  giovinastri  ixritit  sulle  prime  le  menti  dei  lettori  commosse  dalla 
tn^ica  ùtua»one  d'Ismene,  lo  ai  giudica  dapoi  un  bel  chiaro  scuro 
per  l'efietto.  Similmente  Caatelsanto,  se  giungendo  al  Ietto  d'Ismene 
moribonda  ^  lascia  in  penosa  perplessità,  allorché  aj^are  fra  gli 
ebri  amici  colla  fintale  novella  della  di  lei  morte,  ci  colpisce  profon- 
damente. <^  Ma  queste  lievi  mende  sono  ben  piccola  cosa  a  riscontro 
delle  molte  bellezze,  per  cui  il  libro  dell'Arrighi  andò  meritamente 
lodiKto.  Noi  ci  limiteremo  a  indicare  le  più  appariscenti.  Gli  amori 
di  Caatelswto,  e  la  gelosa  passione  d'Ismene  per  suo  marito  sono 
desodtti  mi  inrimi  sei  capitoli  con  spirito  ed  urte  non  comune;  la 
nameione  dell'antico  amorazzo  di  Paolo  con  la  Cocchina  (Cap.  17) 
è  intereeaante,  briosa,  e  spirante  verità  ;  la  visita  di  Castelsanto  alla 
Tarai  (Cap*  18),  in  cui  resta  deluso  ne'  suoi  progetti  gjSlanti,  è  de- 
soritts  con  vivacità,  oon  •cognizione  perfetta  di  costumi  intimi  ed 
anche  con  novità;  altrettanto  dicasi  della  graziosissima  scenetta  fra 
Castelsanto,  e  la  vispa  Oiulia  (Cap.  19)  ;  infine  non  potrebbe  essere 
meglio  dipiata,  né  più  riboccante  di  afietto  la  scena  tra  Ismene  e 
suo  marito  (Cap.  3G),  in  cui  questi  si  sforza  a  persuaderla  doUa  saa 
innocenza,  »à  più  rtraziante  k  successiva  (C^.  24),  nella  quale 
Ismene  è  stUl'usoire  di  vita.  Codesti  due  ultimi  brani  sono  i  mi- 
gliori e  qnasi  gli  unici  per  attestare  che  all'Ànrighi  non  manca , 
quando  voglia  usaarpe,  anche  la  facoltà  di  eccitare  le  più  delicate 
fibre  del  cuore.  • 

Il  suo  «leeoado  romanzo,  ovvero  Za  seapiffliatura  e  U6  féblnUoy 
è  anch'esso  importante  e  non  la  eede  punto  al  primo.  Potrebbe 
notarsi  a  prisM  aspetto,    che  l'autore  nel  tessere  l'orditura  di 

RiiH9ta  a  -  Ì23 


354  '  RIVISTA  GOMTBMPORÀiaSA 

questo  secondo  romanzo  ha  in  certo  modo  copiato  se  stesso,  imi- 
tando quella  del  primo,  ovvero  degli  Ultim  Cariandoli.  Anche  qui 
vi  è  la  setta,  é  i  conciliaboli,  e  le  orgie  dei  giovani  congiurati;  an- 
che qui  vi  sono  due  sposi  infelici,  colla  differenza  che,  se  nel  primo 
romanzo  è  vittima  la  moglie,  che  si  crede  tradita  dal  marito,  nel 
secondo  lo  è  il  marino,  perchè  si  convince  di  essere  tradito  dalla 
moglie  ;  anche  qui  con  leggiere  varianti  vi  è  un  elegante  amasio  in 
Emilio,  una  giovinetta  perduta  nella  Gigia,  un  uomo  onesto  nel 
Bartelloni,  come  là  vi  era  un  Castelsanto,  una  Giulia,  un  Piertini; 
se  là,  morta  la  giovine  sposa,  il  galante  Castelsanto  si  sposa  alla 
Tarni,  cagione  innocente  del  disastro,  qui,  spento  lo  scapigliato,  la 
giovine  ne  adotta  il  figlio,  innocente  effetto  delle  di  lui  sfrenatezze; 
in  quello  tutti  i  mali  derivano  dalla  calunnia  della  Barbattola,  in 
questo  dalla  calunnia  della  contessa  Cristina;  una  mal  riuscita 
congiura  politica  conchiude  il  primo,  un'altra  simile  conchiude 
il  secondo.  Tutto  ciò  potrebbe  insinuare  qualche  dubbio  sul  grado 
di  potenza  immaginativa  dell'autore.  Non  di  meno  TÀrrighi  ha 
saputo  imitarsi  cosi  liberamente  e  adoprare  di  nuovo  così  bene  il 
suo  brio,  sensibilità  ed  arte  descrittiva,  che  colla  copia^seppe  forse 
superare  Toriginale.  E  qui  cade  in  acconcio  accennare  con  poche 
parole  la  favola  del  secondo  romanzo.  —  Noemi,  donna  ardente 
e  bellissima,  disposata  ad  Emanuele  Dal  Poggio,  uomo  grave  e 
freddo,  parlatore  di  politica,  cedette  alle  istigazioni  di  un  amante, 
Emilio  Dignani,  giovine  di  generosa  indole,  non  addetto  alla  Sea- 
pigliatwra^  ossia  a  quella  casta  o  classe,  che  Fautore  definisce: 
vero  pandemonio  del  secolo,  personificazione  della  folUa  che  stajkuni 
dei  manicomiiy  serbatoio  del  disordine ^  délVimpretidenza^  delio  spirilo 
di  rivolta  e  di  opposizione  a  tutti  gli  ordini  staMliti.  U  Dal  Poggio 
per  lungo  tempo  corre  la  sorte  comune  a  molti  mariti,  ossia  non  si 
accorge  di  nulla  ;  è  indamo  che  il  vecchio  Firmiani,  nonno  di  Noemi, 
avvedutosi  dell'intrigo,  tenta  d'illuminarlo;  infine  entrato  in  sospetto, 
si  rivolge  alla  contessa  Cristina  Firmiani,  cognata  di  Noemi,  per 
averne  notizie,  e  colei,  cattiva  di  cuore,  avida  di  perdere  Noemi  per 
la  segreta  mira  di  conseguire  la  eredità  del  Firmiani,  gli  palesa  mi- 
steriosamente la  sua  opinione,  che  Noemi  lo  tradisca  amando  un 
altro.  Avvampa  allora  nel  cuore  del  marito  la  più  violenta  gelosia. 
Noemi  irritata  dalle  ingiurie,  atterrita  dalle  di  lui  minaccio,  fugge 
di  casa  Dal  Poggio,  e  si  ricovera  presso  Emilio  Dignani.  E  già  i  due 
amanti  si  decidono  a  fuggire  insieme  di  Milano,  e  il  dottore  Bar- 
telloni, benevolo  tutore  di  E&ilio,  tenta  invano  di  dar  loro  i  neces- 
sarii  consigli,  perchè  rinunzino  al  riprovevole  progetto,  quando  giunge 
sul  luogo  il  furente  Dal  Poggio,  e  provoca,  e  sfida  il  seduttore  di 
sua  moglie.  Una  tragica  scena  è  inevitabile,  imminente.  Il  Bartel- 


PRNSIBBI  SUL  ROMANZO  INTIMO  ITALIANO  355 

Ioni,  vedendo  perduta  ogni  speranza,  e  spezzato  ogni  freno,  svela 
allora  ad  entrambi  un  gravissimo  segreto.  Emanuele  Dal  Poggio  è 
padre  di  Emilio.  Questi  è  il  frutto  di  un  fallo  di  gioventù,  che  Dal 
Poggio  aveva  abbandonato,  e  di  cui  il  dottore  Bartelloni  aveva  preso 
cura.  Stupore,  angoscia,  disperazione  in  tutti.  Mentre  Dal  Poggio 
dispare  dolentissimo  da  quella  casa,  Emilio,  inorridito  di  vedersi  a 
un  tratto  divenuto  amante  della  moglie  di  suo  padre,  nell'udire  un 
romore  d^armi  ed  un  rintocco  di  campane,  che  indica  lo  scoppio 
della  rivoluzione  dei  suoi  amici  scapigliati  contro  i  tedeschi  (era  il 
6  febbraio  1863)  quasi  forsennato  dà  di  piglio  allearmi,  accorre  sulla 
piazza,  e  muore  combattendo.  Due  anni  dopo  Noemi  sempre  mesta, 
ma  rassegnata,  è  riunita  col  marito,  e  si  apprende  che  hanno  d'ac- 
cordo adottato  un  bambino,  figlio  naturale,  che  Emilio  Dignani  aveva 
avuto  da  una  sua  amante  scapiffliatay  la  Gigia. 

Sotto  Faspetto  della  convenienza  morale  questo  romanzo  non  si 
raccomanda  di  molto  ai  lettori,  poiché,  come  vedremo,  non  vi  manca 
una  moglie  sfrontatamente  adultera,  nò  una  fanciulla  disonorata,  nò 
an  giovinastro  rotto  a  tutti  gli  eccessi,  abbenchè  elegante,  e  come 
suol  dirsi,  t»  guanti  gialii.  Quello  che  è  peggio,  non  vi  ha  fra  tanti 
viziosi  caràtteri  un  tipo  migliore  che  indichi  ai  lettori  Tuomo,  o  la 
donna  onesta  ed  imitabile,  se  vogliasi  escludere  il  dottore  Bartelloni, 
che  apparisce  solo  in  principio  ed  in  fine,  o  il  vecchio  Firmiani,  che 
privando  afiatto  della  sua  eredità  la  misera  Noemi,  appare  in  ultimo 
o  cattivo  od  imbecille.  Àggiung^i,  che  il  mezzo  termine  adottato 
dall'autore  per  concludere  il  romanzo,  il  perno  principale  dell' in- 
treccio finale,  ovvero  il  segreto  che  l'adultero  è  figlio  del  marito 
ofiéso,  nulla  ha  di  nuovo,  e  molto  si  assomiglia  allo  sviluppo  del 
dramma  -*  La  sutmaMee  d'arpa  —  del  Chiossone,  che  si  rappresenta 
in  Italia  sin  da  molti  anni  prima  che  fosse  pubblicata  la  ScapigHa- 
tura.  Per  vuotare  poi  fino  all'ultima  gocciola  il  vaso  della  nostra 
critica,  non  taceremo,  che  la  lingua  adoperata  dall'Arrighi  è  buona 
in  genere,  ma  non  è  sempre  la  migliore,  notandosi  qua  e  là  dei 
gaUicismi,  e  qualche  modo  improprio,  e  non  ammesso  dai  migliori 
filologi,  cominciando  dalla  parola  Scapigliatura^  la  quale  non  crediamo 
prettamente  italiana,  com'egli  giudica,  ma  solo  inventata  dall'autore 
per  arbitrio  e  comodo  suo.  —  Non  è  per  ciò  men  vero,  che  la  lettura 
di  questo  romanzo,  come  già  accennammo,  non  ispiri  il  massimo  in- 
teresse risvegliando  la  curiosità,  esilarando,  commovendo.  È  molto 
comico  e  drammatico  il  dialogo  (Gap.  6),  nel  quale  il  vecchio  Fir- 
miani palesa  i  suoi  timori  a  Dal  Poggio  sulla  temuta  segreta  passione 
di  Noemi  ;  bello  e  nuovo  il  quadro  dell'orgia  dei  Scapigliati  (Gap.  7)  ; 
benissimo  trattata  la  scena  (Gap.  9),  in  cui  la  contessa  Cristina 
con  suprema  malizia  insinua  nell'animo  di  Dal  Poggio  il  sospetto 


356  RIVISTA  CONTBMPOBANBA 

contro  la  moglie  di  lui  ;  e  con  arte  somma  è  lumeggiato  l'altro  im* 
portantissimo  colloquio  tra  Noemi  e  suo  marito  (Gap.  10),  nel  quale 
costui  già  pieno  di  gelosia,  di  sospetti,  e  d'ira  srela  il  suo  convìBci- 
mento,  ch'ella  sia  amante  d*altr'uomo.  Da  quel  punto  «ino  al  fine  il 
libro  non  si  legge,  ma  si  divora,  tanto  ti  tocca,  ti  esalta,  -t  ti  agita 
la  conclusione  del  romanzo  già  sopra  indicata.  È  quindi  giusto  con- 
cludere, che  l'Arrighi  pe'  buoni  elementi,  di  cui  s'informano  i  suoi 
scritti,  dev'esser  posto  nel  novero  dei  più  stimabili  autori  viventi  del 
romanzo  intimo. 

Eccoci  ora  al  Novelliere  oontefnporamo  del  signor  Vittorio  Bersezio. 
Fra  i  precetti  a  noi  lasciati  da  Orazio,  il  gran  poeta  filosofo  di  Ve- 
nosa, ognun  sa  esservi  quello,  che  nella  poesia  (quindi  anche  neUe 
opere  di  amena  letteratura)  colui  possa  dirai  eccellente,  il  quale 
sappia  mescolare  l'utile  al  piacevole.  Ed  Orazio  in  questo,  come  in 
tutti  i  suoi  dettati,  coglieva  perfettamente  nel  segno.  Un  libro  di 
amena  lettura,  che  alle  materie  dilettevoli  non  oongiunga  quidohe 
cosa  di  serio  e  d^istruttivo,  fiicilmente  riesce  futile;  cosi  quello  in 
cui  sia  scarso  il  soUetioo  della  curiosità  e  del  diletto,  ed  invece  so* 
vrabbondante  il  corredo  delle  riflessioni  e  degli  insegnamenti,  finiacs 
col  non  farsi  leggere,  o  coU'annoiare.  Si  dirà,  che  è  difficile  atte* 
nersi  al  precetto  oraziano,  e  saper  collegare  insieme  qftéH'uiUey  e 
quel  piaoevohy  senza  oltrepassare  i  confini,  quos  uUvé  cUraqw  nefuU 
consistere  netum! 

Cotesto  ognun  lo  sa,  e  lo  affermiamo  anche  noi«  quindi  ninna 
meraviglia,  che  la  più  parte  degli  scrittori  trasmodino  dall'una,  o 
dall'altra  banda.  Il  signor  Bersezio  in  dò  a  parer  nostro  è  da  lodarsi, 
che  mentre  non  pochi  romanzieri  deviano  dal  precetto  di  Orazio  per 
prendere  a  preferenza  il  sentiero  dei  diletto,  egli  dandoci  una  ooUe- 
zione  di  Novelle,  ne  ha  deviato  per  gittarsi  piuttosto  in  quelk)  dell' k- 
tUe.  —  Le  sue  NoteUe  sono  in  tre  volumi.  Nel  primo  tratta  d!fXlLamof$^ 
nel  secondo  della  fanngHay  nel  terzo  della  patria.  Ci  manca  il  tempo 
e  lo  spazio  per  seguire  l'autcnre  nelle  singt>le  parti  di  cotesto  Novel- 
liere, che  comprende  tanti  soggetti,  e  tipi,  e  vicende  svariatissiiBe. 
Diremo  solo,  ohe  nel  primo  volume,  trattando  dfSVamon,  egli  lo 
presenta  sotto  diversi  aspetti,  e  nelle  diverse  fasi,  chs  suole  peroor- 
rere  a  beneficio  o  a  danno  deUa  mìsera  unmmjtà;  quindi  offre  ^ 
esempii  dell'amor  verOy  dell'astore  di  tanttà^  dell'amore  tfojpessto,  del- 
l'amore materiale,  dell'amore  dtMWtteressate  ed  onestò.  Nat  secoado 
volume  narrando  in  genere  i  casi  della  famiglia,  vi  descrive  l'iafimzia 
dell'uomo,  la  mcMrte  del  padre,  la  sventura  di  un  ^io  menteoa^, 
le  prime  passioni  delle  fanciulle,  le  amicizie  di  University,  durevoli 
se  cogli  eguali,  caduche  se  cogli  uomini  di  più  alta  nfi8(»ta;  ladowHt 
bigotta  per  lo  più  trista  moglie  ;  il  giuoeo,  lo  sflirzo,  lo  scialacquo 


pbnSibbi  sul  bomanzo  intimo  italiano  357 

tmke  a  lagrime  infinite  nelle  famiglie  ;  gli  effetti  dei  precipitati  giu- 
diaii  sulle  persone;  infine  il  vantaggio  e  la  deliaia  del  beneficare, 
ed  il  perioolo  di  voler  discostarsi,  ed  elevarsi  di  troppo  sulla  propria 
condinone.  Gol  terzo  vcdume  egli  delinea  la  vita  politica  italiana  dei 
nostri  tempi  dal  1821  al  1849,  e  quindi  ti  pone  sottocchi  dapprima 
i  giani  politici,  oziosi  ed  inutili  se  ricchi ,  demagoghi  e  sovversivi 
se  poveri,  governativi,  conservatori,  apostati,  se  ammessi  agl'im- 
pieghi, ai  &vori,  alle  onorifioenj^;  poscia  i  veri  patriotti  e  le  con- 
giure, e  sotto  la  maschera  di  patriotti  i  traditori  e  le  spie;  la  no- 
bHtà  piemontese  co' suoi  principii  favorevoli  all'Italia,  purché  seguendo 
il  re  loro;  i  preti  gesui tanti  grettamente  clericali,  donde  immensi 
mali  alla  società;  il  giovine  liberale  avvinto  d'amore,  che  si  disgiunge 
dall'amata  donna  per  servire  alla  patria  ;  la  vendetta  da  lungo  de- 
siderata, che  nel  nome  d'Italia  non  si  compie  :  e  da  ultimo  gli  eroismi 
in  difésa  dell'Italia  medesima  nel  1849,  e  le  sventure  della  battaglia 
di  Novara,  che  la8CÌar<mo  profondamente  impressa  negl'Italiani  l'ansia 
della  riscossa.  —  Chi  potrebbe  negare  che  codesti  temi  non  siano 
magnifici?  ohe  non  siano  utilissimi?  Noi  non  viviamo  più  negli  ozii 
tranquilli  dei  tempi  di  Messer  Boccaccio,  ma  sibbene  in  un'epoca  di 
rivolgimento,  in  cui  si  vuole  rigenerare  .e  ricostituire  col  senno  e 
coUa  spada  la  gran  patria  italiana.  Noi  abbiamo  duopo  di  libri,  che 
tendano  a  migliorare  gli  uomini,  piuttosto  che  a  sollazzarli.  Sotto 
questo  rapporto  il  Novelliere  del  signor  Bersezio  dev'essere  ovunque 
il  bene  accolto.  Vi  hanno  in  esso  giudiziosamente,  ed  in  copia  svi- 
luppati tutti  i  buoni  principii,  e  gli  esempii,  che  possono  formare 
l'uomo  dabbene,  il  buon  cittadino,  il  patriota,  il  prode  soldato,  del 
pari  che  la  donzella  gentile,  la  moglie  onesta,  la  donna  benefica  e 
magnanima.  Ma  se  la  parte  utUe  non  vi  manca  di  certo,  può  dirsi 
altrettanto  della  parte  dUettevolel  Non  niegheremo  che  nei  tre  grossi 
volumi  siavi  alcuna  pagina  piacevole,  alcuni  episodii  piccanti,  alcune 
scene  affettuose.  Basti  citare  le  novelle  3«  e  5a  del  volume  primo,  in 
cui  si  espone  la  tresca  di  Romualdo  con  donna  maritata,  e  le  sue 
penose  conseguenze,  ed  in  cui  si  novera  come  egli  avendo  seguito 
Marcella  a  Parigi,  verificata  la  di  lei  perfidia,  si  batte  in  duello  con 
un  lord  inglese,  quindi  toma  in  Italia,  dove  trova  il  padre  moribondo; 
così  la  novella  3»  del  3*»  volume,  nella  quale  si  descrivono  le  virtù 
cittadine,  e  le  sciagure  private  della  famiglia  romana  Tiburzio,  vit- 
tima di  eflbrate  persecuzioni  pel  suo  patriotismo;  e  similmente  la 
novella  8»  del  medesimo  3**  volume  sulle  dolorose  vicende  della  bat- 
taglia di  Novara.  —  Cotesti,  e  varii  altri  brani  sono  scritti  con  ve- 
rità e  con  bell'artificio,  dimodoché  si  leggono  attentamente.  Convien 
dire  l'opposto  del  Novelliere  nel  suo  complesso.  Il  diletto  non  vi  sta 
in  proporzione  colla  utilità.  —  Quali  le  cause?  Per  essere  veritieri. 


358  BIYISTÀ  00MTB1CP(HUNBA 

e  senza  pretendere  di  fiirla  da  giudici,  o  di  volere  imporre  in  modo 
alcnno  il  nostro  spassionato  parere,  diremo,  che  ci  pare  di  raTrisarle 
nella  poca  importanza  di  alcune  materie,  fra  le  tante  che  vi  sono 
insieme  ammassate;  nello  stile  prolisso,  e  talvolta  manierato  sino  a 
rendere  pesante  la  lettura  ;  nella  lingua  ineguale,  e  spesso  ricercata, 
è  fuori  d*u8o;  nello  sfoggio  di  brio,  e  di  frizzi,  che  non  sono  sempre 
di  buona  lega;  nelFabuso  del  sentenziare  in  più  luo^i  pedantesco 
così,  da  trasmutare  le  novelle  in  sefmoni  ;  e  sopratutto  nel  metodo 
(falso  pe'  romanzi)  di  esporre  pochi  fatti  con  troj^  parole,  poco  in- 
treccio con  troppe  digressioni.  ~  Tuttavia,  riassumendo  la  nostra 
prima  idea,  ripetiamo,  che  per  la  parte  più  seria  e  più  paziente  dei 
lettori,  la  quale  sia  specialmente  intenta  alla  utilità  del  libro  che 
ha  fra  le  mani,  il  Novelliere  del  Bersezio  sarà  da  preferirsi  a  molte 
altre  opere.  -^  Devesi  poi  notare,  che  il  medesimo  autore,  oltre  il 
Novelliere^  ha  pubblicato  altresì  un  romanzo  intitolato  GitUi  e  CecUia 
molto  pregievole  per  Tunità  di  concetto,  intreccio,  chiarezza  di  espo- 
sizione ,  affetti  e  caratteri ,  colle  quali  doti  si  procaccia  un'atten- 
zione crescente  sino  all'ultima  pagina.  Il  conte  Cioni,  l'uomo  onesto, 
è  ben  disegnato;  Alfredo,  giovine  poetico  e  sventurato,  innamimt; 
Cecilia  e  Gina,  vittime,  sono  soavi  e  pietose  ;  Vanardi,  il  buon  amico, 
è  un  bel  modello  ;  né  si  potrebbe  meglio  descrivere  il  genio  del  male, 
di  quello  che  il  Bersezio  ha  fatto  dipingendo  l'uomo  egoista,  il  ma- 
rito tiranno,  Orsacchio.  Persino  l'episodio  del  fedel  cane  Coaau  ispira 
un  certo  interesse.  Chi  ha  scritto  6fina  e  CeeiUa  ci  ha  provato,  che 
conosce  anche  l'arte  di  piacere,  e  muovere  gli  affetti,  quando  voglia 
rinunziare  alla  rigorosa  e  difficile  imitazione  del  Boccaccio,  e  di  altri 
più  antichi  scrittori,  i  quali  hanno  una  stoffa  bellissima,  ma  non 
pe' vestiti  del  nostro  tempo.  — 

L'orribile  sacrifizio  del  celibato,  e  le  sofferenze  del  chiostro,  a 
cui  un  barbaro  costume  e  la  crudeltà  di  genitori  superstiziosi  o 
egoisti,  specialmente  fra'  nobili,  condannava  anche  nel  decorso  se- 
colo tante  infelici  donzelle  e  miserandi  giovani,  onde  colla  sventura, 
di  questi  si  assicurasse  la  fortuna  dei  primogeniti  nella  ereditaria 
opulenza  delle  aristocratiche  femiglie,  porsero  al  signor  Giuseppe 
Boterò  il  subbietto  di  un  racconto,  non  importante  per  mole,  ma  si 
certo  per  vaghezza  d'intreccio,  quadri  affettuosi,  ed  insegnamenti 
filosofici  di  somma  utilità.  Cotesto  racconto  s'intitola  Diifmm.  Yi 
troviamo  pennelleggiati  al  vivo  due  frati  domenicani  IHdpmui  0 
JuliuSy  e  due  monache  Orsoline  Suor  Crocifissa  e  suor  Ddoretta. 

L'autore  dopo  aver  narrato  i  primi  amori  di  quei  giovani,  e  le 
atroci  sevizie,  per  le  quali  furono  separati,  e  costretti  a  vestire  di- 
speratamente ed  in  freschissima  età  gli  abiti  claustrali,  svela  la  in- 
felicità loro  nella  penosa  vita,  a  cui  contro  i  dettami  di  natura,  e 


PBNSIBBI  SUL  BOUANZO  INTIMO  ITALIANO  359 

cootro  le  tendenze  del  cuore  erano  stati  condannati,  e  da  ultimo  ri- 
ferisce come  Julius  dopo  avere  assistito,  nella  sua  qualità  di  sacer- 
dote, alla  morte  della  propria  amante  suor  Doloretta,  penetrato  da 
tanto  infortunio  acconsentisse  a  fovorire  la  fuga  di  Didymus  insieme 
con  Suor  Crocifissa,  giovine  ed  eletta  coppia  di  alti  sensi  e  di  non 
comuni  virtù,  che  dopo  molti  anni  di  forzata  separazione  e  di  pro- 
fonda solitudine,  non  aveva  potuto  cessare  di  amarsi.  La  fuga  loro 
dai  chiostri  fu  altresì  protetta  dagli  avvenimenti,  poiché  a  quei  giorni 
reoercito  della  repubblica  francese  aveva  già  invaso  una  parte  del- 
l'alta Italia,  dove  i  due  fuggitivi  trovarono  scampo.  Tornati  in 
meizo  alla  società  furono  felici.  —  Il  Boterò  nel  suo  2*"  capitolo  de- 
scrive molto  bene  lo  stato  nostro  sociale  nella  fine  del  passato  secolo; 
i  nobili  per  lo  più  prepotenti  e  viziosi;  la  classe  media  costumata 
ed  cerosa  tenuta  in  non  cale  e  schiava  ;  è  uno  schizzo  pieno  di  ve- 
rità. — -  La  cerimonia  della  professione  di  Maria  nel  giorno  in  cui 
veste  l'abito  di  S.  Orsola,  sebbene  non  si  tratti  di  cose  nuove,  è  ri- 
ferita in  modo  da  ispirare  una  mesta  tenerezza.  —  Il  gruppetto  di 
fandglia,  ossia  la  felicità  coniugale  in  casa  del  povero  sarto,  è  un 
bel  contrapposto  coU'angosciosa  condizione  dei  giovani  claustrali,  e 
l'autore  introducendolo  opportunamente  nel  capitolo  l""  ottiene  un 
bett'efTetto.  —  La  morte  di  Suor  Doloretta  è  compassionevole.  Il 
veemente  risvegliarsi  della  passione  di  Didymus,  allorché  ascolta 
dalla  chiesa  la  voce  di  Maria,  ossia  di  Suor  Crocifissa,  che  canta 
nelle  esequie  deiramica  defunta,  stringe  il  cuore  di  pietà.  Nel  con- 
ciliri>olo  dei  frati  domenicani,  in  cui  si  decide  la  morte  di  Didymus, 
perchè  filosofo  liberale,  e  creduto  nemico  dell'Ordine,  vi  è  l'arte  di 
un'abile  narratore. 

Ci  si  dirà  :  fra  i  pregi  che  andate  indicando  nel  Didymus,  non 
avete  notato  difetti  ?  —  Si,  qualche  osservazione  in  contrario  ci  oc- 
corse di  fSftrìa,  e  non  la  passeremo  sotto  silenzio.  —  Se  Didymus  e 
Maria  sin  dalla  fanciullezza  erano' trattati  nelle  case  loro  quasi  col 
Tig(ae  del  convento  (Cap.  3),  perchè  si  conduceva  poi  Didymus  al 
teatro f  perchè  lo  si  menava  al  contatto  coU'avvenente  Maria?  perchè 
madri  cosi  severe  ed  accorte,  anzi  pronte  a  far  di  quei  miseri  due 
vittime,  li  lasciavan  soli  a  colloquio  senza  badare  a  quel  che  facessero  ? 
Vi  ha  in  tutto  ciò  della  contradizione.  Ma  l'autore  aveva  bisogno  che 
s'innamorassero,  per  poter  dettare  la  loro  istoria,  e  pare  che  non  sapesse 
trovare  altro  mezzo  !  —  Didymus  e  Julius  trovansi  insieme  nell'istesso 
convento»  Maria  ed  Imilda  nel  monistero  medesimo  !  Tutto  ciò  è  comodo 
per  agevolare  Tautore  nello  sviluppo  dell'intreccio,  ma  è  a  discapito 
della  verisimiglianza.  —  Mentre  Suor  Crocifissa  fugge  dal  convento 
con  Didymus,  è  egli  probabile  che  Suor  Virginia  scelga  proprio  quel 
punto  per  presentarsele,  peggio  poi  che  si  abbandoni  a  tutta  quella 


360  RIVISTA  coirraMPOBAimA 

patetica  apostrofe,  in  tm  mometito  codi  critico?  PtlggM  i  ^6  aMAli 
dal  conrento,  è  egli  possibile  cbe  non  appeM  Nberì  e  sievri  iM^hi 
città  di  Stradella,  acconsentano  di  ballare  in  pubblico  T  o  non  è  co- 
desta una  leggerezza  imperdonabile,  ebe  li  diigrada,  e  ehe  discorda 
dì  troppo  dai  loro  scrii  e  gravissimi  antecedenti?  —  B  rignardo  allo 
stile,  vi  è  talvolta  del  romantico,  che  non  intuona  eolla  naturaheza 
deirinsieme,  ed  uscendo  dal  vero,  dà  nel  HHoo,  massime  alla  pag. 
137  del  Gap.  8*.  Suor  Doloi^tta  moribonda,  dopo  avefe  inconffnefato 
un  dialogo  col  sacerdote  in  queste  semplici  parole  —  Padre,  io  fcrò 
la  mia  confessione  a  voi  —  passa  poco  dopo  ad  un  volo  pindarico 
—  €  Accanto  a  me  (in  Cielo)  vi  sarà  colui  che  solo  amai,  ed  egli 
«ed  io  loderemo  TEterno,  e  colla  mia  mano  nella  sua,  menando 
«danza  celeste,  osanneremo  l'amorosa  canzone».  -*•  Behedunqu«f? 
La  monaca  morendo  diviene  poetessii  ?  —  Esfla  delira  — -  ci  dice 
l'autore.  —  Sta  bene.  Ma  nel  modo  i^sso  che  i  éo^ni  ékUa  nette 
furono  definiti  immagini  del  di  gnaffe  e  corrótte  il  delirio  no*  è 
che  la  confusa  ripetizione  dei  nostri  atti  e  parole,  o  la  espresirtone 
delle  nostre  idee  del  tempo  precedente  al  delirio  medesimo.  D6v«va 
dunque  Suor  Crocifissa  tenere  morendo  il  semplice  linguaggio  della 
monaca  che  muore  disperata  per  amore,  benché  rassegnata  in  Dio, 
ma  non  /iveva  d'uopo,  anzi  non  doveva  esprimersi,  e  non  poteva, 
collo  stile  di  Saffo,  o  con  quello  della  Sposa  dei  Sacri  Cantici.— Ooel 
perchè  adoperare  quei  nomi  Didymns  e  JtUins?  Non  potendo  supporre 
che  in  un  romanzo  italiano  il  signor  Boterò  abbia  voluto  strana- 
mente introdurre  due  nomi  latini,  nomi  di  lingua  morta,  dobWaimo 
ritenere  ch'esso  li  abbia  posti  a  quel  modo  per  veezo  fhmeeee.  Ha 
non  abbiamo  i  nostri  nomi  italiani?  E  fino  a  quando  vorremo  per- 
durare nella  strana  mania  di  gallicizzare  in  tutto  e  per  tutto?  — 

Che  il  Romanticismo  di  alcuni  moderni  scrittori  mirasse  diret- 
tamente ad  esagerare  le  passioni,  ed  a  Ailsarne  i  caratteri,  i  colori, 
e  gli  affetti,  cel  sapevamo.  Ma  ove  ne  fosse  in  noi  rimasto  alcun 
dubbio,  il  signor  Carlo  Oioda  si  è  dato  cura  di  dissiparlo,  ponendoci 
sott'occhio  il  suo  romanzo  Z^  dne  tite.  Allorché  un  romanziere  varca 
i  confini  del  vero,  ed  anche  quelli  del  verosimile  e  del  possibile, 
non  può  a  meno  di  scendere  nel  fantastico,  nel  bernesco,  i  nel  Mso. 
Egli  distrugge  colle  sue  mani  stesse  la  parte  pregievole  che  può 
essere  nella  sua  tela.  Ci  seguano,  di  grazia,  i  lettori  nella  disamina 
di  questo  racconto.  —  Tittorio  di  Borgo,  ufliziale  reduce  daH^armata 
di  Napoleone  I,  tornato  in  Piemonte  capita  in  una  ^sta  di  balte  nel 
1817  a  Nizza.  Vi  s'innamora  egli  forse?  Si,  signori,  è  ben  intesio. 
E  come?  e  di  chi?  Udite.  Una  signora  inglese,  Riccarda  Bracino, 
aveva  perduto  nel  ballo  una  preziosa  collana.  Di  Borgo  avendola  ito- 
vata  sul  pavimento,  andò  a  restituirla  a  Mad.  Erskine,  presente  il 


PENSIERI  9CL  nOWkVtO  INTIUO  ITALIANO  3S1 

g»t«niiitbfd  ^Iki  oMày  ed  ra  quell'incontfo,  perohò  m«lto  beUa^mi 
la  daitìa^  eg^lì  se  m  turàghì*  —  Nulla  di  pid  probabili.  Ma  per  cid 
solo,  ebe  ttad.  Enkiiie  lo  guardò,  e  gli  disse  -  Oh  gratie  1  gnwief 

—  il  Di  Borgo  fìi  preso  da  tal  péSibm$  Mmtm^m,  ei$  il  #ii»i^  0U 
béMité  a  n^f^rfU  U  peéio^  t  nen  péiè  e<mpf9ni9rt  àUnma  eom  déUa 
eomermtioM  ehi  #ra  <a«of?i<MiMi  tra  hi  ^U  get9maii^e! 

Tanto  e  si  rapido  incendio  d'amore  in  un  baleno,  e  nel  petto  di 
un  veterano  dell'eseretto  mq^leonico,  non  sembra  possibile  ;  ma^  lo 
aflferma  il  signor  Oioda,  e  bisogna  chinare  il  capo.  —  Parlando  in 
merito  di  quel  suo  primo  incontro  colla  Erskine ,  il  Di  Bor^o  dice 
più  tardi  :  -^  Fin  da  ginUa  volta  rmrvi  ne^Hsay  u  ella  a»$$H  e$^tdo 
iMiVQ  JH  ìm  altra  ^nor^/-^  Uccidere  per  gelosia  una  donna  con^ 
scinta  poche  ore  innan^Bì,  senza  avere  su  di  lei  alcun  diritto  t 

^  VhA.  Br^hie,  a  cui  Di  Borgo  reoossi  a  £sr  visita  Tindimaai 
della  dtonsa ,  la  si  trova  e&%  gU  océhi  belati  da  fma  tofrtma.  Che 
pfiriosB  lagrima  in  donna  uscita  allora  da  una  festa  di  ballo  !  -^  ft 
curìoeo,  ohe  volendo  Tautore  lasciar  soli  a  colloqui<x  il  Di  Borgo  e 
la  Srskine,  fk  partire  di  colà  la  zia  Mad.  Stanley  col  semptiee  pre- 
testo, che  qaella  tifoora  nonp&Uta  mai  $tar  fermi  i«  waa  itamu  pik^ 
di&i  mimti.  ^  Che  sia  comoda  !  —  B  che  dire  del  signore  Di  Borgo, 
il  quato  tffoiratoa)  appena  solo  per  la  prima  volta  con  Riccarda ,  le 
dice  senM  complimenti  :  —  Se»lo  unajhra  neeessUà  di  sapere  di  tàeUa 
(oRanaydi^ri,  idla  vita  vostraf  ^  La  necessitala  di  sapere  i  iMti 
degli  altri,  è  una  bella  originalità.  —  Siecarda  s'inquieta  sulle 
prime  di  qoeirarditezza  (ed  era  naturale,  massime  nel  carattere 
serio  ingleee)  ma  poi,  per  essere  conseguente  a  se  stessa»  dice  a  Vittorio 
ogni  eesei.  —  Al  secondo  colloquio  Riccarda  Brskine  riceve  il  Di 
Borgo  in  una  camera  appartata,  da  solo  a  s^,  per  narrargli  la 
propria  vita,  ma  questi  non  ha  la  paztenza  di  attendere  il  racconto, 
e  senza  complimenti,  al  solito,  figUa  tra  le  mafd  il  oofi»  ddla  bdh 
doma^  eie  htéia  i  eafeUi,  che  prima  di  e&ntire  ma  eteria  di  dciori 
ìojfM  di  piantai  —  Quel  soldato  è  assai  tenero,  e  flurile  idle  lagrime  ! 

—  Si  crederà  che  madama  se  ne  adonti.  Nossignori,  essa  non  se  ne 
accorge,  ed  un  pochino  distratta,  chiede  solo  a  Vittorio  la  spiega- 
zione ài  una  vera  freddura:  -^  t  Credete  Vittorio,  che  oHro  larpre- 
€  sevte  vita,  un*idtra  ve  n'abbia,  dove  rivivono'  gli  spiriti?  IHHmà  : 
«  due  anime,  che  si  sono  amate  quaggiù,  poesono  incontmrsii  rico- 
(  noseersi  in  quell'altro  mondo?  rivivere  insieme?  Non  ¥  ho  cvedato 
e  io;  se  mi  avessi  potuto  fermare  in  mente,  che  tutto  non  ha.  ter«- 
€  mine  netta  tomba,  mi  sarei  uccisa  per  correre  dietro  a  uno  spirito 
e  ademto,  che  qui  non  trovo  più  I  »  — *  Interpellanze  abbastanaa  ina- 
spettate, che  dovettero  certamente  istupidire  rinnamorato  guerriero. 
L'autore  non  ci  dice  che  cosa  Vittorio  rispondesse,  e  diffittti  dovete 


3ttl  BIVI8TA  OONTBMMftAHBA 

tiOTarti  alquanto  imlNrogliato.  —  Non  deve  qui  passarsi  sotto  sileuio, 
che  i  personaggi  del  signor  Oioda  con  molta  &eilità  parlano  di 
MoeUwi  o  di  M€€Ìd$rH.  Riccarda  racconta  da  prima  di  avere  perdu- 
tamente amato  Alfredo  Lumsden,  morto  già  da  qualche  tempov  B 
come  anche  quell'amante  inglese  fosse  ultra-sentimentale,  ce  lo  prora 
una  sua  frase  a  Riccarda  :  Taorei  otpetMo  uh  secolo  in  gmocekh  per 
veierHm  mhuto.  -  Bagatelle!  —  Dipoi  nei  Gap.  13  e  14  è  un  con- 
tmuo  farla/re  H  morte.  Riccarda  vuole  assolutamente  tornare  in  In* 
ghilterraji^  wiorire  iuUa  tomba  HAlfiredo^  e  Vittorio  protesta  che  la 
seguirà  fin  là,  perchè  non  vmol  sopraffvwerù  di  un  giorno y  di  wCora.... 
V'è  sempre  da  tremare  per  quelle  care  esistense,  fintantoché  Ric- 
carda non  ci  tranquillizsa  dando  deHe  spiegazioni,  e  fiu^ndo  le  sue 
proteste.  Ella  vuole,  ohe  le  riprovi,  che  le  ri  ekiarisea,  che  morendo 
rivivrà  con  Alfredo,  ed  allora  soltanto  ingoierà  una  tuona  dou  t oppio 
che  Urne  a  heUa  poeta  nel  àuo  astueeioì  Non  potendo  mai  darsi  che 
alcuno  ckimieca  la  signora  Erskfne  di  quello  che  avviene  nell'altro 
mondo,  ne  segue  che  dopo  tante  parole  essa  non  si  ucciderà  mai. 
—  Ahi  che  baiel  —  Ma  ciò  non  è  tutto.  Vittorio  coglie  un  mo- 
mento opportuno,  e  parla  alfine  a  Riccarda  dell'amore  che  sente  per 
lei.  Dopo  gli  antecedenti  ò  da  supporre  ch'egli  sarà  corrisposto.  No; 
Riccarda  invece  s'irrita  por  la  eempUce  e  naturaUeeima  ragione^  che 
essa  ha  il  progetto  di  far  ritomo  in  Inghilterra^  e  stare  tante  ore  sul 
sepolcro  di  ÀUfredo,  eh* egli  per  pietà  la  richiami  a  sèi  Ma  in  forza 
del  principio,  che  nil  violontum  durabile,  alla  perfine  la  dama  va 
calmandosi,  rinuncia  ai  suoi  progetti  di  morte,  e  per  premiare  la 
costanza  di  Vittorio,  gli  dice,  che  vivrà,  e  non  lo  abbandonerà  mai.  In- 
dovini il  lettore  per  qual  ragione  !  I^srehè  Udilri  defunto  amante  Al- 
fredo Immsdon,  che  amava  singolarmente  i giovani,  nàl  vorrebbe! -^ Oh 
l'ingegnoso  meaoo  termine  per  dare  alla  sentimentale  eroina  la  hk- 
colta  di  abbandonarsi  ad  un  nuovo  amante,  dopo  la  morte  del  primol 
Ed  ecco  la  lotta  d'amore  (Gap.  15)  divenire  da  quel  momento  più 
violenta.  Ora  è  Riccarda  che  sembra  vacillare,  e  ci  minaccia  una  ca- 
duta ;  il  sentimentalismo  ò  per^cedere  alla  creta.  Che  farà  l'inna- 
morato Vittorio  in  quella  tentazione  ?  Egli  che  fin  dalla  prima  vi- 
sita afferrava,  e  baciava  con  tanto  impeto  la  bella  testa  della  signora 
ErsUne,  non  dovrà,  logicamente  parlando,  fiume  qualcheduna  delle 
grosse,  ora  che  la  vaga  donna  si  abbandona  a  lui,  e  dopoché  (sia 
detto  qui  per  incidente)  gli  ha  di  già  regalato  un  bacio  nello  scen- 
dere una  scaletta  a  chiocciola,  nel  casino  del  Piano  di  Latte?  V'in- 
gannate, n  Di  Borgo  per  un  incomprensibile  slancio  di  virtù  giunge 
a  frenarsi  colla  severità  di  un'anacoreta  ;  egli  cessa  di  vedere  in  Ric- 
carda la  sua  amante,  ed  invece  incomincia  in  quel  punto  a  chia- 
marla col  titolo  dijlglia!  Volete  sapere  il  perché  egli  operi  eoirt? 


PBNSmi  80t  tOlCAHVO  INTIMO  ITÀLIAKO  S6» 

Yel  dice  Tautore.  P«r  rispetto  di  Alfredo  Lumaden!...  del  soo  rivato 
già  mortol...  Ah  !  queata  la  è  un  tantino  più  madornale  delle  altM. 
—  Ma  non  seguiremo  l'autore  in  tutto  il  eorso  di  questa  romaatioa 
iliade  di  amori  esagerati,  di  virtù  incredibili,  di  affanni,  di  malattie, 
di  srenture  di  ogni  specie.  Noi  ammettiamo  nel  signor  Oioda  ìm 
certo  studio  del  cuore,  una  intuizione  delle  passioni,  e  troviamo  nel 
suo  libro  qualche  interessante  scena  drammatica,  una  certa  abilità 
nell'intreeciare,  e  nel  descrivere,  specialmente  nel  Gap.  4^,  aUoichè 
Di  Borgo  narra  la  nuMrte  dei  proprii  genitori,  la  sua  vita  militare,  il 
suo  ritorno  in  Piemonte  dopo  la  caduta  di  Napoleone  L  La  lotta  della 
virtù  coil'amore  in  Riccarda ,  è  dipoi  esposta  in  più  capitai  con 
vivi  tocchi  da  produrre  non  infrequenti  commozioni.  Peccato  die 
cotesti  pregi  siano  adombrati  daireccessivo  romanticismo  delle  idee 
e  delle  frasi,  dalle  inverisimiglianie  dei  fatti,  dalle  contraddisieni 
nei  caratteri,  e  dalla  lingua  trasparente  di  stento,  e  non  seetra  di 
asprezze  e  di  improprietà  !  Come  è  mestieri  aggiungere,  fct  essere 
al  tutto  veritieri,  che  uno  scopo  morale  nel  libro  del  signor  Gioda 
non  ci  sembra  né  ben  definito,  né  raggiunto.  — 

La  diss(4utezsa  (tema  d'altronde  assai  arduo)  doveva  aneh'essa 
ispirare  la  fantasia  di  im  altro  romanziere.  H  primo  §mmt$  diB$rta  è 
il  titolo  prqiosto  dal  signor  Torquato  Giordana  ad  un  suo  racconto  di 
scene  contemporanee,  colle  quali  pretende  esporre  ed  attaccare  questo 
vizio.  Dirò  innanzi  tutto,  che  se  vi  è  romanzo  che  si  l^ga  con  pre- 
mura crescente,  continua,  egli  è  questo  del  signor  Giordana.  Per 
tacere  della  buona  lingua,  dello  stile  piano,  dell'arte  non  comune  di 
narrare  con  naturalezza,  vivacità  di  parole  e  vigoria  d'immagini,  mi 
piaoe  notare  a  preferenza  la  fecondità  dell'invenzione,  che  permette 
all'autore  di  trascurare  le  minuzie  del  racconto,  alle  quali  sarebbe 
già  preparato  il  lettore,  per  condurlo  con  incantevole  rapidità  in  si- 
tuazioni inattese,  sorprendenti,  e  quasi  sempre  di  ottimo  eflbtto,  a 
tale  che  un  intreccio  assai  ricco  di  avvenimenti  vi  è  sviluppato  in 
soli  dieci  capitoli.  —  Bello  è  lo  scopo  che  l'autore  dice  di  essersi  pre- 
fisso ;  svelare  la  corruzione  dei  costumi,  imprecare  alle  infiunie  so- 
ciali ;  ma  prima  di  venire  ad  alcuna  discussione,  diamo  un  breve 
cenno  del  soggetto,  per  vedere  sino  a  qual  punto  Fautore  lo  abbia 
raggiunto.  —  Giuliano,  povero  studente,  ama  perdutamente  Berta, 
la  figlia  di  Bibiana,  portinaia  di  un  casamento  in  Torino.  Bd  anche 
Berta  è  presa  del  giovine.  Berta  giovinetta  di  sedici  anni,  di  rara 
bellezza,  ancc^ra  onesta  ed  inclinata  al  bene.  Ma  la  perversa  Bibiana 
d'accordo  con  Giacomo  suo  marito,  venduto  segretamente  Tenore 
della  figliuola  al  dissoluto  e  ricchissimo  conte  Palli,  mena  la  ragatfa 
nel  di  lui  palazzo,  ed  ivi  l'abbandona  !  Già  il  conte  gongola  per  la 
certezza  di  facile  vittoria,  e  già  si  appresta  a  porre  Berta  nel  novero 


364  inn«f  A  coirmcPomÀKiiA 

àMe  tatté0  sue  viiiime,  quando  la  fcnciulta,  avrisando  in  qnri  mo- 
laeflto  il  perielio  in  coi  fu  tratta,  spinta  da  natnnUe  ribrezso,  da 
un^ftiiaiKò  di  orgoglio,  da  un  avanzo  di  virtù,  gli  resiste  col  pugnale 
atta^  mano.  Palli  sopraffatto  dalla  fierezza  di  lei,  la  rimanda  libera  e 
p«va,  dicendole  :  Andate,  se  vi  troverete  in  bisogno  di  aiuto,  prefe- 
rileaii  ad  altri,  ritornate  qua;  alle  nove  di  sera  vi  sarà  aperto.  -  Sono 
in  buoni  capitoli ,  massime  il  terzo,  nel  quale  vi  ò  un  intaresse 
sHaordinario  e  superbi  tocchi,  che  deetano  l'attenzione,  e  la  curio- 
sità fai  su|nremo  grado.  Assai  migliore,  perchè  altamente  morale, 
si è^il  capitolo  seguente,  ovvero  il  quarto.  Berta,  sottrattasi  al  Pàlli, 
non  tortta  presso  i  suoi  genitori,  perchè  conscia  di  esseme  stata 
viloienlé  ceduta  per  denaro,  gli  abborrisce  ;  abbandonata  a  se  sola, 
*  sen  va  a  zonso  tutta  notte  ed  il  giorno  segpuente  per  Torino,  onde 
procacciarsi  un  ricovero,  un  pane  onorato  ;  non  trova  che  la  derisione, 
l*indMterensa,  il  vizio  e  la  prostituzione.  Disperata,  senza  asilo,  in 
prèda  atta  fame,  si  ricorda  fatalmente  delle  ultime  parole  del  eonte 
PalU,  ed  esclama :•— La  strada  dell'onore  mi  è  chiusa?....  Ebbene, 
percorrerò  quella  del  vizio.  --  B  eo^  dicendo  batte  alta  segreta  porta 
•d«l  palazM)  di  quel  corrotto  Epulone,  e  diventa  la  sua  druda. 

^  Nella  nuova  condizione,  in  mezzo  al  profumo  della  licenziosa 
sua  vita.  Berta  cangia  istinti  e  natura.  Gli  uomini  la  oppressero  ed 
essa  ruol  vendicarsi  degli  uomini.  Abbastanza  cel  provano  i  suoi 
fMti*  Quando  il  misero  Giuliano,  sempre  spinto  da  una  deplorabile 
passione,  gitmge  ad  introdursi  nella  società  del  conte  Palli,  ella  lo 
SM^coglie  freddamente,  e  più  tardi,  per  liberarsi  della  sua  presenza, 
e  quasi  per  deriderlo,  gli  chiede  come  straordinaria  prova  d'amore, 
che  vada  in  Asia,  nell'Indie,  a  cercare  per  lei  una  pianta  mera- 
vigliosa, quasi  irreperìbile,  la  Stimkopea  tigriM!  E  Giuliano  parte. 
II  conte  Palli  pose  a' di  lei  piedi  la  sua  ricchezza,  ed  essa  ne  fa 
sperpero,  costringendolo  a  pr(rfbndere  in  breve  tempo  tre  milioni 
di  lire.  Berta  giunge  segretamente  a  scoprire,  che  i  suoi  genitori, 
iniqua  gente,  hanno  ucciso  e  derubato  il  procuratore  Morano,  ed 
essa  per  isfogare  l'odio  che  nutre  contro  di  loro,  li  denunzia  al 
fisco  con  lettera  ch'eUa  medesima  gitta  in  posta  di  nottetempo.  ~ 
Toma  Giuliano  dalle  Indie  recando  la  Stanhopea  iigrina^  ed  essa  in- 
vasata da  un  momentaneo  capriccio  nel  rivederio,  si  divide  brusca- 
mente  dal  conte  Palli,  e  si  dà  in  braccio  a  Giuliano.  — Era  appena 
trascorsa  quella  notte,  che  Giuliano  destatosi  non  trova  più  Berta 
presso  di  sé.  La  volubile  femmina  era  partita,  lasciando  i  suoi  saluti 
all'amante.  II  cieco  giovine  se  ne  dispera,  ed  è  per  uccidersi,  quando 
]^r  eSbtto  di  un  aneurisma,  che  da  lungo  tempo  il  minacciava, 
muore.  Un  mese  dopo  Berta  in  degante  legno  da  posta  partiva  per 
Parigi  al  fianco  di  un  nuovo  amasio,  un  nobile  giovinetto,  ma  ricco 


PBN8IEBI  SUL  ROIIiJ«ZO  II4TUI0  ITALIANO  MS 

ed  imbeeille.  Per  compreudere  .fino  a  qual  punto  era  giunta  la  oor^ 
ruuooe  di  B^rta,  e  si  era  indurito  il  suo  cuore,  basta  gettare  io 
sguardo  sulle  ultime  linee  del  romanzo,  che  qui  trascriviamo. 

—  f  Che  cosa  legge  quella  gente  ?  —  domandò  la  lionessa  (Berta) 
e  ohe  partiva  per  Parigi ,  additando  un  crocchio  rivolto  ad  una 
€  caatonata. 

«Ghel  Non  sapete?  —  rispose  Tavvocato  «^  É  la  sentensa  che 
e  condanua  ai  lavori  forcati  a  vita  gli  assassini  del  procuratore 
t  Morano. 

-^  e  Afa  !  —  fece  la  lionessa  —  La  giustizia  è  stata  troppo  ind^* 
e  gente.  Davvero  essi  meritavano  il  patibolo  !  »  -- 

Noi  non  conveniamo  col  signor  Qiordima  in  pareoohie  cose.  Nella 
prefazione  egli  si  vanta  che  narrando  i  iatti  sooisli  ha  isi^herata  la 
bandiera  del  realUmo,  Ma  codesto  pretto  rsaUsmo  fu  adottate  fin  qui 
dai  più  e  dai  migliori  t  Se  gli  amori  dì  Giulietta  t  Bomeo,  di  l4iura 
e  Petrarca,  o  di  Jacopo  Ortis,  sembrano  fitutastichorìe  al  «v^M>r 
Giordana,  forse  che  le  tresche  della  sua  Berta  e  dd  suo  PalU,  lU 
Gap.  3^  non  parranno  aUa  massima  parte  dei  lettori  una  acopcenst 
La  passione  e  i  sacrifizii  di  Giuliano  una  caricatura?  La  e&enatft  h- 
scivia  di  Berta  nel  darsi  a  Giuliano,  cosi  minutamente  e  ^pudomt^- 
m^te  descritta  al  Cap.  9,  un  bozzetto  disegnato  per  passatempo 
delie  prostitute  di  un  lupanare?  L'odio  di  Berta  pe*suei  geiMtQri« 
spirito  a  quell'estremità,  una  orribile  inverosimigUan^?  No,  il  fit^ 
^tto  redisMo  non  lo  si  può  ammettere  nei  b'uimi  roman»^  wm^  «i 
esclude  4aironesto  conversare,  perchè  vi  baimo  eccessi  aociali,  dei 
quali  non  solo  è  conveniente,  ma  è  necessario  tacere,  per  mdte  n^ 
gi<mi,  fra  le  quali  non' è  ultima  la  piviUà.  N(m  si  P0f0a  mai  JM^ 
nàPatto  il  uccidere  iproprii  jtgli^  lo  ha  scritto  Orazio  parlando  4ella 
tragedia,  ed  a  certi  precetti  dei  grandi  maestri»  con  buona  ptiee  dc^ 
sig.  Giordana,  bisogna  £ar  di  beiretta  ;  chi  gli  tiene  in  non  cele,  ^t» 
ne  diàcosta 4k  \xoppo,oàio irremissibilmeiite  i^eli'esagtrato,  nel  feaw>^ 
Descriv^e  i  viaii  troppo  al  vivo,  e  massime  questo  della  seostumataiMt 
che  ai  ammanta  di  cosi  procaci  fcnrme  e  di  così  seducenti  colori,  non  k 
coTMggerli,  ma  insinuarli  in  eerto  modo,  e  diffonderli.  Lft  tuipe  vìt^  di 
Berta  ci  par  troppo  lusingbev^,  almeno  materialmente^  e  pi^  ài  una 
donna  fimMt  col  desiderare  d'imitarla.  ^€osl  vtm  posaiame  lodfw»  ai 
tveviamo  credibile  quell'inaudito  eccesso  d'odio  attribuito  a  Berta  vterso 
i  pcoprii  genitori,  sino  ad  inyiare  ella  stessa  senza  necessità  l'aopuaa 
dei  loro  gravissimi  delitti,  che  doveva  condurli  a  morte,  e  si»o  a  fre- 
mere  di  dispetto  perchè  non  furono  giuatiziati.  I  <3ipeci  antifchi  UM 
punivano  il  parricidio,  perchè  lo  credevano  imposeibiU,  Qual^i^ermia 
di  concetto  fra  gli  antichi  Giteci  e  il  nostro  autore  !  Berta  anela  4i 
uoeideM  il  i)adre  e  la  m^d^e,  peichè  la  spinsero  in  una  vm  in<MM, 


36C  BIYI8TA  CX}KTBMPORANBÀ 

nella  quale  ella  tripudia  e  gavazza  ad  oltranza  !  Berta  poteva  nutrire 
avversione  ed  anche  odio  verso  i  ribaldi  genitori,  ma  almeno  dentro 
certi  lìmiti,  e  senza  abbandonarsi  ad  eccessi  contro  natura,  non  po- 
tendo afflitto  obbliare,  che  una  parte  della  colpa  era  pur  sua,  quando 
deliberatamente  ella  stessa  tornò  a  battere  alla  porta  del  ricco  sedut- 
tore! -*  Infine  l'aneurisma  per  far  morire  Giuliano  a  tempo  e  luogo 
qpportimo,  è  un  mezzo  tròppo  comune,  trito  e  ritrito,  che  ha  pure 
il  donerito  di  far  prevedere  il  finale  del  racconto.  —  Ma  checché  si 
voglia  dire  in  contrario,  questo  romanzo  è  assai  pregievole  per  tutto 
oi4  che  sopra  dicemmo,  ed  anche  non  convenendo  con  Fautore  in 
certi  dettagli  e  chiaro-scuri  troppo  forti,  ammettiamo  che  dall'insieme 
n'emerge  il  gran  fine  di  segnalare  la  corruzione  del  costume,  e  ad- 
ditarne in  qualche  modo  i  rimedii.  Il  Gap.  4*  è  prezioso  per  chi  ben 
comprenda,  e  vi  mediti  sopra  ;  in  esso  sta  tutta  la  moralità  del  libro.-- 
FrMcOla  la  Fioraiay  nuovo  racconto  del  signor  Enrico  Montazio 
uscito  testò  alla  luce,  si  aggira  intomo  ad  un  episodio  della  vita  di 
Gioacchino  Bossini.  Al  dire  di  qualche  biografo,  una  giovine  x>opo- 
lana  di  Napoli  s'innamorò  del  celebre  maestro  siffiittamente,  che 
ossia  disperasse  di  esseme  corrisposta,  ossia  fosse  da  lui  abbandonata, 
m<Nrì,  anzi»  come  altri  pretendono,  si  uccise.  Vero,  o  falso,  o  esage- 
rato il  caso,  esso  porse  un  bel  soggetto  al  signor  Montazio  per  darci 
un  quadretto  di  Rossini  ancor  giovine,  nel  1815,  nell'atto  che  fra  i 
suoi  trionfi  e  i  suoi  traviamenti,  e  nella  foga  delle  passioni  prende  più 
ardimentoso  le  mosse  della  sua  splendida  carriera  musicale.  Vi  si 
vede  il  figlio  del  popolo,  che  ama  il  popolo,  donde  emana;  vi  si 
vede  il  giovine  galante  fregiato  di  tutti  i  doni  della  natura,  quindi 
proclive  ai  capricci,  alle  intemperanze,  ed  irresistibile  conquistatore 
di  femminei  cuori  ;  similmente  vi  si  vede  il  genio  creatore  d^immortali 
melodie,  per  le  quali  tutto  il  mondo  civilizzato  ò  costretto  a  pagargli 
largo  tributo  dj  stima  e  di  ammirazione  ;  infine  vi  sono  comicamente 
esposte  le  grettezze  tiranniche  esercitate  su  Rossini,  e  sugli  altri  ar- 
tisti dallo  straricco,  ed  allora  onnipotente  impresario  Barbaja,  non 
che  gli  amori  di  entrambi  colla  Colbrand,  avvenente  e  pregiata  can- 
tatrice,  che  volte  in  ultimo  le  spalle  all'esoso  impresario,  divenne  poi 
consorte  del  grande  maestro.  Mala  figura  più  spiccata  e  più  originale 
del  racconto ,  si  é  quella  della  popolana  di  Napoli ,  Francilla  !  Oh 
come  vi  attrae,  vi  seduce,  vi  commuove  quel  tipo  di  natura  vergine, 
quel  cuore  schietto,  ardente,  quell'anima  tutta  assorta  in  un'estasi 
d'amore,  che  deve  condurre  la  giovinetta  al  sepolcro  !  In  un  racconto 
assai  breve  l'autore  trovò  modo  d'introdurre  molte  situazioni  impor- 
tanti, onde  porre  in  luce  un  carattere  che  ha  del  nuovo,  e  renderlo 
appariscente  e  simpatico.  --  À  dir  vero,  le  qualità  e  le  abitudini  di 
Bossini  sono  descritte  con  tanta  sincerità,  che  è  quasi  soverchia, 


PBNSIBBI  SUL  BOIUNZO  INTIHO  ITALIANO  367 

poiché,  non  trattandosi  di  Bcrìverne  l'esatta  biografia,  o  la  vita,  il 
rispetto  per  questo  grand'uomo  poteva  forse  consigliare  rommissione 
di  alcune  circostanze,  che  pongono  troppo  in  vista  la  sua  parte  di 
creta,  e  ciò  per  quella  grande  ragione  già  sopra  accennata,  che  ncMi 
tutto  quello  che  può  esser  vero  deve  anche  intromettersi  nei  romanzi, 
0  nei  drammi.  Né  tacerò,  che  alcuni  dettagli  sul  Loizzarone  Torquato 
0  sul  cane  di  Francilla  mi  parvero  alquanto  prolisssi  e  leggieri,  ed 
alcuiH  motti  sui  rapporti  intimi  di  Rossini  colla  Golbrand  forse  im 
pò*  triviali  ed  arditi.  Tuttavia  la  ProMeiUa  è  tal  lavoro  letterario, 
che  per  la  sua  impronta  di  novità ,  e  pe'  varii  pregii  rimarchevoli, 
fra  i  quali  primeggia  la  lingua  pura  e  fluida  sino  quasi  all'antitesi 
della  ricercatezza»  non  può  non  riescire  bene  accetto,  e  induce  a  presa- 
gire, sempre  meglio  di  godeste  distinto  autore.  — 

Leggemmo  altresì  varie  novelle  di  autori  diversi,  delle  quali, 
quantunque  piccole  di  volume,  ò  ben  giusto  che  si  fìuxia  particolare 
menzione.  —  Tre  di  esse  sono  di  Felice  Bomani,  ed  hanno  titolo: 
Il  ponte  dei  JldanzaUj  frammento  di  uà  viaggio  sentimentale  ndla 
Liguria;  Vk  miUro^  episodio  di  un'istoria  fiorentina  ;  Vmmk^tOr- 
ìumo.  L'autore  dei  celebri  melodrammi  ci  appalesa  anche  nelle  no* 
velie  la  sua  viva  immaginazione,  la  sua  potenza  nel  muovere  gli 
affetti,  e  sopra  tutto  la  sua  lingua  pura,  e  quello  stile  semplice, 
chiaro,  colorante,  che  richiama  alla  buona  scuda,  ed  invita  molti 
guastamestieri  ed  imbarbariti  prosatori  odierni  ad  attingervi  il  bello, 
come  si  attinge  l'argentea  linfa  alla  limpida  sorgete  della  moii- 
tagna.  *-  Un'altra  venne  pubblicata  dal  milanese  Luigi  Dossena,  ^ 
titolo  —  H  preffiuiim  del  duello  —  nella  quale  l'autore  ha  voluto  ad* 
dimostrare  l'immoralità,  l'inconcludenza,  ed  i  gravi  danni  di  co- 
desto abuso  sociale,  facendo  seguire  al  racconto  àlcu$ii  ri/lessi  morali 
di  notisie  storiche  sìd  duello ,  che  racchiudono  una  erudiziene  ed 
un'importanza  assai  notabile.  Anzi  convien  dire,  che  i  riflesssi  mo- 
rali nel  libriccino  del  Dossena  hanno  la  parte  e  il  merito  principale,  e 
volentieri  ne  faremmo  un'analisi,  che  sarebbe  filosoficamente  utilis- 
sima, se  non  si  trattasse  di  materia  estranea  all'argomento,  di  cui 
dobbiamo  occuparci.  Ci  limiteremo  quindi  a  lodare  nella  novella  del 
Dossena  l'ordine  e  la  vivacità  della  tessitura,  le  pagine  commoventi, 
non  che  la  grande  opportunità  del  tema.  ~  In  fine  la  novella  Dio 
ti  ffuardiy  della  signora  Rosina  Muzio-Salvo  da  Palermo,  ci  parve 
degna  di  considerazione.  Sono  scene  siciliane  precedenti  l'ultima  ri- 
voluzione colà  compiutasi  contro  il  governo  borbonico.  Ma  il  tema 
politico  vi  è  frapposto  per  incidente.  Il  vero  tema  della  novella  è 
prettamente  sociale;  vi  hanno  casi  e  frizzi  comici,  del  pari  che  pas- 
sioni vive,  e  molto  cuore;  i  principii  morali  e  filosofici  sono  eccel- 
lenti; insomma  è  uno  di  quei  libercoli  dettati  per  correggere,  non 


BITI0TA  OONTEIITOEÀMBA 

per  corjTMDpere,  tendenti  m  formara  al  bene,  a  soUazBtre  con  ^msk, 
«d  m  eommovere  soavemente.  Sarebbe  un  lavoro  sulla  via  àdVo^imOj 
se  la  diBtinta  autrice  ttciliana  ei  fosse  gxiardata  un  po'  meg^lio  daOa 
lingoa  e  stile  loeale ,  ossia  dal  fraseggiare  piuttosto  proprio  degli 
abitatori  dd  mezBOgiorno  d*Italia.  Tacendo  di  alcune  locuziom  «n?o^ 
noe,  e  di  alcuni  modi  e  parole  viete  o  non  accettabili  j  noterò  sol- 
tanto <per  dovere  di  critioo  imparziale,  che  tanto  più  riaaoe  grava 
rispetto  al  gentil  sesso)  il  metodo  dall'autrice  adottato  di  prepone 
troppo  sovenée,  ed  in  modo  tutto  poetico,  l'aggettivo  al  sostantivo^ 
Za  lietm  MUzza,  2a  fiìUeggianie  fameMltL,  U  tomiUie  kigmrie^  Vom- 
ffdiea  eoMtesiéf  e  cento  altri  gruppetti  lirici  di  codesto  genere  sono 
qua  e  li  a  piene  mani  cosparsi  ;  al  Gap.  6"*  trovanai  aeoomati  in  pocàe 
linee  gli  t^umfcati  casolariy  il  grmUe  HiaòUtdo  ca00mm(ó,  U  {m^ 
ammUmum  eaw^^  la  eaiemU  fcMmay  VùUefra  éàlaJ  Ma  questi  nei 
rimpeito  ai  pregii  stanno  nello  aoritèo  dalla  signora  Muaio-fialf\ro  carne 
usa  a  ariMtfi  Ia  sua  novella  eocita  (Mstan temente  la  curiosità,  ac- 
lista fima  ptogredendo  e  oommovo  ia  ultimo. 

Ghiiidei6mo  la  jivùrta  aoalìtiea  colgeseme  del  JìhiO0  nel  mmto^ 
ttttov#  a  drasenta  lavare  del  noatro  a  buon  drièto  oelebraio  romanaàare, 
signor  fMsacoaoe  Domemco  Guerrasai.  Sarà  come  dare  ai  convitati 
ìADa  rana  ctìaietÉuna  o  un  bicchiere  di  prelibato  liquore  in  fiae  ée) 
desJuajra.  Noia  già  lebe  ùi  altri  roiaanzi  o  racconti  non  restasse  a 
partere,  dan^ichè  vi  saMbbero  quelli  della  signora  Pereoto  (dei  q^iali 
nuaiì  otiima  fiama),  qndU  della  sigaora  Oodogno-Gerstrembraadt, 
dei  aigttaci  Baaaisa,  Smiliani-Giadici,  Tarese,  Uda,  llastriani,  Do- 
natOf  Ohisknaeiti,  Ranieri,  Paysio  ed  altri.  Ma  i  limiti  impostici  per 
qoesto  arÉioolo  Piritico  non  ci  danno  lo  spazio  necessario,  né  le  opere 
daiiaeMBODati  aerittori  ci  sono  aoacor  giunte,  sebbene  le  afebiamo  in 
più  Inoghi  ricercate  e  commesse,  di  modo  die  ponendo  ìfine  per  ora 
al  noaim  ragicmamento,  ci  riserbiamo  di  trattare  di  eaae  in  altro 
artìoalo  addisionide,  se  potrà  av«r  luogo. 

