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RIVISTA
CONTEMPORANEA
POLITICA — FILOSOFIA — SCIENZE — STORIA
LETTERATURA - POESIA — ROMANZI - VIAGGI ~ CRITICA
BIBUOGRAPIA — BELLE ARTI
VOLUME TRIGESIMOPRIMO
ANNO DECIMO
TORINO
STAMP. DELL'UNIONE TIPOGRAnCO-EDITRICB
1862
"T'X+cJi-à^^^l
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È vUtata la traduzione e riproduttone degli artìeoU della BmSTA
ee»za U eomenso delia Diresione.
' CANZONI POPdLiRI DEL PIEIONTE "
NORAN D'INGHILTERRA
(2» Sbbib — Canzoni romanzesche)
Sotto il tìtolo di « romanza dei conte Sol » il signor Duran pub-
blicò nel suo copioso Romancero Spagnuolo una variante di auesta
vecchia canzone conservata dalla tradizione popolare in Andalusi^.
Il signor Wolf accogliendola nella sua Primavera y fior de romances^
nota ch'essa contiene qualche vestigio del Chat botte di Perrault.
La medesima romanza si conserva nelle Asturie col titolo popolare
di Gerineldo, e fu pubblicata recentemente dal signor Amador de
los Rios nella Revista Ibèrica (t. I^ ott. die. 1861 p. 51). Un'altra
variante esiste in Catalogna e comincia, secondo Mila (1):
« Se si han fetas unas cridas — que à la guerra s*ha d'anar i.
É da lamentarsi che il signor Mila non l'abbia pubblicata nella
sua preziosa raccolta.
Fatti simili a quello esposto dalla canzone han dovuto rinno-
varsi con frequenza nel periodo de' tempi cavallereschi e special-
mente durante il movimento delle crociate. Cosi le cronache inglesi
narrano come in sul principio del secolo duodecimo la figliuola
d'un ammiraglio del Soldano d'Egitto, invaghitasi d'un prigioniero
inglese, Gilberto Becket, padre di san Tommaso di Cantorbery,
abbia passato il mare e sia andata in Inghilterra a sposarvi l'amante
liberato. La ballata inglese e scozzese Susetla Pye o Lord Beichan
è probabilmente una reminiscenza di questo fatto, ed è senza dub-
bio connessa colla canzone piemontese e colla romanza spagnuola.
Queste induzioni sono confermate dalla menzione dell'Inghilterra
fatta dalla canzone. Il contenuto poetico, se non la forma , par
quindi passato dall'Inghilterra in Francia e poscia nelle due penisole
celto-latine, durante il secolo duodecimo.
Della canzone piemontese ho cinque lezioni, due canavesi, due
piemontesi ed una monferrina.
Il metro (giambico) è il romanzo settenario tronco-piano , con
assonanza monorima, ma scorretta.
(*) Vedi Rivista Contemporanea di Gennaio , Maggio, Novembre 1858 ,
Gennaio 1860, e Gennaio 1861.
(1) Mila, Ohservaciones sobre la poesia popular eie, 122.
BIYI8TÀ COiaBMPOBANBA
Iiezlone Canavese
La fia del Sùltan
2 L'è tan na fia bela ;
Tan bela com'a Té,
4 Savijo pa a chi dé-la.
S'a l'han dàj-la a Moran,
6 Moran de Tlnghiltera.
Prim di ch'ai l'ha sposa
8 No fa che tan basè-la.
Sgond di ch'ai l'ha sposa
10 Moran la voi chité-la.
Ters di ch'ai l'ha sposa
i2 Moran n'in va a la guera,
La bela a j'ha bin dit:
a —Moran, cuand e tornéj-ve?
— Se torno pa 'n set agn,
16 Voi, bela, maridéj-ve. —
Bela spetà set agn,
18 Moran maj pi vegnejva.
La bela monta a cavai,
20 Gira tiìta Inghiltera.
'T al prim ch'a sé scontra
22 L'è d'iin marghé di vache.
Varianti
1 La fia di trej re. Monferrato
L*osto di Sian. Ptem. Can, Monf.
5 Moron. Canavese, Moral. Monferrato
10 No fa che caressé-la. Monferrato
Fasia che basloné-la. Piemonte
19, 20 La bela s'pia 'n cavai,
Gira tuta la Fransa. Canavese. Piemont4,
22 Riscontra un vacherelo. Canavese
Scontra Girom daj vache. Monferrato
Ant iin pastor di vache, Piemonte
OANZONI POPOLASI — MOBAN D^INaHlLTBBSA
Traduzloiie
La figlia del Soldano
la è tanto una bella figliuola ;
tanto bella com'eiré,
non sapevano a chi darla.
Gliel'hanno data a Morano,
Morano deiringhillerra.
Primo di che la sposò
non fa che tanto baciarla.
Secondo di che la sposò,
Morano la vuole abbandonare.
Terzo di che la sposò,
Morano sen va alla guerra.
La bella ben gli disse:
— Moran, quando tornale?
— Se non torno in sett'anni,
voi, bella, maritatevi.
Bella aspettò sett'anni,
Morano mai più veniva.
La bella monta a cavallo,
girò tutta Inghilterra.
Nel primo che si scontrò
gli è un mandriano di vacche.
RIVISTA CONTEMPORANBA
— Marghé del bel marghé,
24 D'chi son-ne custe vache?
— Ste vache son d'Moran,
26 Moran de Tlnghiltera.
— Marghé del bel marghé,
28 Moran hà-lo la dona?
— Anchòj sarà cuel giom
30 Ch'Moran na sposa vùna ;
Marcejse 'n pò pi fori,
32 Rivrej Torà die nosse. —
Bela sprona '1 cavai,
34 Ruvà l'ora die nosse.
Ant una sana d'or
36 A j'han smunù da bejve.
— Mi bejve beivo pa
38 Fin ch'la sana sia mia.
Mi bejve bejvo pa
40 Fin ch'si j'é n'auta dona.
Mi bejve bejvo pa
42 Fin ch'sia mi padrona. —
Moran l'ambrassa al col,
44 Moran de l'Inghiltera :
— Padrona si sempre sia,
46 Si lo saré-ve ancora
Varianti
^ Moran hà-lo die done? Canaoese
35 tassa d'or. Piemonte
46 Una lezione monferrina aggiunge il congedo dato
all'altra donna.
CANZONI POPOLABI — MOBAN d'iN^HILTEBBA
— Mandriano, bel mandriano,
di chi son qt^estp vaQchp?
— Ste vacche son di Morano,
Morano dell'Inghilterra.
— Mandriano bel mandriano,
Morano ha egli donna?
— Oggi sarà quel di
che Morano ne sposa una ;
marciaste un po' più forte,
arrivereste all'ora delle nozze. — »
Bella sprona il cavallo,
arrivò all'ora delle nozze.
In una tazza d'oro
le offerirono da bere.
— Io bere non bevo
finché la tazza sia mia ;
io bere non bevo
finché c'è qui un'altra donna;
io bere non bevo, ^
finché sia io padrona. —
Morano l'abbraccia al collo,
Morano dell'Inghilterra:
— Padrona siete sempre stata,
si lo sarete ancora.
8 &IYISTA GONTBHPOBAlOLk
\
PARALLEU
Iieslone Spagnuola (Andalusia)
(DuBAN. Somancero general, N® 327. — Wolf-Hoffmann. Primavera '
y fior de Romances. II , 49)
Bl wAt Sol
Orandes guerraB se publicaa
entro Espana y Portugal :
...Al conde Sol le nombran
Sor capitan general;
el rey se fué k despedir,
de su esposa otro que tal.
La condesa che era nifia,
todo se la va en llorar.
— Dime, conde, ^cuantos anos
tienes de ecbar por all&?
— Si & los seis anos no vuelvo,
condesa, 00 podeis casar. —
Pasan los seis, y los ocbo,
pasan diez, y pasan mas,
y el conde Sol no tornaba
ni nuevas suyas fué k dar.
... La condesa al otro dia
al conde se fué k buscar,
triste por Italia y Francia,
por la tierra y por la mar.
Va estaba desesperada,
ya se torna para ac&,
cuando gran vacada un dia
devisó alla en un pinar.
— Vaquerito, vaquerito,
por la santa Trinidad,
que me niegues la mentirà
y me digas la verdad:
4 De quien son estas vaquitas
que en estos montes estan?
•— Del conde Sol son, aenora^
que manda en este Infilar.
...— ìY quien es aqueUa dama
que un hombre abrazando est&t
— La desposada, senora,
con que el conde ya k casar.....
Il resto della romanza si scosta alquanto dalla canzone piemon-
tese, ma conduce ad una conclusione identica.
OÀIIZONI POPOUUU — MOBAN B'iNaklLTBBEA 9
Altra Iieslone Spagnuola (Asturia)
(J. Ahadob db LOS Bios. Sevista Iberica. T. I, Oct. Die. 1861» p. 61)
R«maB!i 4e fieriiield^
Orandes guerras se publìcan
de EspaBa con Portugale,
y llaman à Gerineldo
por capitan generale.
— Dime, dime, Gerineldo,
^que tiempo puedes tardare?
— Si à los siete anos no vengo,
princessa, puedes casarte. —
Ya pasan los siete abriles ;
Germeldo no vien yae:
pide & su padre licencia
gira salirlo buscare,
or tres reinados anduvo,
sin que lo pueda fallare;
à la vuelta que volvia,
fallaba un rico vacale.
— Vaquerito, vaquerito,
por la santa Trenidade
que me niegues la mentirà,
que me digas la verdade.
4 De quien es esa vacada
con tanto rejo y seriale t
— Senora de Gerineldo,
que aquf est& para casare.
etc.
Iieslone Inglese
(Cantù. St. Univ.^ Dog. Zeit.^ v. 2% p. 2.— E. Ajitoun. lori Beichan)
SnseUt Pje
... Porgetemi la vostra destra in pegno, in pegno della promessa
che per sette anni non sposerete altra donna fuori di me.
Essa cavossi di dito un anello e Io spezzò, e a Beichan ne diede
metà.
IO BiyiSTÀ OONTBMPOBANSÀ
...Assai prima che finissero i sette anni essa si propose di rive-
dere l'amato, perchè una voce nel cuore le ripeteva: Beichan falli
il suo voto. Essa dunque posp il piede sopri^ un buopi naviglio , e
volse le spalle alla patria.
Veleggiò ad oriente, veleggiò ad occidente finché giunse alla
bella. Inghilterra. Ivi adocchiò un buon pastore che nella pianura
pascolava il suo gregge.
— Che v'è di nuovo, che v'è di nuovo o buon pastore? Che
nuove hai tu a raccontarmi? — Ho tali nuove, o signora, che mai
non furono udite le simili in questo paese. Laggiù in quella casa
v'è ima fidanzata che da trentatre giorni aspetta: il giovane Bei-
chan non vuol dormire con essa per amor d'una donna oltre mare...
{Segue la conclusione identica a quella della canzone piemontese e
della romanza epagnmla).
u
LA TOMBA
(1* Sbrir — Capioni storiche)
È fra le più popolari e le più belle. La chiusa è comune adìiltre
canzoni dell'Italia Superiore.
Il pensiero della tomba capace di tre persone — e son quattro,
ma i due amanti son congiunti in uno, — e Timagine graziosa del
fiore che cresce ed olezza sulle care salme^ son cose di tutta bellezza.
Io penso che nulla di più gentile può offrirci la letteratura popolare
0 artificiosa di qualsiasi paese.
Di questa canzone raccolsi undici lezioni: quattro canavesi,
quattro piemontesi e tre monferrine. Il metro (giambico) ò il ro-
manzo settenario pìano4ronco.
IS BIYUBTA OOliTEMPOBAJNBÀ
Iieslone Plemoiite»e
Di là da cuj boscagè
2 Na belafija aj'é;
So pare e la sua maina
4 La volo maridé;
A volo déj-la a un prinsi
6 Fijol d'imperador.
— Mi voj né re, né prinsi
8 Fijol d'imperador.
— Déj-me cui giovinolo
40 Ch'a j'é 'n cula pérson.
— 0 fija d'ia mia fija ,
12 L'èpa 'n parti dati;
Doman a ùndes ore
14 Al lo faran miìri.
— S'a fan muri cui giovo,
16 Ch'a m' fasso muri mi ;
Ch'a m' fasso fé na tomba
18 Ch'a j sija d'post per tri,
Varianti
1 Al dare d'cuj boscage. MonferraU)
1-7 Dare da cuel ì)oscheto
Na bela fiia a j'é;
. So pare e la so marna
L'orivo maridé ; *
J* oriyo daj un prinsi ,
un prinsi imperator. P%$morUe
Ma chila voi gniin prinsi. Canavete
— ijn prinsi lo vòj mia etc. Monferrato
1-6 Sii d*cule montagne
Na bela fija a jé.
So pare la va vedi,
La fa che tan pioré.
— Cosa pjoreve, bela,
OANZOia POPOLÀBI — LA TOHBÀ 13
TrMtaoloiie
Di là da quelle boscaglie
una bella figliuola c'è;
suo padre e la sua mamma
la voglion maritare ;
voglion darla ad un principe
figliuolo d'imperatore.
— r non voglio né re, né principe
figliuolo d'imperatore.
— Datemi quel giovinetto
che c'è in quella prigione.
— 0 figlia, mia figlia,
non gli è un partito da te;
domani a undici ore
lo faranno morire.
— Se fan morir quel giovane,
e facciano morir me;
mi fa^cian fare una tomba,
che ci sia posto per tre,
Varianti
1-8 Cosa pjoreve tan?
Pjoreve pare o mare ,
Cuaicùn d'vostri paran ?
— Pjoro né pare né mare,
E gnanca ime paran ;
Pjoro cui giovineto
1-8 Ch*a j'é 'n cula pérson, etc. Piemont€
Drenta a cuj boscagi
Na bela fija a j'é.
A volo déj-la a un prinsi
A iìn prinsi imperador,
— Mi l'hai pa fé d'iin prinsi
D'un prinsi imperador ;
Ch'a m' dagna cui bel giovo
14 BIYISTA OOKTBMPOHANBA
Ch'a j stago pare e mare,
20 'L me amor an bras a mi.
An sima a ciila tomba
22 Piantran die rose e fior;
Tuta la gent ch*a j passa
24 A sentirai! l'odor t
Diran : — J'é mort la belia,
26 L'è morta per Tamor.
Varianti
1-8 Gh*j é al fond d'cula pérson, eie.
Sii per cule montagne
Tiijt a dio ch'j é na tor.
Là j'é la Majìnota,
Ch'a pjora '1 mal dl'amor.
S'a volo de-je *n prinsi ,
€n prinsi imperator.
1-8 0 mari, maridé-mi ,
C'aj passa la stagion ;
Le cerose son madiire ,
I priis a Tniran bon.
— Chi voste pjé , mia fija ,
Chi Tòste mai pjé ti?
— Mi vòj né re, né prinsi ,
Né '1 duca d'Lombardor.
* Mi vòj cui giovinoto ,
Ch'a j'é 'n cula person, etc.
1-8 O mare , maridé-me ,
Ch*a passa la stagion,
Dé-me cui giovineto, etc.
15 Per fé muri cui giovo.
Canavese
Canavese
Piemonte,
Canavese
Monferrato
Canavete
CANZONI POPOLASI — LA TOMBA
che ci Stiano padre e madre,
il mio amore la braccio a me.
In cima a quella tomba
pianteranno rose e fiori ;
tutta la gente che ci passa
sentiranno l'odore !
Diranno : — è morta la bella,
è morta per l'amore.
16
¥ariiiiti
17-18
Ch'an fasso fé na tomba
Gh'j a stago tre con mi.
Piemonte,
Canavese
Fasso na fossa granda
Ch'a stago tre con mi.
Piemonte
Ch'am' fasso fé na lampa
Ch'i stago tùli tre.
Canavese
Faruma fé na tampa,
Lontan tre mij da si ;
Faruma lunga e larga
Ch'j a stago tre con mi.
Canavese
Faruma fé na tomba
Ch*j stago tiiti doj.
Monferrato
Na ven al matin giorno ,
A l'era già pendù.
-r-Ch'a fasso fé na cassia, eto.
Monferrato
20
Me amante *n bras a mi.
Piemonte.
Canavese
'L me amor an fàuda a mi.
PiémonU
'L mari da cant a mi.
Canavese
21-22
An sima d'cula fossa
Pianté-je un giiisamin.
•
Piemonte
Tùt antorn a cuta tomba, etc.
Piemonte,
, Canavese
24
diran: — che bon odor.
Canavese
26
An bras al so amor
Piemonte
16 RITISTA OONTBHPOBAMBA
PARALLEU
Iieslone Teneta
Luigi Correr, in un articolo sulla poesia popolare, che già ebbi
occasione di citare, e che trovasi nelle opere complete di questo
scrittore , stampate a Venezia nel 1838 dalla tipografia del Gondo-
liere, cosi parla della presente canzone :
«A chi non è toccato d'udire alcuna volta quel volgare lamento
della Bosettina, a cui, fallito il primo voto d'ainore, viene l'anima
consigliando di farsi fare una cassa profonda capace di tre persone,
nella quale poter essere allogati, il padre, la madre e l'amante suo,
che, cadavere almeno, le sarà conceduto d'aver fra le braccia? E non
esilara e, quasi direi, non profuma la mente quel fiore ch'essa vuole
piantato sul fondo di detta cassa, acciò le genti di là passando, do-
mandino che fiore sia quello, e venga loro risposto: essere il fiore
della Bosettina che mori per amore t
Faremo fltr una cassa fonda,
Se ghe mettiemo drente in tre.
Lo mio padre cola mia madre,
E lo me amore in brazo a me.
In sima di questa tomba
Ohe pianteremo d'un bel fior;
A la sera lo pianteremo,
A la matina sarà fiori;
Tuta la zente che passeranno
Diran: che belo fior:
El zé '1 fior de la Rosina,
La xé morta per l'amor.
CANZOm POPOLARI ^ LA TOMBA 17
Altra I«ezlone Tenete
(Camimieatay manoiertttày dal congnio Gugubuig Stefani)
Sta matin me son levata *
Prima ancora che spunta el sol,
E a la finestra me so trata
E go visto el mio primo amor.
Sta matina so andata in piaeza
E go visto al mio pfimo amor;
El parlava co una ragasza;
Ahi ch,e penai ahi oba dolori
Siora mare, saré.la porta,
Che Ben entra qua più nissun ;
Vói far finta d'esser morta,
Vói far pianzer qualchedun.
Vói far fare 'na cassa fonda
Che ghe stemo drente m tre:
Lo mio padre, la mia madre,
Lo mio amore in braccio a me.
E po^ im &ndo d« qmrila eaoaa
Impianteremo un gran bel fior,
Alla sera l'impianteremo.
La matina el sarà fiori.
Tutti quelli che passeranno
Ohi diranno, oh che bel fiori
Questo è '1 fior de Rosettina
Che se morta per amor.
Siora mare, lasai ehe lo- ama,
Che rò sta el mio primo amor,
Se no ghe ogio, mor ogni fiama,
Za non m'avete fato d<» cor.
Shiita C. -2
18 KITISTA CONTBHPORANBÀ
AUra Iieslone Teneta
(An«blo Dàlmbdigo. Canti del p&polo Veneziano per la prima tolta
raccolti ed Ulmtrati. 2> ediz. Venezia 1857, p. 219)
€ La eanson de la Rosetina »
Vói far &r una ghirlanda
Tuta rose damaschin ;
Yogio meterla da banda
Finché morta sarò mi.