U  Buco  nel  nmroy  secondo  che  ci  dice  il  signor  Ouerraai,  è  una 
atoria.  Bifiitti  si  pretende,  ohe  nel  vecdiio  OraiPta  egli  abUa  deli- 
neato se  stesso,  nel  Marcello  un  suo  nipote,  e  nella  BHta  una  vec- 
chia e  biaeoa  fimtesca  dalla  medesima  sua  casa.  Oheochè  ne  sia, 
storia  o  remanao,  gli  è  un  libro  di  moUo  merito,  e  quanto  a  lingua 
e  etile,  è  vm  vero  gioiello  italiano.  Ne  diremo  tuttavia  liberamente 
tutto  ciò  ohe  il  debole  nostro  intendimento  ci  detta.  ~  Avvi  innanai 
tutto  'un  yroìofo^  nel  quale  raut(Hre  finge  un  dialogo  tra  Ff$fàH960  e 
Dpmmm,  Il  primo  chiede  all'altro  il  manoscritto  di  questa  storia 
per  pubblicarlo  a  benefìzio  dei  poveri,  al  che  Domenico  acconsente, 
e  con  ciò  si  oflPre  il  destro  di  da^crivere  il  banco  deUo  studio  di  Do- 
mapioo  colle  sue  oaotere  e  soaffaletti,  e  con  tutte  le  carte  cheow- 


PENSlBRI  SUL  ROMANZO  INTIMO   ITALIANO  S69 

tenevano  divise  per  materie.  Dalla  quale  descrizione  si  pongono  in 
luce  con  beirartificio  i  pensieri  dell'autore,  e  gli  studii  e  tendenze 
sue  sulle  scienze  e  le  lettere.  Dico  delVautorey  avvegnaché  è  ben  fa- 
cile comprendere,  che  il  Guerrazzi  anche  in  questo  caso  ha  fatto 
quello  che  gli  avviene  di  far  sovente,  ovvero  ha  parlato  di  sé, 
facendo  trasparir^  la  sua  vita  letteraria»  scientifica,  politica.  Suc- 
cede al  prologo  il  racconto,  che  brevemente  sporremo.  —  Il  vecchio 
Orazio,  uomo  agiato  e  dedito  agli  studii,  di  umore  e  di  abitu- 
dini alquanto  strambe,  una  specie  di  burbero  benefico,  venutagli 
in  uggia  la  condotta  di  un  suo  scapato  nipote,  Marcello,  che 
aveva  raccolto  bimbo  in  casa  sua  dopo  la  morte  del  padre,  lo  co- 
stringe a  separarsi  da  lui,  dopo  avergli  dato  del  denaro,  perché 
sen  vada  con  Dio  in  cerca  di  fortuna  in  Australia.  Marcello  (ab- 
bastanza matto,  ma  non  cattivo)  si  reca  a  Milano,  ed  ivi  sciupato 
il  denaro  dello  zio,  quando  s'avvede  non  essergli  rimaste  che  poche 
nionete  d'oro,  comincia  a  far  giudizio,  e  si  rinchiude  in  una  piccola 
cameruccia  o  soffitta.  Avvenne  che  allogatosi  nel  suo  bugigattolo,  il 
giovine  nell'atto  di  estrarre  ud  chiodo  dal  fondo  di  un  armadio  ri- 
cavato nello  spessore  del  muro,  fece  per  caso  un  buco  tra  le  commes- 
sure dei  mattoni,  ampio  così  da  poter  distinguere  gli  oggetti  nella 
camera  attigua,  e  udire  i  coUoquii  delle  persone  che  vi  abitavano. 
Tre  individui  più  notabili  frequentavano  in  quella  camera.  Roberto 
pittore  giai^nte  in  letto  per  etisia ,  Isabella  sua  moglie,  e  Felice 
amico  loro.  Senza  andare  per  le  lunghe,  ed  a  parte  i  dettagli,  Ro- 
berto morì ,  Felice  fu  congedato  da  Isabella,  perchè  se  lo  stimava, 
npn  lo  amava,  ed  Isabella  divenuta  vedova  promise  l'amor  suo  a  Mar- 
cello, purché  si  facesser  le  nozze  loro  col  consenso  dello  zio  Orazio.  — 
Dopo  ciò  Marcello,  divenuto  tutt'altr'uomo,  corre  allo  zio  per  averne 
il  perdono  ed  il  favore.  Lo  zio,  che  all'udire  il  racconto  dì  quella 
strana  avventura,  teme  sempre  di  qualche  nuova  sventatezza  del 
nipote,  rinchiude  Marcello  nel  suo  appartamento,  e  sen  va  a  dirit- 
tura a  Milano  per  conoscere  Isabella.  Colà  il  vegliardo  si  convince 
delle  buone  qualità  della  giovine  vedova,  ed  approva  il  matrimonio 
dì  lei  con  suo  nipote,  ma  perchè  Isabella  non  accetterebbe,  se  non  a 
condizione  che  Omobono  suo  padre  dia  il  proprio  consenso,  l'ottimo 
zio  Orazio  si  abbocca  pure  coU'Omobono  per  codesto  effetto.  L'Omo- 
bono  é  un  riccone,  ma  gretto,  ed  irritatissimo  cóntro  la  figliuola  pel 
suo  precedente  matrimonio  col  pittore  Roberto,  da  lei  fatto  contro  il 
paterno  volere.  Egli  cinicamente  accoglie  le  proposte  di  Orazio,  e 
solo  acconsente  alle  nozze  a  condizioni  degne  di  un  uomo  snaturato 
espilc^cio.Ma  due  anni  dopo,  avendo  Isabella  dato  alla  luce  un  figlio, 
e  volendo  che  se  ne  dia  parte  a  suo  padre,  questi  commosso  e  con- 
tento, accorre  nel  dì  del  battesimo,  e  si  fa  tutta  una  famiglia  oltre- 

UMita  (7.-24 


370  RIVISTA   CONTBMPORANBA 

modo  felice.  —  Prima  di  concludere  sul  merito  di  questo  racconto, 
noi  non  possiamo  a  meno,  ancorché  ammiratori,  di  farvi  sopra  qual- 
che osservazione,  per  adempiere  all'obbligo  assunto,  obbligo,  o  peso, 
che  tanto  più  ameremmo  toglierci  dalle  spalle  ogni  qual  volta  si 
tratti  di  parlare  dei  più  distinti  autori,  e  specialmente  del  signor 
Guerrazzi,  il  quale  ci  dice  apertamente,  a  pag.  61,  per  bocca  del 
signor  Orazio,  cìu  mai  soffre  i  critici  cattiti  o  buoni,  benetoli  o  ma* 
ligni  che  sieno!  Noi  farem  qui  notò  all'illustre  autore,  che  siam  ben 
lun^i  dalla  saccenteria  per  mestiere  o  dalla  presunzione  d'insegnare 
altrui^  ma  che  abbiamo  nel  tempo  stesso  il  convincimento,  che  spetti 
a  ciascuno  il  diritto  di  far  uso  del  suo  senso  comune,  e  de' suoi 
studii  per  esaminare  le  opere  altrui  ;  che  si  possa  dar  giudizio  di 
un'opera  qualunque,  senza  l'obbligo  di  fame  una  simile,  o  migliore  ; 
che  infine  il  disprezzo  illimitato  per  qualsiasi  critica,  ci  sembra  esso 
medesimo  una  eccessiva  presunzione,  la  quale  può  solo  essere  scu- 
sabile nei  cervelli  alqxianto  bizzarri  e  strani,  come  quello  che  Fau- 
tore attribuisce  al  signor  Orazio.  —  Entriamo  dunque  nell' arringo, 
e  diamo  dapprima  uno  sguardo  al  complesso  dell'opera.  —  Vi  è  im- 
portanza ed  utilità  nel  soggetto?  L'importanza  è  mediocre,  poiché 
comprende  soltanto  i  brevi  casi  famigliari  di  pochi  individui.  L'uti- 
lità non  vi  manca,  mentre  in  mezzo  a  certe  opinioni  per  lo  meno 
esagerate,  e  tra  alcune  massime  pericolose,  se  pure  ammissibili,  vi 
sono  in  genere  insinuate  e  commendate  eziandio  talune  virtù  dome- 
stiche e  cittadine,  taluni  buoni  principii  sociali,  e  specialmente  gli 
affetti  e  i  legami  della  famiglia.  —  Avvi  intreccio?  Sì,  ma  sottile, 
semplicissimo  ;  gli  scarsi  fatti  sono  avvolti  da  lunghe  digressioni,  e 
molte  parole.  —Ma  quali  parole!  —sento  dirmi. —Convenuto.  Lin- 
gua purissima,  stile  incantevole,  frizzi  profusi  ed  elevati.  Però  noi 
siamo  qui  ora  per  discutere  del  soggetto  e  del  suo  svolgimento.  In- 
tendendovi bene  addentro  gli  occhi  della  mente,  ci  appare  bensì 
molta  luce  dorata;  ma  è  poi  tutt'oro  quello  che  luce?  —  Taceremo 
delle  personali  allusioni,  o  piuttosto  del  panegirico  non  molto  ve- 
lato, che  l'autore  fa  di  se  stesso  nel  prologpo  e  nei  capitoli  successivi. 
Tocchiamo  piuttosto  dei  principii  fllosofico-politico-sociali  ch'egli  ci 
espone. 

Si  è  già  detto,  ed  è  noto,  che  il  Guerrazzi  suole  attribuire  ai 
suoi  personaggi  le  proprie  idee  politiche,  e  quelle  da' suoi  libri, 
quasi  dalla  bigoncia,  ostinatamente  e  ricisamente  inculcare  per  av- 
ventate che  siano.  Non  v'ha  per  esso  tolleranza  di  sorta,  e  ce  ne 
offre  in  questo  romanzo  più  di  un  esempio.  Comincio  dal  notare,  che 
i  moderati  in  politica  sono  l'oggetto  dei  suoi  mordaci  e  continui 
sarcasmi.  Se  i  principii  moderati  sono  un  delitto  appo  luì,  intende 
forse  predicarci  la  dottrina  degli  estremi?  Non  basta.  Egli  mette  in 


PBNSnmi  SUL  ROMANZO  INTIMO  ITALIANO  371 

bocca  del  suo  Orazio  una  strana  scoperta,  che  i  poli  della  civiltà , 
almeno  per  ora^  sono  il  gesuUa  ed  U  gendarme^  quegli  figurato  nel 
gatto,  questi  nel  cane.  Rapporto  al  gesuita  v'è  da  fare  una  riserva  dal 
lato  della  scienza,  che  forma  pure  tanta  parte  della  civiltà  ;  ma  pel 
gendarme,  che  rappresenta  la  legge  e  l'ordine,  e  che  sotto  questo 
0  qualsiasi  altro  nome  dovrà  pure  esservi  sempre  presso  qualunque 
governo,  the  non  sia  anarchico,  noi  non  troviamo  il  bandolo  di  un 
.  bel  motto  in  questa  sentenza  sua.  Il  signor  Orazio  non  vede  al  so- 
lito le  cose  che  da  un  lato  ;  il  gendarme  non  è  per  lui  che  lo  sgherro 
del  dispotismo.  Ma  non  rammenta  egli  che  anche  per  ora  vi  sono 
grandi  Stati,  nei  quali  il  potere  sacerdotale  è  infrenato,  e  la  onesta 
libertà  predominante  ?  0  vorrebbe  egli  forse  farci  credere  che  sarà  per 
essere  più  fiorente  ed  estesa  la  civiltà  in  quel  giorno,  in  cui  i  poli  della 
medesima  si  cambiassero  a  senso  di  certe  aspirazioni  estreme,  ed  al 
gesuita  gatto  succedesse  Vateo  simboleggiato  in  talpa,  ed  al  gen- 
darme cane  il  demagogoy  sinonimo  di  lupo  o  iena?  —  Andiamo  in- 
nanzi —  Che  cosa  intende,  di  grazia,  quel  benedetto  signor  Orazio 
a  pagine  57  e  seguenti  co'  suoi  prolungati  e  sarcastici  sproloquii 
contro  il  iistetna  deUe prigioni f  Ammette  egli  le  prigioni  o  no?  Se 
si,  perchè  ne  avversa  le  istituzioni,  e  sembra  deriderne  i  regolamenti 
vìgenti  pel  vestiario  e  vitto  dei  46tenuti  ;  o  le  discipline  per  miglio- 
rarli moralmente?  Le  opinioni  umanitarie  e  filantropiche  del  sig.  Orazio 
sono  abbastanza  singolari  !—  E  non  si  direbbe  che  arda  in  lui  un  odio 
di  partito,  e  che  una  specie  di  parossismo  politico  lo  trasporti,  a  con- 
siderare quell'altra  sua  fTBBe;che  cerio  non  era  stato  per  lui,  se  ali* ora 
che  faceva^  Vienna  e  Roma  non  si  trovavano  ridotte  in  cenere  ?  —  I 
Viennesi  ed  i  Romani  non  saranno,  v'è  da  credere,  molto  grati  al 
sig.  Guerrazzi  di  questa  furibonda  aspirazione  posta  in  bocca  al  suo 
Orazio,  la  quale  tanto  meno  doveva  attendersi  da  un  autore  eminente, 
che  non  ha  certamente  mestieri,  come  Erostrato,  di  farsi  campione 
e  propugnatore  di  cotanta  distruzione,  per  tramandare  il  suo  nome 
ai  posteri. 

—  Che  diremo  delle  sue  opinioni  sui  giornali?...  Convien  credere 
che  ne  abbia  avuto  de'  fastidii  ben  scrii  ;  altrimenti  si  sarebbe  forse 
astenuto  dal  darne  la  seguente  definizione,  che  quantunque  orato- 
riamente bella  ed  eloquente,  ci  sembra  eccentrica  anzi  che  no. 
«  Dio  volendo  punire  la  razzaccia  umana,  rovesciò  sulla  terra  i  gior- 
«  nalì  ;  se  n'eccettui  taluno,  ma  raro,  tutti  gli  altri  detta  l'ignoranza, 
«la  presunzione  scrive,  la  fame  compone,  la  calimnia  ne  rivede  le 
«  bozze,  l'ambizione  stende  l'inchiostro  su  le  pagine,  la  cupidità 
€  stringe  il  torchio,  la  infamia  vende».  Il  giornalista,  secondo  lui, 
i  il  sicario  dei  tempi  civili!  Sarebbe  mai  anche  codesto  un  terzo ;>o^, 
dopo  il  gesnitay  ed  il  gendarme  f 


372  BIVISTA   CONTEMPORANEA 

—  Sie8:ue  un  opinamento  politico,  ed  è  il  giudizio  dell'autore 
sulla  parte  presa  dagritaliani  nella  guerra  di  Crimea,  lo  che  prova 
quanto  già  dicemmo,  che  le  divagazioni,  gli  extra  formam  del  Buco 
nel  muro  sono  assai  frequenti  ed  illimitati.  Egli  disapprova  altamente 
quella  nostra  partecipazione  alla  guerra  d'Oriente,  e  si  pone  a  dirit- 
tura in  contraddizione  a  quanto  ne  hanno  detto  tutti  gli  uomini  po- 
sitivi d'Europa,  i  quali  in  quella  lega  del  Piemonte  colle  potenze 
occidentali  ravvisarono  una  bellissima  evoluzione  politica  per  pro- 
cacciare all'Italia  il  seggio  che  ora  tiene  nel  consiglio  delle  grandi 
nazioni.  —  Se  i  giornalisti  sono  bistrattati,  ne  andranno  almeno  il- 
lesi gli  stampatori  !  Oh  no,  che  ce  n'ò  anche  per  essi,  e  d'avanzo  !  — 
Niente  meno  che  lo  stampatore,  a  giudizio  di  Marcello,  (Gap.  é"") 
«  merita  guaterò  volte  o  seiy  aibhorrimenti  piò,  del  tira/nnol  impeicioeehè 

<  mentre  questi  è  padrone  del  corpo  soltanto,  quegli,  vilissimo  schiavo, 

<  si  affatica  a  imbestialire  le  anime  ».  E  come?  e  Col  pubblicare  opere 
«  di  tutti  i  generi,  per  V avidità  d'intascare  moneta.  Con  la  medesima 
«  coscienza,  o  piuttosto  con  la  stessa  sfrontatezza,  l'editore  ti  stam- 
«  perà  l'Aretino  e  S.  Tommaso,  la  Imitazione  di  Cristo  e  le  Novelle 
«  dell'abate  Casti,  l'Avviso  dello  Stato  d'Assedio,  bandito  dai  Te- 
«deschi  sulla  Lombardia,  una  Sentenza  del  Consiglio  di  guerra, 
«  un'Invito  Sacro,  un  Sonetto  per  ballerina  ;  in  una  parola,  prima 
«  ti  stampano  le  opere  che  servono  come  d'introduzione  al  delitto,  e 
«poi  per  riscontro,  ti  stampano  il  Codice  Penale,  che  lo  punisce». 
Gli  stampatori  adunque  non  dovrebbero  pubblicare  che  alcune  specie 
di  opere  (forse  quelle  che  sono  in  grazia  di  Marcello)  ed  allora 
soltanto  diverrebbero  fiori  di  galantuomini  !  Resterebbe  a  sapersi  se 
furono  lodevoli,  o  rei,  quando  stamparono  certe  pagine  del  signor 
Guerrazzi  !  -^  Ma  non  merita  la  pena  d'insistere  su  ciò,  perchè  l'au- 
tore ci  potrebbe  dire,  che  Marcello  è  uno  scapataccio,  il  quale  quando 
parla  dà  sovente  in  bazzecole. 

Proseguiamo  pertanto.  —  Eccoti  un'ultima  e  più  fiwa  filippica 
contro  i  preti,  e  questa  era  d'aspettarsela.  —  Chi  non  può  esser  tac- 
ciato di  soverchia  tenerezza  pel  clericume ,  a  cui  deve  una  lunga 
persecuzione,  la  perdita  delle  sostanze,  e  l'esilio  dalla  patria,  gode 
almeno  il  diritto  di  essere  creduto  imparziale,  se  apertamente  parla 
in  siffatto  argomento.  Diciamo  adunque,  che  il  dialogo  tra  Marcello  e 
il  parroco,  il  quale  mercanteggia  vilmente  su  tutte  le  operazioni  del 
suo  ministero,  in  occasione  del  trasporto  del  cadavere  di  Alberto,  è  di 
calzante  effetto  e  contiene  certamente  circostanze  in  più  incontri  ver- 
gognosamente avveratesi,  ma  sosteniamo  pure,  che  quello  slancio  anti- 
clericale, introdotto  a  quel  modo  nel  racconto,  ci  sembra  eccessivo  ed 
ingiusto.  Tutti  i  parrochi  sono  forse  altrettali  di  quello,  in  cui  s'imbattè 
Marcello?  E  se  no,  perchè  ideare,  e  porre  innanzi  un   cosi  brutto 


PBNSIBKI   SUL  ROMANZO  INTIMO  ITALIANO  373 

tipo,  non  come  eccezione,  ma  come  esempio,  infamando  in  tal  guisa 
tutta  la  classe?  Egli  è  un'eccesso,  da  cui  nulla  può  guadagnare  il 
morale  dei  più,  ed  una  vera  ingiustizia,  come  se  di  qualche  soldato 
briaco,  insubordinato,  e  vile,  si  volesse  farne  un  modello  per  deni- 
grare tutto  un  esercito.  Manzoni  nel  parroco  Don  Abbondio  ha  de- 
scritto un  buon  prete,  e  Vittor  Hugo  nel  vescovo  Myriel  ci  ha  dato  un 
eroe.  Dal  rapido  esame  generale  del  Buco  nel  muroj  passando  alle  sin- 
gole parti  di  esso  racconto  resta  ad  ammirare  il  molto  bello  che  vi  è 
diffuso.  Caratteri  singolari,  e  maestrevolmente  descritti  vi  campeg- 
giano, principalmente  quello  del  filosofo  stravagante,  ma  pur  benefico 
ed  amoroso,  Orazio,  indi  l'altro  del  vivace  e  sensibile  Marcello,  e  quelli 
della  buona  e  casalinga  Betta ,  dell'aspro  ed  avido  Omobono,  della 
dolce  e  virtuosa  Isabella.  —  Non  potrebbero  essere  disegnati  con  più 
verità  i  quadri  domestici,  né  con  più  bei  colori  dipinti  i  riscontri  co- 
mici, piccanti,  affettuosi  tra  lo  zio  Orazio,  ed  il  nipote  Marcello,  tra 
Orazio  e  la  vecchia  fantesca.  Dicasi  altrettanto  delle  scene  sociali. 
Felice,  rivale  di  Marcello  nell'amore  d'Isabella  (Cap.  6^),  che  cono- 
scendo di  non  essere  amato ,  cede  il  campo  e  si  ritira ,  mediante 
una  spiritosa  e  comica  lettera;  Isabella  e  Marcello  che  ingenuamente 
amoreggiano  di  qua  e  di  là  dal  buco  nel  muro;  Omobono  che  ri- 
fiuta duramente  ad  Orazio  la  mano  di  sua  figlia,  e  poi  l'accorda, 
purché  senza  dote,  non  sono  gruppi  e  dialoghi  ricchi  di  originalità, 
di  brio,  di  grazia  e  di  effetto?  —  Fra  i  brani  filosofico-politico -morali 
ve  n'ha  due  splendidissimi  di  acume  e  novità.  Il  primo  al  Cap.  4*, 
in  cui  l'autore  immagina  e  descrive  con  peregrini  pensieri  la  vita 
e  miracoli  del  romanzo.  Il  secondo  al  Cap.  5**,  nel  quale  con  idea 
originalissima  finge  che  Marcello,  non  avendo  più  in  tasca  che  otto 
marenghi,  ciascuno  di  epoca  diversa,  cioè  un  Napoleone  I,  un 
Luigi  XVIII,  un  Carlo  X,  un  Luigi  Filippo,  una  Repubblica,  un 
Carlo  Alberto,  un  Vittorio  Emanuele,  un  Napoleone  III,  si  dà  a  con- 
templarli, e  nella  sua  meditazione  cava  da  quelle  monete  quasi  dei 
responsi;  con  siffatto  spiritoso  mezzo  l'autore  giunge  a  definire  in 
brevi  parole,  e  con  storica  verità,  e  sagace  accorgimento  le  vicende 
di  quei  regnanti  e  di  quell'epoche.  —  Quanto  alla  commozione  degli 
affetti,  ci  pareva  poco  adoperata  dall'autore  mentre  leggevamo  il 
suo  racconto,  ma  egli  gradevolmente  ci  sorprese  all'S"  Capitolo, 
ch'é  l'ultimo.  Cogliendo  il  destro  del  felice  mutamento  di  Omobono, 
il  quale  perdona,  ed  accorre  presso  la  figliuola  Isabella,  nell'ora 
del  battesimo  del  neonato  nipote,  cui  vuole  imposto  il  proprio  nome, 
l'egregio  scrittore  porge  una  conclusione  scritta  con  tanto  magistero 
d'arte  e  riboccante  d'incidenti  ed  affetti  cosi  dolci,  che  non  si  può 
leggerla  senza  palpito. 

—  Quale  il  riassunto  di  tutto  ciò?  Se  il  racconto  del  sig.  Guer 


374  BinSTA   OONTBICPOBANBA 

razzi  può  andar  soggetto  a  qualche  censura,  (ove  in  ciò  non  per 
mala  volontà,  ma  per  solo  errore  di  buon  giudicio  non  ci  fossimo 
male  apposti,)  egli  è  ricco  di  pregi  non  comuni,  e  sopratutto,  amiamo 
ripeterlo,  di  quella  lingua  eletta,  e  di  quel  forbito  stile,  che  nella 
loro  magia,  (come  avviene  di  osservare  anche  in  molti  scrittori  del 
miglior  secolo)  giungono  in  certo  qual  modo  a  rendere  non  solo 
piacevoli  le  idee  comuni  e  le  frivole  narrazioni,  ma  anche  tollera- 
bili gli  strani  concetti,  e  perfino  i  sofismi  e  gli  assurdi,  nel  modo 
istesso'che  una  veste  elegante  ed  un  velo  con  vago  artificio  disposto, 
ci  fanno  spesso  parere  aggraziata  la  persona  e  leggiadro  il  volto 
di  donna,  che  non  sia  né  bella,  nò  fiorente.  — 

Cosi  compiuto  il  ragionamento,  ovvero  esame  critico,  che  ci  era- 
vamo proposto  sui  varii  scrittori  nostrali  di  romanzi  contemporanei, 
ed  in  cui  ponemmo  quella  maggiore  indipendenza  e  schiettezza,  che 
per  noi  si  poteva,  senza  scompagnarla  dalla  più  rigorosa  imparzia- 
lità e  debita  moderazione,  ne  sorge  la  confortante  certezza  che  l'I- 
talia, sempre  feconda  di  eletti  cultori  in  tutti  i  rami  dello  scibile, 
può  anche  annoverare  varii  ingegnai,  i  quali  dedicatisi  al  romanzo 
intimo,  fecero  g^ià  bella  prova  di  sé.  Nullameno  è  pur  duopo  con- 
venire, non  volendo  illuderci,  che  se  varii  han  tentato  lodevolmente 
il  difficile  arringo,  ninno  per  anco  seppe  creare  in  codesto  genere 
un  romanzo,  che  racchiuda  tutte  le  grandi  qualità  volute^  non  dirò 
per  superare,  ma  per  emulare  quanto  Alessandro  Manzoni  seppe  fare 
nel  genere  isterico.  Il  signor  Giulio  Carcano,  e  qualchedun  altro  di 
quelli  che  citammo,  sono  giunti,  a  dir  vero,  fin  presso  alla  meta, 
e  negli  scritti  loro  v'è  moltissimo  da  ammirare,  ben  poco  a  ridire. 
Ma  considerando  in  genere,  troviamo  in  alcuno  lusso  di  erudizione 
e  di  filosofia,  e  persino  di  politica,  ma  povertà  di  favola  e  d'intreccio; 
in  altro  vedi  brillare  il  genere  descrittivo,  e  l'arte  d* intrecciare,  ma 
ti  par  futile  e  sconveniente  il  soggetto  :  qui  un'eccesso  di  romanti- 
cismo nelle  passioni,  là  una  sterilità  di  affetti;  quando  una  somma 
tendenza  alla  satira,  senza  troppa  cura  della  morale  e  dell' utile,  quando 
il  paradosso  di  farsi  immorali  per  giovare  alla  moralità  ;  dove  la 
lingua  è  pura,  ed  egregio  lo  stile,  discopri  talvolta  idee  eccentriche 
o  casi  inverosimili  e  strani,  o  misero  intreccio,  o  fredde  passioni  ; 
dove  poi  la  invenzione  sarebbe  fervida,  gli  affetti  bene  sviluppati, 
le  avventure  importanti,  ti  offenderà  forse  la  lingua  non  eletta,  e 
talvolta  disadorna,  per  non  dire  di  peggio,  oppure  lo  stile  improprio, 
*  perchè  nel  bel  mezzo  delle  locuzioni  e  dialoghi  famigliari,  udrai  le 
frasi  di  un  perfetto  lirismo.  —  Che  dovremo  concludere?  Che  il  già 
fatto  ci  è  arra  dell'avvenire.  Al  compiersi  della  nostra  unità  nazio- 
nale, nella  quale  abbiamo  pienissima  fede,  dovrà  succedere  tal  calma 
negli  spiriti,  che  permetta  agli  scrittori  italiani  di  darsi  tranquilla- 


PBNSIBBI  SUL  ROMANZO  INTIMO  ITALIANO  375 

mente  agli  studii  letterari!,  e  noi  speriamo  che  da  questa  terra  di 
vivi  sorgerà  una  mente  eletta  per  descrivere  senza  idee  preconcette, 
senza  odii,  senza  secondi  fini,  la  nostra  società  vivente  qual  ella  è 
ili  oggi,  come  Manzoni  seppe  mostrarla  nel  suo  più  splendido  e  più 
vero  passato.  Infrattanto  né  lo  spettacolo  del  movimento  nazionale, 
né  la  tempesta  delle  passioni  politiche,  né  il  rumore  delle  armi  che 
dalle  Alpi  ai  due  mari  si  apprestano,  debbono  trattenere  le  penne 
di  coloro,  che  sono  posti  in  condizione  di  dedicarsi  alla  letteratura. 
Pensino  gli  scrittori,  che  anche  da  questo  lato  si  può  far  onore  al- 
l'arte, ed  arrecare  insieme  immenso  giovamento  alla  causa  pubblica. 
—  Le  opere  letterarie  esercitano  una  potente  influenza  sulla  società 
civile,  e  se  é  bello  allietare,  commovere,  ammonire  gli  uomini  cogli 
esempii  dei  gentili  costumi,  dei  generosi  propositi,  e  delle  prave  a- 
zioni ,  santa  impresa  é  pur  quella  di  risuscitare  le  virtù,  se  spente 
fossero,  o  di  avvalorarle,  se  languenti.  A  ciò  contribuisce  in  modo 
ineffabile  il  buon  romanzo  intimo,  perocché  esso  scorre  nelle  mani 
dei  più,  ed  in  tutte  le  classi. 

Luiai  Dasti. 


376 


DEGLI  ISTITUTI  TECNICI 

E    PARTICOLARMENTR 

DELLA  SEZIONE  AGRICOLA  NEI  MEDESIMI 


LETTERA  AL  COMMENDATORE  KOTTA 

Prefello  della  città  e  provincia  di  Reggio  nell' Emilia,  e  Senatore  del  Regno 


Onorevole  Signore 


Tn  cerlain  enseoible  de  notions  théorìques 
et  praliques  dolvent  faire  la  base  de  Tensei- 
gnemeol  agricole. 

La  base  de  TenseigDement  est  la  pralique 
mais  la  pralique  intelligente,  éclairée  par  des 
notions  d'une  théorie  sinopie  et  positive. 

Lffotir, 

Reggio  3  novembre  1862 


È  un  bisogno  nato  col  mio  cuore  quello  di  mostrarmi  grato  rive- 
rentemente a  coloro  che  mi  furono  cortesi  e  benigni,  e  mi  trovo  con- 
tento di  me  medesimo  allorquando  mi  si  permette  attestare  pubbli- 
camente tali  sentimenti.  Ogniqualvolta  ebbi  l'onore  d'incontrarmi 
colla  S.  V.  ebbi  la. compiacenza  di  sentire  dalle  di  lei  parole  appro- 
vate le  mie  povere  fatiche  rapporto  ai  desideri!  che  ho  manifestato 
per  il  miglioramento  della  Pubblica  Istruzione  ;  e  quantunque  sia 
certo,  che  gli  incoraggiamenti  de'  quali  mi  fu  benevola  la  S.  V.  par- 
tano più  dalla  bontà  del  di  lei  cuore,  che  dal  merito  che  possono 
avere  per  sé  quelle  cosucce,  non  ho  sentito  meno  la  gratitudine  per 
ciò;  e  a  farle  conoscere  quanto  mi  fossero  grati  i  di  lei  sentimenti, 
mi  prendo  la  libertà  di  offerirle  questo  nuovo  lavoro.  Ed  il  faccio 
con  tanto  più  di  coraggio,  in  quanto  che  vo  pensando  che  la  S.  V. 
chiamata  dalla  fiducia  del  Re  a  reggere  questa  eletta  parte  della 
nazione,  e  destinata  eziandio  a  presiedere  alle  cose  della  Istruzione 
pubblica  della   Provincia,    coll'autorità  di   cui    meritamente  gode, 


DBCJLI   ISTITUTI  TBONICI  377 

potrà,  giudicando  sane  le  mie  idèe,  farle  prevalere  presso  chi  può, 
che  sostenute  dalla  di  lei  efficace  ed  autorevole  parola  prenderanno 
certamente  un  peso  che  non  hanno  espresse  da  me. 

Il  Governo  Provvisorio  del  Dittatore  Farini,  quasi  a  compenso 
delle  scuole  Universitarie  che  abolivansi  in  questa  città,  decretava 
un  Istituto  Agrario.  Accaduta  l'annessione  felicemente;  le  cose  an- 
daron  per  le  lunghe,  ed  oggi  soltanto  è  data  la  ferma  speranza  di 
veder  attuato  quanto  fu  in  altri  tempi  stabilito.  Senonchè  uniformando 
ristituto  a  quelli  che  erano  già  comandati  dalla  Legge  Casati,  sembra 
vogliasi  trascurare  la  parte  Agronomica.  A  me  pare  questa  risolu- 
zione non  molto  giusta,  e  non  ho  difficoltà  a  farne  pubbliche  le  ra- 
gioni che  in  tal  parere  mi  conducono.  Voglia  la  S.  V.  Ili»  aver  la 
bontà  di  ponderarle,  e  vegga  se  io  m'inganno,  o  sono  nel  vero. 

Il  Decreto  Regio  che  trasferiva  dalla  dipendenza  del  Ministero 
del  Pubblico  Insegnamento  a  quello  di  Agricoltura  gl'Istituti  Tec- 
nici, trovò,  eziandio  nel  Parlamento,  molti  che  lo  criticarono  acer- 
bamente. Per  me,  uso  a  giudicar  delle  cose  le  quali  non  siano  intrin- 
secamente cattive,  dai  loro  buoni  o  tristi  effetti,  non  mi  allarmai, 
anzi  vi  feci  plauso,  quando  in  ispecie  vidi  alla  Direzione  ammini- 
strativa degli  stessi,  uomini,  quaU  il  cav.  Serra  ed  il  prof.  Paniz- 
zardi,  che  dall'attività  loro  mi  riprometteva  un  gran  bene.  Né  le 
previsioni  liete  furono  deluse  :  alcuni  Istituti  Tecnici  da  lungo  tempo 
decretati,  e  che  non  ebbero  la  forza  di  sbucciare  fino  a  tanto  che 
rimasero  fra  le  mani  di  queglino  che  presiedeano  al  pubblico  inse- 
gnamento, ebbero  vita  e  favore  immediatamente,  e  maggiori  inco- 
raggiamenti va  ad  assumere  l'Istruzione  Tecnica  superiore,  adesso 
che  altri  diciotto  stabilimenti  congeneri  stanno  per  attuarsi. 

Lascio  perciò  il  carico  di  criticare*  il  Decreto,  e  di  esaminare  se 
stia  uelle  rigorose  deduzioni  logiche  che  trar  si  possono  dalla  Legge, 
a  coloro  che  vorriano  cangiare  le  conseguenze  delle  leggi  stesse  in 
una  passiva  obbedienza  eguale  al  moto  che  una  ruota  dentata  può 
imprimere  ad  una  leva,  e  porgo  i  miei  rallegramenti  a  tutti  coloro 
che  coadiuvano  in  tale  bisogna  il  Ministro  di  Agricoltura  e  Com- 
mercio, per  le  cure  prodigate  ultimamente  a  svegliare  l'attività  di 
questi  studii.  Ogni  uomo  onesto  farà  plauso,  son  certo,  con  me 
alle  cure  che  per  la  tecnica  istruzione  prodiga  il  Pepoli,  e  la  di 
lui  memoria  passerà  per  questo  cara  e  venerata  alle  generazioni 
future. 

Soltanto  pare  a  me  che  fino  ad  ora,  e  il  dissi  dapprima,  la  parte 
dell'Istruzione  Tecnica  che  si  riferisce  all'Arte  Agricola,  sia  curata 
ben  poco.  Se  debbo  credere  a  qualche  giornale,  mentre  si  curano  le 
sezioni  fisico-matematica  o  commerciale,  si  è  nel  pensiero  di  soppri- 
mere le  altre  due.  Quanto  alla  sezione  Chimica  convengo  che  forse 


378  BIVISTA.  OONTBMPOBANBA 

Oggi  è  prematura,  e  con  qualche  modificazione  potrebbesi  fondere 
colla  commerciale,  ma  non  trovo  giusto  il  concetto  della  soppressione 
della  sezione  agronomica.  La  ragione  più  forte  che  se  ne  adduce  sa- 
rebbe la  totale  mancanza  di  concorrenti  a  questa  sezione  negl'Isti- 
tuti collocati  in  città  secondarie. 

È  vizio  della  nostra  età  che  il  numero,  la  statistica  malintesa 
tenti  sempre  di  uccidere  ogni  idea  generosa,  né  posso  persuadermi 
che  gli  Italiani,  i  quali  di  fiorente  non  hanno  che  l'industria  agri- 
cola, poco  si  curino  d'addottrinarsi  nelle  scienze  che  conducono  ad 
una  pratica  razionale  della  medesima.  La  mancanza  totale  di  alunni 
io  l'attribuisco  piuttosto  ad  altra  cagione,  che  deduco  dalle  condi- 
zioni peculiari  delle  nostre  Provincie,  ed  al  mal  ordinamento  della 
sezione  Agronomica  negl'Istituti.  Che  io  sia  nella  ragione,  cercherò 
di  provarlo. 

In  ogni  ordinamento  di  un  ramo  d'istruzione  bisogna  conside- 
rare se  i  mezzi  indicati  siano  valevoU  logicamente  a  conseguire  un 
fine  determinato.  Se  questi  non  vi  corrispondono,  necessariamente 
ben  pochi  vorranno  ricorrere  ai  medesimi.  E  che  io  sia  nel  vero  me 
ne  persuado  se  considero  la  costituzione  della  società  qual  è  nelle 
nostre  Provincie. 

I  capi  di  famiglia  i  quali  si  propongano  l'istruzione  de'  loro  di* 
pendenti  pel  solo  ed  unico  scopo  che  li  vogliono  istruiti,  si  possono 
contar  sulle  dita.  E  questo  non  nasce  già  dalla  corta  loro  veduta, 
ma  dalla  condizione  sociale  in  cui  versano,  che  le  famiglie  le  quali 
non  sentano  il  bisogno  di  aggiungere  alle  private  loro  risorse  quelle 
che  vi  aggiunge  l'Istruzione  non  sono  numerose.  Da  ciò  la  neces- 
sità che  gli  alunni  uscenti  da  un  qualunque  Istituto  scientifico  siano 
in  posizione  di  esercitare  un'arte  liberale,  vadano  muniti  d'un  di- 
ploma, che  valga  a  collocarli  in  condizione  di  poter  aspirare  quando 
che  sia  ad  un  impiego  pubblico  o  privato,  od  a  prestare  l'opera  loro 
nelle  molteplici  necessità,  create  dall'esercizio  delle  arti  industriali 
od  agricole,  e  posseggano  un  grado  accademico  nella  società. 

La  sezione  Agronomica  qual  è  costituita  attualmente,  non  rag- 
giunge questo  scopo.  Tutto  al  più  può  darci  dei  fattori  od  agenti 
di  campagna.  Ebbene  di  questi,  per  la  molta  divisione  cui  è  ridotta 
la  proprietà,  non  se  ne  abbisog^^a  che  di  piccolo  numero,  e  la  mag- 
gior parte  dei  grossi  possidenti,  classe  poco  numerosa,  se  è  costretta 
dalla  necessità  ad  invocare  aiuto,  si  contentt  che  la  persona  di  con- 
fidenza eletta  sappia  i  primi  elementi  del  conteggio,  e  segnare  a  pie 
di  una  scritta,  in  modo  abbastanza  informe,  il  proprio  nome,  l^li 
sono  ingenuamente  le  condizioni  presenti  della  società  nostra,  e  sarà 
ben  difficile  il  cambiarle  all'attuale  generazione.  Io  vidi  a  capo  di 
una  delle  aziende  d'uno  stabilimento  de'  più  ricchi  e  meglio  condotti 


DJMHJ  ISTITUTI  TECNICI  879 

nella  Penisola  (il  Collegio  Alberoni)  tre  o  quattro  agenti  secondarii, 
che  sotto  la  direzione  di  un  frate  lazzarista  onestissimo  ed  avveduto, 
regolavano  la  loro  amministrazione  coll'aiuto  della  memoria,  e  di 
alcuni  pezzetti  di  legno,  da  essi  chiamati  tessere^  sui  quali  notavano, 
facendo  un  segno  convenzionale,  il  dare  e  Tavere  d'ogni  lavoratore 
di  terra,  il  latte  della  fabbrica  de*  formaggi,  ed  altre  cose,  e  a  dir 
vero  senza  gravissimi  inconvenienti.  Almeno  e  principali  e  dipen- 
denti se  ne  chiamavano  contenti.  La  spesa  del  mantenimento  di  tali 
agenti  era  minima,  e  pagata  quasi  totalmente  con  oggetti  in  natura. 
Ora  si  provi  taluno  a  persuadere  costoro  di  eleggere  un  fattore  che 
siasi  fatto  miope  per  la  troppa  lettura  di  libri,  che  abbia  consunti 
i  più  bei  giorni  della  propria  vita  sui  panchi  delle  scuole,  e  diman- 
disi per  questo  un  compenso  equo,  rapporto  alle  fatiche  incontrate 
pel  fine  di  giungere  al  posto  che  vorrebbe  occupare.  Senza  tante 
cerimonie  si  sentirà  rispondere  che  la  cosa  cammina  bene  come  va, 
che  non  si  amano  innovazioni  pericolose,  e  che  fra  queste  la  meno 
attingibile  sarebbe  di  aumentare  la  spesa  per  stipendiare  un  agente 
che  al  termine  poi  sarebbe  meno  d'ogni  altro  adatto  a  compiere  il 
proprio  mandato.  Questi  son  fatti,  onorevole  sig.  Prefetto  ;  son  fatti, 
contro  cui  si  vorrebbe  inutilmente  lottare.  La  ragione  rimarrebbe 
sempre  dal  lato  del  più  forte,  e  l'inerzia  che  opporrebbe  a  tutte  le 
premure  sarebbe  un'insormontabile  ostacolo  ad  ogni  desiderio  di 
riforma.  Arrogisi  che  i  giovani  educati  nelle  città,  difficilmente  si 
inducono  ad  abbandonarle,  se  non  è  la  tnde  ntadafameSj  per  girsene 
ad  abitar  le  campagne,  tanto  più  se  colà  non  eserciteranno  che  la 
umile  professione  di  sorvegliante  ai  lavori  campestri,  cosa  che  loro 
non  può  produrre  almeno  dapprincipio,  che  disgusti  e  disinganni, 
per  trovarsi  esposti  ad  una  lotta  continua  con  i  contadini,  rifiutantisi 
mai  sempre  a  gagliardemente  cooperare  chiunque  voglia  introdurre 
la  minima  miglioria,  e  ripaganti  cogli  scherni,  se  un  tentativo  o 
per  intemperie  od  altro  motivo  indipendente  dalla  volontà  umana  va 
a  male,  nò  risparmianti  nemmeno  le  insolenze,  se  diasi  il  caso  che 
nella  rendita  abbiano  qualche  interesse. 

Descrivendo  con  tutta  la  possibile  ingenuità  le  condizioni  sociali 
delle  nostre  Provincie,  almeno  osservate  dal  punto  di  vista  che  mi 
permette  Tesperienza  oramai  di  quasi  due  lustri,  intendo  di  far  ca- 
pace la  S.  V.  e  chi  mi  leggerà,  del  perchè  non  si  trovino  concor- 
renti alla  sezione  Agronomica  di  un  Istituto.  La  gioventù  non  vi 
si  applica,  perchè  non  vede  in  essa  un'avvenire,  per  quanto  umile 
Io  desideri  ;  ecco  quanto,  e  questo  perchè  le  scienze  alle  quali  debbe 
applicarsi  in  tal  corso  scolastico,  non  sono  abbastanza  esplicate,  da 
valere  a  formare  degli  uomini,  che  possano  rivolgersi  ad  altro  par- 
tito, qualora  manchi  un  modo  di  occuparsi  in  rurali  aziende. 


380  RIVISTA  OONTBMPOBANBA 

E  la  V.  S.  converrà  con  me  quando  prenda  in  esame  i  ministe- 
riali programmi,  e  vegga  di  quali  cognizioni  incomplete  sia  fatto 
adomo  colui  che  segua  il  corso  determinato  nella  sezione  Agricola 
dai  Regolamenti. 

Un  po'  di  letteratura  mista  alla  geografia  e  storia,  con  un  pro- 
gramma cotanto  mal  definito,  che  delle  seconde  dovendosi  occupare 
rinsegnante  unitamente  alla  prima,  e  soltanto  un'ora  per  giorno, 
dovrà  dare  nozioni  affatto  incomplete  ;  tanto  più ,  che.  la  parte  sto- 
rica prende  tale  estensione  d%  lasciare  assoluto  il  dubbio  che  nes- 
suno possa  esaurirla  con  qualche  profitto.  I  programmi  poi  della 
fisica  e  delle  altre  scienze  naturali  sono  essi  pure  assai  difettosi, 
giacché  per  la  fisica  generale  non  si  ha  che  appena  un  cenno  di 
tutto  quello  che  si  riferisce  alla  teorica  delle  macchine,  od  ai  dettami 
della  Idraulica  ;  per  la  Chimica  si  è  troppo  esteso,  che  difficilmente 
le  teoriche  recenti  sulla  costituzione  molecolare  degli  alcooli  mono- 
atomici e  poliatomici,  importeranno  gran  fatto  all'agronomo,  il  quale 
preferirà  son  certo  più  che  la  conoscenza  degli  omologhi  del  Gerar- 
dih,  0  de'  radicali  del  Liebig,  quella  delle  proposizioni  fondamentali 
della  parte  geologica,  botanica  e  zoologica,  che  meglio  si  attagliano 
a  condurlo  nel  ponderare  i  rapporti  che  queste  ultime  scienze  hanno 
colla  costituzione  dei  terreni ,  le  piante  che  crescono  in  essi,  e  gli 
animali,  che  sono  la  base  fondamentale  d'ogni  sistema  di  Agricoltura 
razionale. 

E  mentre  lo  scolare  è  costretto  a  tramandare  alla  memoria  una 
lunga  serie  di  nomi  chimici,  non  si  mette  poi  in  istato  di  conoscere 
adequatamente  gli  elementi  dell'Agrimensura;  giacché  è  vero  bensì 
che  ad  essa  si  serbò  un  cantuccio  nell'ultimo  semestre  del  corso,  ma 
non  so  in  qual  maniera  potrà  essere  insegnata  a  lui  che  non  possiede 
gli  elementi  della  geometria  solida,  e  della  trigonometria,  i  quali  non 
trovo  nei  programmi  per  le  scuole  tecniche,  eppur  mi  sembrano  fuor 
di  dubbio  indispensabili. 

Ammesso  adunque  che  i  programmi  dell'insegnamento,  e  la  di- 
stribuzione delle  materie  siano  fatti  con  poco  di  ragionevolezza,  nasce 
il  desiderio  di  far  ricerca  del  modo  con  cui  si  possono  introdurre  le 
riforme  giudicate  indispensabili.  È  quello  che  ora  mi  accingo  di  fare 
sottomettendo  all'illuminata  di  lei  mente  le  idee  mìe,  e  questo  con 
quella  libertà  di  pensiero  che  la  S.  V.  sa  essere  abituale  in  me,  e 
che  le  riesce  tanto  gradita. 

E  prima  di  tutto  a  che  servir  debbono  gl'Istituti  tecnici?  È  la 
domanda  che  viene  naturalmente  innanzi  ad  ogni  altra.  A  questo 
mi  pare  si  possa  rispondere  colla  legge  alla  mano:  —  Sono  stabi- 
limenti che  si  destinano  a  coadiuvare  l'Agricoltura  e  l'Industria.  — 
Tali  sono  le  parole  della  legge,  che  mi  sembrano  a  dir  vero  suffl- 


DEGLI  ISTITUTI  TECNICI  381 

cìentemente  elastiche,  ma  dalle  quali  tuttavia  credo  non  andar  lungi 
dal  vero  se  li  definisco  —  Stabilimenti  nei  quali  si  addottrinano  i 
giovani,  dimostrando  quanto  Io  sviluppo  delle  scienze  applicate  pos- 
sano coadiuvarci  per  far  progredire  l'Agricoltura  e  l'Industria,  e 
mettano  la  presente  generazione  nella  condizione  di  esercitarle  con- 
venientemente. 

Partendo  da  tale  premessa  io  verrò  succintamente  esaminando  : 
P  Quali  siano  le  scuole  da  istituirsi,  e  se  bastano  quelle  che 
vengono  indicate  dal  Regt)lamento. 

2""  Di  quali  materiali  debbono  essere  ricche  le  scuole  suddette. 
3""  Quali  miglioramenti  potranno  introdursi  con  tale  istituzione 
nell'arte  agricola,  e  se  basterà  essa  a  farvelo  penetrare,  ed  a  m^m- 
tenervele. 

Se  si  volesse  ottenere  della  gioventù  che  poi  si  dedicasse  unica- 
mente all'esercizio  dell'arte  di  coltivare  i  campi,  dal  più  al  meno  le 
cattedre  volute  dal  Regolamento  basterebbero  fino  ad  un  eerto  punto: 
forse  vi  s'insegna  troppo,  e  poco,  ma  come  dissi,  il  creare  la  razza 
di  puri  agricoltori  è  difficile  fra  noi.  In  tal  caso  poi  assai  meglio 
ragionato  troverei  il  piano  degli  studii  seguito  nelle  scuole  cultu- 
rali fhmcesi  di  Grand- Juan,  della  Sulsaje  e  di  Orignon,  ed  in  quella 
che  su  tal  modello  comandavasi  dal  Toscano  Governo  Provvisorio 
nei  contomi  di  Firenze  da  quell'ottimo  e  valente  Agronomo,  di  lei 
collega  nel  Senato,  marchese  Cosimo  Ridolfi.  Ma  le  prime  scuole 
ci  creano  de'  capi  operai,  de'  fattori  ecc.,  e  per  questo  oltre  al  lavoro 
mentale,  aggiungono  eziandio  il  manuale;  la  scuola  toscana  è  orga- 
nizzata al  solo  fine  di  prestare  ai  molti,  che  in  quella  civilissima 
città  convengono ,  le  cognizioni  fondamentali  dell'agricoltura ,  ed 
amano  di  seguire  dei  corsi  liberi,  e  di  perfezionare  le  cognizioni  da 
essi  acquisite  nelle  scuole  secondarie,  senza  verun  bisogno  di  pren- 
dere gradi  accademici. 

Esse  adunque  si  allontanano  dallo  scopo  che  dovrebbe  avere  un 
Istituto  Tecnico  per  corrispondere  ai  Ueogni  locali  delle  Provincie.  (Re- 
golamento 19  settembre  1860,  art.  15).  Tuttavia  non  sarà  fuor  di 
luogo  il  notare  come  le  scuole  culturali  francesi  siano  organizzate 
per  formarcene  un'idea  abbastanza  adequata.  Prendo  quale  esempio 
quella  di  Grignon,  come  la  più  lodata.  Noi  vi  troviamo  dapprima 
una  scuola  di  agricoltura  generale,  in  cui  dopo  aver  trattato  della 
maniera  di  ridurre  il  terreno  da  incolto  a  coltivabile,  aiutandosi  del!e 
concimazioni  e  dei  lavori,  si  passa  a  descrivere  la  coltura  delle  piante 
speciali.  Questa  Cattedra  è  la  base  dell'Istituto.  Col  nome  di  scuola 
del  Genio  Agricola  viene  una  seconda,  nella  quale  l'Insegnante  dà 
i  precetti  della  meccanica  e  della  costruzione  delle  macchine,  poi 
della  geometria  descrittiva  e  della  geodesia.  Quindi  gli  alunni  sotto 


382  RITI8TA  CONTBlfPOBANBA 

la  direzione  di  un  nuovo  professore  apprendono  la  Chimica  Agraria 
unita  alla  Generale,  alla  Fisica  meteorologica,  ed  a  quella  parte 
della  Geologia  che  si  connette  strettamente  alVIndustria  dei  campi. 
V  ha  eziandio  un'insegnamento  di  zootecnia,  ed  uno  di  botanica 
generale,  col  primo  de'  quali  si  danno  anche  le  norme  mediche  ed 
igieniche  per  la  cura  del  bestiame,  e  nella  seconda  si  insegnano  i 
precetti  per  la  coltivazione  delle  piante  di  alto  fusto,  da  boschi  e  da 
pometo.  Finalmente  un'ultimo  insegnante  dà  ivi  lezione  di  Economia 
pubblica  e  di  legislazione,  nei  suoi  rapporti  coli' Agronomia.  Tale  è 
in  compendio  il  corso  che  i  giovani  addetti  alla  scuola  di  Orignon 
seguono  per  tre  anni,  e  de'  cui  fhitti  ignoro  se  la  Francia  abbia 
grandemente  da  lodarsene. 

Quello  che  fa  per  noi  si  è  che  la  logica  facilmente  ci  dimostra 
essere  assai  meglio  intesa  la  distribuzione  e  la  qualità  delle  materie 
scientifiche,  nelle  quali  in  Francia  si  vogliono  istruiti  coloro  che 
amano  dedicarsi  all'esercizio  dell'Agronomia,  giacché  uscendo  da  tali 
scuole,  sapranno  almeno  ad  un  bisogno  applicare  la  scienza  appresa 
nella  scuola,  o  alla  livellazione  di  un  terreno,  od  a  prestare  oppor- 
tunamente un  rimedio,  se  qualche  disgraziato  accidente  fosse  occorso 
al  bestiame  in  un  podere.  E  questo  mio  pensiero  viene  poi  piena- 
mente confermato  dalla  circostanza,  nella  mia  opinione  di  grandis- 
simo peso,  che  unita  alla  teoria  va  ognora  in  quelle  scuole  congiunta 
la  pratica,  e  gli  alunni  congregati  in  convitto,  lungi  dal  rumore 
delle  popolose  città,  e  nella  quiete  de'  campi,  si  esercitano,  occor- 
rendo, anche  manualmente  sui  poderi  uniti  alla  scuola,  in  quelle 
pratiche,  il  conoscer  le  quali  è  più  essenziale. 

Gli  alunni  dell'Istituto  Tecnico,  voluto  come  la  legge  Casati  co- 
manda, usciranno  inverniciati,  ed  eziandio  se  vuoisi  profondi  abba- 
stanza nelle  cog^^izioni  de'  fenomeni  fisici  dell'elettricità  e  del  ma- 
gnetismo, potranno  schiarirvi  la  teorica  delle  ammoniache  copulate 
dell'Hoffmann  e  del  Wurtz,  ma  Dio  ne  guardi  dal  chieder  loro  l'a- 
nalisi di  un  terreno,  dal  cercare  un  consiglio  in  caso  di  timpanitide, 
dal  dimandare  la  loro  direzione  per  livellare  un  terreno.  0  non  lo 
sapranno  o  sapendolo  teoricamente,  saranno  altrettanti  pulcini  nella 
stoppa  quando  si  tratterà  di  mettere  in  pratica  gl'insegnamenti  im- 
parati nelle  scuole. 

Aggiunga  un  altro  inconveniente.  La  debolezza  umana  che  farà 
credere  all'alunno  uscito  dall'Istituto,  e  novizzo  nell'arte  agricola, 
di  saperne  e£Eettivamente  più  d'oggi  vecchio  pratico,  lo  indurrà  a 
trattar  i  contadini  d'alto  in  basso,  o  con  quel  tuono  mezzo  compas- 
sionevole e  mezzo  sprezzante,  che  eccita  sempre  in  cattivo  senso 
l'amor  proprio  d'ogni  benché  rozzo  individuo,  che  se  ne  vendicherà, 
ripagandolo  a  misura  di  carbone,  colla  disobbedienza,  col  rifiutarsi 


DBéLI  ISTITUTI  TBCNICI  383 

a  mettere  in  pratica  ogni  di  lui  suggrerimento,  e  gittandogli  dietro 
le  spalle  lo  spregio  ed  il  ridicolo.  Guai  poi  se  Talunno  uscisse  dal 
ceto  campagnuolo  ;  sarebbe  una  calamità  ;  perchè  uno  de'  casi  che 
io  cito,  basterebbe  a  togliere  la  volontà  d*istruire  i  proprii  figli  ad 
ogni  flttabile  e  ad  ogni  fattore  che  bramasse  i  suoi  discendenti 
istruiti,  affinchè  pell*avvenire  seguitassero  nell'esercizio  dell'arte 
paterna. 

Per  tutte  queste  ragioni  a  me  pare  doversi  in  altra  maniera  re- 
golare il  compito  degli  alunni.  E  primieramente  veggo  la  necessità 
di  prolungare  gli  anni  di  corso,  e  da  due  ridurlo  a  tre.  Cosi  opera- 
rono i  Milanesi,  e  molto  lodevolmente.  In  secondo  luogo  è  necessario 
farli  accudire  a  studii  sommamente  applicativi.  Per  questo  devonsi 
evitare  tutte  le  verità  astratte  la  cui  enunciazione  non  si  riconosca 
assolutamente  indispensabile,  e  concretare  con  esempii  ogni  dettame 
di  scienza. 

Qiundi  il  professore  di  meccanica,  ad  esempio,  nelle  dimostrazioni 
vorrei  che  si  valesse,  per  quanto  è  permesso,  dei  numeri  a  prefe- 
renza delle  cifre  algebriche,  e  quelli  di  fisica  e  chimica  non  si  in- 
golfìassero  nelle  teoriche,  ma  limitassero  i  loro  sforzi  a  dimostrare 
con  chiarezza  e  precisione  quanto  la  teorica  e  la  pratica  vadano  con- 
giunte, e  come  la  spieg^ione  de*  fenomeni  e  la  loro  riduzione  a 
leggìi  generali,  non  appaghi  soltanto  una  lodevole  curiosità,  ma 
sia  strada  a  migliorare  le  pratiche  antiche,  e  ad  introdurne  delle 
nuove  che  aumentino  la  produzione,  diminuendo  in  egual  proporzione 
le  spese. 

Certo  sarà  questa  una  grave  difficoltà  per  gli  insegnanti,  i  quali 
molte  volte  saranno  perciò  costretti  ad  allungarsi  in  operazioni  arit- 
metiche complicatissime,  mentre  pochi  segni  algebrici  sarebbero  ba- 
stanti, e  dovran  ricorrere  a  circonlocuzioni  lunghissime,  che  non 
presentando  nitida  Tidea  principale,  può  distrarne  gli  uditori,  e  ren- 
dere alquanto  oscura  e  slegata  la  pertrattazìone  ;  ma  se  negli 
apprendisti  vi  sarà  amore  e  sete  della  scienza ,  essi  che  pur  ne 
avranno  sentito  il  bisogno,  accompagneranno  colla  loro  assiduità  e 
diligenza  gli  incessanti  sforzi  del  loro  maestro,  e  termineranno  col 
rendersi  fiunigliari  le  verità  scientifiche,  le  quali  dapprima  riuscivano 
maggiormente  astruse. 

Opporranno  alcuni  alla  massima  che  qui  professo,  la  necessità 
di  troppo  allungarsi  in  dettagli,  cosicché  non  rimarrà  tempo  suffi- 
ciente per  esaurire  i  ministeriali  programmi.  Ebbene  sia.  Per  me 
che  sono  dell'assoluto  parere  esser  il  meglio  sapere  poco,  ma  bene, 
che  divido  col  conte  di  Cavour  Tedio  per  la  mezza  scienza,  preferirò 
sempre  i  giovani  ammaestrati  ne'  principii  generali  della  scienza,  e 
nelle  più  prossimo  applicazioni  di  questa ,  a  coloro  i  quali  come 


384  RIVISTA   CONTEMPORANEA 

farfalle  delibarono  una  moltitudine  di  fiori  senza  saperne  trarre  un 
succo  nutritivo.  Dai  primi  usciranno  gli  scienziati,  che  faranno  poca 
pompa  del  loro  sapere,  ma  chiamati  ad  insegnare,  o  ad  esercitare 
una  scienza  risponderanno  equamente  alla  confidenza  che  pone  in 
loro  la  nazione;  dai  secondi  avremo  de'  buoni  a  tener  lieta  una  bri- 
gata, ad  abbagliare  gì* ignoranti,  ma  dai  quali  né  la  patria,  nò  la 
famiglia  trarre  saprà  utile  alcuno. 

E  questo  metodo,  che  a  me  apparisce  il  solo  conveniente  neirin- 
segnamento  delle  scienze  tecnologiche,  molte  volte  giunge  ad  inna- 
morare la  gioventù  di  una  scienza,  quand'anche  nel  cominciare  ne 
frequentino  la  scuola  con  svogliatezza,  persuasi  che  alla  fin  fine  non 
riesca  loro  di  giovamento.  Il  mio  pensiero  fu  confermato  non  ha 
guari  dall'esperienza  in  un'occasione  che  capitò  a  me  medesimo.  Mi 
permetta  la  S.  V.  Ili»  che  io  lo  esponga,  a  conferma  della  sentenza 
poc'anzi  accennata. 

Il  Municipio  di  Forlì  presentendo  nel  1861  che  per  quell'anno 
scolastico  non  si  sarebbe  aperto  l'Istituto  tecnico,  né  volendo  che  la 
gioventù  studiosa  la  quale  avea  cominciato  il  corso  filosofico  nella 
città  si  assentasse,  per  obbedire  ai  reclami  dei  genitori  desiderosi  di 
non  allontanare  i  proprii  figli  in  età  troppo  tenera,  determinò  di 
conservare  per  quell'annata  scolastica  il  corso  filosofico,  e  mi  officiò 
affinchè  dessi  colà  alcune  lezioni  di  fisica.  Accettai  l'incombenza,  ma 
sui  primi  momenti  mi  trovai  ben  imbarazzato,  che  degli  alunni  ben 
pochi  aveano  studiate  le  matematiche  elementari,  e  se  taluno  ne 
avea  frequentata  la  scuola,  non  era  da  sperare  ne  avesse  approfittato, 
per  la  ragione  che  in  quell'anno  di  trambusti  era  quasi  impossibile 
lo  esigere  dagli  studenti  un  po'  di  attenzione.  Erano  dunque  quasi 
affatto  digiuni  delle  cognizioni  scientifiche,  che  pure  aiutano  Fin- 
segnante  a  compendiare  in  poche  parole  le  proprie  lezioni.  Trovatomi 
in  questa  condizione,  mi  rimanevano  da  eleggere  due  strade:  0 
spiegare  le  cose  alla  meglio,  e  seguitar  dritto  il  mio  cammino,  di- 
cendo in  cuor  mio  l'adagio  qui  potest  capere  capiate  o  prendere  la 
via  assai  più  lunga  ma  sicura  di  arrivare  al  risultato,  che  avrebbero 
capito  qualche  cosa,  colla  scorta  del  metodo  indicato  più  sopra.  Fui 
veramente  fortunato  nell'avere  giovani  studiosissimi  e  di  grande  ca- 
pacità, fra  i  quali  ne  ricorderò  sempre  con  amore  due,  Antonio 
Fratti  ed  Olindo  Umiltà,  che  ora  nell'Università  Bolognese  fan 
mostra  di  diligenza  e  d'ingegno  non  comune:  ma  per  ognuno  il 
linguaggio  algebrico  era  quasi  scrittura  araba.  Mi  risolsi  perciò 
di  seguitare  il  metodo  così  concretato.  Esposta  la  legge  generale, 
discendeva  a  mo'  di  esempio  ad  un  caso  speciale,  e  lo  traduceva  in 
numeri  aritmetici,  ed  allorquando  il  calcolo  era  steso  sulla  tavola, 
mostrava  come  sostituendo  ai  segni  numerici  il  significato  genera- 


DBOLI  ISTITUTI  TECNICI  385 

lissimo  degli  algebrici,  si  riuscisse  alle  forinole  che  vcDivano  sugge- 
rite dagli  autori. 

Ricordo  che  il  primo  giorno  in  cui  presi  ad  insegnare  in  tale 
maniera,  yidi  sul  volto  de'  miei  uditori  dispiegarsi  dapprima  un  senso 
di  sorpresa,  e  dirò  anche  di  gratitudine  per  me,  che  si  tradusse  poi 
in  ringraziamenti  al  termine  della  lezione.  Fra  gli  altri  uno  che  non 
avea  voluto  mai  persuadersi  del  perchè,  a  lui,  che  intendea  percor- 
rere la  carriera  giurìdica,  si  insegnassero  le  matematiche,  venne  a 
dirmi  che  in  quell'ora  sola  era  giunto  a  comprenderne  l'utilità. 

Detto  del  metodo,  veggiamo  qual  debba  essere  il  fine  dì  tali  studii. 

Credo  fermamente  che  sia  bene  creare  della  Sezione  agronomica 
una  scuola  per  i  periti  geometri,  che  sappiano  all'occorrenza  rilevare 
un  piano,  delineare  una  mappa,  e  supplire  in  molti  casi  alla  mancanza 
di  ingegneri  laureati/nelle  transazioni  fra  i  privati,  nelle  stime  dei 
fondi  rurali,  ed  anche  nelle  operazioni  catastali  di  second'ordine, 
allorquando  il  Governo  porrà  mano  alla  creazione  grandiosa  e  pur 
necessaria  del  gran  libro  fondiario.  Cosi  molte  e  molte  famiglie  di 
fortune  ristrette  potranno  educare  i  loro  figli  tenendoseli  presso,  né 
dovranno  incontrare  sacrifizii,  che  talvolta  le  dissestano  per  sempre, 
ed  oltre  a  ciò  molti  e  molti  si  daranno  all'esercizio  dell'arte  agricola, 
0  curando  i  proprii  poderi,  o  gli  altrui  in  qualità  di  fittabili  o  di 
agenti  per  grandi  tenute,  od  anche  potranno  aspirare  agli  impieghi 
di  verificatori  dei  pesi  e  misure,  o  ad  altri  secondarii  del  Governo, 
0  delle  società  private  nelle  cure  delle  ferrovie. 

Accennato  al  metodo  da  seguirsi  nell'insegnamento,  e  che  a  me 
pare  il  migliore,  ed  al  fine  che  si  deve  proporre,  ne  consegue  natu- 
ralmente che  debbansi  necessariamente  cangiare  d'assai  i  programmi, 
ed  in  parte  anche  l'insegnamento  cui  vuoisi  applicata  la  gioventù. 

Trovo  giustissima  l'idea  di  volere  che  l'alunno  di  qualsiasi  isti- 
tuto applichi  qualche  ora  allo  studio  della  letteratura,  che  il  saper 
bene  la  propria  lingua  e  lo  esprimersi  con  chiarezza,  precisione  e  di- 
sinvoltura, debbe  esigersi  da  chiunque  non  restringe  le  proprie  co- 
gnizioni al  non  essere  inalfabeta;  e  mi  sembra  ottimo  lo  studio  della 
fisica  e  della  chimica,  come  pure  della  storia  naturale,  ma  non  lodo 
affatto  la  distribuzione  delle  materie,  e  non  mi  piace  che  l'alunno 
uscente  dalle  scuole  tecniche  e  preparantesi  allo  studio  della  geodesia 
trovisi  digiuno  affatto  degli  elementi  di  geometria  solida,  e  di  trigo-^ 
nometria,  e  della  architettura  pratica.  Pare  anzi  a  me  necessario  an-- 
cora  lo  studio  degli  elementi  di  pubblica  economia,  e  della  contabilità, 
nò  sarei  malcontento  che  di  tanto  in  tanto  il  professore  esercitasse 
i  giovani  in  qualche  studio  etnografico  sui  dialetti  italiani,  la  loro  ori- 
gine, ed  i  loro  ra{qporti  più  o  meno  vicini  colla  lingua  madre.  Eccole 
pertanto,  Illustre  Signore,  in  compendio  quali  sarebbero  le  scienze 
jmna  e. -25 


386  RIVISTA   CONTBMPOBANBA 

che  proporrei  di  studiare  ai  Giovani  che  si  dedicassero  alla  sezione 
agronomica  negli  Istituti. 

Classe  dbllb  Scibnzb  positive. 

V  Matematica  elementare  della  Geometria  solida  e  della  Trigono- 
metria e  loro  applicazioni  più  speciali  alla  misura  dei  volumi  e 
delle  distanze. 

2*»  Geodesia,  Perizia  ed  Architettura  rurale,  preceduti  dagli  Elementi 
della  Geometria  descrittiva  —  Meccanica  ed  Idraulica  agricole. 

3*»  Fisica  speciale  destinata  a  dar  un'idea  dei  fenomeni  de'  corpi  im- 
ponderabili, e  loro  applicazioni  alle  arti  industriali  ed  agricole, 
non  che  dei  loro  effetti  meteorici  e  quindi  delle  indagini  di  cli- 
matologia per  norma  da  istituire  osservazioni  meteorologiche. 

4**  Botanica  generale  e  speciale,  che  &ccia  conoscere  l'organismo 
fondamentale  delle  piante  utili  o  nocive  in  agricoltura,  e  le  va- 
rietà introdottevi  nella  coltivazione.  Norme  per  la  coltivazione 
delle  piante  arboree  da  frutto,  e  da  innesto.  Selvicoltura. 

5**  Zootecnia  generale,  che  dia  una  cognizione  dell'organismo  interno 
ed  esterno  dell'animale,  e  dell'anatomia  e  fisiologia  degli  ani- 
mali domestici.  Studii  comparativi  che  mettano  sott'occhio  allo 
studente  le  diverse  razze  degli  animali  domestici,  o  dei  quali  si 
desidera  l'acclimazione,  e  dei  metodi  che  condussero  i  più  ce- 
lebri zootecnisti  a  creare  le  razze. 

6"*  Chimica  generale  inorganica  ed  organica,  alla  quale  si  premet- 
teranno alcuni  cenni  di  Geologia  pratica,  pei  quali  si  possa  dalla 
giacitura  dei  terreni  dedurne,  senza  andar  lungi  dal  vero,  gli 
elementi  ed  i  materiali  che  compongono  le  terre  aratorie. 

Classb  delle  Scienze  razionali. 

7*»  Principii  di  letteratura  italiana  e  regole  dell'arte  del  comporre; 
Studii  comparativi  sui  dialetti  dei  popoli  italiani,  loro  origine 
ed  avvicinamento  maggiore  o  minore  alla  lingua  madre. 

8"  Storia  comparata  dei  popoli,  del  loro  sviluppo  morale  ed  intel- 
lettuale, della  loro  preponderanza  nella  civiltà  a  norma  del  pro- 
gresso delle  arti  agrarie,  e  della  loro  decadenza  al  decadere  di 
queste. 

9*»  Contabilità  ed  Economia  delle  coltivazioni,  e  studii  comparativi 
per  raccogliere  gli  elementi  onde  istituire  i  calcoli  necessarii  a 
dimostrare  nella  rendita  T utilità  delle  varie  coltivazioni. 

10°  Economia  pubblica  ne'  suoi  rapporti  coli' Agricoltura  e  Legisla- 
zione rurale:  Studii  sulle  leggi  dei  popoli  antichi  e  moderni  in 


DEGLI  ISTITUTI  TECNICI  387 

quel  che  riguardano  l'arte  di  coltivare  i  campi,  non  che  dei  rap- 
porti che  corrono  fra  il  proprietario  ed  il  colono,  i  contratti  in 
uso  nel  paese,  e  loro  razionalità. 

Faranno  le  meraviglie  taluni  che  nel  novero  delle  cattedre  da 
istituirsi  non  siasi  compresa  quella  dell'agricoltura  generale  o  di 
Agronomia.  Se  però  ci  faremo  a  riflettere  che  in  generale  i  corsi  di 
agricoltura  che  si  hanno  alla  stampa,  cominciano  con  un  trattatello 
di  chimica  agraria  unito  ad  alcune  nozioni  di  geologia  e  di  mecca- 
nica, per  venir  poi  a  parlare  della  coltivazione  delle  piante  speciali 
e  terminare  con  alcuni  cenni  di  zootecnia,  e  di  albericoltura,  dovremo 
convenire  che  tale  scuola  più  che  utile  riuscirebbe  di  danno.  Nel. 
fatto  il  corso  di  agricoltura  generale  fatto  da  un  professore  in  vasto 
programma  finirebbe  col  mettere  assai  facilmente,  almeno  per  alcune 
vedute,  ammettiamole  pur  secondarie  fin  che  vogliasi,  in  contraddi- 
zione rinsegnante  coi  proprii  colleghi,  ed  allora  confusione  nella 
mente  degli  allievi  ed  utilità  nessuna  nella  scuola.  D'altra  parte  il 
progredire  del  complesso  delle  scienze  sono  tali  eziandio  per  tutto 
ciò  che  avvi  di  applicazione  all'arte  agronomica,  che  per  aver  chia- 
rezza e  precisione  nell'insegnamento  sta  bene  le  materie  poc'anzi 
citate  siano  il  più  delle  volte  sviluppate  nella  loro  interezza.  Arrogi 
che  lo  stesso  programma  steso  dal  Ministero  per  questa  parte  di  in- 
segnamento viene  a  darmi  perfettamente  ragione.  Basta  recarselo 
fra  le  mani  per  convincersene.  Il  primo  capitolo  è  tutto  quanto  ri- 
ducibile a  chimica  agraria,  né  trovasi  trattatello  di  questa  che  non 
accenni  necessariamente  alle  proprietà  generali  fisico-chimiche  dei 
terreni,  alla  loro  formazione,  ecc.  e  ciò  si  vede  dal  classico  Ubro  del 
Boussingault  a  tutti  i  di  lui  compendiatori.  Dicasi  così  in  gran  parte 
per  le  materie  del  secondo  capitolo  fino  al  paragrafo  22.  Da  questo 
punto  vi  entra  la  meccanica  e  l'idraulica,  e  se  tolgasi  il  primo  ca- 
pitolo della  seconda  sezione  che  è  tutto  appartenente  alla  botanica, 
la  parte  meteorologica  e  climatologica  toccherebbe  alla  fisica  ed  alla 
geografia. 

Il  botanico  potrebbe  trattare  tutte  le  materie  indicate  dai  capi- 
toli 2  e  3  della  seconda  sezione,  ed  il  zootecnista  la  rimanente  unita- 
mente al  chimico  ed  alFiusegnante  la  contabilità. 

Questo  insegnamento  medesimo  non  è  d'altronde  stimato  gran 
cosa  da  chi  stendeva  il  regolamento,  che  obbliga  gli  alunni  i  quali 
frequentano  la  sezione  agronomica  ad  un  solo  anno  di  corso  ;  mentre 
chi  stendeva  i  programmi  divise  le  materie  in  due.  Qui  dunque  o 
avvi  contraddizione,  o  non  si  è  stimato  gran  fatto  utile  la  cosa.  La 
prima  ipotesi  non  è  supponibile  in  chi  dirigeva  allora  l'istruzione,  è 
da  ritenersi  vera  la  seconda. 

Rapporto  al  materiale  scientifico  di  cui  dovrebbero  andar  ricche 


388  RIVISTA  CONTBMPORANBA 

le  scuole  suaccennate,  sarebbe  necessariamente  molteplicce,  e  per 
questo  importerebbe  non  piccola  spesa  :  se  non  che  incontrandola  a 
gradi  si  eviterebbe  ogni  aggravio  alla  provincia.  Di  più  si  danno 
certe  categorie  di  dispendii,  che  fatte  potrebbero  riuscire  di  profitto 
alla  scuola  medesima.  Pongasi  il  caso  che  la  scuola  di  meccanica 
acquisti  una  trebbiatrice  mossa  da  animali.  Si  sa  che  la  spesa  ascende 
presso  a  poco  a  2500  franchi.  Ma  se  questa  macchina  nella  stagione 
opportuna  si  mettesse  a  disposizione  degli  agricoltori,  che  in  quei 
momenti  vengono  pressati  dai  lavori,  e  ciò  a  fronte  di  un  equo  in- 
dennizzo ,  ben  presto  si  vedrebbe  rientrare  il  capitale ,  e  potrebbe 
rendersi  anche  di  profitto  alla  scuola  in  maniera  da  prestarsi  coi 
proventi  a  far  incetta  di  altre  macchine  meno  dispendiose.  Dite  cosi 
de' spandifieno,  de' rastrelli  Howard,  delle  mietitrici,  falciatrici  e  di 
altre  macchine  consimili,  finora  poco  o  nulla  conoBciute  nelle  Pro- 
vincie dell'Emilia,  ma  che  dovranno  introdursi  ad  economia  di  tempo 
e  di  braccia,  e  se  vuoisi  che  TÀgricoltura  nostrale  vada  a  collocarsi 
al  pari  di  quella  delle  altre  nazioni,  che  pur  non  furono  favorite  da 
cotanta  dolcezza  di  clima  e  fecondità  di  terreno.  Ma  come  dissi,  la 
provincia  non  dovrebbe  far  acquisto  di  tali  macchine  altro  che  gra* 
datamente,  sempre  conservandone  la  proprietà.  Quello  che  pel  mo- 
mento interessa  si  è  che  il  Grabinetto  di  meccanica  vada  provvisto  dei 
modelli  meglio  adattati  a  dimostrare  praticamente  quanto  siano  ve- 
ridici i  principii  fondamentali  della  scienza  in  ordine  alla  costru- 
zione delle  macchine  inservienti  all'agricoltura,  e  dei  motori  che  vi 
si  applicano.  Per  quanto  possa  il  caso  essere  una  buona  guida  in  al* 
cune  circostanze,  e  nelle  mani  di  un  osservatore  oculato  nelle  scoperte, 
giammai  nessun  perfezionamento  razionale  sarà  introdotto  nelle  mac- 
chine, se  il  perfezionatore  non  sìa  condotto  dalla  assoluta  cognizione 
de'  principii  scientifici  ;  ed  è  per  questa  ragione  che  come  insisto 
nel  chiedere  che  il  cattedratico  elimini  tutto  quello  che  avvi  di  tra- 
scendentale e  di  astruso  nelle  lezioni,  altrettanto  desidero  che  sì 
sforzi  di  dimostrare  come  la  teoria  consuoni  colla  pratica,  ed  istilli 
nella  gioventù  quello  spirito  osservatore,  e  quel  principio  di  analisi 
per  cui  ogni  perfezionamento  non  è  che  la  deduzione  strettamente 
logica  ed  essenziale  dei  dati  generali  sui  quali  stanno  le  fondamenta 
della  scienza.  Io  vo  altresì  persuaso  che  possano  riuscire  di  qualche 
utilità  i  modelli  in  piccola  scala  delle  macchine  semplici,  sulle  quali 
basano  le  cognizioni  della  meccanica,  ma  altrettanto  giudico  inutili 
anzi  dannosi  que'  giocattoli  da  ragazzi  che  chiamansi  modellini,  se 
trattasi  di  utensili  agricoli  che  vogliono  essere  giudicati  praticamente 
utili,  e  de' quali  vorrebbesi  tentare  l'applicazione  nella  provincia;  e 
ciò  per  la  ragione  che  non  avvi  terreno  che  non  ricerchi  negli  uten- 
sili suddetti  qualche  modificazione  più  o  meno  importante  a  renderli 


DMLI  ISTITUTI  TECNICI  389 

gioTevoli  non  solo  ma  servibili.  Così  io  vidi  talvolta  lodatissimo  nei 
giornali  qualche  aratro  od  erpice  che  poi  applicato  nel  terreno  non 
corrispose  né  alle  lodi,  né  all'aspettativa,  e  a  confermare  quanto  si 
disse,  citerò  un  fatto  avvenuto  sotto  i  miei  occhi. 

Fu  da  un  abilissimo  meccanico  introdotto  pochi  anni  sono  nel- 
l'Agro Piacentino  l'aratro  belgico.  Benché  per  tutte  le  ragioni  pre- 
feribile all'aratro  che  usasi  colà  comunemente,  ed  anche  alle  piede 
reggiane  che  cominciano  a  penetrarvi  (intendiamo  bene,  per  l'Agro 
di  Piacenza)  dopo  alcuni  tentativi  fu  abbandonato,  che  gli  agronomi 
l'accusavano  di  avere  troppo  corto  il  versante.  Bastò  tuttavia  una 
piccola  appendice  allo  stesso  versante  per  renderlo  superiore  non 
solo  come  dissi  all'aratro  comune  di  quel  paese,  ma  per  l'economia 
di  tempo  e  forza  di  trazione  alle  piode  istesse. 

Il  Gabinetto  di  fisica  andrebbe  fornito  di  modelli  adatti  a  dimo- 
strare quanto  le  arti  progredissero  coll'applicare  le  modificazioni  su- 
bite dai  corpi  mediante  gli  imponderabili,  e  di  strumenti  meteoro- 
logici ad  istituire  osservazioni  precise,  affinché  nascesse  negli  alunni 
la  volontà  di  applicarsi  alle  osservazioni  di  questa  pairte  cotanto  in- 
teressante per  Tagricoltura. 

Se  i  Gabinetti  di  fisica  e  di  meccanica  sono  da  desiderarsi  ricchi 
di  apparati,  non  meno  lo  dovrà  essere  il  Laboratorio  chimico.  La 
scienza  chimica  applicata  all'agricoltura  é  sempre  quasi  nello  stato 
d'infanzia,  perchè  l'applicazione  della  medesima  presenta  astrusissimi 
ed  ardui  problemi,  e  le  teoriche  le  più  stiipatee  seducenti,  meglio  che 
sui  fotti  ben  definiti,  basano  sopra  ipotesi  immaginose  sostenute  da 
esperimenti  intrapresi  fra  le  pareti  di  un  laboratorio,  e  quindi  non 
proporzionate  all'uopo.  Ne  viene  la  necessità  da  questo  di  prestare  al 
cattedratico  tutti  i  mezzi  che  si  stimano  opportuni,  non  solo  ad  istruire 
i  discenti,  ina  ancora  per  ricercarne,  nei  momenti  non  occupati  dal- 
l'insegnamento, la  soluzione  de' problemi  accennati. 

Così  sarebbe  desiderabile  di  veder  copioso  il  Gabinetto  di  zootec- 
nia, specialmente  perchè  potesse  mettere  sott'occhio  all'apprendista 
i  tipi  delle  diverse  razze,  che  vennero  create  dai  più  celebrati  cul- 
tori degli  animali  utili  all'agricoltura,  cosicché  alla  voce  dell'inse- 
gnante che  chiarisca  gli  sforzi  fatti  dal  Bakewel  e  dagli  altri  zootec- 
nisti  possa  aggiungersi  la  dimostrazione  sensibile  degli  ottenuti 
effètti.  Il  raccogliere  per  conseguenza  i  tipi  diversi  delle  razze,  e 
produrli  in  iscale  adattate  a  pienamente  far  conoscere  come  l'arte 
possa  supplire  e  correggere  la  natura,  è  assolutamente  indispensa- 
bile, cosicché  si  vegga  ad  esempio  per  la  razza  suina,  come  dal  ci- 
gnale inquieto  e  pericoloso  delle  foreste,  uno  studiò  attento  abbia 
condotto  fino  alla  produzione  del  quietissimo  maiale  anglo-cinese 
tanto  dissimile  dal  suo  tipo  primitivo  per  carattere  e  per  lo  sviluppo 
nei  sistemi  osseo,  adiposo  e  muscolare. 


390  RIVISTA*  C0NTBM1K)RANKA 

Alla  scuola  di  botanica  dovrebbe  essere  addetto,  oltre  ad  un  er- 
bario che  dimostrasse,  coi  caratteri  i  più  pronunziati,  le  differenze 
che  passano  fra  le  diverse  piante  coltivate  e  quelle  degli  stessi  ge- 
neri che  sono  cresciute  in  istato  selvagg^io,  anche  un  orto  sul  fare 
di  quelli  di  Bologna  e  di  Pavia,  nel  quale  in  tante  aiuole  separate  si 
coltivassero  annualmente  le  varietà  delle  piante  da  semi  e  da  forag- 
gio più  utili  all'Agricoltura,  per  esercitare  Focchio  del  giovane  nella 
distinzione  dei  caratteri  specifici  ;  e  per  la  economia  delle  coltivazioni 
un  podere,  la  sorveglianza  del  quale  si  affidasse  air  insegnante  la  con- 
tabilità, ma  in  cui  dovrebbesi  dietro  preventivi  concerti  presi  con 
qualunque  altro  professore,  attuarsi  ed  istituirsi  esperimenti  sia  che 
questi  venissero  fatti  d'accordo  fra  due  o  più  insegnanti  della  sezione, 
sia  operati  individualmente. 

Sono  ben  lungi  dal  supporre  che  nascano  giammai  contestazioni 
ed  antipatie  fra  gli  insegnanti ,  ma  se  accadrà,  il  più  delle  volte 
se  ne  dovrà  la  cagione  principale  alla  speciale  circostanza  che  l'uno 
senza  accorgersene  invade  il  campo  scientifico  dell'altro,  tanto  in 
alcuni  punti  le  scienze  si  combaciano  Tuna  coll'altra.  Tuttavia  ad 
evitare  tale  inconveniente  credo  buona  cosa  che  trattandosi  dell'am- 
ministrazione del  podere  destinato  a  servire  di  norma  per  istruire  la 
generalità  degli  studenti ,  debba  rimanere  fra  le  mani ,  e  sotto  la 
responsabilità  di  un  solo ,  e  che  il  più  adattato  sarebbe  sempre 
quello  che  detta  la  scienza  della  contabilità. 

Che  se  altro  professore  intenda  d'intraprendere  esperimenti  a  scio- 
gliere qualche  problema  di  chimica  o  di  zootecnia  o  delle  altre  materie 
che  esigono  un  vasto  campo,  potrà  designare  all'uopo  un  appezza- 
mento di  terra ,  od  un  animale  su  cui  intendesse  esperimentare ,  e 
su  di  esso  chiamarsi  assoluto  padrone.  Il  direttore  del  podere  in 
questo  caso  dovrebbe  prestare  l'opera  propria  colla  assidua  sorve- 
glianza onde  impedire  che  la  incuria,  o  la  malizia,  od  altro  sgraziato 
incidente  mandi  a  male  il  tentativo,  come  pure  sarebbe  obbligato 
a  concedere  tutti  que'  mezzi  che  il  podere  può  pre3entare  al  fine  di 
arrivare  allo  scopo  che  lo  sperimentatore  si  prefigge  ;  e  siccome  ogni 
esperimento  viene  giudicato  di  utile  riuscita  se  colui  che  lo  imma- 
gina e  lo  intraprende  vi  trova  il  tornaconto ,  così  dovrebbe  il  pro- 
fessore di  contabilità  coi  dati  prestati  da  chi  esperimenta,  tenere  una 
esatta  e  severa  nota  della  spesa  e  del  guadagno. 

Quali  siano  i  pochi  materiali  che  occorrono  per  Tinsegnamento 
delle  scienze  razionali  non  è  difficile  il  definirlo.  Ma  tale  stabilimento 
-  sarà  poi  felicissimo  nell'esito  come  si  vorrebbe  da  chi  si  sobbarca  a 
tale  spesa?  Potrà  elevare  in  pochi  anni  l'industria  agricola  nos|;rana 
al  livello  che  toccarono  le  altre  nazioni,  e  la  Inglese  in  particolare, 
che  sebbene  sotto  un  cielo  nebbioso  continuamente,  ed  un  clima  tri- 


DMLI  ISTITUTI  TECNICI  391 

stissimo  ci  supera  non  di  meno  nella  produzione  di  due  degli  ele- 
menti della  più  alta  importanza  per  la  nutrizione  delVuomo,  vale  a 
dire  la  carne  ed  il  latte,  ed  oggidì  non  ci  è  molto  lontana  nella  pro- 
duzione del  frumento? 

Debbo  candidamente  confessarlo;  le  condizioni  nelle  quali  son 
posti  gli  abitatori  delle  campagne,  pei  governi  dispotici  che  fino  ad 
ora  ci  hanno  oppresso,  per  la  grande  influenza  che  su  di  èssi  ebbero 
finora  i  parrochi,  i  quali  per  la  massima  parte  dimentichi  del  loro 
sublime  ministero,  esercitavano  talvolta  anche  pulitamente  il  mestiere 
di  comissarii  politici,  fecero  nascere  nel  cuor  de*  contadini  la  massima 
che  il  proprietario  od  il  fittaiolo  a  vece  di  essere  per  loro  un  confi- 
dente ed  un  amico,  ed  un  uomo  che  cercasse  di  raggiungere  con 
loro  utile  ancora,  lo  scopo  a  cui  aspiravano  di  migliorare  la  propria 
condizione,  fosse  al  contrario  un  dichiarato  nemico.  Di  qui  la  con- 
tinua e  manifesta  diffidenza  in  ogni  cosa,  in  tutti  i  miglioramenti  che 
si  bramasse  di  introdurre,  e  que*non  lievi  indizii  di  mal  umore,  non 
abbastanza  celati  nel  fatto  dei  politici  cangiamenti  ;  il  che  nasce  non 
già  dalFamore  di  questo  più  che  di  quel  Governo,  o  di  questa  più 
che  di  quella  dinastia,  ma  bensì  dal  timore  che  la  loro  condizione 
peggiori,  e  finalmente  quella  resistenza  di  inerzia  nel  mettere  in 
opera  tutto  ciò  che  li  allontana  dalle  consuetudini  antiche. 

À  me  sembra  che  la  necessità  più  urgente  in  cui  si  trovano  le 
Provincie  per  migliorare  l'agricoltura,  sia  di  educare  convenevol- 
mente il  contadino  ;  questa  razza  forte  e  vergine  ancora,  che  ci  dà 
il  sudore  della  fronte  a  mantenerci  gli  ozii  della  città,  e  sacrifica  la 
maggior  parte  del  sangue  a  preservarci  da  straniere  prepotenze.  Fino 
ad  oggi  fu  questa  una  classe  ben  poco  dai  legislatori  considerata, 
eziandio  da  coloro  che  di  istituzioni  caritatevoli  e  filantropiche  esclu- 
.sivamente  si  occuparono,  benché  ne  abbia  più  d'ogni  altra  il  diritto. 
Noi  veggiamo  pel  popolo  delle  città  e  delle  grosse  borgate,  Governi 
e  Società  spendere  pensieri  ed  oro  in  opere  benefiche;  pel  figlio 
dell'operaio  urbano  asili  d'infanzia,  ricovero  se  orfano,  ed  altre  cento 
svariate  istituzioni.  Nulla  di  tutto  ciò  pel  popolo  della  campagna. 
Non  opere  benefiche,  pochissime  scuole  ;  ma  ad  esso  un  Governo  pre  - 
vidente  e  provvidente  un  giorno  o  l'altro  dovrà  pensare,  nella  cer- 
tezza che  troverà  in  lui  quel  sentimento  di  gratitudine,  che  è  il  più 
nobile  istinto  di  un  cuor  vergine.  Scuole  ed  asili  anche  nelle  par- 
rocchie rurali  saranno  certamente  un  gran  bene,  e  se  il  maestro 
avrà  qualche  cognizione  d'agricoltura  appresa  nelle  scuole  normali, 
e  potrà  tradurre  nella  pratica  sotto  gli  occhi  degli  allievi  in  piccolo 
fondo  a  lui  destinato  dal  municipio,  o  ragionandone  qualora  si  in- 
contri in  poderi  ben  tenuti,  nelle  passeggiate  campestri  fatte  di  con- 
serva ai  proprii  allievi,  riuscirà  certamente  di  utilità  incontestabile. 


392  BinSTA  CONTBMPORÀNBA 

Ma  tali  rimedii  a  fronte  di  quanto  venga  suggerito  nelle  famiglie 
da  pregiudizii  inveterati  avranno  sempre  il  valore  che  hanno  in  me- 
dicina i  medicamenti  amministrati  a  dosi  omeopatiche.  Il  (Governo  e 
le  Amministrazioni  provinciali  e  municipali  dovrebbero  pensare  ad 
educare  una  generazione  di  contadini  forti  e  muniti  della  pratica 
contro  i  pregiudizii  e  le  poco  valevoli  norme.  Ma  sì  chiederà  dove 
trovarli,  e  trovati  aggraveremo  provincie  e  municipi!  di  ingentissime 
spese?  Questo  io  noi  chieggo.  Ma  domando  bensì  che  le  Ammini- 
strazioni rivolgano  le  cure  e  le  attenzioni  ad  una  frazione  della  popo- 
lazione, che  fino  ad  ora  per  essere  abbandonata  crudelmente  dal  suo 
primo  nascere  in  balia  della  sorte,  è  necessariamente  adottata  dal 
pubblico,  che  la  tutela  nei  primi  anni  dell'età  sua  e  dalla  quale 
pur  troppo  finora  non  trasse  che  risultati  il  più  delle  volte  tristissimi. 
Intendo  i  trovatelli.  Io  non  ho  mai  potuto  pensare  a  questa  spregiata 
parte  della  popolazione,  che  porta  sopra  se  stessa  il  tremendo  ca- 
stigo di  un  delitto  che  non  ha  commesso,  senza  sentirmi  profonda- 
mente commovere.  Ora  se  questi  esseri  infelici,  invece  dì  essere  la- 
sciati in  abbandono  alla  loro  sorte,  commettendone  Teducazione  della 
prima  età  a  qualche  famiglia  colonica,  che  il  fa  allettata  dal  solo  fine 
di  un  principio  di  lucro,  per  ripararli  poi  nell'avvenire  in  luoghi 
chiusi,  malsani  o  poco  aerati  della  città,  e  farli'apprendere  un  qual- 
che mestiere  in  opificii  pubblici,  dove  talora  più  che  l'arte  appren- 
dono rimmoralità,  fossero  raccolti  in  uno  stabilimento  apposito,  in 
prossimità  al  podere  diretto  dal  professore  di  contabilità,  e  su  di  esso 
si  assuefacessero  sotto  l'oculata  e  caritatevole  cura  di  un  probo  di- 
rettore ai  lavori  campestri,  coadiuvando  ed  assistendo  i  professori 
negli  esperimenti  che  credessero  opportuno  di  tentare,  dopo  tre  lustri 
o  poco  più,  la  provincia  comincierebbe  a  numerare  non  pochi  con- 
tadini probi,  illuminati  e  capaci  per  Tistrxizione  ricevuta  di  reggere 
l'azienda,  e  ben  condurre  un  podere.  Che  se  fra  essi  taluno  si  mo- 
strasse a  preferenza  degli  altri  svegUato  di  ingegno,  il  coltivarlo 
più  assiduamente  non  sarebbe  difficile,  come  sarebbe  facile  prestar 
lavoro  ad  alcuni  di  tali  infelici  non  favoriti  dalla  natura  della 
robustezza  necessaria  ai  lavori  campestri,  fondando  un  opificio  da 
fabbricarvi  macchine  ed  utensili  agricoli  sotto  la  direzione  del  pro- 
fessore di  meccanica. 

Nò  tali  stabilimenti  sarebbero  di  spesa  ingente  e  le  provincie 
potrebbero  sobbarcarvisi,  se  si  rifletterà  che  in  Italia  non  si  conta 
città  0  grossa  borgata  dove  un'anima  sensibile  non  abbia  lasciato 
qualche  ricordo  di  sé  compartendo  alcuna  porzione  della  propria  so- 
stanza a  profitto  degli  infelici  de' quali  discorriamo,  se  penseremo 
che  non  annoverasi  opera  pia  o  congregazione  di  carità  che  nel  pro- 
prio preventivo  annuale  non  stabilisca  qualche  somma  pel  manteni- 


DMLI  iSTlTtJTI  TBCNIOI  993 

mento  degli  orbati  de' genitori,  o  non  sostenga  la  spesa  di  uno  sta- 
bilimento apposito  col  nome  di  Casa  della  Provvidenza  od  Orfano- 
trofio: e  non  credo  che  sarebbe  tradire  le  pie- intenzioni  dei  testatori, 
se  un  podere  dei  molti  usufruttati  dai  nostri  ospizii  si  destinasse  ad 
accogliere  questi  infelici,  per  educarli  alle  operazioni  campestri,  e 
renderli  uomini  laboriosi,  saggi  lavoratori,  tenendoli  piuttosto  iso- 
lati dalla  società  corrotta  e  corruttrice,  per  distruggere  in  loro  quel 
mal  germe  che  il  più  delle  volte  è  impresso  nella  loro  stessa  orga- 
nizzazione in  causa  della  loro  propria  origine?  E  quand'anche  le 
Amministrazioni  dovessero  subire  qualche  sacrificio  nel  primo  im- 
pianto degli  stabilimenti  che  propongo,  non  si  darebbero  denari 
meglio  spesi  e  più  fruttiferi,  e  contro  questa  imposta  speciale  non 
avrebbe  cuore  chi  reclamasse.  Se  sotto  i  governi  dispotici  i  muni- 
cipii  ingolfaronsi  nei  debiti  per  erigere  teatri  e  festeggiare  sovrani, 
che  erano  in  uggia  alla  popolazione,  non  potranno  d'ora  innanzi 
municipii  e  provincie  sacrificare  qualche  cosa  per  migliorare  la  con- 
dizione di  esseri  che  fino  ad  ora  furono  considerati  quale  un  rifiuto 
della  società,  e  non  meritano  che  compassione.  U  Governo  e  le  am- 
ministrazioni b^  vi  pensino,  e  si  persuadano  che  non  avrassi  miglio- 
ria radicate  in  Agricoltura,  se  Tedocazione  concessa  al  proprietario 
non  scenderà  fonte  benefica  eziandio  sul  contadino. 

B  la  S.  y.  che  il  Governo  elesse  a  rinverdire  nella  nostra  Pro- 
vincia le  memorie  tanto  care  del  sempre  compianto  Pietro  di  Santa 
Rosa,  e  che  recò  fra  noi  nuovamente  quell'alito  di  gentilezza  e  di 
virtù,  nella  cui  atmosfera  si  ritemprarono  sempre  i  cuori  ben  fotti, 
ben  sa  quanto  possa  trarsi  di  utile  da  una  buona  vobntà.  E  la  se- 
vera Torino,  di  lei  patria,  ci  fu  in  questo  esempio  solenne,  che  la 
piccola  Colonia  Agricola,  fondata  dallo  zelante  D.  Cocchi  a  Moncucco, 
potrebbe  per  noi  essere  veramente  un  tipo.  Ed  Ella  potrebbe  colla 
autorità  del  grado  e  colla  fermezza  de' propositi  insistere  presso  le 
pubbliche  amministrazioni  che  ne  dipendono,  per  iniziare  un'opera  i 
cui  efietti  muìderebbero  benedetto  alla  posterità  la  di  lei  memoria. 

M'abbia  frattanto  la  S.  V.  fra  coloro  che  più  altamente  le  pro- 
fessano i  sentimenti  di  ossequio,  co' quali  ho  il  piacere  di  firmarmi 

Della  S.  V.  m.«« 

D&ootisHmo  servo 
Pbof.  Antonio  Sblmi. 


394 


DELLA  EPIGRAFIA 


(*) 


PENSIERI 


XI. 

Un  principio  di  questa  sorle  dovrebbe  prestar  la  misura  e  l'ap- 
poggio ai  fabbricatori  di  vocabolarii  e  all'autorità  delle  lingue. 
Ciascuna  lingua  è  un  sistema  meccanico  d'incarnare  un  sistema 
d'idee,  e  come  elleno  s'ingenerano  per  virtù  d'analisi  e  per  via 
d'emanazione,  cosi  dovrebbe  succedere  delle  lingue,  le  quali  se 
nascono  dal  fecondante  usarle  che  fa  il  popolo,  son  dai  dotti  e  dai 
filologi  allevate  e  compiute.  Luigi  Muzzi  si  avvisò  di  tali  verità  il 
primo,  0  il  primo  almeno  le  bandi  a  documento  degli  implacabili 
Achilli  della  Grammatica,  e  dopo  lui  col  fatto  e  col  precetto  le  ribadì 
Vincenzo  Gioberti,  maestro  solennissimo  del  bel  parlare.  Giuseppe 
Giusti  che  dell'italiano  idioma  fu  il  più  abile  maneggiatore,  rideva 
dei  cruscanti  e  d'ogni  generazione  di  puristi,  che  fanno  comanda- 
mento al  retto  scrivere  l'idolatria  della  Crusca  e  il  trecento.  È  una 
fissazione  quella  che  induce  ad  impedire  l'accrescimento  delle 
lingue,  e  obbliga  a  sobbarcarsi  allo  sragionevole  magistero  dei  di- 
zionarii  e  degli  scrittori  che  sono  canonizzati  per  classici.  I  padri 
della  lingua  avendola  conceputa  e  partorita,  meritano  ossequio  e 
deferenza.  Ma  le  lingue,  come  gli  uomini,  nascono  fanciulle,  e  in- 
grandiscono dipoi  per  intrinseco  augumento  e  per  l'alleva  tura  della 
nutrice  e  dei  parenti.  Chi  educa  un  fanciullo,  purché  non  ispenga 
in  esso  lui  i  sentimenti  d'uomo,  ossia  non  ne  deformi  la  natura, 
colui  è  padre  non  diversamente  di  chi  lo  generò  dapprincipio.  La 
fissazione  scempia,  che  notammo,  collima  colle  idee  scientifiche  e 

(*)  Vedi  i  Fascicoli  di  Settembre  ed  Ottobre. 


DBLLA  BPiaBAFIA  395 

scolastiche  delle  infelici  età  discorse;  idee  che  produssero  lo  scadi- 
mento delle  lettere  e  d'ogni  civiltà.  I  lavori  filologici  elucubrali  fin 
pressoché  a  noi,  se  ne  eccettui  Vico,  son  su  per  giù  trastulli  da 
bimbi,  e  certiGcati  d'una  tortura  da  cui  uomini  eziandio  ingegnosi 
eran  premuti  ed  avviliti.  La  radice  della  parola  è  la  vera  sostanza 
delle  lingue,  e  l'espressione  dell'idea  complessa.  Ma  le  idee  perchè 
raramente  son  semplici,  e  qifasi  mai  determinate  o  assolute  per  loro 
natura,  cosi  quasi  tutte  le  radici  sono  acconce  a  sviluppi  e  a  mo- 
dificazioni relative.  Una  radice  è  capace  di  spighire  e  menar  mille 
vocàboli,  serbando  l'unità  del  gambale  e  l'indole  propria,  e  sva- 
riandosi nelle  rama,  cioè  a  dire  pigliando  parole  che  sienle  uguali 
nel  fondo  loro,  ma  di0erenti  pelle  terminazioni  o  pegli  accidenti, 
che  corrispondono  affatto  a  quelle  modificazioni  ond'è  suscettibile 
una  idea,  che  per  modificarsi  non  cangia  peraltro  cera  e  sostanza. 
Quando  le  inflessioni  d'una  parola  hanno  il  carattere  della  lingua  che 
si  parla,  non  son  mai  troppe  né  temerariamente  introdotte.  Se  è  il 
contrario,  se  cioè  non  è  vero  questo,  come  salvano  Petrarca  e  Boc- 
caccio che  per  cosiffatto  artifizio  non  per  altro  ampliarono  a  dismi- 
sura la  lingua  di  Matteo  Spinello  e  di  Giulio?  Non  è  più  consentaneo 
a  ragione  questo  metodo  che  lo  accattare  da  altre  lingue  sien  pure 
affini  0  cognate,  sia  pure  la  greca?  Dalla  quale  si  fanno  piuttosto 
lalrocinii  e  rapine  che  non  furti,  spezialmente  per  le  sintesi  filolo- 
giche, quasiché  l'italiana  vi  si  niegasse.  Sembra  dimenticato  che  la 
lingua  italica  è  un  ritorno  del  latino  al  greco  doriese,  e  che  la  stessa 
virtù  sintetica  che  giganteggia  nel  greco,  e  sopratutto  nella  purità 
dorica,  informa  il  genio  del  linguaggio  italiano.  La  lingua  italica 
latineggia  di  parole,  ma  l'indole  è  puramente  greca,  o  indubbia- 
mente più  greca  che  romana.  Roma  s'impinguò  dell'atticismo,  e 
dello  spirito  progressivo  ionico,  e  si  allontanò  da  se  medesima  o 
dal  proprio  carattere.  Lo  quale  mantenne  il  dorico  dialetto  che  in- 
fluì tanto  sull'italiano  non  pure  perchè  sorse  in  luoghi  dove  esso  pri- 
meggiava, ma  perchè  germinò  dal  popolo  che  parlando  non  seguita 
il  progresso  dei  scrittori,  ma  sta  fermo  e  serba  alle  lingue  l'abito 
natio.  11  trecento  infatti,  sebbene  ricco  di  latinismi  e  di  parole  pres- 
soché latine,  è  quanto  a  sintassi  o  testura  greco,  e  la  semplicità, 
ond'è  mirabile,  è  greca  semplicità,  cosi  discosta  cosi  impropria  al- 
l'idioma del  Lazio.  Il  500  abbandonato  il  grecizzare,  latineggiò;  onde 
tanto  è  intollerabile  lo  scritto  di  quell'epoca,  quanto  è  piacevole  e 
incantevole  quel  del  trecento.  Regola  per  coniar  voci,  è  la  conserva- 
zione della  radice  e  la  inflessione  paesana.  La  prima  tien  fi^sa  l'unità 
0  purezza  filologica  e  iosieme  rappresenta  l'unità  dell'idea  che  in- 
carna, la  seconda  le  successive  modificazioni  di  questa  e  le  varietà 
derivative  dei  linguaggi  viventi.  Sostengono  taluni  che  sinonimi 


396  BinSTA  GONTBICPOEANBÀ 

non  si  danno,  e  ben  si  appongono»  ragionando  di  veii>i,  di  aggettivi 
e  di  sostantivi  dipendenti  da  diverse  radicali  ancorché  di  senso  con- 
generi. Ma  non  quadra  asserir  Taltrettanlo  dei  vocaboli  estratti  da 
una  radice  istessa  e  disuguali  solamente  nella  cadenza^  siccome  se 
ne  incontrano  parecchi  che  son  veri  e  proprii  sinonimi.  Anzi  tanto  é 
vero  che  si  danno,  che  in  ciò  sta  appunto  la  copia  e  la  dovizia  d'una 
lingua  e  il  lusso  di  lei.  La  ricchezza ^delle  lingue  in  questo  è  ri- 
posta, nello  abbondar  cioè  di  voci  oltra  il  bisognevole  ad  enunciare 
le  idee,  perocché  dato  che  una  lingua  abbia  parole  corrispondenti 
alle  idee,  e  vuoi  anco  alle  modificazioni,  sìen  pur  lievi,  di  esse  ; 
quella  potrà  esimersi  dalla  taccia  di  povera,  ma  non  guadagnarsi 
il  cognome  di  ricca.  Non  pertanto  non  sarebbe  da  menar  buona 
Tof^nione  contraria,  che  in  fatto  di  lingua  siavi  licenza  o  potestà 
sciolta,  e  chei  vocabolarii  e  l'usanza  non  contino  autorità.  Conviene 
lasciar  intatta  questa  autorità,  ma  darne  loro  la  giusta  porzione.  L'ab- 
biano nel  nettare  la  lingua  dalle  voci  impure  o  dalle  terminanti  stra- 
namente, a  guisa  di  forasliere,  ma  non  se  Tarroghino  (ino  al  punto 
di  vietare,  a  cagion  d'esempio,  che  usando  stabilezza  per  istabilità 
non  possa  usarsi  amabilezza  per  amabilità^  solo  perché  il  vocabo- 
lario non  la  registra,  e  cosi  vai  discorrendo.  Le  frasi  non  le  parole 
richieggono  il  suggello  dell'uso.  La  frase  è  un  ingrediente  del- 
l'organismo della  lingua,  e  la  tessitura  d'una  lingua  essendo  il  por- 
tato di  molti  secoli  e  di  molti  adiutori,  non  può  commettersi  all'ar- 
bitrio d'un  solo  0  di  pochi,  né  accettarsi  per  cittadina  senza  la 
sanzione  del  lungo  domicilio  e  della  universale  approvazione. 


xn. 


Quando  fu  impiegata  la  lingua  fonetica  sulle  tombe  non  isfuggì 
a  coloro  che  se  ne  avvalevano  d'adoperarla  tale  quale  senza  dismet- 
tere d'esser  nazionale,  fosse  disforme  della  consueta  nei  parlari  dei 
vivi,  che  l'arte  o  l'attrito  sempre  raffina  e  polisce  ;  e  fosse  cioè 
semplice  e  nuda,  non  recando  seco  né  colorato  acquisito  né  tornitura 
del  tempo,  né  dolcezza  di  leggiadria  ;  brevemente  fosse  una  veste 
augusta  e  antica  di  idee,  comecché  moderne  e  contempornee. 
Laonde  tutti  gli  epigrafisti  scrissero  secondo  il  poter  loro  in  lingua 
concisa,  nuda  ed  arcaica  (e  l'arcaismo  é  forma  semplice  e  piana), 
benché  gli  arcaismi  e  la  prisca  aridità  fossero  stati  supplantati  da 
freschi  modi  racconciati  con  più  armoniche  inflessioni  o  men  duri 
periodi,  mano  a  mano  che  avevano  colla  civiltà  progredito  le  let- 
tere e  le  scienze.  La  lingua  anticata  era  destinata  ad  esprimere 
l'immobilità  o  il  lato  fermo  della  nazione,  la  natura  e  l'indole  della 


DELLA  BPIOSAFIA  397 

società  che  non  cangia  tempre,  per  assaissimo  che  le  modifichi  ; 
e  veniva  cosi  a  significare  quell'idea  che  solevasi  leggere  insieme 
alle  altre  sulle  urne  degli  elogiati,  cioè  l'idea  incommutabile  eterna 
che  spira  dalle  sepolture,  rasente  a  quella  di  tempo  e  di  permuta- 
mento. E  ciò  cosi  si  predilesse^  che  Roma  quando  si  fece  greca  e 
tutto  modellò  a  seconda  dei  greci  disegni,  comunque  si  permettesse 
di  augumentare  la  propria  lingua  con  ospitare  gran  parte  delle 
greche  voci,  non  pertanto  nell'epigrafia  amò  piuttosto  di  scarseg- 
giare col  povero  idioma  di  Varrone,  d'Accio  e  d'Ennio,  che  non  lus- 
sureggiare con  Cicerone.  Il  lusso  filologico  dei  tempi  cesarei  era 
il  culmine  del  progresso  almeno  apparente  del  linguaggio  latino,  e 
l'ultimo  indizio  dell'avanzarsi  e  del  dilungarsi  da  se  medesimo  e 
dal  genio  primitivo.  Non  sarebbe  stato  dunque  conveniente  adope- 
rare quei  modi,  che  non  avrebbero  davvero  riflettuto  l'idea  di  fer- 
mezza, che  studiavansi  d'imprimere  coU'amminicolo  della  lingua 
sopra  i  sepolcri.  Ben  è  vero  peraltro  che  questo  canone  Ai  talora 
offeso,  0  almanco  non  scrupolosamente  guardato,  sia  perchè  non 
tutti  seppero  accarnare  la  vera  natura  dell'epigrafia,  sia  perchè  la 
lingua  arrotondi ta  dalla  greca  levigatura,  aveva  ormai  sbanditi  quei 
vecchi  parlari  dei  popoli  pastori,  sia  anco  perchè  tra  la  lingua  plau- 
tina e  terenziana  e  quella  di  Cicerone  non  era  divergenza  sostan- 
ziale 0  cosi  ben  designata,  da  poter  con  giusto  mezzo  l'una  scegliere, 
recisamente  o  l'altra  risparmiare.  Ma  all'offesa  di  tali  canoni,  quando 
avveniva,  era  supplemento  quella  spezie  di  ortografia  che  era  stata 
tolta  a  contraddistinguere  le  epigrafiche  scritture,  e  della  quale  il 
Rambelli  ci  offerse  interpretazioni  curiosissime.  La  punteggiatura 
di  ciascuna  parola,  fin  anco  dì  ciascuna  sillaba,  non  fu  casualmente 
introdotta,  come  non  a  caso  fu  ogni  punteggiamento  talvolta  abo- 
lito. La  prima  specie  esibendo  le  parole  quasi  l'una  dall'altra  disgre- 
gate, rifletteva  l'idea  d'oltretempo,  che  di  per  sé  sussiste  e  quasi  in 
se  medesimo  perfetto  riposa.  La  seconda  col  dar  le  parole  cosi 
congegnate  quasi  fossero  una  sola,  ostentava  quel  continuo,  quel- 
l'interminato che  è  immagine  adeguata  dell'eterno.  Parimente  le 
lettere  maiuscole  prestavano  alle  minuscole  e  corsive,  sendochè 
queste  dovettero  essere  posteriormente  inventate,  o  direm  meglio 
ridotte  per  affinamenti  e  politure  dalle  prime. 

XIII. 

Cosi  l'antichità  maneggiò  l'Epigrafia.  Cosi  fin  quasi  a  noi,  certo 
fino  a  Morcelli  e  ad  Amati,  fu  copiata  l'antichità  scimiottandola  anzi- 
ché imitarla,  conciossiachè  pochissimi  si  addessero  delle  ragioni  che 
ispiravano  il  fatto  loro.  Prova  massima  di  ciò  è  l'uso  stempiato  o 


308  RIVISTA  CONTEMPOBANBA 

Tabuso  della  lingua  latina,  e  la  persuasione  che  essa  sola  fosse  ac- 
concia sia  allo  stile  epigrafico,  sia  alla  rappresentazione  adeguata 
delle  idee  che  nell'epigrafìa  si  contengono.  Uso  od  abuso  che  de- 
formò la  natura  epigrafica,  e  privò  ad  un  tempo  lo  lettere  italiche 
d'una  delle  sue  possibili  composizioni,  e  che  fu  un  portato  di  quel 
predominio  ecclesiastico  o  curialesco,  che  tutta  invase  e  tutta  con- 
taminò cosi  la  vita  del  pensiero  come  quella  delle  azioni,  cosi  le 
lettere  come  le  scienze;  che  insieme  alla  lingua  dilatava  Tinfluenza, 
e  colla  lingua  le  idee  che  alla  lingua  erano  allegate.  Per  lo  che 
ridotto  il  cattolicismo  pressoché  un  monopolio  pitagorico  o  iranico 
0  castale,  a  costui  nome  tutto  si  assoggettava  e  tutto  usucapivasi. 
Quando  però  si  fece  luce  fu  riconosciuto  il  debito  di  corredare  l'ita- 
liana letteratura  dell'Epigrafia,  come  oggi  lo  ha  conosciuto  la 
Francia,  perchè  i  popoli  e  le  nazioni  non  hanno,  per  essere  civili  e 
compiute,  da  accettar  mai  nulla  dagli  altri,  o  vivere  in  qualsiasi  cosa 
sotto  l'altrui  balia. 

Perticari,  Giordani,  Niccolini,  Mamiani  e  pochi  più  studiarono 
in  questo  nobilissimo  intento,  ma  nissuno  riuscr  più  felice  e  più 
grande  di  Luigi  Muzzi,  padre  e  facilmente  principe  di  quest'italica 
bellezza.  Ei  fu  sopra  qualunque,  anzi  l'unico,  perchè  il  primo  che 
provò  non  soltanto  potere  l'itala  favella  tener  vece  della  latina  e 
greca,  ma  per  ogni  rispetto  soverchiarla,  che  che  ne  abbia  detto 
in  contrario  qualche  francese,  disgraziato  giudice  di  cose  italiane, 
0  qualche  disperato  latinista  che  pensando  colle  idee  di  Romolo  e 
di  Numa  ed  anco  con  quelle  più  fresche  di  Commodo  e  di  Valente, 
vorrebbe  che  ragionassimo  con  quo'  loro  slessi  idiomi.  Mostrò  il 
chiariss.  prof.  Muzzi,  che  in  volgare  potevano,  non  che  esprimersi, 
scolpirsi  i  sensi  religiosi,  gli  afletti,  le  severe  e  sempiterne  idee  al 
pari  che  colla  latina,  col  guadagno  della  espressione  dei  sentimenti 
civili  odierni,  necessità  imperiosa  dei  tempi  nostri ,  e  d'un  popolo 
che  si  riconosce,  e  vuol  vendicata  la  propria  indipendenza  con  una 
filosofia  perspicace  e  sicura.  Delle  epigrafi  Muzziane  nulla  manca 
a  dichiararle  originali  e  belle.  No  ha  delle  sublimi,  e  son  tutte  le 
eroiche  che  ei  dettò  :  raramente  incontri  le  elegiache  difettar  del 
bello,  e  nella  espressione  di  questo  tanto  precorre  il  resto  degli  epi- 
grafisti^ quanto  la  pittura  avanza  la  scoKura,  o  quanto  un  abbozzo 
soprasta  a  un  quadro  fornito.  Un  pregio  di  Muzzi,  che  a  senno  mie 
soperchia  ogni  altro,  perchè  lo  manifesta  adoratore  della  scienza 
civile  e  di  quelle  idee  che  l'epoca  e  li  sforzi  di  tanti  secoli  avevano 
cumulati,  fu  quello  d'esordire  la  sua  carriera  gloriosa  nel  ISO^, 
epoca  in  cui  gli  uomini  dotti  e  di  gran  cuore  congiuravano  nella 
splendida  impresa  di  imparare  a  Napoleone  quanto  aspettasse  Italia 
da  lui  e  quanto  nulla  mancassele  per  esser  nazione.  Al  che  si  ag- 


DBLLA  BPI0BAFIA 

giunge  eziandio  un  altro  merito  per  coloro  che  non  pesassero  questo, 
che  piccolo  non  è:  quello  cioè  d'aver  posto  un  inciampo,  non  pure 
insiem  cogli  altri,  ma  da  solo,  se  allo  imminente  pericolo  in  cui 
versava  la  lingua  nostrale  d'infranciosarsi,  pericolo  al  quale  nulla 
vai  meglio  opporre  che  il  tornire  e  perfezionare  la  propria  lettera- 
tura. Finché  i  popoli  possiedon  pura  una  lingua,  o  intera  una  let- 
teratura, non  corron  risico  di  perdere  almeno  idealmente  la  nazio- 
nalità, rischio  che  corrono  facile  quando  la  lingua  si  corrompe,  o 
la  letteratura  rimane  stazionaria  o  accetta  elemosine  dal  di  fuora. 
Ricorreva  per  un  nuovo  tentatore  dell'epigrafla  italiana  la  me- 
desima necessità  che  in  Roma,  Fuso  vale  a  dire  della  lingua  anti- 
quata e  dantesca,  poco  confacendosi  al  carattere  dell'epigraGa  la 
lingua  volgare  moderna,  che  è  la  somma  del  lavorio  filologico  dei 
secoli  precorsi.  Non  v'era  modello  da  seguitare,  non  avendo  ninno 
0  pochissimi  scritto  epigrafi  per  lo  innanzi,  e  rarissimamente  com- 
mendevoli,  sia  per  l'espressione  elegante  sia  pel  gentile  pensiero. 
Ma  l'arcaismo  manca  nella  lingua  nostrale,  o  è  bene  ristretto,  che 
da  Dante  a  noi  difficilmente  trovi  arcaismi,  e  quelli  che  chiamansi 
tali  dai  grammatici  sono,  a  sottilmente  osservare,  mostri  e  sconcia- 
ture dì  parole  latine  o  barbariche,  che  transitarono  dal  latino  nel- 
l'italiano parlare,  ma  che  a  quei  di  non  avevano  assunta  la  rotondità 
toscana,  o  non  l'assunsero  giammai  più,  perchè  decisamente  fora- 
stìere  e  ritrose  al  farsi  paesane,  ebbero  fra  noi  alloggio,  non  stanza. 
E  che  sia  cosi  si  rileva  apertamente  col  prendere  in  esame  gli  scrit- 
tori volgari  da  Giulio  d'Alcamo  e  Folcacchiero  a  Dante ,  o  meglio 
ancora  dallo  studiare  quei  meravigliosi  saggi  di  C.  Troya  sulla  tras- 
formazione della  latina  lingua  in  italiana.  L'arcaismo  della  lingua 
italiana  consiste  nell'indole  non  nella  parola.  La  parola  latina  guasta 
e  malamente  inflessa  andò  col  tempo  ad  assumere  la  forma  odierna 
e  la  risuonanza  che  oggi  ha,  cosicché  non  potrebbe  nominarsi 
prettamente  italiana,  come  non  latina,  una  parola  che  cassata  la  in- 
flessione latina  non  avesse  per  anco  indossata  l'italica,  ferma  e  per- 
manente. Lo  spazio  invero,  le  modificazioni  che  tramezzano  i  due 
estremi  dal  primo  imbastardire  del  latino  al  deciso  stanziarsi  dello 
italiano  sono  transizioni,  graduali  piegature,  e  sviluppi  continui,  e 
forme  versatili,  che  non  hanno  determinato  carattere.  L'indole  poi 
della  lingua  nostrale  è  latinogreca,  o  meglio  doriese,  come  la  ve- 
tusta latina,  e  da  Dante  in  poi  essa  doriese  indole  per  molteplici 
cause  è  andata  sminuendo,  non  mica  cessando,  specialmente  in 
Sicilia  e  in  Toscana,  provincie  d'ingegno  greco  e  di  similissimi  par- 
lari. Di  quel  modo  che  il  progresso  ci  ha  dilungati  dall'antichissima 
Roma  0  dal  Romano  popolo,  cosi  la  lingua  nostra  si  è  grado  grado 
distaccata,  ed  è  oggi  men  greca  di  quello  fosse  quattro  o  cinque 


400  BIVISTA  OONTBHPORÀKBA 

secoli  indietro.  Lo  che  è  ben  ordinario,  e  si  spiega  col  riflettere 
alla  incessabile  instabilità  delle  nazioni  e  dei  tein{)Ì9  e  come  nel 
seicento  minacciò  di  farsi  spagnuola,  nel  primo  periodo  di  questo 
secolo  d'infrancesarsi,  non  è  fuori  del  possibile  che  attinga  tal  grado 
d'autonomia  da  scader  poscia  e  figliare  morendo  con  altro  lin- 
guaggio ;  perchè  quanto  più  nna  lingua  si  discosta  dalla  madre  e 
si  sforza  di  sussistere  a  sé,  e  senza  parenti,  tanto  più  facilmente  e 
più  presto  decade.  Altro  è  serbare  le  native  cognazioni,  altro  som- 
mettersi  ad  un  altro  e  tome  a  prestanza.  Le  cognazioni  oltre  a  non 
esser  mai  aliene  ad  una  lingua  come  ad  un  popolo,  songli  anzi  di 
fulcro  e  di  sostegno,  specialmente  se  elleno  discendano  per  diretta 
linea  e  stieno  in  relazione  di  filiazione.  Le  parentele  non  mozzano 
l'autonomia,  e  collegando  i  popoli  e  le  lettere,  giovano  con  vicen- 
devoli aiuti  e  colla  trasmissione  delle  avite  e  vantaggiosissime  tra- 
dizioni. Mentre  la  sommissione  e  raccatto  troncano  i  nervi  e  le 
forze»  e  adagio  adagio  spengono  de)  tutto  la  vita  che  è  raccolta  e 
consunta  da  ehi  soprasta,  o  par  lo  meno  Tautonomia  prima  inde- 
bolendosi e  rimpicciolendosi,  poi  si  disfa  e  si  cangia  in  dipendenza. 
La  distanza  dal  latinismo  all'italianismo,  si  faccia  grazia  a  esse  due 
voci,  sta  nell'idee  che  son  espresse  dalla  frase,  e  nella  freschezza 
e  modernità  di  questo  a  rimpetto  della  decrepita  sterilità  del  primo. 
Una  lingua  viva  è  in  progresso  continuo,  rappresentando  un  po- 
polo che  non  istà  fermo  mai,  ed  o  scade  o  s'avanza.  L'apice  della 
lingua  trae  seco  il  perìcolo  di  regresso,  non  mica  perchè  lo  sia 
invero,  ma  perchè  esso  apice  è  falsato  o  riposto  in  ciò  che  non  è 
tale.  Poniamo  che  si  slimi  la  lingua  italiana  formata  in  maniera 
come  opinano  i  Cruscanti.  In  tal  caso  per  difetto  di  perfettibilità 
ella  rista,  e  siccome  gli  uomini  camminano,  essa  si  strana  e  imbar- 
barisce. La  nazionalità  d'un  popolo  non  è  la  perfezione,  ma  la  con- 
dizione nella  quale  solo  ei  può  perfezionarsi.  Il  popolo  d'Italia  non 
è  punto  incivile,  ma  lo  deve  a  conati  erculei  di  pochi,  e  non  può 
confrontarsi  colle  genti  che  arrivarono  da  lunga  mano  alla  loro  nazio- 
nalità. La  civiltà  nostra  ha  molto  da  fare  relativamente  a  lingua, 
segnatamente  il  generalizzarla,  abolendo  i  dialetti  che  non  sono 
italiani,  o  son  troppo  sformati  e  dilungati  dalla  madre.  Certamente 
io  credo  che  se  la  nazionalità  venisse  meno,  o  non  fosse  raggiunta, 
appena  in  Toscana  o  in  Sicilia  rimarrebbe  italiano  idioma,  e  nelle 
altre  provincie  non  tardi  germoglierebbero  a  mo'  di  lingue  i  dia- 
letti ormai  sostituiti  alla  lingua  e  aventi  lor  proprìi  caratteri  e  lor 
dizionarii. 


DHLLA  BPIQBAFIA  401 

XIV. 

La  parte  nobile  ed  acquisita,  comunque  si  fosse^  della  lingua  si 
voleva  dalla  nascente  epigrafia  scrupolosamente  evitare,  non  tanto 
in  vista  che  lo  assentarsi  dalla  greca  e  doriese  la  rendeva  manco 
acconcia  alla  perspicua  brevità  richiesta,  ma  perchè  imprimeva 
all'epigrafia  l'idea  dell'oggi  e  della  variazione  che  bello  è  fuggire. 
La  lingua  latina  allorché  s'ingrandì,  e  diciam  noi,  s'arricchì  e  si  fé' 
maestosa,  soprappose  all'elemento  dorico  l'ionio  progredito,  ossia 
Tattico  ;  attico  ohe  non  so  se  con  iscapito  o  con  guadagno  gli  scrit- 
tori hanno  accolto  anche  nell'italiano^  ma  che  a  giudizio  mio  non 
accolse  Dante,  non  Machiavello,  e  nemmeno  Leopardi,  o  certo  po- 
chissimo. 

Accorto  Luigi  Muzzi  rinverti  al  pretto  italiano  dei  secoli  d'oro^ 
dai  quali  per  lo  più,  anzi  sempre  si  cava  la  parola  e  la  frase,  e 
quel  periodare  semplice  e  robusto  che  ha  del  pittoresco  :  fece  capi- 
tale di  ciascuna  parola  posteriore  che,  parce  detortaj  scendesse  dal 
latino,  e  affatto  ne  risentisse,  riportando  sia  quanto  al  dettato,  sia 
quanto  alla  trasposizione  dei  vocaboli,  sia  quanto  all'euritmia,  l'epi- 
grafe al  genio  vergine  grecolatino,  di  sorte  che  leggendo  le  compo- 
sizioni di  lui  (stupendo  conoscimento  della  natura  delle  lingue  e 
squisita  abilità  creativa  e  sintetica)  tu  senti  di  leggere  un  italiano 
che  non  è  d'oggi,  od  un  latino  che  non  è  stato  parlato  mai,  una 
poesia  che  non  è  fantastica  ed  una  prosa  che  in  venustà  e  grazie 
pareggia  la  più  delicata  poesia.  Coniò  eziandio  delle  voci  che  fu- 
rongli  non  so  quanto  discretamente  rimproverate.  Parlo  almen  delle 
più,  le  quali  sapendo  di  latino  nella  radice,  e  pretendendo  il  carat- 
tere greco  che  è  il  pedale  della  lingua  italica,  come  di  tutte  di  fa- 
miglia ellenica,  e  ritenendo  delia  forma  pura  e  schietta  italiana,  sin- 
tetizzano splendidamente  l'italo  col  latino,  l'espressione  del  moto 
collo  stare,  del  tempo  e  varietà  sue  coll'uniformità  sempiternale. 
Perlochè  lo  stile  muzziano  è  vegeto  e  fresco,  ma  insieme  arcaico  ed 
antiquato  o  classico,  perchè  ha  il  vantaggio  eia  maestria  di  accop- 
piare in  sé  il  genio  dorico  e  la  forma  italiana.  Era  peraltro  impos- 
sibile ricondurre  tutto  all'antico,  e  lo  schifar  sempre  le  forme  mo- 
dernamente adottate  e  le  voci  di  acquisto  recente  ;  lo  che  sarebbe 
stato  in  fme  uno  stiracchiare  soperchio,  uno  esagerare,  concios- 
siachè  la  tinta  d'antichità  si  rivela  anche,  e  più  che  dalle  parole,  dal 
loro  posto,  dall'iperbato  e  dal  complessivo  dettato.  Il  prof.  Muzzi 
per  ombreggiare  all'antica  anche  il  più  moderno,  ha  saggiamente 
raccolta  la  vecchia  e  bandita  ortografia  togliendo  alle  iscrizioni 
quella  esteriore  vernice  e  acconciatura  che  ti  rammenta  il  secolo 
JìivUta  C.-26 


402  RIVISTA   CONTBMPOEANBA 

del  Bembo  ed  un'epoca  fissa  (epoca  invero  antinazionale),  mentre 
nella  elegiaca  Tepoche,  per  quanto  remote,  debbono  sempre  celarsi 
e  non  apparire  all'occhio  e  alla  riflessione  dei  leggitori.  Ecco  cosi 
l'epigrafia  italica  enunciare  magistralmente  la  civiltà  o  l'avanza- 
mento societario^  la  rimanenza  dei  defunti  in  società  a  cui  si  son 
resi  invisibili,  il  carattere  nazionale  e  odierno  del  morto,  mentre 
l'averla  ravvicinata  al  latino  la  recinge  di  religiosità  e  di  quegli  ele- 
menti onde  l'invariabilità  e  l'eternità  risaltano:  e  come  sentiamo 
nelle  epigrafi  muzziane  palpabilmente  consertato  in  uno  l'idea  dì 
tempo  e  d'eterno,  di  presenza  e  d'assenza,  d'individuo  e  di  società, 
ne  inferiamo  per  conseguenza  che  lo  autore  ha  travasato  in  sé  il 
sapere  della  antichità,  e  ci  ha  regalato  d'un  nuovo  genere  di  can- 
zone, presentandocelo  nello  stesso  suo  nascimento  sviluppato  ed 
adulto.  Né,  sebbene  Contrucci  lo  agguagli  nell'Epica,  ei  si  mostrò 
ignaro  delle  differenze  che  questa  cernono  dall'elegiaca  :  che  anzi 
elleno  sono  cosi  pronunziate  che  anche  in  questo  genere  fu  sommo, 
e  forse  per  intendimento  delle  ragioni  occulte  di  tal  genere  di  epi- 
grafare,  di  gran  lunga  sorpassa  il  Gontrucci,  che  spinto  dal  virile  e 
ardito  ingegno  si  levò  in  grandissima  fama,  ma  non  sempre  die 
saggio  di  aver  accarnato  l'essenza  del  suo  splendidissimo  comporre. 
Essi  due  però,  qualunque  distanza  di  grado  li  separi,  ci  porsero 
compiuto  il  duplice  esemplare  dell'epigrafìa,  rivelandone  non  già 
l'arte^  ma  la  sapienza  che  le  va  congiunta,  e  furono  i  primi,  e  se 
non  saranno  gl'insuperabili,  saranno  massimi  sempre.  Arte  l'epi- 
grafia suol  cognominarsi,  ma  io  la  direi  mal  nota  scienza,  troppo 
negletta  o  trascurata  da  coloro  che  l'hanno  per  un  trastullo  o  per 
una  vanagloria  di  famiglia  o  di  popoli.  Difficilissimo  componimento, 
che  può  sembrar  lieve  o  piano  solo  quando  non  si  riflette  che  è 
obbligazione  di  chi  scrive  o  di  chi  inventa  specialmente  d'operare 
di  guisa  che  a  nulla  difetti  ragione,  e  che  tutto  si  connetta  o  si 
riporti  alla  scienza  generale  e  alle  leggi  rettrici  l'universo.  Di 
ciascuna  cosa  quaggiù  esiste  un  tipo,  uno  schema  che  idealmente 
le  risponde  nella  increata  mente,  ove  di  tutto  sta  la  cagione  e  il 
motivo.  Se  è  vero  che  il  genere  epico,  perchè  un  solo  ed  unico  ele- 
mento lo  costituisce  è  più  facile  dell'elegiaco,  non  è  però  tal  soma 
sotto  cui  l'omero  che  se  ne  carca  debba  sentirsi  aggravato,  e  in 
questo  come  nell'altro  comporre  il  non  fallire  a  glorioso  porto  è  tal 
risultaraento  da  meritare  i  plausi  e  l'ossequio  serbato  e  divoto  alle 
anime  eccelse  e  agli  ingegni  peregrini. 

Francesco  Dinl 


403 


ALCUNI  mn  SOPRA  MODENA  E  LA  SUA  STORU 


Modena  era,  per  testimonianza  di  Polibio,  colonia  romana  al  tempo 
deUa  seoonda  guerra  punica,  e  per  la  descrizione  che  quegli  diede 
della  strada  per  cui  Annibale  scese  in  Toscana,  argomentasi  fosse 
a  un  dipresso  quale  ora  è.  Floro  disse  Modena  città  félicUima^  e 
Pomponio  Mela  ^/^«ja  ^pulenti$simay  e  Cicerone  florentissima  e  grande 
per  ispkndore  efedeltày  e  ornamento  e  baluardo  dell'impero.  Fedele 
ai  Romani  e  alla  repubblica,  fu  più  volte  riparo  ai  duci  loro,  fino  al 
memorando  assedio  di  Decimo  Bruto  nell'anno  710  di  Roma,  e  alla 
battaglia  in  cui  morirono  i  consoli  Fezio  e  Pausa  ;  onde  il  suo  nome 
fu  associato  da  Tacito  a  quelli  di  Farsaglia,  di  Filippi  e  di  Perugia 
siccome  dol&fUi  di  pubbliche  ucnJUte.  Ed  il  nostro  Dante 

Che  Modena  Perugia  fé'  dolente. 

Plinio  accenna  di  noi  l'industria  della  creta  e  della  plastica  ; 
Strabene,  Columella,  Varrone  e  Marziale  quella  della  lana.  Sotto 
Traiano  non  solo  era  Modena  salita  a  grado  di  municipio  reggentesi 
da  sé,  e  con  proprie  l^gi,  ma  ivi  risiedeva  il  pretore  della  Gallia 
Cisalpina,  come  si  ha  dalle  tavole  Velleiati.  Pochi  anni  or  sono  fu* 
rono  tolti  i  ruderi  di  un  ponte  romano  sulla  Secchia,  presso  Rubiera 
e  gli  scavi  recenti  sotto  Modena  stessa  han  messo  in  luce  un'antico 
foro  adomo  di  monumenti. 

Nel  quarto  secolo  Modena  e  la  vicina  Reggio  decadute  erano  sì, 
che  sant'Ambrogio  le  paragonava  a  cadaveri:  e  in  questo  secolo 
fu  vescovo  Oenoiniano,  di  cui  pochissimo  si  conosce  di  certo  ;  ma  la 
costante  tradizione  il  fa  uomo  del  popolo,  e  tutte  le  virtù  e  molti 
miracoli  gli  attribuisce,  onde  a  protettore  lo  ascrissero  i  Modenesi, 
e  in  Venezia  ebbe  splendido  culto.  Sofferse  Modena  sotto  i  Barbari 
le  vicende  comuni  a  tutte  queste  parti  d'Italia,  e  di  più  ebbe 'a  sof- 
frire per  traboccar  di  negletti  torrenti,  per  crescere  di  paludi  e 
stagni  tal  diluvio  d'acqua,  che  i  fuggitivi  abitatori  l'abbandonarono 
e  tentarono  rifabbricarla  in  più  elevata  posizione  a  quattro  miglia 


404  RIVISTA  CONTBHPORANBA 

verso  occidente,  e  il  villaggio  serba  ancora  il  nome  di  CUtancva. 
Ma  come  accade  dell'opera  d'uomini  che  non  abbia  nelle  naturali 
condizioni  un'appoggio,  non  durò  quello,  e  Modena  fu  nell'antico 
luogo  bentosto  ricostruita,  né  forse  mai  al  tutto  deserta. 

Sant'Anselmo,  fratello  di  Astolfo  re  de'  Longobardi,  fondava,  sulla 
metà  del  secolo  viii  nell'agro  modenese  la  ricchissima  badia  di  No- 
nantola  che  il  Tiraboschi  illustrò  con  eruditissima  storia  all'uso  dei 
suoi  tempi  in  cui  davasi  importanza  ai  monacali  privilegi,  pe'  quali 
turbato  erasi  il  seno  della  Chiesa,  e  malmenati  come  greggie  i  po- 
poli. La  chiesa  arcipretale  ed  ora  vescovile  di  Carpi  (ora  città)  essa 
pure  nell'agro  modenese  fu  dallo  stesso  Astolfo  fondata.  Argomen- 
tasi da  alcuni  diplomi  che  il  modenese  Capitolo  de'  canonici  risalga 
al  780,  e  prima  del  concilio  d'Aquisgrana,  da  cui  ebbero  origine 
per  la  più  parte  i  capitoli.  È  per  antichi  diplomi  insigne  l'archivio 
capitolare,  ma  chi  li  legge?  chi  vi  cerca  fior  d'erudizione?  Spe- 
riamo tempi  migliori,  e  già  alcuni  ingegni  il  lasciano  presagire. 

Appartennero  Modena  e  Reggio  alla  celebre  contessa  Matilde,  e 
il  suo  castello  di  Canossa  nelle  colline  reggiane  vide  nel  1077  Ar- 
rigo IV  imperadore  umiliarsi  davanti  al  severo  Gregorio  VII,  e  la 
troppo  breve  pace  che  a  quella  soverchia  umiliazione  tenea  dietro. 
Sotto  quella  celebre  donna  intrapresero  i  Modenesi  nel  1099  la  fiib- 
brica  della  loro  cattedrale,  che  nel  1106  fu.  condotta  a  termine,  e 
la  parte  quadrata  della  elegante  sua  torre,  detta  gMrlandina^  perchè 
la  guglia  piramidale  ettagona  con  due  balaustrate  o  ghirlande  (da 
cui  il  suo  nome)  fu  opera  del  1319.  E  il  duomo  e  la  torre  vennero 
costrutti  cogli  avanzi  marmorei  di  Modena  romana,  perlocchò  v'è 
di  marmi  abbondante  dovizia.  L'ornarono  i  migliori  scultori  e  pit- 
tori di  que*  rozzi  tempi,  e  nel  suo  esterno  vennero  scolpite  le  misure 
modenesi  che  il  sig.  Malavasi  nella  sua  metrologia  rilevò  regolate 
sulla  decempeda  romana.  Alla  costruzione  del  duomo  concorse  l'in- 
tera diocesi  che  assai  si  estendeva  nel  territorio  che  ora  è  di  Bologna 
e  di  Ferrara.  Era  confine  di  Bologna  il  torrente  Samoggia,  e  talora 
Modena  si  estese  anche  al  di  là. 

Dalla  parte  che  Modena  prese  alle  guerre  tra  le  città  lombarde 
scorgesi  com'ella  si  reggesse  a  città  sin  dal  x  secolo.  Si  trova  che 
nella  guerra  tra  Arrigo  e  Gregorio  VII  Modena  e  Reggio  tennero 
per  l'impero  contro  Matilde,  che  pure  era  contessa  di  questi  paesi: 
ciò  dimostra  come  queste  città  avessero  allora  un'ordinamento  ba- 
stante a  poter  muovere  le  masse  e  condurle  a  forte  azione.  Allorché 
nel  996  fabbricossi  il  monastero  di  S.  Pietro,  il  vescovo  dichiarò  di 
farlo  coU'assenso  del  capitolo,  dei  militi  e  del  popolo.  Non  è  per- 
tanto meraviglia  se  nel  1136  leggasi  in  una  pace  nos  poptUns  Muti- 
nensis  iuramus  poptUo  iaumiensi  etc. 


CENNI   SOPBA  MODENA  E  LA  SUA  STOBIA  405 

I  privilegi  dati  ali*  abbazia  di  Nonantola  posero  in  conflitto  nel 
1131  e  negli  anni  successivi  i  Modenesi  coi  Nonantolani,  i  quali, 
come  più  deboli,  strinsero  coi  Bolognesi  a  gravi  patti  un'alleanza, 
che  fu  principio  alle  lunghe  lotte  e  agli  odii  municipali  tra  Bologna 
e  Modena.  Cosi  i  privilegi  e  il  deviare  dalla  via  regolare  furono  ca- 
gione allora,  come  fu  e  sarà  sempre,  di  mali  gravissimi,  eppure  non 
si  cessa  mai  di  domandare  ed  accordar  privilegii,  e  gli  scrittori  lo- 
dano e  incensano! I  papi  scomunicarono  i  Modenesi,  e  tolsero 

loro  persino  la  diocesi,  mentre  accanitamente  si  guerreggiavano  le 
due  città,  aiutando  Parma  i  Modenesi,  e  Reggio  combattendoli. 

Nonantola  fu  distrutta,  ma  le  armi  spirituali  gettavano  allora 
troppo  di  peso  nelln  bilancia,  e  i  Modenesi  dovettero  segnare  una 
pace  umiliante. 