Vói far far 'na cassa fonda
Che ghe stèmo drento in tre:
Lo mio padre> la mia madre,
Lo mio amor in brazzo a me.
Poi ai piedi de sta cassa
Nu ghe pianteremo un fior:
E lasserà '1 pianteremo^
La matina '1 sarà fiori.
Tuti quei che passeranno
J dirà: Ghe bon odor!
El ze '1 fior de Rosetina,
Che xe morta per amor.
Eiezione Iiomliardia
(C. Cantù. Stor. Univ.y Dee. lett. Torino 1843. I. lxiv)
Dal seguente squarcio, benché per avventura assai scorretto, ri-
portato dal Cantù, scorgesi che la lezione lombarda non deve dif-
ferire dalle piemontesi e dalle venete.
Nel bel mezzo a quella cassa
Pianteremo d'un bel fior.
Tutti quei che passeranno
E diranno che bel fior;
Egli è il cor (?) della Rosina
Qke l'è morta per amor,
CAmSOKI POPOLABI — LA TOMBA 19
I^eslone Catalana
(D. MANinn. ÌSjlA y Fontanala. OUervacumei sobre lapoeHapoptdarj
con muestras de romances cataìanes inéditos, Barcelona 1853 ,
p. 112. — F. WoLF.. Proben portugiesischer imi catalanUcher
Volhsromanzen. Wien 1856, p. 124).
« Los presos de Lèrida ]>
Ta s'en va à lo seu pare — à demanarli un dò.
— ^Ay fiUa Margarida — quin dò vols que yo 't don?
— Ay pare lo meu pare — las claus de la preso.
— Ay filla Margarida — aixo no pot ser, no,
Dema sera disapte — y eia penjarem à tots.
— Ay pare lo meu pare — no penjen Taymador.
— ^Ay fiUa Margarida — qui es lo teu aymador?
— Ay jpare lo meu pare — es lo mes alt y ros.
— Ay filla Margarida — sera el primer de tots.
— Ay pare lo meu pare — penjeu-me 'n à mi y tot.
— Ay filla Margarida ~ aixo no ho fare, no. —
Las forcas son de piata — los dogala ne son d'or,
A cada cap de forca — un ramellet de flors«
La geni quant passaran — sentiran gran olor.
Canti Pòrtogheisl
Nella romanza portoghese del Conte NUlo (J. B. de Almeida-
Garrett. Romanceiro. Lisboa 1851, III, p. 9) trovansi vestigia della
nostra canzone :
-« Antes que o dia amanhe^a
Ve-lo-has ir a degoUar.
— Algoz que o mattar a elle,
A mim me tem de mattar;
Adonde a cova Ihe abrirem,
Amim me téem de interrar.....
Jifr WViéTA CONTEMPORANEA
Canti Cireel ed Albaiiei»!
(N. Tommaseo. Canti popolari greci. Venezia 1842, p. 308.
B. BiONDBCu. Shtdii Unffuistici. Milano 1866, p. 8^
— Pregoti, maestro, che tu faccia la sepoltura
Un po' grande, un po' larga, tanto per due persone. —
Trasse il coltel d'oro, e si trafisse il cuore.
Ambedue insieme sepellirono, in una sepoltura ambedue.
Se avvien ch'io muoia zitella, sepelliscimi nel tuo sepolcro,
Onde quando tu verrai meno, io possa riposare nel tuo seno.
Canti Brettoni
Una canzone di Brettagna termina col seguente pensiero (Th.
Hbbsabt db la ViLLEMAJBQué. BoTzaz-Breiz , S»® édit. Paris 1846,
II, p. 131):
Giacché noi non abbiam dormito sul medesisK) let^ ^
noi doimìreipa^ nella medesima tomba.
Giacché noi non fummo maritati in questo mondo ,
noi ci mariteremo dinnanzi a Dio.
ei
LA FIDANZATA INFEDELE
(2* Sbbib — Canioiii romansesehe)
Un giovane Principe vien da Ltoae per iiposare la fidanzata da
lungo tempo promessa. Incontra per via ina pastoneHa e la prega
di continuar la canzone inlerrolia dal di lui arrivo. La pastorella si
rimette a cantare, e cantando annunzia al Principe clie la sua fidan-
zata infedele ha dato alla luce un bimbo nell'assenza di lui.
La madre della fidanzata vede giungere il principe dall'alto ve-
rone e ne avverte la figliuola, la quale temendo la vista dello sposo
tradito, gli manda incontro quella delle due sorelle che più le ras-
somiglia. Ma l'occhio dell'amante non s'inganna, e la fidanzala è
costretta a presentarsi al Principe corrucciato: «Ditemi, bella,
esclama il tradito, ditemi la verità : siete ancora verginella siccome
vi lasciai? >
La donna confessa la colpa , e muore trafitta dallo sposo ol-
traggiato.
Il movimento drammatico di questa poesia è efficace e commo-
vente. Il soggetto è comune a molte altre canzoni e può avere ori-
gine storica. La primitiva redazione deve riferirsi all'intervallo che
corre dal decimo al decimoquarto secolo. È comune al Piemonte
e a! Cawavese. La strofa è di quattro versi di cui il primo quinario,
e gli altri tre settenarii. lì secondo e il quarto tronchi e rimati.
22 BIYISTA ooxnncpoBAiou.
Iieslmie Plem^ntege
I.
— Gante, bargera,
2 Gante d'una canson,
Gula che voi cantave
4 Guamand i vost moton.
— Si, si, me prinsi,
6 Si, si, ch'la canterò :
La vostra bela dajma
8 Lha 'vù 'n gentil fantó.
II.
La sua marna,
10 Gh'a l'era a li balcon,
Na riguardava '1 prinsi,
42 Gh'a vnia da Lion.
— 0 la mia fia,
H Malòròsa che t' sej !
Risguarda là to prinsi,
46 Ghe ti ven a vede.
— 0 la mia marna,
48 Mandé-je la mia sòr,
Gula ch'a mi risambla
20 Ant la boca e ant j òi. -
Variaoti
3
Gante vostra canson.
Piemonte
7e8
L'è fajta da na dama
Con un cavajer d*cort.
12
Ch'a galopa da Lion.
Piemonte
20
Da la boca fina a j'òj.
Piemonte
OÀKzoin popolàbi — la fidanzata infbdblb 23
Tradiulone
I.
— Cantate, pastorella,
cantate una canzone,
quella che voi cantavate
guardando i vostri agnelli.
— Si, si, mio prence,
si, si, che la canterò:
La vostra bella dama
ha fatto un gentil bambino,
II.
La madre di lei
che la era ai balconi,
ne guardava il prence
che veniva da Lione.
—0 la mia figliuola,
sciagurata che tu sei!
Guarda là il tuo prence
che ti viene a vedere .
— 0 la mia madre!
mandategli la mia sorella,
quella che mi somiglia
nella bocca e negli occhi. -
84
RIVISTA CONTBMPOBAMSA.
L'è lo bel prinsi
22
Da luns Tha vista vni :
— Cula ré pa la dajma
24
Ch'me cor a Tha 'mpromi.
— 0 la mìa fia,
26
Malorosa che t'sej !
Risguarda là to prinsi ;
28
L'ha rifudà tua sor.
— 0 la mia marna,
30
Vni-mie gittlé abìlìé;
Dinans a lo me prinsì,
32
Che mi na vòj andé. —
V-é io bel prinsi,
34
Da luns Tha vista vni :
—tnh ti a rè la dajma
36
Ch*me cor a l'ha ^nipromi.
Di-me voi, bela,
38
Di-me la verità:
Seve ancora fieta
40
Conforme v'haj lassa?
— Si, si, me prinsi,
42
La verità v6j bin di :
Con èl prinsi de Fiandra
44
Tre nSjt so' andà dormi. —
L'è lo bel prinsi
46
Ciama page Nicola :
— Andè-me pjé mia speja
48
Cufei dal pugnai dora.
0 pjoré, pagi !
50
Oh pjorè, pdt e grand,
Mi rhaj nrassà la dajma
52
Gh'me cdr amava tant I ~
Varianti
43
Con iin aut prinsi. Piemonte
Con él prinsi d'Olanda. Canaveté
43^
El diica de l'Armenia
Set ani Thaj servi. Piemonte
44
Tre mejs. Piemonte
48
Cala tiita 'ndorà. Piemonte
CANZONI POPOUJUt — LA FIDANZATA INFSDBLB :J|6
Il bel prence
da lungi Tha vista venire :
— Quella non è la xlama
che il mio cuore ha promesso.
— Ola mia figliuola,
sciagurata che tu sei I
Guarda là il tuo prence;
ha rì&oitato tua sorella.
— ^ 0 ìa mia madre,
venite, aiutatemi ad abbigliare ;
tnarazi al mio prence
ch*i' ne voglio andare. —
Il bel prence
da lungi l'ha vista venire;
— Quella è ben la dama
che il mio cuore ha promesso.
Ditemi voi, bella,
ditemi la verità :
siete ancora verginella
come vi lasciai ?
— Si, si, mio prence,
la verità vo' ben dire :
col prence di Fiandra
tre notti son andata a dormile. —
Il bel prence
chiama paggio Nicolò :
— Andate a pigliar la mia spada
quella dall'elsa dorata.
0 piangete, paggi I
Oh piangete, piccoli e grandi !
Io ho ammazzalo la dama
che il mio cuore amava tanto ! —
98
RIVISTA OONTBMPORANBA
Variante finale
{PitmorUi)
Caand Tha la speja ,
La testa a j'ha copà ,
Biità-la a'na bassilla,
A sua marna aj Tha portÀ.
— Pie Toj, marna,
Pie pei Yost piasi :
STavejse bin guemà-la,
Sria pa riva sosi.
Quando ha la spada
La testa le tagliò,
Misela s'un bacino ,
A sua madre la portò.
— Pigliate Toi, madre,
Pigliate pei vostri piaceri :
Se Taveste ben guardata.
Ciò non sarebbe capitato.
27
CAROLINA DI SAVOIA
(1* Sbbib — Gamoni storiehe)
Nella Cappella del Real Castello di Moncalìeri, il di 29 set-
tembre 1781 alle ore 4 dopo il mezzodì, stavano inginocchiati di-
nanzi all'altare la principessa Maria Carolina Antonietta di Savoia,
e Carlo Emanuele principe di Piemonte, incaricato di sposare per
procura la sua sorella in nome del principe Antonio Clemente duca
di Sassonia. Assistevano alla cerimonia il re Vittorio Amedeo III^ e
la regina Maria Antonietta Ferdinanda infanta di Spagna, genitori
della sposa, tutta la real famiglia^ la principessa Carlotta di Ca-
rignano, il cardinale Marcolini , il principe di Salm-Salm , tre
Vescovi^ i Cavalieri dell'Ordine, il principe di Masserano, i Mi-
nistri di Stato , il Capitano delle Guardie del Corpo , il Gover-
natore dei Principi, il Mastro di cerimonie ed introduttore degli
Ambasciatori. Il conte Marcolini, Ambasciatore straordinario di
Sassonia , assisteva pur esso in luogo distinto al rito nuziale (1).
Il grande Elemosiniere del Re usci pontificalmente dalla sacri-
stia, e dopo essersi inginocchiato all'altare^ ed inchinato al Re
ed alla Regina^ fece agli sposi la consueta interrogazione. Il prin-
cipe di Piemonte rispose immantinente; ma la Principessa, alzatasi,
prima di rispondere fece la filiale riverenza ai suoi genitori, e ri-
messasi in ginocchio rispose anch'essa affermativamente. Allora il
prelato diede loro la benedizione nuziale, e recitò il discorso d'uso.
I tre Vescovi firmarono il registro del matrimonio (2). Terminata
la funzione, e preso congedo dal Re e dalla Real famiglia,
l'Ambasciatore della Corte Elettorale di Dresda parti alla volta
d'Augusta, ove la sposa dovea essere consegnata dai Commissarii
(1) Relazione delle solennità e feste che hanno preceduto il matrimonio
della principessa Carolina di Savoia col principe Antonio di Sassonia.
Ms. degli ArchiTii del Regno.
(2) Ms. cit.
96 RIVISITA CONTBMPOBANBA
del re ai Commissarìi Sassoni. Il mattino seguente partiva la
nuova Duchessa di Sassonia e con lei il Re, la Regina, il Principe e
la Principessa di Piemonte, che la vollero accompagnare fino a
Vercelli. Ma prima della parleaza il nuwak corteggio traversò la
città di Torino, « avendo voluto il Re e la Regina secondar cosi
la pubblica brama di veder ancora una volta in essa l'amata loro
ultima figlia » (1). Da Vercelli la giovine sposa continuò il viaggio
passando per Milano , Roveredo ed Innspruck, affidata al conte
della Marmora, Gran Mastro della Casa del Re, luogotenente ge-
nerale di cavalleria e ministro di Stato. Erano nel corteggio della
Duchessa il marchese di Bianzè suo primo scudiere e cavaliere
d'onore, il cav. Berzetti, maggiordomo del Re, l'Uditore Borsetti,
segretario di Stato nel Ministero degli affari esteri, e segretario di
Gabinetto della Duchessa^ la marchesa di Cinzano, dama d'onore,
la contessa di Salmour e la marchesa di Verolengo, dame di pa-
lazzo. Giunta in Augusta fu la Duchessa consegnala dal conte della
Marmora e dall'Uditore Borsetti^ Commissarii del re, ai Commis-
sarìi di Sassonia, conte Camillo Marcolini, e Carlo Enrico Clauzer
il 14 ottobre 4781. Il 24 dello stesso mese il principe Antonio
conduceva in persona all'altare la sua giovane sposa in Dresda,
e cosi confermavasi solennemente quel nodo che una morte imma-
tura dovea rompere ben tosto.
Il presago cuore paterno dettava al re Vittorio Amedeo III nelle
istruzioni date al conte della Marmora le seguenti parole :
« La speciale circostanza in cui la Principessa si trova di non
« aver avuto il vainolo, esige sopra ogni cosa che non siano dimen-
« ticate le convenienti precauzioni per preservarla nel viaggio da
« lutto ciò che potesse servire a comunicare una malattia così pe-
« ricolosa; e noi non dubitiamo della vostra diligente attenzione a
€ questo riguardo t> (2).
Un anno appena era trascorso, e la Principessa moriva di vainolo
il 28 dicembre 1782, nel fiore della bellezza e della gioventù (3).
(1) Ms. cit.
(2) Altro Ms. degli Arohivii del Regno; 29 sett. 1781.
(3) Il principe Antonio scriveva il 17 marzo 1781 alla Regina per ringra-
ziarla-del dato consenso : « Aussi toas mes désirs ne tendront-ìls qu'à me
fl rendre digne des bontés d*une Princesse qui réunit aux charmes de la
. f plus aimable figure toutes les vertus doses augustes parente». Ms. degli
Arohivii del Regno. Maria Carolina di Savoia era nata il 17 gennaio 1764,
cosicché all'epoca della sua morte non aveva ancora compiuto il dician-
novesimo anno.
CANZONI porouui — cabolimà di sayoja 29
Ha una tradizione tuttora sparsa nel Piemonte assicura che essa
mori di dolore.
Maria Carolina era la terza ed ultima delle figlie superstiti di
Vittorio Amedeo. Le due sorelle maggiori^ destìnete a più splendide
nozze, avevano sposato due figli di Francia che poi regnarono
amendue coi nomi di Luigi XVIII e di Carlo X. Il principe Antonio
sposò in seconde nozze dopo cinque anni di vedovanza Maria
Teresa di Lorena figlia di Leopoldo II imperatore, e succedette nel
1827 a Federico Augusto, suo fratello, nel Regno di Sassonia.
La ripugnanza della Principessa ad abbandonare la casa pa-
terna (1), la passeggiata per Torino prima della partenza, la do-
lorosa separazione di Vercelli, il presentimento della morte vicina,
sono argomento di questa canzone popolare che ora per la prima
volta è fissala dalla scrittura. Ho di essa tre lezioni: due piemon-
tesi ed una monferrina. Ma si canta anche in canavese.
Il metro è giambico di tredici sillabe, in guisa però, che il primo
verso d'ogni strofa può dividersi nella recitazione, come è diviso
nel canto, in due settenarii tronchi: mentre il secondo verso si
recita e si canta unito, e se si volesse dividere in due emistichii
darebbe per risultato costante un settenario piano ed un sen«rio
tronco. Gli accenti indispensabili di questo metro cadono sulla sesta
e sulla dodicesima sillaba ; ma sono essi generalmente accompa-
gnati da altri accenti che possono indistintamente cadere sulla se-
conda e sulla quarta nel primo emistichio e sull'ottava e sulla de-
cima nel secondo; e talora, nei versi più ricchi, cade l'accento su
tutte le sillabe di numero pari.
(1) Pare che questa ripugnanza non fosse ignota alla corte di Dresda,
giacché n'ò fatto apertamente cenno in una lettera che in data del 24 marzo
1781 scriveva al Re Tfilettore Federico Augusto: tll en coùtera sans
t doute à la sensibilité de Madame la Princesse de s'éloigner de ses il-
« lustres parents et d'une famille qui doit lui étre chère; mais je mettrai
« tant d*attention à faire diversion à ses soucis, et le prince Antoine mon
t frère sera si applique à s attirer sa confiance et son estime, que je me
e flatte de lui adoucir l'amertume de cette séparation ». Ms. degli archivii
del Regno.
30 BITI0TÀ 0(»«TBllP(»UimÀ
Iieslone Ptemontese
La bela Carolin la volo marìdé,
2 Lo dùca de Sassonia ai vólo fé spose.
— Oh ! s'a m'é bin pi car un póver paisan,
4 Che '1 dùca de Sassonia cb'a Té tan lontan.
— un póver paisan Té pa del vost onor :
6 Lo dùca de Sassonia cb'a Té 'n gran signor.
— Oh! s*a m'é bin pi car un cavajer dia cort,
8 Che '1 duca de Sassonia cb'a Fé tan signor.
— un cavajer dia cort Té pa del vost onor ;
10 Lo dùca de Sassonia cb'a Té 'n gran signor.
— Da già cb'a Té cosi, da già ch'a Té destin ,
12 Faruma la girada tùt antom Tùrin.
Bondi me car papà, bondi cara maroan,
14 Che mi vad an Sassonia cb'a le tan lontan.
Varianti
1 Madama Carolin la vbro maridè. Monferrato
2 Al duca di Sassonia i so' la volo de. Piemonte
3-4 Oh s*a m*é bin pi car iin pover sitadin
Che '1 diica di Sassonia ch*a Pha tang cuatrin. Monferrato
5 a fa pa per voj. Piemonte
ch*a ré 'n bel signor. Piemonte
11 Da già che voi vori cosi. ' Monferrato
11-12 Yeni-me acompagné fin giii d'pjassa Castel,
Che vada de '1 bondi a lo me car fratel. Piemonte.
E bin da già ch'a m' v5ri mari de ,
Mné-me per Tiirin, mné-me a spassegé. Monferrato
13 e seg. *N carossa al Than pia '1 papà e la sua maman,
E pòj al rhan menà-la 'n pjassa d'san Giovan.