Modena  prese  parte  nel  1167  alla  lega  lombarda,  trattata  segre- 
tamente sin  dal  1164;  e  a  lei  si  strinsero  in  alleanza,  e  prima  e  poi 
molti  capitani  del  Frignano  le  giuravano  fedeltà.  Anche  le  po- 
tenti &miglie  de'  Pii,  de'  Pichi  ed  altre  provegnenti  dallo  stesso 
stipite  di  Manfredo  erano  cittadini  di  Modena,  e  a  lei  giuravano 
fede,  e  i  sogg^etti  loro  a  lei  pagavano  le  prestazioni  consuete.  Han- 
nosi  i  lodi  del  1205  e  del  1255  che  le  aggiudicano  il  Frignano,  e 
quelli  del  1207  e  1255  che  le  danno  il  dominio  di  Carpi,  e  del  1261 
che  le  confermano  quello  di  Nonantola,  hannosi  i  giuramenti  e  gli 
atti  di  vassallaggio. 

Intervennero  per  Modena  alla  pace  di  Costanza  il  giudice  Arlotto 
e  Raniero  Boccabadati. 

Gli  scrittori  nemici  della  libertà  e  dell'Italia  vomitarono  in  ogni 
tempo  mille  declamazioni  contro  quel  patto  meonorando  che  consa- 
crando la  libertà,  fu  iniziamento  al  terzo  luminoso  periodo  della  storia 
d'Italia  esagerando  i  danni  di  quella  che  dicono  sbrigliata  democrazia. 
Le  città  italiane  scosso  il  giogo  straniero  feudale,  si  ricomposero 
presso  a  poco  com'erano  sotto  Boma  antica,  ma  loro  mancò  l'ege- 
monia nazionale  della  città  autocratica,  che  il  tedesco  imperatore 
non  curava  di  tenerle  concordi  sotto  un  giusto  impero,  ma  di  ta- 
glieggiarle contento,  attizzava  le  gare,  le  rivalità  e  le  ire  per  in- 
debolirle colle  scambievoli  forze  e  dominarle  di  nuovo  ;  né  meglio 
sapevano  i  papi  adoperare  l'evangelico  ministero,  ma  essi  pure  le 
civili  parti  col  favore  accendevano  per  acquistarne  possanza,  e  tener 
fronte  non  meno  al  laicato  popolare  che  all'imperiale,  alle  immunità 
resistenti.  Per  questa  mancanza  di  centro  egemonico  le  città  italiane 
•  rimasero  troppo  accessibili  agli  odii  di  parte,  alle  gare  municipali  ; 
ma  non  pertanto  quell'epoca  fu  sì  gloriosa  e  si  fortunata  per  l'Italia 
che  ella  si  vide  in  brev'ora  cresciuta  grandemente  di  popolazione, 
di  ricchezza ,  di  coltura ,  di  civiltà ,  sollevata   al  grado  di  grande 


406  BnriSTÀ  contbmpobanba 

potenza,  fatta  luce  e  splendore  delle  altre  nasioni  ;  e  da  quell'epoca 
cominciò  il  suo  moderno  primato,  che  durò  sino  a  che  il  serraggio 
e  la  corruzione  portatati  da  Carlo  V  spense  ogni  libertà,  ogni  gran- 
dezza, ogni  orrevole  sentimento. 

Dopo  la  pace  di  Costanza,  Modena  fu  retta  or  da  Consotiy  or  da 
Podestà.  Fu  dessa  in  ogni  tempo  data  agli  studii,  e  sin  dal  796  Gi«> 
sone,  vescovo,  concedendo  una  chiesa  areipretale,  ingiunge  at  par- 
roco dì  essere  diligente  in  eleriek  M^ffteffandiSy  in  stthóh  kàteniatt 
pueris  edwandi9.  Da  queerto^  per  sentimento  del  TirabosiAI ,.  ebbe 
origine  l'usanza  che  tra  canonici  deHe -cattedrali  fesse  uno-eui- spet- 
tasse tener  scuola,  e  che  t\x  detto  orit9^hola$Ueu9j'onL  fpmnàHay  orei 
magister  sekolarumy  e  poscia  per  contrattone -imiywwto  e  j>er  eotsru'» 
zione  majuscola.  Ciò  essendo  pei  chierici,  ed  avendo  4%aperatore 
Lotario  comandato  che  i  Modenesi,  i  Reggiani,  i  Parmigiani,  i  Pia- 
centini andassero  a  studio  a  Cremona,  i  Modenesi  pensarcelo  dì  aprire 
pubblico  studio,  e  pare  che  fin  dalla  metà  del  secolo  xii  vi  profes- 
sasse il  giureconsulto  Ruggiero  da  Benevento.  Certo  è  che  n^  1189 
venne  loro  fatto  di  staccar  da  Bologna,  e  alla  propria  scuola  condurre 
il  giureconsulto  Fillio,  e  il  Tirabosehi  ebbe  a,  éìre  che  dopa  BoloffM 
non  v'ehbe  oiUà  in  Italia  in  cui  cominciMse  sì  prontamente  ajtorire  la 
ffiurisprudenza  come  a  Modena.  Pochi  anni  dopo  aperse  studio  anche 
Reggio,  e  queste  due  città  sorelle  ebbero,  ne'  secoli  xiii  e  xiv  flori- 
dissime università,  e  il  Tirabosehi  enumerò  i  professori  del  paese  e 
stranieri  che  vi  fiorirono  in  copia.  Illanguidirono  esse  dipoi,  e  più 
di  tutto  perchè  gli  Estensi  fattine  signori,  vollero  ^ocacciar  fama 
e  concorso  air  università  di  Ferrara  col  vietare  ai  soggetti  ogni  altro 
studio.  Questo  danno  dunque  debbono  i  Modenesi  ed  i  Reggiani  agli 
Estensi.  Anche  sotto  questi  conservò  Modena  professori  dMstituta 
civile,  d'arte  notarile  e  di  logica. 

Fu  Modena  sempre  nemica  alle  ecclesiastiche  immunità,  e  nel 
secolo  XII  i  Modenesi  ebbero  dispute  cogli  ecclesiastici  per  certe  loro 
leggi,  e  gli  arbitri  diedero  loro  causa  vinta,  aggiudicando  al  vescovo 
una  indennità.  Ma  Innocenzo  III  in  un  breve  diretto  all'arcivescovo 
dì  Ravenna  dolevasi  nel  1204  che  la  chiesa  modenese  fosse,  come 
egli  diceva,  oppressa  dai  laici,  che  tolta  fosse  l'ecclesiastica  giuris- 
dizione, che  i  cherici  fossero  tratti  al  foro  laico,  che  il  podestà  si 
arrogasse  di  regolare  il  suono  delle  campane  e  imporre  multe  ai 
contrawantori.  In  oggi  ciò  si  pratica  dappertutto;  ma  allora  fu 
grande  energia  de'  Modenesi  sostener  tali  diritti  ;  e  sebbene  doves- 
sero cedere  alle  scomuniche,  revocando  gli  statuti,  li  rinnovarono 
però  nel  1219  sotto  Onorio  III,  e  nel  1279  sotto  Nicolò  III,  e  più 
volte  ancora,  perchè  i  Modenesi  non  si  acquetarono,  ma  a  quelle  im- 
munità resistettero  che  allora  s'imponevano  colle  armi  spirituali  ai 


CENNI  SOPBA  HODBNÀ  B  LA   SUA   STORIA  407 

principati  più  potenti.  Prova  questa  che  Tenergia  di  un  popolo 
conscio  dei  proprii  diritti,  supera  sempre  quella  di  un  uomo  anche 
potentissimo. 

Noi  leggiamo  ancora,  neiristromento  del  1836,  con  cui  Modena, 
come  vedremo,  rìtomò  in  oblj^ediensa  degli  Estensi,  stipularsi  la 
reintegrazione  di  tutti  i  cittadini  ne'  beni  cimfìscati  dalla  inquisizione, 
la  quale  sin  d'allora  arricchivasi,  chiamando  eretici  tutti  coloro  che 
alle  temporali  cupidigie  del.  clero  resistevano.  È  certo  ancora  che 
le  soverchie  immunità,  lungi  dal  giovare  alle  chiese,  obbligarono 
vescovi  e  papi  a  concedere  ai  laici  certi  diritti  di  nomina,  istituzioni, 
investiture,  awocazie,  legazioni,  commende  che  molto  più  danno  le 
arrecarono. 

Nel  1288,  per  sedare  le  domestiche  discordie,  i  Modenesi  elessero 
a  patti  in  loro  principe  Obizzo  da  Este,  marchese  signor  di  Ferrara, 
che  sin  dal  19^  i  Ferraresi  avevano  eletto  Azze  da  Este  in  loro 
governatore  e  reggitore.  Erano,  suol  dirsi,  tempi  d'ig^noranza,  ma 
pure  glltaliani  aveano  conservato  Videa  del  principato  civile  e  proce- 
dente da  elezione  de' popoli,  non  da  investiture  feudali.  Tale  fu  quello 
degli  Estensi  ;  fatto  importantissimo  da  non  perdere  giammai  di  vista 
per  non  rimanere  ingannati  dalle  investiture  che  poi  presero  o  per 
necessità  o  per  politica,  e  di  cui  abusarono  in  appresso  per  calpe- 
stare i  patti  fermati  coi  popoli.  Né  pur  tacerò  che  le  città  d'Italia, 
gelose  de'  baroni,  cercarono  sempre  di -tenerli  legati  e  soggetti.  Per- 
sino il  marchese  Aldobrandino  da  Este  dovè,  dopo  aspra  lotta  e 
distruzione  di  un  suo  castello,  prendere,  nel  1213,  la  cittadinanza 
di  Padova,  e  giurarle  obbedienza  {Antichità  d'Esté).  Nel  1289  fu 
proclamato  signore  di  Modena  il  marchese  Obizzo,  e  nel  1290  il  fu 
di  Reggio.  Dante  lo  colloca  fra'  tiranni,  altri  il  loda 

Ma  le  lodi  degli  scrittori,  odiatori  de' popolari  governi,  sono  rime 
obbligate  per  ogni  uomo  che  acquisti  signoria,  né  possono  tener 
fronte  alla  severa  ma  imparziale  ira  del  grande  cittadino.  Morto 
Obizzo,  i  Ferraresi,  i  Modenesi,  i  Reggiani,  elessero  nel  1293,  a 
signor  loro,  governatore  e  reggitore  Azze,  primogenito  di  lui,  locchè 
conferma  il  principato  popolare  ed  elettivo  degli  Estensi  (vedine  i 
Documenti  presso  Muratori). 

La  dedizione  agli  Estensi  non  salvò  Modena  dalle  guerre,  anzi 
glie  ne  procacciò  di  novelle,  in  cui  essa  non  aveva  interesse,  per  le 
aspre  contese  de'  successori  di  quello.  Notar  debbo  qui  intanto  un 
fatto  che  tradisce  il  pensiero  di  molti  Italiani  fin  di  que'  tempi  :  per 
eccitare  nemici  al  marchese  Azzo  da  Este,  nel  1305,  spargevasi  che 
egli,  col  re  di  Napoli,  divisassero  spartir  l'Italia  in  due  vasti  reami. 
Vero  0  felso  che  Azzo  questo  pensiero  nudrisse,  la  fama  che  ne  corse 
è  prova  che  il  desiderio  della  maggiore  unione  possibile  mai  si  spense 


408  BIVISTÀ  CONTBBfPOKÀNKA 

negritaliani.  Nel  26  gennaio  1306  i  Modenesi  si  rivoltarono,  cac- 
ciando Azzo,  e  Tanno  appresso  li  imitarono  i  Reggiani  al  grido 
muoiano  i  nobili,  viviamo  una  volta  in  pace;  e  per  vero  dire  erano  i  nobili 
a  quei  tempi  primi  autori  di  civili  discordie.  Che  tiranno  fosse  Azzo, 
lo  dicono  gli  atti  di  quella  cacciata,  che  il  comune  di  Modena  con- 
serva, nò  signor  buono  sarebbe  stato  cacciato  così.  Applaudirono  le 
città  vicine,  e  specialmente  Parma, -antica  e  fedele  alleata  de' Mo- 
denesi, e  li  incoraggi  va  il  legato  papale.  Uno  scrittore,  cortigiano 
degli  Austro-Estensi,  notò  con  orrore  questo  t?afi^(?/i0i^^^<?  de'Mode- 
nesi  d'essere  V origine  e  il  principio  di  tutte  le  sommosse.  Diessi  sin 
d'allora  l'esempio  della  stoltezza  più  e  più  volte  ripetuta  anche  in 
tempi  a  noi  vicini,  di  dissipare  un  tempo  prezioso  in  feste  e  fiBUMsie 
e  ciarpe,  in  vane  demolizioni,  in  accatastate  leggi,  in  ordinamenti 
effimeri  che  Jllati,  come  dice  Dante,  in  ottobre  non  giungono  a  mezzo 
novembre.  Giurarono  al  solito  di  non  voler  più  alcun  signore.  Fecero 
plebisciti  :  oltre  al  podestà  e  al  capitano,  elessero  altri  quattro  podestà 
straordinarii,  e  a  sei  frati  commisero  eleggere  40,  perchè  eleggessero 
un  consiglio  di  400  popolani  ;  poi  un  altro  di  800,  in  cui  quei  di  400 
ed  altrettanti  nobili  o  popolani,  poi  uno  di  1600,  in  cui  quegli  800. 
Elessero  poi  40  sapienti  per  amministrare  il  comune,  e  16  difensori 
del  popolo,  e  8  mercanti  che  avvisassero  alla  sicurezza  delle  strade. 

I  Reggiani  vietarono  ai  feudatarii  di  rendere  giustizia,  e  man- 
darono giudici  in  giro  per  le  castella.  Fecersi  ancora  buoni  ordini 
civili,  e  il  generale  consiglio  di  Modena  aggiudicò  un'indennità  ai 
mercanti,  cui  Azzo  avea  nel  ferrarese  sequestrato  le  barche  e  merci. 
Cosi  allora  si  riconobbe  un  principio  che  si  lega  a  quello  di  spro- 
porzione per  utilità  pubblica,  e  che  anche  nell'attuale  civiltà  molt^' 
contrastano.  Si  decretò  ancora  Taprimento  di  uno  studio  generale 
delle  scienze  tutte  a  Modena  (1306)  e  a  Reggio  quello  di  leggi  ed 
altre  scienze  (1313).  Nel  1315  vedesi  per  altro  mandata  da  Reggio 
un'ambasciata  a  Bologna,  perchè  i  giovani  Reggiani  fossero  ammessi 
a  quell'università. 

Ma  se  il  principio  popolare  non  mori  mai  in  Italia,  non  mancò 
chi  accogliesse  fino  d'allora  il  pernicioso  sistema  di  riguardare  gli 
Stati  quasi  private  proprietà  di  cui  disporre.  11  marchese  Azzo  volle 
disporre  di  Modena  e  Reggio,  lasciandole  in  dono  allo  suocero  suo 
Carlo  II  di  Napoli,  il  quale  però  ben  conoscendo  (dicono  gli  storici) 
l'invalidità  di  tal  donazione,  non  die'  pur  cenno  di  averne  contezza. 
Le  civili  discordie,  mala  semenza  d'Italia,  rinate  pel  rivaleggiare 
delle  nobili  famiglie,  fecero  che  i  Modenesi  si  dassero  nel  1312  a 
Passerino  Bonacolsi,  o  Bonacorsi  o  Bonacossi,  vicario  imperiale  di 
Mantova,  che  li  tiranneggiò  (tranne  due  anni  di  dominazione  di 
Francesco  Pico)  fino  al  1328,  in  che  fu  ucciso,  e  cosi  si  vide  anche 


OBNNI  SOPRA  MODENA  E  LA  SUA  STORIA  ^9 

allora  i  popoli  troppo  vaghi  di  libertà,  cadere  in  peggior  tipannia, 
che  temperato  desio  di  potere  ne'  principi,  moderato  desio  di  libertà 
ne'  popoli,  sono  la][miglior  garanzìa  di  durevole  governo.  Passerino 
sui  figli  di  Pico,  e  i  Modenesi  su  quelli  di  Passerino  rinnovarono 
l'atooce  supplizio  di  Ugolino  della  Gherardesca.  In  questo  tempo 
accadde  la  battaglia  di  Zappolino  contro  i  Bolognesi,  di  cui  fu  epi- 
sodio il  rapimento  della  secchia,  cantato  dal  Tassoni. 

I  Modenesi  si  rivolsero  al  papa,  e  poscia  allo  straniero.  Tristi 
consigli!  Quello  nulla  fece  per  loro,  e  Lodovico  il  Bavaro  mandò 
suoi  Tedeschi,  con  pazze  allegrìe  accolti  dai  Modenesi,  e  con  ogni 
fatta  di  amorevolezze  alloggiati,  ben  presto  cangiò  la  scena.  Rapine, 
estorsioni,  vessazioni  d'ogni  fatta,  e  si  crudeli,  che  la  descrizione 
non  può  leggersi  appo  i  cronisti,  senza  orrore.  Giunsero  persino  ad 
imporre  ai  Modenesi  un  vescovo  empio  e  scismatico;  per  lo  cheJ[)en 
presto  rimasero  disingannati  quegl'infelici,  che  a  domestiche  piaghe 
estranei  rimedi!  cercavano.  Le  principali  famiglie,  colle  intestine 
loro  discordie,  agevolarono  agli  Estensi  la  via  di  ricuperare  il  do- 
minio, consegnando  loro  per  tradigione  le  castella  :  e  i  Modenesi 
dopo  lunga  resistenza,  e  invano  cercati  aiuti,  dovettero  sottomettersi 
e  accogliere  plaudenti  Obizzo  II,  e  Nicolò  I.  Tal  fu  l'entusiasmo  che 
al  solito  i  piaggiatori  decantarono. 

II  papa  intanto  metteva  i  Modenesi  sotto  l'interdetto,  o  ne  li 
scioglieva  secondochè  si  attaccavano  alla  sua  temporale  dominazione, 
o  se  ne  staccavano,  come  prima  colle  scomuniche  e  coi  processi  di 
eresia  avevano  due  volte  tentato  Clemente  V  e  Giovanni  XXII  d'im- 
padronirsi di  Ferrara  (Muratori,  Antichità  estensi^  tom.  ii,  cap.  3 
e  4).  Dal  che  si  vede  sempre  più  il  deplorabile  abuso  delle  armi 
spirituali  per  fini  temporah  e  per  usurpazioni,  e  il  grave  errore  dei 
processi^dell'inquisizione  e  delle  confische  e  pene  temporali  per  cause 
di  eresia,'  che  hanno  tanto  funestato  il  mondo  e  disertato  floride  Pro- 
vincie. Parlando  di  quelli  il  Muratori  esce  in  queste  parole  :  e  Si  la- 
€  guano  tutti  gli  storici  di  que'  tempi  della  mala  fede,  della  frode, 
€  dell'avarizia,  delle  crudeltà  ed  altri  iniqui  portamenti  de'  pastori 
«  della  Chiesa,  cioè  de'  ministri  oltramontani  inviati  dai  papi  a  go- 
€  vernare  le  città  ecclesiastiche,  o  per  dir  meglio  a  conquistar  quelle 
€  che  non  erano  di  diritto  pontificio,  e  a  mettere  sossopra  tutta  l'Italia, 
€  impiegando  in  tali  guerre  il  patrimonio  di  Cristo  e  le  annate  e  le 
e  decime,  destinate  certo  ad  usi  migliori  ;i.  Da  quel  tempo  in  poi 
Modena  stette  sotto  gli  Estensi,  fuorché  per  breve  tempo,  che  da 
Giulio  II  papa  fu  usurpata,  né  da  Leon  X  restituita. 

Anche  Parma,  col  consenso  de' signori  e  del  popolo,  diedesi  «gU 
Estensi,  ma  tale  unione,  che  sarebbe  stata  per  l'Italia  si  vantag- 
giosa, fu  ognora  attraversata  dai  papi,  spinti  dal  nepotismo  e  dall'a- 
more del  temporale  dominio.  " 


410  BIYISTA  CONTBICPOBANBA 

Al  principio  del  secolo  xv  e  ebbe  l'Italia  (è  costretto  a  confessarlo 
uno  scrittoro  assai  retrivo ,  il  Baraldi ,  che  scrisse  una  storiella  di 
Modena  per  T almanacco  di  corte)  il  vantaggio  a  ragione  valutato 
«  tanto  dal  Denina,  cT  essere  afaito  libera  da  daminainone  straniera^  e 
«  l'altro  non  minore  d'essere  stata  a  que'  di  la  sola  fra  le  provSncie 
€  europee  in  cui  fiorissero  le  arti  e  le  lettere,  e  si  formasse  una  mi- 
te lizia  nazionale  e  si  spiegassero  forze  militari  superiori  a  quante  dar 
«  poteva  a  quei  giorni  la  Francia  e  l'Inghilterra».  Locchè  fu  effetto 
per  Io  appunto  dello  slancio  e  della  potenza^  motrice  che  nei  due 
secoli  antecedenti  svolse  la  libertà  nei  suoi  stessi  traviamenti.  Bio- 
come  poi  io  mi  proposi  di  dare  piuttosto  una  idea  del  pubblico  di- 
ritto ohe  dominò  questi  paesi,  che  di  vicende  d'altra  fotta,  io  debbo 
notare  che  sebbene  gli  Estensi  fossero  stati  chiamati  a  reggere  que- 
ste Provincie  per  evitare  i  mali  delle  guerre  tra  competitori,  tutta- 
via ad  ogni  apertura  di  successione  i  popoli  di  Ferrara,  Modena  e 
Reggio,  ed  anche  alcune  comunità  inferiori,  costumavano  eleggere 
il  successore  in  proprio  signore,  per  conservare  la  memoria  e  natura 
del  principato  civile  elettivo  e  non  feudale.  Per  lo  che  noi  vediamo  le 
successioni  estensi  non  sempre  aver  seguito  esattamente  il  principio 
ereditario.  Cosi  alla  morte  di  Nicolò  III,  a  preferenza  di  Ercole  e 
Sigismondo,  figli  legittimi  di  lui,  successe,  nel  1441,  Leonello  na- 
turale, e  a  Leonello,  anziché  il  figlio  Nicolò,  successe  nel  1450  il 
fratello  Berso,  figlio  naturale  anch'esso  di  Nicolò  III  ;  e  nel  1353  ad 
Obiazo  III  successe  Aldobrandino  naturale,  come  più  tardi  ancora 
Cesare  figlio  di  Alfonso,  bastardo.  E  non  solo  di  queste  elezioni 
fanno  menzione  gli  storici,  ma  ne  esistono  i  documenti,  di  cui  alcuni 
riportò  il  Muratori.  Veggansi,  oltre  le  elezioni  di  Azze,  di  ObizzoIII 
e  di  Nicolò  I,  quella  di  Obizzo  II,  di  Nicolò  III,  di  Leonello,  di 
Borse,  di  Ercole  I,  di  Alfonso  I,  di  Ercole  II  e  di  Cesare.  Del  sud- 
detto Nicolò  IQ  il  dÌE»e  pur  l'Ariosto  : 

Ve'  Nicolò  che  tenero  fanciullo 

Il  popol  crea  signor  della  sua  terra. 

Per  conseguenza,  sebbene  per  astuta  politica  in  cui  furono  maestri 
gli  Estensi  poetisi  mediatori  abituali  fra  principi  e  potenti,  e  princi- 
palmente tra  la  Chiesa  e  l'Impero,  pretendenti  entrambi  alla  uni- 
versale dominazione,  riuscissero,  se  non  ad  ingrandirsi  molto,  certo 
a  conservar  signoria,  non  avendo  il  coraggio  che  hanno  solamente 
i  popoli  per  resistere  tanto  alla  violenza  d'armi  prepotenti  quanto 
all'abuso  delle  scomuniche,  prendessero  investiture  dal  papa  per  Fer- 
rara e  dall'imperatore  per  Modena  e  Reggio,  non  di  meno  furono 
essi  veri  principi  indipendenti  e  supremi,  e  i  diritti  di  sovi^nità  dai 
loro  popoli  non  da  altri  potenti   riconoscendo  non  potevano  andar 


OBNNI  SOMA  MODBNA  B  €.A  SUA  STOBIA  411 

0O9g«dtti  ft^  oadueitàr  e  a  pe&e  di  feUo&ia  fe^idale.  Notano  il  MBratori 
ed  il  TiraboBchi  cho  giammai  Ferrara  fu  soggetta  al  papa,  e  se  nei  se- 
colo xiy  gli  Betensi  doverono  prenderne  investitura,  ciò  fu  per  ria- 
verla da  ingiusta  occupazione  militare.  Dobbiamo  avvertire  infine  efae 
in  qm*  primi  secoli  di  dedisione  gli  eletti  signori  operavano  come  ora 
direbbesi  oostHusìonalmente,  conoiossiaehò  non  solo  si  guardassero 
bene  ^all'offendere  le  giurate  franchigie,  ma  le  leg^e  facessero  in 
u&ikme  e^col  concorso  del  popolo  e  comuni  delle  città.  Cosi  vediamo 
tiui^i-fet<^  da,  Azze  d*Este  lìel  Ì295>  per  Ferrara,  Modena  e  Reggio 
col  jViscoiili)  capitaiio  di  Milano  e  ool  popolo  e  comune  di  Milano, 
ci^a- Scotti,  capitano  di  Piacenza  e  col  popolo  e  comune  di  Pia- 
ceiiM^e  con  idt^  comuni;  e  nel  1297  una  pace  ed  comune^  di 
Gaffa  vea»e  fermata  dal  mandatario  di  Azeo  e  dai  sindaci  deputati 
dai  Comuni  di  Ferrara,  Modena  e  Raggio;  e  infine,  nel  1299  un'altra 
fu  in  eguale  maniera  conchiusa  col  marchese  di  Monferrato,  i  co- 
omni  di  Pavia,  C^mona,  Bergamo,  Novara,  ecc.  ;  e  nel  1348  con 
L«M^ino  Visconti  e  Mastino  della  Scala.  Costumavano  ancora  allor- 
quando un  principe  potente  chiedeva  il  passaggio  alle  sue  truppe  per 
gli  Stati  di  un  minore,  pattuire  la  più  compiuta  indennità,  alleanza 
ed  appoggio,  oome  vedesi  nello  strcmiento  del  1347  tra  Obizzo  III 
con  Lodovico  re  d'Ungheria.  E  nella  lega  formata  dal  Visconti  di 
Milano  col  Malatesta  di  Brescia,  e  col  Fondolo  di  Cremona  nel  1408 
centro  Ottobono  Teizi,  leggesi  pattuito  che  ogni  conquisti  sit  et  esse 
deieat  sine  ewoeptione  iUms  domim^  ecs  iicfUs  oollegatìs,  em  se  subiicere 
et  detre  telnerU,  Niccolò  ricuperò  Reggio  e  a  lui  si  diede  la  Gar- 
&gnana  (1429).  Notevole  dhritto  de'  popoli  ! 

Fu  Nicolò  III  da  Este  uomo  dato  alle  libidini,  e  a  lui  amareg- 
giarono la  vita  i  rimorsi  e  il  troppo  tardo  pentimento  della  crudele 
uccisione  del  figlio  Ugo  e  della  moglie  Parisina  Malatesta,  che  Byron 
in  dolenti  versi  cantava. 

Dejdorava  già  Dante  il  lusso  che  fino  dai  tempi  suoi  traboccava, 
ma  crebbe  poscia  a  dismisura  per  la  gara  delle  corti  che  i  signorotti 
o  inrincipi  apersero.  Magnifica  era  veramente  quella  degli  Estensi, 
e  forse  alla  politica  loro  giovò,  ma  il  lusso  troppo  si  diffuse,  e  Leo- 
nello intese  porvi  riparo  nel  1447  con  leggi  suntuarie,  con  cui  vietò 
alle  dolane  la  Itmga  coda  degli  àbUi,  e  a  quelle  del  contado  l'uso  della 
seta,  delle  perle  e  degli  ornamenti  d'oro  e  d'argento  ;  e  vietò  pure 
di  spendere  nel  vestiario  e  corredo  più  di  un  terzo  della  dote.  Altra 
ne  fece  Berso  nel  1451  per  reprimere  Tuso  de' tabarri  di  seta  e  dei 
panni  tinti  in  grana^  ossia  in  rosso  e  paonazzo.  Borse  era  uno  di 
que'  prìncipi  ohe  vogliono  imporre  l'ordine  colla  strana  violenza  del 
comando  :  sarebbe  stato  un  buon  Califiò,  ma  non  voleva  impacci  di 
giuridiche  forme  a  quella  sua  peggio  che  sommaria  giustìzia.  Laonde 


412  BinSTÀ  GOMTBIfPORANBA 

ebbe  lode  da  coloro  i  quali  amimo  il  bagliore  di  un  governo  in  cui 
tutto  è  il  principe  e  norma  da  legge  alcuna  non  prende  fuor  che  da 
se  stesso  e  da  una  certa  giustizia,  che  tutta  risiede  in  lui,  operando 
a  guisa  di  intuizione  ;  cieca  quindi,  e  spesso  ingiusta  in  sostanza, 
sempre  nella  forma.  Fu  lode  più  meritata  quella  di  inesorabile  se- 
verità nel  punire  i  cortigiani  e  ministri  che  opprimevano  il  popolo, 
e  lo  assoggettare  se  stesso  nelle  liti  civili  ai  tribunali  e  l'istituire 
un  consiglio  di  giustizia.  Ai  18  maggio  1452  Borse  ebbe  dall'impe- 
ratore  titolo  di  duca  di  Modena  e  Reggio  e  dal  papa,  ai  14  tarile 
1471  ebbe  quello  di  duca  di  Ferrara.  I  Pii  signori  di  Carpi  congiu- 
rarono contro  Berso,  e  cercarono  di  trar  nell'accordo  Ercole,  fratello 
del  duca,  ma  costui  s'infinse,  e  con  male  arti  li  trasse  in  inganno,  e 
poichò  ebbe  tutto,  scoperto,  arrestò  i  congiurati  e  lì  dio  in  mano  al 
fratello  che  spietatamente  punì  gli  accusati,  sebbene  non  poca  nebbia 
vi  fosse  nella  prova  del  fatto,  e  se  non  finta,  esagerata  di  certo  fosse 
la  congiura.  Se  lode  meritò  in  Ercole  l'aver  serbato  fede  al  fratello, 
non  la  meritò  certo  il  tradir  quelli  che  in  lui  avevano  fidato.  Borso 
come  Leonello  e  Nicolò  lasciarono  fama  distinta  per  larghezze  ai  let- 
terati e  per  raccolta  di  manoscritti,  per  la  munificenza  dello  edificare 
e  per  quella  splendidezza  che  dava  allora  risalto  ai  principi. 

Alla  metà  del  secolo  kiv  appartenne  quel  Tomaso  da  Modena, 
pittore,  che  fondò  la  scuola  tedesca  e  in  quello  e  ne'  due  seguenti 
secoli  qui  sfiorirono  parecchi  distinti  pittori,  e  più  ancora  si  res^o 
chiari  i  Modenesi  nella  tarsia  e  negli  intagli  in  legno;  in  ciò  pri- 
meggiarono i  Lendinara  ;  e  nella  plastica  al  secolo  xv  il  Mazzoni,  e 
al  XVI  il  Begarelli.  Il  Lanzi  nella  sua  storia  pittorica  pariandó  della 
sua  scuola  modenese,  epoca  ii,  cosi  si  esprime  :  e  Ninna  città  di  Lom- 
€  bardia  conobbe  più  presto  di  Modena  lo  stile  di  Rafihello,  ninna 
€  città  d'Italia  o  ne  divenne  più  vaga,  o  ne  produsse  in  maggior 
«numero  bravi  imitatori».  Serafino  Serafini  nel  1386  fece  un  qua- 
dro che,  in  occasione  d'essere  trasportato,  fu  giudicato  dipinto  ad 
olio  (TiRABOSCHi,  Storia  delia  letteratura,  voi.  vi,  pag.  2),  ed  essendo 
stato  al  dire  del  Lanzi  (ivi,  Scuola  trentina,  epoca  I),  praticato  a 
Vienna  consimile  esperimento  sopra  im  quadro  del  sunnominato  To- 
maso da  Modena,  contemporaneo  del  Serafini,  pare  se  ne  possa  argo- 
mentiure  che  i  Modenesi  esercitassero  la  pittura  ad  olio  prima  che 
Antonello  da  Messina  ne  spargesse  in  Italia  la  invenzione.  Nò  solo 
Modena  gloriavasi  per  le  arti  belle,  delle  quali  anche  dopò  la  dila- 
pidazione di  Francesco  II  che  vendè  i  quadri  dell'inimitabile  Allegri 
rimangono  splendide  prove  nella  gallerìa  nostra  ed  altrove,  perchè 
per  testimonianza  del  Yidriani  e  non  oravi  arte  che  qui  non  si  eser- 
<  citasse  :  300  telai  da  seta  ed  altrettanti  da  panno  che  lavoravano 
e  di  continuo:  molti  poveri  per  trafficare  ricchi  divenivano  ». 


CBNNI  SOPRA  MODENA  B  LA  SUA  STORIA  413 

A  Borao  succede  Ercole  I  e  diede  esempio  poco  imitato,  poiché 
avendo  Nicolò  figlio  di  Leonello  tentato  con  una  sedizione  togliergli 
il  trono,  lui  solo  condannò  del  capo,  agli  altri  partigiani  tutti  perdo- 
nando.  Al  qual  proposito  racconta  il  Muratori,  che  istigandolo  i  cor- 
tigiani, e  specialmente  il  processante  (che  di  tali  iene  vi  è  sempre 
dovizia)  a  condannar  lunga  mano  di  persone,  delle  quali  gli  porgea 
la  lista  ;  il  duca,  che  presso  al  fuoco  stava,  prese  tranquillamente  la 
carta,  e  verameiUe  costoro  so»  degni  di  castigo  (disse)  voglio  darlo  ben 
rigoroso,  e  sarà  qnello  del  fuoco,  e  in  ciò  dire  gettò  la  carta  al  fuoco, 
soggiungendo:  non  sono  ora  ben  castigati?  non  me  ne  parlate  pie  dun- 
que. A  hiì  diede  Giberto  Pio,  in  cambio  d'alcune  castella,  la  metà  del 
principato  di  Carpi,  e  Alberto  Pio,  mal  soffrendo  compagno  si  potente, 
ne  divenne  implacabile  nemico,  e  fini  col  perdere  il  principato  nel  1525. 
B  così,  dice  il  Muratori,  uomo  di  niuna  fede  cangiò  piil  volte  mantello, 
ma  con  sua  totale  rovina  infine,  e  così  sia  sempre.  Cominciò  cosi  a  ritor- 
narsi il  ducato  di  Modena  a'  suoi  naturali  confinì,  riprendendo  ciò  di 
coi  investiture  senza  ragione  come  senza  diritto  dai  papi  o  dagli 
imperatori  concesse,  aveanlo  privato,  imperocché  vedemmo  già  Carpi 
aggiudicata  ai  Modenesi  nel  1217  e  1256  con  lodi  d'arbitri.  Del  qual 
costume  d'arbitraggio  nelle  questioni  politiche,  fa  pur  d'uopo  dar 
cenno,  siccome  uno  dei  migliori  ritrovati  del  medio  evo  per  impedire 
le  guerre  e  per  mettere  pure  in  mezzo  alla  violenza  della  politica 
barbarica  un  poco  di  giustizia.  Compromettevasi  per  solito  i  giure- 
consulti 0  magistrati  o  principi  stimati  per  la  giustizia  loro  e  per 
l'intelligenza. 

Ad  Ercole  I,  nel  1505,  succede  Alfonso  I,  marito  di  quella  Lucrezia 
Borgia  di  cui  tante  infamie  e  tante  lodi  risonarono.  Certamente  ad 
accrescere  l'odio  ai  Borgia,  ad  ingrandirne  agli  occhi  del  mondo  le 
turpezze  ed  i  misfatti  che  comuni  ebbero  a  tutti  quanti  i  principi  e 
potenti  d'allora,  e  a  velare  gli  alti  spirrti  che  almeno  all'unità  d'Italia 
tendeano,  e  che  ottennero  il  suffragio  di  Machiavello ,  contribuì  il 
congiungersi  in  uno  scopo  i  nemici  del  papato,  i  partigiani  degli 
spodestati  signorotti  e  lo  stesso  formidabile  e  non  molto  migliore 
Giulio  n.  Così  papisti  e  antipapisti,  uomini  austeri  e  uomini  corrotti, 
scrittori  e  letterati  d'ogni  fotta  si  scatenarono  contro  costoro. 

Di  malincuore  e  restio  sposossi  Alfonso  a  Lucrezia,  ma  questa 
celebre  donna  in  Casa  d'Bste  diportossi  da  saggia  e  cortese  princi- 
pessa e  morì  amata  dal  popolo,  come  narra  il  sempre  grande  Mu- 
ratori. Del  quale  riportar  voglio  il  giudizio  su  Giulio  U  perchè  tocca 
le  più  importanti  quistioni.  Premesso  che  Giulio  violato  aveva  i 
giuramenti  della  lega  di  Cambray,  ei  prosegue  :  <(  Ma  Giulio  II  noi\la 
«  mirava  sì  per  minuto.  Chiunque  non  è  afifotto  forestiero  nella  storia, 
«  non  ha  bisogno  d'imparare  da  me,  che  questo  pontefice,  benché  il 


414  BinSTA  OONTBMPOBàNBA 

«  fecesse  la  fortuna  bassamente  nascere  in  una  villa  del  territorio 
€  di  Savona,  pure  a  lui  contribuì  un  animo  g^rande  e  non  inferiore 
«  a  quello  do'  maggiori  monarchi.  Impetuoso  ne'  suoi  a£Eètti,  impla- 
«  cabile  ne' suoi  odii,  infaticabile  nelle  sue  imprese,  per  lo  più  altra 

<  legge,  altro  limite  non  conosceva  alle  risoluzioni  sue  che  il  prò* 
«  prio  volere.  Di  genio  bellicoso,  pareva  formato  per  essere  piuttosto 
«generale  d' un'armata  che  pastore  della  Chiesa  universale  di  Dio, 
«  la  cui  vera  gloria  è  riposta  non  già  nel  conquisto  di  beni  e  Stati 
«  temporali,  ma  si  bene  in  quello  dell'anime,  e  in  cui  discredito  fia^ 
€  cilmente  toma  qualùnque  guerra  ^  intrapresa  non  dalla  necessità 
«  della  difesa  della  fede  e  de'proprii  Stati,  ma  dall'inquieta  ambizione  ». 
E  poscia  €  a'  di  9  d'agosto  d'esso  anno  1510  fulminò  la  scomunica 
«  contro  di  lui  (Alfonso  d'Este),  dichiarò  lui  decaduto,  e  scomunicato 
«  chiunque  gli  porgesse  aiuto,  con  tutta  Taltra  serie  di  quelle  ma* 

<  ledizioni  e  pene  spirituali  e  temporali  e  parole  pregnanti  che  inven- 

<  tate  contro  i  più  perversi  eretici,  passarono  poi  in  uso  anche  per 
«  sostenere  i  fini  politici  centra  de' cattolici  >.  Due  fratelli  di  Alfonso 
cospirarono  contro  di  lui,  nò  senza  ragione,  come  di  recoite  mostrò 
il  sig.  Antonio  Cappelli  nella  prefazione  alla  da  lui  pubblicata  let- 
tera dell'artista,  ma  diverso  dal  padre  salvò  una  durissima  vita  ai 
fratelli,  sterminò  i  complici,  e  fu  vero  anche  qui  che 

Perir  denno  i  plebei  furfanti  oscuri 
Perchè  i  furfanti  illustri  sian  sicuri. 

Giulio  II  con  inganno,  occupò  Modena,  e  Leone  X  non  ostante 
le  promesse  di  restituirla  all'Estense,  comproUa  dall'imperatore  per 
quarantamila  ducati,  quanti  ne  fruttava  ogni  anno,  divisando  non 
restituirla  mai  più.  Vi  prepose  il  celebre  storico  Guicciardini,  del 
quale  tanta  fu  la  perversità  del  cuore  quanta  la  eccellenza  dello  in- 
gegno. Leone  colla  sua  vita  licenziosa,  spensierata,  ambiziosa,  non 
indegna  de'Borgia,  spianava  la  via  alle  eresie  di  Lutero,  di  Calvino 
e  di  Zuinglio  ;  e  le  vedea  nascere  e  non  le  curava,  non  d'altro  sol- 
lecito che  d'ingrandire  i  Medici  suoi. 

Furono  codeste  usurpazioni  avvertimento  ai  principi  quanto  er- 
rassero allorché  le  legittime  dedizioni  e  il  civile  principato  e  i  patti 
co' popoli  cangiarono  in  feudali  investiture,  che  gli  imperatori  e  papi 
per  oro  e  per  argento  vendevano  e  comperavano.  Alfonso  seppe  pro- 
fittare della  lotta  fra  Carlo  V  e  Clemente  VII  per  ricuperare  i  suoi 
Stati,  ed  ebbe  prima  Reggio,  poi  Modena  nel  1527.  Lodalo  il  Mura- 
tori, che  moffnanimQ  com'era  perdonò  Mio  il  passato  ;  ma  in  verità  e* 
pare  che  qui  il  sommo  storico  prodighi,  contro  il  suo  costume,  im- 
meritata lode.  Con  quale  apparenza  di  giustizia  avrebbe  potuto  Al- 
fonso punire  ne'  Modenesi  un  sopruso  che  fu  opera  solo  deirimpera- 


CESm  80PRA  MODBNA  B  LA.  SUA  STOBIA  415 

tore  e  del  papa?  Lode  più  vera  fu  *ad  Alfonso  il  non  aver  voluto  mai 
impor  nuove  gravezze,  né  fra  le  stesse  angustie  di  lunghissime  guerre 
lasciar  che  mai  fosse  ai  professori  ritardato  lo  stipendio,  e  Tessere 
stato  popolare  ed  amante  di  conversar  coi  popolani  lungi  dal  fasto 
della  corte.  Fu  eccellente  nelle  artiglierie  ch'egli  stesso  fabbricava 
e  dirigeva,  e  non  buono  ma  pur  migliore  che  il  fratello  Ippolito  cardi- 
nale, noto  mecenate  dell'Ariosto,  il  quale  mondano,  superbo,  guerriero, 
politico  più  assai  che  letterato  e  prete  (benché  molti  e  molti  vescovadi 
avesse)  mori  poco  amato  dal  popofó.  Alfonso  fece  dell'Ariosto  un  gover- 
natore della  Garfagnana.  Ora  uscirono  in  luce  per  cura  del  nostro  dili- 
gente ed  erudito  Antonio  Cappelli  interessanti  lettere  che  di  là  seri* 
veva  al  duca  il  non  men  buono  govemator  che  poeta.  Narrasi  ancora 
di  Alfonso  che  alleato  essendo  de'  Francesi  e  chiamato  a  soccorrerli 
contro  gli  Spagnuoli,  che  erano  loro  addosso,  dicesse:  lasciate:  già 
san  tutti  nemici  noitrii  Dura  parola  ma  di  recondito  senso  politico. 

Ercole  II,  figlio  di  Alfonso,  per  forti^car  Modena  spianò  con  grave 
danno  gli  ampii  sobborghi,  per  lo  che  doverono  emigrar  non  poche 
famiglie,  fra  le  quali  quelle  de'  Reni,  onde  in  Bologna  usci  poscia  il 
famoso  Guido,  pittore.  Né  a  ristorar  la  perdita  bastò  l'avervi  poscia 
aggiunto  quel  tratto  che  cerranuova  o  addizione  erculea  pur  nomasi. 

A  quante  città  fa  danno  la  mania  delle  fortezze!....  Fu  gloria  a 
Modena  allora  lo  aver  vescovo  il  cardinal  Morene,  che  poi  presiedè  al 
Concilio  di  Trento.  L'aver  fondato  il  seminario  e  due  collegi!  d'orfani  ; 
e  le  cure  datesi  per  alleviar  la  fame  del  1539  gli  procacciò  il  titolo  di 
padre  della  patria.  Il  saggio  Morene  con  prudente  formola  seppe  so- 
pire i  sospetti  di  tendenze  luterane  che  eransi  formati  sull'accademia 
che  avea  fondata  il  Grillenzone.  L'accademia  fu  sciolta,  ma  nessuno 
perseguitato.  Ma  l'umano  e  prudente  contegno  del  Morone  e  del  suo 
successore  Egidio  Foscherari,  benefico  e  pio  esso  pure,  mossero  gli 
sdegni  del  feroce  Paolo  IV  dei  Carafa,  sognator  di  roghi  e  di  man- 
naie, sicché  il  presidente  del  Concilio  tridentino  si  vide  ristretto  in 
Castel  Sant'Angelo.  Fortuna  volle  che  poco  lungamente  vivesse  colui, 
ma  non  si  poco  che  non  finisse  di  perdere  la  Chiesa  d'Inghilterra  col 
tracotante  metro  che  tenne  con  Elisabetta,  trattandola  di  sua  vas- 
salla  e  di  bastarda,  e  intimandole  scendere  dal  trono.  Anche  allora 
l'amor  del  dominio  fece  si  larga  piaga  nel  seno  della  Chiesa.  Ercole 
Estense  proibì  i  duelli,  e  gli  die  lode  il  BartoU  de'  favori  onde  colmò 
il  nascente  istituto  di  Lojola,  e  d'avere  arrestato  Calvino,  che  presso 
la  duchessa  Renata  di  Francia  erasi  introdotto.  Evase  Calvino  e  la 
duchessa  fu  rimandata  in  Francia  dove  mori  settatrice  di  quel 
novatore. 

Succede  ad  Ercole  Alfonso  II,  alla  corte  del  quale  fu  cosi  infelice 
il  Tasso.  Abbenchè  il  Muratori  cerchi  pur  di  scusarlo,  non  può  a 


416  nnriSTA  oontbhpobakba 

meno  di  confessare  che  fu  costui  uomo  capriccioso,  bizzarro^  punti* 
glioso,  smanioso  di  preminenza,  prodigo  ad  aggravio  de'  soggetti  e 
pieno  di  mille  altre  colpe,  perlocchè,  non  amato,  preparò  al  suo  suc- 
cessore la  perdita  di  Ferrara.  Nuove  e  diligenti  ricerche  non  permet- 
tono di  afifermare  gli  amori  del  Tasso  colla  sorella  di  quel  principe  : 
nulla  si  trovò  negli  archivii  che  li  accennasse. 

Alfonso  II  lasciò  morendo  il  trono  a  Cesare  suo  cugino,  nato  da  un 
Alfonso  bastardo  legittimato  di  Alfonso  I.  Ciò  fu  pretesto  alla  pre 
potente  ambizione  degli  Aldobrandini,  Clemente  Vili  e  nipoti  suoi 
per  impadronirsi  di  Ferrara. 

Violenza  aperta  delle  armi,  terror  di  scomunica,  tradimenti  del 
inganni  d*ogni  fatta  furono  i  mezzi  che  gli  Aldobrandlui  adoperarono 
per  impadronirsi  di  quella  città ,  su  cui  altro  diritto  non  avevano  i 
papi  fuorché  del  censo,  che  per  sottrarsi  alla  prepotenza  avcvan  dovuto 
promettere  gli  Estensi.  Gli  portarono  via  anche  Comacchio  ed  altri 
feudi  imperiali  e  una  immensa  quantità  di  beni.  Cesare,  d'animo 
pusillo  e  pacifico,  cui  la  g^elòsia  d'Alfonso  aveva  sempre  tenuto  lungi 
dal  governo,  privo  d'appoggio,  privo  dei  denari,  ohe  mal  prodigato 
aveva  Alfonso,  mal  preparato  a  codesta  rapina,  non  volle,  o  non 
seppe,  0  non  potò  difendersi,  e  si  rivolse  alle  vie  dell'agnello  col 
lupo.  Invocava  la  costituzione  di  san  Gregorio  Magno,  inserita  nel 
decreto  di  Graziano.  8i  papa  cum  aliquo  causam  habet^  non  débet  ipse 
estejudex  et  rem  oeenpare  sed  arUtros  eligere.  Pregava  e  scongiurava 
il  povero  Cesare  perchè  il  papa  destinasse  egli  stesso  un  giudica 
imparziale,  ma  il  papa  voleva  occupare,  usurpare,  non  esaminare. 
Vane  tutto  le  rimostranze  del  suo  ambasciatore,  che  come  molesto 
insetto  il  papa  discacciava.  La  Camera  apostolica  resa  giudice  e  parto, 
invocando  la  massima  che  il  fisco  non  litiga  a  mani  vuoto  ed  altre- 
tali  che  certi  vilissimi  giurisperiti  somministrarono  alla  avidità  dei 
potonti,  si  tonno  in  possesso  della  roba  altrui,  né  mai  restituì ,  ed 
empio  ed  immeritovole  della  porpora  si  dichiarò  il  Muratori,  che  un 
secolo  e  mezzo  dopo  le  forti  ragioni  degli  Estensi  adduceva.  Adope- 
rossi  violenza  ad  impedir  tostimonianze,  si  espilarono  gli  archivii,  e 
il  preso  colla  forza  seguito  a  godersi  in  pace,  troppo  essendo  fÌEU^ile 
che  chi  è  e  potente  e  possessore  della  roba  altrui,  si  rida  delle  ragioni 
e  doglianze  altrui  scompagnate  dalla  potenza  >  {Muratori), 

Fu  ad  altro  tempo  riservato  l'esame  del  diritto,  e  questo  tempo 
non  venne  mai,  non  ostante  le  proteste  di  Cesare  e  de' suoi  succes- 
sori. Alla  Chiesa  rimase  il  possesso,  e  Cesare  dovè  segnare  a'  12  gen- 
naio 1598  la  Convenzione  Faentina^  colla  quale  quasi  legittimava 
l'usurpazione;  e  la  diplomazia,  che  sempre  applaude  ai  fortunati, 
plaudl. 

Per  edificazione  di  chi  pur  sempre  vagheggia  le  scomuniche  ad 


CBNNI  SOPRA  MODENA   E  LA  SUA  STORIA  417 

appoggio  di  temporale  dominazione,  aggiungerò  che  al  povero  Ce- 
sare, il  quale  almeno  poteva  credere  di  essere  duca  di  Ferrara,  il 
papa  lanciò  contro  tutte  le  scomuniche  e  le  maledizioni  del  cielo,  lo 
privò  di  tutte  quante  le  città,  terre  e  beni  allodiali,  che  tenesse  da 
qualche  chiesa,  estese  le  scomuniche  e  gli  anatemi  non  solo  ai  suoi 
aderenti,  ma  pure  a  chi  non  lo  avesse  perseguitato,  dichiarandoli 
in/amiyjncapaci  di  successioni,  contratti,  onori  ed  ujfflcii;  minacciò  la 
scomunica  all'imperatore,  a  tutti  i  re  e  principi,  comandò  che  egli 
fosse  assalito  e  perseguitato;  diede  licenza  di  torgli  a  mano  salva 
tutti  i  heni  mobili,  immobili,  ecc.,  in  qualunque  luogo  del  mondo,  con- 
cesse le  città  e  terre  a  lui  ubbidienti  in  preda  al  saccheggio,  decretò 
che  i  fautori  di  Cesare  divenissero  schiavi  di  chi  li  prendesse,  e  ai  per- 
secutori diede  la  benedizione  apostolica^  indulgenza  plenaria  e  remis- 
sione de'  peccati  II  !...  Ma  cessiamo,  e  deploriamo  si  strano  abuso  del 
più  sacro  de' poteri,  e  limitiamoci  a  dir  che  mentono  coloro  i  quali 
fan  merito  ai  papi  della  abolita  servitù,  se  i  papi  si  facevan  lecito  di 
autorizzarla  e  comandarla  solennemente  al  cadere  del  secolo  xti. 

Ferrara  che  sperò  mitra  e  cappelli  (come  spiritosamente  disse  il 
Tassoni),  trovò  vuote  di  eCTetto  le  papali  promesse,  e  si  spopolò  e  di- 
venne qual  la  veggiamo.  Il  papa,  appena  padrone,  atterrò  ben  quat- 
tromila case,  e  chiese,  e  monasteri,  e  palagi,  e  ville,  e  portò  via  i 
quadri,  e  in  quella  vece  le  impose  sul  collo  quella  cittadella  minac- 
ciosa, la  quale  costò  poi  a  Ferrara  tante  ambascio  e  dolori.  Intanto 
serva  questo  fette  di  risposta  agli  adulatori  de' papi,  che  tutte  le  pro- 
vincie  loro  non  vennero  di  spontaneo  dono  e  di  legittimo  acquisto. 
<  Oltre  di  che  (  aggiunge  il  buon  Muratori  ) ,  i  medesimi  sommi 
«pontefici  ai  quali  pure  ha  conferito  il  cielo  tanti  privilegii  pel 
«governo  spirituale  della  Chiesa  dì  Dio,  e  per  la  conservazione 
«  della  vera  dottrina  del  Vangelo ,  non  hanno  mai  creduto  e  per- 
«  mettono  bene  ch'altri  noi  creda,  d'avere  eziandio  come  uomini 
«  e  come  principi  temporali  esenzione  dalle  cupidità  umane ,  dalle 
«  passioni  e»  dagli  errori  in  ciò  che  riguarda  l'uso  e  maneggio  delle 

«cose  terrene  e  il  governo  delle  signorie  mondane E  non  man- 

«  careno  allora,  anzi  neppure  sono  mancate  a'  di  nostri  persone  divote, 
«  le  quali  o  han  creduto,  o  hanno  voluto  far  credere  che  intervenisse  la 
«  mano  miracolosa  di  Dio  a  quel  trionfo  della  Camera  apostolica,  quasi 
«  che  il  divino  Salvator  nostro  avesse  dato  alcun  segno  di  premura 
«  per  i  regni  del  mondo,  e  noi  non  avessimo  chiaro  il  concorso  degli 
«  accidenti  e  mezzi  umani  co'  quali  fu  spogliata  la  Casa  d'Este  del 
«possesso  della  città >.  Pretesto  dello  spoglio  era  che  Alfonso,  padre 
di  Cesare,  fosse  figlio  naturale  di  Alfonso  I  e  di  Laura  Eustochia, 
vedovo  quello,  nubile  questa,  e  lo  fu  difatto;  ma  legittimato  pel 
matrimonio  seguito  del  duca  con  lei  di  bassi  natali  bensì,  ma  di  beltà 

mpista  (7.-27 


418  RIVISTA  CONTBMPOBANBA 

e  virtù  fornita.  E  provato  fu  (come  può  largamente  vedersi  presso  il 
Muratori),  che  Alfonso  duca  sposò  questa  sua  amante,  la  quale  per 
insin  che  visse  fu  riconosciuta  e  trattata  dal  marito,  e  dopo  lui  dal 
figliastro,  da  tutti  i  principi  di  Casa  d^Este  e  d'altre,  dai  ministri  e 
pubblici  uffiziali,  da  tutto  il  popolo  come  vera  moglie  e  vedova  del 
duca  ;  principessa  e  duchessa  vedova  Estense,  ebbe  funerali  e  sepol- 
tura ducale,  i  suoi  figli  furono  per  legittimi  riconosciuti  dal  padre, 
dai  firatelli,  da  tutti.  Oltre  a  ciò  nell'investitura  che  Alessandro  VI 
papa  diede  di  Ferrara  agli  Estensi,  comprendevansi  anche  gli  ille- 
gittimi. Se  non  che  furono  gli  Estensi  puniti  di  avere  abbandonato 
il  diritto  che  loro  derivava  dal  popolo  per  seguir  quello  delle  investi- 
ture. L'imperatore  Ferdinando  II  e  altri  suoi  successori  pronuncia- 
rono a  favor  degli  Estensi,  ma  la  Santa  Sede  fece  orecchie  da 
mercante. 

Modena  intanto  guadagnò  per  la  venuta  di  Cesare  e  si  popolò  di 
famiglie  ferraresi  rimaste  a  quello  fedeli,  si  arricchì  del  suo  archivio, 
del  suo  museo  e  della  sua  biblioteca;  ma  nocque  questo  trasporto 
della  sede  ducale  perchè  introdusse  in  Modena  i  costumi  aristocratici 
comprimendone  le  franchigie  e  i  popolari  istituti.  Fu  assassinato 
Marco  Pio  signor  di  Sassuolo  ed  altre  castella,  uomo  malvagio  e  tor- 
bido, e  il  duca  saggiamente  seppe  resistere  alle  sollecitazioni  del  papa 
che  pur  voleva  infeudati  altri  di  quella  famiglia.  Cosi  i  pontefici,  che 
in  altri  tempi  avevano  perorato  la  causa  de' popoli  contro  i  potenti,  ora 
peroravano  pe' feudi!....  Il  duca  dovè,  per  l'interposizione  di  Carlo 
Emanuele  di  Savoia,  redimere  con  215  mila  scudi  romani  la  lite  mos- 
sagli dai  Pii  al  tribunale  imperiale.  Nuova  conseguenza  dell'adulterato 
diritto  pubblico  italiano,  che  i  principi  nostri  aveva  resi  vassalli  del- 
l'Impero. Qui  noterò  che  a  Modena  fin  dalla  metà  del  secolo  xvi  era 
stata  istituita  una  milizia  di  quartiere,  detta  d^caporioni^  la  quale 
occupava  il  primo  luogo  nelle  truppe,  e  tranne  il  nome,  equivaleva 
alla  guardia  nazionale  de'  giorni  nostri.  Codesta  milizia  cittadina  du- 
rava ancora  sui  primi  del  secolo  xviii  e  aveva  2000  uomioi  armati  di 
moschetti  e  di  picche. 

Sotto  il  duca  Cesare  furono  aperti  in  Modena,  secondo  l'uso  dei 
tempi,  parecchi  monasteri,  e  nel  1612  si  cominciò  una  congregazione 
di  preti  secolari  detti  di  San  Carlo,  e  nel  1626  fu  aperto  da  essa  il 
collegio  de' nobili,  salito  poi  a  molta  rinomanza  e  ora  pur  sussistente. 
Disse  di  Cesare  (morto  nel  1628)  il  Muratori,  che  e  in  benignità  e  in 
«  amorevolezza  non  ebbe  pari,  non  aggravò  mai  di  nuove  imposte  i 
€  suoi  sudditi,  e  nelle  opere  di  pietà  andava  innanzi  agli  altri  ».  Suc- 
cessegli Alfonso  III,  che  fu  poi  cappuccino.  Fu  dato  alle  lettere  e  pro- 
motore di  studii,  ma  di  una  indomabile  iracondia,  e  nelle  concepite 
vendette  irremovibile,  e  come  dice  il  Litta,  il  suo  sguardo  atterriva^  il 


CBNNI  SOPIU  MODENA  B  LA  SUA  STORIA  419 

SUO  cuore  i^n  perdonata  mai.  Egli  voleva  essere  temuto,  e  lo  era,  e 
non  amato,  e  poco  frutto  ottenevano  le  dolci  insinuazioni  della  moglie 
Isabella  di  Savoia.  Codest' anima,  trambasciata,  non  poteva  trovare 
pace,  altro  che  nel  chiostro,  e  mortagli  la  moglie,  novello  Carlo  V, 
si  fé'  cappuccino  zelantissimo,  predicando  penitenza.  I  principi  però, 
ancorché  cappuccini,  son  sempre  diversi  dagli  altri.  Passò  per  No- 
nantola,  piccolo  paese  poco  lungi  da  Modena,  Alfonso,  ossia  il  Padre 
Giambattista,  com*ei  nomavasi,  e  fu  alloggiato  dal  capitan  di  ragione. 
Ora  questi  diede  al  Comune  un  conto  di  spesa,  per  due  giorni,  di 
venti  zecchini,  che  al  di  d'oggi-  certamente  sarebbero,  avuto  riguardo 
alla  proporzione  del  danaro  colle  derrate,  ben  più  di  2000  franchi, 
e  potè  anche  in  lui  vedersi  ciò  che  ne*  potenti  resi  claustrali  quasi 
sempre  si  vide:  i  superiori  imporre  loro  precisamente  ciò  che  essi 
desiderano. 

Francesco  I  succede  al  padre  nel  1629  in  età  di  soli  anni  19.  Nel 
1630  Modena  fu  assistita  dalla  peste,  e  il  Comune  aperse  tre  lazza- 
retti, due  in  città  ed  uno  fuori.  Al  l'»  di  novembre  fece  voto  e  13 
giorni  dopo,  cadendo  la  festa  di  Sant'Omobono,  cessò  il  flagello, 
perlocchè  Modena  assunse  quel  santo  a  comprotettore,  e  pochi  anni 
appresso,  con  disegno  del  Oallaverna,  costrusse  la  chiesa  detta  per- 
ciò votiva.  Sotto  Francesco  I  si  intraprese,  sopra  disegno  del  romano 
Avvanzini,  il  grandioso  ducale  palazzo  di  Modena,  e  quello  di  Sas- 
suolo, e  la  cittadella.  La  Spagna  e  l'imperatore  avevano  privo  il 
principe  di  Correggio  del  suo  principato,  e  per  230  mila  fiorini  d'oro 
il  venderono  al  duca  Francesco,  poiché  lo  spogliato  principe  non  va- 
leva a  sborsar  tanto.  Francesco  fu  che  imprigionò  gli  ebrei  nel 
ghetto:  cosa  contro  alla  politica  e  all'umanità,  che  meglio  è  neg&r 
ricetto  che  darlo  a  condizione  di  servaggio,  e  l'oppressione  avvilì, 
intristì  e  inimicò  gli  israeliti.  A  Francesco  si  dà  lode  di  spiriti  elevati 
e  pe'  quali  emular  voleva  i  più  potenti  sovrani  ;  difetto  e  non  pregio 
fu  codesto,  e  negli  Estensi  non  infrequente.  Più  vera  lode  ei  me- 
ritò per  l'amore  alla  giustizia  e  per  l'ascoltar  che  faceva  anche  per 
le  vie  i  richiami  del  popolo,  che  assai  se  ne  contentava.  Racconta  il 
Muratori  com'egli  fosse  solito  dire  a  chi  nel  biasimava  «  questo  esser 
€  l'obbligo  principale  del  principe,  che  siccome  il  buon  servitore  non 
«  ha  óra  alcuna  determinata,  in  cui  non  sia  tenuto  a  servire  il  suo 
e  padrone  che  lo  paga,  cosi   del  pari   niun  principe  ha  ora  in  cui 

<  non  sia  obbligato  ad  ascoltar  il  suo  popolo  e  ad  amministrargli 

<  giustizia,  poiché  principalmente  per  questo  uffizio  é  salariato  dal 
«popolo,  che  gli  paga  i  tributi.  Ma  sopratutto  si  osservò  sempre 
«  un'incredibile  premura  e  attenzione  di  questo  principe  perchè 
€  ì  grandi  non  soperchiassero  i  piccoli,  né  i  suoi  cortigiani  infe- 
€  risserò  aggravio  alcuno  a  chicchessia,  e  fu  sentito  dire  più  fiate 


420  RIVISTA  OONTBMPORANBA 

«avere  appunto  la  divina  provvidenza  posto  sul  trono  ì  principi 
«afl^chè  la  loro  autorità  e  possanza  contrappesasse  la  disùgua- 
«  glianza  de'  sudditi,  col  non  permettere  che  la  forza  e  ricchezza  degli 
«  uni  recasse  oltraggio  a  danno  alla  debolezza  e  povertà  degli  altri  ». 
Nel  che  è  buona  massima  di  governo  per  un  principe  asaduto,  ma 
scorgesi  esser  state  affatto  dimenticate  le  popolari  franchigie  che  i 
Modenesi  si  riserbarono,  dandosi  agli  Estensi. 

Alla  corte  di  Francesco  T  vissero  tre  chiari  poeti,  il  Tassoni,  il 
Testi  e  il  Oraziani:  che  il  primo  ne  fosse  contento  non  pare  dallo 
spiritoso  epigramma  ch'ei  pose  intorno  al  proprio  ritratto,  facendosi 
dipingere  con  un  fico  in  mano. 

*  Dextera  cur  ficum  quaeris  mea  gestet  inanem  ? 
Longi  operis  merces  haec  fuit  :  aula  dodit. 

Ei  fu  del  resto  profondo  e  libero  pensatore  non  meno  in  politica 
che  in  letteratura  ed  in  filosofia.  Alle  sciagure  del  Testi  ,  seb- 
bene di  soverchia  ambizione  e  d*imprudenza  si  voglia  desso  accagio- 
nare ,  contribuì  più  di  tutto  la  tortuosa  politica  del  duca.  Sperasi 
veder  messa  in  luce  quella  storia  dolorosa  di  due  nostri  eruditi  e 
di  documenti  fiancheggiata.  Lo  servì  giovane  il  gran  Montecuc- 
coli.  Francesco  I  morì  nel  14  ottobre  1657 ,  e  gli  succedeva  Al- 
fonso lY,  marito  alla  Martinoazi,  nipote  al  celebre  cardinale  Ma- 
zarino,  donna  che  il  Muratori  chiama  superiore  al  suo  sesso,  e  che 
pel  breve  regno  del  dappoco  marito  resse  lo  Stato.  Alfonso  crebbe 
la  galleria ,  che  oramai  divenne  una  delle  più  famose  d'Italia ,  e 
allargò  la  città  nell'addizione  Erculea,  e  aveva  pur  divisato  d'ac- 
crescerla a  levante.  Laura,  rimasta  reggente  morto  il  marito,  si  die 
ad  opere  di  pace,  fabbricò  chiese  e  monasteri,  perlocchò  ebbe  da 
Clemente  X  il  titolo  di  specchio  deUe  principesse  devote.  Lasciò  arrobur 
milizie  per  Francia,  ed  ella  stessa  arrolò  un  reggimento  per  YeneziA, 
represse  l'autorità  e  prepotenza  dei  feudatari],  e  continuò  e  condusse 
quasi  a  termine  il  palazzo  ducale,  e  diede,  ordini  per  Tinquilinalo 
degli  Ebrei. 

.  Maritò  la  figlia  al  duca  di  Yorck  poi  Giacomo  II  Stuardo,  che 
seguendo  zelatori  imprudenti,  e  malgrado  gli  avvertimenti  dd  papa 
istesso,  volle  a  forza  ristabilire  in  Inghilterra  la  religione  cattoli<m, 
perlocchè  ne  perdo  il  trono,  e  nocque  a  quella  stessa  religione  che 
favorir  voleva.  Ritornata  dall'Inghilterra,  dove  aveva  condotta  la 
figlia.  Laura  trovò  che  il  figliuolo  suo,  Francesco  II  di  14  anni,  erasi 
dichiarato  maggiorenne  e  assunto  il  governo  senza  voler  più  saperne 
della  madre,  e  i  perpetui  lodatori  degli  Estensi  lodano  Laura  e  lo- 
dano Francesco  che  Tesautorò.  Francesco  II  morì  nel  1694,  e  fu  lo- 
dato dai  soliti  panegiristi  per  le  grandi  spese  fatte  in  cantanti  e  suo- 


CENNI  SOPHA  MODENA  B  LA  SUA   STORIA  421 

natori,  e  decorazioni,  e  seene  di  teatro;  e  son  quelli  che  più  contro  ^ 
il  teatro  declamano.  Modesta,  ma  più  sincera  lode  che  la  grandiosità 
e  magnificenza,  e  la  mania  guerresca,  e  i  raggiri  di  tortuosa  politica 
meritò  Francesco  II  per  amore  alla  giustìzia,  per  odio  alFadula- 
zione,  per  vietar  le  servilità  dei  ministri,  e  più  ancora  per  la  fonda- 
zione, o  a  meglio  dire  la  restaurazione  dell'università  modenese, 
la  fondazione  di  un'accademia,  Tordinamento  della  biblioteca  e  del 
museo  d'antichità.  Morì  senza  figli  nel  1694,  e  gli  succede  Io  zio 
cardinale  Rinaldo,  il  quale  rinunciò  alla  porpora. 

Ebbe  egli  i^  suoi  Stati  invasi  dalle  truppe  nella  guerra  della  suc- 
cessione di  Spagna  e  in  quella  di  Polonia.  Le  truppe  fi^ncesi,  spa- 
gnuole,  tedesche  a  g^ra  lacerarono,  dissanguarono,  tormentarono 
questi  paesi,  peggiori  di  tutti,  gli  Spagnuoli.  Riebbe  infine  gli  Stati. 
Legnosi  nel  Muratori  la  capitolazione  colla  quale  nel  luglio  1734  en- 
trarono in  Modena,  e  le  larghe  promesse  e  il  magro  adempimento. 
Fu  ancor  ritentata  la  quistione  di  Comacchio,  ma  Roma  seppe  spender 
sì  bene  e  maneggriare,  che  riebbe  il  possesso;  del  diritto  sarebbesi 
parlato  poi.  E  venne  vero  ancor  qui  il  detto  dell'antico  Gio.  Vil- 
lani, p$eUo  che  i  chierici  prendono,  tardi  san  rendere.  Molto  non  andò 
che  Roma  dovè  sentir  la  legge  della  forza. 

Àlli  26  ottobre  1737  morì  Rinaldo,  buon  principe  senzesser  grande 
in  cosa  alcuna.  Seppe  spendendo  riunire  al  suo  ducato  quello  di  Mi- 
randola, che  l'impero  confiscò  ai  Fichi,  e  la  contea  di  Novellara  che 
fu  tolta  ai  Gonzaga. 

Il  regno  di  Rinaldo  fu  illustrato  dall'avere  avuto  a  bibliotecario 
e  precettore  de'  figli  il  celebre  Muratori,  il  quale  solo  basterebbe  ad 
onorare  una  nazione  ed  un  secolo.  Egli  mori  regnando  Francesco  III 
nel  1760  ai  23  gennaio  ;  meritamente  chiamato  pndre  della  storia, 
lasciò  monumenti  innumerevoli  di  profonda  erudizione  nel  diritto 
pubblico  e  privato,  negli  studii  ecclesiastici,  nella  letteratura,  nella 
filosofia  :  fu  benefattore  vero  dell'umanità,  della  patria  e  degli  Estensi, 
de' quali  illustrò  il  nome,  difese  i  diritti.  Alcuna  volta  coprì  le  colpe, 
e  più  grandi  o  men  piccoli  lasciò  apparissero. 

A  Rinaldo  succedette  Francesco  III  guerriero,  magnifico,  la  cui  , 
ambizione  soverchia  e  la  prodigalità  fece  molto  male,  come  la  muni- 
ficenza fece  moltissimo  bene  a  Modena  ed  allo  Stato,  e  quindi  la  sua 
memoria,  i  suoi  istituti  durano  ancora  e  può  essere  chiamato  il  nuovo 
fondatore,  il  legislatore  di  Modena,  il  più  grande  de' suoi  principi, 
dal  quale  è  a  dire  alcuna  cosa  di  più.  Ora  rivolgendoci  addietro  per 
dare  uno  sguardo  al  rapido  cenno  che  abbiamo  dato,  noi  diremo  che 
nella  storia  di  Casa  d'Este  si  trova  largamente  prodigato  l'incenso; 
ma  queste  lodi  ridur  si  vogliono  a  giusta  misura.  Se  gli  Estensi 
non  vennero  annoverati  tra  i  peggiori,  porsero  tributo  anch'essi  ai 


422  RIVISTA  CONTBHFORANBA 

vizii  de' tempi,  e  furono  simulatori,  crudeli,  ambiziosi,  rapaci,  sco- 
stumati. Seppero  essi  coprire  i  loro  vizii  cogli  astuti  maneggi,  colla 
magnificenza  e  generosità  verso  i  letterati,  e  colla  devozione  del  fab- 
bricar chiese  e  conventi,  che  l'aristocratica  avarizia  si  incaricava  di 
riempiere  con  isforzate  vocazioni.  Le  quali  doti  procacciarono  loro 
panegiristi  in  gran  copia.  E  TÀriosto  che  di  quelli  fu  uno,  protestò 
contro  le  stesse  sue  lodi  allorché  disse: 

Non  fu  si  santo  e  si  pietoso  Augusto 
Come  la  tuba  di  Virgilio  suona: 
E  sol  l'avere  in  poesia  buon  gusto 
L^  proscrizione  iniqua  gli  perdona. 

La  quale  magnificenza  di  feste,  doni  e  viaggi  è  mezzo  potente  di 
corruzione  doppiamente  dannoso  ai  sudditi,  perchè  in  ultimo  si  paga 
da  loro  e  serve  a  schiacciare  la  libertà  sotto  apparenze  che  impon- 
gono alle  masse  ignoranti  od  irriflessive.  E  come  uno  scrittore  dicea 
parlando  della  corte  di  Roma  a  quel  tempo  istesso  :  t  Un  lusso  sfre- 
t  nato,  continue  depredazioni,  prodigalità  senza  limite,  feste,  diver- 
«timenti,  piaceri  sempre  varii,  sempre  più  dispendiosi  e  mille  altre 
«  cause  di  questa  natura  mettono  e  perpetuano  il  disonore  nelle  fi- 
c  nanze  degli  Stati  più  ricchi  t. 

Noi  lodiamo  Francesco  III,  il  quale  impiegò  in  solidi  ed  utili  edi- 
ficii  quel  danaro  che  i  magnìfici  suoi  antecessori  impiegavano  in 
feste,  la  smania  delle  quali  fu  cagione  ed  effetto  ad  un  tempo  dello 
spegnersi  della  libertà,  ed  arrestò  Io  slancio  che  aveva  preso  il  fab- 
bricare nobili  edifizii  ed  abbellir  la  città.  Sotto  Francesco  III  Modena 
cominciò  a  detergere  l'indicibile  luridezza. 

Francesco  III  ebbe  in  moglie  Carlotta  Aglare  d'Orleans  figlia 
al  celebre  reggente,  donna  da  ogni  più  austera  ed  operosa  vita 
disavvezza  ;  e  poco  dopo  il  suo  avvenimento  al  trono ,  la  catte- 
dra di  San  Pietro  onorossi  dell'immortale  Lambertini.  Francesco 
aveva,  giovine  ancora,  militato  nelle  truppe  imperiali,  e  quando  la 
guerra  della  successione  d'Austria  venne  di  nuovo  a  funestare  questi 
paesi,  parteggiò  per  Francia  e  Spagna  e  per  Carlo  VII,  ed  ebbe  anche 
il  pomposo  titolo  di  generalissimo  del  re  di  Spagna  in  Italia.  Tenne 
la  parte  che  parea  più  potente,  ma  non  sempre  è  destino  che  i  più 
potenti  vincer  debbano.  Nel  Modenese  fu  data  la  importante  battaglia 
di  Camposanto  sul  Panaro.  Per  sette  anni  gli  Austriaci  e  i  Piemon- 
tesi alleati  tennero  lo  Stato  di  Modena,  e  il  Muratori  li  loda  di  mi- 
litar discrezione  e  di  moderato  e  giusto  governo  civile  mercè  il  go- 
vernatore conte  Cristiani  e  il  luogotenente  conte  Amor  di  Scria. 
Nel  1749  Francesco  III  ricuperò  del  tutto  il  ducato,  ma  legò,  affatto 
all'Austria  se  stesso  e  le  sorti  sue  e  dello  Stato.  L'unico  figlio  suo 


CBNNI  SOraA  MODENA  B  LA  SUA  STORIA  423 

Ercole  Rinaldo  aveva  sposata  Maria  Teresa  Cybo,  erede  dei  duchi 
di  Massa  e  Carrara.  Nacquero  da  questo  maritaggio  nel  1750  una 
figlia  Maria  Beatrice  Ricciarda,  e  nel  1753  un  figlio,  che  dopo  sei 
mesi  morì  (e  naturai  cosa  non  parve).  Francesco  fu  tratto  nello  stesso 
anno  1753  ad  un  trattato  in  cui  veniva  egli  creato  governatore  ge- 
nerale della  Lombardia  per  Timperatrìce  Maria  Teresa,  e  per  l'ultimo 
figlio  di  lei  ancora  bambino,  a  cui  sarebbesi  data,  e  il  fu  a  suo 
tempo  (nel  1771),  in  isposa  Maria  Beatrice,  perchè  l'eredità  degli 
Estensi  passasse  in  Casa  di  Lorena.  Ma  lasciamo  i  fatti  che  ne  se- 
guirono per  dir  del  regno  di  Francesco  III  che  fu  pel  tempo  suo  sag- 
gio e  audace  legislatore.  Pose  egli  e  norme  e  freno  ai  feudatari!,  al- 
l'arricchimento delle  chiese  colle  leggi  sulle  manimorte.  Ampliò  e 
quasi  fondò  di  nuovo  l'università,  le  edificò  palagio,  le  diede  stu- 
pendo regolamento,  riunì  in  una  sola  amministrazione  le  opere  pie 
(divisamente  che  allora  parve  ottimo  e  noi  fu)  costrusse  spedali  ,e 
ricoveri  grandiosi  e  magnifici,  raddrizzò  e  allargò  le  principali  vie 
della  città,  coperse  canali  e  cloache,  condusse  magnifica  strada  dal 
confine  mantovano  al  toscano,  ove  da  Leopoldo  I  con  disegno  dello 
Ximens  fu  proseguita,  e  mille  altre  cose  egli  fece,  le  quali  palesa- 
rono l'animo  suo  veramente  elevato,  e  grande  accortezza  nello  sce- 
gliere gli  uomini  cui  affidare  gli  importanti  negozii.  Chiaro  si  rese 
il  suo  nome  anche  pel  codice  che  promulgò  nel  1771,  nel  quale 
raccolse,  perfezionandole,  le  leggi  fatte  prima  da  lui  e  alcune  dei 
suoi  antecessori  e  tutte  le  materie  degli  Statuti  rinnovò  e  messe  nel 
Codice,  che  uniformemente  sancì  per  tutto  il  ducato.  Ma  le  troppe 
guerre  e  il  vivere  lontano  dal  suo  paese  e  la  prodigalità  conseguente 
lasciarono  troppo  funesto  dono,  il  pubblico  fallimento.  Ai  22  aprile 
1780  morì  in  Varese  più  che  ottuag^enario,  cieco,  diviso  dal  figlio  e 
di  abitazione  e  di  animo,  specialmente  dopo  il  matrimonio  di  Maria 
Beatrice.  Se  al  largo  pensare  avesse  unito  lo  spirito  pacifico  ed  eco- 
nomo del  figlio  e  il  saggio  limite  dell'ambizione,  Francesco  III  avrebbe 
resi  felici  gli  Stati  suoi,  e  preso  tra' principi  suoi  contemporanei 
tal  posto  da  non  essere  sì  facilmente  superato. 

Ercole  III,  uomo  di  mediocre  ingegno,  avido  del  danaro,  di  spirito 
ristretto  e  non  creatore,  buono  però,  pacifico,  amante  del  paese,  non 
&8to80,  popolare  quanto  esser  lo  possa  assoluto  signore,  desideroso  di 
giustizia  (abbenchè  nelle  cose  che  toccavano  l'erario  suo,  di  parecchie 
esorbitanze  si  macchiasse) ,  munifico  verso  i  pubblici  stabilimenti , 
sapendo  egli  dividere  il  frutto  di  sua  parsimonia  (lodevole  in  un 
regnante  allora  solo ,  che  a  pubblico  bene  è  rivolta  )  tra  lo  accu- 
mular tesori  per  sé  e  il  fare  opere  utili  al  pubblico.  Questa  sua 
avarizia  era  odiosa  al  popolo,  senonchò  fu  scusa  in  parte  a  lui  la 
prodigalità  eccessiva  del  padre  e  la  previsione  degli  eventi  che  si 


424  RIVISTA   CONTBHPORANBA 

maturavano  in  Eureka.  Narrasi  che  sin  dal  1781  egli  dicesse  ad  un 
francese,  parlando  di  quel  reame  :  é  imposnbUe  che  quisio  regno  sui' 
iuta  ancor  lungo  tempo  :  esso  è  alla  vigilia  d'wna  gran  crisi ^  io  la  ri-- 
tengo  immanchevole  :  ella  sarà  fwusta^  e  ne  attendo  una  totale  dis- 
soluzione. 

Ercole  che  aveva  preveduto  per  tempo  la  morte  del  padre,  e  odiato 
com'era  da*  cortigiani  e  ministri  di  quello,  meglio  ne  aveva  conosciuti 
i  difetti,  li  riformò,  scacciando  coloro  che  troppo  avevano  sec(Hidate  le 
dilapidazioni,  o  abusato  del  potere,  o  eccitate  le  disunioni  della  fami- 
glia. Li  perseguitò  fors*anco  troppo  aspramente ,  e  oltrepassò  giu- 
stizia. Conservò  gli  altri,  e  fece  nomine  per  lo  più  eccellenti.  Lesole 
milizie  si  ridussero  a  vane  comparse,  ma  fornite  però  di  copiosissime 
artiglierie,  avanzo  in  parte  di  quel  suo  avo  Alfonso  che  n  era  stato  Tin- 
ventore  ed  artefice.  Ampliò  gli  spedali,  destinando  luogo  pei  pazzi  e  per 
gli  esposti,  uni  all'università  scuole  zooiatriche,  eresse  raccademia 
di  belle  arti,  istituì  il  collegio  di  Correggio  che  agli  Scolopii  affidò, 
costrusse  ponti  magnifici  sul  Panaro,  sulla  Secchia  e  sul  Crostolo, 
diminuì  le  imposte,  donò  debiti  alle  Comuni.  Perlocchè  poscia,  al 
venir  de'  Francesi,  Ercole  III  fu  dagli  uni  compianto  come  (ìadre  di 
famiglia,  dagli  altri  detestato  come  despota,  avaro  e  spregevole.  Im- 
perocché ,  chi  di  un  vivere  pacifico  e  sicuro ,  e  di  moderato  dispo- 
tismo, e  di  tributi  non  gravi,  e  retta  amministrazione,  e  buone  leggi 
(per  quanto  i  tempi  consentivano) ,  e  buoni  tribunali ,  e  istruzione 
eccellente,  e  del  veder  frenata  la  prepotenza  de'  feudatarii  e  la  cu- 
pidigia del  clero,  accontentavasi,  e  non  mirava  più  innanzi  al  mutar 
de'  tempi ,  meglio  non  poteva  bramare.  E  si  odiava  da  quelli  nei 
Francesi  lo  straniero  invasore,  il  distruttore  violento  e  temerario  di 
ogni  patrio  istituto.  Odiavano  gli  altri  i  privilegii ,  l'aristocrazia , 
il  sistema  stazionario,  il  triviale  libertinaggio,  e  più  ancora  che 
dal  duca  odiavansi  i  liberi  e  generosi  ingegni  dai  boriosi  cortigiani 
al  popolo  infensissimi  e  ciechi  alle  esigenze  de'  tempi.  Costoro  per- 
seguitavano di  carceri  e  vessazioni  la  cittadinanza  svegliata  ed  ar- 
dente, e  colle  stolte  persecuzioni  vieppiù  accendevano  gli  animi,  che 
la  persecuzione  fece  sempre  dei  martiri,  non  delle  conversioni. 

Immedesimato  essendo  colla  casa  d'Austria  pel  matrimonio  e  trat- 
tato del  1753,  il  partito  attaccato  agli  Estensi,  i  liberali  di  quel  tempo, 
si  videro  nel  fatale  dilemma  tante  volte  rinnovatosi  in  Italia  di  sce- 
gliere fra  straniero  e  straniero  ;  i  fervidi  innovatori,  paventando  l'in- 
dole cupa ,  gelata ,  tenace  della  politica  austriaca ,  si  gettarono  in 
braccio  a  quello  straniero  che  in  mezzo  ai  suoi  delirii  mostravasi 
loro  progressivo  e  generoso. 

Rinacque  cosi  la  divisione  di  parte  tedesca  e  francese  che  da  se- 
coli tormentava  l'Italia,  e  più  corrotta  ancor  dell'antica  corruzione 


CBNNI  dOPBA  MODBNA  B  LA  SUA   STORIA  426 

eran  pur  dette  parti  ghibellina  e  guelfa.  Poiché  furono  divisi  in 
queste  due  parti  ambe  straniere ,  lo  spirito  nazionale  rimase  sopito 
e  quasi  distrutto,  e  ne  venne  che  i  Francesi  e  Tedeschi  a  gara  prò- 
varonsi  a  infranciosarle  ed  intedescarle.  Qual  fosse  poi  il  contegno 
de'  Francesi  in  Italia,  quale  la  fedeltà  alle  promesse,  quale  la  gene- 
rosità e  il  disinteresse,  la  storia  severa  noi  può  tacere,  e  bisognerà 
convenire  che  i  vantaggi  a  questi  paesi  vennero  non  per  altrui  dono, 
ma  per  indole  e  virtù  del  popolo,  e  per  necessità  de'  tempi.  Nò  quei 
vantaggi  stessi  poterono  godere  se  non  quando  Napoleone  reggendo 
con  fermo  scettro  e  gli  uni  e  gli  altri,  pose  un  freno  alle  estorsioni 
e  alle  prepotenze  de'  generali  e  commissari  i. 

Invano  aveva  sperato  Ercole  III  di  redimersi  a  danaro,  la  previ- 
denza gli  era  venuta  meno,  lusingandosi  di  poter  pure  scongiurare 
i  tempi.  -Egli  dovè  partire  nel  1796,  lasciando  una  reggenza  che  fece 
le  sdite  prove  di  stolto  governo  e  rabbia  impotente.  Si  ritrasse  il 
duca  a  Venezia ,  e  poscia  a  Treviso ,  dove  mori  nel  1803  pur  rim- 
piangendo la  sua  patria  che  egli  amava ,  e  da  cui  sarebbe  stato 
amato  di  più  se  meno  tesori  avesse  portato  seco  e  meno  spavalderie 
avessero  fatto  le  sue  imbelli  milizie,  e  meno  prepotenze  la  sua  reggenza. 

Qui  breve  digressione  mi  sia  permessa. 

Le  fugaci  e  mal  sicure  signorie  che  sul  cader  del  medio-evo  stra- 
ziavano r Italia,  contrastata  pur  sempre,  né  mai  tranquilla,  parte 
spegneronsi  nel  secolo  xvi,  e  parte  venivano  irrevocabilmente  poste 
sul  collo  agli  Italiani  dalla  smodata  possanza  di  Carlo  Y  imperatore, 
nome  infausto  alla  misera  Italia,  nome  che  suona  travolgimento  di 
ogni  pubblico  giure  d'Europa,  e  che  tramutò  ogni  civil  reggimento 
in  orientai  dispotismo.  Fortunata  Inghilterra  che  potè  evitarne  l'alito 
mortifero!  Volgevano  due  secoli,  e  la  mano  di  Dio  sembrava  alle- 
viarsi su  questo  sventurato  paese  ad  una  ad  una  spegnendo  quelle 
famiglie,  che  rinnegati  i  patti  pe'  quali  erano  salite  al  trono,  e  forti 
d'imperiali  o  di  papali  investiture,  ingentilite  nell'esterno  costume, 
ma  scinte  d'ogni  freno,  calpestavano  ogni  dì  più  la  libertà,  le  fran- 
chigie e  i  diritti  de' popoli.  In  Modena,  Francesco  III  d'Este,  am- 
bizioso, imprudente,  scialacquatore,  ma  splendido,  fece  opere  gran- 
diose ed  utili,  rovinò  lo  Stato,  volle  forse  il  bene,  ma  non  pati  freno 
al  volere,  e  d'ogni  cosa  a  suo  senno  dispose. 

L'astuta  Maria  Teresa  seppe  valersi  deiranimo  debole  del  duca» 
che  borioso  del  titolo  di  generalUsimo^  tenuto  aveva  nella  guerra  di 
successione  le  parti  de'  gallispani,  e  minacciandolo  di  decadenza  quasi 
fellone  (poiché  i  principi  Estensi ,  come  gli  altri  eransi  d'imperiali 
investiture  rafforzati  per  isciogliersi  meglio  dai  patti  coi  popoli  )  e 
benigna  ad  un  tempo,  e  arrendevole  mostrandosi ,  Io  ridusse  a  sue 
voglie. 


426  HinSTA  CONTBlfPOftAMBÀ 

Beatrice,  fìg'Iia  ancor  bambina  di  Ercole  Rinaldo,  erede  ed  ultimo 
rampollo  della  cadente  stirpe,  sposata  sarebbesi  airultimo  figlio  del- 
l'altera imperatrice  :  e  per  lei  il  duca  di  Modena  avrebbe  governato 
la  Lombardia,  che  essa  agli  ereditarii  suoi  Stati  aggiunto  aveva.  B 
questo  fu  palese.  Ma  segreto  e  più  fatale  fu  il  patto  che,  se  maschio 
erede  Ercole  non  lasciasse,  il  retaggio  e  lo  Stato  degli  Estensi  pas- 
sassero ai  Lorenesi,  che  di  Beatrice  sarebbero  nati.  Cosi  fu  attra- 
versato il  pensiero  patriotico  di  sposare  un  giorno  quella  principessa 
al  Borbone  di  Parma,  e  diminuire  pur  d*uno  gli  strazii  d'Italia.  Ck)ntro 
il  paterno  divisamente  lottò  Ercole  invano,  che  l'imperioso  vecchio 
vendè  la  sua  stirpe  e  lo  Stato,  come  venduto  aveva  ì  preziosi  quadri. 
Sostenuto  per  breve  tempo  in  fortezza,  dovè  Ercole  prestare  un  as- 
senso, che  per  forma  voleasi,  e  n'ebbe  fonte  inesauribile  di  sventure 
e  l'animo  per  tutta  la  vita  amareggiato.  Mai  femmina  in  casa  d'Este 
regnato  aveva,  né  avrebbel  potuto,  perchè  la  forma  di  elezione  che 
prima  aveva  dato  il  trono  ad  ogni  vacanza  per  forma  ripeteasi,  e 
trono  elettivo  a  donna  non  dassi.  Ben  avevano  regnato  gli  spuri! 
e  talora  preferiti  a'iegittimi,  siccome  Berso  e  Leonello  ad  Ercole  I. 

Ad  Ercole  Rinaldo  nacque  un  figliuolo,  ma  dopo  tre  mesi  mori  ;  si 
disse,  ad  arte  dalla  nutrice,  sotto  pretesto  di  riscaldarlo,  scottato,  e  si 
dubitò  di  austriaco  maneggio,  ed  Ercole  il  credeva,  e  ne  concepì  tale 
avversione,  che  mai,  esule  ancora,  volle  veder  Vienna,  nò  alla  figlia 
riunirsi.  Semi  di  discordia  gettaronsi  tra  Ercole  e  Maria  Teresa  Cybo, 
duchessa  di  Massa  e  Carrara,  sicché  il  diviso  talamo  riescisse  infe- 
condo ;  ma  ciò  pur  non  bastava  a  chi  voleva  in  casa  Lorena  stabilir 
quando  che  fosse  la  successione  degli  Estensi. 

Licenzioso  come  gli  avi  suoi,  aveva  forse  Ercole  III  qua  e  là 
qualche  spurio,  ignoti  però,  appena  li  additava  la  malvagità  di  mor- 
moratrici  brigate  ;  e  se  pur  di  alcuno  gli  austriaci  dubitarono,  non  ne 
ebbero  ombra,  perchè  non  riconosciuti  dal  padre.  Ma  uno  vi  era,  figlio 
alla  Chiara  Marini,  che  il  duca  apertamente  riconosceva  per  suo,  ed  il 
cognome  d'Este  gli  permetteva,  e  gli  infeudava  Scandiano.  Colla 
Chiara  Marini  tanto  convisse  il  duca,  che  esule,  prima  di  morire,  spo- 
soUa.  Nel  fior  della  gioventù,  precipitato  da  una  scala,  moriva  il  maif- 
chese  di  Scandiano,  e  con  lui  spegneasi  ogni  speranza  dello  sventu- 
rato padre,  il  quale  tanto  presentia  la  sciagura,  che  al  primo  presen- 
targlisi  l'annunziatore,  noi  lasciò  aprir  bocca,  esclamando:  ho  inteso, 
ho  inteso,  Scandiano  è  morto! 

Quel  trattato  però  che  trasferiva  la  successione  d'Este  in  casa 
d'Austria  Lorena  fu  accuratamente  celato,  né  la  diplomazia  il  conobbe, 
non  che  l'approvasse.  Accortamente  ne  sospettò  il  sardo  ambasciatore 
in  corte  di  Vienna,  e  giunse  ad  averne  copia,  che  giace  ne'  diploma- 
tici, archivii  di  Torino.  Mai  fu  esso  chiamato  ad  esame,  e  quasi  per 


CBXKI  dOraA   MODENA  E  LA  SUA  STORIA  427 

confusa  tradizione,  e  per  la  negligenza  tanto  frequente  fra  i  diploma- 
tici, senza  quistiope  e  senza  esame,  e  non  per  antico,  ma  per  nuovo  di- 
ritto, passò  il  trono  di  Modena  in  Francesco  IV,  figlio  di  Beatrice  d'Este 
e  di  Fernando  d'Austria  Lorena,  allorché  nel  1814  e  1815  si  divi- 
sero le  spoglie  dell'impero  napoleonico.  I  nuovi  principi  furono  detti 
legittimi  senza  che  alcuno  esaminasse  a  qual  legge  una  tale  legit- 
timità si  appoggiasse.  Si  disse  ripristino  dello  Stato  antico,  e  fu 
mutamento  d*ogni  antico  ordine,  soppressione  d'ogni  franchigia, 
distruzione  d'ogni  libertà.  In  ciò  solo  coerente  a  se  stesso,  che  le 
voci  de' popoli  ascoltate  non  fossero:  di  que' popoli  che  eccitati  si 
erano  ad  insorgere  per  ricuperare  nazione  e  libertà. 

Ma  torno  al  rapido  cenno  che  ho  dovuto  interrompere. 

Modena  fece,  con  Reggio  e  con  le  Romagne,  parte  della  Repub- 
blica Cispadana,  poi  della  Cisalpina,  e  d'allora  in  poi  la  sua  storia 
si  confonde  con  quella  di  Lombardia.  Quando  nel  1799  gli  Austriaci 
sorretti  dai  Russi  occuparono  queste  provincie,  e  vi  posero  una  reg- 
genza in  nome  dell'Imperatore,  e  gli  atti  pubblici  in  nome  suo  fà- 
ceansi,  e  le  carte  col  suo  stemma  segnavansi,  e  chiaro  si  vide  che 
nò  al  papa,  né  al  duca  le  avrebbero  restituite,  se  pur  le  avessero 
potuto  tenere  ;  ma  la  reggenza  imperiale  incarcerava,  processava, 
esigliava,  mandava  a  confino  i  patrioti,  i  quali,  se  pur  si  avessero 
voluti  riguardar  come  colpevoli,  non  le  sarebbero  stati  mai  contro 
l'Austria,  a  ^ui  non  furono  sudditi  giammai.  Troppo  chiaro  era 
dunque  che  non  idea  di  giustizia  qualsiasi,  ma  spirito  di  universale 
dominazione  e  di  persecuzione  contro  ogni  uomo  che  a  nazionale 
indipendenza  e  a  libertà  avesse  aspirato,  moveva  l'Austria,  e  che 
que'suoi  satelliti  che  sotto  di  lei  e  per  lei  tiranneggiavano  il  loro 
paese,  speravano  spegner  nel  sangue  i  generosi  spiriti.  Inutili  e 
stolte  crudeltà,  che  nel  sangue  può  spegnersi  una  congiura  di  pochi 
avidi  di  regno,  ma  non  si  spengono  le  convinzioni  e  la  ineluttabile 
forza  del  tempo.  La  incorreggibile  aristocrazia  feudale  rialzava  la 
testa  e  insolentiva  sul  popolo. 

Oli  Aiistriaci  annullavano  ogni  legge,  ogni  ordinanza,  ogni  ven- 
dita, ogni  atto  fatto  da'  Francesi  e  dalla  Cisalpina,  non  ostante  il 
trattato  di  Campoformìo,  che  la  conquista  di  quelli,  e  la  costituzione 
di  questa  aveva  riconosciuto.  Li  annullava  in  nome  della  legittimità, 
parala  vaga,  indeterminata,  che  pare  dir  molto,  e  dice  si  poco,  che 
ricusa  di  camminar  col  tempo,  e  non  vuol  attendere,  che  dal  vecchio 
e  dal  nuovo  piglia  ciò  che  le  giova,  scinde  i  patti  e  i  contratti,  e 
tiene  soltanto  ciò  che  fa  per  lei,  e  nel  1799  chiamava  legittimo  il 
governo  Austriaco  in  Lombardia,  perchè  la  possedeva  prima  del  1796, 
e  in  Venezia  perchè  l'aveva  avuta  da  quei  Francesi  che  chiamava 
usurpatori. 


BIVISTA  OONTBlCPOBANBi. 

Queir  annullamento  ingiusto  e  impolitico  rese  necessario  e  giusto 
quello  che  i  Francesi,  ritornati  nel  1800  pronunciarono  degli  atti 
austriaci.  La  stessa  legge  di  giustizia  lega  tutti  i  governi,  e  guai 
a  chi  se  ne  scosta.  La  legittimità  è  quistione  quasi  sempre  ardua 
tra  imperante  e  imperato ,  ma  quanto  all'effetto  degli  atti  di  go- 
verno non  può  esercitare  influenza  alcuna.  L'uno  si  appoggia  ad 
investitura  e  trattati  ed  elezioni  popolari  antiche,  l'altro  a  più  re- 
centi trattati,  a  più  recenti  voti  popolari,  e  la  sorte  delle  armi  più 
spesso  che  quella  della  ragione  decide  questi  piati.  Giustizia  vuole 
che  si  rispettino  gli  atti  de'  governi  che  in  fatto  regnarono,  e  Éa  ri- 
parare le  ingiustizie  come  si  può  meglio,  senza  offendere  i  quesiti 
di  alcuno:  gli  annullamenti  sono  distruzioni,  e  saggiamente  <^>e- 
rerà  quel  governo  che  nel  momento  della  vittoria  farti  come  se  di 
lì  a  poco  dovesse  perdere.  Cosi  per  vero  dire  operarono  quasi  sempre 
i  governi  liberali,  ma  i  pretesi  legittimisti  non  seppero  neppur  per 
prudenza  imitarli. 

Ma  nel  14  giugno  1800  la  spada  di  Bonaparte  vendicava  a  Ma- 
rengo l'onta  delle  sconfitte  francesi. 

La  fama  con  una  celerità  che  allora  pareva  inconcepibile  precorse 
come  un  fulmine.  I  popoli  si  riscossero,  si  schiusero  le  carceri,  cadde 
la  mannaia  di  mano  al  carnefice,  gli  oppressi  respirarono,  gli  spo- 
gliati possessori  riebbero  i  beni  loro.  Il  trattato  di  Luneville,  stipu- 
lato ai  9  febbraio  e  pubblicato  agli  11  marzo  1801,  riconobbe  ed 
ampliò  la  Cisalpina,  che  poi  nel  1802,  ai  26  gennaio,  prese  ne*  co- 
mizii  di  Lione  il  nome  di  Repubblica  Italiana. 

L'aristocrazia  si  lagnò  della  tassa  d'opinione  impostale  dopo  il 
1799,  ma  giustizia  e  verità  dicono  che  fu  quella  una  riparazione  ben 
modica  ai  tanti  mali  che  essi  arrecarono  in  quell'anno  fatale,  mal 
rimeritando  la  moderazione  de' patrioti  nel  primo  triennio.  Dives 
injuste  egit  et  fremete  dice  l'Ecclesiastico.  Quando  i  generali  e  i  com- 
missarii  francesi  imponevano  taglie  di  guerra,  chi  osava  affrontarne 
l'ira?  non  già  la  timida  aristocrazia  che  rannicchiata  blandiva  i  po- 
tenti, ma  i  patrioti  più  caldi  e  sinceri.  Vero  è  anche  che  il  1799 
vide  molti  deporre  a'  piedi  dell'aquila  bicipite  il  mal  simulato  pa- 
triotismo  de'  tre  scorsi  anni,  e  si  fecero  zelanti  accusatori  e  testi- 

monii  centra  i  loro  benefattori.  Invano  cercarono  nell'ottocento  ri- 

» 

prendere  la  maschera;  ma  anche  allora  la  generosità  del  popolo 
sprezzandoli  li  dimenticò. 

Fu  detto  allora,  e  si  potè  poi  più  volte  ripetere: 

£  tal  si  fa  mantello 

D'amor  di  patria  onde  poggiar  sublime 
In  corrotta  repubblica,  che  pria 
Era  devoto  all'acquila,  e  gli  artigli 
Le  aguzzava  maligno. 


CBNNI  SOPBA  MODENA  E  LA  SUA  STOBTA  429 

La  repubblica  italiana  ebbe  novella  forma  nel  1803,  e  a  presidente 
Bonaparte,  e  nel  1804  tramutossi  nel  regno  d*Italia,  sotto  cui  Mo- 
dena fu  capo  al  dipartimento  del  Panaro.  La  vicina  Bologna  le  tolse 
non  poco  territorio  per  allargarsi  contro  ragione.  Di  quel  tempo 
non  altro  può  dirsi  che  Modena  specialmente  riguardi,  se  non  che 
vi  fiori  la  celebre  scuola  iel  genio  e  d'artiglieria,  fondatavi  nel  primo 
triennio  repubblicano  dal  generale  Salimbeni  veronese,  con  eccellenti 
professori,  ed  ottime  discipline,  sì  che  Tesserne  stato  allievo,  fu  in 
tutta  Europa  giudicato  prova  sufficiente  di  capacità  :  che  Modenesi 
0  Reggiani  ed  allievi  dell'università  Modenese  furono  cinque  mi- 
nistri e  senatori  ed  altri  grandi  ufficiali  del  regno;  che  fra  le  corti 
regie  ebbe  quella  di  Modena,  e  di  Modenesi  composta,  vanto  di  su- 
premazia per  dottrina  e  fortissimo  petto;  che  ne' pubblici  uffizii  gli 
impiegati  Modenesi  sovrastavano  per  capacità  e  zelo  operoso;  che 
infine  tanto  era  il  numero  degli  uffiziali  nostri  neir  esercito,  che  allo 
sciogliersi  del  regno  ben  di  gran  lunga  superava  la  proporzione  con 
quello  degli  abitanti. 

Svegliatezza  d'ingegno,  fortezza  d'animo,  amor  degli  studii  e  del 
meditare,  spirito  riflessivo  ed  ordinato,  e  vivere  temperato  e  solerte, 
operosità  e  forte  sentimento  del  dovere,  son  doti  comuni  fra  noi, 
sicché  possiamo  sperare  di  non  venire  ultimi  in  alcun  tempo  al  con- 
sorzio della  nazione  italiana. 

L.  BOSBLLINI. 


430 


m  ALCDm  TRATTI  E  DELL'INTERO  EPISORIO 


DELLA 


FRANCESCA  DA  RIMIMI 


Al  8i|.  c«T.  PIETRO  rRATICILLI,  Aceadenie»  della  Crnsca 


L*amore  sìngolarisaimo  che  poneste  a  dar  fuori  per  le  stampe 
del  Barbèra  una  compiuta  edizione  delle  Opere  dell' Alighieri,  e  le 
cure  diligenti  a  raccogliere  le  memorie,  le  quali  rimasero  di  lui,  a 
compilarne  la  vita,  vi  meritarono  la  riconoscenza  di  tutti  coloro  i 
quali  attendono  agli  studi!  danteschi.  Io  poi,  oltre  questa  cagione, 
vi  ho  in  particolare  affetto  per  le  cortesie  delle  quali  mi  foste  largo 
nella  mia  dimora  in  Firenze,  e  perciò  volli  indirizzarvi  questo  mio 
discorso.  Accoglietelo  colla  vostra  consueta  benevolenza  e  non  di- 
menticatevi di  me. 

Torino,  12  dicembre  1862. 

Frai^gbsoo  Sblmi. 


I. 

Per  chi  attende  con  amore  allo  studio  della  Commedia  Dantesca, 
è  raro  e  difficile  che  non  gli  succeda  d'incontrare  qualche  passo,  la 
cui  interpretazione  non  gli  paia  mal  presa  od  insufficiente  :  ed  è  cosa 
da  maravigliare  che  ciò  avvenga  dopo  cinque  secoli  di  cure  assidue, 
diligenti  e  sagaci  adoperatevi  intomo  da  uomini  forniti  di  molta 
dottrina  e  di  fino  acume.  Da  ciò  nasce  quasi  supposizione  che  nel 
Poeta  divino  siano  tali  caligini  qua  e  là  da  mettere  a  tortura  per- 
petua chiunque  vi  si  tormenta  a  dissiparle,  cohie  fu  di  certi  oracoli 
antichi,  dei  quali  il  senso  od  ambiguo  ovvero  intralciato  con  sommo 


EPISODIO  DBLLA  FRAK0B8CA  DÀ   BIMIKI  431 

artificio,  impedì  che  mai  foBsero  fntesi  per  diritto,  cosi  da  non  la* 
sciare  il  dubbio  neiranimo.  Taluno  non  si  peritò  di  affermare,  che 
Dante,  per  se  medesimo,  talvolta  sia  fosco  e  ravviluppato  ;  ma  io  non 
vorrei  che  quest'ingiuria  fosse  stata  mai  pronunziata,  né  avesse  più 
a  sorgere  a  biasimo  di  lui ,  il  quale  se  in  certi  passi  sembra  pec- 
care di  oscurità,  talcosa  può  affermarsi  derivare  da  cause  non  sue  ; 
0  da  errore  di  lezione  nel  testo  ;  o  da  mancanza  di  cognizioni  baste- 
voli  in  chi  vi  si  travaglia;  o  da  malagevolezza  di  spaziare  tanto 
vastamente  quanto  egli  fece;  o  dalle  altezze  dell* argomento  ;  od  an- 
che da  troppa  vaghezza  di  sottilizzarvi  intomo  a  trarne  chiosa  ar- 
guta e  nuova.  Che  anzi  fu  Dante  scrittore  perspicuo  e  sicuro ,  e 
possedette  in  grado  ragguardevole  quella  dote  preziosa  dell'ingegno 
perfetto,  che  è  di  temperarsi  nei  limiti  del  possibile,  né  tentare  per 
audacia  soverchia  ciò  che  va  al  disopra  del  vero  ardimento  e  muta 
Tatto  eroico  in  impresa  temeraria.  Imperocché  pei  rischi  a  cui  si 
pone  l'intelletto,  avvenga  il  somigliante  delle  prove  a  cui  si  cimenta 
la  persona  ;  stanno  prefissi  ad  ambedue  le  cose  certi  segni  al  di  là 
dei  quali  non  si  può;  né  bastano  per  un  lato  agilità  e  gagliardia 
ed  esperienza  di  braccio,  come  per  l'altro  non  vale  forza  ed  impeto 
di  fantasia  co*  voli  suoi,  né  limpidità  di  mente  colle  sue  speculazioni. 
Lo  sconfinato ,  T indefinito  possiede  un'attrattiva  singolare  sulle 
volontà  umane  che  le  muove  a  diletto,  e  le  invita  e  costringe  a  sé 
e  le  aggira  nelle  vertigini  ;  onde  s'ingenera  quel  desiderio  irrequieto 
di  avveilture,  e  quella  curiosità  invincibile,  per  cui  si  tentano  fatti 
formidabili  e  da  sgomentare  i  cuori  meno  paurosi.  E  vi  accresce  al- 
lettamento la  gloria  che  suole  alle  volte  derivare  dall'impresa ,  sia 
di  trionfo  quando  la  fortuna  asseconda,  sia  della  palma  di  martirio 
quando  la  vita,  la  libertà  ed  i  comodi  tutti  ne  vanno  sacrificati.  Ma 
altro  é  chi  fortemente  si  dispone  ad  opera  che  niun  argomento  dice 
insuperabile  per  quanto  si  dimostri  di  grave  pericolo  ;  altro  chi  si 
getta  disennatamente  nell'abisso,  e  pretende  dagli  angeli  del  cielo 
che  discendano  a  salvarlo  nella  rovina  premeditata.  Dante,  sapientis- 
simo e  di  pieno  conoscimento  di  quanto  potessero  le  forze  sue,  al 
certo  maravigliose,  non  mai  si  avanzò  tanto  addentro  nelle  difficoltà 
più  ardue,  da  cadérne  smarrito:  adoprò  la  lingua  come  strumento 
docile,  fino  a  che  gli  corrispondesse,  pigliandone  accortamente  la 
parte  comune  e  nota  acciò  fosse  meglio  compreso;  e  quando  gli 
tornò  uopo  ne  andò  sviscerando  i  germi  reconditi ,  rendendoli  ad 
esplicazione  immediata.  Perciò  seppe  dire  cose  ineffabili  per  altri 
senza  incespicare ,  e  spinse  la  virtù  espressiva  della  parola  a  toc- 
care i  limiti  estremi,  oltre  dei  quali  volendo  tentare,  sta  l'inarriva- 
bile ;  memore  che  la  potenza  di  significare  é  vinta  sempre  dalla  fa- 
coltà di  comprendere,  e  lo  spirito  vede  e  si  specchia  in  immagini 


432  BIVISTA  CONTEMPOKANBA 

le  quali  né  voce,  né  nota  musicale,  né  colore  di  pennello  o  intaglio* 
di  scultore  potranno  agguagliare,  né  forse  rappresentare  giammai. 
Qualora  poi  giunse  ad  uno  di  quei  tratti  da  andarne  perduti,  e  che 
paiono  inescogitabili  o  da  non  potersi  poi  rammentare ,  lo  mirò  di 
fronte  per  quanto  lo  concedesse  vigore  d'intelletto ,  indi  si  raccolse 
e  confessò  il  proprio  difetto  a  tradurlo  in  forma  sensibile,  come  nel 
principio  del  Paradiso  in  quei  versi  di  stupenda  sagacia  che  dicono  : 

Nel  ciel,  che  più  della  sua  luce  prende 

Fu'  io  e  vidi  cose  che  ridire 

Né  sa  né  può  qual  di  lassù  discende. 
Perché  appressando  sé  al  suo  desire, 

Nostro  intelletto  si  profonda  tanto, 

Che  retro  la  memoria  non  può  ire  (!)• 


Trasumanar,  significar  per  verba  (2) 
Non  si  porria 


Che  poi  Dante  non  intricatosi  fra  le  maggiori  difficoltà,  e  con- 
servata l'equa  misura ,  dettasse  chiaramente  i  concetti  suoi ,  non  é 
da  porre  in  dubbio,  dacché  lo  confermano  le  tradizioni  che  narrano 
la  gente  minuta  de'  tempi  suoi,  averlo  appreso  e  ripeterlo  cantando, 
e  si  può  eziandio  dimostrare  ai  giorni  nostri^  colla  lettura  di  quegli 
squarci  i  quali  senza  bisogno  di  erudizione  storica  e  coltura  nelle 
dottrine  scientifiche  si  capiscono  con  prontezza  dall'universale.  Chi 
è  mai  tra  gli  uomini  di  mediocre  apertura  di  mente  e  di  cognizione 
discreta  sugli  avvenimenti,  sulle  idee  e  gli  studii  d'allora,  che  ponen- 
dosi a  leggere  con  attenzione  le  tre  cantiche,  non  giunga  a  rendersene 
inteso  da  capo  a  fondo.  Il  quale  effetto  mancherebbe  qualora  il  poeta 
trasvolando  oltre  le  nuvole  nel  concepire  e  nell'esprimere ,  si  fosse 
perduto  nell'interminabile;  poiché  qualora  avesse  ciò  fatto,  egli  me- 
desimo sarebbe  proceduto  per  le  incertezze,  né  varrebbe  interprete 
ad  illuminare  il  buio  che  non  fu  schiarito  nemmanco  dall'autore. 

Ed  oh  quanto  é  prezioso  quel  retto  discernimento,  donde  ha  tar- 
pato le  ali  la  troppa  audacia,  il  quale  derivando  da  un  giudizio  squi- 


(1)  Paradiso,  Canto  I,  v.  4  e  seg. 

(2)  Id.  y.  70  e  seg.  Anche  il  Petrarca,  a  suo  modo,  confessò  Timperizia 
deirespressione  a  fronte  deirimmagine.  Nel  sonetto  «  Quand'io  v*odo 
parlar  si  dolcemente  »  ,  disse  tMa  il  soverchio  piacer  che  s'attraversa 
A  la  mia  lingua,  qual  dentro  ella  siede,  Di  mostrarlo  in  palese  ardir  non 
ave»  (ardire,  cioè  possanza,  siccome  commenta  il  Castelvetro).  Nella 
canzone  «Se  il  pensier  che  mi  strugge»,  scrisse:  «Aver  dentro  a  lui 
(il  core)  parme  Un,  che  Madonna  sempre  Dipinge  e  di  lei  parla.  A  voler 
poi  ritrarla,  Per  me  non  basta • 


EPISODIO  DBLLA  FBANCBSOA  DA  RIMINI  433 

sito,  rende  di  eccellente  bontà  Topera  che  compone,  che  perciò  esce 
dall'artefice  si  tratteggiata  e  condotta  stupendamente  in  ogni  suo 
particolare,  a  rilievi  tanto  spiccati  e  puliti,  che  la  bellezza  e  il  garbo 
del  lavoro  tocca  al  sublime,  e  si  fa  terribile  per  chiunque  pretenda 
d'imitarla.  E  così  ristrettasi  Tinvenzione  nel  giro  del  possibile ,  se 
ne  acquista  sommo  valore  di  perfezione ,  compensando  col  mirabile 
del  magistero  quel  poco  d'impeto  e  di  rapimento  che  ne  andò  per- 
duto ;  cosi  colui  il  quale  vi  sì  affaticò,  poiché  padroneggiava  a  pieno 
arbitrio  la  forma,  potè  accomodarla  come  gì' iva  più  a  genio,  né  sfor- 
zarvisi,  né  violentare  la  natura,  né  mendicare  sussidii.  Laonde  nac- 
que spontanea,  ben  complessionata,  armonica,  virile;  simile  a  cosa 
viva,  finita  leggiadramente  secondo  che  doveva  rappresentare  ;  non 
antica  né  moderna ,  sibbene  di  tutti  i  tempi  ;  né  di  una  gente  più 
che  di  altra,  ma  dell'intera  fitimiglia  umana. 

Comunemente  i  forti  non  si  avventurano  a  poggiarer  altissimo  se 
non  al  punto  che  loro  consenta  il  patere  di  cui  hanno  coscienza  ; 
ma  qualora  vi  si  abbandonino  ne  vengono  più  ghiribizzosi,  e  scon- 
ciati e  stravaganti  dei  minori,  quantunque  non  senza  alcuna  pere- 
grinità talvolta,  in  quanto  le  loro  bizzarrie  hanno  del  gigantesco  e 
dello  straordinario  ;  mentre  i  deboli  pretendendo  di  agguagliarli,  né 
potendo,  e  per  solito  ju^ovandovisi  alla  disperata,  riescono  a  continui 
capitomboli  ed  a  stramberie  grottesche  da  eccitare  le  risa  omeriche 
degli  spettatori.  Ed  è  raro  che  si  avveggano  poi  del  fallo,  e  non 
vogliano  mostrare  in  pompa  le  loro  cadute,  quasi  avessero  raggiunto 
le  più  remote  stelle,  e  si  riputano  riformatori  ed  inventori,  e  scam- 
biano le  capestrerie  e  i  lazzi  per  lampi  e  brio  d'ingegno  singolaris- 
simo. Le  idee  ed  i  concetti  che  si  appellano  originali,  quando  siano 
nuovi  ed  ingeniti  davvero,  traboccano  dall'intelletto  gravido,  a  modo 
de'  canali  e  delle  inondazioni  dalla  ricca  fiumana,  o  le  scintille  dalla 
fiamma  che  vampeggia  crepitando  ;  e  vana  fatica  tornerebbe  quella  di 
cavare  acque  correnti  da  un  fossatello  che  muoia  in  povertà  di  poz- 
zanghera, 0  pretendere  che  la  cenere  caldiccia  sfavillasse  vivamente. 
E  credo  che  sia  buona  maniera  per  riconoscere  le  false  fantasticag- 
gini di  certi  scrittori ,  quella  di  saggiarli  dopo  assuefattisi  a  qual- 
che canto  delk  Commedia  ;  essendo  qualità  dei  cibi  danteschi  non 
solo  di  gradire  più  d'ogni  altro  ai  palati  sani,  e  conservarli  a  retto 
sapore ,  ma  ragiono  eziandio  a  ricondurre  i  gusti  a  sanità ,  per 
inestimabile  e  rarissima  virtù  che  traggono  dal  proprio  autore. 

Quello  che  andai  ragionando  poco  addietro  della  chiara  signifi- 
cazione in  Dante,  va  inteso  principalmente  rispetto  al  senso  letterario, 
non  ignorando  in  qual  ginepraio  si  vada  intricando  chi  abbia  ad 
avvolgersi  per  messo  agli  altri  intendimenti  più  occulti ,  i  quali  il 
Poeta  vi  collocò  sotto  velame,  a  seguire  l'usanza  ed  a  conseguire  uno 

JiMita  (7.-28 


434  RIVISTA  CONTBMPOBANBA 

scopo  SUO.  In  allora  nascono  e  moltiplicano  le  opposizioni  ed  i  pa- 
reri circa  a  spiegarli  nel  vero,  e  non  pare  mai  che  si  abbiano  da 
accordare  gli  opinanti,  raro  tornando  il  caso  nel  quale  i  contrarii 
convengano  in  una  sentenza,  e  la  questione  sia  deliberata.  Ma  Far- 
gemente  che  ora  ci  occupa  essendo  storico  e  di  sentimento ,  non 
importa  che  vi  si  abbia  a  tormentare  per  iscoprime  il  concetto  ar- 
cano, e  può  offerirci  mezzo  bellissimo  di  studiare  una  delle  qualità 
più  notabili  dell* Alighieri ,  che  è  quella  di  usare  i  vocaboli  nella 
giusta  stima  e  secondo  T  indole  genuina,  e  qualora  girati  a  traslato, 
ciò  sempre  con  appropriazione  adattatissima.  E  dii  voglia  prendersi 
il  diletto  di  conoscere  da  sé,  come  e  quanto  egli  osservasse  tal  re- 
gola, purché  raffreni  Tanima  che  non  sia  levata  dalla  poesia  stu- 
penda a  contemplazione  del  solo  pensiero,  e  disamini  il  divino  poema 
parola  per  parola,  frase  per  frase,  vedrà  qual  insolita  maraviglia 
di  arte  intellettuale  gli  si  apra  alla  vista  attonita;  non  una  voce 
la  quale  esca  dalla  sua  ragione  naturale  ;  tra  le  adoperate,  fatta  la 
cerna  delle  più  opportune;  nemmanco  neir usarle  dimentichi  tutti  i 
costumi,  per  cosi  dire ,  e  gli  atteggiamenti  a  cui  si  piegano ,  ed  i 
significati  parziali  che  possono  assumere  nelle  varie  cose  cui  valgono 
a  nominare  ;  onde  ciascuna  vi  sta  simile  a  diamante  incastrato  che 
brilla  dalle  moltissime  faccette  secondo  rinvesta  la  luce  e  si  miri; 
sicché  la  virtù  del  discorso  non  manca  in  lui  di  un  minimo  al  debito 
suo,  e  vi  apparisce  in  tutta  pienezza  di  maestria. 

Imperciocché  l'ingegno  multiforme  e  comprensivo  del  poeta  si 
palesa  e  splende  dal  semplice  uso  dei  vocaboli,  dove  raccoglie  e  ram- 
memora i  varii  sensi,  allorché  gli  scioglie  in  quel  modo  onde  ab- 
bracciò l'infinito  nella  Commedia;  per  la  qual  cosa  se  ne  ingenera 
un  valore  nuovo  ai  vocaboli  stessi  che  si  allargano  a  più  vasta  espres- 
sione, e  svegliano  nella  mente  più  idee  ad  un  punto,  le  quali  es- 
sendo pur  convenienti  tra  di  loro,  perché  una  sola  parola  può  ma- 
nifestarle, e  nonpertanto  varie,  danno  si  curiosa  e  leggiadra  impressione 
dalle  conformità  e  differenze  commiste,  da  sembrare  prodigiosamente 
avvivate  ed  abbellite.  Laonde  considerando  l'Alighieri  per  questo 
verso,  succede  non  diversamente  da  quello  che  avvenga  al  filosofo 
indagatore,  allorquando  coU'occhio  armato  di  lente,  o  speculando  nel 
firmamento,  o  scrutando  negli  esseri  più  esig^,  scopre  si  nello  spazio 
infinito  che  nel  più  tenue  animalcolo  quanta  e  quale  sia  la  divinità 
della  creazione  ;  e  ne  rimane  stupefatto  e  smarrito ,  non  sapendo 
ben  giudicare  se  più  meritino  la  mole  sterminata  delle  sfere  e  le  lon- 
tananze ininmiaginabili  che  la  esilità  non  comprensibile  dei  minori 
eorpiociuoli. 

À  chiarimento  e  sostegno  di  quello  che  andai  affermando  si  vedrà 
quali  gagliarde  prove  ne  risulteranno  dalla  breve  disamina  a  cui 


EPISODIO  DELLA  FBANCBSCA  DA  BIMINI  435 

mi  accinsi  intorno  ad  alcuna  parte  deirepisodio  immortale  detto  della 
Francesca  da  Rmini. 

II. 

Un  discorso  sull*episodio  della  Francesca  da  Bimini ,  nel  quale 
se  ne  ragioni  di  qualche  tratto  in  particolare,  ed  anche  di  tutto 
rargomento ,  potrà  sembrare  mosso  da  presunzione  soverchia  delle 
proprie  forze  ;  essendo  che  molti  attesero  felicemente  a  spandervi  so- 
pra la  luce  necessaria  di  commenti  e  di  esposizione,  tra  cui  a  causa 
di  preminenza  è  da  ricordare  T ingegno  valoroso  di  Ugo  Foscolo. 

Il  qual  nome  basterebbe  a  sgomentare  i  maggiori  di  me  ;  né  io 
certamente  ne  rimango  tanto  baldanzoso,  che  non  senta  il  grave 
paragone,  e  la  mia  piccolezza.  Nondimeno ,  poiché  si  dà  licenza  al 
poverello  industrioso  di  spigolare  sul  campo  mietuto,  a  raccattarvi 
uno  smilzo  manipolo,  così  prego  sia  conceduto  a  nie,  di  andar  dietro 
a  raccogliere  qualche  grano  sfuggito  dalla  falce  del  ricco  mietitore. 
Ciò  avvertito  a  mia  scusa,  fistcciamoci  al  quinto  canto  della  prima 
cantica  della  Commedia. 

Il  Poeta  arrivò  col  suo  Duca  nel  secondo  cerchio  dei  dannati; 
ivi  sono  i  peccatori  carnali  ;  ivi  tra  i  diversi  scorge  i  due  che  si  ac- 
compagnano in  etemo  nei  tormenti,  e  pare  li  riconosca  e  se  ne  com- 
muove, e  li  chiama,  ed  eglino  rispondono  desiosi  all'amorevole  grido. 
Francesca  (  non  appena  gli  giungono  a  vicinanza  di  voce  )  gli  si 
fa  a  parlare,  e  per  debito  di  cortesia  e  di  sentimento  a  significargli 
la  riconoscenza  dell'affetto  loro  dimostrato,  e  così  incomincia  : 

0  animai  grazioso  e  benigno  ! 

E  siccome  questo  è  il  principio  ddlo  stupendo  colloquio,  il  quale 
va  succedendo,  così  fermiamoci  ad  esaminarlo,  per  essere  appunto 
uno  dei  luoghi  in  cui,  sembrami, occorra  il  bisogno  di  chiosa:  non 
avendo  i  commentatori,  per  ciò  che  sappia,  consideratovi  abbastanza 
affine  di  ritrarne  il  vero  intento  per  alcune  parti. 

Chiunque  abbia  letto  il  modo  onde  la  donna  sventurata  s'indirizza 
a  Dante,  non  può  non  avere  o  creduto  o  dubitato  che  nel  secolo  xiv 
si  usasse  animale  indifferentemente  in  iscambio  d'uomo^  tanto  nel  lin- 
guaggio comune  e  cittadinesco,  quanto  pur  anco  nell'eletto  e  cor- 
tigiano. Dico  nel  cortigiano,  essendo  colei  che  interloquisce  ,  di 
schiatta  nobilissima,  figliuola  di  signore  regnante,  e  volgendosi  al- 
TAlighieri,  pur  nobile  e  superbo,  e  da  non  sostenere  nò  sostanza  nò 
ombra  d'ingiuria.  Poi  è  da  riflettere  che  essa  vuol  rispondere  gra- 
tamente a  gradita  persona,  e  pagare  di  animo  commosso  la  me- 
moria benevola  ed  affettuosa  dell'ospite  di  suo  padre  \  ella  gentilis- 


436  BIVISTÀ  CONTBHPOBANBA 

sima^  cui  dovette  infinitamente  compiacere,  come  di  mezzo  alla  con* 
danna  ed  alle  pene  del  luogo  infernale,  si  trovasse,  cosa  mai  sperabile, 
chi  non  si  vergognasse  di  ravvisarne  le  sembianze,  e  mandarle  segno 
palese  di  commiserazione,  e  quegli  essere  uomo  non  volgare  nò  di 
umile  ossequio ,  sibbene  un  famoso  per  Italia  tutta ,  e  di  si  altera 
dimestichezza  da  ricevere  la  famigliarità  dei  grandi  da  uguale  ad 
uguale.  Con  tali  e  simili  condizioni  avrebbe  potuto  usare  verso  di 
lui  appellativi  i  quali  fossero  meno  che  di  alto  e  tenero  rispetto? 
Laonde  giustamente  parrebbe  da  sospettare,  che  ammaU  sia  da  collo* 
carsi  tra  i  vocaboli  i  quali  patirono  invecchiando  tale  contraffioione, 
da  mutare  all'opposto;  di  guisa  che  in  addietro  se  non  valsero  in 
offesa  né  in  dispregio,  poscia  peggiorassero,  da  non  potersi  ripe- 
tere a  qualcuno  senza  eccitare  ira  o  risentimento.  Laonde  sarebbe 
avvenuto  di  esso  oome  fu  di  triffoniey  di  nuunaiiiro  e  di  molte  altre 
voci,  buona  mano  delle  quali  si  può  trovare  in  una  piacevole  e  dotta 
operetta  del  Manno,  da  pareochi  anni  dirulgatissinia  (1). 

Per  conseguenza,  vuoisi  a  primil^  indagine  fare  la  ricerca,  se  i 
commentatori  antichi  intendessero  ohe  fosse  usata  con  valore  non 
ispregiativo ,  ed  in  appresso  qualora  ciò  non  giovasse,  investigare 
se  gli  scrittori  oontemporanei  od  anteriori  o  posteriori  di  poco  a 
Dante  Tadoprassero  in  maniera  da  mostrare,  che  fosse  vooe  corrente 
col  significato  attribuitole  nel  caso  del  quale  ora  si  disserta. 

Il  Buti,  al  detto  luogo  espone  come  segue:  e  0  animai  yrwioio 
«  e  ìmigno  :  parla  a  Dante  uno  di  quelli  due  wpmià  che  furono  cfaia- 
K  mati  da  lui ,  dicendo  lui  essere  animale  graziato ,  però  (2)  senza 
«  grazia  non  era  che  elli  andasse  così  vedendo  le  pene  dei  dannati  ; 
€  e  lenigno  dice  intanto  che  mostrò  inverso  loro  benignità  »  (3). 

Jacopo  della  Lana  :  e  qui  dimanda  l'altore  di  due  anime  che  vede. 
e  Per  modo  di  risposta  e'  dicieno  quelle  anime  a  Dante,  chiamandolo 
e  granoso  e  benigno  i  (4). 

L'Anonimo  si  restringe  a  dichiarare  cosi  :  animale^  intendi  rezìo- 
naie»  mortale  (5).  Benvenuto  da  Imola,  Guiniforto  de' Bargigi,  i  Cam- 
menti  cogniti  volgarmente  coi  nomi  di  Pietro  Alighieri  e  di  Boe* 
oaodo,  le  Ciiòee  attribuite  al  medesimo  Boccaccio  (6)  non  fumo  palese 
che  la  singolarità  di  quell'appellativo  abbia  attirata  ratteo^ione  di 
coloro  che  scrisaero,  e  il  somigliante  poeao  repUoare  di  attrì  poatil- 
lalm  ed  illustraiori  che  esaminai  a  tale  effetto  in  pareodii  oodioi. 

(1)  La  Fortuna  delle  parole,  pubblicata  in  più  edizioni. 

(2)  perocohè. 

(8)  Buti,  Commento  Ma  Commèéia  di  Dante  Alighieri.  Pisa,  Ntalri  1858, 
voi.  l\  p«g,  166. 

(4)  Cod,  Magliai),  l  50. 

(5)  Commento,  detto  rottimo,  voi  I,  pag.  75.  Pisa,  Nistri. 

(6)  Vedi  qaeste  diverse  opere  già  date  a  stampa. 


EPISODIO  DELLA  FBAN0B8CA  DÀ  RIMINI  437 

Né  i  commentatori  seguenti,  dal  seeolo  decimosesto  al  presente, 
credettero  ohe  meritasse  speciale  attenzione  al  di  là  della  intei^re- 
tasione  invalsa.  Il  Vellutello  scriTe  :  t  Mostra  il  Poeta  che  giunte 
€  queste  due  ombre  a  luì,  Tuna  di  quelle  si  cominciasse  a  parlare 
€  chiamandolo  Mfimale,  perchè  va  col  corpo  animato  e  sensitiTO ,  e 
€  non  solamente  anima  come  erano  tutte  le  altre  di  quello  inferno  »  (1). 
Bd  il  Landino  disse  :  e  animale ,  perche  lo  vedeva  col  corpo  e  col- 
€  l'anima,  perciocché  animale  è  corpo  animato  »  (2). 

Pompeo  Venturi  :  e  afdmtJsy  non  anima  sòia,  ma  corpo  animato 
«  pieno  di  grasia  e  di  benignità  »  (3).  E  il  Lombardi,  nella  ediaione 
della  Minervay  ripubblicata  dal  Passigli  :  e  tuiimaU  per  uomo  ;  11  gè- 
€  nere  per  la  specie;  quello  che  diversificava  Dante  dalla  parlante 
«  Francesca  dell'anima  spogliata  »  (4). 

Foscolo,  nel  Discorso  sulla  Commedia  di  Dante  (5)  nel  luogo  dove 
sMntratttene  de*  casi  di  Francesca,  con  arte  mirabile  di  critica,  non 
tocca  di  quell'appellativo  ;  il  Biagioli  e  Brunone  Bianchi  si  tengono  alla 
solita  maniera  d'intenderlo  (6),  e  Tommaseo  nell'ultima  edizione  del 
suo  Commento  (7)  si  contenta  di  citare  quel  passo  del  Volgare  eh- 
fuio  :  SensihiUs  anima  et  corpus  e^  animai;  ed  una  definizione  di  Ari- 
stotile: Vuomo  è  animale  civile;  nonché  un  tratto  della  S^mma  di 
S.  Tommaso:  e  nell'uomo  è  la  natura  sensibile,  dalla  quale  egli  ò 
€  detto  anmaley  e  la  ragionevole,  dalla  quale  uomo  %^ 

Insomma,  raccogliendo  le  osservazioni  dei  più  autorevoli  esposi- 
tori del  poema,  può  òonchiudersi,  che  nessuno  di  loro  abbia  ravvi- 
sato mai  nitto  nel  detto  di  Francesca  a  Dante,  tranne  che  l'uso 
naturale  di  un  vocabolo ,  il  cui  significato  in  bocca  di  lei  avrebbe 
^uivalso  a  quello  di  vivente  ;  nò  mostrarono  di  temere  che  da  tal  modo 
risultasse  punto  nò  mancanza  di  riverenza  in  chi  lo  adoperò,  nò 
ragione  di  offesa  in  chi  l'ebbe  ricevuto. 

La  qual  concordia  di  non  riconoscere  nel  nome  di  animale  dato 


(1)  Commento  della  Divina  Commedia,  Venezia  1543. 
(S)  Dante,  con  l'Jesposizione  di  Cristoforo  Landino.  Venezia,  Marchiò 
Sessa  e  Fratelli,  1564. 

(3)  La  Commedia  di  Dante  Alighieri,  con  una  dichiarazione  del  senso 
letterale.  Venezia  1739,  presso  Giovanbattista  Pasquali. 

(4)  Dante,  La  Divina  Commedia,  Firenze,  David  Passigli  editore,  1838. 

(5)  Prose  letterarie  di  Ugo  Foscolo^  voi.  3».  Firenze,  Felice  Le  Mou- 
nier, 1850. 

(6)  La  Divina  Commedia  di  Dante  Alighieri,  col  Commento  del  Biagioli. 
Milano  per  Giovanni  Silvestri,  1820,  voi.  1.  —  La  Commedia  di  Dante  Ali- 
ghieri fiorentino,  nuovamente  riveduta  nel  testo  e  dichiarata  da  Brunone 
Bianchi.  Firenze,  Felice  Le  Mounier,  1854. 

(7)  Commedia  di  Dante  Alighieri,  con  ragionamenti  e  note  di  Niccolò 
Tommaseo.  Milano,  per  Giuseppe  Rejna,  1854. 


438  RITISTA  CONTBMPOBÀNBA 

ad  un  uomo,  il  sentimento  dello  spregio,  se  può  essere  scusata  negli 
antichi,  supponendo  in  vero  che  in  allora  corresse  abitualmente  con 
quel  dato  valore  ;  cosa  da  cercare  ;  non  sembra  abbiasi  da  reputare 
per  i  due  secoli  più  vicini  a  noi,  de*  quali  sappiamo  meglio  le  con- 
suetudini, e  di  cui  siamo  prossimi  continuatori.  Dico  solo  degli  ul- 
timi due  secoli,  dacché  nel  cinquecento  sussistettero  certi  sigpiificati 
di  vocaboli  che  poscia  avrebbero  avuto  aspetto  di  irriverenti  ed  inur- 
bani, tra  i  quali  vuo'  accennare  l'esempio  di  carnale  e  di  carnalmente 
adoperati  per  amorevole  ed  amorevolmente  in  senso  puro  morale  (1); 
d'onde  potrebbesi  confortare  la  congettura,  che  eziandio  animale  si 
fosse  usato  con  più  degno  intendimento  del  consueto. 

III. 

Per  tre  supposti  può  dubitarsi  che  Dante  abbia  poeto  in  bocca  di 
Francesca  l'appellativo  di  animale ^  rivolto  a  lui  medesimo:  o  qual 
parola  del  discorso  comune,  o  per  bisogno  del  verso ,  sforzando  in 
certa  maniera  la  natura  stessa  del  vocabolo  ;  ovvero  per  un  fine  suo 
particolare ,  sottinteso ,  che  importa  indagare  e  scoprire  acciò  sia 
reso  manifesto  all'intelligenza  dei  più. 

Vediamo  se  tenga  il  primo  supposto.  Affine  di  certificarsi  se  per 
avventura  in  (j[uel  secolo  fosse  o  no  famigliare  che  si  chiamasse  ani- 
male  l'uomo,  tanto  nell'eloquio  solenne  quanto  nel  favellare  dime- 
stico, era  da  fare  raccolta  di  passi  ed  esempii  dagli  scrittori  contem- 
poranei a  lui,  0  di  poco  presso,  che  ne  porgessero  qualche  autorità 
ovvero  lo  provassero  chiaro.  Perciò  tornava  muovere  dai  dugen- 
tisti  per  salire  a  tutto  il  trecento ,  ed  anche  al  secolo  successivo,  e' 
cosi  tra  avanti  e  dopo  comprendere  un  periodo  della  lingua,  le 
cui  maniere  possano  credersi  nelle  abituali  al  sommo  poeta,  in  ispe- 
cie  esaminare  le  opere  dettate  nel  volgare  che  in  allora  correva , 
poiché  nel  caso  onde  si  ragiona,  intercedendo  il  conversare  tra  per- 
sone amiche,  con  aflètti  di  pietà  e  dolore,  dove  la  semplicità  e  l'ab- 
bandono dell'animo  danno  colore  al  colloquio,  non  vi  si  addirebbe  né 
la  frase  lambiccata  né  qualunque  soverchia  singolarità  di  voci  e  di 
modi  che  togliesse  efficacia  e  naturalezza.  E  Dante  fu  per  genio  e 
per  arte  troppo  avvisato  alla  convenienza  delle  parti  da  non  trasgre- 
dire le  severe  e  delicate  discipline  del  gusto  ;  tantoché  la  forma  male 
si  accomodasse  al  pensiero,  e  il  tutto  prendesse  qualità  dal  disac- 
cordo. Avendo  da  parecchi  anni  fermata  la  mia  attenzione  circa  al- 
l'argomento di  cui  ora  parlo ,  e  conservatolo  presente  nella  me- 

(1)  Benvenuto  Cellini,  Vita,  ediz.  Le  Monnier,  pag.  59,  e  pag.  519. 
Ivi  pure  (pag.  17)  trovasi  lasciviisimo  per  dolcissimo j  molto  dilettevole ,  che 
ora  giudicherebbesi  non  conveniente. 


EPISODIO  DELLA  FBANCB9CA  DA  BIMINI  439 

moria,  ebbi  avvertenza  nelle  letture  che  feci  dei  nostri  migliori 
antichi,  di  vigilare  se  per  avventura  mi  capitasse  qualche  tratto  che 
mi  venisse  in  acconcio,  e  ne  tenni  nota  diligente,  non  intralasciando  . 
neppure  quei  casi  i  quali  io  giudicassi  giovare  per  indiretto. 

Prevengo  un  contrasto,  che  facilmente  mi  si  potrebbe  a£facciare, 
cioè  che  l'Alighieri  avendo  rifiutato  il  volgare  suo  fiorentino,  e  com- 
postosi un  eloquio  proprio,  misto  dalle  diverse  parti  d'Italia,  si  coniò 
vocaboli  di  particolare  creazione,  e  ne  voltò  de' consueti  a  nuovo 
intendimento,  si  da  apparire  mutati  e  specialissimi,  e  perciò  potergli 
spettare  in  proprio  l'uso  di  animale  nel  senso  mentovato.  Alla  quale 
obbiezione  ardisco  di  opporre  un  diniego,  poichò  non  dubito  di  as- 
severare, che  il  sommo  poeta  scrisse  in  vera  favella  toscana  le  can- 
tiche sue,  e  nella  più  pura,  e  con  maniere  talvolta  quasi  di  verna- 
colo; e  che,  fatta  eccezione  della  potenza  sua  meravigliosa  di  pa- 
droneggiare lo  strumento  del  linguaggio,  non  usci  tuttavolta  della 
cerchia  di  quello  che  era  di  costume,  e  neppure  ne'  suoi  modi  nuovi, 
da  ciò  che  n'importassero  l'indole  e  gli  atteggiamenti,  e  si  contenne 
per  conseguenza  entro  i  limiti  dell'agevole  da  intendersi. 

La  quale  mia  affermazione  se  parrà  grave  a  chi  di  raro  si  trat- 
tenne sui  libri  del  buon  tempo ,  non  sarà  reputata  di  soverchia 
loggeressa  da  coloro  che  n'hanno  maggiore  cognizione;  anzi  mi 
conforto  a  dire,  che  qualora  taluno  si  piacesse  di  postillare  la  Divina 
Commedia  dal  lato  filologico,  con  esempi  cavati  dagli  autori  dei  tre 
primi  secoli,  vi  riuscirebbe  pienamente,  e  dimostrerebbe  come  il  vo- 
cabolario ed  il  frasario  dantesco,  meno  certi  tratti,  non  frequenti, 
peculiarissimi  a  lui  solo,  ma  che  non  mancano  nemmeno  di  analogie 
nelle  scritture  de'  coetanei  suoi,  starebbero  per  intero  racchiusi  nel 
linguaggio  di  allora,  e  più  spesso  nel  fiorentino. 