D*an pjassa d'san Giovan che lor a son riva,
J carossé d'Sassonia j'ero già paria.
D'an carossa del re chila Té dismontà,
A Ve monta 'ni iin'auta tiit antorn dora.
— Bondiy etc, Monferrato. Piemonte
oAiizoia pgpoiiAn *- cm^bouiha m sàtoja 31
La bella Carolina la voglìon maritare,
il duca di Sassonia voglion farle sposare.
— Oh! m'é ben più caro un povero contadino,
che il duca di Sassonia ch'è tanto lontano.
— Un povero contadino non è del vostro onore ;
il duca di Sassonia gli è un gran signore.
— Oh! m'ò ben più caro un cavalier della corte,
che il duca di Sassonia ch'è si gran signore.
— Un cavalier della corte non è del vostro onore ;
il duca di Sassonia gli è un gran signore.
— Quand'é cosi, quand'egli è destino,
faremo il giro tutt'intorno a Torino. —
— Buon di, caro padre, buon di, cara madre,
ch'io vado in Sassonia che è tanto lontano t —
32 niyutjk coirrBMPOBAiiBik
Caand a n'in son riva sul pont di là d'Versej y
46 N*a fa la disparita con i so fratej.
— Fratej dei me fratej, toebé-me 'n po' la man,
18 Che mi vad a» Sassosii» eb*» Té tan lontan.
Toché-me 'n po' la man, amis me car amis,
SO L'è con la fior del liri a 'rvédse an paradis.
Vurteme lode
(Piemontese. Torino)
Parla la principessa ii Piemonte^ Adelaide di Francia,
nipote di Luigi XV,. sorella di I#MÌgi XYI, moglie di Cado Emanuele IV.
cognata di Carolina.
— Gara la mia cùgnà, perché n'a pjorì tan?
22 Mi son veniìa d^an Frdnsa ch'a Ve tan lontan.
— Cara la mia c^gnà, voj si' venùa a Turin
24 A Casa di Savojia, ch'a Té 'n bel giardini
Gara la mia cngvAy toché-me 'n po' la man,
26 Cula che Varcomando s'a Té la mia maman.
CANZONI POPOLàEI — OABOUNA DI SATOJA
Quando ne giunsero sul ponte di là da Vercelli ,
ne fa la dipartita da' suoi fratelli.
— Fratelli, fratelli miei, stringetemi la mano,
ch'io vado in Sassonia ch'è tanto lontano !
Stringetemi la mano, amici, miei cari amici,
col fior del giglio, a rivederci in paradiso !
— Cara cognata mia, perchè pianger tanto?
r venni di Francia ch'è tanto lontano.
— Cara cognata mia, voi veniste a Torino,
A Casa di Savoja, ch'è un bel giardino !
Cara cognata mia, stringetemi la mano,
Quella che vi raccomando si è la madre mia.
Costantino Nioba.
MkUta C.
34
OSSERVAZIONI
SUL BECCARIA E IL DIRITTO PENALE
DI CESARE CANTÙ o
e solle doe seoole degli Spiritnalisti e degli Dnitarii
La legiBlazione è specchio, onde assai bene si riflettono i gradi
di civiltà d'un'epoca e d'un paese. Locchè se è vero pel diritto ci-
vile, è assai più pel diritto criminale. I processi tessuti per indagare
i delitti, e gli articoli d*un codice penale possono, al pardi una storia,
svelare la morale, la logica, il benessere, il progresso e l'avvenire
di una nazione.
(*) FiRBNZB 1862, bella edizione del Bàrberi. — Per mostrare che atten-
<^meDte abbiamo letto questo lavoro, noteremo alcuni sbagli tipografici,
che l'editore avrebbe dovuto evitare, e che saran a correggere in una
nuova edizione che poco tarderà :
Pag. 47 lin. 18 Aggiungete i continui contro le streghe continui processi (?)
72 24 tale sovranità è inalterabile inalienabile
88 20 doveroso tutto ciò ch'è domandato comandato
281 2 ogni misfatto semplice minaccia ogni misfatto implica mi-
naccia
139 nota 3 confessò sua in colpa confessò sua colpa
178 24 rispettatene la reputazione rispettarne
247 3 tiranna della creatura e della sensibilità Dubitiamo debba leggersi :
quegli aberramenti della
sensibilità e della ragione,
volontariamente dimen-
tica del creatore e perciò
tiranna della creatura.
259 nota 5 codice marziale e di M. Teresa codice marziale di M. Teresa
266 nota 10 una Svizzera cristiana la Svizz. cristiana
270 penultima Gussort Pussort
La Hedazione,
OSSBBVAZIONI SUL BBCCAIUA E IL DIBITTO PBNALB 35
Ciò postOy ecco uno schizzo dell'antica giurisprudenza criminale.
In Firenze, nel 1258, due infelici vennero impiccati perchè
non aveano come pagare una multa di poche lire! locchè di re-
gola veniva stabilito dallo Statuto, che per maggiore scherno era
detto di S. Geminiano ! I — Altrove, perchè un corriere non trova
pronti i cavalli, quel meschino che doveva allestirli, viene, per la
colpa d'avere sbagliato l'ora, mandato alla forca. - Perfin Pio V
dannò alla morte i falliti ! — In Francia alla ruota e alla forca il
contrabbandiere per una libbra di sale o poche foglie di tabacco! —
Morte... pel furto d'un luigi!... pel falso!... per un libello!...
Qua il reo colla pelle stigmatizzata dal marchio vien tratto, l'an-
niversario del delitto, sul graticcio a testa nuda, fin dove fii con-
sumata la colpa, e quindi flagellato!... Alla di lui morte s'incrude-
lisce sul cadavere, che viene arrotato, testa e mani mozze!... Cosi
in Isvezia nel secolo decimottavo!... — Là vedi il reo cincischiato
dalla tanaglia rovente, co' sanguinosi moncherini respinger la ruota
dalla quale è colpito nel petto, e sulla quale, morto che sia, verrà
avviticchiato. — Quell'altro si squarta, e per misericordia gli si sega
prima la gola... Ciò in Piemonte... sino ai tempi di Carlo Alberto!...
E come s'indagavano i delitti, onde almeno si evitasse il pericolo
d'infliggere agl'innocenti pene si atroci?... — Colla tortura!!...
€ Quando Damiens feri con un temperino l'osceno Luigi XV, nel
€ 1757, il popolo fu invaso da entusiasmo di furore... per un re che
cnon stimava si fé' ricerca fra tutti i tribunali qual possedesse
€ un più tormentoso metodo di torturare il reo. Parigi lo stirava al
e possibile, e lo gonfiava d'acqua, o rompevagli lentamente le gambe
e fra due tavole: Dieppe lo sospendeva con tanaglie per le unghie,
€ 0 schiacciavagli le dita ; cosi Rouen ; Metz ficcava delle punte sotto
€ le unghie ; Besan^on colle strappate lussava le ossa ; Autun distil-
c lava olio bollente traverso a botti porose, che talvolta prendendo
e fuoco, bruciavano l'accusato ; Avignone usava la veglia^ scanno di
« legno a punta di diamante, sulla cui cima appoggiavasi Testre-
c mità della spina dorsale, donde veniva uno spasimo insopportabile,
e che rinnovavasi finché il reo confessasse , il quale intanto dinanzi
e a im grande specchio vedeva tutte le contraffazioni del proprio
€ viso. I medici chiamati a consulto, dichiararono che la più tor-
« mentosa era la tortura degli stivaletti, e Damiens la sostenne, fermo
€ a ripetere di non aver complici. Condannato al patibolo, gli fu
e arsa a lento fuoco la mano armata del coltello parricida, tanagliato
« per tutto il corpo, e stirato quasi un'ora da quattro cavalli in
e senso contrario ; nelle piaghe gli venne colato resina, olio, cera
e e piombo liquefatti. Morto che fu dopo cinque quarti d'ora di sup-
c plizioy i suoi avanzi si bruciarono, e furono banditi in perpetuo suo
36 RIVISTA CONTBMPORANBA
« padre, la moglie, il figlio; ai fratelli imposto di cambiar il nome;
€ atterrata la casa ov'era nato. > (CantÙj^o^, 16.) — Ecco l'idola-
tria dei re che rimpiange il p. Bresciani! — Retrivi!... mi faranno
sempre terrore, ma non più meraviglia le stragi dei settembristi e
le beccherie del novantatre — perocché i venerandi codici polverosi
avevano anche troppo insegnato al popolo la crudeltà!
Immaginatevi come tra gli urli e di mezzo al sangue brillasse
il sole della verità ! — La voce dei fanatici accusa Calas, settuage-
nario protestante di Tolosa, d'aver ucciso il proprio figliuolo perchè
tendeva al cattolicismo. La probità dell'accusato e molti indizii lo
mostravano innocente Ma posto alla corda confessa!... ed è tratto
al supplizio della ruota! sua moglie al rogo!! Voltaire fa appello
alla pubblica opinione! si ripiglia il processo e la vittima è di-
chiarata innocente!... Il Capitoni che aVeva proferita la condanna,
divien pazzo e suicida!... — Antonio Pin sottoposto ai tormenti con-
fessa d'avere ucciso Seras, e vien tratto a morte, sebbene non si
rinvenisse il cadavere dell'ucciso là dove quegli sotto la tortura avea
indicato. Poco dopo Seras ch'era partito nascostamente, redivivo ri-
toma da un viaggio! — Nel 1770 Sibourg, tormentato, si confessa
autore d'un assassinio, pel quale ventiquattro anni prima era stato
squartato Claudio Debeaux!
Quando TAustrìa abolì la tortura, vi sostituì le bastonate ! Ecco
in Ungheria scompajono diverse persone, e alcuni poveri zingani
vengono accusati d'averle uccise!,.. Confessano sotto il bastone!...
e indicano il luogo dove stavano sepelliti gli uccisi. — Si scava —
non una traccia. — Si torna al bastone!... Infamia! per finire il
martirio, gli zingani dichiarano di aver mangiato i cadaveri senza
lasciarne boccone!... Provato cosi in genere e specie il deUtto, gli
sciagurati, ch'erano quarantacinque, vengono irrotati e squartati!
— Ma arrivano cencinquanta nuovi zingani... cui si riserbava ugual
sorte — quando fu sospesa la procedura. — Poi si scopre che le per-
sone inghiottite dagli zingani erano andate ad abitare altrove !
Vedete che non parlo del medio evo!... L'ultima volta che si
applicò la tortura in Francia, fu nel 1788!
Aggiungi lo squallore di carceri malsane, ove si punivano gl'in-
quisiti prima che fossero trovati rei — ove il governo non alimen-
tava coloro cui toglieva la libertà , e che dunque sarebbero morti di
fame, se, poveri, non fossero stati sovvenuti dalla carità cristiana.
Aggiungi che l'iniqua bilancia di quella maschera di giustizia nelle
pene accordava ai nobili il minimo grado, e li esimeva dalla gogna,
dalla galera, dalla forca^ dalle pene infamanti — mentre l'infamia
colpiva gl'individui dell'intera famiglia de' plebei, cioè li « obbligava
tutti a non vivere che di delitti » (Canti"^, pag, 179). — Aggiungi
OSSERVAZIONI SUL BECCARIA K IL DIRITTO PENALE 37
che le leggi venivano rimpastate e accresciute da interpreti, che con
una logica da orsi, e colla più vigliacca adulazione pei troni, dì loro
autorità legittimavano canoni orrendi!... Aggiungi i magistrati alla
cui inesorata balla i legislatori lasciavano sin la pena di morte —
e con ciò avrai compiuto un languido sbozzo della giurisprudenza
criminale — d'jeri!
Retrivi ! confessate che siamo progrediti anche in fatto di scienze
spirituali !
E chi mai avrebbe oso d'alzar la voce contro a quei sacrileghi
giuristi ? — Ma non era forse stata la reviviscenza del gius romano
che aveva fatto rinascere la tortura col processo inquisitorio, occulto,
spietato, tessuto di frodi e d'insidie, onde un reo doveva trovarsi ad
ogni costo? Non era la Roma dell'antico diritto che considerava come
tristo il padrone che rifiutasse alla tortura gli schiavi, quando gli
venissero pagati a prezzo di pecore e di buoi?... Allorché il gius
romano era stato adorato colle candele accese come un Dio, chi mai
avrebbe ardito progredire oltre il titolo de quaestionibus^... oltre la
rivelazione delle pandette?
Potenza del pregiudizio! Persino Voltaire disapprovando la
tortura, la volea però riserbata ai regicidi e parricidi ; quasiché pei
maggiori delitti la giustizia dovesse appagarsi di mezzi che sono
reputati inabili a conseguire la verità !
Sotto questi auspicìi era nato Cesare Beccaria, e avea dato alla
luce il libriccino dalle cencinquanta faccio intorno ai delitti ed aìle
pene, — Quai sono i pregi e i difetti di questo scrittore?
Già sin dal principio del libriccino voi trovate l'origine della so-
cietà e il diritto di punire discendere da quello stato dell'uomo che
dicevasi naturale (ed era tanto contro natura), e dalla ricantata nenia
di quel benedetto patto sociale! — Si vuol preservare il lettore dal
pregiudizio di credere che il diritto e la giustizia sieno enti reali^
Bastava dire che sono idee!... Ma Beccaria dichiara che il diritto è
la forza piii, utile al maggior numero — e la giustizia un vincolo che
tiene uniti %V interessi particolari (§ ii, nota). — In tutto il trat-
tato poi domina il linguaggio dei sensisti; ma in modo che nuoce
alla corteccia delle parole più spesso che al fondo, talché la menda
riesce meno funesta di quanto cianciano i Gesuiti.
Gli abusi dei magistrati e della idolatrata autorità degl'inter-
preti spingono Beccaria a disapprovare il principio di consultar
lo spirito delle leggi; con che si verrebbe a distrugger la logica,
0 com'egli si esprime, la fatale licenza oi ragionare! (§ rv) Quasi
che sia possibile nessuna applicazione senza più o meno interpretar
lo spirito delle leggi, o fosser lecite le applicazioni contro giustizia,
quando un caso non fu previsto dal legislatore.
38 RIVISTA CONTEMPOBANBA
A' di lui argomenti contro la pena di morte, gli fu con ragione
risposto, che un agiato filosofo (perchè sull'animo di lui Tidea del
carcere perpetuo sveglia spavento) erra, se crede che l'idea della
stessa pena desti un'uguale impressione sull'animo d'uomo della più
bassa feccia, che stenta la vita, che dorme su un canile, e soffre
forse sotto i comandi di un dispotico padrone.
E il libriccino fu appuntato d oscurità. L'autore rispose che volle
salvarsi dai colpi della inquisizione; ma Toscurità è dominante anche
dove non era paura. È un lavoro sintetico ! — ecco la ragione del-
l'oscurità — e forse la maggiore condanna dello scrittore.
Cantù {pag. 271) dice che nel secolo xvin « gli uomini pratici
€ sentivano il bisogno di tornare a principii sintetici per non naufra-
c gare in quel vortice di ragione e sentimentalismo, ma ghermivansi
€ talora a deboli, o anche falsi appigli. Questo avvenne al Beccaria ».
— Ma più che gli argomenti io disapprovo il difetto d'analisi. Se
Bbccabia avesse uno per uno numerato i particolari di crudeltà, gli
scellerati assurdi della tortura, cominciando dagli schiavi di Roma,
e scendendo man mano sino alla storia degli untori ; se avesse non
solo asserito, ma colle cifre altresì provato che ne' paesi « vicini e
€ lontani dove la pena di morte è stata ristretta a delitti maggiori,
€ noi troveremo... che dove le pene sono state più moderate, ma
€ appunto perchè tali, più inesorabili contro i delinquenti, essendovi
€ minori motivi di lasciarli impuni, ivi i delitti si sono resi meno
€ frequenti » {pag. 371, Relazione pubblicata dal Cantù) ; quanto più
ampia diffusione ed efficacia avrebbe sortito quel libro ! e forse Pib-
TBO Vbbbi non avrebbe potuto attestare € che tra i molti uomini
€ d'ingegno e di cuore che hanno scritto contro la tortura, e contro
e l'insidioso raggiro dei processi che secretamente si fanno, non vb
€ NB HA ALCUNO IL QUALE ABBIA FATTO COLPO SULL' ANIMO DBI GIU-
.« DICI ! ! » Cosi avvenne e avverrà sempre ai libri sintetici, e più
quando sono diretti a chi abbia interesse di conservar l'idolatria di
vieti pregiudizii !
Le continue proteste di non alludere alle verità rivelate e alla
legge naturale, anche là ove un'arbitraria distinzione non basta a
salvarle; e le manate d'incenso arse dinanzi ai troni (sebbene allora
fosse di moda, anche là ove meno cadea in acconcio, sarebbero
forse indizio che a dormire sonni tranquilli Bbccabia sacrificava
qualche voltale proprie convinzioni?... Cantù vi trova più sincerità
che non io; ma il mio dubbio riceve un appoggio nei consigli da
epicureo che il Beccaria stesso suggeriva nell'articolo sui piaceri del-
r imaginazione. « A tal uopo non troppo analizzare ; procurarsi una
dose d'indifferenza negli affari e nella indagine della verità
lasciar che gli uomini combattano, sperino, muoiano ; riposarsi mol-
OSSBBVAZIONI SUL BBCCARIA B IL DIRITTO PBNALB 39
lemente in illuminata indifferenza delle umane cose, che... risparmi
le tormentose vicende di bene e di male » {pag. 153).
Ma vicino alle ombre cerchiamo la luce.
E prima di tutto non si creda che Tautore fondi tutto sulla con.
tingente volontà dell'uomo. Che là, dove ammette (§ xvui) €.là
NATUBÀ mvARiABiLB delle cose » e vuole € la politica istessa, almeno
la vera, e la durevole » soggetta ai < sentimenti immutabili degli
uomini » si accosta alla vera base della legge naturale.
Si oppongono al Bbccabia solidi argomenti contro alla opinione
di lui sulla pena, di morte ; ma come condannare un pubblicista che
la ripudiava fra tante assurdità di procedure? Ed egli ammettea
poi l'ultimo supplizio nei grandi pericoli della società, e quando
questa non sapesse provvedere altrimenti (§ xu). Con che anche qui
si avvicinava alla vera teoria; mentre poi giudici d'ieri in Imola
ed in Bologna, a difesa del Bbccabia, confessarono che i supplizi!
da loro prodigati crebbero i delitti.
Bbccabia beffò le assurde finzioni di legge predilette dal diritto
romano ; Bbccabia agli adoratori delle lingue e delle cose antiche ri-
cordò che tutti hanno diritto di conoscere le leggi, e che perciò un co-
dice dev'essere scritto in lingua nazionale, e senza gergo da berlina !
(§ v) Bbccabia svertando i canoni da secoli invalsi, mostrò l'assurdità
di esigere le vere prove pei delitti minori, e contentarsi di meri indizii
porgli atrocissimi delitti I!... La quale slogicatura unita alle funi
e alle carrucole, vi riveli quanti innocenti furono sacrificati dalla
cosi detta spada della giustiziai... Bbccabia piantò la teoria degli
indizii, ripetuta da tutti i trattatisti posteriori ; Bbccabia svergognò
le vigliaccherie dei delatori, e la dominante nefandità delle accuse
segrete e degli arresti arbitrari!, chiedendo come mai tra gl'impuni
calunniatori possa la patria trovare difensori intrepidi, magistrati
incorrotti e probi cittadini ? Bbccabia propose assessori simili ai giu-
rati ; Bbccabia tracciò la distinzione tra i delitti politici e i delitti
comuni, e scemando le colpe di lesa maestà, volle si ponesse un freno
alle vendette di principi iniqui!... Se non è questo progresso, qual
sarà mai?... E come non sentir simpatia per imo scrittore che di
mezzo alle immanità imperversanti tuona parole energiche , umane
CONTBO LA TOBTUBA, 0 coutro la inutile, perchè cieca e iniqua, pro-
digalità delle pene; e ciò di fronte ai principi, ai legislatori, agl'iur
terpreti, ai magistrati testerecci e freddi non meno dei manigoldi?...
€ Un matematico » egli esclama < scioglierebbe meglio che un giù-
e dice questo problema. Data la forza dei muscoli e la sensibilità
< delle fibre di un innocente, trovare il grado di dolore che lo farà
€ {U più delle tolte, dovea aggiungere) confessar reo di un dato de*
clitto > (§ xu). — « Tu sei reo d'un delitto, dunque è possibile
4Ó BIVISTA CONTBMPOBANBA
€ che lo sii di cent'altri delitti : questo dubbio mi pesa; voglio accer-
€ tarmene col mio criterio di verità : le leggi ti tormentano perchè
« sei reo, perchè puoi esser reo. perchè voglio che tu sii reo I » {Ivi).
Provide sono le cautele che Beocabia invocava per impedir fal-
limenti; previde il consiglio dato al legislatore di non proibire il
fuoco perchè incendia, e l'acqua perchè annega ; con che alludeva
all'assurda legge che ai probi cittadini vieta di portar armi !... E qui
entriamo in un capitolo che suol passare inosservato, ma che è cer-
tamente il più sfolgorante!... Perocché quando Beooabia proclama
che 4 à MBGLio PBEVENiBB I DELITTI CHE puNiBLi » e numerando
tutti i mezzi di prevenirli soggiunge : < Fate che i lumi accompa-
€ gnino LA libbbtì:.. mezzo di prevenire i delitti è quello di ricom-
c pensare la virtù »; quando finendo insinua che « il mezzo più si-
« CUBO di prevenire i delitti si è di pbbfezionabb l'educazione >
(§ XLi) — allora il Beocabia non è più il riformatore de' suoi tempi;
ma colla mente vastissima egli precorre alla giurisprudenza crimi-
nale dei secoli futuri. La pratica d'un illuminato sistema di preven-
zione è la speranza!... fors'anco lo sforzo!... ma pur troppo siam ben
lontani che sia il vanto dell'età nostra!
Qual fu l'effetto del libriccino dalle cencinquanta &ccie? Radi-
cali riforme della giurisprudenza criminale, anche prima della rivo-
luzione introdotte e in Francia — e in Austria — e in Lombardia
— e in Russia, e altrove! Ovunque sradicata per sempre quella
sacrilega offesa dell'umanità e della logica — la tortura!
E già, vivente l'ignoto autore, la Società di Berna gli aveva de-
cretato una medaglia d'oro. Il famoso Malesherbes inculcava a Mo-
rellet di tradurre in francese il libriccino italiano, che cosi da quella
lingua universale fu divulgato per tutta Europa. E moltissime edi-
zioni si succedettero in Francia, e fin sei versioni coU'onor di note
di Voltaire, di Diderot, d'altri Bbcoabia, per commendatizia di
d'Alembert, dalla imperatrice di Russia era chiamato a Pietroburgo,
quando per non perdere un tal uomo, appositamente per lui il go.
verno austriaco istituì una cattedra d'economia; quindi lo nominò
consigliere e magistrato camerale, e lo interrogò intorno alle più
rilevanti riforme che vennero introdotte in Lombardia. Alessandro
Ybbbi attestava t Anche il ceto delle persone men curiose di lette-
€ rarie notizie, come sono i cardinali e i prelati, conoscono I Delitti
€e le Pene: credo che chiunque legge il lunario ha notizia di quel-
€ l'opera ». Il celebre ROderer che ebbe parte nel Direttorio, scri-
vendo a Giulia Beccaria, dopo avere ricordato gli elogi di Buffon,
d'Alembert, ecc. , soggiunge t II trattato dei delitti e delle pene,
€ avea talmente cambiato lo spirito degli antichi tribunali di Fran-
< eia, che dieci anni prima della rivoluzione non si riconoscevano
OSSBBVAZIONI «Uh BBOOABIà E IL DIBITTO PENALE 41
€ piA. Tutti i giovani magistrati delle corti (ed io Io poBSo attestare
€ essendo stato io stesso di quel numero) giudicavano più secondo
< I PBiNCipn DI Beccabia che secondo le leggi ». — Lord Mansfield
oracolo delle leggi inglesi non nominava il Beccabia in Parlamento
senza un atto di riverenza. E duchi, e principi, e re, e imperatori
encomiavano con lettere a luì dirette e chiamavano a sé il gran
giuspubblicista italiano!
L'altro giorno Faustino Helie pubblicò un'edizione del trattato di
Bbooabia con commenti perpetui, in cui si dà lode al nostro crimina*
lista d'avere non solo dissipato il buio de'crudeli pregiudizii, ma trac-
ciata ben anco la via alla scuola del progresso, e Ciò che noi ci siamo
« proposti si è di spander luce sopra ai servigi da essolui renduti
e alla scienza del diritto penale, e un po'troppo sconosciuti ai nostri
< di; si è di cercare nella elaborazione del secolo decimottavo la più
« sicura fonte della legislazione che attualmente ci reg^, e dei prò-
€ gressi che può ripromettersi in avvenire. . . . Beccabia fu il vebo
e BIFOBMATOBE DELLE NOSTBE LEGGI PENALI ».
Di fronte a questi fotti mettete la Civiltà cattolica^ la quale pel
Beccabia non seppe trovare migliore epiteto che quello di Mabchese
Pappagallo 1 1 ! E perche?.... perchè contemporaneo dei filosofi fran-
cesi del secolo decimottavo, alle cui fonti erasi educato, ebbe a re-
spirare Tatmoefera di quell'ambiente!.... Quasiché vi sia scrittore al-
cuno che sappia del tutto emanciparsi da quanto lo circonda !.... Con
questo regolo deh! perché i reverendi padri non chiamano il Segneri,
il Bartoli, e perfino il Tasso , i pappagalli del gongorismo, delFeu-
feismo, del secentismo)....
E il Beccabia fu anche economista. — Ma nello stesso libro dei
delitti e delle pene mostrò dubitare del diritto di proprietà, base della
scienza; e terribile diritto, e forse non necessario! > (§ xxx) (1). Altrove
cadendo negli errori dei fisiocratici, implica nell'idea di valore l'utilità
gratuita della natura. Loda il lusso come correttivo delle accumulate
ricchezze. Perché gli sembra che gl'imprenditori malagevolmente si
muovano a crescer le vecchie e ad introdurre le manifatture nuove,
vorrebbe fossero incoraggiati dal sovrano .... Che più? . . . invoca
(1) Quest'accusa suole apporsi da tutti al Beccaria; e non vi sarebbe
come scolparlo. Ma il Canlù, possessore dell'autografo del Beccaria, in
questo non trovò la condannata frase, bensì : terribile, ma forse necessario
diritto. E cosi è stampato nella prima edizione. Come poi scivolasse nelle
posteriori, il Cantù non sa spiegarlo. £ a noi pare che egli avrebbe fatto
assai bene a pubblicare qualche pagina dell'autografo, p. e. questa, dov'è
il passo controverso, e che avrebbe posto fine alla baia tante volte ripe*
tata, che il libro fosse scritto da Pietro Verri.
La Redazione.
42 RIVISTA GONTBUPOBANBA
razione gOTernativa per favorire ed appaiare i matrimonii!. . . . Ma
ricordiamoci che allora la scienza era bambina.... Ed era molto se il
Bbcoabia e i Ybbbi, sebbene non sempre attingessero il vero, abbiano
però saputo rivolgere l'attenzione degl'Italiani su questa utilissima
scienza. ~ Intanto il Bbgcabia esercitando incarichi governativi, con-
sigliò l'abolizione dei calmieri, capendo sin d'allora ciò che molti oggi
non hanno ancora capito. E sostenne lo svincolo delle maestranze, e
le tasse a cui esse eran soggette, suggerì di compenetrare nell'im-
posta generale. Scrisse contro il lotto; e insisteva perchè in tutta
Italia si riducessero ad uniformità i pesi, le misure e le monete; e
prima dei Francesi suggeriva la divisione decimale, proponendo per
base un summultiplo d'una grandezza geografica.
Quando si nomina la moneta, tutti ricordano le trufferie ispirate ai
principi dalle esagerazioni del diritto romano, come pure gli studii di
LoKB e Newton su tale argomento; ma non' tutti sanno con Cantù
che prima di Loke gl'italiani Bandini e Montanari e ne sq)pero per
lo meno altrettanto >. Nessuno poi^ soggiunge lo stesso Cantù, < avea
€ . discussa questa materia con tanta concisa chiarezza quanta il Bec-
€ caria ». (ite^. 140). — Questi son vanti.
Ed eccovi sbozzata la grandezza del filosofo milanese.
Prima di Cbsabb Cantù, avea l'Italia mai prestato un giusto
omaggio a un si grand' uomo?... Dissi che gli Enciclopedisti francesi
battezzarono il nostro quale filosofo sommo... Ora come gl'Italiani
cessarono dallo zittire il nepote di Bb(Xiabia, Albssandbo Manzoni,
sol quando questi fu mitriate da (}6thb — medesimamente sarebbe
poi tanto inverisimile che la celebrità dell'avo si diffondesse per
l'Italia sol dopo che questi fu canonizzato dai Francesi?...
Non mi scagliate in sulla testa la pietra, perocché le sono dure
verità!... Il libriccino fu confutato in Italia come la cosa più sata-
nica del mondo. — Baretti lo chiamò un libraccio scritto assai
male. E quando non si potè più negarne il merito, si disse che quel
lavoro era opera del Vbbbi !! E se questi fatti si volessero chiamare
speciali, ricorderò che quando l'Italia perdette Bbcoabia, nessuno
qui se ne accorse!... Nessun giornale annunziò la pubblica scia-
gura'... Non una necrologia!... non un'epigrafe!... non un canto!...
non una statua!... L'oblio!... seppur l'oblio fosse in man degli
ingrati!...
Era tempo che anche qui un altro grande scrittore rendesse piena
sebbene postuma e serotina giustizia alla memoria del grande ita-
liano!... Questo fece il perseverante Cesabb Cantù in una lunga
monografia da cui è preso il meglio di quanto ho scritto sin qui.
— Ora fra il silenzio dei giornali, io, ultimo di tutti, dopo aver
disegnato Teroe, parlo dell'epopea.
ossebvàzioni sttl bbcoaria b il dibitto pbkalb 4S
Della quale ecco il sommario : Antico stato della legislazione pe-
nale. — Le prigioni. — Le pene. — Cominciamenti del Beccaria.
— Condizioni dell'Italia, specialmente del Milanese. — H Caffi. —
Dello stile. — I protettori dei carcerati. — La tortura tra gli an-
tichi, e nell'evo cristiano. — È combattuta e regolata. — Applausi
e contraddizioni al libro i€i delitti e delle pene. Il Fachinei — Gli
Enciclopedisti. — Il patto sociale. — Il diritto di punire derivato
dalla difesa. — Misura delle pene. — Consensi e dissensi del Bec-
caria. — Suo viaggio a Parigi. — Suoi sentimenti sulla famiglia e
sulla proprietà. — Lezioni d'economia. — Sulla moneta. — Sulla
popolazione. — Applicazioni ufficiali. — Suo carattere. — Sue rela-
zioni coi potenti. — Sua fine. — Discussioni intomo al suo libro.
— Criminalisti contemporanei. — Discussioni d'ufficio sul diritto
penale in Lombardia. — Riforme introdotte quivi e altrove — Il
diritto penale nella rivoluzione. — Valutazione finale del BbccahiaI
— Teoriche e applicazioni posteriori.
Accenno ora a quei passi, sui quali andrò successivamente ba-
sando le mie osservazioni. — Cantù vi cita i più rilevanti testi degli
antichi Romani intorno al diritto penale e alla tortura; vi dice qual
fu il primo libro che combattè l'uso di questa pena: Martin Ber-
nardo sin dai primi tempi del cristianesimo : De tortura ex /oris
chriitianomm proscribenda ; vi dice quale il giureconsulto (Grbvio)
che prima di Beccaria ne dimostrò la iniquità e la fallacia — come
pure quale fu l'ultima volta in cui la tortura venne applicata. —
Innumerevoli sono gli autori citati in quest'opera. Che se v'ha un
criminalista degno di non essere posto in oblio, qui è menzionato.
In questo libro la storia del diritto trova tesoro di nuove co-
gnizioni.
Cantù frugò negli archi vii, e in un appendice vi porge tutto
quanto d'inedito Beccaria lasciò scritto intorno al diritto penale,
nella relazione che stese per incarico governativo; come pure ci dà
un compiuto elenco e un sunto di tutti gli altri scritti inediti dello
stesso Beccaria, mostrando i difetti della migliore edizione del Le-
Monnier. — La conoscenza di questi ed altri documenti pubblicati
ora per la prima volta, riesce tanto più preziosa, in quanto che si
dee a Cantù se furon dessi salvi dall'oblio. E in vero, dopoché il
sommo storico ne trasse copia autentica — quelle carte andarono
perdute!...
Termina l'Appendice col libro Dei delitti e delle pene. Ma non
dubitate! Cantù segue la migliore lezione — segna i passi, che
Beccaria aggiunse alla prima ristampa — e quelli annessi dappoi
— più dà le varianti desunte dall'autografo. Con che si sparge luce
sul supposto che l'autore dì quel libro fosse il Verri — e su alcuni
44 BIYISTA OONTEMPORANBA
passi che soli forse debbono al Verri attribuirsi, e che possono pa-
rere contraddittorii con altre proposizioni di quel trattato.
Questi pochi fatti indicano, ma non bastano a misurare la ric-
chezza d'erudizione, che prima si rivela ai lettori, ma che è certa-
mente l'infima dote di si buon libro.
Cantù, come nelle dottrine storiche, cosi in queste forse più
difficili del diritto penale, afl5.sandosi ai principii più puri, respinge
le teoriche del Beooaeia che si fondano sopra il delirio allor domi-
nante dell'origine della società. Appunta il Bbocaeia là ove questi
si oppose alla interpretazione della legge, ed enumera logicamente
i casi in cui essa può riuscir utile e necessaria. Nota gli errori eco-
nomici del Beccaeia; e concedendogli nella riforma della giurispru-
denza criminale il merito dell'efficacia, non gli attribuisce tutto
quello della priorità. Insomma Cantù ammira insieme e discute,
ma non è mai l'idolatra del suo eroe.
Biasima i codici che pretendono dal reo il suicidio della confes-
sione. — Ricordando forse come sottile sia la linea che divide la
scelleraggine dalla demenza, impone al gius criminale, sin dove è
possibile, l'obbligo d'attinger luce alla fisiologia e all'indagine delle
idiosincrasie. — Tra le difficoltà che aflfaccia la pena di morte, pone
in antitesi l'indignazione verso il carnefice, la pietà verso il suppli-
ziato, e l'indifferenza sul conto degli esecutori militari — e termina
il libro, epilogando con bellissima sintesi quanto è a dire su questo
argomento. € Come può avventarsi la testa, la testa d'un uomo,
« d'un cristiano a un altr'uomo stipendiato per reciderla o lussarla?
€ come a un giudice fallibile competono sentenze che non si possono
« più revocare? come all'uomo collocato sulla terra ad espiare e
€ meritare, si infliggerà una pena irreparabile, di cui non solo può
€ esser fallata l'applicazione, ma è posta in dibattimento la legitti •
€ mità? »
Ma sarebbe impossibile addur qui tutte le massime che in questo
libro meriterebbero d'essere seriissimamente ponderate dai giuristi,
e adottate da tutti i governi, perchè son quelle della giustizia! E
mentre io stava per scriver tanto, sento che tale è pur l'opinione
di scienziati ben più dì me competenti !
Se occorre un bell'atto del governo austriaco, Cantù noi tace;
come non tace che Howard trovò le prigioni dell'Austria « valer
peggio della forca »; come se gli viene il destro non risparmia un
biasimo a quei governi, che, pretendendo all'infallibilità e onnipre-
senza di Dio, s'immischiano in tutto, puntellati dalla impolitica, in-
terminabile gerarchia degl'impiegati. Là ove mostra che per l'effi-
cacia del cattolicismo la sesta opera della misericordia corporale fu
praticata con vero sollievo degl'infelici, nulla lo arresta dal dire:
OSSBRYAZIONI SUL BBCCABIA B IL DIRITTO PBNALB 45
i V'è qualche arretrato che simili opere crede non meno merite-
€ voli alla società che un'interpellanza al Parlamento ! > Oh! ne
ahhiam visto di cosi calunniose e scipite !... Ma è questa Timpar-
zialità che (dopo il genio) più nuoce al grand' uomo !!... ^
Ed oh come anche qui , giudicando i due secoli , Tun contro
l'altro armato, egli serba sempre il giusto mezzo!... Come ponderati
i g^udizii sui più difficili problemi sociali ! Che vere pitture qua e
là!... che alti concetti ! che utili ammaestramenti !... CANTÙnon lascia
d'ossesvare come Robespierre e Marat cominciarono la loro carriera
politica pubblicando scritti contro la pena di morte!... e giunti al
potere proposero d'abolirla!! Nolite^ QuiriteSy hanc savitiam diutius
pati!! E cita quel detto di Carrier « Mi fanno spavento le nuove
« faccio che ho visto, e le proposizioni che si susurravano. Mostri !
e vorrebbero spezzare i patiboli! Chi non vuol la omaLiOTiNA?...
e quei che ne son degni!... Un*iNSURRBZiONB!... una santa insurre-
c zione bisogna opporre a questi scellerati! » La è storia vecchia!...
ma qui raggiunge il sublime più culminante!!... Le aberrazioni
deirintelletto e del cuore!... Ecco onde si trae dai fatti storici la
massima utilità!...
E a questa utilità mira dritto il Cantù, anche là ove minuta-
mente analizza la lotta che il Beccaria ebbe a soffrire, pagando il
sacrilegio d'essere novatore!
In questo libro si leggono molte lettere, in cui il Beccaria sve-
lava alla prima moglie le sue affezioni , le sue debolezze e i più
reconditi sentimenti! Poco resta della vita intima del grande crimi-
nalista; perocché vedemmo che i contemporanei italiani non si cu-
rarono di scriverne verbo!... Ma Cantù comprende quanto tale no-
tizia giovi alla storia del sapere, alla scienza dell'educazione; e co-
me egli nella Enciclopedia storica, a costo di sacrificare la storia
civile, svelò tutto l'intelletto, tutto il cuore di quell'essere che si
chiama l'umanità; medesimamente in questo libro, per quanto oggi
ne resta, egli dipinse insieme collo scrittore anche l'uomo, tutto
l'uomo!...
Insomma voi trovate in questa monografia l'individuo e il suo
secolo — le idee e gli effetti. — E tra i lavori di simil genere, po-
chi sono compiuti come questo, che io porrei vicino a quell'altra
grand' opera Della vita di Dante^ scritta dal buon Cesare Balbo.