Nò  senza  tale  comunanza  di  voci  e  maniere  tra  Dante  e  la  loquela 
popolare  sarebbe  mai  avvenuto  che  fossero  passati  a  cognizione  del 
volgo  certi  squarci  delle  poesie  di  lui,  ed  egli  resosi  famoso  tra  le 
moltitudini,  come  fu  in  sua  vita  ;  nò  ai  raccoglitori  di  poesie  spon- 
tanee delle  plebi  campagnuole  de'  nostri  di,  le  quali  conservano  di 
più  le  antiche  forme  del  dire,  sarebbe  occorso  che  avessero  a  riscon- 
trarvi vocaboli  e  locuzioni  conformi  a  quelle  che  a  lui  discesero  dalla 
penna  (1). 

Laonde  par  giusto  che  bene  mi  apponessi  quando  mi  volsi  a  ras- 
sicurarmi dai  vecchi  classici,  se  animale  inteso  per  uomo,  in  buon 
senso,  abbia  appartenuto  all'uso  ;  poiché  non  torna  probabile,  qualora 
ciò  fosse  stato,  che  non  si  avesse  da  incontrarsi  in  qualche  caso  di 

(1)  Canti  Popolari  Toscani ,  raccolti  da  G.  Tigri.  Firenze ,  Barbèra  e 
Bianchi,  1859.  —  Canti  Popolari,  raccoUi  e  illustrati  da  N.  Tommaseo. 
Venezia,  Tasso,  1841-42. 


440  BIVISTA   C0NTBMP0BAJ9BA. 

trovarlo  cosi  adoperato.  Né  standomi  soddisfatto  e  tranquillo  aUe 
mie  diligenze,  a  cagione  di  non  avere  potuto  leggere  ed  esaminare 
tutte  le  scritture  degli  aurei  secoli,  parte  per  le  angustie  di  tempo 
e  di  altri  studii,  parte  per  la  mancanza  di  parecchie  stampe  rare  e 
costose  ;  nondimeno  a  mia  quiete  e  contento  mi  spinsi  ad  attingere 
a  tale  sorgente,  che  fosse  la  più  ricca  d'Italia  per  esempi  di  lingua 
cioè  ai  Compilatori  del  nuovo  Vocabolario  della  Crusca^  cui  non  fa 
difetto  la  dovizia,  possedendo  amplissima  raccolta  degli  spogli  proprii 
e  dei  loro  predecessori.  E  furono  eì  cortesi,  che  vi  cercarono  dentro 
per  me,  e  me  ne  fecero  copia  generosa,  e  lasciarono  ch'io  pure, 
stando  in  Fiorenza,  v'investigassi  a  piacere;  delle  quali  compiacense 
imitabili,  loro  rendo  grazie  quanto  so  e  posso. 

Coi  mezzi  che  mentovai  non  mi  venne  concesso  di  spigolare  una 
citazione  sola,  d'onde  apparisse  che  tra  i  contemporanei  di  Dante  si 
avesse  mai  chiamato  animale  l'uomo  in  essere  di  ragionevolexaa, 
saggio,  temperato,  cospicuo  per  alcuna  qualità  d'intelletto  e  di  co- 
stume ;  arrogi,  neppure  il  semplice  di  vita,  l'umile  di  nascita»  l'in- 
dotto, il  meschinello  a  cui  non  si  avessero  da  opporre  sconoesse  di 
corpo,  o  turpitudini  dell'animo,  da  parere  dissomigliante  troppo  dalla 
condizione  umana;  e  qualora  se  ne  valsero  ad  appellativo  fu  in 
ischemo,  a  motteggio,  a  determinare  natura  ed  abito  animalesco, 
non  diverso  da  quanto  al  presente  sia  in  corso. 

A  dinotare  complessione  mostruosa  per  grandezza  di  corporatura, 
unitamente  a  certa  spaventevole  selvatichezza  di  passioni ,  Dante 
medesimo  se  ne  giovò,  nel  canto  XXXI  verso  60  déiV Inferno^ 
ove  designò  i  giganti,  de'  quali  fece  conoscere  di  che  fattezze  se  li 
fosse  immaginati,  poiché  li  confronta  con  elefanti  e  balene,  a  cui  li 
mette  sopra,  e  loro  attribuisce  un  fiero  grido  come  di  tuono,  e  lo- 
quela confusa  e  barbara,  ed  altri  particolari  somiglianti.  A  Gerione 
la  sozza  immagine  della  froda,  dà  titolo  d'animale  (1)  ;  ed  egualmente 
all'uomo  nel  primo  della  sua  formazione,  allorché  nel  seno  della  madre 
non  per  anco  ricevette  l'inspirazione  dell'angelica  farfalla;  ed  allo 
stesso  quando  nella  sua  finitezza  egli  terreno  animale  e  mente  grossa 
vuole  argomentare  agli  altissimi  misteri  divini,  e  giudicarne  con  la 
veduta  corta  di  una  spanna  (2). 

Altri  scrittori  l'applicarono  non  diversamente  a  significare  uomini 
di  forme  sproporzionate,  o  d'istinti  brutali,  o  di  mente  ottusa,  o  sucidi 
e  trascuratissimi  del  loro  corpo  e  delle  convenienze  socievoli  ;  o  con 
portamenti  più  di  brutalità  che  di  creatura  ragionevole  ;  o  dediti  ad 
impeto  d'ira,  ed  a  vizii  di  gola  e  di  lussuria.  Per  conseguenza  il  Bemi 

(1)  Inferno y  Canto  xvii,  v.  80. 

(2)  Purgatorio t  Canto  xxv,  v.  61  ;  Paradiso ^  Canto  xix,  r.  85. 


EPISODIO  DBLLA  FBANCBSCA  DA  BIMINI  441 

nominò  ammalane  Grandonk)  perchè  di  membra  più  smisurate  che 
non  comporti  la  p.er8ona  umana ,  e  di  forse  corrispondenti  (1)  ;  e 
Lasca,  anmak  domestico,  quel  Falananna,  il  quale  nulla  mai  potè 
apprendere  al  di  sopra  dell*età  infantiU  (2). 

Borni  medesimo,  volendo  denotare  in  complesso  gl'ignoranti  ed  i 
corti  d'intelletto,  che  nulla  capiscono  de'  reconditi  significati  deposti 
nei  poemi  d'Omero,  disse  :  e  altro  intender  volea,  Per  quel  che  fuor  di- 
€  mostra  alle  brigate,  Alle  brigate  goffe,  agli  animali.  Che  con  la  vista 
€  non  passan  gli  occhiali  (3)  >.  Alle  quali  citazioni  &  ottimo  commento 
la  seguente  nota  al  Malmantile  :  e  dicendosi  ad  uu  uomo  :  tu  sei  un 
t animale,  intendiamo:  tu  sei  una  bestia,  un'irragionevole  (4)». 

Ed  eziandio  secondo  quest'ordine  d'idee  il  Cavalca  paragonò  il 
monaco  di  mal  animo  al  bene  altrui  e  nemico  di  fatica,  a  un  diavolo 
anzi  ad  un  animale  volito  di  abito  religioso  (5)  ;  il  Bartoli  qualificò 
di  Undiiiimi  ammalij  i  bonzi  ghiottoni,  so^i,  mentitori,  falsi  ed  in- 
fingardi (6};  e  coloro  che  si  dilungano  da  Dio  furono,  nella  VUa  dei 
Santi  Padri,  dichiarati  peggiori  dei  bruii  animali  (7);  mentre  ivi  pure, 
nel  caso  di  un  monaco  traviato,  innamoratosi  della  sorella,  e  infocata 
dell'ardore  illecito  e  vituperevole,  si  venne  a  conchiudere  di  luì  che 
cera  diventalo  simile  a  un  animale  senza  ragione,  e  in  tutto  di- 
€  monticato  di  ogni  divino  conoscimento  (8)».  Ed  in  effetto  non  m^lio 
potrebbesi  chiamare  colui  che^  abbandonata  la  via  aspra,  ma  diritta 
e  sicura  mostratagli  da  ragione,  per  assecondare  il  lenocinio  dell'i- 
stinto animalesco,  si  rompe  ad  ogni  sorta  di  turpitudini. 

Troviamo  non  diversamente  nei  Frutti  di  lingua  del  Cavalca 
esser  sentenziato  che:  e  l'uomo  animale  e  brutale  non  comprende 
le  cose  di  Dio  »  (9)  la  qual  frase  uomo  animale,  tolta  da  San  Paolo 
ha  riscontro  nel  Beato  Giovanni  dalle  Celle,  dove  scrive  :  e  leviamo 
l'amore  di  questo  vano  mondo,  alla  stalla  assomigliato,  nella  quale 
stanno  gli  animali  uomini^  i  quali  nascono  nello  sterco  del  peccato  (10)». 

(1)  Gher.  Suppl.-  in  Animalonei  Berni  Ori.  In.  2,  54.  Or  queiranima- 
lon  che  s*era  mosso,  Vien  per  lo  campo  ed  una  fana  mena ,  Che  pare 
il  fiume  e  '1  mare  quand'è  grosso. 

(2)  Le  Cene,  pag.  70.  Firenze,  Felice  Monnier,  ISS". 

(3)  Ori.  In.  25,  5  (Spogli  della  Crusca). 

(4)  Spogli  della  Crusca. 

(5)  Cavale.  Specch.  de* Pece.  296  (Edi z.  Silvestri). 

(6)  Spogli  della  Crusca  (Bart.  Cina.  2,  62.  •  Avvegnaché,  come  più  volle 
abbiamo  detto,  siano  (i  bonzi)  laidissimi  animali  », 

(7)  Vite  dei  SS,  PP.  voi.  V,  pag.  151. 

(8)  Ivi. 

(9)  Cav.  Frult.  Ling.  (Ediz.  Silv.)  66. 

(10)  Lettere,  Ediz.  di  Roma,  p.  111. —  Guittone  d'Arezzo  nelle  sue  rime, 
pone  l'uomo  sconoscente  di  Dio,  al  disotto  degli  animali  :  w  Perchè  non 
pur  tra  gli   animali   è  Tuomo    Che    misconosce    Iddio  »   (I.  18 ,  Rime 

Ciardetti.  Firenze  1821). 


442  BITISTA  OONTBMPOEANBA 

Potremmo  continuare  a  mettere  insieme  altre  citazioni  da  accu- 
mulare alle  precedenti,  senza  che  però  ne  uscisse,  una  signiàcazione 
diversa  da  quelle  che  si  raccolsero  fino  ad  ora  ;  per  cui  ci  pare  da 
conchiudeme,  che  tal  vocabolo  non  fosse  moneta  mai  spesa  per 
quella  nobil  valuta  onde  sembra  la  contasse  il  poeta. 

Forse  può  chiedersi  se  per  caso  non  accennò  ad  un  qualcosa 
dell'uso  mentovato,  il  modo  contenuto  nel  passo  al  quale  elu- 
demmo di  sopra  (1),  di  chiamare  animale  bruto  Tessere  animale  privo 
di  ragione  ;  essendoché  l'aggiunto  apposto  ad  animale  pare  fosse  ivi 
collocato  a  differenza  délV animale  umano ,  al  quale  sospetto  darebbe 
aggravio  la  consuetudine  in  cui  fu  Santa  Caterina  da  Siena  di 
valersi  della  frase  medesima  nell'intento  medesimo ,  e  fecero  so- 
migliantemente altri  scrittori.  Ma  è  da  considerare  che  in  questi  casi 
l'aggiunto  di  bruto  accoppiato  ad  animale  sta  piuttosto  a  rinforzo 
che  a  necessità;  interviene  per  colorire  al  vivo  l'espressione,  e  sug- 
gellarla più  a  profondo  nella  mente  del  lettore  ;  non  diverso  di  fem- 
mina che  trovasi  con  superfluità,  a  guisa  di  addiettivo,  accompag^to 
di/aneiulla  nella  leggenda  di  S.  Eufrosina  (2),  ma  che  ben  conside- 
rando non  fii  posto  ad  avventura,  né  rimansi  ozioso.  In  effètto  con- 
tinuandosi la  leggenda  si  viene  a  conoscere  in  appresso,  l'autore 
dovendo  narrare  della  sua  eroina,  come  mutasse  l'abito  donnesco  in 
tonaca  di  monaco,  e  vivesse  nel  monastero  in  sembianza  di  maschio, 
volle  fino  dal  principio  notarne  più  certamente  il  sesso,  acciò  chi 
leggesse,  non  avesselo  poscia  a  dimenticare. 

Per  quanto  spetta  al  modo ,  che  si  ha  spesse  volte  di  uomo 
animale j  guardandovi  con  attenzione,  tosto  apparisce  che  si  volle 
appropriare  ad  un  caso  particolare,  cioè  all'uomo  che  si  abbandona 
a  vivere  disciolto,  conservando  tuttavia  un  certo  lume  di  conosci- 
mento e  di  osservanza  secondo  ragione  :  onde  gli  ascetici  se  ne  valsero 
comunemente  a  designare  il  poco  curante  delle  cose  di  spirito,  e  che 
non  levandosi  a  sublimità  di  amore,  procede  nelle  opere  sue  non 
ferventemente.  <  Carnale  è  l'uomo  freddo  senza  calore  di  carità  ;  ani- 
male è  l'uomo  tiepido,  perciocché  parendogli  aver  lasciato  il  mondo 
e  la  frigidità  del  peccato,  e  facendosi  a  credere  che  questo  a  lui  basti, 
non  si  sollecita  di  migliorare^  né  di  diventare  ben  fervente  (3)  ». 

(1)  Vite  dei  SS,  PP.  voi.  V,  p.  151.  Ecco  il  passo  cui  si  allude:  t  Oh 
come  sono  poveri,  e  miseri,  e  sbanditi,  e  bisognosi  di  ogni  bene  coloro 
che  si  dipartono  da  DioI  Molto  sono  peggiori  che  bruti  animali  coloro  da' 
quali  Iddio  s'è  partito....  » 

{2)  Vite  de' SS.  PP,,  voi.  VI.  Vita  di  S.  Eufrosina,  pag.  231  (Milano.  Sil- 
vestri, ìBQOj.  f  Ed  appresso  a  certo  tempo  la  donna  ebbe  partorito  e  fatto 
una  fanciulla  femmina  i . 

(3)  Qay.  Dis.  Spir.  (Ediz.  Silvestri),  pag.  7. 


EPISODIO  DBLLA  PBÀNCBSGA  DA  BIKINI  443 

A  contrapposto  dell'uomo  animaUj  e  dell'uomo  animale  bruto^  gli 
antichi  usarono  la  frase  di  uomo  rarionale^  ed  anche  secondo  l'asce- 
tica quella  àì^uomo  spirituale;  cosi  Ouittone  di  Arezzo:  e  E  voi, 
mercè,  gioioso  Siate  di  voi  com'  l'uomo  razionale  (1)>;  Cavalca  nei 
Frutti  della  lingua  :  e  l'uomo  animale  non  pensa  le  cose  di  Dio,  ma 
gli  paiono  stoltizia  ;  ma  lo  spirituale  giudica  e  discerne  ogni  cosa  (2)». 
Nello  stesso  concetto,  si  ha  cuore  razionale  e  virtù  razionaUy  come  in 
Guittone  :  e  Razionai  core.  Amar  non  dea  più  né  men  cosa  alcuna, 
Che  di  quant'ella  ò  buona  (3)>.  e  Ed  a  regno  eternale  hanno  ordi- 
nati, Solo  per  odiar  peccati,  E  per  virtudi  amar  razionali  t  (4). 

Che  l'uomo,  nella  contemplazione  di  so,  e  nella  considerazione  degli 
oggetti  esterni,  non  si  avesse  a  reputare  al  di  sopra  di  tutti,  compreso 
quelli  a  lui  meno  difformi,  è  cosa  che  repugnerebbe  alla  coscienza 
del  suo  valore,  infinitamente  più  grande,  ed  alla  superbia  ingenita 
onde  trascese  perfino  a  deificarsi;  nelle  tradizioni  più  antiche,  e  che 
meno  patirono  di  alterazioni,  tra  cui  prima  la  mosaica,  egli  s'intitola 
re  del  creato,  e  pretende  che  il  suo  piccolo  pianeta,  perchè  vi  abita 
sia  centro  deiruniverso.  Di  conseguente  sdegnò  sempre  di  uguagliarsi 
ai  bruti,  e  vi  discese  soltanto  o  condottovi  da  metafisiche  erronee  e 
trascendenti  troppo  al  sottile,  o  per  amore  disordinato  di  sensualità 
0  timore  di  giustizie  future  contro  le  colpe  sue  :  e  fermo  in  quello 
sdegno  santissimo,  non  accondiscese  mai,  in  tesi  generale,  di  acco* 
munarsi  per  via  di  nome  con  quei  viventi,  insieme  ai  quali  condi- 
vide la  sola  sensività. 

È  vero  che  si  chiamò  :  <  animale  civile,  animale  provvido,  man- 
sueto,  ingegnoso,  sagace,  dotato  di  ragione  e  di  consiglio  >,  ma  con- 
cluse di  essere  «  nobilissimo  sopra  tutti  gli  altri  animali,  e  nei  confin 
posto  tra  le  cose  ftvine  e  le  terrene  (5)  >. 

Per  ciò  sollevatosi  ad  altezza  mirabile  al  dissopra  dei  bruti,  diede 
a  conoscere  come  non  concedesse  altra  partecipazione  di  sé  coi  me- 
desimi, se  non  per  avere  in  somigliante  la  scorza  estema  ossia  la 
corporalità  organica.  Conseguentemente  tutti  gli  scrittori,  i  quali 
citammo,  allorquando  diedero  nome  di  animale  ad  alcun  uomo,  lo 
fecero  a  manifestare  di  averne  giudicato  in  oltraggio  della  condizione 
sua  naturale  di  ragionevole,  se  non  fu  a  motteggio  e  sollazzo,  op- 
pure se  non  avvenne  che  glielo  attribuissero  per  singolare  acconsen- 
timento  ad  un'immagine  o  concetto  del  discorso,  quale  sull'esempio 
che  segue  della  Vita  di  e.  Girolamo,  dove  si  narra  che  il  Santo,  com- 

(1)  Ediz.  Silv.,  pag.  90. 

(2)  Pag.  90. 

(3)  Rime  1,  p.  24. 

(4)  Rime  11,  p.  5. 

(5)  Alessandro  Piccolomini,  Della  Istituzione  morale^  libri  xii,  L.  l,c.  1. 


444  BIVISTA  OOMTSMPOBAKBÀ 

piuta  che  ebbe...  <la  penitenza  per  tempo  dì  quattro  anni,  andosaeno 
alla  città  di  Betlem,  nel  quale  luogo,  siccome  sévio  mimmìe  offerse 
sé  a  dimorare  alla  mangiatoia  del  Signore  (1)  ». 

Evidentemente  animale  ivi  è  vocabolo  posto  in  memoria  e  simili- 
tudine degli  animali  ohe  scaldavano  col  fiato  il  Salvatore  bambino, 
e  per  accomodar  una  delle  parti  alla  condizione  del  tutto,  trattandosi 
di  stalla  e  di  mangiatoia,  luogo  ed  arnese  ad  uso  proprio  degli  ani- 
mali domestici. 

Quando  poi  accadde  di  parlare  di  animali  con  atti  e  portamenti 
superiori  alla  qualità  di  loro,  e  da  sembrare  guidati  da  lume  d'intel^ 
letto,  in  allora  piacque  di  mostrarli  quasi  dotati  di  ragione.  Nella 
leggenda  di  S.  Francesco  raccontandosi  di  un  agnello,  che  quel 
Santo  amorosissimo  si  aveva  allevato  e  nutricato  in  Boma,  e  nel 
partire  lasciatolo  in  guardia  ad  una  buona  femmina  di  colà,  aggiun- 
gesi  che  :  «  quando  ella  andava  alla  chiesa,  e  Tagnello  andava  con 
lei  come  fosse  animale  ragionevole  e  ammaestrato  nelle  cose  spiri* 
tuali  (2)  ». 

Similmente,  narrandosi  di  uccelli,  che  il  Santo  salutò  siccome 
fossero  state  persone:  «  e  gli  uccelli  stettono  fermi,  e  comtnciaro  ad 
e  ascoltare,  e  volgersi  verso  lui,  e  quelli  che  erano  in  su  gli  arbo- 
e  scelli  si  inchinavano  lo  capo,  e  tutti  stavano  ad  ascoltare  come 
«  se  avessono  a9W0  intendimento  di  ragione.  E  *1  beato  Francesco  disse 

«  loro  :  Fratelli  miei,  lodate  Iddio  che  vi  creò e  dicendo  lui  queste 

e  parole,  gli  uccelli  vi  stavano  attesi  mirabilmente,  e  stendevano  i 
€  colli,  e  aprivano  le  |die,  e*  becchi  verso  di  lui,  eiecome  aveaero  in- 
«  tendmento  di  quello  ch'ei  dieta  (3)  ». 

Dunque  il  vocabolo  animale^  per  quanto  s'investigasse  e  si  rmei- 
molasse  di  esempii,  non  risulta  avere  significato  %ella  consuetudine 
comune,  che  la  creatura  animata  ed  irrazionale  ;  e  quando  fu  appli- 
cato all'uomo,  gli  si  accostò  un  aggiunto,  che  determinasse  trattarsi 
in  allora  dell* essere  dotato  di  ragione  ;  e  le  bestie  stesse  dimostranti 
segni  d'intelletto  quasi  umano,  furono  assomigliate  con  figura  di 
"esaltamento  fino  all'uomo.  E  ciò  doveva  succedere,  posto  che  si 
movesse  dal  principio,  essere  da  chiamarsi  animalità  l'animajEtone 
semplice,  non  illustrata  da  una  luce  più  splendida  ;  e  l'uomo  fosse 
da  considerare  più  che  fornito  della  vita  sensitiva.  Conformemeflite 
a  ciò  veggiamo  le  voci  che  derivano  da  wmo ,  quando  si  volsero 
a  modo  di  traslato  dal  senso  primitivo,  furono  portate  a  signi- 
ficati propri!  della  condizione  migliore  dell'essere  ragionevole;  per- 
ciò umano  pigliarsi  in  valore  di  benevolo,  cortese,  nf abile,  man- 

(1)  Vita  di  S.  Girolamo,  nel  voi.  v  delle  Vite  dei  SS.  PP.  p.  3.  ediz.  cit. 

(2)  Vita  dis,  Francesco  nelle  Vite  ss.  PP.,  voi.  VI,  pag.  66. 

(3)  Ivi,  pag,  93. 


EPISODIO  DBIXA  FBANOBdCA  DA  RIMINI  445 

iUiU,  empéU$wmvole  (1);  i^Uoy  Uggiairo  (2);  umanità  usata  per 
h9fidày  H0n  tmore,  mitizza  y  eomnUsercmoHe ,  ed  anche  potenzialità 
d'uomo  (3);  umaHament&  tener  luogo  dì  gentilwmtey  ragionevolmente  , 
com  pietà,  con  afe4i0,  ecc.  (4).  Dante  nella  Commedia  estese  anche  di 
più  il  significato  di  umano,  tanto  ad  innalzarlo  a  maggiore  dignità, 
quanto  a  più  scemargliela  di  quello  che  altri  facessero  ;  traducendo 
il  Tidit  ei  virgo  et  saturnia  regna  di  Virgilio,  con  dire  :  e  torna  giu< 
stilla  e  primo  tempo  umano  »  volle  intendere  tempo  heato  di  pace, 
di  puri  costumi  e  di  retta  ragione  ;  e  altrove  pregando  alla  Vergine 
nel  Paradiso  che  vincesse  con  sua  guardia  i  mavimenii  umani,  riferisce 
ad  umano  piuttosto  le  passioni  che  le  virtù,  a  similitudine  degli  asce- 
tieiy  i  quali  presero  di  frequente  umano  e  mondano  per  contrapposto 
di  spirituale  e  sinonimo  di  vizioso  secondo  la  sensualità  di  natura. 

Da  ciò  sembrami,  rimanere  oramai  ridotto  a  forma  di  buon  argo- 
mento, non  essere  corso  in  lingua  l'uso  del  vocabolo  animale  a  chia* 
mare  un  uomo,  tranne  dei  casi  particolari  in  cui  s'intese  di  alluderne 
a  qualche  difetto,  o  menomargli  pregio,  inchinandolo  cioè  verso  il 
bruto,  dalla  supremazia  sua  di  ragionevole  ;  per  cui  se  Dante  fece 
contro  la  maniera  generale,  indueendo  Francesca  ad  indirizzargli  il 
discorso,  cominciando  da  queir  appellativo,  non  potè  ìndurvisi  (non 
trovandosi  altra  cagione)  che  da  un  suo  specialissimo  sentimento. 

Che  fosaevi  cospetto  da  necessità  di  metro,  non  è  a  pensare; 
nepfmre  stimolatovi  da  huxo/te  di  singolarità,  o  da  una  tal  quale  biz- 
zarria; ccmciossiachò  sia  palese  a  chiunque  l'abbia  in  qualche  pratica 
non  avere  ghiribisaatO)  e  quando  vi  ha  l'apparenza,  ciò  avvenire  da 
un  motivo  suo  nascosto,  il  quale  si  svela  se  vi  si  cerchi  per  entro 
colla  diligenza  voluta,  e  con  perspicacia  sufficiente.  Dante  adunque 
non  potè  collocare  8o&ì  stranamente  quel  vocabolo  nel  luogo  in  cui 
lo  pose^  fuori  di  ogni  consuetudine,  senza  uno  scopo  da  conseguire: 
che  forse  a  lui  era  chiaro  abbastanza  acciò  lo  reputasse  indovinato 
dai  lettori,  e  che  nondimeno  restò  sconosciuto  ai  più,  o  per  avere  av- 
vertitovi alla  leggiera,  o  per  non  avere  seguito  acutamente  il  poeta 

(1)  DizioDario  del  Tramater  alla  voce  Umano, 

(^  «  Così  fu  preso  (da  amore)  quell'Achille  forte,  Lanciloiio  Tristano, 
Isotta  umana».  •  Aveva  già,  secondo  'i  ver  saputo,  Della  gran  rotta,  e  di 
sua  figlia  umana  »  (Novella  del  Gerbino  in  ottava  rima,  pag.  16  e  33.  Bologna 
presso  Gaetano  Romagnoli  1862).  —  a  Ov'è  Tombra  gentil  del  viso  umano  » 
(Petrarca  nel  sonetto  •  Ov*è  la  fronte  che  un  picciol  cenno)  ». 

(3)  Vocabolario  del  Tramater. 

(4)  Vocaholarii  del  Tramater,  del  Manuzzi,  ecc.  Il  Gellini  usa  umana- 
mente in  una  supplica,  in  significato  di  calorosamente,  con  umili  e  vive 
istanze:  «Imperò  io  lo  pregai  (il  re  Francesco  di  Francia)  tanto  umana- 
mente, che  con  sua  buona  grazia  venni  in  Italia  t.  Vita^  ediz.  Le  Mou- 
nier» pag.  553. 


446  RIVISTA  CONTBHPOBAKBA 

nel  cammino  delle  idee  in  cui  egli  si  prefisse  d'introdorli.  Né  deve 
arrecare  meraviglia  che  possa  ciò  essere  accaduto,  intercedendo  tra 
gU  altissimi  intelletti  ed  i  mezzani  tale  e  tanta  differenza,  da  proce- 
dere gli  uni  troppo  rapidi  e  sicuri  nelle  vie  asjNre  e  difficili,  sic- 
ché gli  altri  per  ricalcarne  i  vestigii  abbiano  uopo  di  faticare  alla 
lunga,  e  valersi  di  tutto  lo  sforzo  della  loro  virtù  affine  di  sa- 
lire alcuna  volta  alla  vista  dell'ampio  orizzonte  d'onde  quelli  spa- 
ziarono, né  possano  di  leggieri  coglierli  nei  finissimi  particolari  delle 
opere  loro,  con  un  atto  solo  di  comprensione,  ma  siano  costretti  di 
considerarli  a  tratto  a  tratto  ;  e  in  tal  fatica  avvenga  che  più  cose 
passino  inavvisate.  Laonde  non  faccia  maraviglia  se  eziandio  nel  caso 
presente  sia  corso  inavvertito  il  reale  e  profondo  signiUcato  del  con- 
cetto dantesco ,  il  quale  io  m'ingegnerò  di  mettere  in  chiaro,  per 
quanto  mi  valga  l'amore  al  più  grande  degl'Italiani. 


IV. 

Non  avendosi  raggranellato  testimonianza  veruna,  dalla  quale  deb- 
basi  arguire  che  l'appellativo  di  anin^ale  fosse  mai  usato  dimestica- 
mente  in  iscambio  d'uomo,  e  venendosi  a  conchiudere  che  Dante  se 
ne  abbia  giovato  ad  un  intendimento  suo  peculiare,  è  pregio  del- 
l'opera indagare  la  ragione  latente  d'onde  fu  condotto  a  valersene, 
tentando  di  svelarla  e  dedurla  dal  pensiero  generale  che  in  lui  ebbe 
a  predominare  quando  concepì  e  dettò  l'intero  canto,  e  dai  8^;ni  e 
dimostrazioni  di  esso  pensiero,  qua  e  là  apparenti.  Per  conseguenza 
ci  conviene  ricondurci  al  luogo  in  cui  avvenne  l'incontro,  e  consi- 
derarvi tutto  attorno  per  minuto. 

Dante  col  suo  duca  esce  dal  limbo,  lasciando  le  ombre  dei 
grandi  personaggi  ai  quali  il  cielo  restò  chiuso  per  difetto  della 
vera  credenza,  e  viene  nel  cerchio  secondo  dell'infèrno,  dove  i  lussu- 
riosi ricevono  pena  del  loro  peccato.  Ode  molto  piuito,  ^itra  in  loco 
muto  di  ogni  luce  ;  ivi  è  mugghio  simile  a  mare  in  fierissima  tem- 
pesta, e  il  mugghio  è  della  bufera  che  seco  rapina  interminabilmente 
ed  assiduamente  i  dannati,  e  molesta,  e  percuote,  e  traggeli  sino 
alla  ruina,  giunti  alla  quale  prorompono  in  istrida,  in  lamenti,  in 
piagnere,  in  bestemmie.  Sono  in  larga  schiera  e  piena,  come  gli 
stornelli  nel  tempo  freddo,  e  di  mezzo  a  quel  turbinare  e  ravvolgersi 
per  ogni  lato,  parte  ne  vede  muovere  verso  di  lui  in  lunga  riga, 
e  guaiendo,  alla  maniera  che  fanno  le  gru,  le  quali  sì  distendono 
per  l'aere  e  cantano  i  proprii  lai.  Dal  maestro  ha  notizie  di  più  ombre 
che  gli  passano  dinnanzi  alla  vista;  tutte  di  peccatori  carnali,  de'più 
famosi  per  gloria  e  de'  più  stemperati  per  vizio,  non  perdonandosi  né 


EPISODIO  DBLIA  1F1UKCB!ICA  DA  RIKINI  447 

a  grandezza  dell'imperio  tenuto,  né  a  prodezza,  né  a  beltà  celebra- 
ti88ima  di  persona. 

Dai  commentatori  antichi  si  ritrae  come  egli  non  abbia  collocato 
una  sola  immagine  nel  quadro  lugubre  e  miserando,  la  quale  non 
soddisfacesse  ad  uno  scopo  particolare  della  mente  sua,  e  non  con- 
suoni coll*intendimento  più  capitale,  che  è  di  dipingere  a  colori  e  di- 
segno perfettamente  appropriati  al  soggetto,  la  prigione  etema,  in 
cui  si  punisce  chi  durante  la  vita  terrena  si  disfrenò  con  le  libidini, 
e  Ed  è  da  notare,  scrive  il  Buti,  che  le  pene  che  Tautore  adatta  a 
€  quelli  deir inferno,  sono  litteralmente  secondo  convenienza  del  pec< 
€  cato,  allegoricamente  si  devono  intendere  di  quelli  del  mondo  >  (1). 
Ivi  sono  le  tenebre  a  significare,  siccome  commenta  il  suddetto,  che 
i  lussuriosi  sono  nel  mondo  come  in  luogo  senza  luce  e  perchè  hanno 
€  cecità  di  mente  ;  e  questa  è  la  pena  che  [finge  essere  a  loro  per 
e  convenienza  ;  chi  è  stato  cieco  nel  mondo,  degna  cosa  è  che  sia  in 
€  cecità  nell'inferno  »  (2). 

Il  mare  in  tempesta  e  la  bufera  che  li  travolge  ed  arrota  insieme, 
furono  finti  e  a  noi  dare  ad  intendere  che  l'animo  dell'uomo  lussu- 

<  rioso  nella  presente  vita  sempre  è  agitato  e  combattuto  da  diversi 
€  affetti,  li  quali  non  lo  lasciano  mai  riposare  »  (3). 

Vi  si  ricorda  il  mare,  dacché  come  in  esso  <  s'incontrano  pericoli, 
€  naufragi],  danni,  disastri...  così  nel  lussurioso  s'incontrano  spendii, 

<  scandali,  risse,  strazii,  incendii  >  (4)  ;  il  mare  cioè  in  tempesta,  com- 
battuto da  venti  contrari!  :  e  imperocché  ivi  son  venti  contrarìi  che 
€  cagionano  l'infortunio,  e  del  pari  nel  lussurioso  le  contrwe  passioni, 
€  speranza,  timore,  allegrezza,  mestizia,  fan  guerra  tra  loro  e  gli 
«straziano  Tanimo»  (5). 

Nella  mina,  a  cui  quei  dannati  giungendo  danno  in  istrìda,  com- 
pianto e  lamento,  «  é  inteso  il  precipitare  nei  vizii  e  nei  perìcoli  che 
Il  fanno  i  lussuriosi  per  cagione  del  loro  peccato  :  e  nel  suono  doloroso 
«  in  cui  prorompono,  vuoisi  alludere  ai  lagni  e  al  gridare  per  le  cru- 
€  deità  e  i  tradimenti  dell'amata  (6)  ;  ed  ancora  é  un  contrapposto 
€  del  chiasso  sollazzevole  che  fecero  quando  hanno  cantato  e  composto 
«  sonetti  e  canzoni  d'amore  >  (7). 

Furono  immaginati  nel  vento  dell'aere  che  li  trasportasse  a  rapina, 

(1)  Buti,  Commento,  voi.  1,  p.  157.  Pisa,  Nistri  1858. 

(2)  Buti,  ih.y  pag.  157. 

(3)  Commento  di  Guinifredo  de'Bargigi.  p.  113. 

(4)  Benvenuto  da  Imola,  Commento  tradotto  dall'avv.   Giovanni  Tambu- 
rini. Tom.  I,  p.  148.  Imola,  Galanti  1855. 

(5)  Ih.  . 

(6)  Benvenuto  da  Imola. 

(7)  Buti. 


448  RIVISTA  OONTBMPORANEA 

allo  scopo  di  dimostrare  «la  loro  incostanza  e  volubilità...  la  debo- 
lezza e  fragilezza  »  (1)  ;  e  si  paragonò  il  modo  in  cui  stenderasi  la 
loro  turba  aDa  piena  e  larga  schiera  onde  stanno  gli  stornelli,  non 
solo  per  dare  somiglianza  di  quella  singolare  disposizione,  la  quale 
pigliano  i  detti  uccelli  in  via  di  peregrinare  a  paese  più  caldo,  quanto 

eziandio  perchè  essendo  «lussuriosissimi  e  lievi,  simili agli 

amanti»  (2),  meglio  si  confacevano  alla  similitudine. 

Susseguentemente  trovi  nominati  i  gru  imperciocché  siano  ugual- 
mente «molto  lussuriosi  »  (3);  onde  più  innanzi  il  poeta  li  trae  di 
nuovo  a  comparazione  nel  canto  xxvi  del  Pbrgtttorio,  in  cui  si  parla 
eziandio  di  peccatori  carnali.  E  accennò  che  facevano  i  loro  M,  si 
lamentavano  cioè  in  suono  non  diverso  da  quel  cantare  dolente  e 
malinconico  che  è  de' canti  per  grande  sventura  di  amore,  o  perla 
morte  di  persona  diletta  (4). 

Vengono  poi  le  colombe,  animali  di  Venere,  miti,  teneri,  simbolo 
deirìnnocenza  se  vogliasi,  ma  nondimeno  consacrati  alla  Dea  degli 
amorì  e  tenuti  inchinevoli  a  lascivia  perchè  spesseggiano  tra  di  loro 
i  baci  e  Tolentieri  si  congiungono  (6). 

In  appresso  quando  si  passa  ai  personaggi  i  quali  sfilano  dinnanzi 
al  poeta,  e  sono  riconosciuti  e  rammemorati,  vi  si  annoverano  bensì 
uomini  e  donne,  ma  prima  è  nominata  una  donna,  e  come  impera- 
drice  ò  posta  a  capo  della  c<»npagia,  poscia  di  altre  due  si  occupa 
il  discorso,  con  qualche  particolare  ;  mentre  degli  uomini  ^[»pena  si 
tocca,  0  si  fiEi  citazione  dei  semplici  nómi  ;  finalmente  la  quarta  che 
si  presenta,  Francesca,  sola  interloquisce  con  Dante,  e  nurragli  f 
casi  che  le  occorsero,  e  il  termine  crudele  ;  ma  il  compagno  di  lei  si 
tace  sempre,  non  altro  mostrandosi  che  per  seguitarkt  coi  BtmfAwì  e 
col  pianto;  La  quale  prevalenza  delle  donne  nella  distribusione  della 
scena,  chiamate  ad  attrici,  coneedendoii  ai  masdii  non  altro  che  una 
parte  poco  ragguardevole,  quasi  direi  di  comparsa,  evidentemente  è 
in  risguardo  alla  debolesza  maggiore  del  sesso  gentile,  ed  a  quel 
trasporto  più  impetuoso  (mie  la  femmina  si  abbandona,  sprezaumdo 
peincoli  ed  abbattendo  ostacoli,  (^iqualvolta  Famore  abbiala  in  sua 
padronanza  e  le  arda  nel  sangue  e  le  innebrii  il  cervello. 

(1)  Buti. 

iì)  Benvenuto.  Commento^  voi.  I»  p.  150.  Ottimo  commento,  voi.  I,  p.75. 

(3)  OUimo  Commento,  voi  I,  pag.  75. 

(4)  «  £  a  quel  punto  lo  re  Artus  (quando  seppe  la  morte  di  Tristano) 
fece  uno  lai  cordoglioso,  il  quale  fu  appellato  pianto  reale.  E  quello  la- 
mento fu  a  modo  di  sermone  ;  e  facealo  cantare  ogni  buon  mattino...  • 
Morte  di  Tristano  e  della  reina  Isotta,  Parigi,  La  Combe,  1854. 

(5)  Benvenuto,  Commento y  voi  I»  p.  158.  —  Ottimo  Commentò,  voi,  1, 
pag.  75. 


BPISOCIO  PBLLA  FBANCBSOà  DA  BIKINI  449 

CiasouQA  oo9a  nel  Hmta  meutoyato  trovasi,  se  non  erro,  ordinata 
a  ooDsuonare  in  vero  e  continuo  accordo,  da  rispondere  costante- 
mente secondo  Tintento  che  predomina  e  le  raccoglie  ed  accomuna 
insieme  ;  si  direbbero  orientate  tutte  e  diriszate  ad  un  punto,  sioeome 
par  siano  le  particole  de*  corpi  quando  una  qualche  virtù  potente  a 
sé  le  attiri  e  faocia  volgere;  uè  ciò  parrà  immaginato  e  supposto  da 
mia  propria  fantasia,  diK^^hè  mi  andai  giovando  di  continuo  dei  com- 
mentatori più  vicini  all'età  del  Poeta,  e  più  istrutti  delle  dottrine  e 
maniere  in  allora  prevalenti  a  comporre  le  opere  dell'ingegno. 

Posto  che  Dante  si  fosse  prefisso  od  abbia  osservato  un  dato  modo 
di  condurre  per  continua  forma  di  allegorie  e  di  allusioni  il  suo 
racconto  ,  sino  all'ingresso  nel  cerchio  ,  non  sarebbe  da  dubitare 
che  tosto  piuti  allorchò  giunge  a  Francesca;  per  conseguente  ciò 
che  ^pravviene  deve  procedere  in  concordia  col  premesso,  laonde 
da  (xmsideraisi  non  diversamente.  La  infelice  rimitìese,  ueoisa  per 
a4^1terio,  caduta  peveiò  nel  baratro  dove  si  puniscono  i  simiglianti  a 
lei,  indivisa  dal  suo  innamorato,  peccatore  con  essa,  circondata  da 
anime  macchiate  di  sensualità ,  non  può  non  avere  attintovi  del  lin- 
guaggio il  quale  più  sembfa  coniarsi  alle  persone  colà  e^idannate  e 
allo  stato  loro  ;  in  ispecie  in  sul  principio  deve  cadere  a  farne  uso, 
allorquando  non  riprese  per  memoria  rinfrescata  i  consueti  modi  che 
tenne  nella  vita  serena.  Cosi  appunto  suole  accadere  di  chiunque  fre- 
quenti ima  data  qualità  di  gente,  che  ne  piglia  senz'avvedersene  le 
foggio  di  portamento  e  del  discorso,  da  cui  si  ravvede  e  recede 
quando  accadagli  di  ritrovarsi  tra  coloro  io  mesvo  a  cui  fu  allevato  e 
durò  molti  aoni-  E  che  Dante  la  fiieesse  scivolare  per  un  tratto  nelle 
s4n|coÌQlo,  torna  flaoile  da  supporre,  avendo  più  volte  proceduto  poi 
v(^89P  di  mattare  in  bocca  di  parecchi  de'  suoi  personaggi  frasi  e  voci 
acconcie  alla  natura  o  stato  loro,  come  fece  parlare  Pluto  e  Bifeo  ar- 
zigogoli inintelhgibili,  diede  bestemmie  a  Vanni  Pucci,  lombardismi 
a  Virgilio  mantovano,  atti  di  furore  a  Filippo  Argenti.  In  conformità 
di  (questa  regola  intesa  ad  accrescere  più  evid^nia  ed  efficacia  alla 
lUM^rasione,  Francesca  al  primo  avvicinarsi  al  Poeta  e  nelle  primissiiM 
parole  dovette  cominciare  con  vocabdo  adatto  alla  condizione  sua 
presente,  e  perciò  incespicare  a  salutarlo  col  nome  di  animale  in  cam- 
bio d'uema  ;  essendoché  paia  naturale  che  tra  i  dannati  di  quel  oerehio 
fosse  sbandito  o  disavvezzo  il  nobile  vocabolo  che  significa  difforeaza 
e  maggiorità  della  creatura  ragionevole  sulla  brutale,  né  degno  che 
ivi  si  pronunciasse  dalle  labbra  di  chi  aveva  in  vita  propria  me^ 
nato  i  giorni  piuttosto  col  contegno  animalesco  che  umano.  Ma  non 
appena  desse  uscì  nello  sconcio  appellativo,  subito  dovette  accorgersi 
di  avere  errato,  perché  meno  colpevole  de'  compagni  e  perciò,  rimasta 
meno  smemorata  della  sua  alta  condizione  precedente,  ebbe  subito  a 

jUpUta  (7.  -  i29 


450  RIVISTA  CONTEMPORANEA 

ricordarsi  degli  antichi  modi  cortesi  e  provvedere  con  rapidità  a  rac- 
comodare il  fallo  commesso,  soccorrendosi  femminilmente  di  epiteti 
laudativi,  i  quali  succedessero  a  raddolcire,  scusare,  interpretare  il 
brutto  appellativo  :  sicché  se  ben  vi  ponderi  sopra,  tra  il  motto  primo  e 
i  due  aggiunti  passa  tale  differenza,  come  da  un  atto  villano  seguito 
immediatamente  da  alcune  cortesie  squisitissime:  nel  primo  è  la 
donna  disonesta,  abituata  tra  disonestissimi  ;  negli  altri  è  la  gentil 
sig^nora,  nata  ed  allevata  signorilmente  che  ripiglia  l'antico  favellare. 
Adunque  stando  a  queste  induzioni ,  animale  ivi  non  sosterrebbe 
senso  corrente  e  semplice  di  uomo  ;  bensì  assumerebbe  quello  di  «omo 
dèdito  e  immerso  in  lussurie ^  e  si  atterrebbe  ad  uno  dei  significati  mo« 
rali  che  notammo  essergli  stati  attribuiti. 

Facilmente  Dante  deve  eziandio  avere  jnteso  di  racchiudere  in 
quell'ingiuria  un  segreto  rimprovero  rivolto  a  se  medesimo  come  ri- 
cordo di  essere  egli  stato  invescato  nelle  panie  amorose,  né  conservata 
tale  fede  alla  pudica  memoria  della  sua  Beatrice ,  tanto  che  dessa 
ne  ebbe  poi  a  rimproverarlo  incontrandolo  in  altro  luogo  e  si  me- 
ritò una  cocente  fiammata  in  quel  grado  del  purgatorio  in  cui  i 
dediti  a  lussuria  riceveano  castigo  del  loro  peccato  (1). 

V. 

La  diceria  protratta  sino  a  questo  punto  a  dichiarare  il  vero  signi- 
ficato di  un  vocabolo  solo,  potrà  parere  ^verchia  e  poco  utile,  qualora 
non  si  consideri  come  vi  fossero  contenuti  due  fini  ;  quello  che  é  più 
palese  e  diretto,  e  formò  argomento  del  discorso,  ed  un  altro  meno 
apparente,  ma  di  non  lieve  importanza,  vogUo  dire  lo  scopo  di  cogliere 
occasione  a  iiuovamente  eccitare  gli  Italiani  che  osservino  con  quali 
mirabili  diligenze  di  arte  abbia  proceduto  il  nostro  maggiore  poeta 
ne*  particolari  della  grand-opera  sua,  e  ne  ricevano  esempio  da  imi- 
tare, lasciando  di  seguire  l'andazzo,  che  é  di  trascurare  la  maestria 
della  forma  col  pretesto  di  meglio  attendere  alla  sostanza.  Dico  pre- 
testo, dacché  guardandovi  addentro  é  mala  scusa  di  non  affitticarsi 
allo  studio  paziente  della  lingua,  affine  d'impadronirsene  e  giovarsene 
destramente  all'uopo.  Il  quale  funesto  errore,  oh  di  quanto  strazio 
toma  ad  una  primavera  novella  delle  nostre  lettere  assiderate  !  Impe- 
rocché se  mai  popolo  al  mondo  abbia  uopo  di  curare  la  espressione 
del  concetto,  questo  é  il  nostro,  che  fantastico,  amoroso,  impetuoso 
e  con  certa  maturità  di  giudizio  associatavi,  varia  per  mille  modi  i 


(1]  VOttimo  ComnientOf  esponendo  il  verso  «  Pietà  mi  vinse,  ecc.»  scrive: 
«Nota  qui,  lettore,  che  il  detto  autore  (Dante)  fu  molto  in  questo  amore 
invescato  %. 


EPISODIO  DBLLA  FRANCBSCA  DA  BIKINI  451 

pensieri  e  le  immagini,  le  vede  e  combina  in  atteggiamenti  svariatisi 
simi,  gode  di  veleggiare  per  ampio,  e  folleggia  e  punge  quando  gli 
aggnrada,  e  spesso  sbozza  a  tratti,  e  sfuma  più  che  designare  e  co- 
lorire; laonde,  in  tale  moltiplicità  e  diversità  d'oggetti  guai  se  la 
parola  non  gli  succeda  rapida  ed  appropriata,  e  sia  costretto  a  strop- 
piare il  pensiero,  od  a  significarlo  a  mezzo.  In  allora  nascono  le  scrit- 
ture mal  fatte  e  di  gusto  alterato,  nella  guisa  che  il  mostro  dall'em- 
brione in  difetto;  e  il  lettore  quand'anche  fosse  di  senso  guasto, 
in  breve  se  ne  accorge,  non  potendosi  tanto  occultare  la  discordia 
tra  l'idea  intema  ed  il  raffiguramento  esteriore  che  non  ne  nasca 
impressione  molesta,  acerba,  e  però  assai  poco  accettevole. 

La  consuetudine  di  allegorizzare  e  dei  significati  molteplici,  re- 
putata nei  secoli  di  Dante  sottilità  e  forza  di  mente,  soccorse  senza 
fallo  a  rendere  attentissima  e  delicatissima  la  cura  delle  parti,  sicché 
si  lavorasse  con  amore  geloso  alle  minutezze,  dovendo  ciascuna  ren- 
dere una  e  talvolta  più  impressioni  in  un  tempo.  Ma  non  è  a  du- 
bitarsi che  dato  un  altro  secolo  ed  altre  inclinazioni,  quell'intelletto 
perspicacissimo  e  severissimo  non  vi  avrebbe  attenuto  di  meno,  vo- 
lendo così  le  qualità  dell'alto  ingegno. 

Non  amerei,  qui  si  avesse  a  sospettare  essere  io  dell'avviso  che 
Dante  fosse  proceduto  colla  minuziosaggine  di  un'rettorico  pedante, 
accomodando  e  lisciando  ogni  peluzzo  pel  suo  verso,  quasi  lento  mi- 
niaturista 0  ricamatore  ;  che  anzi  fu  in  parecchi  incontri  sprezzante 
ed  arru&to,  sempre  poi  gigantesco.  A  togliere  gli  equivoci  aggiungo, 
che  se  stette  sollecito  a  provvedere  all'assetto  preciso  ed  armonico 
delle  cose,  lo  fece  secondo  gli  convenne  a  bene,  quando  uno  squisi- 
tissimo sapore  del  bello  glielo  suggerì,  guardando  alhi  perfezione  dei 
particolari  ;  non  unicamente  acciò  si  conferisse  alle  bellezze  di  mera 
vistosità,  quanto  più  alFoggetto  che  rispondendosi  con  giusta  e  sin- 
gdare  concordia  l'apparenza  colla  sostanza,  accrescesse  nel  lavoro 
virtù  di  commuovere  maravigliosamente  gli  animi,  ed  efficacia  di 
vita  reale  nel  giro  delle  idealità. 

Notai  in  addietro  che  il  componimento  del  canto  quinto  dell*In. 
femo  è  come  un  quadro  dentro  al  quale  compaiono  i  diversi  perso- 
naggi, e  ciascheduno  in  situazione  adatta  ;  e  che  ivi  le  donne  cam- 
peggiano, conforme  all'opinione  essere  la  natura  di  loro  più  debole 
di  tempera,  e  rendersi  più  dissolute  dal  punto  in  cui  svestirono  il 
paludamento  della  pudicizia.  Delle  quattro  che  vi  si  nominano,  Semi- 
ramide precede,  perchè  la  più  antica  e  la  più  eccellente  che  dire  si 
possa  (1),  e  prima  di  dignità,  essendo  stata  imperatrice  (2)  ;  prima 

(1)  Guiniforto  de'Bargigi,  p.  114. 

(3)  Benvenuto  da  Imola ,  tom.  I,  pag.  152. 


4fi3  RIVISTA  C0I«ITPMP09A^EA 

in  ly99uria,  di^Qob^  fi^mo^i^simft  in  tale  peqi^atp,  e  di  spiriti  virili 
oltre  ogni  altra  fammixia,  avepdo  r^gn^to  poas^ntemepte,  e  combat* 
tuto ,  e  soggiogato  re  e  popoli ,  e  sostenuto  <K»9tuini  di  uomo  oltre 
la  forza  del  proprio  sesso. 

Dopo  colei  si  appresenta  bidone  di  mioor  grado  in  ma^ti^  ed  in 
iscQstumateva ,  non  essendo  stata  che  regina  e  lornicato  col  solo 
Enea,  ma  pure  di  animo  maschio,  come  fondatrice  di  cittl^,  e  gover* 
natrice,  e  forte  al  proprio  eecidio  quando  si  conobbe  abbwd(mata. 

Elena  si  oflfre  tersa,  femmisf^  più  che  donna,  qu^le  ^menp  ce  la 
delinea  Omero,  moglie  di  regolo  non  di  grande  re,  ^edevol^  airi^Uetti^- 
mento  di  un  bel  giovane  avventuriero,  ed  «^miQi^  di  i»oUe  voluttà 
senz'altro  segno  di  eosoienaa  propria,  obe  vane  quevel^  mvUobri* 

Poscia  succede  Francesca,  oh  quanto  meno  CQlp«v(d«  e  piìì  degM 
di  commiaeriizione  delle  precedenti!  Deae»  twto  ftltent  di  inìmo 
quanto  leggiadriasima  di  corpo,  data  per  ingmno  e  viotoo^a  a 
Lanciotto  (1),  o  innamorata  già  di  Paolo  o  poacU  divenutala)  dp^ 
vette  sostenere  di  fiere  battaglie  a  oonaervare  fedeltà  alio  sowcio 
marito  ed  a  non  dilettarsi  del  gentile  e  prode  cognato  I  B  ee  poscia 
cedette  alle  dolcezze  inefifabili  di  quella  seduiirae,  chi  oserebbe  dath 
condanna  di  morte? 

Povera  4onna!  Iddio  sa  quali  tturribili  angoocie  del  cuora,  quali 
soavità  di  allettamento  ebbe  centro  alla  sua  coetAUia  »  rcttitin*e;  la 
qual  fiofltansa  probabilmente  male  ricevuta  daH'educasione,  eaaendo 
in  allora  ooioltissimi  i  costumi  nelle  corti,  poco  potè  aiutarla;  di  fiitto 
si  ppoJessavano  a  vanto  di  cavalleria  gli  amori  non  legittimi,  ed  i 
remarsi  più  diffusi  ne  traevano  come  di  argomento  abituale  (8). 

Talune  afiermò  che  Daata  introducesse  Tepisodio  di  Franetioa 
per  ragione  di  animo  grato  verso  dell'amico  ed  ospite  suo,  quasi  a 
cancellare  colla  pietà  del  racconto  rin&mia  dell'aocaduto.  Se  queato 
fu  Tintendimento  del  poeta,  di  mostrare  più  la  aventura  che  il  pae^ 
cato,  a  gratificarsi  il  suo  Ouido,  eerto  toccò  alla  mira;  ma  io  ne 
dubito,  stante  che,  qualora  ciò  gli  fosse  piaciuto  avrebbeb  potuto 
assai  meglio,  tenendo  per  Francesca  modo  simigliante  a  quello  che 
feét  per  Picearda  e  Cunina,  in  ispecie  per  costèi,  la  quale,  sebbene 
fosse  detta  di  gentilissimi  ed  umanissimi  costumi,  nondimeno  nel 
lascive  amore  fu  quasi  senza  frena  (3).  For«e  la  figliuola  del  polon- 
tano  non  meritava  assai  più  di  essere  perdonata  ed  assunta  al  cielo 
di  Venere,  che  non  la  sorella  deirefferato  Eazelino? 

(lì  Balbq,  Vita  di  Dante,  lib.  I,  cap.  6. 

(2)  8oQO  Botissimi  ì  romanzi  che  in  allora  correvano  letti  nelle  oorti, 
venutici  dalla  Francia  e  dalla  Provenza.  I  più  famosi  di  LanciloUo  de  Lago, 
di  Tristano  ed  Isotta,  della  Tavola  Rotonda,  erano  dettati  in  inodo  da  parere 
Tanto  e  gentilezza  far  mancamento  dalle  nobili  dame  alla  fedeltà  coniugale. 

(3)  Velutello.  Commento  a  Dante, 


EPISODIO  DBLLA  FftANCBSCA   DA  BIGINI  453 

Potìrebbesi  dppòtre  ch«  k  morte  repetitiiia,  non  aocompagrnata 
dai  Bégùi  di  péntitùetìtO)  Btottò  a  i-eputaria  tra  i  dannati,  e  perciò, 
sedotàdo  le  cfedènEe  ricevute  comunetndtìte,  noti  era  da  incontrare  in 
altro  luogo  ohe  in  quello  dove  fu  descritta.  A  queéta  òousiderafcione 
si  può  ritipondere  che  Dante  usò  procedere  a  suo  talento,  superahdo 
le  opinioni  rolgari,  siccome  operò  in  efltetto  verso  1o  svevo  Manfredi 
impenitente  e  scomunicato,  che  fecelo  libero  dalla  g'iustiìia  eterna, 
e  iiilvo  lo  collocò  nel  purgatorio.  * 

A  mio  avvilo  Dante  non  ebbe  propositi  determinati  e  studiati,  al- 
lorquando uscì  coir  immortale  episodio,  ma  vi  fu  tratto  insuperabil- 
mente da  uno  di  quei  moti  spontanei  e  vigorosi  dell'animo,  quand'è 
della  tempera  divina  che  fu  il  suo.  Ed  egli  assecondò  a  quel  moto, 
non  guardando  se  conveniente  od  a  persone  od  a  aito,  e  ben  féoe  : 
Imperocché  gli  spiriti  magni  abbiano  leggi  proprie,  da  non  dovere 
ubbidire  alla  regola  comune,  né  tonerai  vincolati  da  strettoie  di  oerte 
ostervtneO)  avendo  uopo  di  esplicarsi  e  spasiare  a  diletto  loro,  quando 
ciò  poesa  giovare  a  nuova  manifestasione  del  vero  e  del  bello. 

Dante  posto  nel  cerchio  in  cui  si  puniscono  i  carnali,  fuggevole 
che  rioordaeee  Francesca)  conosciutala  per  fama  prossima  e  dolorosa, 
e  dovette  ocdorrergli  in  memoria  il  malaugurato  matrimonio,  l'astu- 
zia e  l'inganno  onde  fu  condotto,  il  dispetto  od  il  tormento  di  cuore 
della  fanciulla  :  fbrs'anco  seppe  a  minuto  altri  particolari,  tanto  da 
sentirsi  tocco  di  maggior  ccmipasBione  verso  la  sagrificata,  e  di  più 
sdegno  contro  la  tirannia  d'imporre  marito  alle  fanciulle  secondo  il 
beneplacito  paterno,  e  non  di  lasciarlo  alla  scelta  delle  loro  proprie 
inelinazioni,  restringendosi  alla  tutela  necessaria  d'illuminarle  e  bene 
addrinarle.  Beatrice  sua  era  pure  stata  congiunta  a  Simone  de'  Bardi 
dal  padre  di  lei,  il  quale  non  sembra  si  curasse  mai  che  il  giovane 
Aligìiieri  avessela  in  amore.  Arguirebbesi  nondimeno  che  Dante,  in 
suo  pensiero,  per  quanto  spettava  al  caso  di  Francesca,  se  pure  s'im^ 
pietosi}  non  volesse  tuttavolta  perdonarla  compiutamente  al  cospetto 
del  mondo  per  cagione  dell'adulterio  e  deirinoesto,  acciò  i  nemici 
maligni  non  gì' imputassero  di  soverchia  condiseefidenaa  verso  la 
colpa,  l'indulgere  compiutamente  alld  misera,  come  poco  rispettoso 
verso  Iti  santità  del  coniugio,  proflinata  tra  parenti  strétti.  Comunque 
sia,  egli  fece  opera  maravigliosa  di  compatimento  e  di  eseusasione, 
allorché  prese  a  ricreare  colla  sua  ft^ntasìa  l'avvenimento  tristo,  ed  a 
raflSlgurarlo  nel  poema,  dove  campeggia  con  tale  meitiittfl)  che  il  let- 
tore In  rimirarlo  ne  trae  affetto  da  perdonare  ai  delinquenti  e  di  ri- 
voltarsi in  biasimo  della  sentenza  che  li  punì  incomparabilmente  sopra 
il  Mìo,  La  quale  sproporzione  tra  la  colpa  e  il  oadtigo  inflitto  della 
porditione  perpetua,  si  rende  più  grave  e  contro  l'equità  nella  tra*- 
gédià.  Che  Silvio  bellico  cavò  dalla  narratione  dantesca.  I^oiché  Tatto 


454  BinSTA   CONTBMPORAKBA 

di  mutare  la  forma  del  racconto  a  rappresentazione  drammatica  im- 
porta, che  si  chiamino  a  parlare  i  principali  personaggi  dell'accaduto, 
il  quale  si  dee  riprodurre  per  mezzo  del  dialogo  e  non  altrimenti; 
e  con  ciò  toma  necessario  di  specificarne  le  circostanze  varie  e  le 
fortune  diverse,  come  se  in  allora  andasse  sviluppandosi  ;  non  trala- 
sciare grimprevisti  che  agiscono  a  tardarne  il  processo  o  cambiarne 
l'avviamento;  svegliare  ed  avvivare  il  cozzo  degli  affetti,  e  condurvi 
dentro  quella  maniera  di  fato  implacabile  ed  invincibile,  che  si  mesce 
pur  sempre  ai  casi  umani  e  fa  precipitare  alla  catastrofe  ;  laonde  cia- 
scuna parte  n'acquista  di  rilievo  e  di  evidenza ,  e  così  risaltano  più 
appariscenti  le  discordanze  e  più  chiari  i  difetti.  Il  tragedo  moderno, 
seguitando  con  fedeltà  nel  fondamentale  l'epico  antico,  non  potè  che 
mostrare  Francesca  e  Paolo  presi  ambedue  di  amore  non  lecito,  ma 
non  caduti  ancora,  in  lotta  pur  sempre  a  superare  l'incentivo  o  la 
forza  che  li  spinge  alla  colpa,  finché  un  accidente  dà  l'ultimo  tocco 
alle  virtù  indebolite  e  stanche,  da  rompersi  il  freno  ;  poi  subito  dopo, 
colti  dal  marito  offeso,  ed  uccisi  barbaramente,  in  agonia  spirano 
confessandosi  più  rei  di  quello  che  fossero  in  effetto  e  dannandosi 
da  sé  ad  una  punizione  di  gravità  infinita.  Tale  sconvenienza  dalle 
premesse  alla  conchiiisione ,  commessa  dal  Pellico,  uomo  d'indole 
mitissima,«e  disposto  molto  più  a  dolcezze  che  a  troppa  severità,  si 
manifesta  più  estrinseca  a  lui  e  ricevuta  da  altri,  che  non  come  sua, 
e  adottata  senza  accorgersi  dello  sconcio.  Ed  in  effetto,  avutala  cosi 
da  Dante,  egli  inavvedutamente  la  rese  più  esplicita  e  repugnante; 
ciò  voleva  la  natura  del  suo  componimento  ;  e  non  osò  o  pensò  di 
raccomodarla,  forse  per  riverenza  alla  maestà  del  primo  autore  ;  non 
considerando  tuttavia  che  l'Alighieri  già  vi  aveva  corretto,  con  uno 
di  quei  tratti  prodigiosi  di  arte ,  che  sono  di  peculiare  pertinenza  ai 
sommi ,  poiché  mentre  introdusse  il  commiserevole  episodio  in  sito 
non  adatto ,  seppe  nondimeno  toccarne  si  le  varie  parti  da  scom- 
parire dalla  vista  l'orrido  del  cerchio  infernale,  e  far  trapasso  dalla 
disperazione  all'affanno,  dalle  strida  ai  gemiti,  dalle  bestemmie  alla 
preghiera  e  per  tal  modo  rapire  l'attenzione  del  lettore  da  non  ram- 
memorare né  avvedersi  in  qual  luogo  fosse  collocata  la  scena. 

T'immagina  di  peregrinare  per  aspri  e  selvatichi  monti;  con 
iscoscendimenti  da  più  lati,  e  rumori  cupi  di  frane  e  scroscii  di  tor- 
renti, e  urla  di  fiere,  e  nuvoloni  tempestosi  sul  capo;  in  mezzo  a 
quello  spavento  di  natura,  ti  si  fanno  incontro  all'impensata  una 
bellissima  fanciulla  ed  un  suo  giovine  compagno,  ambidue  a&ticati , 
languenti,  squallidi,  addoloratissimi,ma  nella  mestizia  ineffabile  degli 
aspetti,  innamorati  ancora  l'uno  dell'altro  con  quell'ardore  che  nei 
tempi  beati,  anzi  più  fieramente:  strettisi  in  abbraccio  affettuoais- 
Simo  che  li  dice  indivisibili  nelle  angoscie  e  nella  prossima  morte, 


EPISODIO  DBLLA  FBANCB8CA  OA  RIMINI  456 

procedono  ricambiandoBi  le.  anime  con  rari  sospiri,  e  taciti  confes- 
sano cogli  sguardi  che  fu  comune  la  cagione  delle  loro  sventure,  ma 
non  per*  ciò  se  ne  rammaricano,  e  pensano  se  abbiano  beatitudine 
alcuna,  quella  consistere  in  essere  sventurati  di  proprio  ed  insieme, 
ed  in  perpetuo,  né  desideran  altra  felicità  che  di  partecipare  ugual- 
mente della  miseria  comune.  Cosi  la  commozione  che  proverebbesi 
dalla  loro  vista  farebbe  succedere  in  te  la  pietà  al  terrore,  le  lagrime 
della  compassione  al  raccapriccio  dello  spavento  circostante,  e  finché 
fossi  atteso  in  rimirarli  dimenticheresti  tutto  ciò  che  prima  ti  metteva 
i  brividi  nel  sangue  e  che  non  cessò  mai  di  sussisterti  intomo.  Cosi 
avviene  della  descrizione  di  Francesca  e  di  Paolo  nel  Canto  quinto 
della  Commedia. 

VI. 

A  ritrovare  la  causa  per  la  quale  Dante  si  condusse  alia  con- 
traddizione di  condannare  in  sito  di  pena  e  di  disonore  coloro  ai  quali 
egli  in  cuor  suo  perdonava  ed  assolveva,  come  apparisce  dal  contesto 
intero  dell'episodio,  giova  rinfrescare  .memoria  di  certe  credenze  e 
superstizioni  che  in  allora  correvano  comuni  in  cose  di  Fede,  e  dalle 
quali  neppure  si  sottrassero  gli  spiriti  più  illustri  e  più  addottrinati. 

La  teologia  aveva  definito  che  qualsivoglia  infrazione  del  sesto 
precetto  del  decalogo,  fosse  con  opera  od  eziandio  con  semplice  pen- 
siero, qualorasla  volontà  acconsentisse  liberamente,  si  avesse  a  tenere 
peccato  gravissimo,  non  concedendosi  parvità  di  materia  a  scusare 
la  colpa.  Chiunque  macchiatone  mortalmente  neiranima,  e  colto 
dalla  morte,  senza  pentimento,  erasi  da  reputare  perduto  in  perpetuo, 
dacché  misericordia  non  invocata,  non  avrebbelo  potuto  soccorrere, 
e  la  giustizia  divina  implacabilmente  lo  avrebbe  sentenziato  tra  i 
presciti.  La  ragione  della  severissima  morale  teologica,  da  parere 
crudele  in  troj^i  casi,  nasceva  da  più  motivi:  dalla  necessità  che 
leggi  di  austerezza  massima  fossero  stabilite  nell'ordine  divino 
a  tutela  dell'arca  santa  della  famiglia  che  è  fondamento  essen- 
ziale della  umana  compagnia;  dall'urgenza  di  rinnovare  ad  onesto 
costume  le  dissennate  libidini,  e  bestiali,  delle  genti  pagane  nei  secoli 
primi  del  cristianesimo;  dalla  considerazione  di  nostra  natura  che 
proclivissima  alle  voluttà  sensuali,  ha  uopo,  affine  di  contenersi,  che 
alla  virtù  combattente  dia  soccorso  il  timore  di  una  punizione  terri- 
bilissima, qualora  abbia  a  cedere  ed  abbandonarsi  ai  primi  lenocinli 
del  vizio  allettatore.  Poi  che  in  questo  argomento  come  negli  altri 
la  teologia  pigliò  tempera  dalla  età  immita  in  fatto  di  giustizia, 
e  dalle  consuetudini  barbariche  che  successero,  essa  conformandovisi, 
procedette   con   certa  ferocia  e  soverchia  rigidità:   imaginò  me* 


466  BITISTÀ  CONTBHPOBANBA 

niete  di  martirìi  oltremondani  non  diversi  per  étforatectia  da  qtielli 
si  usavano  contro  i  rei  quaggiù,  e  procedette  oon  reputare  alla  ne- 
mesi divina  quella  implacata,  perversa  e  spavetitevole  sete  e  di  stmaii 
odi  vendette  che  dai  tribunali  e  dai  tiranni  della  terra  si  adoperatftUo 
contro  il  delinquento.  Impei^occhè  quando  un  delitto  commésso  o  di 
latrocinio,  o  di  ribellione,  e  di  semplice  irriverenza  iù  oppositiotie 
ai  provvedimenti  od  al  volere  del  principe  o  della  potestà  sUprétna, 
comunque  ne  fosse  la  origine ^  portava  ohe  si  guastassero,  ta- 
gliando a  membri  i  condannati,  si  arrotassero,  si  attanagliassero, 
si  iliarchiasBero  e  lacerassero  con  ferri  arroventati,  si  squartassero  Vivi 
vivi ,  si  facessero  spasimare  di  lunghi  doIoh>sissimi  tormenti ,  loro 
sovvenendo  a  protrarre  la  vita  acciò  sofferissino  più  spietatamente  ; 
che  non  avevasi  poi  dalle  immaginazioni  popolari  a  credere  di  peggip 
de'  patimenti  inflitti  a  misura  infiiiita,  da  un  Dio  sdegnato  e  verso 
i  suoi  reprobi  non  mitigabile?  E  qui  mi  sia  concesso  di  manife- 
stare quale  sentimento  io  tenga  in  fatto  dei  gastighi  divini  come 
furono  supposti  dal  medio  evo  iti  poi.  Ho  per  fermo  ed  incoticusso 
che  le  dottrine  di  asperità  oscurissime  e  terrifiche,  sorte  in  tempi  an- 
tichi dag^i  interpreti  delle  tradizioni  cHstiane,  e  predicate  a  sgotnento 
deiruomo  pi^varicatore,  contrastino  in  modo  assoluto  alla  pietà  ce^ 
leste,  e  la  o£fendano  e  la  facciano  sdegnata  ;  dacché  non  saprei  per- 
suadermi che  il  Creatore  noti  abbia  a  trovale  cotnpatimento  per  la- 
sua  creatura  razionale,  allorquando  gli  si  presenta  al  giudizio,  tife- 
mante  e  vergognata,  brutta  del  fango  raccolto  nel  pellegrinaggio  del 
mondo ,  che  è  tutto  pericolosissimo  di  pantani ,  né  voglia  salvarla 
quando  che  sia.  Io  non  ardisco  d'imporre  all'animo  repugnante  che 
accetti  a  domma,  non  essere  mai  sperabile  dal  prescito  il  ritomo  atte 
delizie  perpetue  od  almeno  un  qualche  allenimento  onde  gli  si  feccia 
tollerabile  l'esistenza  immortale.  Pensando  così  non  varrebbe  tanto 
quanto  affermare  Iddio  meno  commiserevole  dell'uomo?  Farsi  la  ra- 
gione etema  contraria  di  quella  che  fu  infusa  nella  creatura?  AV'- 
verrà  egli  che  un  popolo  incivilendosi  divenga  quasi  più  rétnoto 
dal  celeste  esemplare?  E  chieggo  questo  appunto,  dacché  mentre  le 
discipline  teologiche  ci  rappresentano  immutabilmente  la  fiera  terri- 
bilità dell'Eterno  Signore,  tale  da  incutere  la  più  crudele  pauftì  Che 
si  possa  imaginare ,  le  civili  procedono  a  mitigare  vieppiù  i  Hgori 
delle  leggi  :  levarono  le  torture  ed  i  supplizii  barbari  d'inasf^ifnento, 
addolcirono  le  carceri,  attemperarono  le  condaiine  a  norma  dei  casi, 
accettando  quelle  attenuazioni  che  l'equità  consiglia,  e  già  tornerò 
proclamando  che  si  abolisca  la  pena  estrema. 