Non dissimulo le mende; né mi associo all'autore là ove asserisce
{pag. 36) che noi siamo generazione di polita medie, e ci fermiamo a
mezzo della via che i nostri padri con miglior logica battevano- sino
alVnltime conseguenze, — Le voci di Pier l'Eremita — e di Vittorio
Emanuele trovarono un'eco poco diverso, Pure noi abbiamo qualità
46 BIYISTA GONTBHPOBANBA
inedie^ si, se volete, non per viltà di natura, ma perchè appunto la
logica pUb squisita smorza le precipitazioni dell'entusiasmo.
Neppur credo tremendi i problemi delle macchine, delle gigantesche
manifatture e de' cambi intemazionali (pag. 132) (1). Se Cantù intende
deplorare questi jirovati unicamente perchè possono accrescere e creare
dei nuovi bisogni fìttizii, io di buon gradq sono con Lui. Ma Teco-
nomia insegna, la società essere il cambio ; e trova assurdo il dire
che s'impoverisca, perchè aumentano le ricchezze prodotte dalle mac-
chine, e scema Futilità onerosa!.. L'Economia prova piuttosto che
anche la prosperità dei pochi ridonda a vantaggio di tutti.
Leggo a pag. 144 : « Quando lo spirito di comunità consideravasi
€ per un vìzio, e sacrifìcavasi all'egoismo mantellato di bene gene-
€ rale, non si pensò correggere le maestranze, ma si distrussero ».
Chi conosce la storia delle maestranze , e ricorda i ridicoli e iniqui
privilegi, pei quali al povero operaio si proibiva il diritto più sa-
crosanto che possa aver l'uomo, la libertà del lavoro y non troverà
poi in me tanta improntitudine, se avrei amato che Cantù esprimesse
esplicitamante come crederebbe si avessero dovuto correggere le mae-
stranze. Àvrebb'egli desiderato a prò degli operai la scambievole
e VOLONTARIA comunanza delle cognizioni?... Nulla di più utile e
santo ! -^ Ma non cosi, se fosse stato pronto a comprare questo van-
taggio colla coercizione di chi avesse amato d'isolarsi. È questo ciò
che lede i diritti di natura... E dal contesto, e più dal confronto
con altri passi {fagg. 145 e 310) sembra, a dir vero, che Cantù
prenda la cosa nel secondo senso. — E chi apporrebbe, con lui, la
demagogia e il comunismo alla dissoluzione delle maestranze?...
Se il libro procede quasi sempre con chiarezza, evidenza, efficacia,
i passi da me ultimamente citati, e pochi altri, mostrano come qua
e là sguaglino queste doti. Senonchè osservo che il linguaggio di
Cantù riesce dubbio, non per manco d'arte, ma piuttosto perchè
qualche volta indeciso è l'intelletto dello scrittore. E questi è forse
indeciso men di rado in Economia, la quale non è la scienza di lui,
sebbene ei sia scolaro del BoMAaNOSi, e anche nelle cose economiche,
e perfino in questo medesimo libro, e più forse nelle storie, porga
di quando in quando bellissimi ammaestramenti conforme ai più sicuri
canoni della scienza.
Ho serbato per ultimo alcune riflessioni sopra il principio supremo
(1) La voce tremendo non implica disapprovazione ; né qui né altrove il
Cantù disapprovai progressi della meccanica e le applicazioni della sciènza.
Basta guardare i suoi libri pei Bambini. Ma il problema delle macchine
e delle manifatture resterà pur sempre il più tremendo della nostra età.
La Redazione,
OSSBBYAZIONI SUL BECX)ABIA B IL DIBITTO PBNALB 4U
del diritto di punire. A tal fine premetto un cenno dei prmoipali tra
gl'innamerevoli sistemi, secondo le formule citate da Gantù.
« I giuristi romani non parvero alla pena prefiggere altro icopo
che l'intbrbssb dello Stato e l'esempio. Giustiniano , Not>. xvn
€ Punisci seyeramente , onde il supplizio di pochi salvi tutti gli
ALTBI >.
Sbnboa disse € tre fini proporsi la legge : Temendazione del reo
— un fbbno ai delitti — la pubblica tranquillità. >.
Se nel medio evo siasi pensato in fatto di giurisprudenza crimi-
nale, n'abbiamo avuto sentore di sopra.
I filosofi del secolo passato si attennero al diritto di difbsa contro
le USURPAZIONI dei tristi. Cosi il Bbcoaria sentenziava ricisamente:
— Unica e vera misura dei delitti è il danno fatto alla Nazionb. —
€ Questa è una di quelle palpabili verità, che... non han bisogno
€ nò di quadranti, nò di telescopii per essere scoperte, ma sano alla
e portata di ciascun mediocre intelletto > (§ xxiv).
Sonnenfels dà come fine della pena t il rattener altri dal oom-
€ mettere il mal morale (?) con la minaccia del mal fisico ». — Anche
nella pena di morte il legislatore e perdendo la speranza di correggere
e il delinquente, lo toglie alla società per privarlo dei mezzi di of-
€ FBNDBRLA MAOaiORHBNTB ».
Tra i voti fiscali citati dal Cantù leggo queste parole di Gabriele
Verri : « L'ultimo supplizio non dovrebbe irrogarsi, se non quando
€ nessun'altra coercizione basti a protb€K3ere i cittadini b rimuover
€ dal dblinqubrb I delitti ond'è più infesto lo Stato di Milano,
€ sono i furti, le aggressioni, atteso la prossimità di terre svizzere,
< gnrigioni , venete , sarde , dalle quali vengono pessimi uomini ad
e ASSALTARE E DEPREDARE ; sicchè negli anni precessi dovette rioor-
c rersi a procedure eccezionali ed esasperati supplizii. Qui dunqub
< NBCESSITA IL SOMMO RIGORE » (pOff. 220),
La Gfiunta criminale incaricata dal governo austriaco ad emettere
il suo voto nel 1792 intorno alla pena di morte, dichiara di non
volarsi attenere ai sistemi dei filosofi , parendole t che un oggetto
€ tanto interessante, dovesse essere rig^uardato sotto viste più cbrtb
€ B PIÙ sodb... Si riportò ad osservare se la pena di morte < possa
e BSSER UTILE AL FINE DI PROMUOVERE E GUARENTIRB LA TRANQUILLITÀ
c DEGLI UOMINI, c SO uou vi esseudo altri mezzi equivalenti, ne ri-
e sulti LA NBOBSSnl MORALE DI USARNE» {poff, 358-9).
Bentham statuisce oifgetto della legislazione l'utilità gbnbralb,
che impone di castigar U reo, onde prevenir nuovi delitti.
Heue trae il diritto di punire da ^uMo della propria conser-
vazione INERENTE ALLA SOCIETÀ. Il mantenimeuto dell'ordine b la
tutbla dbl DIRITTO souo Bcopi della penalità.
48 BIVISTA CONTBMPOBANBA
Tutti questi Scrittori più o meno coincidono nel seguente discorso:
I delitti sono un danno per l'individuo e per la società; è dunque
UTILE che siano puniti. — Solo le pene possono frenarli ; dunque le
pene son necessabie. ^
Danno — utilità — necessità. — Questa è la formola dei pub-
blicisti che diconsi utilitari!. Cantù la confuta qua e là. « Se l'uti-
lità, egli dice, fosse ]a norma del diritto di punire, sarebbe egli
« necessario assicurarsi della reità del punito? la pena inflitta all'in-
« nocente non farebbe ella effetto maggiore?.. » La necessità? « ma
« la necessità non origina alcun diritto > {fog. 287). Fa duopo adunque
attenersi al concetto della giustizia.
I santi padri « videro nella pena una riparazione, un debito che
e la GIUSTIZIA ha diritto di esigere da chi la violò > (jpag. 77).
Rosmini ammette il canone che € la causa volontaria del male dee
€ sopportarne la pena (?), il male morale e il male endemonologico
€ debbono QuiLiBRABSi (??)»: principio e che altamente mostrasi im-
€ presso nelle menti di tutti i popoli, trovasi in fondo di tutte le
< legislazioni, giace nella coscienza del genere umano ». (Il senso
comune !)
Sono poco dissimili De-Maistbe, Tappabelli e Libbbatobe che
fanno della pena « un male sensibile inflitto dalla ragione obdina-
« tbice per bestaubabe l' obdinb scomposto dal mal mobale »
{pag. 283). E l'obdinb poi <c consiste nel conservare fba le cose
« LE DEBITE PBOPOBzioNi. Il delitto c la ^t^ prosperità è im disobdine,
« che il SENSO MOBALE riconosco ed abborre : non potendo ripristi-
« narlo in una vita futura, la società dee bicompoblo nella presente,
« e con ciò adempie il suo dovere verso il delinquente, che ne resta
« incitato al bene; verso i consociati, nelle cui menti cobbegge il
e giudizio GUASTATOVI dalla colpa felice; verso il Creatore, sostenendo
€ LE NOZIONI DI GIUSTIZIA, sullc quali csso fondò la società, > {ivi eseg.).
Quest'ultimi scrittori concordano in ciò: La giustizia vuole che
chi ha fatto il male faccia la penitenza, e possono dirsi scrittori
SPiBiTUALiSTi ; e la giustizia è l'idea predominante del loro sistema.
Nobili, alti sono i loro concetti ! ma attingeteli alle fonti, massime
di Tapparelli e di Liberatore, e troverete continuamente un che di
dogmatico, un fare d'enigma ! — Asserzioni gratuite, immaginarie
che insomma son vebe, ma non ben definite.
Ecco dunque due scuole: Tuna della pena difeiisiva, o della
UTiUTÀ. — l'altra della pena vendicativa, o della giustizia. —
Osservo che alla prima appartengono uomini di pratica, Sonnenfels,
Beccabia, i giuristi romani, i voti fiscali ecc. — Alla seconda ap-
partengono gli ascetici principalmente.
Io qui poi non ho recato che alcune delle formule principali. Ma
06SBBVAZI0NI SUL BBCCAKIA B IL DIRITTO PBNALB 49
i nomi d'uomini illustri nelle due scuole sono senza fine. — Qual
delle due ha vinto?... Nessuna ! — e Cantù è costretto a confessare :
e Lo studio delle verità morali c'illude per l'apparente facilità so-
€ migliante ad erboso clivo, chb poi ci avviluppa in labirinti dove
e più non trovasi l'uscita: né all'uomo fu accordato raggiungere
« IN quelle la suprema, da cui dedurre conseguenze ineluttabil-
C MENTE adottate DA TUTTI GLI ESSERI INTELLIGENTI. Ed Una OVO
« più semplice sembra la soluzione col senso comune, mentre ine-
€ STBiCABiLB RIESCE coll' ARGOMENTAZIONE , è la scìeDza Criminale,
€ RIMASTA la PIÙ IMPERFETTA DELLE LEGALI, E BEN DISCOSTA ANCORA
€ DA QUEL CARATTERE DI NECESSITÀ. LOGICA , chc alle leggi morali
< imprima un carattere altrettanto assoluto e indessibile quanto alle
e dinamiche i {fOff 278).
Onde avviene che dopo tanti sforzi di tanti insigni intelletti, si
sia riuscito a così meschino risultato? — La risposta è lunga ed
ardua! — né io posso tentare di dame un sunto, se non dopo Tor-
goglio d'avere esposta a modo mio la dimostrazione del principio
supremo del diritto penale.
B- sono costretto a cominciare dalla morale, ove esistono pur le
due scuole, né più nò meno come nel diritto.
Gli uomini ricevettero da Dio la vita e la libertà ; e poiché son
dessi gli esseri più sublimi della creazione, risulta che la terra coi
suoi tesori ò da Dio donata agli uomini, e non ai bruti.
Ciascun uomo poi é padrone deWh, p/'opria forza, ie\ proprio ingegno,
della propria operosità. Ora quando il primo occupante ha dissodato
un campo, l'ha coltivato, seminato, sparso del suo sudore e del sm
sangue, tracciati i confiini, preparati attrezzi, alzate fabbriche; se altri
potesse impunemente spogliarne i frutti, e cacciare il coltivatore,
nessuno vorrebbe più sfruttare la terra a prò degli oziosi. Gli uomini
cadrebbero nella vita selvaggia ed in continua guerra.
Quando invece si rispetti improprietà^ il mondo si civilizza.
Dio creò la terra per tutti gli uomini — è vero — ma se un frutto
fosse di tutti, non ne godrebbe nessuno. Dunque non ci ha via di
mezzo : p la vita selvaggia — o lasciare a ciascuno il frutto delle stie
fatiche.
Ecco l'origine del mio e del tuo.
Ogni uomo adunque ebbe in dono da Dio : la propria vita — la
propria libertà — i frutti dei proprii sudori — tre cose che a rigore
ne formano una sola: la proprietà.
Ciò é ammesso da tutti; e con poca diversità, perfino dagli atei
e dai comunisti!
Ora, si dice che commette yinHngiustizia chi disturba la triplice
altrui jpropwtó — Ingiustizia?., che cosa è quest'«t/« metafisico?..
SivUta a - 4
60 RIVISTA CONTEMPORANEA
Ecco la risposta : Chi disturba la trìplice altrui proprietà manomette
i doni divini — non è pago d'esser padrone d'una vita — d'una libertà
— d'una proprietà — vuol essere padrone di due^ dì tre, di quattro.
— Insomma vuol far da Dio: —Volere, o non volere, V intelletto umano
afferma che questi atti sono un disordine, — Che se il prepotente
fosse tuo figlio, e tu noi correggessi, noi frenassi, noi punissi, Vin-
telletto umano affermerelibe che hai commesso un disordine tu pure.
La sapienza di Dio ab eterno vide simili atti ; e se V intelletto umano
afferma che sono un disordine — - e disordine il non frenarli — molto
più la sapienza divina^ che è perfetta infinitamente più dell'intelletto
umano.
Ebbene — le due affermazioni dell'intelletto umano sul disordine di
quegli atti^ e le due affermazioni (lasciatemi dir così) della sapienza di
Dio — queste, e nuiraltro, costituiscono la giustizia.
Ma perchè Tintelletto umano e la sapienza divina trovano in quegli
atti un disordine *ì,... Perchè Dio è superiore — e Tuomo è inferiore
— perchè è Dio che creò la natura, e non l'uomo — è Dio che donò
a ciascuno la vita e la libertà, e non l'uomo — perchè gli uomini
sono eguali — perchè le fatiche e i sudori degli uni non sono l'opera
degli oziosi — perchè chi affermasse diversamente, affermerebbe un
errore.
Cosi la quistione essenziale della giustizia è ridotta ai minimi ter-
mini. — Eppur non è tutto — e quel che resta è l'elemento più im-
portante, non in se stesso, ma per l'imbecillità dell'umano intelletto.
Il mio vicino ha un campo coltivato a frutti e vigneti, dal cui rac-
colto egli trae utilità e piacere* Io entro in quel predio, ne piglio i
frutti, ne estirpo le piante, ne sbrano le viti. Se in grazia di questo
saccheggio, quei frutti, quelle viti, quegli alberi si riproducessero,
crescessero più rigogliosi di prima, e il mio vicino acquistasse un tri-
plice ricolto, se cioè io non gli arrecassi alctm danno^ mi dicano
Cantù, e Mamiani, se nessuno si sarebbe mai sognato di asserire
che la mia azione è ingiusta ! I Se ferendo, avvelenando , uccidendo
alcuno, io gli centuplicassi i piaceri di questa e dell'altra vita, sfiderei
Rosmini a provarmi che il ferire, l'avvelenare e l'uccider^ fossero
ìin' ingiustizia !
Questi eseropii sembreranno puerilità, ma Rousseau dice assai bene
esser difficile il filosofare sulle cose che tuttodì ci stan dinanzi agli
occhi!.. E* questi esempii le dimostrano sotto un diverso aspetto.
Ed ecco ove sta la divergenza delle due scuole in morale. L'una
s'afiisa alla sapienza di Dio che abeterno vide l'ordine, e lo comandò ;
vide il disordine, e lo proil;»!. Questo è l'essenziale. — sclamano i
seguaci. — A che curarci del resto?.. Possiam ben curvar la testa
dinanzi a Dio. — E perciò questa scuola poco o punto si cura delVu^
OSSERVAZIONI SUL BECCARIA B IL DIRITTO PBNALB 51
tUUà^ del danno, del piacere e del dolore, lordure da sensisti, fango,
sterco della misera nostra terra!
Questa scuola ha ragione — ma è monca.
L'ordine e il disordine?... Avete voi mai analizzato queste idee
sino al fondo? — Provatevi, e vi troverete nel nucleo, insieme colle
idee di convenienza, di proporzione... anche quelle deWutUità, del
piacere, del danno e del dolore!
Ma questa scuola non ha mai voluto dir sillaba di là dalla sin-
tesi ! — E che ne avvenne ? — Fu fraintesa ! — Molti filosoft sdegna-
rono quel garbuglio a priori, altissimo, astrattissimo, enigmatico,
che posto così da se solo non significa nulla... — E son da scusare
se nauseati di tante astruserie, rivolsero gli occhi ai bisogni del-
l'uomo, ai piaceri, ai danni, ai dolori. Così sorse la seconda scuola,
che anche in morale si chiama degli utilitarii, e che disse la giustizia
essere VuiUUà.
Questa scuola nella parte affermativa ha ragione anch'essa —
ma anch'essa è monca. — Fu intesa? Nò; perchè sebbene faccia
parte di quei filosofi che da un secolo urlano analisi, pure anch'essa,
come loro, analizzò ben poco. Se avesse analizzato, si sarebbe accorta
del suo difetto — e specialmente poi avrebbe precisato di quale ben
intesa utilità aveva in animo di ragionare.
Unite la terra al delo (ma prima la terra) e avrete la formula
completa : 1* È utilb, dà piacere a ciascuno, e ridonda ad utile
e a PIACERE di tutti che si rispetti la triplice proprietà di ciascuno. —
viceversa è danno , reca dolore a ciascuno , e ridonda a danno e
a dolore di tutti che si violi la triplice proprietà di ciascuno. —
2* Dunque il rispettare la proprietà è ordine — il violarla è disordine;
dunque Dio abeterno ha comandato di rispettare la triplice proprietà
— HA proibito di violarla.
Per doveri d'altra specie, Aiassime verso Iddio, occorrono diverse
dimostrazioni, di cui qui non mi occupo per brevità.
Certo che la seconda parte della mia formula è la essenziale —
certo che essa sola basta alla sapienza di Dio; — ma l'intelletto del-
l'uomo vi arriva sol dopo aver salito i gradini della prima parte.
— Sol dopo aver visto il danno che reco al mio vicino saccheggian-
dogli il campo, io mi accorgo che Dio proibisce il saccheggiare i
campi altrui !
Si dirà che le due cose furono dette anche prima. — Sì — ma
troppo sinteticamente — ma più separate che unite — ma unite in
modo così oscuro che l'unione non sembra sincera. Anzi per non
essersi ben marcate le due cose, non vi è neppur un trattato di Etica
classificato logicamente. Io vi ho speso molte fatiche, ma ignoro se
potrò mai venire a capo di nulla.
52 BIYISTA CONTBMPOBANBA
E posta la doppia formula in morale, parmi che limpida emani
anche la genesi del diritto penale :
l"" La sociBTÀ col suo organismo di magistrati lascia che gli uo-
mini si perfezionino pacificamente , donde innumbbbvoli utilità e
piACBBi — allontana gli ostacoli, cioè rimuove innumbrbtoli danni
e DOLORI. 2"" Dunque l'intblletto umano affbbma che nella dociBTl
col suo organismo sta Tobdinb, nella dissoluzione di essa il disor-
DiNB. Dunque Dio vide abeterno e oouàndò l'obdinb della socibtà
col suo organismo, e proibì la dissoluzionb di essa.
La società è interesse di tutti ; ma non tutti gli uomini compren-
dono i veri loro vantaggi ; non tutti sanno che la vera utilità è la
giustizia, e credono che tomi loro il conto a violare l'altrui proprietà.
Se costoro si lasciassero impuni , le prepotenze crescerebbero , lu-
singate dalla fiiomentanea prosperità — più apparente che vera anche
in questa vita ; e così in breve si dissolverebbe quella società che è
comandata all'uomo da Dio. — Se invece magistrati imparziali to*
gliendo ai tristi la libertà o la vita, Incutono spavento; bilanciano
il PiACBBB del delitto col dolor della pena e, come si vede in effetto^
salvano la società.
Ma badate. Dire: si rispetti l'altrui proprietà "-il comando è amo-
revole, innocente, utile per tutti. — Dire : Se rubi, perderai la libertà^
se uccidi, morrai! — la cosa è ben diversa! Gli è per un danno re-
cato^ per un dolor patito^ minacciare un altro danno, uu altro dolore...
L'infliggerli sarebbe desso un secondo disordine? — No. -- è un danno,
un DOLOBB — ma un danno hinobb, un dolob minobb; perchè ò il
DANNO d'un sol BEO cho risparmia il danno di mille innocenti —
viceversa si salvebbbbb il solo bbo, perchè perissero mille innocenti.
Il colpevole imputi a sé se si è messo in questa alternativa. — E qui
viene l'argomento dell'ingiusto aggressore ; e il ritorno al passato in
riflesso deUavvenire. — t Un avvenire contingente y> sclama Cantù.
— Sì, rispondo io, ma di tal contingenza, che è moralmente certa,
sinché il cuore umano sarà cuore umano! — Con questa contingenza
io potrei propinare il veleno all'amico, lanciargli il pugnale nel petto
nella lusinga che il veleno possa nutrirlo, e che l'epidermide spunti
la spada.
Dunque la pena è un dolor minobb, che magistrati imparziali
fanno infliggere al Beo per risparmiare maogiobi dolori agl'inno-
centi. E l'intelletto dell'uomo vede e afferma che l'impunità è
un DIS0BDINE — che la pena è obdine ; è la sapienza di Dio abeterno...
Adagio!., a' ma' passi ! — Quali pene?.. Tórre bììtmì la proprietà
colle multe , la libertà col carcere — la vita coli' ultimo supplizio è
cosa truce!.. E se per frenare chi viola l'altrui proprietà, se per sal-
vare la società^ vi fossero altri rimedii più sicuri e insieme più miti.
OSSERVAZIONI SOL BBOCASIA E IL DIRITTO PENALE 53
più equi?... non sarebbero stati questi, e non altri, abetemo intuiti e
comandati dalla sapienza di Dio?... — Rispondo : Intuiti, sì — coman-
dati, no! — Sonp seimila anni che Tintelletto dell'uomo non ha sa-
puto trovar nulla di meglio delle pene pecuniarie, del carcere e della
morte — senza queste pene vede disciolta la società — con queste pene
la vede salva. Secondo l'attuale progresso l'intelletto umano afferma
che le pene delle multe, del carcere e della morte sono wrCutUità
necessaria. Se fossero soltanto utili, Vuomo fallibile dovrebbe forse
astenersene... ma desse dall'attuale umano intelletto sono ritenute
anche necessarie, cioè come condizione, senza di che la società crol-
lerebbe. Ebbene, Dio che abetemo ha comandato all'uomo la società,
gli ha comandato adunque anche quei mezzi, che l'uomo stesso nella
sua intelligenza limitata vede i soli capaci a conseguire il fine voluto.
Beco la NECESSITÀ che Romagnosi e^ge, e che a me sembra
giusta, non a Cantù.
B cosi è in salvo il progresso; perocché se dimani si provasse
coU'esperienza e la ragione che il carcere penitenziario bastasse a
impedire i delitti — questo sistema, e non altro, sarebbe comandato
all'uomo nell'epoca veniente dalla sapienza divina!
' Ma un sovrano ha anche il dovere di restaurare V ordine rurale
scompigliato dal delitto^ 11 reo deve ad ogni modo . espia/re la
colpa?,.. Ottimi fini della pena anche questi! Ma sarebbe assai bene
che r intelletto umano potesse infiltrarsi nell'interno del delinquente,
per scrutarvi, come fa l'occhio di Dio,
Ogni labe dell'alma ed ogni ruga
prima di persuadere che si dovesse infliggere una delle tre pene
attuali per servii* solo a questi due fini ! !... No ! no ! troppo grande
è là, fallibilità umana^ troppo diverse le educazioni delle classi, troppo
terribile il mistero delle idiosincrasie, troppo numerose insomma le
cause che sminuiscono, chi sa fin dove! la responsabilità dell'infe-
lice colpevole; perchè si possa infliggere una pena altro che per
necessità/
Vero è che la £allil!iltà umana nuoce contro a qualsivoglia si-
sterna, e quindi anche a quello della necessità ; sì ; ma se finora la
scienza non sa calcolar tutto, ed è possibile un fallo, che colpa ne
ha l'uomo se mette in pratica tutto quanto sta in poter suo, perchè
la pena cada sempre sul reo —sull'innocente fnai*l...*^ Necessità*^..,
Sapete che vuol dire questa parola?... Vuol dire che per l'impunità
la società verrebbe allagata di sangue, arsa di fiamme!... Per sal-
varla può ben morire colui, che —seppur fosse innocente — restando
tutti impuniti, e così illeso egli pure, ben presto verrebbe anch' egli
travolto e annichilato dalla impunità imperversante ! !
64 BITISTA CONTBHPOBANBÀ
ProYEtemi che altrettanta forza abbiano date sole le idee della
espiazione e della ristaurazione dell'ordine scompigliato Ma che
dico? n'hanno altrettanto, appunto perchè la pena npn sarebbe pena
se non fosse un dolore, cioè un'espiazione del reo ; e lo scompiglio
dell'ordine non sarebbe scompiglio, se direttamente o indirettamente
non cagionasse danno alla società. ~ Cioè, come ho detto, queste
due cose sono una sola.
Ora se nei di d'ulteriore progresso, le semplici riprensioni e il
biasimo della pubblica opinione fossero mai bastevolia frenare i
delitti, queste e non altre pene sarebbero volute da una giusta difesa,
dalla idea dell'espiazione e dal bisogno di restaurare l'ordine per-
turbato (1).
Cantù osserva che riducendo la pena alla semplice conversione
del reo, si nega ogni diritto di punire. — Ma no, dico io : questo
diritto vi sarebbe stato in addietro — vi sarebbe ora — e verrebbe
sostanzialmente modificato, se mai, in un'epoca ventura, quando la
scienza avesse insegnato a far meglio.
L'uomo non è forse tutto esperienze — falli — correzioni — e
progresso?...
Là ragione dell'espiazione e dell'ordine scomposto militano anche
pel maestro di scuola, e pel genitore. SI ; il padre — il maestro —
il magistrato, presentano sotto questa vista un'identica legge. Presso
i popoli civili è uno scorno se il pedagogo usi la sferza, o un padre
il bastone. L'amore, la dolcezza, la ragione, ecco l'armi comandate
loro da Dio. Ma l'arte d'educare i cuori è la più ardua dì tutte!...
e vi possono esser momenti, in cui l'intelletto del maestro o del
padre non sappia più a qual partito appigliarsi. Voi potete conge-
dare il maestro, biasimare il genitore — e, per quanto è in voi,
farete bene — ma Dio dall'alto ha forse permesso in quell'istante il
bastone e la sferza.
E anche qui la stessa scala di errori, di correzioni e di progresso
dal jm vitae et noecis fino alla Metodica di Rosmini !
E cosi è dei codici — cosi della pena di morte. — Quando in Ro-
magna il legislatore non sa più come salvare la società dagli assas*
sinii, se non minacciando la pena di morte^ questa pena è \xn*utUUà
necessaria e quindi giusta. Se in Toscana i delitti si frenano senza
l'ultimo supplicio, ivi la pena di morte non è più una utilità neces-
saria^ e quindi è ingiusta.
(1) Sui principii filosofici del diriUo penale apparve una dissertazione del
celebre Ad. Frank nella Revue Contemporaine del settembre 1862. E ci par
degnissima di attenzione. Cantù non potè ponderarla, come fece di tatto
le teorie prodotte in tal proposito , perchè usci dopo pubblicato il suo
lavoro. La Redazione.
OSSERVAZIONI SUL BBCCAJRIA E IL DIRITTO PENALE 55
Gli argomenti delle idiosincrasie degli inquisiti e della fallibi-
lità de' magistrati proverebbero forse che in un'epoca civile v'è l'ob-
bligo d'educare e d'istruir le masse, se si vuole tenere il diritto di
punire?... Io noi so — ma so che l'argomento è ben degno di seria
meditazione I
E badate che anche nel diritto a nessuno sarebbe mai venuto in
pensiero di credere nientemeno che Dio permetta si bandiscano pene
severe, e s'incarichi un giudice criminale che freddo vendichi l'in-
giuria d'un terzo, e un carnefice che eseguisca la sentenza; se prima
non si fossero verificati i dolori, se l'esperienza non avesse notato
gli effètti dell'impunità e dell'anarchia ^ nò più né meno come nel
caso d'un campo del vicino da me saccheggiato.
Finalmente concludo : 1^ I delitti producono dolori — l'impu-
nità accresce i delitti, e quindi i dolori — e il dolor massimo della
dissoluzione della società. Ora le pene addolorando chi ò responsa-
bile, risparmiano dolori agli innocenti, cioè salvano la società.
Beco il principio degli utUitarii. — 2° Dunque Dio che abeterno vide
E COMANDÒ l'ordine E PROIBÌ IL DISORDINE, E VOLLE PERCIÒ LA SO-
CIBTI, COMANDÒ ABETERNO AI SOVRANI IL DOVER DI PUNIRE. — BCCO
U principio degli spiritualisti. — E i due sistemi, come sono qui svi-
luppati, ne costituiscono uno solo, che è lo spiritualista non monco
ma compiuto^ se l'amor proprio non mi fa velo all'intelletto.
Dissi che le due scuole non si sono intese. Ora ne adduco le
prove. — Quando gli utilitarii accennano alla giustizia, e si affannano
a correggere chi la crede, secondo loro, € una cosa reale, una forza
fìsica, un essere esistente », siete certi che si oppongono agli spiri-
tualisti, ma scambiando un'idea per unasostanm, capirete che mo-
strano di non intenderli minimamente. E basti questo cenno, perchè
è li il punio della divergenza.
A provare poi che neppure gli spiritualisti hanno mai inteso gli
utilitarii, mi limiterò a terminare l'analisi del libro di Cantù. Forse
in questo Periodico tornerò su questa parte dell'argomento, parlando
dell'articolo di Manzoni sulla morale degli uliUiariL
Cantù in più luoghi ammette apertamente come fine principale
della pena sia non tanto provvedere alV avvenire, difendere la società^
guanto TespioaionCy U castigare i delitti perpetrati^ il restaurar Verdine
scomposto dalla iniquità. Quindi perchè Beccaru asserisce che « tutte
€ le pene che trascendono la necessità di conservare il vincolo sociale
f sono ingiuste di lor natura y^ (§ ii) ; Cantù gli risponde : i Qui il
e diritto di difesa mettesi a fascio col diritta di punire... La difesa può
« aver luogo solo in un pericolo instante, e cessa con quello, allora
€ appunto che comincia il diritto di punire t> {pag. 78). Gli utilitarii
si possono solo rimproverare d'avere frainteso, falsato, o negato il
56 EIVISTA OONTEMPOBANBA
concetto della giustizia. E qui Cantù colla scuola spiritualistica crede
che i due principii sieno Tuno all'altro repugnanti.
E rimprovera Bentham perchè statuisce « oggetto della legisla-
« zione l'utilità gbnebalb che impone di castigare il reo andepre-
€ venire nuovi delitti; bilancio di dolori e di- piaceri, segue Cantù,
« statuito il quale, se la società tema un delitto, potrà arbitrarsi a
€ QUALUNQUE FEBOCiA oudc prevenirlo, e pena la più utilb sarà la
« PIÙ ATROCE > {paff' 288). Lo spaventa» tutti sarebbe utilità ob-
NBBALE?... Oli spiritualisti dimenticano che volere VutUUà ffeuerde ò
la stessa cosa che volere la giustizia^ perchè Tuna non potrà mai
stare senza dell'altra; ed è per ciò che non intendono come gli utili-
tarii nella parte affermativa abbiano ragione!
Cantù fa questa dimanda a RoMAaNOSi a: Ma se fine della pena
« è la difesa indiretta e il diritto illimitato di conservare la società,
« è egli necessario assicurarsi della reità del punito? La pena in-
« flitta all'innocente non farebbe ella effetto maggiore? > {pag. 287).
Prescindiamo che il comparativo maggiore supporrebbe fosse palese
rinnocema - nel qual caso, dico io, la pena avrebbe effetto né mag-
giore, né minore^ bensì nullo e contrario. Ma quale stranezza, quale
arbitrio si è quello di credere che un autore come ilRomagnosi^
che parla di doveri, di morale , di giustizia^ di religione; nominando
poi la difesa possa intendere non la difesa fin dove è permessa dalla
morale e dalla legge di Dio, bensì V assassinio $ il martirio dett'in-
nocente?... Convien ben dire che in BoMAONoei la dimostrazione del
diritto di punire sia poco chiara, se un Cantù la frantende 1
Il fatto si verifica anche più esplicitamente là ove lo stesso Can-
tù rimprovera il Rossi, perchè vuole qual condizione della punibi-
lità d'un atto a il suo danno sociale , CAPOvoLaBMiK) (son le pa-
role di Cantù) le rispettive attinenze deWiiUerssse pubìUeo $ dMa
giustizia assoluta (che sono uimì sola cosa!). La limitazi<»ie era
arbitraria, come vago era il principio ecc. » {pag. 291) Ma viva Dio!
se ad un facchino è proibito di fracassarmi le ossa, s^ dee venir
punito perchè me le ha fracassate; è ciò forse perchè mi ha fatto
del DANNO, 0 perchè ho ricevuto delle cabbzzb?
RoHAONOSi e PfiLLBQBiNO Rossi parlano dell'uTiLiTÀ non sdo,
ma anche della giustizia, e Rossi anche più esplicitamente. Cioè
formano una terza scuola, che è completa, perchè unisce i due si-
stemi, e che potrebbe dirsi mista — mentre le altre due sono esólU''
me, ed in ciò false. Cantù ha, parmi, ingiustamente confutata la
loro parte utilitaria; non ha trovato in Romagnosi il neiso colla
igiustizia, in Rossi b ha giudicato debole e insufS^iente. Dunque
Romagnosi e Rossi non hanno saputo armonizzile abbastanza i due
sistemi; e perciò neppur essi furono intesi.
OSSBRVÀZIONI SUL BBOGÀSIÀ B IL DIRITTO PBNÀLB 57
Volete Tederò adesso se gli spiritutlisti si sono mai accorti che
nel noceiuolo della loro sintesi è racchiusa l'idea della utilità?...
Basti la seguente testimonianza di Oaktù c utilitI o ko, la società
e DSTB PUNIBB ¥KB SODDltBFABB LA GIUSTIZIA ASSOLUTA. Teorìa di
€ ELaKt, e dei teosofi accettata puramente dal cardinale PallaTicino
e Sfbrza, e con modificazioni dal Rossi, dal Mamlani, dal NioooLim,
( dal BoSHiNi, dal Tapparblli » {fog. 289, in nota). Utilità o not...
Quasiché la giustizia assoluta esiga ciò che è dannoso!...
Finalmente Gantù cita la teorìa penale {pag, 293 tu nota^ e off.)
da esso formulata nella necrologia per Romagnosi. Questo sob passo
basta a provare che Caittù poteva riuscire giuspubblicista come
chicchessia. Ma anche qui, com'era ben da aspettarsi, dopo aver
detto che la pena TBiins a ooksbbt^ab l'obdinb, soggiunge e il bbn
t BS0BBB, L'UTtLITÀ PUBBLICA, LO SPAVBNTO DBL MAL INTBNZIONATO,
€ LA COBBBZIONB DEL DBLINQUBNTB NB TBNeONO DI GOMSBOUBNZA,
€ non ne sono però né la oiusTiFiCAZioim Nà la causa » (Farmi
aver provato che si). Sebbene poi verso il fine della teoria scappi
fuori dicendo : < Za fiustma punitiva non opera se non quando sia
e violato un dovere; opbba pbl solo utilb dblla sooibtI; Bi*
e CHiBDB che la pena.... sia limitata quinci dall' imperfezione dei
t suoi mezzi, quindi dall'utilità dell'azione sua per oonsbbvab
e l'ordine della società ». Tanto ò vero che la verità esce peir tutti
i pori dell'intelletto, malgrado la forza dei sistemi!...
Ma per qoal formula del diritto penale si dichiara alfine Cantù?...
Anche in ciò resta indeciso. Però ricordiamoci che egli è storico e
non trattatista. Comunque poi, di questa indecisione e delle inesat-
tezze testé notate^ rimproveratelo, se volete; ma peniate prìma che
in qualche parte riprensibili furono tutti quelli che scrissero sopra
somigliante argomento.
Prescindendo da ciò, parmi aver provato che le due scuole non si
sono intese, e che non vennero intesi neppur Romaqnosi e Rossi,
sebbene eclettici, cioè spirìtualisti completi, massime il secondo.
La mia dimostrazione avrebbe fatto un piccol passo per conciliar
le due scuole?... Se così fosse (?) non mi chiamate eclettico, che mo-
vereste la mia suscettività. Se un passo avessi &tto, non sarebbe, no,
per virtù dell'eclettismo, ma per virtù dell'analisi. Non perché io mi-
nimamente sovrasti a nessun altro scrittore, ma perché mi sono
espresso con diverso metodo, guidato dal quale ognuno sarebbe per-
venuto aUa stessa meta. Per contrario, le dispute e i caippioni delle
due scuole furono interminabili, perché non porsero dimostrazioni
analitiche, senza di che gl'intelletti a vicenda non si intenderanno
gìanunai 1 Deh! si lasci una volta il funesto uso di offrire le teorìe
solo secondo l'ultima formula sintetica, locchò è certo l'espediente
58 BIYISTA GONTBMPOBANBA
più comodo, più istintivo per chi scrive, cioè per chi ha già percorso
l'intera via che guida a quell'altezza, ma che riesce affatto inintelli-
gibile pel lettore, cioè per l'intelletto che d'un sol passo dovrebbe var-
car la montagna. Deh! che gli scienziati, checché contro l'analisi dica
il Gioberti, tornino scrivendo a calcar la via su cui ha proceduto il
loro intelletto, e in breve non solo i criminalisti, ma tutti gli opposi-
tori s'intenderanno! ...