La  prima  prova  a  certificare  reale  e  non  fittizio  l'incivilimento  di 
un  popolo  consiste  appunto  nell'eflfetto  che  il  legislatore  provvegga 
a  proporrionare  la  puniziotìe  al  delitto,  in  tóodo  umano>  acciò  le  sof- 


EPISODIO  DALLA  FRANCB8CA   DA  BIMINI  457 

tet%ù2é  iffipoite  Bibno  cèmpoHabiii  dalle  foi*ze  di  natura,  il  condan- 
nato tròTÌ  durante  l'afflizione  cui  soggiace  una  via  di  fesipiscen^a, 
si  Innamori  del  ritorno  al  bene,  e  con  ciò  si  rinnuovi  moralmente, 
si  penta  e  contristisi  del  fililo  conimesSo. 

È  ufi  p<^olò  quanto  più  si  dimestica  e  aggentilisce  tanto  più  si 
raggiunge  ai  perfettissimo  modello,  verso  cui  accostandosi  sf  (k  il 
pragtDSSo  veh)  e  dal  quale  allontanandosi  e  svariando  è  regredire  e 
tomaie  in  selvatichetaa.  NA  Tuomo  per  quanto  rammorbidito,  im- 
piacevolìto ,  divenuto  misericorde,  potrà  mai  vantarsi  di  vincere  la 
bonti  suprema  in  sentimenti  di  compassione  e  perdono.  B  qual  gente 
cbe  dicssi  civile  erigerebbe  tribunale  che  dichiarasse  etema  la  dan- 
natioiÉe  ad  un  peccatore,  fosse  Caino  o  Giuda,  qualora  Iddio  le  de^ 
legasse  il  tristo  ufficio  con  pieno  arbitrio  di  sentenziare  o  per  il  tem- 
poraneo 0  per  r  indefinito  t  Io  so  che  il  cuore  umano  raccapriccia 
at  pensiero  ehe  un'anima  dopo  la  prova  di  questa  vita,  abbia  a  sop- 
portare nell'altra  una  Continuità  di  tormenti  i  quali  non  abbiano 
mai  fine.  E  il  nostro  amoroso  Padre  comune  giudicherà  egli  infles^ 
sibilo  per  quello  che  il  nostro  cuore  non  saprebbe  pronunciare?  In 
noi  più  viscere  di  carità  che  in  lui?  Non  è  questa  una  bestemmia 
peggiore  di  ogni  altra,  dacché  oltraggia  alla  benignità  infinita?  Se 
taluno  mi  vorrà  ai5(Susare  di  errore,  e  se  veramente  io  falli,  confido 
che  colui,  il  quale  avrà  a  scrutarmi  un  di  alla  scoperta,  dinnanzi  alla 
maestà  sua,  non  vorrà  rendermi  in  colpa  se  lo  reputai  troppo  inchi- 
nevole a  misericordia.  6.  Bonaventura  citando  S.  Bernardo  nelle' 
C0nto  M9ÌUuioni  (1)  in  cui  prepara  lo  spirito  divoto  a  contemplare 
il  mistero  della  incarnazione,  immagina  in  paradiso  gli  angioli  si  fos- 
sero ragunati  a  supplicare  di  pietà  per  l'umana  generazione,  la  Oiu- 
stiaia  e  la  Misericordia,  levatesi  a  contendere  al  cospetto  di  Dio 
Padre,  se  si  dovesse  o  mantenere  il  decreto  di  esclusione  dal  cielo 
contri  l'uomo  prevaricato,  ovvero  indulgere  e  cancellarlo.  Delle  due, 
la  Misericordia  questo  ottenne  che  il  Verbo  proferisse  se  medesimo 
al  sagrificio)  acciò  si  fosse  compiaciuto  alle  implorazioni  di  lei,  né 
però  si  maiaKASse  ai  diritti  della  eontraddicente.  Laonde  quella,  a  stretto 
conto,  ne  usci  vittoriosa,  ed  io  ne  piglio  gran  conforto,  e  mi  tengo 
in  esempio  que'  due  Santi  amorevolissimi,  e  con  essi  giuro  nella  pre- 
valenza della  bontà  suU'austereiza,  e  nego  certe  durezze  teologiche  ; 
non  dubitando,  che  se  fossi  nato  un  secolo  poi,  non  sarei  per  avere 
più  bisogno  di  queste  ed  altrettali  riflessioni,  dacché  i  tempi  nuovi 
come  fecero  abolire  le  immanità  dei  supplizii  nella  giustizia  nostra, 
così  avranno  operato  in  allora  a  far  diminuire  la  credenza  in  una 
ingordigia  insaziabile  dell'abisso. 

(l)  Le  Cento  meditazioni  di  S.  Bonaventura,  toI  ì^  p.  113  e  seg.  Roma, 
1847,  Tip.  della  Società  Edit.  Romana. 


458  RIVISTA  CONTBHPOBANBA 

Allo  spirito  umano  quando  giudicò  nella  piena  chiarezsa  delia 
rettitudine  nativa,  repugnò  in  ogni  tempo  T irredimibilità  dell*anima 
colpevole  nella  vita  futura;  onde  Tantichissima  gente  degli  Arii 
concepiva  il  mito  dell'  iddio  Indistira,  scendente  airinfemo,  e  colà 
per  le  sue  virtù  fatto  liberatore  dei  miseri,  tormentati  in  quel  ba- 
ratro profondo.  Le  religioni  del  paganesimo  non  considerarono  tra 
i  perduti  che  i  grandi  scellerati  ;  coloro  cioè  in  cui  i  delitti  di  sangue, 
di  rapina,  di  vituperio  oltrepassassero  il  credibile,  e  perciò  costrin- 
gessero la  mente  inorridita  a  non  riconoscerli  degni  giammai  della 
placida  dimora  negli  elisi.  Il  cristianesimo,  nel  modo  in  cui  fu  esposto, 
abbondò  nel  determinare  le  cagioni  per  le  quali  Tuomo  va  disperato 
per  sempre  ;  per  cui  nacque  convincimento  che  fosse  venuto  troppo 
facile  a  smarrirsi  tra  i  reprovati  e  troppo  disagevole  salire  a  beatitu- 
dine fra  gli  eletti.  Né  bastando  i  pericoli  naturali,  nei  quali  s'in- 
ciampa ad  ogni  pie  sospinto,  e  che  sono  motivo  di  peccato  mortale,  la 
disciplina  ecclesiastica  vi  aggiunse  di  proprio  gli  anatemi;  tanto 
che  se  ne  compose  il  crudo  e  terribile  adagio ,  che  i  pochi  si  sal- 
vano, i  molti  si  dannano. 

Deh  non  sìa  giammai  che  oppongasi  al  Sommo  Fattore  dilezione 
e  compiacenza  di  una  dottrina  si  paurosa,  divulgata  in  nome  suo  ; 
il  quale,  vado  certo,  che  sentenziando  le  anime  la  smentisce  di 
continuo. 

L'eccesso  di  un'opinione  o  di  una  pratica  siccome  contrapponesi 
a  diritta  ragione,  così  fa  nascere  un  qualche  correttivo  che  opera  di 
continuo  a  ridurla  secondo  il  giusto.  Perciò  non  ti  maravigliare  che 
l'uomo  mansuefatto  dall'Evangelio  andasse  mostrando  di  tempo  in 
tempo,  ed  in  maniere  diverse,  quanto  e  come  non  gli  si  accomodasse 
di  buon  grado,  e  gli  paresse  da  racconciare  ;  per  conseguenza  vexme 
inventando  stràni  e  curiosi  modi  di  rifiutare  o  deludere  la  legge  im- 
postagli, e  imaginò  sotterfugii  diversi,  tra  grossi  e  sottili,  che  gli  das- 
sero  via  di  uscire  incolume  dalla  giustizia  soverchia  minacciatagli 
in  nome  del  cielo.  Da  questo  derivò  la  fiaba  della  grazia  concessa  da 
Dio  a  S.  Gregorio  Papa,  di  liberargli  dalla  prigione  infernale  Traiano 
imperadore,  perdonandogli  la  falsa  religione  in  benemerenza  ddla 
pia  sollecitudine  onde  aveva  reso  giustizia  ad  una  povera  femmi- 
nella (1)  ;  e  vennero  di  là  eziandio  miracoli  e  pratiche  bizzarre  e  so- 

(1)  Di  questa  favola  non  solo  si  parla  nelle  leggende  che  si  hanno  di 
S.  Gregorio,  ma  trovasene  cenno,  come  di  cosa  notevolissima,  in  molte 
antiche  cronache.  La  prima  delle  Cronichette  antiche  raccolte  dal  Manni, 
in  quel  sommario  die  dà  di  storia  universale,  avanti  di  parlare  degli  avve- 
nimenti del  suo  tempo,  cosi  ne  recita:  «Santo  Ghirigoro  veggendo  tante 
buone  operazioni  quante  Toniano  aveva  fatte,  increbbegli  ch'ei  fosse  in 
ninferno:  pregò  Iddio  per  lui,  che  egli  il  trasse  di  ninferno  e  miselo  in 

Ì>aradiso,'  e  questo  avvenne  per  fare  ragione  e  dirittura  a  ogni  persona  » 
Ediz.  del  Silvestri,  pag.  167). 


BPISODIO  DBLLA  FBANCBSCA  DA  BIKINI  459 

perchiative,  colle  quali  parrebbe  che  s'intendesse  di  proposito  a  bef- 
farsi od  a  frodare  Tonniscienza  divina,  mentre  s'ingannava  di  fatto 
la  coscienza  universale.  Ricorderemo  a  modo  di  esempio  e  con  brevità 
le  devozioni  alla  Vergine  od  a  qualche  santo  dei  più  famosi,  costi- 
tuite dalla  recita  di  un  certo  numero  di  preghiere,  ovvero  da  certi 
digiuni  in  giorni  determinati,  e  voti  di  visitare  reliquie  e  santuarii 
celebri;  le  quali  devozioni  osservate  scrupolosamente  dovevano  ar- 
recare sicurezza  della  salvazione,  od  offerirne  il  mezzo  opportuno, 
come  quello  che  non  si  potesse  morire  senza  aversi  confessato,  o  che 
all'atto  della  morte  scendessero  a  consolar  l'agonia  ed  a  fugare  il 
maligno,  gli  spiriti  celesti  invocati  con  fedeltà  durante  la  vita.  Sono 
singolarissimi  tra  i  molti ,  il  miracolo  spacciato  di  quei  divoti  di 
Maria,  cui  fu  mozzo  il  capo,  e  questi  ebbe  a  vivere  più  tempo  staccato 
dal  corpo,  in  loco  salvatico,  finché  si  abbattesse  chi  raccoltolo ,  lo 
portasse  ad  un  confessore  e  fosse  assolto  (1)  ;  e  l'altro  di  un  abate 
lussurioso,  il  quale  fattosi  obbligo  di  non  toccare  donna  di  nome 
Maria,  in  riverenza  della  Madre  di  Dio,  ebbe  forza  una  volta  di  aste- 
nersi, per  tale  rispetto,  dall'opera  di  peccato,  e  ne  spirò  l'anima 
improvvisamente,  e  in  premio  volò  tra  i  beati,  e  fu  palesato  santo 
da  notabili  prodigii  al  suo  sepolcro  (2). 

Dante  non  partecipò  a  queste  volgarità  di  errori,  quantunque 
abbia  avuto  in  comune  a'  suoi  contemporanei  il  sentimento  che 
nella  credenza  pratica  si  dovesse  temperare  il  rigore  eccessivo  delle 
allegazioni  teologiche  in  ordine  a  salvezza  :  laonde  vediamo  che  ac- 
colse la  favola  di  Traiano,  e  collocò  Catone  al  Purgatorio,  e  suppose 
di  Stazio  che  fosse  divenuto  cristiano  occultamente,  come  prima  di 
lui  altri  avevano  supposto  di  Seneca,  e  poco  mancò  di  Virgilio.  Gui- 
dato dal  pensiero  medesimo  di  mitezza,  ovvero  come  ora  chiamereb- 
besi,  di  tolleranza,  ammise  il  Saladino  alle  quietudini  del  limbo  in 
compagnia  dei  pagani  più  illustri,  perchè  era  stato  grande  tra  i  Sa- 
racini  ;  avvegnaché  in  allora  corresse  odio  mortale  tra  gli  adoratori 
di  Cristo  e  di  Maometto,  e  dovesse  considerarsi  o  profanazione  o  te- 
merità, levare  un'anima  maomettana  dalle  fauci  di  Lucifero,  affine 
di  consolarla  in  luogo  di  tranquillità  non  dolorosa.  E  partendo  dalla 

(1)  Nel  libro  I  Miracoli  della  Madonna  (Urbino,  ì^f>ò),  si  leggono  due  mi- 
racoli, uno  a  pag.  51  e  l'altro  a  pag.  54,  in  ciascuno  dei  quali  si  narra  di 
una  testa  di  uòmo  mozzata  e  rimasta  viva  lungo  tempo,  fino  a  che  si  fosse 
confessata,  e  ciò  per  opera  della  Vergine. 

(2)  Posseggo  copia  aella  narrazione  di  questo  miracolo  (1)  contenuto 
ndl  Cod.  I  deirUaiversitaria  di  Bologna,  fornitami  dalla  conosciuta  cor- 
tesia del  cav.  Zambrini.  Incomincia  cosi:  «Trovasi  che  fue  uno  abate  il 
quale  era  uno  grande  amico  di  Dio,  ed  era  questo  abate  un  grande  lussu- 
rioso ».  Lo  Zambrini  vi  ha  aggiunto  di  sua  mano  la  noterella  seguente: 
«  Disse  assai  meglio  il  Boccaccio  a  quest*uopo  nella  nov.  viii,  gior.  iii. 
«  In  una  badia  fu  fatto  abate  un  monaco  il  quale  in  ogni  cosa  era  santis- 
simo, fuorché  nelle  opere  delle  femoùne  »« 


400  EIYISTA  OONtBMPOftANBA 

detta  ragione  egli,  a  mio  avviso^  raddolcì  pure  ódrabilmetite  la  aorte 
di  Franoedca  e  di  Paolo  Detratto  stesso  in  cui  raffiguratali  tua  i 
dannati. 

Toccammo  in  addietro  perchè  il  poeta  fbsse  probabilmente  in- 
dotto a  non  usare  maggiore  larghezza  di  perdono  verso  quegli  in- 
felici cognati  ;  ma  dal  punto  in  cui  lì  scontra  nel  quinto  cerbio , 
Tanimo  suo  se  ne  risente,  e  con  moto  tacito  ma  efficacissimo  travolge 
tutta  quanta  la  disposizione  del  primo  concetto.  Suseita  Dante  nel* 
r Inferno  i  due  spiriti,  e  là  dentro  li  confina  a  martirio  indefinito,  ée 
non  che  l'aspetto  di  loro  lo  punge  al  cuore  e  par  gli  chiegga  se  vera- 
mente meritassero  di  essere  sbalestrati  fin  giù  in  queir  abisso.  Vince 
la  pietà  di  una  sventura  gravissima  che  pagò  largamente  il  fidlo , 
vince  la  considerazione  di  un  supplizio  che  esce  dalla  ragionevolejtza  ; 
e  d'allora  in  poi  il  poeta  non  padroneggia  più  la  fantasia  propria, 
ma  queita  rimane  preoccupata  dal  nuovo  tentimeuto.  In  eflbttò  se 
bene  vi  si  considera,  apparirà  in  piena  evidenza  il  mutamento  avve- 
nuto nell'animo  di  lui  :  seguita  ad  invocare  in  comparazione  uccelli 
d'indole  data  agli  amori,  ma  sono  le  colombe,  simbolo  di  placidità 
e  di  candore  ;  il  vento  tace,  il  mugghio  del  mare  in  tempesta  non  si 
ode  più,  la  scena  infernale  si  dilegua  dagli  occhi,  passarono  slttore 
le  schiere  de'  carnali,  e  restano  da  soli  il  poeta,  il  suo  duca,  e  i  due 
chiamati  con  grido  afiéttiMso.  Il  colloquio  che  vi  si  tiene  comincia 
da  un  vocabolo  che  peranco  si  conforma  al  sito,  ma  immediatamente 
il  linguaggio  si  corregge  e  diviene  gentile,  passionato,  dolce,  pio, 
supplichevole:  così  che  dall' un  lato  si  parla  e  si  piange  e  sospira, 
mentre  dall'altro  gli  affietti  si  commuovono  fino  allo  smarrimento 
dei  sensi.  Non  siamo  più  in  loco  d'inferno,  quantunque  neppure  in 
regione  di  paradiso,  ma  o  di  nuovo  nel  limbo  o  in  qualche  altro  globo 
terrestre  che  li  accolse  congiunti,  dove  dimoraUo  insieme,  amandosi 
in  perpetuo,  e  perciò  non  disperati,  non  diserti  di  ogni  consolazione, 
commiserati  con  isguardo  benigno  della  clemenza  divina  (1). 

VII. 

Uno  de'  passi  che  sono  più  forti  da  ben  intendere  ai  commentatori 
è  quello  del  verso  «  mentre  che  il  vento  come  fa. si  tace  >,  dacché 
come  nota  il  Benvenuto  da  Imola:  «  sembra  che  Dante  si  contrad- 
<c  dica...  avendo  detto  superiormente  che  era  impossibile  la  quiete  a 
€  quegli  spìriti,  ed  ora  li  mette  quasi  in  riposo  ;  ma  la  paura  serve  a 
€  crescere  maggiormente  il  tormento,  se  non  altro  col  confronto  del 
<  senso  »  (2). 

(1)  Vedi  Foscolo.  Discorso  sul  lesto  ecc.  della  Commedia  di  Dantt^  §  CLII 
e  CLIII.  —  Ginguené,  Hist.  liti,  d'Ital.  Cap.  Ili,  Sez.  2. 

(2)  Benvenuto,  Commento^  voi.  I,  p.  159. 


EPISODIO  DSI^A  P9AN0BS0A  DA  RIMINI  401 

•AJ  Buti  non  iafuggi  eziandio  la  contraddizione  e  per  questo  chiosa: 
€  qui,  dice,  li  iaa.  Pare  che  si  contrarii  a  se  medesimo.  A-  che  si  può 
«  rispondere  ;  cioè  che  quel  vento  mai  non  resta  per  rispetto  di  tutti 
€  quelli  dmiinati,  ma  per  rispetto  di  questi  due  bene  restava,  perchè 
€  avevano  licenza  di  parlare  con  Dante ,  e  però  molti  testi  hanno 
(  ci  tac$^  cioè,  a  noi  due  >  (1). 

I^  interpretazioni  che  traemmo  dai  due  mentovati  commenti,  Tuno 
e  Taltro  autorevolissimi  tra  gli  antichi,  tentate  dai  loro  autori  a  con- 
ciliare il  contrasto  dei  significati  quali  risultano  dal  riscontro  tra  il 
verso  citato  e  la  precedente  descrizione  della  bufera  infernale,  paiono 
e  sono  di  tale  insufficienza  che  mostrano  palese,  come  né  il  Buti  né 
il  Benvenuto  riuscissero  a  comprendere  in  qual  modo  il  poeta  avesse 
fatto  trapasso  si  repentino  da  contraddire  a  se  medesimo,  dimenticando 
ciò  che  poc'anzi  aveva  descritto.  Ma  il  modo  col  quale  noi  propo- 
nevamo or  ora  che  abbiasi  ad  intendere  l'episodio  a  norma  dell'animo 
mutato  nel  poeta,  toglie,  da  quanto  sembrami,  la  difficoltà,  e  rischiara 
I9  parti  oscure ,  e  scusa  Dante  di  non  essersi  avveduto  della  stor- 
tura, od  aeoorgendosene  di  non  avervi  riparato  con  qualche  raddol- 
cimento. 

Un  secondo  passo  diede  inciampo  ai  commentatori  non  meno  del- 
rantecodente ,  voglio  dire ,  il  verso,  «  B  paiono  si  al  vento  essere 
leggieri  >.  Il  Buti  lo  intende  nella  maniera  seguente:  e  questo  è  per 
e  convenienza  di  quello  che  è  detto  di  sopra,  che  sono  menati  dal 
e  vento  in  giro  ;  e  questi  più  che  gli  altri,  e  perciò  dice  più  di  co- 
«  storo  che  degli  altri,  perocché  doveano  aver  più  fermezza  nel  mondo, 
«  perchè  furono* cognati...  E  però  per  conveniente  pena  mostra  che 
t  siano  più  girati  e  menati  dal  vento  >  (2).  Il  Benvenuto  non  fu  più 
felice  espositore  t  cosi  (erano)  trasportati  dalla  bufera  o  vento  di 
«  lussuria,  ovvero  sembravano  tanto  innamorati,  giacché  l'amore  è 
«  lieve  e  quindi  si  figura  alato  »  (3). 

Che  ne  pensarono  il  Vellutello  ed  il  Landino?  Il  primo  aflbrma: 
«  che  parevano  essere  si  leggieri  al  vento,  perchè  di  tanto  era  stato 
«  grave  il  peccato  loro,  essendo  cognati  j>  (4)  ;  ed  il  secondo  :  e  erano 
«  più  tirati  dal  vento,  cioè  avevano  maggior  pena,  la  quale  meri« 
«  tavano  per  essere  cognati  ed  in  grande  stat'j». 

È  manifesto  ohe  di  queste  esposizioni  nessuna  fu  ben  pensata, 
né  appare  accomodata  e  persuasiva,  non  potendo  riconoscere  vere 
quelle  conformi  del  Buti ,  Landino  e  Yelluiello ,  che  la  maggiore 
leggerezza  al  vento  significasse  più  toro^ento  alle  due  anime  com- 
pagne, dacché  sia  noto  come  fossero  meno  aggravate  di  colpa  rispetto 

(1)  Buli,  Commento,  voJ.  I,  p.  167. 
di  Buti,  Commento,  voi,  I,  p.  165 


s 


Benvenuto,  Commento,  voi.  1,  p.  157 
(4)  Commento^  Canto  V.  Venezia  1544. 


462  RIVISTA  CONTEMPORANEA 

agli  altri  Dominati  in  precedenza  nel  Canto;  laonde  non  sarebbe 
stato  giusto  che  patissero  più  tormento.  Così,  neppure  il  Benvenuto 
mostra  di  avere  colto  nel  segno,  quando  accenna  al  dubbio  che 
Dante  li  avesse  descritti  più  leggieri  perchè  innamorati  tanto,  e 
perchè  l'amore  sia  cosa  lieve. 

Il  Commento  attribuito  al  Boccaccio  porta  una  chioserella  che 
si  adatta  più  acconciamente ,  od  arreca  senso  di  maggiore  soddisfa- 
zione: poiché  postillando  che  quell'essere  più  leggieri  voglia  dire 
«  con  minor  fatica  volanti  »  (1)  fa  conoscere  che  si  abbia  da  spiegare 
il  passo  secondo  Tintento  del  poeta,  di  averli  immaginati  non  tanto 
fieramente  turbinati  dal  vento,  né  percossi  ed  arrotati  insieme  sic- 
come degli  altri,  ma  in  patimento  meno  intollerabile. 

Una  piuma  portata  dall'aere  agitato,  svolazza  qua  e  I^,  e  s*innalza 
per  qualunque  sottigliezza  di  fiato;  ma  quando  incontra  e  ferisce 
in  ostacoli  non  è  per  rimbalzarne  del  colpo  violento,  scompaginarsi 
e  frangersi  ;  anzi  o  vi  si  depone  sopra  o  vi  lambisce  e  sfugge  con- 
tinuando secondo  la  spinta  che  riceve.  Adunque  Tessere  leggieri  al 
vento  ò  da  opinare  che  esprima  mitezza  di  supplizio,  e  accenni  eziandio 
al  peccato  di  lordura  minore  onde  procedono  meno  grevi;  e  fbrse 
anco  allude  al  fatto  naturale,  che  galeggino  quasi  e  sorvolino  sce- 
verati e  lontani  dagli  altri  consorti,  i  quali  con  più  imbratto  e  più 
carico,  sono  tenuti  insieme  come  le  schiere  degli  stornelli  e  delle 
gru,  e  travolti  in  tempo  poco  disforme  a  percuotersi  ed  urtarsi  tra 
di  loro;  ed  eziandio  quel  leggieri  può  yhÌQxe  fuggevoli  al  vento,  rice- 
vendo per  forza  di  costrutto  un  tal  significato. 

Ma  quantunque  crediamo  per  fermo  che  la  spiegazione  data  dal 
Commento  attribuito  al  Boccaccio,  sia  da  reputarsi  la  meglio  inter- 
pretativa del  pensiero  dantesco,  e  le  si  possa  attenere,  non  è  tutta- 
volta  da  tacersi ,  non  sembrare  improbabile  che  il  poeta  volesse 
esprimere  col  passo  mentovato,  non  i  due  spiriti  fossero  più  leggieri 
al  vento,  sibbene  il  vento  tornasse  leggiero  al  loro  tormento.  Non 
rare  volte  si  trova  nelle  scritture  del  buon  tempo,  e  più  facilmente 
ne'  più  antichi  e  genuini  che  l'autore,  dacché  incominciò  un  discorso, 
che  si  riferisce  ad  una  data  cosa,  dopo,  continuando ,  si  attiene  al 
primo  indirizzo  della  mente,  e  conserva  a  reggere  il  discorso  la  cosa 
medesima ,  quantunque  per  ordine  logico  dovrebbe  concederne  il  go- 
verno ad  altra  succedente.  Egli  stando  in  quel  suo  pensiero,  acco- 
moda a  sua  voglia,  e  vi  piega  ad  obbedienza  i  vocaboli  diversi  per 
quanto  male  vi  si  prestino,  ^  ne  nasca  confusione.  L'Autore  nell'atto 
in  cui  opera  il  travolgimento  costringe  con  singolare  arditezza  ad  es- 
sere paziente  quello  che  sarebbe  agente,  e  chi  legge  è  in  necessità  di 
correggere  nel  suo  intemo  la  lezione  ed  interpretarla  a  dovere.  Altra 

(l)  Voi.  11,  p.  44.  Firenze.  Futicelli. 


EPISODIO  DBLLA  FRANCRSCA  DA  B1M1NI  463 

volta  vedesi  il  caso  singolare,  che  lo  scrittore  dacché  pose  in  principio 
della  proposizione  l'oggetto,  yì  accorda  il  verbo  che  segue,  quantunque 
avesse  a  renderlo  accomodato  col  soggetto,  collocatogli  meccanicamente 
dopo.  Ne  succede  un  curioso  magistero  di  periodo  ed  una  certa  bizzar- 
ria del  significato,  che  talvolta  piace  e  solletica  quando  per  avventura 
lo  sforzo  non  toma  eccessivo  e  non  apporta  soverchia  caligine  ;  T in- 
telletto non  se  ne  offende;  rimane  sorpreso  in  sui  primordii  e  dubi- 
toso  come  abbia  da  intendere;  poscia  afferrato  il  bandolo  lo  seguita 
con  pronta  comparazione,  e  si  gode  della  capestreria  leggiadra.  Queste 
stravolture  non  si  compiono  sempre  senza  uso  di  maniere  ellittiche  : 
se  ne  hanno  abbreviamenti  del  discorso,  scorei,  e  parchezze  di  vo- 
caboli ,  perchè  lo  scrittore  medesimo  sentendosi  impigliato,  guarda 
come  uscirne  al  più  presto  da  quel  disagio,  e  tornare  all'andamento 
naturale  (1). 

in  concorduiza  di  questa  maniera  osservata  dagli  antichi,  io  so- 
spetto che  Dante,  dacché  sUmaginò  di  scorgere  i  due  cognati  e  prese 
vaghezza  di  seco  loro  intrattenersi,  tutta  raccolse  la  mente  propria 
su  di  essi,  e  tanto  ve  la  fermò  che,  incominciatone  a  parlare,  li 
conserva  d'allora  in  poi  siccome  soggetto  principalissimo  delVat- 
tenzione. 

Per  conseguente  loro  subordina  ciò  che  poscia  gli  è  suggerito 
dalla  fantasia,  e  vi  dispone  in  sequela  le  idee  successive  e  gli  ele- 
menti dell'orazione,  nulla  badando  alle  parti  che  ciascuna  voce 
avrebbe  da  fungere  secondo  l'ordine  delle  idee.  Avendo  detto 

Poeta  !  Volentieri 
Parlerai  a  que'  due  ch'insieme  vanno; 

(1)  Potrei  recare  una  lunga  segueuza  ài  esempii  a  conforto  di  quanto 
dissi,  ma  discrezione  vuole  che  mi  restrìnga  a  pochi  e  calzanti.  Nel  Mt- 
/lowe  dt^arco  Po/o  (voi  2«,pag.  357,  Venezia,  Alvisopoli,  1827),  narrandosi 
del  modo  con  cui  si  facevano  le  poste  nei  luoghi  settentrionali,  di- 
cesi che  si  usano  tregghie  o  slitte  dai  corrieri,  i  In  su  (;juesta  trogghia 
«pongono  un  cuoio  d'orso,  e  vannovi  suso  colali  messaggi,  e  questa  treg' 
ve  ghia  mena  sei  di  questi  cani,  e  questi  cani  sanno  ben  la  via  e  vanno  infino 
«all'altra  posta».  Ivi  il  verbo  menare  è  accordato  all'oggetto  iregghia, 
perchè  fu  anteposto  nell'ordine  meccanico  della  scrittura,  mentre  dovrebbe 
esserlo  col  soggetto  che  tosto  succede. 

Nella  prima  delle  Cronichette  antiche  (Silvestri,  pag.  31)  narrasi  delle  tre 
parole  scritte  da  mano  ignota  sulla  parete  nel  convito  di  Baldassare  o 
continuasi:  «Le  quali  iscritture  tessono  il  Re  Baldassare,  e  non  le  intese, 
e  tremò  forte  e  fu  sì  grande  il  tremore  che  l'uno  ginocchio  percosse  coi- 
rai tro  ». 

Nella  Vita  di  Benvenuto  Cellini,  in  quel  capitolo  che  compose  in  prigione 
e  indirizzò  a  Lucca 3Iartini,  leggesi  il  verso  seguente-:  «Ogni  uom  che 
è  dato  in  cura  al  pover  gregge  ».  È  manifesto  cfie  devesi  intendere  — 
Ogni  uomo  a  cui  è  dato  in  cura  il  povero  gregge  ;  ma  Tautore  affine  di 
mantenere  che  nel  caso  retto,  costrusse  di  maniera  che  cura  venne  all'at- 
tivo e  stette  per  curare. 


464  BIVISTA  OONTPIfPORANEA 

E  paion  sì  q1  vento  esser  leggieri , 
inversameate  di  quanto  in  suo  pensiero  volle  esprimere,  cioè  ai  quali 
il  vento  pareva  essere  si  leggieri. 

Chi  considera  airingegno  fortissimo  dell'Alighieri,  allc^  tenacità 
onde  la  virtù  di  un  sovrano  intelletto  si  appiglia  ad  una  ooaa  che 
gli  torna  in  predile^one,  e  come  impadronito  che  ne  aia,  la  signo- 
reggi a  suo  beneplacito ,  e  la  pieghi ,  atteggi  e  configuri  secondo 
gli  aggrada,  e  affine  di  adomarla  od  esplicarla  le  sottomet^  tutto 
ciò  che  le  si  aggiunge  o  riferisce,  combattendo  e  vincendo  le  ri- 
trosìe delle  consuetudini  e  le  ripugnanze  dell'ordine  più  comni^e  e 
naturale;  chi  pensa  qual  fos^e  potente,  superbo,  e  sovcrjhiutorc  Tin* 
comparabile  poeta,  non  curante  degli  ostacoli  ;  non  avrh  difficoltà  a 
consentire  nel  mio  sospetto,  od  almeno,  qualora  avvisi  che  ivi  non 
sia  da  cercarsi  un  caso  d'invertimento  discorsivo,  giudicherà  né 
troppo  arguta,  né  temerarif^  la  fatta  congettura. 

Vili. 

A  chiudere  la  presente  dissertazione  forse  non  isconviene  che  si 
tocchi  par  alcun  tratto  di  quella  magnifica  sequenza  di  sentimenti 
delicatissimi  per  i  quali  Dante  seppe  ivi  intessere  e  sviluppare  la  storia 
psicologìQa  dell'amore,  ed  io  mi  ci  proverò.  Intendo  di  quell'amore, 
in  cui  la  parte  del  senso  disposandosi  arcanamente  e  temperatamento 
coll'ideale,  e  compenetrandosi  in  uno,  n'ingenera  un  certo  spirito 
vivace  e  pietoso  di  voluttà  fra  terreno  e  celeste,  che  non  apparte- 
nendo né  airangelico  né  alla  pretta  animalità,  direbbesi  proprio 
conveniente  della  natura  umana,  e  tanto  la  occupa  e  predomina,  che 
pare  ne  svelga  ogni  altro  affetto,  allorquando  si  esalta  ed  innalza 
ne'  cieli  sublimi  della  poesia,  né  lascia  che  abbiasi  da  trattare  di  cosa 
che  non  sia  di  esso.  Da  ciò  venne  probabilmente  che  l'eroico  non 
fiorì  nella  poetica  nostra  spontanea,  siccome  avvenne  negli  altri  po- 
poli di  origine  comune  con  noi  e  d'indole  poco  disforme,  e  fu  sop- 
piantato dal  genio  della  lirica  amorosa,  e  da  quel  singolarissimo 
genere  di  poema  che  è  Tepopea  dantesca,  la  quale  é  tutta  nuova  e 
specifica,  dove  l'amore  della  donna  fu  indiato,  vestendo  le  sembianze 
della  scienza  sacra. 

Dal  più  rozzo  dei  nostri  antichi  cantori  in  rima  volgare  fino  ai 
più  moderni,  fino  a'  satirici  st^jssi,  Parini  e  Giusti,  Tamore  ebbe  il 
più  alto  e  gentile  culto  poetico  che  presso  altra  gente  ricevesse 
giammai.  Non  citerò  esempi ,  che  sarebbe  trasabbondanza  ;  chi  non 
crede  leggpa  nei  nostri  canzonieri  da  Folcacchiero,  da  Pier  delle  Vigne, 
da  Guittone,  giù  discendendo  al  compiuto  trecento^  ed  al  quattro^ 


»I80DI0  DBLLA   FBAMCESCA  DA  BIMIKI  466 

cento  intero  con  Giusto  de'  Conti  e  Poliziano,  e  al  cinquecento  nei 
(^trarchisti,  e  arrivi  al  secolo  presente,  e  si  fermi  alla  stupendissima 
canzone  del  cigno  di  Pescia,  i  Sospiri  delV anima.  E  pigli  a*  suoi  com- 
pegni, i  Canti  Popolari  Toscani,  e  le  Poesie  Siciliane  del  Meli,  e  certe 
ghiottomie  in  versi  del  dialetto  veneto,  e  insomma  Tinesauribile 
parnaso  uscito  dalla  vena  delle  popolazioni  italiane,  o  nativo  ed 
agreste,  o  studiato  ed  aulico,  ed  avrà  un  inno  perpetuo  in  più  metri, 
in  più  suoni ,  con  mille  svarianze  modulato  da  una  musa  soltanto, 
quella  del  canto  amoroso.  E  dico  amoroso  e  non  erotico,  dacchò  questo 
più  debbasi  intendere  dei  Greci  antichi,  quantunque  d'ineffabile  de- 
licatezza; quello  sia  più  proprio  e  singolare  all'Italia;  l'uno  si  accom- 
pagni meglio  del  flauto  sonato  da  Pane  o  della  cetra  da  Apollo; 
e  il  nostro  si  piaccia  di  ben  diverso  strumento,  cioè  si  goda  di  quella 
dolcissima  arpa  eolica  imaginata  a  rendere  melodie  divine  dal  fiato 
dei  venti  gentili  dell'aere,  rispondente  perciò  al  tocco  di  spiriti  ce- 
lesti piucchè  ad  argomento  umano. 

I  Greci  simboleggiarono  la  loro  Venere  ingenerata  o  da  schiuma 
o  da  conchiglia  marina;  figliuola  a  Giove,  e  veleggiante,  subito 
nata,  sui  flutti  o  su  margarita  verso  l'isola  di  Cipro:  ma  la  Ve- 
nere italica  qualora  si  avesse  a  raffigurare  nel  suo  nascimento  per 
un  modo  allegorico  dovremmo  immaginarcela,  se  non  erro ,  simile 
ad  un  picciol  nuvolo  leggiadro,  che  al  primo  apparire  del  sole  in 
primavera ,  si  spicchi  dalle  acque  di  una  fonte  limpida  in  mezzo  a 
verdissimo  prato  :  biancheggia  e  si  leva  condensato  di  sottil  vapore; 
è  composto  dalla  fragranza  delle  erbe  e  delle  corolle  odorifere  e  di 
quelle  altre  delizie  di  natura,  che  sono  il  canto  degli  uccelli,  la  fre- 
schezza dell'aere,  la  serenità  \lel  cielo.  E  mentre  s'innalza  %  ondeggia 
e  cresce  al  soffio  piacevole  della  brezza  mattutina,  va  ricevendo  i  nuovi 
raggi  del  giorno,  e  se  ne  inargenta,  se  ne  indora,  se  ne  invermiglia, 
leggiero,  trasparente,  tremulo,  sfumato,  gentilissimo.  Frattanto,  nu- 
trendosi e  ricevendo  sostanza  dalle  varie  soavità  che  lo  circondano , 
piglia  forma  più  determinata,  ed  è  di  creatura  piena  di  ogni  venustà 
e  grazia,  vaga  e  dilettosa,  non  meno  eterea  e  diafana  ed  impalpa*- 
bile  dei  fantasimi  che  fanno  lieti  i  sogni  dell'innocenza. 

Per  queste  qualità  dell'amore  in  noi,  non  ti  sorprenda,  o  lettor 
mio  se  Beatrice  rappresenti  l'idealità  suprema  della  donna  amata,  e 
se  Francesca,  l'amante  che  accondiscese  agli  allettamenti  del  senso, 
è  pur  nondimeno  di  tale  bellezza  sovrana ,  e  di  tanta  pietà  che  il 
solo  Dolce  trovò  il  simigliante  nella  sua  Maddalena  e  solo  potrebbe 
ritrarla  :  tu  affissandola  non  ti  avvedi  punto  che  proceda  ignuda  del 
santo  velo  della  castità  muliebre,  dacché  il  suo  parlare  pudico,  e  il 
pianto  tacito  e  contegnoso  del  compagno  ti  tolgono  ogni  sospetto  e 
memoria  di  cosa  impura. 

muta  e.  -  30 


466  RIVISTA   CONTBMPOBAKBA 

E  l*amore  dì  Francesca  non  ha  indole  d'imaginario  né  di  roman- 
zesco, ma  trae  radice  e  vigore  dall'intimo  midollo  del  vero  ;  perciò 
in  nulla  ci  apparisce  strano ,  avendo  piena  conformità  colFessere 
nostro,  e  naturalmente  ci  si  va  rivelando  siccome  un'armonia  intera 
di  idee,  contenute  dentro  di  noi,  e  reseci  manifeste  dalla  improvvisa 
luce  che  le  illustra. 

Chi  nella  sua  vita  amò  al  primo  dischiudersi  della  giovinezza,  e 
fu  di  amore  innocente,  unico,  intenso,  e  ricreò  dentro  di  sé  la  sua 
fanciulla,  donandole  i  maggiori  pregi  di  forme  e  di  animo  a  cui  valga 
la  virtù  umana,  e  provò  l'effetto  nuovo,  prepotente  dello  sguardo  di 
lei,  restandone  ammaliato  da  una  dolcezza  nelle  fibre  che  é  infinita, 
e  col  cuore  in  sussulti,  il  respiro  in  affanno,  il  sangue  tra  il  gelo  e 
le  fiamme  ;  chi  rammemora  di  essere  caduto  quasi  smarrito  della  pre- 
senza di  lei  come  avvenne  dell'Alighieri,  può  rendersi  un  chiaro  con- 
cetto che  sia  l'amore  nella  tempera  italiana,  non  corrotta,  non  isver- 
gognata  precocemente,  ma  genuina,  sincera,  candida,  quale  sorti 
generosa  e  complessionata  dal  ceppo  originale.  Perciò  egli  potrà  farmi 
ragione  se  abbia  affermato  per  eccesso  di  onore  alla  poesia  di  Dante, 
0  per  essermi  di  troppo  avvivato  nella  contemplazione  ammirativa  del- 
l'episodio. Coloro  poi  ai  quali  nel  segreto  più  riposto  dell'anima  non 
si  svegliarono  certe  melodie  ineffabih  che  sono  primizia  delle  .voci 
d'amore,  e  ignorano  quale  ebbrezza  soavissima  se  ne  spanda,  hanno 
nondimeno  un  mezzo  di  capacitarsi  di  che  forza  siano  gli  affetti  del  cuore 
sull'essere  nostro:  cerchino  le  storie  dei  nostri  insigni  e  ne  piglie- 
ranno  argomento.  Imperocché  non  solo  poeti  ed  artisti  e  uomini  di 
spada  amarono  perdutamente  le  donne  che  loro  parvero  meritevoli  della 
propria  predilezione  ;  ma  sempre  trassero  a  trasfigurarle  idealmente 
in  creature  celestiali,  e  ne  fecero  delizia  dei  loro  vagheggiamenti. 
L'Alighieri,  Cino,  Petrarca,  Boccaccio  stesso,  Michelangiolo,  il  Tasso 
tra  i  più  noti  ;  il  primo  e  il  penultimo  più  sublimemente,  come  eglino 
solo  ne  avevano  la  potenza  :  né  i  Santi  furono  da  meno ,  al  modo 
loro,  convertendo  le  imagini  di  amore  umano  in  angioli  e  maestà  di 
paradiso,  tanto  feroci  a  rintuzzare  qualsivoglia  illecebra  loro  esalasse 
dal  sangue,  fino  alle  torture  più  crudeli,  quanto  più  maravigliosi  a 
racconsolarsi  in  quelle  delizie  di  fantasie  figurate,  bellissime,  lumi- 
nose, festanti,  che  si  credevano  vedere  e  seco  conversare  in  colloqui i 
beati.  Caterina  da  Siena,  giovinetta  vedeasi  dinanzi  per  imaginativa 
aspetti  di  giovani  leggiadri,  i  quali  sorridendole  la  invitavano  ai  casti 
piaceri  di  onesto  matrimonio;  dessa  se  ne  difese  come  da  tentazione 
del  nemico,  e  le  allontanò;  poscia  quelli,  deposto  l'abito  profano,  e 
vestitisi  dell'empireo,  le  tornarono  alla  mente  in  sembianza  di  Cristo 
Bedentore,  e  la  empierono  di  gioie  e  di  dolcezze  divine,  le  suscitarono 
nell'interno  vampe  di  amore  cocentissimo  da  spasimarne,  le  impres- 


EPISODIO  DELLA  FRANCESCA   DA   RIMIMI  467 

sere  le  stimmate,  si  che  dalla  dolcezza  ardente,  più  volte  ebbe  a  scri- 
vere che  ne  moriva  (1).  Cosi  non  era  stato  meno  di  Benedetto  di 
Norcia,  e  di  Francesco  di  Assisi  ;  cosi  fu  poscia  di  Francesco  di  Paola, 
bragia  di  carità,  dalle  cui  dita  immaginarono,  che  uscissero  scintille 
di  fuoco  ad  accendere  la  lampada  dinanzi  al  Sagramento;  e  l'uguale 
si  replichi  di  Caterina  di  Bologna,  di  Maddalena  de*  Pazzi,  di  Filippo 
Neri,  e  del  Calasanzio. 

Ma  per  venire  a  fine  del  ragionamento  farò  una  considerazione 
ultima  suir episodio  di  Francesca;  e  noterò  che  mentre  all'apparire  di 
lei  sulla  scena  svanisce  dui  riguardante  il  colore  d'inferno,  e  il  campo 
si  difosca  e  si  fa  l'alba,  e  si  sta  come  sorpresi  dalla  dolcezza  dei  versi 
in  cui  ella,  la  poveretta,  dice  della  gran  forza  d*amore  ;  inopinatamente 
si  passa  ad  una  imprecazione  si  terribile  che  vi  ripiomba  nel  più 
oscuro  e  nel  più  maledetto  degli  abissi.  Imperocché  Francesca,  dopo 
avere  pronunciato  parole  di  afifetti  teneri,  delicatissimi,  da  fame  am- 
mutolita la  bufera  e  diradata  la  caligine,  prorompe  a  vaticinare 
improvvisamente  contro  il  marito  omicida,  che  ne  vengono  i  brividi, 
e  si  sente  come  quel  crudele  non  iscamperà  del  supplizio  preparatogli. 
Egli  scenderà  in  Caina,  frammezzo  ai  traditori.  E  cosi  il  discorso  quando 
meno  si  prevede,  rinchiude  due  voluttà  in  mezzo  ai  tormenti  etemi  : 
quella  delle  passate  dolcezze  ravvivate  nella  narrazione,  e  Taltra  della 
vendetta  sicura  e  spaventevole  contro  l'oppressore.  Voluttà  d'amore, 
voluttà  di  vendetta  sono  le  massime  nel  sentimento  dell'italiano. 

E  qui  mi  molesta  un  dubbio  che  non  so  rintuzzare:  forse  non 
avrei  io  speso  fino  ad  ora  le  mie  fatiche  piuttosto  a  scombuiare  che 
a  rischiarare  il  pensiero  di  Dante  !  Forse  non  mi  si  addirebbe  quella 
sentenza  del  Cellini  :  «  io  dico  e  credo  che  questi  commentatori  gli 
facciano  dir  cose,  le  quali  egli  mai  non  abbia,  non  che  pensato,  ma 
sognate  !  >  (2)  Se  ciò  se  ne  giudicasse  per  mala  mia  Ventura , 

€  Vagliami  il  grande  amore  > 
a  rendermi  perdonato  presso  i  discreti. 

(1)  Vedi  in  più  luoghi  la  Vita  di  S.  Caterina  da  Siena,  scritta  dal  Beato 
Raimondo.  Ne  estraggo  questi  brevi  tratti  :  «  Vengano  Quelli  (i  demonii) 
«  colle  loro  detestabili  turme^  e  procurano  di  circondarla  d'ogni  parte... 
I  E  prima  cominciano...  non  solo  con  illusioni  e  fantasie  in  sogno,  ma 
•  con  aperte  visioni,  le  quali,  assumendo  eglino  corpi  aerei,  le  facevano 
«  vedere  e  udire,  ed  in  molte  maniere  le  rappresentavano...  Prendono,  come 
«  dissi,  corpi  d*aere,  e  moltiplicate  le  fantastiche  immagini  in  grandissima 
a  moltitudine  quasi  compatendo  e  consigliando,  dicevano  primieramente: 
e  Perchè  o  tapinella  ti  affliggi  tanto  tu  in  vano?...  Vivi  come  l'altre  donne, 
«  prendi  marito,  e  genera  figliuoli,  ecc.  »  (Parte  !•  cap.  11«). 

(2)  Racconti  di  Benvenuto  Cellini,  seconda  edizione.  Venezia  1829,  tip.  di 
Alvisopoli  1829,  pag.  46. 


468 


nwm  DI  STATO  CONTRO  GIULIO  VACHERÒ 

IN  GENOVA  1628 


Nel  tomo  III  delle  appendici  alla  prima  serie  dell'Archivio  Sto- 
rico Italiano  fu  stampata  la  congiura  di  Giulio  Cesare  Vacherò  contro 
la  Repubblica  di  Genova  del  1628  descritta  da  Gian  Rafaele  della  Torre 
che  ni  il  direttore  del  processo,  o  come  oggi  si  direbbe ,  il  giudice 
processante.  Il  Bixio  che  la  propose  e  diede  all'Archivio  non  vide  il 
processo  allora  nascosto,  e  non  potè  commentare  come  avrebbe  forse 
potuto  quella  narrazione  spirante  odio  al  Vacherò  sicuramente  me- 
ritato, ma  per  avventura  più  che  se  da  altri  fosse  stata  scritta,  che 
dal  criminalista,  che  ne  preparò  la  condanna.  Ora  quel  processo  è 
agli  occhi  di  chiunque  il  voglia  leggere.  AcquistoUo  autografo  dal 
notaio  Giacomo  Grita  il  prete  Giuseppe  Olivieri ,  un  dieci  anni  fa 
per  la  Biblioteca  civica  di  Genova  di  cui  ò  custode  ;  io  l'ho  esaminato, 
anzi  l'ho  letto,  e  m'infuse  tale  orrore  nell'animo  che  non  mi  si  è 
dileguato  più.  Nel  secolo  XVII  erano  feroci  le  inquisizioni  per  atten- 
tati alla  religione,  ma  non  si  crederebbe  mai  •  quanto  feroci  siano 
state  per  attentati  alla  politica.  Non  so  quanto  di  vero  cavassero  quei 
tormenti,  sebbene  a  Compiano  Giulio,  che  fu  poi  uno  dei  condannati 
per  quella  congiura,  si  gridasse  fieramente  torturam  nonJkUsie  aAm- 
vewtwn  prò  ew^quendis  mendaciis,  $ed  prò  domanda  pervicacia  reontm 
in  oecuUandatn  veritatcm;  ben  so  che  sotto  i  tormenti  la  novella  cer- 
cata non  venne,  ma  fuggirono  le  vite. 

Un  grandissimo  spavento  si  era  impadronito  di  tutti  que'  Padri  e 
del  Doge  più  ancora,  che  le  vite  loro  minacciate  e  gli  averi  sem- 
brano in  procinto  di  sperdersi  col  dominio  della  Repubblica,  possesso 
dei  denarosi,  tanto  più  che  il  Duca  di  Savoia  sosteneva  rinfocolando 
il  malcontento  dei  dominati  per  mettere  le  mani  sullo  scettro  del  Giano 
ligure  e  non  risparmiava  nò  lusinghe,  né  titoli,  né  promesse,  né 
denaro  per  giungere  al  fine  del  suo  coQcetto  ;  tanto  la  collera  aveva 
velati  gii  occhi  di  aue'  signori,  che  ornai  erano  risoluti  di  non  ri- 
sparmiare nessuno  cne  avesse  dato  pure  un  dubbio  di  fodeltà,  onde 
bastò  che  un  nome  uscisse  da  una  qualunque  bocca,  perchè  chi  lo 
portava  si  arrestasse,  si  esaminasse,  poi  si  collasae  per  conoscere  se 
manteneva  il  deposto,  indi  si  facesse  giurare  di  tacere  e  del  richiesto 
e  del  risposto  negl'impenetrabili  del  tribunale.  Il  codice  o  gli  Statuti 
risparmiavano  gli  spettabili,  o  dottori,  o  in  altro  modo  insigniti  di 


PBOCBSSO  DI  STATO  OONTBO  GIULIO   VACHBBO  4M 

riverenza  nella  Reoubblìca  ;  ma  allora  parve  in  pericolo  lo  Stato,  e 
senza  il  decreto  del  Caveat^  s'intese  che  èàlMfpopuli  suprema  tea  eito, 
e  sebbene  il  popolo  non  vi  avesse  a  far  nulla,  si  procedette,  come 
se  non  ci  fosse  altro  rimedio.  Centocinquantatre  persone  furono  esa- 
minate fra  testimonii  ed  accusati,  e  si  cominciò  da  giovanetti  maschi 
e  femmine  dai  13  ai  17  anni,  domestici  del  Vacherò,  e  si  discese  a 
persone  d'ogni  età  e  d'ogni  condizione,  dal  mercordì  12  aprile  1628 
sulla  sera,  al  20  luglio  1629,  e  la  tragedia  fini  colla  condanna  di  di- 
ciotto  a  morte,  colla  morte  di  due  sotto  i  tormenti,  collo  strazio  di 
altri  molti,  e  con  varie  condanne,  a  confini,  ad  esigli,  a  galere  e  a 
carceri,  e  ad  esigenze  di  cautele  in  sigurtà  di  denari ,  le  quali  non 
erano  accettate,  se  non  date  dai  nobili  e  fidissimi  al  Governo.  Quando 
il  Casoni  scrisse  di  questa  congiura  ne'  suoi  Annali,  dovette  avere 
avuto  fra  mano  questo  processo,  sul  quale  il  Della  Torre  fece  la  re- 
lazione che  Bixio  poi  diede  a  stampare,  come  ho  detto  ;  quindi,  come 
del  Casoni  già  avvertii,  nella  Nuova  serie  delV Archivio  storico,  non 
compiuta  che  una  raccolta  di  memorie,  non  era  il  benemerito  da  ' 
rimproverarsi  di  plagio  sul  Torre;  è  questo  dico  perchè  questo  pro- 
cesso andò  alla  Biblioteca  per  la  istessa  vìa,  per  la  quale  vi  andarono 
le  Memorie  del  Casoni. 

La  prima  carta  del  manoscritto  ha  questa  scrittura  del  notaio  del 
criminale  : 

e  Ad  maiorem  Dei  gloriam  Anno  Sai.  ooiooxxvni  pridie  idus 
aprilis. 

e  Detecta  per  cap.  Irém  Franciscum  Rodinum  Dianensem  muni- 
cipem  qua  debuit  fide  ac  virtute  Ser.™<^  Duci  conspiratione  perditorum 
hominum  in  statum  serenissime  Reipub.  civium  omnium  libertatis 
excidium  iuxta  seriem  narrationis  quam  ipse  fecit  folio  octodecimo 
confect»  per  vani  spiritus  ligurem  Io  Ant.  Ansaldum,  perque  elati 
animi  ex  non  modicis  divitiis  genuensem  inquilinum.  lulium  Cesarem 
Vacherium  suppello  oriundum  ignobili  in  subali)ini8  pedemontibus 
loco  iisque  aliisque  eorum  affectis  et  satellitibus  in  tam  vesano  pra- 
voque  Consilio  obstetricante  ex  ingenito  in  Remp.  odio  Cafolo  Ema- 
nuelli,  insubri»  Duce  de  quo  poetico  spiritu  bene  hariolatus  Ve- 
nusinus  de  iamblico  videtur,  novisque  rebus  infidelis  allobrox  Ser.  "*> 
CoUegia  sub  auspiciis  serenissimi,  tunc  Ioannis  Luce  Chiavari  viri 
ad  gloriam  et  reipub.  sospitatum  nati,  Deo  servatori  relato  adscri- 
ptaque  ut  par  est  benefìcio  mandaverunt  iuxta  legum  pnescriptum, 
instrui  infradescriptum  processum  ad  rei  veritatem  seriamque  digno- 
scendam:  fontesque  atrocis  immanisque  consilii  detegendos  evincendos 
et  prò  modo  noxe  poenis  debitis  plectendos  :  quo  exemplo  esteri  in 
poeterum  siqui  illius  modi  efferati  in  innoouam  patriam  voluntatis 
oriretur,  quod  Deus  avertat,  absterreantur. 

«  Perfectus  est  processus,  Deo  dante,  tertìp  decimo  cai.  sextilis 
div»  Margherita  sacro  anno  sai.  mdcxxix. 

«  Uì.^^*  Lue»  Pallavicino  et  Angustino  De  Mari  adsistentibus 
commìssariis  quo  munus  obiere  et  IIl."^  tunc  lac.  Balbi,  Io.  Bapt. 
Lercams,  Mag.""  Raphaeli  de  Turri  ipsum  contexente  et  ad  finem 
optimum  dirigente  )i. 

L,  S-  della  Biblioteca. 

Iaoobus  Bbita  Notarius. 


470  BnnSTA  contempobakba 

Quelli  ì  commissarii,  ma  le  stanchezze  vinsero  le  ansietà,  e  si 
mutarono  le  assistenze  con  Girolamo  Dinegro,  Tommaso  Chiavariy 
■Opicio  Spinola,  Girolamo  Adorno  e  un  Bonifazio  di  cui  ho  perduto  • 
il  nome,  tanto  pietoso  da  lasciare  che  Tommaso  Chiavari  assistesse 
a  una  tortura  che  da  diciannove  ore  durava  (sabato  10  giugno  1629), 
per  andare,  come  il  processo  nota,  ad  ascoltare  la  messa.  Continua 
il  manoscritto: 

<  Quo  qui  scelesti  ruitis?  aut  cur  dextris 

Àptan'tur  enses  conditi? 
An  ut  secundum  vota  hsec  hostis  sua 

Urbs  deperiret  dextera  ? 
Neque  hic  lupis  mos,  nec  fuit  leonibus 

Unquam  nisi  in  dispar  feris 
Furor  ne  cecus  an  rapit  vis  acrior  ? 

An  culpa  ?  responsum  date. 
Tacent  :  et  ora  pallor  albus  inficit 

Mentesque  perculsse  stupentii. 

Segue  una  carta  d'indice  alle  maggiori  deposizioni,  pot  tre  altre, 
di  cui  due  d'indice  del  processo  per  tutti  gli  esaminati,  indi,  una 
co^  nomi  de'  condannati,  e  i  giorni,  e  i  modi,  e  i  luoghi  delle  esecu- 
zioni delle  sentenze,  per  quei  nove  che  non  ebbero  amica  fortuna 
d'evadere,  tra  i  quali  il  Vacherò,  che  erasene  andato  sino  a  Recco 
e  cercava  il  confine  Piacentino,  poi  tirato  dal  suo  fato,  tornò  a  Ge- 
nova ove  fu  arrestato,  e  Giulio  Compiano  con  Bartolomeo  Grandino 
che  non  osarono  fidarsi  al  mare,  e  si  lasciarono  prendere,  accovacciati 
in  S.  Pier  d'arena.  Degfi  evasi  il  più  odiato  fu  l'Ansaldo,  ambascia- 
tore di  Savoia  al  Papa,  e  contro  lui  nella  sentenza  contumaciale  di 
morte  fu  fatto  questo  speciale  decreto  :  e  Si  quis  dictum  Ioan.  Anton. 
.  Ansaldum  occiderit  vel  vivum  tradiderit  in  Curise  potestate  is  pre- 
mium duplicatum  habeat  ab  eo  quod  a  dicto  statuto  conceditur  ita 
ut  qui  eum  occiderit  seu  vivum  tradiderit  ut  supra  si  ipse  ex  pari 
vel  inferiori  delieto  exul  esset  non  solum  liberationem  consequatur, 
sed  alium  etiam  de  sequali  delieto  exulem  nominari  posait,  qui  sic 
nominatus  ipso  iure  et  facto  iiberatus  omnino  et  restitutus  patriae 
censeaturcum  resti tutione  etiam  bonorum  confìscatorum,  qu»  tamen 
de  facto  in  fiscum  tunc  temporis  non  fuissent  illata  ii.  Se  non  era 
esule,  o  l'esule  non  accettava  di  tornare,  poteva  due  condannati  libe- 
rare, e  la  dichiarazione  fatta  italiana  dal  cancelliere  Zaccaria  Yadomo 
(che  nelle  stanchezze  del  Grita  supplì  all'officio  di  notaio  nel  processo) 
ru  mandata  ad  affiggersi  per  Italia.  Era  si  tristo  l'Ansaldo,  e  non  si  • 
temeva  di  riaprir  la  patria  a  un  altro  che  gli  fosse  pari  nel  delitto, 
e  anzi  doveva  essere  peggiore,  poiché  il  ricompro  dell'aere  suo  far 
doveva  con  un  tradimento.  A  iale  immoralità  spingeva  l'infuocata 
ira  di  Stato. 

Quell'Ansaldo  era  stato  il  mezzano  di  tutta  la  faccenda  fra  il  Duca 
e  il,  Principe  di  Savoia  e  i  congiurati,  aveva  tirato  a  Torino  il  Va- 
cherò, ed  essendo  stato  a  casa  di  lui  a  Genova  aveva  fatto  regalare 
la  moglie.  Aveva  il  Vacherò  tentato  di  lasciarsi  svenir  di  fame,  poi 
di  sostener  tormenti,  e  non  confessare,  fu  dai  commissarii  rimprove- 
rato di  vigliaccheria,  e  sulle  prime  negò,  poi  convinto  e  confuso, 


PBOCBSSO  DI  STATO  CONTRO  GlOLIO  VACHERÒ  471 

contò  molto  più  che  non  si  sapeva,  fra  cui:  che  T Ansaldo  vantava 
d'avere  in  città  200  artigjiani  a  sua  disposizione  (g«nte  che  al  Va- 
cherò non  piaceva),  che  il  Duca  da  Prà  a  Varazze  avrebbe  condotto 
fra  quattro  a  cinquemila  fanti,  e  seicento  cavalli,  per  tener  freno 
alla  plebe  che  non  tumultuasse  ;  che  Giulio  de'  Fornjari  accennò  che 
bisognava  andare  alla  testa  e  alludeva  al  palazzo  Ducale  ove  stavano 
a  guardia  da  200  a  300  soldati.  Ad  informarsi  gli  animi  si  leggeva 
di  sera  Machiavello  ,  dove  parla  di  congiure  pericolose ,   che   vuol 
dire  ch'era  gente  con  qualche  lettera;  ma  Vacherò  si  addormentava, 
si  dovevano  portare  sotto  le  scale  del  Palazzo  dieci  barili  di  polvere 
e  distruggere  il  Consiglio  ;  e  un  altro  esaminato  disse,  che  il  fuoco 
sarebbe  stato  dato  da  una  macchina  a  modo  d'orologio.  Non  era  dei 
Governanti  che  si  dolevano,  ma  della  impertinente  nobiltà  giovane, 
cui  i  governanti  lasciavano  la  briglia  sul  collo,  e  pare  che  da  essa 
la  moglie  del  Vacherò  in  lettiga  fosse  stata  offesa,  ond'egli  giurasse 
vendetta  e  di  ciò,  e  del  volere  che  i  non  nobili  si  sberrettassero  pas- 
sando loro  innanzi  chi  di  loro  non  era.  Quella  macchina  da  Giuliano 
de'  Fomari  era  creduta  invenzione  d'Ansaldo  venuta  da  Torino,  ma 
un'altra  macchina  a  foggia  d'armadio  era  stata  costruita  con  più 
ripiani  di  canne  d'archibugio  immaginata  da  Giambattista  Benigassi 
colla  quale  nel  mezzano  piccolo  di  casa  di  Girolamo  Dinegro  che  ri- 
spondeva sulla  loggia  de'  Banchi,  ove  per  loro  affari  i  nobili  si  adu- 
navano sempre,  si  sarebbe  in  un  solo  colpo  sparato  centra  di  essi,  e 
ristrumento  era  stato  provato  a  Torino,  dov'era  riuscito  con  grande 
fracasso.  Vacherò  invece  riferì  che  si  voleva  sparare  in  contrada  della 
croce  in  occasione  di  processione  a  cui  andavano  i  gentiluomini,  ma 
che  fu  ritenuto  per  rispetto  del  Sacramento.  A  Torino  il  Vacherò  fu 
dando  ad  intendere  a  Genova  a  chi  andava  in   un   luogo,  e  a  chi 
all'altro;  vide  due  volte  il  Duca.  Una  volta  v'andò  in  carrozza  ma- 
scherato a  una  festa  di  corte,  e  vi  stette  14  ore  ;  l'altra  la  successiva 
mattina  nella  quale  il  Duca  riaffermò  al  Vacherò  ciò  che  Ansaldo 
gli  aveva  esposto,  e  gli  soggiunse  che  bisognava  risolversi  e  far  prestò. 
Chiese  il  Duca  se  a^  Genova  fossero  trattati  male,  e  il  Vacherò  si 
dolse  dei  giovani,  come  ho  detto.  Fate  presto,  rispondeva  il  Duca; 
sì,  continuava  Vacherò,  io  sono  il  padre  di  queste  cose,  le  quali  se 

S resto  non  si  eseguiscono,  si  discoprono.  E  in  udir  della  macchina 
isapprovò  :  non  conviene  scherzar  coi  santi  ;  ma  se  presto  non  fate 
sarete  tutti  sudditi  di  Spagna. 

In  questa  deposizione  una  cosa  uscì,  per  la  quale  può  aversi  segno 
del^merito  reale  della  relazione  che  si  stampò  del  Della  Torre.  Giu- 
liano de'  Pomari  aveva  lettere  dal  Duca,  ed  Ercole  de'  Fomari  adoc- 
chiava a  Palazzo,  e  com'ebbe  notizia  d'alterchi  in  consiglio  per  im- 
posizione d'una  tassa,  l'avvertì  ai  congiurati,  quale  occasione  favo- 
revole di  fer  ammazzare  Raffaele  Della  Torre,  che  aveva  parlato  in 
favore  della  posta.  Se  l'incitamento  ferì  a  vuoto,  fu  perchè  Va- 
cherò non  permise  che  si  offendesse  chi  lui  aveva  servito  bene  da 
avvocato. 

Domandato  il  Vacherò  se  disposto  era  a  sostenere  nei  tormenti 
quella  deposizione,  rispose  :  e  Sono  pronto  a  sostenere  ogni  cosa,  e 
f  se  non  vi  è  notizia  che  prima  di  adesso  si  sia  trattato  di  simil  pratica, 
e  glielo  dico  io,  ed  il  mezzano  di  essa  era  un  fratello  di  Giangiacomo 
<  Bnffo,  il  quale  andava  e  veniva  da  Torino,  e  trattava  con  ilÓuca 


472  RIVISTA  OONTBMPOEANHA 

«  e  principe  Vittorio,  ma,  o  che  quei  principi  si  avvedessero  che  lui 
€  trattava  con  bugie  e  doppiezze  per  cavare  denari^  o  per  qualsivoglia 
€  altra  cagione,  fu  posto  in  prigione  a  Torino  ove  mprse  >.  Fu  messo 
alla  corda,  e  tenutovi  per  tre  misererei  svenpe.  Furono  ordinati  fo- 
menti dagl'illustrissimi,  poiché  il  medico  il  diceva  svenuto  per  troppa 
debolezza  delFfnedia.  Rinvenuto,  si  riattacca  alla  fune,  e  «  sic  ligatus 
editis  signis  angoris  et  doloris  vehementis  cum  persistisset  per  unum 
miserere  et  mox  esset  elevandus  presente  etiam  phisico,  illustrissimi 
mandaverunt  interrogari  an  confirmet  ea  quse  ipse  deposuerat.  R. 
voce  languida:  confermo  tutto i^.  Fu  sciolto. 

Ma  in  quel  confermo  tutto  er^  eziandio  che  lo  spettabile  Francesco 
Martignone  doveva  essere  informatissimo  d'ogni  cosa,  perch'egli  fu 
che  lo  condusse  dall'Ansaldo,  e  perciò  negando  il  Martignone  eziandio 
in  faccia  al  Vacherò  fu  messo  alla  tortura,  e  perchè  continuava  a 
negare,  lo  quassarono  più  volte  un'ora  e  più,  poi  mandato  co'  ceppi 
in  carcere,  dove  il  di  appresso,  9  giugno  1628  gli  mandarono  il  me- 
dico Orazio  Torre,  che  riportò  avergli  trovato  il  polso  alterato,  la 
lingua  alquanto  bianca,  e  perciò  per  allora  non  se  gli  poteva  dare 
tormento  nessuno  se  grave.  Si  ordinò  al  medico:  facesse  tutto  il 
possibile  per  la  cura,  bisognando  la  verità  da  quella  bocca.  Questo 
il  venerdì  9  giugno.  La  dimane  fu  ripresentato  al  curiale,  e  continuò 
a  negare.  Si  attaccò  alla  fune.  Darò  in  succinto  il  più  notevole  di 
quel  martirio  ora  per  ora. 

Ora  prima.  Soròeso  :  Ohimè  che  il  mio  cuore  se  ne  va  —  et  con- 
torquebatur  et  diceoat  —  Ohimè  --  et  mussitabat.  —  Alle  interroga- 
zioni non  rispondeva,  poi  —  io  muoio,  ho  la  febbre,  ohimè  il  mio 
cuore.  —  Stette  un  quarto  e  mezzo,  fu  smesso,  poi  ritorturato  —  Pò- 
situs  ad  tormentum  vigilie.  —  Tremava,  si  lamentava,  gli  fu  dato  un 
confetto  e  un  uovo  fresco,  e  gridava  :  —  Non  è  sveglia,  ma  corda, 
ohimè  mi  sento  mancare  il  cuore  —  interrogato,  sempre  rispondeva: 
—  Io  non  so  niente,  questa  è  corda,  è  insopportabile  ;  misericordia  ! 
non  mi  fate  morire  a  questa  maniera. 