Se io potessi g^iungere (non con un solo articolo, per quanto etemo)
a provare questa fondamentale verità, crederei d'aver portato anch'io
la mia pietra!
Ed ecco quanto col rispetto di scolaro a maestro, ma senza idolatria,
ho creduto di dover notare intorno al libro di Cantù. — Oh! perchè
tutti gl'Italiani non rendono giustizia ad un tant'uomo?.. È forse colpa
il genio in questo paese?... Pensi l'Italia che in breve tempo morte le
rapiva un Rossi, un Gioberti, un Balbo, un Pellico, un Grossi, un
Rosmini, un Giusti, un Niccolini...., celebrità che basterebbero ad
illustrare non una generazione, ma un secolo intero!... Cantù è uno
dei pochi sommi superstiti!... Deh!... non si dica anche d'Italia, che
lapida i suoi profeti per lagrimarli estinti !!
Io, infimo di tutti, m'attacco a questo gran nome, com' edera s'ab-
barbica ad un muro che non vacilla all'urto dei venti.
Ferrara, 8 settembre 1862.
Antonio Solihan.
STUDll STORICI E AMIINISTRATIVI
A GASPARE FINALI
Mi proposi discorrere in una serie di articoli, lo stato, gli ordini
e le leggi, che nel quarantanove vigevano in Italia ; incominciando
dalla Toscana. Baccolsi con quanta più diligenza mi venne dato,
tutto che additasse ai lettori il posto che ciascuno degli Stati avea
fra gli altri della penisola, e quello a cui, tutti assieme, poteano
aspirare in Europa. E con ciò mi parve di conseguire due intenti :
volgendo per un poco le spalle al presente, pormi faccia a &ccia
col passato, studiarne i casi nelle cause da cui nacquero; e racco-
gliere come in uno specchio, quelle per cui undici anni dopo, la
patria nostra, superati gli impedimenti, si assise libera e concorde
fm le nazioni dell'Europa. A questo modo ammannendo la materia
dell'istoria, stimai non torlo nulla della gravità sua, ma aggiungerle
quel che, meglio di vani commenti, ne spiega le vicende. Dove in
lontana età il capriccio e la mente di un solo o di pochi, traevano
dietro a sé intere generazioni e prescriveano il corso degli avveni-
menti, oggi in certa qual guisa, viene egli tracciato dalle condi-
zioni, dagli ordini e dalle leggi, che raccolgoncf la lezione dei se-
coli, ed a popoli rinnovano il sangue, imprimono il moto. Allora la
storia era cronaca e n'avanzava: oggi è scienza: la quale, come ogni
altra, via via allarga l'ambito suo, allunga il compito, tanto che
non solo minacci invadere, ma porre a contributo, una dopo l'altra,
tutte quante le scienze. Se poi ella possa costringersi fra certi con-
tO EnriSTA CONTBICPOBANBA
fini, mentre è specchio di vicende , le quali nel cammino della ci-
viltà incontrano sempre nuove cause e recano effetti nuovi ; e se o
quando dovranno anche ad essa segnalarsi, ora non importa discorrere.
Chiederà taluno perchè io ricerchi le condizioni degli Stati d'Italia
nel quarantanove ; né mi addentri di più nel passato o m'accosti al
presenta. A me basti rispondere, che intendendo ora di ammannire
materia alla storia della rigenerazione nostra, rifeci i passi ed alla
metà del quarantanove mi arrestai, perchè mi parve, e questo dopo
lunga riflessione ho per convincimento profondo, che chiunque si
faccia a dettare storie di questi tempi, uopo è rimonti all'anno, né
lo passi, in cui fra disastri d'ogni maniera, si chiuse il periodo sto-
rico incominciato co' ristauri del quindici , e s'apri quello che non
potrà dirsi al termine prima che l'Italia abbia aggiunto a sé Venezia
e Roma.
Ora se da questa serie di articoli appariranno i guai che nascono
da tristizia di governo, da picciolezza di Stati, difformità di ordini
e di leggi e di umori , sicché il lettore benedica all'oggi e affiretti
coi voti il di in cui la patria nostra abbia compiuta la unità delle
leggi e degli ordini, e remossa ogni cagione di nuovi guai ; a me
parrà aver colto maggior profitto di quel che non isperai.
Intitolando poi a te questi studii, compiuti con amore e quella
diligraza che potei maggiore, intesi non tanto onorare in te l'in-
gegnò bellissimo , ma le virtù dell'animo : e porgerti pubblico testi-
mosto della rioonoseenza con cui ricambio Tamicizia tua. Sta sano.
Di Novara, 29 settembre 1862
Enbioo Pani Bossi.
STUDU 8T0BICI S AIOCINISTBATITI 61
I. .
DELLO STATO, DB«LI ORDINI E DELLE LEGGI DI TOSCANA
NEL 4849
somiiARio
I. Avvertenza. — II. Vive Toscana fra i rottami di tutti i tempi, di tatti i ragni ~ III. Del
Medici. — IV. Di Francesco di Lorena. ^ V. DI Leopoldo I. ^ VI. Di Ferdinando UI.
^VII. Dei Borbonldi. *- VIU. Dell'Elisa.-* IX. Ristauro del quattordici. — X. Di Leo-
poldo II, ultimo del Granducbi. — XI. Leggi civili. — XII. Leggi criminali. — XIII.
Leggi commerciali e militari. — XIV. Leggi di procedura. — XV. De' tribunali. ^
XVI. Leggi di Lucca. — XVII. DeUa giustizia amministrativa. — XVIII. Della gtafUtia
eeonomlca. — XIX. Deli' Ammfaittrazione ^ Comuni. — XX. Distretti. — XXL Circon-
darli — CempartimeotL — XXII. SUto. —XXIII. De' Ministri e del Consiglio di SUto.
^ XXIV. Condiaiool della Finanza. — XXV. Rendite e dispeodli. — XXVI. Riflesal
•oUe randite e sui dUpendli. — XX VU. Degli oidini della Finanza. -XXVIIL Epilogo.
— XXIX. Leggi sugli acquUll deUa Chiesa. — XXX. Uro vicende. — XXXI. Beni delU
Chiesa nel quarantanove. — XXXII. Istruzione del chierici. — XXXIII. Giurisdizione
e leggi ecclesiastiche. — tXXIV. Del concordati con Roma. — XXtV. Della istruitone
pubblica.— XXXVI. Della stampa. —XX XVIL Dell'esecdto. -- XXXVHL DelU marina.
XXXIX. De' trattati. — XL. Commercio e Industria. XLI. Livorno. — XLU. Contra-
rietà dell'industria e commercio toscano. — XLIII. Dell'agricoltura. — XLIV. Della
Maremma.
I. — Nell'anno 1849 anche Toscana, non meno dei vicini e lon-
tani Stati, avea sembianze di nave cui la tempesta avesse strappato
albero, vele e sartiame, e risospinta malconcia e sconquassata al
lido. Ora proponendomi discorrere ad una ad una le parti scampate
miracolosamente a quei flutti, mostrerò come a codici mancanti, sup-
plissero leggi senza numero , sparse in cento tomi , e a quelle di
soventi supplisse l'arbitrio, pianta del luogo: l'una contraddicesse
aU'altra, l'arbitrio a tutte : l'una propria sol di un comune, l'altra
di una provincia, l'arbitrio legge unica e universale : il numero degli
ordini vecchi e nuovi, causa di incertezze forensi, litigi fra i giudici,
primi a contendere pel diritto di giudicare: lunghezza di affari:
grossi dispendii per cui, nel nome della civile uguaglianza, la giu-
stizia era pe' ricchi, la ricchezza un privilegio, la povertà una colpa :
le pene non iscritte in un codice, sparse in migliaia di sentenze,
ccm varia ragione, or miti or gravi, sanguinariB mai: le t^gi mi-
litari tolte a prestito dall'Austria, le commerciali dalla Francia, prov-
62 RIVISTA CONTEMPOHANBA
vide queste, obbrobriose quelle. Varia la legislazione da Lucca al
resto di Toscana. Dirò come premii toccassero a immeritevoli, cari-
che ad inetti, ora arroganti, ora ligi, sospettati sempre: abito di
credere all'efficacia delFintrigo più che al valor della legge o alla
virtù degli animi. Mostrerò gli uffici senza numero, con potestà mal
definite: gli uni antiquati, altri ripiallati a nuovo^ o nome vecchio
a ufficii nuovi: sicché tardità letale nello svolgersi fra tante ruote
l'amministrazione dello Stato. Vedremo gli ordini del quarantasette
e quarantotto, confusi ad anticaglie : i resti del vecchio allato i prin-
cipii del nuovo: libertà e dispotismo: indipendenza e presidio stra*
niero. Mal securo lo Statuto, giurato dal principe, offeso dalla plebe,
in custodia degli Austriaci. I Comuni, macchine a spremer denaro,
non base della piramide che ha a culmine il principe. La provincia
dispersa nello Stato : lo Stato alla discrezione de' ministri : complice
loro un Consiglio in cui hanno seggio e voto per giudicar se mede-
simi : centralità massima, senza unità di governo. La stampa vedremo
paurosa degli Austriaci, incerta di sua libertà, di sua vita. Della
istruzione pubblica, pochi i templi, meno i devoti ; libera non protetta ;
alla mercè di privati. Non vigor di corpo, non nerbo di milizia: la
cittadina nelle vicende ultime disfatta, e qua e là inerme. Lo Stato
libero dalla Chiesa; suo tutore e intermedio con Roma: decreti e
voglie papali nulli senza il beneplacito regio : nuovi acquisti vietati,
gli antichi protetti, ma sottoposti a pubblici tributi : e nondimeno la
ricchezza della Chiesa smisurata, contennenda, insulto alla povertà
dello Stato. Vedremo maggiori delle spese le pubbliche entrate; dei
beni demaniali i debiti; maggiore dei debiti, non iscritti nò guaren-
titi, il discredito: ninna proprietà immune dai tributi: ripartiti a
segno: or.miti or gravi: refìrigerio scarso alla afflitta finanza. Mostrerò
come gli ordini economici, del pari che le leggi sui beni, persone, po-
testà della Chiesa, fossero la miglior parte dell'armatura dello Stato,
un tempo meraviglia de' stranieri, scuola anch'oggi a nostrani : come
alla libertà degli scambii contraddicessero le irrazionali gabelle ; allo
svolgimento della libera indùstria, privative, divieti e la picciolezza
del suo ambito : al mal vezzo di proteggere i traffici nell'interno, l'ab-
bandono in che erano lasciati all'estero: alla partizione delle pro-
prietà i cumuli del clero: alla dispersion de' fid ecommessi, le com-
mende di Santo Stefano: alla cultura del suolo, lo squallor della
maremma: alla sanità sua, lo sciamar degli abitanti, le opere mono-
polio del Governo, i miasmi letali, la inclemenza del cielo.
IL — Di queste difformità importa ricercarne la ragione nelle
cagioni loro, le politiche vicende, il succedersi de' governi. Il pie-
ciol Stato mano mano s'accrebbe di altri, per virtù di conquista:
la conquista sparmiò le loro leggi , e gli statuti , de'quali i vinti
STUDU STOSICI B AMMINISTBATIVI 63
rimasero vìgili custodi, quasi patrimonio di civiltà e di sapienza. Poi
in questo o quel luogo, le fazioni degli ottimati e del popolo fecero
e disfecero lo Stato. Quindi i Medici padroni e non duchi: poi i
duchi da Alessandro a Giangastone, e i Lorenesi e la Reggenza, o
i Borboni e i Napoleonidi, e poi di bel nuovo e Reggenza e Lore*
nesi, e i riformatori del quarantotto, e i triumviri del quarantanove:
tutti mutarono l'opera de' predecessori, ninno la distrusse: testi-
monio di impotenza a compiere o di paura a cancellare quella degli
antichi. E perciò le leggi eransi succedute a furia, alterate l'un
l'altra, rade volte abrogate : molti elementi di bene misti a cagion
di guai: questi e quelli sparsi in ogni luogo, e non prevalenti in
alcuno: maggior aopia di sani principi!, che di buoni istituti. Per
que' casi vivea Toscana, e tale visse per più secoli, fra i rottami di
tutti i tempi, di tutti i regni, siano essi repubbliche, reggenze, prin-
cipati, imperii : onde lo stato presente potea dirsi opera di tutti e di
nessuno (1).
III. — Nondimeno io dirò brevemente quali pezzi aggiungesse
ciascuno ad opera di tanti pezzi. Li moltiplicò l'indole de' governanti
crudeli o inetti, ora cupidi di dominio assoluto, ora di popolarità,
vaghi di progresso, poi paurosi de' sudditi e del progresso quando
l'uno e gli altri traevano innanzi da se soli. La repubblica infino
all'ultimo di avea serbato le forme del medio evo, correttele fra gli
umori delle parti ; al trionfo della nobiltà antica sul popolo nuovo o di
questo su quella, avea ristretti od allargati, gli ordini, non più stru-
menti di universale felicità, sibbene modi ad acquistare o serbare im -
perio. Per il che la Repubblica, scaduta di reputazione e di virtù, si
meritò ed ebbe i Medici, i quali fecero da padroni prima lo fossero;
e quando il furono non ebber più briglia di leggi né di costume.
Cosimo salito in ricchezza, comprò la potenza e morì pianto padre
della patria^ ei non d'altro pensoso che dì sé. Àvea comprata una
Repubblica, lasciò al figliuol Piero uno Stato, ch*era Monarchia meno
il nome. Tale ei lo mantenne: ove mancò ingegno supplì crudeltà,
e gli valse. Lorenzo non solo di Toscana fu padrone, ma de' casi
d'Italia bene spesso arbitro. Il figlio sfruttò lo Stato, lo cede
(1) Dante (Pur^. e. 6), cinque secoli fa, diceva della Toscana:
te che fai tanto sottili
Provvedimenti che a mezzo novembre
Non giunge quel che tu d'ottobre fili.
Quante volte del tempo che rimembre
Leggi, monete, offici e costume
* Hai tu mutato e rinnovato membre?
Nemmen questi versi fossero d'oggi, tanto paiono scritti per quel che .
avvenne in Toscana in questi ullirai secoli!
64 RIVISTA COKTBMPOBANBÀ
mezzo, lo perdo intero. Ai fhitelli, lo restituirono inteme congiure,
indizio di costumi rotti : qual si meritarono, quelli furono despoti e
crudeli. E il popolo, avuto un lampo di ardimento, se li toglie
d'addosso: armi straniere ve li riportano. Qui incomincia la serie
dei duchi. Ad Alessandro giunge a tergo, l'odio di un congiunto,
ed è spento. Cosimo balza in soglio, uccide i nemici : cauto e destro
sfugge le vendette : doma i vicini ; il principato accresce : le redini
raccoglie tutte nel suo pugno : detta leggi tremende ai sudditi, pun-
tello alla tirannide; e fonda lo Stato presente. Quella fu la mag-
giore perchè la più durevole, fra quante mutazioni avvennero in
Toscana : ove gli ordinamenti di Cosimo durarono quanto la discen-
denza sua, e nemmen tutti sparvero con essa.
lY. — A princìpi inetti e dissoluti — tali furono fino a Gianga-
stone(2) — seguono principi legislatori. Queste le buone o ree opere
loro. Francesco II duca, granduca e cesare, perde il ducato, abban*
dona il granducato a una reggenza, l'impero alla moglie. Pure diede
in Toscana il nome suo a queste riforme (3) : disarmato il Sant'Ufficio :
al poter civile restituita la censura de' libri: le usurpazioni e l'avi-
dità de' chierici, circoscritte : per nuovi acquisti si chiedesse il regio
assenso (4j: fiaccata la feudalità (5) : il suolo e i villici liberi da taluna
servitù : i fldecommissi (6) ed altri privilegi dei nobili (7) scossi :
favorito il commercio con trattati ; tolte nell'interno più linee doga-
nali; permessa, a mo' d'esperienza la tratta (8), poi la introdu-
zione e libera circolazione dei grani (9). A riscontro delle quali ri-
forme, e questa fu tutta opera sua, smunse il principato di denari
e d'uomini, secondochè i bisogni e le guerre dell'impero chiede-
vano (10) ; onde l'agricoltura per manco di braccia e la finanza ro-
vinarono : a sollievo dei sudditi istituì il giuoco del lotto (11) ; a
(2) I Duchi Medicei regnarono dal 1 marzo 15«>t2al 9 luglio 1737.
(3) La Casa di Lorena acquistò la Toscana in yirtii dei preliminari di
pace stipulati a Vienna il 3 ottobre, 1735,.art. II [V, Schoell Traités de
paix, tom 1, chap. XV), Francesco II regnò dal 1737 al 1765.
(4) Legge 11 marzo 1751.
(5j Editto 29 aprile 1749.
(6) Id. 22 giugno 1747.
(7) Id. 21 aprile 1749.
(8) Id 1739.
(9) Id. 2 aprile 1764.
(10) 7. Zobi, Mem. econ. polii, dei danni recati daW Austria alla Toscanat
t. 1, P. I, e t. 2| Dog. I-LX. — Importante pubblicazione eseguita di con-
senso col Gov. della Toscana. Firenze 1860.
(11) Editto 30 maggio 1739. Notevoli sono le parole con cui Giangastone
lo avea proibito. Cosi ne espose i motiyi (17 luglio 1732): « Introduce catti*
yissimi costami nei giuocatori che per provvedersi del denaro per esporlo
al lottO| scordasi del santo timor di Dio, e dell'onore ancora mondano,
STUDU 8T0RI0I B AMMINISTBATIYI 65
conforto della finanza appaltò i tributi (12) : e così la povertà , rotti
gli impedimenti, penetrò nelle città, sali le magioni de' ricchi, ri-
dusse al verde fin le casse dello Stato.
V. — Leopoldo! (13) abolì gli inutili magistrati e i tribunali di privi-
legio : diede libertà ai comuni (14): cancellò og^i immunità e parzialità
di foro, dritto d'asilo, pena dì morte, colpa di Stato, tortura, con-
fisca : il processo de' giudizii migliorò : le pene proporzionò alle colpe,
mitezza rara per que' tempi. Rendè liberi i coloni da vessazioni, le
terre dalle servitù; ogni vincolo imposto dalla prepotenza, mante-
nuto dall' ig^noranza , disciolse: le immunità reali disparvero: ogni
terreno sottopose a tributo, fino i suoi, fin quelli del clero, e lottò
quanto occorreva ad obbligare i recalcitanti,* a dar forza alla legge :
andò innanzi al padre vietatldo lo istituir nuovi fidecommesei, i vec-
ohi di8ciog^iendo(16): lo contraddisse riportando alla finanza i tributi
già dati in appalto: molte privative, del tabacco, del ferro, dell'ac-
quavite, il divieto di escavar miniere, diboscare, cercar tesori, coglier
sale, dogane fra città e città, disparvero : aperte nuove strade, sca-
vati porti e canali ; e il commercio è le industrie, sbrigliate nel nome
de'principii che al Bandini valsero in vita, fama di pazzo e gloria
imperitura ai seguaci suoi ; il che avvenne in Toscana pria che in
alcun altro sito. Migliorate le condizioni de' coloni, prosperarono le
terre : Val di Chiana e Val di Nievole liberate dalle acque paludose,
restituite all'aratro. Il debito pubblico lasciato dal padre scemò, poi
sparve (16) : per la prima volta rivelaronsi a' sudditi le condizioni
della pubblica fortuna (17).
due basi fondamentali deironesto vivere , e della pubblica e privata feli-
cità, niente curano d'abbandonare e privare deiropportuno sostentamento
le loro fan^iglie, vendono l'onestà delle loro donne, commettono furti,
truffe, falsità ed altri delitti ; e con folle speranza d'assicurare la vincita
s'avanzano fino a nefandi sortilegii , e vanissime e sacrileghe supersti-
zioni ». V. Cantini, Legislaz. toscana, t. XXIII.