Ora  seconda.  Se  le  hanno  inventate  queste  cose.  Vorrei  che  mi 
desse  sveglia  che  questa  è  corda,  non  posso  far  il  passo. 

Ora  terza.  Eguali  lamenti  ed  eguali  domande.  Gli  si  porgono 
sorsi  d'acqua  di  cedro.  —  Sanno  la  mia  vita,  non  ho  mai  pensato  a 
queste  cose;  l'Ansaldo  non  l'ho  veduto.  Ho  la  febbre  io;  ho  patito 
tanto  con  manette  e  traverse.  —  Il  medico  Torre  che  finita  l'ora  primft 
era  uscito,  ritorna  chiamato  in  mancanza  d'altri,  e  il  vede  ip  tremiti. 

Ora  quarta.  Il  medico  non  s'intende  di  questi  tremiti.  Viene  il 
chirurfi^o  Falcone,  il  quale  trova  alterazione  de'  polsi  delle  tempie, 
cessa  il  tremore.  — ■  Si  può  continuar  la  tortura  senza  pericolo  aella 
vita.  È  notevole,  che  due  già  erano  morti,  e  ne  diremo. 

Ora  quinta.  Resta  il  Falcone  e  si  continua  ;  si  muta  al  banco  il 
notaio.  Si  presenta  un  uovo  al  paziente  ;  ei  chiede  da  bere.  Gli  danno 
l'uovo  a  sorbire  e  vino  diluito.  Chiede  perchè  non  gli  empirono  ì\  gotto 
(il  bicchiere),  e  gli  porgono  un  cedro.  Egli  ripete:  da  bere,  e  cessi  lo 
strazio  :  —  la  verità  l'ho  detta,  Ansaldo  non  l'ho  veduto. 

Ora  tetta.  Gli  si  dà  acqua  e  vino  ;  ma  ancora  vuol  bere  che  il  cuor 
'li  scoppia  —  ancora.  Gli  porgono  un  altro  cedro,  e  lo  rigetta.  —  Ho 
a  febbre,  non  ho  complessione  da  sopportar  questi  tormenti,  ho  sempre 
atteso  alle  lettere; 


fj 


PROCESSO  DI  STATO  OONTBO  GIULIO  VACHERÒ  ^73 

Ora  setiima.  —  Io  non  pc«8o  più;  datemi  da  bere.  —  Sottovoce  ri- 
prese più  volte  :  da  bere  ;  e  si  raccomanda  a  Dio. 

Dalla  settima  alla  duodecima  ora  lamenti ,  sete  e  porgimento 
d'acqua,  qualche  spicchio  di  cedro,  qualche  uovo.  Finalmente  do- 
manda confessore  se  ha  da  morir  ivi  ;  e  sempre  si  angoscia  che  il  suo 
cuor  se  ne  va.  Il  medico  Torre  visita  il  paziente  :  ~  non  c*ò  febbre,  e 
si  può  torturare. 

Si  risolveva  alla  tredicesima  ora  perchè  soddisfi  a  pressioni  di  na- 
tura, ma  si  ripone  al  tormento.  —  Io  non  ho  mai  sentito  parlar  di  con- 
giure e  non  ho  mai  parlato  di  congiure.  —  Poi  disperato  :  -r  Io  mi 
refaro  a  quelli  che  mi  hanno  accusato  ch'io  fossi  presente  ai  suoi 
ragionamenti  di  quei  che  mi  hanno  accusato.  —  Che  bisogna  ch*io 
dica  quello  che  non  ho  fatto,  e  confermo  tutto  quello  che  hanno  detto 
quelli  che  mi  hanno  accusato,  cioè  che  Pomari  e  Vacherò  dicono  che 
io  era  presente  quando  dicevano  che  erano  soddisfatti  male  della  Re- 
pubblica, per  conto  delle  sberrettate,  e  mi  reiero  a  quello  che  hanno 
detto,  e  mi  levino  da  questo  tormento.  Dicevano  di  volere  andare  a 
Banchi  a  vendicarse.  Io  dico  che  io  non  so  di  congiura  alcuna.  — 
Deinde  et  se  diwit:  scrivete  che  ho  parlato  coli' Ansaldo,  e  che  mi 
refero  a  tutto  quello  che  sono  stato  accusato,  che  cosa  vogliono  da 
me,  e  mi  vogliano  levar  da  questo  tormento,  che  io  ho  detto  quanto 
posso  e  quanto  so.  V.  S.  vuol  ch'io  dica  che  io  ci  ho  parlato  ;  se  non 
è  vero,  corpo  del  mondo,  che  cosa  vogliono,  se  mi  refero  a  quelli 
che  mi  hanno  accusato! 

Ora  quindicesima,  —  Io  non  ho  fatto  altri  ragionamenti  coir  An- 
saldo e  cosi  confermo.  ->  Chiesto  del  colloquio  fìra  lui  e  l'Ansaldo  : 
Ha  trattato  di  vendicarsi  delle  ingiurie  ricevute  a  Banchi  e  S.  Siro 
e  del  modo  di  liberarsi  della  Repubblica. 

Ora  sedicesima.  Non  per  questo  fu  tolto  dal  martore  ;  gli  fu  dato 
a  bere. 

Ora  diciasettesima.  Mi  levino  dal  tormento  perchè  è  il  tormento  che 
mi  fa  parlare,  mi  faccino  levare. 

Ora  diciottesima.  —  Io  mi  disreno,  non  posso  più.  —  U  chirurgo 
lo  visita  :  lofio  gueret  aliquaiUulum  suffuse  rubere.  —  Comincia  a  sudar 
la  fronte.  Con  grande  voce:  Ohimè  il  cuore  mi  vien  meno.. 

Ora  diciannovesima.  Toma  a  dir  che  il  tormento  gli  fa  dir  quel 
che  non  sa;  si  lamenta  del  ventre,  del  cuore,  del  capo  e  trema.  Do- 
manda da  bere,  e  gli  si  nega  se  non  confessa. 

Ora  ventesima.  Sudori  al  capo;  toma  a  chieder  da  bere,  e  di  nuovo 
gli  si  nega.  Ne  richiede  al  sig.  Tommaso  Chiavari,  e  ne  ha. 

Dall'ora  ventunesima  alla  fine  della  ventitreesima  continuo  lamento, 
e  sete  che  si  fa  più  e  più  incomportabile.  Il  Falcone  stette  tutta  la 
notte  presente  ;  alla  fine  a  20  minuti  dopo  la  ventesima  terza  ora  di 
tormento  trova  che  le  forze  non  sono  ragionevoli,  e  fa  pronostico  dì 
qualche  pericolo.  —  Et  cum  dissolveretur  et  brachia  coaptarentur, 
nullam  vocem,  aliumve  doloris  argumentum  prceter  quam  oris  rictum 
edidit,  et  sic  mansit  per  quadrantis  plus  minus  intervallum.  —  Q4i 
si  presenta  il  confessore,  ma  egli  lo  allontana  coi  cenni.  Dopo  un'ora 
e  mezzo  di  fomenti  apprestatigli  sul  luogo  dal  medico  e  dal  chirurgo 
riha  i  sensi. 

Il  giorno  13  fu  trovato  con  maggior  febbre  che  il  dì  innanzi.  Non 
può  torturarsi.  Nel  di  14  ricondotto  al  banco,  protesta  di  n(m  voler 


474  EITISTA   CONTBMPOBANKA 

essere  convinto,  per  ciò  che  disse  sotto  il  tormento.  Quel  che  disse 
seppelo  in  pri^one.  Ratifica  tutto  quello  che  disse,  fuor  quello  di  che 
lo  accusarono  Fomari  e  Vacherò,  e  nega  ciò  che  disse  nel  tormento 
dalle  ore  13  alle  15  inclusive  :  fu  rimesso  in  carcere,  e  vi  stette  sino 
al  14  di  febbraio  1629,  in  cui  fu  condannato  a  30  anni  di  relegazione 
in  Corsica,  e  restar  poi  bandito  dal  dominio  Genovese,  e  non  uscì  di 
stretta  che  data  fideiussione  di  ottomila  scudi  d'argento. 

Non  fu  solamente  Gian  Francesco  Rodino  che  svelasse  la  con- 
giura, ma  anche  il  genero  suo  Francesco  Bertora  capitano  ;  il  quale 
per  via  di  un  Nicolò  Marcone  era  stato  dal  Vacherò  e  poi  tornatovi 
invitato  da  lui.  Bertora  aveva  lasciato  il  suo  in  Piemonte  e  venuto  a 
servir  Genova;  ma  delusa  delle  grandi  speranze.  Vacherò  gli  comunicò 
un  di  che  voleva  consolare  il  duca  di  Savoia  di  una  galera  che  aveva 
perduta,  e  Bertora  accennando  la  venuta  d'una  de'  Cattanei  la  diceva 
subito  prendibile,  non  intese  la  metafora,  ma  Vacherò  gliela  chiarì: 
Carlo  Doria  e  molti  altri  gentiluomini  erano  assenti  ;  sé  aver  séguito, 
bisognava  ammazzare  i  nobili  tutti  dappertutto,  aprir  carceri  e  ma- 
gazzini; perciò  macellatori  si  chiudereobero  da  lui  Vacherò  e  da 
Fomari,  e  in  Palazzo  s'insinuerebbero  con  armi  coperte.  Vacherò 
oltre  150  bravi  contava  su  50  di  Polcevera  ;  mostrò  patente  di  colon- 
nello savoiardo  a  cento  scudi  il  mese  sottoscritta  Curio  Emanuele^  e 
un'altra  aveala  data  a  un  Sartorio.  Diede  al  Bertora  cento  scudi  per 
trovarsi  25  uomini,  ed  ei  li  trovò.  Egli  Bertora  e  lo  scuocerò  suo 
Rodino  avrebbero  ad  assalir  le  porte  del  Palazzo  intanto  che  Vacherò 
e  un  Rufo  si  sarebbero  messi  a  Banchi  aspettando  Zignago  medico 
e  chirurgo  co*  suoi  ottanta,  Fomari  e  Consigliere  (altro  mandato  dal 
Duca)  assalterebbero  i  Collegii,  e  il  dì  essere  doveva  o  il  mercordi 
0  il  giovedì  di  Passione.  Il  principe  Vittorio  doveva  giungere  con 
1500  cavalli  a  Varazze,  il  prmcipe  Tommaso  con  3000  fanti  e  500 
cavalli  :  Vacherò  e  Fomari  fra  pistole,  pistoni,  archibusi  avevano  più 
di  200  bocche  da  fuoco  e  sei  barili  di  polvere  ;  Zignago  pistole  e  da 
70  od  80  petti  di  ferro.  Si  otterrebbe  libertà  o  si  farebbe  il  Duca  re 
di  Liguria.  II  Rodino  andò  col  Bertora  dal  Vacherò,  udì  confermarsi 
il  disposto;  cento  persone  in  quattro  squadre  armate  di  pistole  corte 
s'impossesserebbero  della  porta  del  cortile  del  Palazzo,  uccidendo  i 
tedeschi  di  guàrdia  e  chiunque  opponesse  difesa  su  per  le  scale  e  il 
colonnello  che  sta  alla  porta  del  magazzino,  fingendo  dargli  una  let- 
tera ;  n[iassacrare  i  Collegii,  gittarli  dalla  finestra,  prendere  l'arme- 
ria, gridar  San  Giorgio  e  Popolo  e  libertà^  annientare  i  nobili  a  Ban- 
chi. Il  resto  come  depose  Bertora.  Stupito  andò  pel  Doge  e  si  condusse 
come  narrò  poi  il  Della  Torre. 

Non  si  hanno  indizii  forti  che  la  moglie  di  Vacherò  sapesse  ciò 
che  macchinava  il  marito  ;  i  famigliari  giovanissimi  non  furono  con- 
cordi coi  famigliari  adulti,  nelle  deposizioni  di  essi  stessi  e  della 
signora.  Un  ragazzo  di  quattordici  anni  depose  che  né  Vacherò  né 
la  moglie  osservavano  la  quaresima,  e  quella  mattina  dell'arresto 
non  v'era  pesci;  la  cuoca  invece  giurò  che  altro  cuciniere  non  era 
che  essa  in  casa,  e  che  la  signora  Tum  faceva  la  quaresima  intera»  ma 
oggi  la  fece  cVera  giorni  santi.  La  Ippolita  figliuola  del  Capitano 
Reba,  moglie  del  Vacherò,  dichiarò  che  a  pranzo  aveva  capponi, 
torte  dolci  e  pasticci.  Anche  nelle  disposizioni  delle  parti  della  casa 
non  sono  molto  concordi,  né  la  moglie  lascia  credere  che  il  marito 


P11OCBS0O  DI  STATO  CONTRO  OltTLIO  VACHBBO  476 

in  nulla  si  confidasse  in  lei.  Lo  suocero  ignorava  della  congiura, 
ma  insospettitosi  di  qualche  cosa,  e  saputo  che  il  Vacherò  era  stato 
a  Torino,  sebbene  il  neg^asse,  fortemente  l'ammonì.  I  signori  della 
Repubblica  il  conoscevano  fedele  e  savio,  ma  pur  l'arrestarono  e  se 
il  rilasciarono  di  curia  fu  per  confinarlo  in  casa  poi  nel  convento  del 
Carmine,  e  dopo  tre  dì  liberato,  ma  con  sigurtà  d'altrui.  Allora 
molti  altri  corsero  a  denunciare  e  il  Rufo  tra  essi  a  prendere  l'im- 

J munita  e  a  notificare  i  nascondigli  di  Vacherò  per  le  armi.  Il  Reba 
ù  riesaminato  in  luglio  il  dì  14,  e  il  9  di  agosto  si  discusse  se  si 
doveva  dargli  la  corda,  come  proponeva  il  Doge,  o  che  si  difendesse 
come  proponeva  altri,  o  che  desse  altra  cauzione  a  ricomparire  toties 
quoiies.  Il  primo  partito  non  fu  approvato  ;  le  due  votazioni  succes- 
sive andarono  vuote.  Fu  il  6  settembre  definito  che  ne  dicessero  due 
giuristi  col  Della  Torre;  e  fu  definito  che  si  torturasse  se  resistesse 
alle  asserzioni  di  un  Grandino.  Per  buona  ventura  l'accusatore  no- 
minò un  androne  segreto  in  casa  di  Reba,  e  nella  costui  casa  non 
erano  androni  segreti,  uno  era  ma-esposto.  Tuttavia  al  povero  Reba 
si  minacciò  il  tormento.  —  Son  qua,  rispose;  ma  avvisò  di  essere 
assetUUoy  aver  due  volte  avuto  il  mal  francese,  patir  di  paralisi, 
né  valersi  del  braccio -sinistro;  ciò  dire  per  non  lasciar  la  vita  nei 
tormenti  :  del  resto  facciano  loro.  Lo  legavano  e  intanto  l'interro- 
gavano della  verità,  ed  egli  rispondeva  d'averla  detta;  onde  si 
cessò  il  legare,  lo  rivestirono  e  lo  riposero  in  carcere;  non  passato 
di  nuovo  il  partito  di  dar  sigurtà,  per  comparire  toiiee  q%otie$  posto  il 
dì  7  ottobre,  passò  poi  il  17  in  cui  fu  rilasciato  mediante  sigurtà 
data  di  diecimila  scudi. 

Le  figlie  e  le  mogli  furono  tenute  contro  i  padri  e  mariti  ;  nes- 
suna fuor  dell'Ippolita  si  condusse  meglio  per  non  danneggiare 
alcuno  ;  potè  contentarsi  di  prestar  sigurtà  di  quattromila  scudi  che 
le  fecero  Lazaro  Ansaldo  e  Francesco  Saporiti  e  ritirarsi  nel  Carmine. 
Molto  male  furono  trattate  le  serve  e  i  servitori  che  parevano  simu- 
lare ignoranza  di  ciò  che  in  casa  de'  loro  padroni  accadeva. 

Così  Angelo  Atanasi  da  Scio  di  45  anni  d'età  e  da  9  mesi  domestico 
al  Vacherò  e  alla  sua  signora,  spenditor  di  casa  fu  posto  due  volte 
alla  tortura.  La  prima  volta  si  voleva  sapere  chi  il  Vacherò  avesse 
ospitato  in  casa  propria.  Il  chirurgo  lo  trovò  rilasciato  alla  parte 
destra,  gli  pose  il  braghi  ere  dicendo  ;  si  può  con  sicurezza  venir  al 
tormento  della  corda  o  altro  senza  pericolo.  Non  valsero  proteste,  scon- 
giuri, gridori,  invocazioni  della  Vergine  ;  gli  si  misero  le  tavolette 
ai  piedi.  Strepitava  e  malediceva,  domandava  a  Dio  vendetta;  gli  si 
applicarono  le  traverse,  poi  legami  di  sedici  libbre  di  ferro  ai  piedi,  e 
proclamava  di  nulla  sapere  ;  e  il  processante  lo  rimproverava  di  per- 
tinacia e  lo  faceva  levare  in  altOv  Stette  un'ora  lassù  in  quel  modo 
raccomandandosi  l'anima,  e  Luca  Pallavicino  era  presente;  più  volte 
si  scosse,  null'altro  disse,  e  calato  fu  rincarcerato  il  17  aprile  1628. 
Dopo  tre  fillomi  è  ritornato  al  tribunale,  ode  le  deposizioni  della  Pa- 
drona, della  serva,  del  Rufo  e  d'altri,  e  nega.  Riposto  alla  tortura 
sclamava  ch'era  rotto,  guasto,  aperto  che  gli  cadevano  le  intestina  ; 
si  raccomandava  alla  Vergine  di  Loreto,  a  S.  Bernardo,  a  S.  Elena 
gloriosa,  ma  non  contentava  il  giudice.  Dopo  un  quarto  d'ora  il  chi- 
rurgo gli  stringe  il  braghiere,  e  il  birro  lo  mette  al  tormento  delle 
vifUie.  Nuovi  Lai  !  nuovo  refrigerio  di  un  quarto  d'ora,  e  rimesso  al 


^6  RIVISTA   OOKTBKPOEÀNBA 

tormento  domandaya  a  Gesù  Cristo  aiuto  p&r  quéUi  poveri  stracci  di 
flglimoli  ;  era  padre  di  tre  maschi  e  di  una  femmina.  Alternò  silenzio 
e  lamenti  e  finì  per  dolersi  di  calunnie  della  cameriera,  e  dire  che 
l'ospitato  parlava  lombardo,  e  altre  cose,  ma  al  giudice  non  bastava. 
Passò  nel  tormento  la  seeondaj  la  terzay  la  quarta  ora,  la  quinta^  la 
sesia  ;  si  cambiarono  d'assistenza  il  notaio,  il  consultore,  il  commis- 
sario e  nulla  usci  d'altro  che  si  chiedeva  di  certe  armi  che  Vacherò 
aveva  nascosto  in  casa  di  un  camallo  (fÌEuschino),  senza  che  il  camaUo 
ne  sapesse.  Il  tormento  lo  pose  in  sete  ;  chiese  ed  ebbe  a  bere  ;  nella 
settima  ora  ebbe  un  po'  di  vino  diluito,  un  po'  di  confetto^  un  po' 
di  pane  intriso  di  vino  ;  nell'ora  ottava  dolevasi  che  il  vino  Y aveva 
ammazzato^  richiede  acqua  che  non  si  dà,  gli  si  danno  in  vece  ime 
ciliegie \  finalmente  nell'ora  nona  il  chirurgo  gli  dà  acqua;  ne  chiede 
ancora,  gliene  porgono  aliquantulum,  poi  nuovo  vino,  e  cosi  fra  acqua 
e  vino,  e  pane  intriso  nel  vino  passarono  tutte  le  ore  dalla  nana 
alla  quattordicesima  inclusive  ,  sempre  protestando  che  null'altro 
sapeva,  che  la  verità  l'aveva  detta,  ch'era  straziato,  morto,  tradito. 
NeUa  quindicesima  diede  la  testa  nel  muro,  ma  non  fu  male  e  parve 
poi  ammutito  per  quella  e  per  la  successiva.  Accusò  male  al  ventre, 
e  due  ore  passarono  mute,  e  mvC altra  fra  lamenti  dogliosi  ;  poi  due 
altre  ore  di  silenzio  cupo;  indi  nella  ventiduesima  ora  domanda  di 
essere  mandato  in  galera. 

kXCora  ventesima  terza  fu  sciolto  per  necessità  di  natura.  Chiese 
un  confessore,  e  gli  fu  dato  a  bocca  un  uovo  cui  sputò  fuori.  Dopo 
un  quarto  d'ora  riposto  al  tormento:  il  cuor  mi  scoppia  gridava, 
chiamatemi  un  confessore.  —  Poi  bevuta  acqua  supplicò  di  essere 
slegato  che  confesserà;  slegato  depose  che  in  mezzano  del  Vacherò 
era  il  Femari,  messo  a  sedere  su  una*  sedia  manifestò  il  nome  del 
facchino  ed  era  l'ora  ventesima  quarta  e  continuava  contando  di  tut- 
t' altro  che  di  ciò  che  i  commissarii,  che  in  quel  lungo  strazio  si  erano 
mutati  più  volte,  volevano  sapere,  onde  fu  riposto  al  tormento  delle 
vigilie.  Dopo  mezz'ora  chiesto  e  avuto  vino  e  pane  intrìso  di  vino 
schiccherò  una  filza  di  nomi  ;  insomma  andò  cercando  quello  ch'egli 
0  non  sapeva  o  non  voleva  dire,  e  coloro  volevano  che  dicesse.  Fi- 
nalmente fu  sciolto,  radduttato  nelle  braccia  e  rimesso  in  prigione. 
Sabato  mattina  22  d'aprile  il  chirurgo  Falcone  viene  al  banco  e  dice  : 

€  Hier  mattina,  conforme  l'ordine  di  VV.  SS.  lU.me,  io  visitai 
Angelo  Atanasi,  che  aveva  avuto  il  tormento  e  gli  trovai  il  polso  con 
buona  forte  (?)  e  perchè  si  lamentava  essere  alcuni  giorni  che  non 
aveva  avuto  benefizio  di  natura  nell'evacuazione  di  corpo,  subito  per 
ordine  di  VV.  SS.  Ill.me  li  feci  porre  un  serviziale,  quale  fece  assai 
presto  opera  e  mi  partii  non  avendo  altro  sospetto  di  lui,  che  d'aver 
veduta  1  evacuazione  biliosa,  la  quale  argomentai  nascesse  dal  troppo 
bere  e  d'aver  lo  stomaco  per  ciò  disordinato;  li  ordinai  un  fomento  sto- 
macale di  vino  e  di  altre  composizioni,  quale  per  ordinario  in  casi  si- 
mili è  solito  di  essere  di  giovamento.  Ho  poi  questa  mattina  di  (ardine  di 
VV.  SS.  Ill.me  veduto  il  cadavere  di  detto  Angelo  che  ho  rìconosciuto 
benissimo  essere  ristesse,  né  posso  congetturar  altra  ragione  di  caso 
così  inaspettato,  eccetto  che  le  dette  disopra,  eccetto  se  per  il  tor- 
mento fossero  state  offese  le  parti  principali.  Questo  è  certo  che 
quando  lo  vidi  non  vi  era  da  temere  queste  cose  e  phe  in  detto  ca- 
davere non  vedo  alcun  segno  di  veleno. 


PB0CB8S0  DI  STATO  OONTBO  OIULIO  VACHBRO  477 

Aggiunse  il  famiglio  della  carcere  :  <  Hier  mattina  nell'esamina- 
torio,  dopo  messo  dal  barbiere  il  serviziale,  lo  coricò  sopra  due  stra- 
ponte  e  dandogli  qualche  cosa  per  giunta  come  gli  fu  detto  >.  A  de- 
sinare gli  si  diede  una  scodella  di  fldereti  (capellini)  ;  mangiò  solo 
due  cucchiai  o  poco  più  e  partito  il  carceriere  li  vomitò.  Stette  tutto 
il  di  con  buon  animo  e  forte,  e  prese  dal  famiglio  i  garetti  (spicchi) 
che  gli  porgeva  di  citrone  (cedrone)  e  le  cerase  secche.  La  sera  a  due 
ore  prese  due  uova  e  due  Rotteti  d%  vinoy  poi  chiese  acqua  che  quel 
vino  gli  àbbrucda^a  il  cuore.  Non  avrebbe  poi  fatto  altro  che  bere. 
Verso  le  ore  sei  il  famiglio  s'accorse  che  il  carcerato  cambiava  di  oo« 
lore  e  d'occhio.  Atanasi  domandò  il  confessore  e  il  famiglio  data 
una  picchiata  alla  porta  avvisonne  il  carceriere  ;  ma  mentre  il  con- 
fessore veniva  F  infelice  spirò,  ed  è  quel  cadavere,  aggiunge,  che  ora 
giace  neU'esaminatorio. 

Chi  portava  ì  carteggi  da  Torino  a  Genova  e  viceversa  pare  che 
fosse  un  Ballarini  y  egli  diceva  essere  venuto  a  Genova  ma  per  com- 
prar cavalli.  Lo  collarone  il  16  d'aprile  1628  e  forte  lo  quassarono, 
e  il  Falcone  assicurò  che  poteva  tollerare  qualsivoglia  tormento,  onde 
gli  misero  le  tavolette  ai  piedi  qua  pedes  ad  invieem  dis^tmgwUur^  ma 
nulla  per  allora  poterne  cavare  che  pianto,  scongiuri,  lai  e  gridi  alti, 
e  protesta  ch'era  andato  per  comprar  cavalli.  Dopo  trentasette  minuti 
fu  calato  e  ricarcerato.  Dopo  undici  giorni,  il  meroordì  26  ainrile  ri-* 
compare  e  confessa  che  per  Pra,  e  Varazze,  e  Nizza  della  Paglia  andò 
a  Torino,  e  aveva  tre  cavalli.  Aveva  veduto  Vacherò  e  Ansaldo  e 
col  Vacherò  era  venuto  a  Genova,  e  continuò  a  dar  notizie  di  viaggi, 
ma  negò  di  aver  portato  lettere  e  tortiò  sul  commercio  cavallino.  Fu 
messo  alla  colla  ;>  elevato  si  fece  calare  promettendo  la  verità,  ma  per^ 
che  non  disse  quello  che  si  voleva,  fu  riattaccato  e  rialzato.  —  Di 
che  venisti  a  fare?  —Non  posso  parlare  e  tacere,  la  verità,  l'ho  detta. 

Non  parendo  che  la  fune  giovasse,  fu  posto  alle  vigilie ^  visitato 
dal  chirurgo  Falcone,  che  lo  dice  sano.  Il  paziente  nega,  prega, 
geme,  confessa  di  una  lettera  portata  e  tutto  in  un  tratto  con  g^rande 
voce  implora  misericordia,  confessione,  un  prete.  Il  lasciano  dire,  e 
chiede  a  bere,  gliene  porgono  ed  ei  non  beve,  fece  come  un  atto  di 
sputare  e  non  potè,  die  un  tremito  e  protestò  di  aver  detta  la  verità. 
Così  finì  la  'prvma  ora.  Gli  si  domanda  che  conteneva  la  lettera,  ed 
egli  tremando  pronunciava  sotto  voce  le  parole  Jesus,  Jesus^  dava  se- 
gni negativi  col  capo  e  taceva.  In  quel  tormento  e  in  quel  silenzio 
stette  altre  quattro  ore  ;  vedendolo  patire  gli  offrirono  a  ristorarlo  un 
confetto,  ma  egli  non  l'accettò;  continuo  sotto  voce  lam^itavasi  e 
tratto  tratto:  Gesù  la  verità  l'ho  detta.  Chiesto  nella  sesta  ora  un  po' 
d'acqua  gli  offerirono  edulio  con  tuccaro^  o  confetto  ;  che  cosa  fosse 
quella  sostanza  non  è  detto  dallo  scrivano,  ma  il  paziente  saggiatolo 
il  respinse  da  sé,  lo  sputò  e  risputò  dicendolo  tossico.  Si  rinnovava  il 
conforto  dei  condannati  giudei  ?  —  Mi  si  apre  lo  stomaco,  sclamava, 
la  venta  l'ho  detta,  aspettava  l'armata  per  Veltri.  Son  morto. 

Fra  la  ottava^  la  nona,  la  decima  ora  non  fu  che  un  lamento  e  do- 
mandar prete  e  confessione  e  dire  che  non  ne  poteva  più,  Si  mandò 
per  prete  e  per  chirurgo  ed  egli  mussitabat  assidue:  confessione. 
Venuto  il  chirurgo,  il  Ballarino  pronunciò  :  mi  sento  il  cuor  man- 
care. Venuto  il  prete,  si  pose  il  paziente  in  una  sedia  e  parve  sve- 
nire, fu  asperso  d'acqua,  e  rinvenne;  ma  il  chirùrefo  opmò  che  si 
poteva  rimettere  al  tormento.  Così  finì  l'ora  undedma* 


478  .   RIVISTA  CONTBHPOBANBÀ 

AW  undecima,  —  Vuoi  due  uova  ?  —  Ne  prese  una ,  sciolta  un 
po'  la  corda,  e  un  poco  bevve  ;  poi  ristretto  e  di  nuovo  interrogato  : 
Che  volete  che  io  aica,  io  non  ne  posso  più. 

Alla  dodicesima  :  Chiede  a  bere,  si  duole  del  tormento  che  gli  si 
dà  ;  se  avesse  ammazzato  alla  strada,  diceva,  non  tanto  gli  si  darebbe, 
in  Barberia  non  si  fanno:  Tutto  quello  che  ho  veduto  e  saputo  l'ho 
detto. 

All'ora  tredicesima  riceve  una  ciliegia  inzuccherata  e  da  bere, 
ma  si  inumidì  appena  le  labbra  e  gridò  sempre  misericordia.  Alla 
fine  della  quattordicesima  e  al  corso  della  quindicesima  rivisato  dal 
chirurgo,  e  abbeverato;  abbeverato  alla  sedicesima  e  datagli  altra 
ciliegia  confetta;  alla  diciaseltesima  parve  assopito  e  non  rispose; 
alla  diciottesima  e  alla  dicianovesima  ardendo  di  sete  elbc  più  volte 
a  bere.  In  tanto  digiuno  e  in  tanto  tormento  fra  la  vcnteHma  ora  e 
la  ventunesima  tornò  a  chiedere  da  bere,  e  il  chirurgo  gliene  negò, 
gli  concedette  un'altra  ciliegia  e  un  po'  d'acqua  alla  ventiduesima^ 
trenta  minuti  dopo  la  quale  il  povero  uomo  fu  deposto  «  sai  vis  et 
reservatis  juribus  fisci  quibus  per  predicta  deposi  tiene  non  intendit 
aliquo  modo  preiudicare  et  cum  reservatione  facultatis  procedendi 
centra  constìtutum  et  alia  juris  remedia  ecc.  t  fatto  acconciare  fu 
rimesso  in  carcere.  Inutile  dire  che  in  quella  crudeltà  si  mutarono 
più  volte  i  commissarii,  e  gli  scrivani. 

Il  2  di  maggio  presentossi  al  banco  Francesco  Ravano  carceriere 
e  dà  avviso  che  il  Ballarino  il  quale  la  sera  innanzi  era  stato  visitato 
dal  magnifico  (a  Genova  per  accennare  a  medici  tuttora  nella  plebe 
si  usa  il  vocabolo  di  magnifico  :  si5  magnifico,  signor  medico)  Orazio 
Torre,  e  aveva  avuto  il  brodetto  ed  era  stato  lasciato  senza  sospetto, 
era  morto.  Fu  chiamato  il  Falcone,  e  si  volle  sapere  della  cura  dopo 
il  tormento  e  della  causa  della  morte;  quasi  che  dopo  il  caso  del- 
l'Atanasi  non  la  potessero  vedere  essi  stessi  quei  crudi.  —  Il  Fal- 
cone più  duro  di  loro  rispose:  «  Secondo  l'ordine  di  VV.  SS.  lUu- 
€  strissime  ho  visitato  ogni  giorno  d""  Ballarino,  fattogli  le  unzioni 
€  al  petto  e  tronco  e  braccia  che  si  accostumano,  ed  anco  ordinatogli 
«  il  vitto  conforme  si  richiedeva,  e  mi  meraviglio  del  caso  seguito, 
€  andava  sempre  migliorando  con  diminuzione  di  febbre ,  perciò  io 
€  non  posso  sapere  precisamente  da  che  sia  nato  questo  accidente. 
€  Conviene  però  dire  che  sii  stata  offesa  qualche  parte  principale  in- 
€  tema:  e  se  VV.  SS.  IH.  lo  comanderanno  ne  farò  volontien  Tespe- 
«  rienza  coli' aprirlo  ».  Non  fu  dato  altro  ordine.  Dopo  questa  seconda 
prova  d'assassinio  i  Commissarii  mutarono  di  chirurgo?  No;  avevano 
bisogno  di  crudeli  ed  egli  focevaper  loro.  Rallentarono  i  tormenti? 
accorciarono  almeno  il  tempo  del  tormentare?  No,  gli  Statuti  davano 

I)roibizione  di  oltrepassare  il  continuo  di  24  ore,  e  vollero  osservar 
0  Statuto  ma  non  perdere  un  minuto  del  loro  feroce  diritto  e  se  ne 
vide  nella  tortura  del  Martinone  che  pur  era  di  classe  distinta,  e  nel 
1625  era  stato  capitano  de'  serenissimi  collegi,  il  quale  se  non  9»gui 
Atanasi  e  Ballarino  dovette  ringraziarne  la  meno  faticata  natura  e 
il  suo  fisico  più  sano  e  meglio  nutrito,  ma  stette  assai  male.  Nessuno 
oltre  questi  tre  fu  si  lungamente  tormentato,  ma  aspramente  tutti, 
e  non  brevemente  quasi  tutti,  onde  sa  Dio  quello  che  di  vero  depo- 
sero. Poiché  il  mejg^lio  de^li  indizii,  e  molte  spontanee  deposizioni 
avevano  costretto  i  più  rei  a  confessare.  Non  si  poteva  risparmiare 


MtOOBSSO  DI  STATO  CONTBO  GIULIO  VACHBRO  479 

tanto  strazio?  QuegFìmpauriti  non  erano  saziabili  che  dalla  vendetta, 
che  li  aveva  impietrati.  Appena  si  commossero,  ma  dopo  lunghi  scon- 
giuri di  Giulio  Cesare  Vacherò  e  dopo  che  fece  confessione  di  tutto 
il  suo  operato  e  compromesso  molti,  e  concedettero  che  anziché  im- 
piccato fosse  decapitato ,  come  avvenne  in  aula  palata  rotalis  prima 
junU  ad  gallicinum  expoHiis  subinde  ad  auroram  cadaveribui  in  olitorio 
foro. 

Chi  entra  per  quella  porta  nominata  di  Vacca  della  terza  cinta 
della  città  anno  1155,  ad  occidente,  posta  verso  Borgo  di  Prò  e  cam- 
mina ad  oriente  per  via  del  Campo  alla  piazza  di  Fossatello,  a  mezzo  di 
Quella  via,  a  sinistra  vede  una  piazzettina  ornata  di  una  pubblica  fontana 
di  tempo  moderno,  e  un  poco  indietro  fra  Tedifizio  della  fontana  e  la 
casa  che  guarda  col  suo  fianco  ad  occidente  un  pilastro  coiriscrizione  : 
Mii  Casaris  Vacherii  —  Perdiiissimi  Aominis,  infami  memoria  —  Qui 
cwn  inrempuMicamconspirasset  —  obtruncato  capile ^  publieatis  ionie  — 
diruptague  domo,  debitas  poenas  —  luit  —  anno  salutis  mdcxxvui. 

Carlo  Girolamo  Botta  nella  sua  SCoria  d'Italia  in  continuazione  a 
quella  di  Guicciardini  professa  di  avere  la  relazione  del  Torre  e  fa 
una  coloratissima  dipintura  della  congiura,  più  che  il  Torre  non  fece, 
chi  guidò  i  forestieri  per  Genova  e  citò  il  Botta;  qualche  cosa  ag- 
giunse di  proprio  ;  reputo  che  per  mettere  le  cose  dove  le  lesse  il  Torre, 
bisogni  rifuggirsi  a  questo  processo  da  cui  il  Torre  ebbe  il  fondamento 
della  narrazione. 

Un  birro  insospettito  degli  arresti  a  fare  e  per  nome  Erminio, 
dicono,  avvisò  il  Vacherò  che  prese  la  fuga,  ma  il  processo  nella  depo- 
sizione di  Bertora  dice  lo  Spezino  bargello  avverti  il  consifi^liere  (che 
era  ito  col  Bertora  a  Palazzo)  di  aver  le  sue  carte  in  regola  e  stesse 
avvertito  perchè  certamente  si  doveva  fare  qualche  gran  cattura, 
perchè  a  lui  era  stato  dato  ordine  che  non  si  dovesse  partir  di  palazzo 
con  tutti  i  suoi  birri.  Dal  processo  s'intende  perchè  Vacherò  fug- 
gendo voltasse  a  Becco.  Ivi  era  una  sorella  di  Cfompiano  ohe  lui  ac- 
compagnava; la  quale  ebbe  tre  scudi  e  fornì  pane,  ova,  pesci  salati, 
ed  olive  ad  essi  che  si  erano  ritirati  verso  il  monte,  e  la  mattina 
pane,  vino,  uova,  carciofi  e  cedri:  la  sera  chi  voleva  andar  verso 
Torriglia  e  chi  verso  Genova;  la  mala  notte  li  spinse  a  Genova.  Nel 
processo  è  che  Giangiacomo  Ru£fo  non  era  salvo  per  la  impunità 
procurata  dal  padre  suo  che  diede  il  Vacherò  in  mano  ai  birri,  ma 
per  palesar  che  faceva  tutto  quello  che  sapeva  e  perfino  i  nascondigli 
della  casa  che  da  poco  tempo  il  Vacherò  aveva  fatti  costruire.  DeUa 
morte  dell' Atanasi  quasi  sotto  il  tormento  nulla  disse  il  Botta,  né  del 
bando  contro  il  Marti^none,'  né  della  miseranda  fine  di  Ballerino , 
né  della  decapitazione  del  Grandino  e  di  Giambattista  Bianchi,  e  nella 
fuga  di  Giannantonio  Bianchi  non  mette  il  Bianchi  Annibale  né  i 
Savignoni  anch'eglino  dannati  nel  capo  in  contumacia,  né  che  l'Ata- 
nasi  fu  condannato,  sebbene  morto,  il  27  di  maggio  1628  nella  con- 
fisca, de'  beni,  e  i  maschi  de'  condannati  banditi  dallo  Stato,  né  delle 
minori  condanne  di  un  Chiappe  a  40  mesi  di  galera,  di  un  dragò 
alla  relegazione  per  due  anni  in  Corsica,  e  con  sigurtà  di  dugento 
scudi  per  l'obbedienza;  di  Ambrogio  Melia  relegato  per  un  anno 
alla  Spezia,  dell' Assereto  relegato  in  vita  al  presidio  di  Bonifazio. 
Rodino  e  Bertora  non  uscirono  di  Palazzo  che  il  2  di  giugno,  morto 
il  Vacherò. 


480  WVISTA  COKTBMPORANBA 

Oiovò  agli  appetitosi  di  congiura  questa  vendetta?  Nob  ostante 
che  si  creassero  vigili  gl'inquisitori  di  Stato,  altri  o  tristi  o  dementi 
furono  e  con  fine  infelice.  Lo  Stato  non  mutò,  ben  perdette  le  forze, 
e  se  ne  accorse  allora  che  la  città  fu  bombardata  da  Luigi  XIV  che 
la  prese  sicura  alla  sprovvista,  e  vide  il  proprio  doge  inchinarsi  nella 
reggia  di  quel  re  ;  se  ne  accorse  poco  più  di  un  secolo  dapoi  alloca 
che  sfinita  cadde  come  tutte  le  vecchie  libertà  d'Italia.  Farebbe  un 
libro  utile  chi  scrivesse  di  tutte  le  congiure  genovesi,  le  cagioni  vere, 
e  le  pretese,  e  i  mezzi  usati,  e  i  fini  a  cui  erano  dirette,  e  a  quali  for- 
tune ite.  Poco  è  di  stampato  della  repubblica  popolare  e  molto  del- 
Taristocratica,  ma  resta  ancora  nelle  Biblioteche  sufficiente  materiale 
all'uopo.  Testé  il  chiaro  Agostino  Olivieri,  bibliotecario  diligentissimo 
dell* Università  di  Genova,  dopo  aver  dato  in  luce  un  catalog-o  illu- 
strato delle  carte  storiche  di  quello  stabilimento  (Genova,  Sordimtiti 
1855)  diede  fuori  la  Congiura  di  Gian  Luigi  Fiesco  descritta  da  Lo- 
renzo Capelloni  annotandola  e  corredandola  di  Documenti,  narrazione 
di  grandissimo  valore  per  le  notizie  peregrine  e  da  molte  altre  che 
conosciamo  differente,  di  dettato  buono  per  istile  e  per  ling^ua  (Ge- 
nova, Beuf  editore,  Sordimuti  1858) ,  e  ora  sta  pubblicando  un  vo- 
lume e  delle  Discordie  civili  dei  Genovesi  nell'anno  1575  descritte  dal 
Doge  Giambattista  Lereari,  a  rendere  ben  chiare  e  intelligibili  le 
quali,  fece  alla  narrazione  seguire  le  lettere  di  Matteo  Senarega  e  un 
capitolo  di  questo  ambasciatore  all'uffizio  della  guerra,  certi  parti- 
colari di  Odescalchi  in  Senato,  con  un  discorso  sulle  condizioni  politiche 
della  Repubblica  dell'ambasciatore  Sauli  e  la  risposta  che  gli  fece 
Leonardo  Loroellino  in  favore  della  nobiltà  nuova;  poiché  quegli, 
spagnolesco,  stava  per  la  vecchia  ;  quella  risposta,  che  può  con  assai 
fiducia  di  non  essere  reputato  in  fallo,  portar  lonanzi  per  bell'esempio 
di  eloquenza  politica  o  parlamentare,  meriterebbe  di  girare  per  le 
città  che  amano  gli  studii  della  dialettica  nelle  trattazioni  della  pub- 
blica utilità  ;  al  cui  merito  non  si  elevava  la  proposta  del  Sauli,  né 
la  pia  risposta  si  eleva  che  ha  voluto  fare  al  Lomellino.  Altre  cose 
aggiunse  sul  soggetto  istesso  :  un  sommario  del  Decreto  del  re  di 
Spagna,  19  dicembre  1575  per  l'annullamento  degli  assensi  fatti  dal 
14  novembre  1560,  onde  si  scossero  le  fortune  usuraie  de'  Genovesi  ; 
alcune  lettere  al  prefato  Senarega  a  Roma  ;  una  di  Ottaviano  Cat- 
taneo a  Marco  Merello  per  consigliare  l'osservanza  degli  Statuti  del 
1528;  una  di  Oberto  Foglietta,  l'isterico  illustre,  al  cardinal  Morene 
scritta  per  ordine  della  Repubblica  non  ostante  le  memorie  date  dal 
Senarega;  una  di  Giannandrea  Doria  al  Sauli  per  dichiarare  la  sua 
opinione  che  il  Governo  deve  essere  nella  concordia  de'  partiti  e  che 
un  solo  di  essi  non  possa  stare  in  seggio  e  ma  chi  voglia  attendere 
€  alla  vera  salute  della  patria  convengti  aver  principalmente  di  mira 
€  a  che  alcun  cittadino,  sia  di  che  ordine  si  voglia^  non  possa  essere 
€  escluso  dal  Governo,  e  specialmente  quando  si  tratta  di  persone 
«  principali  per  nobiltà,  per  ricchezze  e  per  virtù  ».  Con  questa  in- 
tenzione de8id(?rava  gli  onori  ai  nobili  di  S.  Luca  e  la  loro  parte  di 
attivo  nel  governo  ;  il  che  fa  grande  riputazione  a  quell'egregio  cit- 
tadino, contro  il  quale  scrittori  di  partito  lanciarono  accuse  non  cer- 
tamente gravi,  certamente  non  presumibili.  L'edizione  non  è  ancora 
finita,  sebbene  incominciata  l'anno  1857  dal  libraio  Garbarino  coi  tipi 
di  Belgrano  in  S,  Pier  d'Arena;  prima  che  si  compia  spero  che  pub- 


BROCBSSO  DI  STATO  CONTRO  CHULIO  VACHERÒ  481 

blichi  le  statistiche  lasciate  dallo  stesso  Senarega,  e  che,  come  erano 
tutte  queste  cose  date  dall'Olivieri,  sono  inedite. 

Questa  è  nobile  suppellettile  al  lavoro  che  mi  parrebbe  degno  si 
assumesse  da  alcuno  per  illustrare  certe  inclinazioni  di  spiriti  in  certi 
luoghi  e  indagarne  filosoficamente  le  ragioni.  Delle  quali  quanto 
della  bella  fioritura  del  dire  a  cui  prestavano  occasione,  tanto  non 
assunse  cura  il  Botta  che  pure  Tavrebbe  potuto,  né  avanti  lui,  o 
dopo  lui  chi  scrisse  delle  istorie  della  Repubblica,  quasiché  gli  umori 
di  quel  popolo  fossero  come  gli  umori  di  un  popolo  qualunque,  e  sono 
anzi  diversi  molto  e  forse  da  originarie  cagioni  continuamente  mossi, 
singolare  fenomeno  in  tutta  la  costiera  italica  dei  due  mari,  non  re- 

g^ribile  da  che  s'interpose  governo  che  avesse  facoltà  dai  cittadini, 
erto  non  fiacile  compito  sarebbe  per  riuscire  perchè  i  partiti  politici 
cuoprirono  della  calunnia  il  vero  de'  contrarli  per  esaltare  la  pro- 
pria virtù  e  togliere  la  fede  agli  avversi ,  ma  a  chi  diligentemente 
cerchi  nelle  biblioteche  pubbliche  e  nelle  private  e  negli  archivii 
(che  ora  per  ventura)  dalla  Città  e  dal  Governo  si  vogliono  ordi- 
nandi, può  essere  lungo,  ma  riuscibile  ad  ottimo  fine.  Auguro  che 
qualche  liberale  e  attivo  intelletto  questo  pensiero  faccia  suo,  e  ponga 
risblutem^btè  in  ktto  &  benefitio  di  'òoloro  che  credono  che  la  salute 
degli  Stati  resta  nelTa  cogmzibnò  della  storia  delle  loro  composizioni. 

Luciano  Scababblli. 


&t^a  C.  -  31 


482 


RASSEGNA  POLITICA 


€  Une  grande  decéption,  le  cruel  anéantissement  d'illusions  pré 
sompteuses  voila  qud  sera  le  trait  saillant  du  1862  dans  les  annales 
de  1  histoire  contemporaine  >.  Queste  grayi  ed  assennatissime  parole 
scrisse  nelF  ultimo  fascicolo  dell'ottima  Revue  Contewforcme  di  Parigi 
l'egregio  pubblicista  magiaro  signor  Hom,  e  noi  vogliamo  ripeterle 
perchè  troviamo  aver  esso  grandemente  ragione. 

Pensò  ritalia  poter  aver  la  sua  naturale  metropoli  Roma:  questo 
desiderio  spinse  Garibaldi  ed  i  suoi  ad  un  intempestivo  conato  che  il 
Ministero  itoliano  fu  costretto  a  reprimere,  e  per  questo  doloroso  fetto 
n'ebbe  in  guiderdone  dalla  Francia  l'elezione  a  Ministro  degli  affari 
esteri  di  quell'Impero  del  sig.  Drouin  de  Lhuys  avverso  all'unità  ita- 
liana e  devoto  alla  dominazione  temporale  dei  Papi,  e  poscia,  per  sopras- 
sello  fìi  rovesciato  da  quegli  stessi  che  più  biasimavano  la  temeraria 
impresa  di  Graribaldi  ;  la  sinistra  che  gli  rimproverava  di  non  andare 
a  Boma  ora  che  s'insediò  un  gabinetto  che  meglio  talenta  all'antica 
maggioranza,  non  solo  non  rinnova  i  rimproveri  ma  si  tace  e  gli 
raccomanda  per  strenna  del  capo  d'anno  di  non  zittire.  Cosi  si  spegne 
il  1862  evanescendo  tutte  le  speranze  concepite  allo  spirare  del  1861. 
L'unità  italiana  è  posta  in  dubbio.  11  signor  di  La  Ouerronière, 
il  portavoce  imperiale,  assunse  di  rimettere  in  campo  il  sistema  fede- 
rativo; il  si|n:ìor  di  Prudhon  gli  si  è  fotte  ausiliario.  Il  principe 
Murat  ricomincia  le  sue  mene  nel  Napoletano  e  la  coorte  dei  clericali 
seconda  Quest'impresa  dissolvente;  il  Papa  promette  di  nuovo  isti- 
tuzioni liberali  !1  L'unità  e  l'integrità  d'Italia,  sospirata  da  secoli 
al  cui  conseguimento  si  offersero  ecatombi  di  martiri  é  messa  in  forse 
pel  venturo  1863. 

Montenegro,  Erzegovina  e  Serbia  paesi  slavo-cristiani ,  vassalli  o 
soggetti  della  Sublime  Porta,  sperarono  di  rompere  le  catene  che 
gli  aggiogava  all'islamita  tataro  despota.  Una  lotta  sproporzionata 
il  primo  sostenne,  ma  alla  perfine  ha  dovuto  soccombere,  e  la  Serbia, 
che  aveva  preteso  lo  sgombro  della  cittadella  di  Belgrado  dal  presidio 
ottomano,  ha  dovuto  chinare  il  capo  ed  assogettarsene  alla  conti- 
nuazione. Anche  per  que'  miseri  cristiani  le  illusioni  concepite  du- 


RASSB0NA  POLITICA  483 

rante  il  primo  semestre  di  quest'anno  svanirono  ed  il  primo  del  1863 
li  trova  soggetti  tuttora  alla  scimitarra  del  Sultano,  più  poveri,  più 
agitati  e  più  infelici. 

La  Turchia,  malgrado  abbia  soggiogato  i  suoi  sudditi  ribelli  in 
Europa  e  nell'Asia,  li  scorge  sempre  all'agiato  di  propizia  occa- 
sione per  insorgere  di  nuovo.  Gli  ulemi  incitano  i  credenti  in  Mao- 
metto contro  il  Sultano  perchè  non  ostile  ai  kafiri,  cioè  agrinfedeli. 
La  debolezza  intellettuale  che  affligge  il  Sultano,  mentre  concorre  ad 
accrescere  il  dissesto  finanziario  di  q[uel  morente  impero,  lascia  modo 
agl'intriganti  di  porre  a  soqquadro  il  Seraj. 

L'Ungheria  cne  credeva  potersi  svincolare  dall'Austria  fedifraga, 
che  con  una  resistenza  passiva  ma  costante  credeva  di  aver  costretto  il 
Governo  viennese  di  venire  a  patti  e  restituirle  la  sua  autonomia,  la 
sua  millenaria  costituzione,  non  vide  realizzarsi  veruna  delle  sue  spe- 
ranze. È  sempre  nello  stato  precario  ed  incerto  in  cui  era  al  primo 
di  gennaio  loo2,  né  ai  discendenti  dei  guerrieri  di  Arpad  è  dato  di 
nutrir  fiducia  che  ciò  conseguiranno  nell'anno  imminente. 

La  Polonia  peli' avvenimento  al  trono  imperiale  di  uno  Czar  di 
cuore  mi^animo  e  di  gran  rettitudine  aveva  sperato  la  riparazione 
delle  ingiustizie  commesse  a  suo  danno  dallo  Czar  Nicolò  I.  —  Illu- 
sione! —  Impazienti  e  coraggiosi  come  sono  i  i>olacchi|,  tentarono 
costringere  il  loro  sovrano  a  restituirgli  la  loro  indipendenza  dalla 
Bussia.  Il  knut,  le  fucilazioni  e  le  deportazioni  in  Siberia  loro  ^rovò 
che  se  l'Imperatore  ed  il  suo  luogotenente  generale  in  Polonia,  il 
gran  Duca  Costantino  desiderano  amicarsi  i  polacchi,  il  partito  te- 
desco continua  pur  sempre  a  dirigere  a  posta  sua  il  governo,  ado- 
perandosi non  pure  a  mantenere  ma  ad  accrescere  l'ira  e  l'odio  tra 
quelle  due  nazioni  slave. 

La  grande  e  dottissima  nazione  tedesca  che  nella  sua  nazionale 
associazione  aveva  espressa  la  recisa  sua  volontà  di  costituire  una 
Germania  forte  é  compatta  cosi  da  poter  dettare  e  non  ricever  leggi 
dalle  potenze  straniere;  che  aveva  &tto  assegno  sul  Be  di  Prussia 
per  ciò  ;  che  crcKÌeva  poter  rivendicare  lo  Slesvig,  costringere  l'elet- 
tore d'Assia  a  ridonare  al  suo  popolo  l'antico  Statuto;  che  racco- 
glieva somme  per  fornire  una  squadra  navale,  vede  col  1862  dile- 
guarsi tutte  le  promesse  feitte  dai  patrioti  in  Coburgo,  in  Berlino  ed 
a  Francoforte.  —  Il  Be  di  Prussia,  non  ha  pretermesso  occasione  di 
far  sapere  ai  suoi  sudditi  che  riconosce  dovere  la  sua  corona  a  Dio 
e  non  a  loro.  Quello  di  Assia  continua  a  negare  ai  suoi  popoli  l'an- 
tico Statuto.  La  Baviera  si  è  &tta  campione  del  papismo  e  1  Austria, 
avversando  le  mene  della  Prussia  continua  ad  avere  la  presidenza 
della  Dieta  di  Francoforte  e  con  astuzie  diplomatiche  impedisce 
l'adozione  dagli  Stati  del  ZoUverem  del  trattato  firanco-prussiano.  — 
Di  riforme  di  unità  e  di  libertà  per  la  Germania  non  rimarrà  traccia 
fìiorchò  nei  numerosi  discorsi  e  negl'innumeri  opuscoli  dati  fuori 
dalle  tipografie  tedesche. 

I  Bussi  credettero  che  il  1862  avrebbe  sciolte  le  questioni  dell'abo- 
lizione del  servaggio,  smessa  la  coscrizione  militare,  aboliti  i  privilegi! 
di  casta ,  sancita  la  tolleranza  religiosa.  Decezione  !  Questi  problemi 
rimasero  per  la  Bussia  insoluti  ed  anzi,  stante  le  perturbazioni  che 
cagionò  la  decretata  abolizione  del  servaggio,  si  resero  alcune  classi 
tumultuose,  altre  cospiratrici,  il  che  scorgendo  gl'indomiti  Circassi 


484  RIVISTA   CONTBMPOBANBA 

tornarono  h  guerreggiare  contro  quell'immane  potenza  i]\eUe  lyipro 
gole  del  Caucaso.  —  La  Russia  ortodossa  credeva  estèndere  la  sua 
religiosa  influenza  nella  Grecia,  Bulgaria  ed  Armenia  ove  da  ìnolti 
anni  profuse  danaro  per  erigervi,  o  ristaurarvi  le  basi^c^e,  ojrai  vede 
la  Grecia  darsi  in  braccio  ali* Inghilterra  protestante  e  a  migliaia 
Bulgari  ed  Armeni  tornare  all'unione  colla  Chiesa  latina. 

La  Grecia  togliendo  ad  Ottone  lo  scettro  e  1^  corona  ellenica  so^ò 
di  potere  non  solo  annettersi  le  altre  provincie  greche,  che  con  imnro- 
vido  consiglio  le  grandi  potenze  lasciarono  al  Turco,  ma  di  ritare 
l'impero  di  Bisanzio.  Illusione  I  Potranno  unire  le  isole  Ionie  che  l'In- 
ghilterra con  atto  di  non  mai  abbastanza  lodato  disinteresse,  è  parata 
a  cederle,  ma  non  sapranno  comporsi  a  libertà  ordinata.  I  partiti 
colà  sono  più  l'uno  contro  l'altro  inviperiti  di  ciò  che  Io  siano  nella 
nostra  Italia.  Lo  spreco  del  pubblico  danaro,  l'ostracisipcio.  idle  più 
chiare  intelligenze,  il  non  sapere  chi  eleggere  a  monarca,  ovvero 
se  non  debbano  stabilire  la  Repubblica,  tutto  ciò  fa  si  che  l'anno 
1863  si  presenta  ai  greci  \>en  più  ottenebrato  e  più  rischioso  di  ciò 
che  non  sii  stato  il  volgente  lo62. 

Né  si  creda  che  la  Francia  abbia  per  lo  opposto  visto  riuscire 
ogni  cosa.  La  guerra  della  Cina  non  toccò  ancora  al  suo  tera^ine  ; 
quella  della  Cocincina  pare  finita  ma  temesi  ^ssa  riardere.  Nel 
Messico  la  Francia  miete  gloria  ma  al  prezzo  di  molti  milioni  e  di 
molte  vittime  della  febbre  gialla,  e  senza  conseguire  influenza; 
anzi  avendo  per  essa  inimicato  contro  di  sé  una  gran  parte  della 
nazione  spagnuola  come  i  recenti  dibattimenti  alle  Cortes  di  Madrid 
ne  fanno  fede.  Lo  avere  disertato  la  causa  dell'unità  italiana  per 
farsi  campione  del  potere  temporale  del  Papa  e  di  una  confe4^r^ione 
di  non  so  quanti  piccoli  Stati  d'Italia  nocque  alle  relazioni  tra  i 
due  paesi,  raffreddò  quel  sentimento  di  gratitudine  e  di  simpatia  che 
Italia  ebbe  sempre  per  la  Francia  e,  rendendone  men  certa  f'filleanza 
in  future  contingenze,  le  toglie  quella  preponderanza  ch'avrebbe  avuto. 

Oltrecciò  il  non  prevedibile  vicino  termine  della  lotta  civile  che 
arde  ne^li  Stati  Uniti  americani,  non  lascia  presagire  quando  potrà 
cessare  la  miseria  in  cui  sono  caduti  i  distretti  manifie^tturieri  del- 
l'Impero francese.  Il  malcontento  si  fa  via  nelle  masse  popolari;  i 
nemici  della  stirpe  Napoleonica  soflSano  discordi^;  rammentalo  le 
perdute  libertà  che  i  Borboni  avevano  largite,  le  cresciute  imposte, 
il  potere  concesso  ai  preti,  il  sagrificio  delle  libertà  gallicane  e  lo 
ravvicinarsi  ai  principi  despoti  per  allontanarsi  dai  costituzionali. 

La  Danimarca  non  ha  vista  la  questione  dello  Slesyig-Holstein 
fare  uu  passo  nel  decorso  di  quest'anno.  La  Svizzera  perdura  come 
prima,  e  nel  Cantone  di  Ginevra  come  in  quello  di  Basilea  ^jam- 
pagna  la  costituente  rigettò  la  nuova  costituzione  che  si  er^  pro- 
posta. Il  Belgio,  che  si  era  rallegrato  della  ripristinatft  s^ute 
del  suo  illuminato  sovrano,  al  finire  dell'anno  lo  vede  di  nuoyo  in- 
fermo, e  la  sua  grave  età  ne  rende  incerta  la  guari^iou^.  Inoltre, 
malgrado  gli  sforzi  costanti  del  partito  liberale,  i  clericali  dominano 
sempre  nel  paese  e  v'impediscono  quel  progresso  che  avrebbe  i^eso 
il  popolo  belga  il  più  illuminato  d'Europa.  La  Spagne^  s'inol^r%  nel 
1863  più  sospettosa  che  mai  dei  Napoleonidi,  temendo  le  ^len^  li- 
berali che  favoreggiano  la  dinastia  dì  Braganza  e  non  capace,  fpal- 
grado  le  condanne  alla  galera  di  chi  legge  la  Bibbia ,  di  n*^^re 


BAS8B0VA  POLITIGA  486 

r  efltoiisio9^e  ^  pr^t^tf^tisKuo  neUi^  p^^tri^  4i  s^n  Domenico,  q  di 
sani'Igpaziq. 

Il  For^g^Uo,  cui  il  fìu^it^ggip  del  suq  gioYane  i^o^raaq  am  uiu^ 
figUa  del  ^  gldc^^tuomo,  dava  ^pe^pza  ayce^b^  &tio  pitAfi  nella 
vita  liberarsi  vede  illuso  da  un  ministero  che  spreq^  il  ten^pp  nel  dis- 
sepelliro  Verdine  equestre  di  S.  Qiacomq  che  dist^ìbuiscei  a  pjene 
mi^ni,  ^a  che  Teletta^  dei  cittadini  ricusa.  Il  mitìiateso  YÌywa  e  le 
presagite  r^iSo^imie  pel  1862  so|io  ita  in  fui[no. 

Vlngt^iltefca,  oltre  rindescrivibile  miseria  da  cui  sonoafflitti  i^can- 
tii^a  di  cnila  i  li^vpj^atori  in  cotone  per  difetto  di  malteria  pnmtt»  ò 
funestata  nella  siessa  sua  grandissima  metropoli  da  bande  di  «traggo* 
latori  che  nella  se^ft  corrono  per  le  vie  onde  impadronirai  di  danaro 
e  gioie.  Cqlqro  che  gridano  cotanto  sul  brigantaggio  nell'It^a  me- 
ridionale dovebbero  meditigre  un  cotal  po'  s\i  queste  masnade  di  &>- 
saa^ni  non  in  località  remote  e  cainpes^  sibbene  nel  enpre  della 
capitale  di  un  regno  dove  da  secoli  la  stampa  ^  V^^  e  yige.  uno 
Statuto  costituzionale. 

Questa  grande  Potenza  durante  Tanno  che  muqre  non  b^^  potuto 
stringere  legami  di  sincera  amicizia  colla  Francia;  anzi  se  ne  staccò 
nell'impresa  del  Messico;  non  ottenne  che  dessa  sgombrasse  Roma 
dove  sta  più  signora  che  protettrice;  dove  impera  più  dispoticamente 
che  non  dessa  nelle  isole  ionie  :  non  ha  potuto  puntellare  la  Turchia 
in  modo  da  assicurarle  ancora  almeno  un  decennio  di  vita  in  Europa  ; 
non  pervenne  a  sbarrare  la  via  alla  Russia  di  future  ampliazioni  di 
territorio  verso  le  Indie ,  né  di  far  abortire  il  progetto  dell'apertura 
dell'istmo  di  Suez.  Anzi  ha  dovuto  vedere  la  Francia  fondare  un  em- 

P^rio  nel  mar  Bosso,  ove  sta  per  erigervi  un'altra  Aden,  una  seconda 
erim  per  toglierle  il  monopolio  di  quella  navigazione  e  scorge  nelle 
Colonie  australiche  destarsi  quello  stesso  spirito  d'indipendenza  della 
madre  patria  che  ne  staccò  i  coloni  nell'America  settentrionale  un 
secolo  la.  Ma  vi  ha  di  più  :  nelle  Indie  di  Quando  a  quando  si  mani- 
festano alcuni  sintomi  che  provano  come  lo  spirito  di  ribellione  sii 
domato  bensì,  ma  non  ispento. 

Tal  è  pei  sommi  capi  l'eredità  che  il  1862  lascia  in  Europa  al 
suo  successore. 

Ora  prendo  commiato  dai  pochi  ma  benevoli  lettori  che  io  mi  ebbi 
ed  ai  quali  riferisco  le  più  schiette  grazie  della  parzialità  pon  cui 
accolsero  i  meschini  miei  conati  per  gradir  loro  (1).  La  benemerita 
ed  operosa  società  delVUnione  tipogrìmco-editrice  di  questa  Riviita 
ch'ebbe  a  sottostare  a  grave  perdita  in  quest'anno ,  causa  l'esiguo 
numero  dei  soscrittori,  sospettando,  e  con  ragione,  ciò  doversi  forse 
alla  oscurità  del  mio  nome,  che  aveva  rattenuto  il  più  delle  nostre 
celebrità  dallo  aderire  all'invito  di  collaborarvi,  pregò  caldamente  ed 
ottenne  che  quel  potente  intelletto  del  commendatore  La-Farina,  ve- 
.  nuto  in  tanta  rinomanza  conie  forbito  scrittore,  storico  esimio,  pro- 
fondo pubblicista  ed  oratore  eloquentissimo,  accondiscendesse  ad  es- 
serne il  direttore,  ed  il  fatto  provò  essersi  bene  apposta,  giacché 

{\)  Fra  questi  sono  i  redattori  dei  Journal  de  Marchienne  nel  Belgio, 
peli  onore  fattomi  nel  N^  del  14  co.rrente  di  riferire  parte  della  mia  ul- 
ti oia  Rassegna. 


486  BITISTA  GONTBlCPOBAiniA 

non  tosto  ciò  saputo  Teletta  delle  nostre  celebrità  scientifiche  e  let- 
terarie fu  subitamente  sollecita  a  proferire  di  dare  articoli  ;  il  perchè 
la  Rivista  è  per  acquistare  stragrande  sviluppo  e  bontà  cosi  da 
rivaleggiare  e  fors'anco  soverchiare  le  meguo  accreditate  Riviste 
francesi  ed  inglesi. 

Io  prego  impertanto  coloro  che  per  benevoglienza  verso  di  me  si 
erano  associati  alla  Rivista  di  rinnovare  la  loro  soscrizione,  potendo 
assicurarli  che  nei  numeri  venturi  troveranno  copia  e  varietà  di  am- 
maestramenti in  o^ì  ramo  dello  scibile,  vestiti  delle  più  belle  forme 
di  quella  venustissima  lingua  italiana  che  nelle  mie  rozze  mani  ò 
strumento  rauco  e  disaccordo. 

Cessando  dallo  scrivere  verbo  in  questa  Rivista  di  cui  fui  assiduo 
collaboratore  per  ben  nove  anni ,  continuo  peraltro  a  far  voti  acciò 
il  pubblico  favore  mantenga  prospero  questo  riputatissimo  organo 
delle  lettere  e  delle  scienze  italiane,  sebbene  i  tempi  volgano  poco 
favorevoli  agli  studii. 

Torino,  26  dicembre  1862. 

G.  Yboezzi-Rusoalla. 


Luigi  Pomba  Gerente. 


487 


INDICE 

DRLLR  lATEIlE  CONTENUTE  NBL  VOLUME  XXXI 


Ottobre 

<2> 
Canzoni  popolari  del  Piemonte,  di  CostanUno  Nigra      .     .     .  Pag,        3 

Osservazioni  sul  Beccaria  e  il   Diritto  penale,  di  C.  Cantò,  e  salle 

due  scuole  degli  Spiritualisti  e  degli  Utili tarii,  di  Ani,  SoUmani  »      34 

Studii  Storici  e  Amministrativi.  —  Dello  stato  degli  Ordini  e  delle 

Leggi  di  Toscana  nel  1849,  con  lettera  a  Gaspara  Finali,  di 

Enrico  Pani  Rossi t      59 

Lo  Scaricatoio  di  Claudio.  —  Interramento  del  lago  di  Fucino,  di 

Luigi  de  la  Varenne »      95 

DeirEpigrafia,  di  Francesco  Dini »    122 

Porti  e  die  strato  dell'Antica  Liguria,  di  Emanuele  Celesia      .    .    »    139 

Rassegna  politica,  di  G.  Vegezzi-Ruscalla t    153 


Novembre 

Colonia  piemontese  in  Calabria.  — Studio  etnografico,  di  G.  Vegezzi- 

Ruscalla Pag,    161 

Porti  e  Vie  strato  dell'Antica  Liguria  (II),  di  Emanuele  Celesia     .     »    194 
Studii  Storici  e  Amministrativi.  —  Dello  stato  degli  Ordini  e  delle 
Leggi  di  Toscana  nel  1849,  con  lettera  a  Gaspàrb  Finali  (II), 

di  Enrico  Pani  Rossi »    213 

Baba-Dokia  —  Racconto,  di  Ida  Vegexxi-Ruscalla »    251 

Francesco  Burlamacchi  —  Poesia ,  di  Pietro  Raffaelli    ....    »    286 

Rassegna  politica,  di  G.  Vegexzi-Ruscàlla »    320 

Appendice.  —  Ossenrazioni  all'articolo  :  Lo  Scaricatoio  di  Claudio , 
del  Big.  I.  de  la  Yarenne  ,  di  Leon  de  Rotrou. 


élse  IKBICB 

Dicembre 

La  penisola  Slavo-Ellenica.  —  Studii  statistici ,  di  CotUmUno  Voj- 

novic Pag.    329 

Pensieri  sul  Romanzo  intimo  italiano  dopo  Manzoni  (II),  di  Luigi 

DasU •    343 

Begli  Istituti  Tecnici,  e  particolarmente  della  Sezione  A(;ricola  nei 

medesimi ,  di  Antonio  Selmi §    376 

DeirEpigrafia  (III),  di  Francesco  Dini   ...........    394 

Alcuni  cenni  sopra  Modena  e  la  sua  storia,  di  Lodovico  Boscìh'ni  «  i03 
Di  alcuni  tratti  e  dell'intero  episodio  della  Francesca  da  Rimini,  di 

Fr.  Selmi »    430 

^Processo  di  Stato  contro  Giulio  Vacherò  in  GenoTa  1628 ,  di  Luciano 

Scarabelli •    468 

Rassegna  politica,  di  G.  Vegexxi-Ruscalla j>    4b2 


N.  B.  X  pag.  316-319  occorre  più  volte  fienerini  ;  leggtoi  Beverini. 


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