(12) Il primo appalto venne stipulato il 1® gennaio 1741, per sovvenire
di denaro l'imperatrice consorte, travolta in guerre e disastri : durarono
gli appalti fino al 26 agosto 1768.
(13) Governò la. Toscana dal 17 marzo 1765 al 1790.
(14) F. Editto 12 maggio 1772.
(15) Decreto 23 febbraio 1789. È legge elaborala dal Vernacoini.
(16) 7 marzo 1788.
(17) Notevolissime sono le parole con cui ha principio il Rendiconto che
Leopoldo I fece a' sudditi suoi, nel partirsene : < S. M. è intimamente per-
suasa che il più efficace mezzo per sempre più consolidare la fiducia e la
confidenza dei popoli verso qualunque governo, sia quello di sottoporre
alla cognizione di ciascun individuo le diverse mire e ragioni che hanno
servito di fondamento alle ordinanze e provvedimenti prescritti secondo
l'esigenza e l'opportunità delle circostanze, e di manifestare senza riserva
e colla possibile chiarezza l'erogazione dei prodotti delle pubbliche con-
XivUta C — 5
66 RIVISTA CONTEMPORANEA
Queste poi le riforme di Leopoldo I nell'ecclesiastiche discipline.
Crebbe i redditi alle parrocchie, in Toscana poverissime, per l'uso
invalso di lasciar tutto a conventi : a talun di questi tolse parte del
superfluo, altri distrusse : vietò le decime, le questue, i romitaggi :
congreghe, centurie, confraternite disciolse : sostituì ad esse com-
pagnie di carità : fra i frati ed i generali che siedono in Roma, fra
i vescovi ed il pontefice interpose il poter civile (18): conobbe ne' par-
roci il diritto di aver voce ne'sinodi diocesani: l'episcopato sollevò
a molta altezza, accrescendone le facoltà, ma in danno di Roma:
mantenne il divieto a' luoghi pii di accrescere le manimorte : francò
parte di quelle che già godevano; fece solo eccezioni pei corpi laici.
Distrussse il Sant'UflBció, omai spauracchio de' semplici, ma pretesto
a litigi e querimonie: le censure papali, i monitorii di scomunica
volle non potessero pubblicarsi senza il regio assenso. Abolì il tri-
bunal della nunziatura : sottrasse i laici al fóro ecclesiastico : gli ec-
clesiastici trasse innanzi i tribunali laici: serbò alle curie le cause
tribuzioni. E non gli è ignoto che l'occultazione ed il mistero delle ope-
razioni del governo , mentre danno adito alla malafede ed al sospetto
fanno anche torto ai plausibili e retti sentimenti del sovrano, non meno
che alla condotta dei ministri prescelti al maneggio del pubblici affari».
V. Governo della Toscana sotto Leopoldo I.
(18) Notevolissime e di palpitante attualità, sono le Circolari con cui
Leop. I vietò ogni questua a prò di Roma: non furono abrogate mai:
onde io stimo opportuno recarle qui per intero, dedicandole sAV Armonia,
agli oblatori del Denaro di S. Pietro ed ai funzionarii che governano oggi
la Toscana. Circolare 21 giugno 1779 a Essendo stato reso conto a S. A. R.
e delle risposta date dai superiori delle religioni alla Circolare dei 12
e gennaio 1778, la medesima R. A. S. quanto al primo articolo di detta
« circolare, nel quale si richiedeva una nota esatta di tutto quello che
< ciascheduna religione rimetteva fuori dello Stato, ha comandato con
« rescritto de' 12 del corr., che non si facciano fuori di Stato pagamenti di
t prestazioni y tasse o d'altro, che è stalo indicato tanto nella circolare che
« nelle risposte, senza il preventivo regio Exequaturj da domandarsi di caso
« in caso ; e che in avvenire non abbia luogo qualsivoglia nuova imposi-
« zione senza il regio beneplacito. In esecuzione de* sovrani comandi^ par-
« tecipo tutto ciò a V. P. M. Rev. perchè riguardo al suo Ordine eseguisca
« e faccia eseguire colla dovuta esattezza le sovrane intenzioni, con darmi
M pronto riscontro di aver ricevuta la presente, che farà conservare nelVar-
« chivio per sua regola, e de' suoi successori ».
Circolare 15 giugno 1782 « È mente di S. A. R. che resti in avvenire
« intieramente abolita nei suoi Stati ogni tassa di spogli^ vacanti, quindennii,
« e qualunqne altra di simil genere che passi direttamente o indirettamente
• e per conguaglio per qualsivoglia titolo a Roma, e che si paga dagli eccle-
f siastici tanto regolari che secolari, e da qualunque altra persona o luogo pio.
« Comanda inoltre che quelle somme le quali, con circolare del 18 mag-
c gio prossimo passato, fu ordinato tenersi a disposizione dell'A. S. R,
« siano dai succollettori consegnate a V. S. Illustrissima, che viene incaricata
f di piSTmBUIftLB a' poveri Più BISQGNOSI Di OOPESTA DIOCESI »,
STUDll STOBICI B AMMINISTRATIVI 67
s^Hritaali e facoltà di infligger pene di ugual calibro, cioè spirituali.
Queste le onorevoli opere che Leopoldo, viventi il Neri, il Rucellai,
il Tavantì, fece sue. Morti que' ministri, si sbigottì di se medesimo,
s'intimidì alle censure papali. Stimando aver camminato di troppo,
rifece i passi, si diede a martellare Topera a cui avea dato il nome,
accusandosi d'aver sbagliato (19). Tolse a' Comuni talune delle fa-
coltà largite innanzi: allargò la giurisdizione ecclesiastica: con-
venti e confraternite (20) ripristinò: altre concessioni ai chierici:
all'ire del pontefice abbandonò quanti seco lui aveano mirato per
Tinnanzi a ridur la Chiesa in chiesa : vulnerò poi la libertà dei traf-
fici e dell'industria (21): invilì la milizia: si circondò di birri: la
pena del capo ristaurò (22). La morte del fratello, chiamandolo im-
peratore a Vienna, gli impedi compiere la distruzione della sua opera.
VI. — La proseguì Ferdinando III (23) : perniciose concessioni ai
chierici: nuovi conventi s'apersero: s'accrebbe la lor fortuna: ne
impoverì lo Stato ; riapparve il debito pubblico (24). Rinacquero priva-
tive e divieti letali all'industria: il commercio intristì: non mancava
più che il proibir la estrazione de' cereali e lo fu : così calpestavansi
le patrie glorie. S'alterò la legge penale, altra gloria, e le pene
divennero maggiori delle colpe, meno per quelle della carne : s'in-
ventò la .colpa di Stato, e per pena, la morte ignominiosa e infame.
VII. — La colpa del principe meritava in vero una pena, e l'ebbe
in quindici anni di esiglio (25). La inflisse Bonaparte. Il Granducato si
(19) Siffatta confessione è in un dispaccio che da Vienna inviò alla
Reggenza il 17 giugno 1790, il quale spiega l'incerta coscienza di ciò che
avea compiuto, i troppi mutamenti e le contraddizioni in cui cadde prima
e dopo aver lasciato la Toscana. Cosi egli scrive : «£ siccome quando io
feci la riforma delle leggi criminali credei di poterla concepire in quella
maniera per l'indole dolce e quieta della nazione, e vedendo ora di es-
sermi ingannato, con sommo mio dispiacere mi vedo obbligato di ordi-
nare al Consiglio di Reggenza dì pubblicare prontamente un editto con
cui esprimendo queste mie ragioni e il dispiacere con cui ho sentito questi
eccessi {moti popolari) che fanno veramente torto alla nazione,* mi vedo
obbligato, dico, di ristabilire da qui in avanti, e per i casi futuri, la pena
di morte, da incorrersi da tutti quelli i quali ardiranno di sollevare il po-
polo o mettersi alla testa del medesimo per commettere eccessi e disor-
dini!. V. Zobi, St. Civ., t. 2. Doc. XLVI.
(20) Decreto 14 giugno 1790.
(21) Fra gli editti con cui vietò l'estrazione della seta, della lana ecc.
è notevole quello con cui distinse le pecore tosate da quelle che non lo
erano, e alle prime aperse, alle seconde chiuse il confine. Editto 7 aprile
1789.
(22) Decreto 30 giugno 1790.
(23) Incominciò a governare lo Stato dall'S aprile 1791.
(24) Decreto 27 settembre 1794.
(25j Parti dalla Toscana il 25 marzo 1799.
68 KIVISTA OONTBMPQBANEA
mutò in Regno : i Toscani zittirono. Lodovico primo ed ultimo re (2ft)
lasciò governar sé e lo Stato dalla moglie, allora regina, poi reggente
pel figliuolo; ma sempre donna. La donna scordò esser regina: la
regina esser madre. Laonde lo Stato ch*era e potea essere del figlio
sgoverna cosi: die di piglio alle migliori leggi leopoldine e le stra&-
ci^: gl'istituti disfece, né li rifece. Sguinzagliò il clero, lo accrebbe,
lo straricchi : la legge criminale, che da Leopoldo ebbe il nome, via
via offese, poi distrusse. Promulgò altra legge, in cui le pene ai rei
parevano vendette, e come le vendette sogliono, maggiori delle colpe
e tremende alla coscienza dei giudici : dissipazioni a iosa triplicarono
i debiti, scemarono il ereditò, crebbero i balzelli e trassero la finanza
sul pendio. Per ultimo negaronsi i frutti ai creditori, e la pubblica
fortuna e il governo, umiliazione pei governati, vesne alle mani
di frati e cameriste ed altra vituperosa gente.
VIU. — Vi pose riparo Napoleone di consolo fktto imperatore. A
un suo cenno la ciurma de* frati, il servitorame e lafieggeate sgom-
brarono la reggia (27). Prima un'altra reggenza, poi l'Elisa le sxic-
cede (28). Leggi parziali, statuti senza numero, codici vulnerati, feudi
sbocconcellati da Leopoldo, non distrutti, i fidecommessi vivuti in
onta al divieto, le corporazioni, i nidi d'oziosi, i ruderi dell'edifizio
di Cosimo, i resti di quello incompiuto di Leopoldo , crollarono a una
scossa delle poderose braccia use a scuotere l'BurQpa. Fu un lampo :
codici, tribunali, ordijiamenti amministrativi, economici, militari e
politici, tolti a prestito dalla Francia, piovvero sullo Stato, prima
che sgombro dalle rovine del crollato edificio; e nondimeno fecero
buona prova, perdiè maturati da secoli, scritti nella coscienza dei
popoli, nella legge prima che benedice l'uguaglianza, solleva i ca-
duti, capovolge gli sgoverni ; e perchè frutto erano della civiltà che
cammina. Ebbero i sudditi dignità di uomini, contentezza di liberi,
lo Stato pregio di provincia italica. L'improvviso turbine, spalancò
i conventi, ne fuggirono moncu^he e frati, beati di poter cosi tor-
nare al secolo: le proprietà da secoli stagnanti, disparvero nella
voragine del debito pubblico e la colmarono. Ciò che era della re-'
ligione, come giustizia volea fu dello Stato
IX. — Poco oUre, il bello edificio ch'era l'impero di Napoleone,
franò : i regni per lui composti si scomposero : sminuzzati, aggran-
dirono il patrimonio di questo o quel principe. Per tutte le vie di
Europa era un correre di re scaduti, verso gli antichi Stati o là
(26) Pel trattato di Luneville 9 febbraio 1801, art. V (F. Scboell t. 2,
chap. XXIX), la Toscana fu ceduta ai Borboni. Lodovico, giunse in Fi-
renze il 12 agosto 1801. Mori il 27 maggio 1803,
(27) Parti il 10 dicembre 1807.
(28) Dal 3 marzo 1809 al 1 febbraio 1814.
STUDn STomoi b amministbativi 69
07'era mercato di regni e di popoli, Vienna. Toscana perdo pregio
di provincia italiana o imperiale ; tornò fendo di una fiamiglia, quella
di Lorena. Tornò Ferdinando III (29). Che avesse appreso in esiglio
si parve dai fatti. Come gli altri profughi, studiossi cancellare con
la memoria della sfortuna ogni vestigio de' quindici anni ili cui i
popoU eran vissuti co' re di fortuna. . Queste le buone 0 ree sue
opere: gli ordinamenti imperiali a furia distrutti, dissotterrati glj
antichi, salvo il correggerli poi. I municipii riordinati in peggio da
quM che erano sotto Leopoldo (30) : risuscitati conventi d'ogni ordine,
colore e sesso : con la vita restituite loro le ricchezze : gli atti dello stato
civile delle persone resi a parroci (31) : prima sottratti gli ecclesiastici
in materia penale agli effetti del Codice napoleonico, abolito poi in-
sieme a quel di processo : in loro vece, le leggi Leopoldine, meno la
mitezza volta in crudeltà: ugual fortuna ebbe il Codice civile, a cui
succedettero le discordi e antiche leggi: disfatti i tribunali, rimessi
in piedi gli antichi: fin quelli che giudicavano con processo eco-
nomico, fin il Buon governo oltrepotente, fino i bargelli eh' eran giu-
dici e birri: co' bargelli rinacque la sbirraglia, numerosa, molesta,
com'essa sa. La milizia negletta, colpa aver combattuto le battaglie
dell'Impero: la istruzione invilita; la censura spigolistra; gl'ingegni
faceano paura.
A riscontro delle quali enormezze durarono i benefici del libero
scambio : toUeraronsi i culti dissidenti : del codice napoleonico ven-
nero serbati ì capitoli sulle ipoteche, sulla prova testimoniale. Quel
di commercio restò: non rinacquero i feudi. Sparse leggi provvidero,
nò sempre male, alla capacità civile delle persone, alla patria po-
testà, alle successioni, alle doti, alla oivil procedura: non rivissero
i millecinquecento statuti de' Comuni: masi, e fu gloria, rivissero
le leggi di giurisdizione ecclesiastica, promulgate da Leopoldo ; e
rivisse lo spirito d'indipendenza dalla Curia : s'ordinò un nuovo ca-
tasto : alleggerironsi della metà i pubblici aggravii, né si contrarerò
debiti.
X.— Vengo omai a Leopoldo (32), secondo di nome, ultimo de'gran-
duchi, il quale pure aggiunse all'edificio alcun pezzo, altri tolse: la
voglia d'annaspare, mal di quella famiglia, scendea ne' rami. Abolì
la tassa del macello, ristabilita fra le altre, dal padre : di un quarto
scemò la diretta, crebbe le indirette : a colmar le Maremme riaperse
la voragine dei debiti, già colmata da Bonaparte coi beni del clero :
la milizia tenne in non cale, cagion di guai nelle traversie : istituì
(29) Il 18 settembre 1814.
(30) Decreto 16 settembre 1816.
(31) Decreti 18 giugno, 28 novembre 1817.
(^2) Succedette al padre il 18 giugno 1824.
70 RIVISTA CONTEMPORANEA.
una guardia urbana (33), poi la disfece (34) ; rivisse sotto altro nome :
la libertà dell'industrie violò, vietando la piantagione del tabacco (35)
ne' luoghi ove l'avea conceduta suo padre: consacrò emancipandola
industria del ferro. La legislazione mutò così : fece leggi varie sulle
ipoteche (36), stato civile delle donne (37), capacità degli stranieri
a succedere ed acquistare (33) : altre suiramministrazione della ci-
vile e criminal giustizia , e sui giudizii esecutivi (39). Riformò i
Tribunali (40), modellandoli a que'di Francia abbattuti dal padre.
Spirata l'aura delle riforme nel quarantasei, ampliò le facoltà de* fun-
zionarii, crebbe i ministeri (41), la polizia dalle cento braccia mu-
tilò, il buon governo soppresse, e cosi altri ufficii tornati a galla
nel quattordici , e dalla esperienza e dall'odio popolare condannati.
In Lucca, di fresco aggiunta, scambiò alcune leggi, né vi fece al-
tro (42). Istituì poi Commissioni a far nuovo editto pei Comuni ,
scriver codici, riordinar gli studii : la stampa imbavagliata dal padre,
sbavagliò : dotò il principato di una guardia cittadina (43) , che
poco avéa da vivere, di una Consulta a cui fé' succedere un Consi-
glio di Stato; di uno Statuto (44) per cui divenne principe sper-
giuro e abbominevole. Nel fortunoso quarantotto, per l'Italia mosse
aperta guerra a parenti e s'indettò seco loro in segreto : s'inimicò e
fuggi i sudditi : s'amicò ed accostò i loro nemici : agli uni aperse
i confini, offri la capitale^^ li accolse nella reggia; agli altri chiuse
il cuore : sconobbe fede privata, lealtà di principe, debito di padre,
perigliando egli la terra in cui nacque , lo Statuto che giurò e la
corona del figlio.
Cosi ciascun de'granduchi, da Cosimo a Leopoldo ultimo, aveva
ritoccato l'opera altrui, nissuno compiuta la propria; Cosimo fondò
lo Stato -.^ Francesco II gli apri èra nuova ; Leopoldo I lo riformò,
Napoleone lo disfece; rivisse intero con Ferdinando III insieme a
leggi varie', infinite, fatte con diversa ragione, a pezzi, ninna di
getto : Leopoldo II gli tolse e gli aggiunse, non sparmiando il fatto
suo più dell'altrui. Di Stato assoluto ch'era da secoli, divenne con-
(33) Decreto 12 febbraio 1831.
(34) Decreto 4 giugno 1831.
(35) Decreto 15 marzo 1830.
(36) Legge 2 maggio 1836.
(37) Legge 20 novembre 1838.
(38) Legge 11 dicembre 1835.
(39J Legge 7 gennaio 1838.
(40) Legge 2 agosto 1838.
(41) Decreti 16 marzo, 4 giugno 1848.
(42) Decreti 12 dicembre 1847, 26 febbraio 1848.
(43) Decreto 4 ottobre 1847.
(44) Decreto 15 febbraio 1848.— Leggi elettorali 3 marzo, 26 aprile 1848.
STUDll STOBICI B AMMINISTRATIVI 7l
Bultivo, costituzionale, poi popolare: scivolò in una repubblica, meno
il nome; sol da'triumviri non ebbe nuove partì, perchè poco fecero,
meno rimase. Il ristauro del quarantanove, ritrovò gli antichi pezzi,
onde lo Stato era opera di mille mani e di nessuna. La voglia del
riformare ebbe indotto i principi suoi, a martellare l'opera altrui,
la riverenza li trattenne dal distruggerla, la insufficienza dal com-
pierla.
XI. — Discorrerò qui le parti del non bello edificio, inconjìnciando
dalle leggi (45). Le civili non disposte a codice, ma sparse per molti
libri : il dritto antico era la regola, né sol come legge, ma esempio
di ragione legale : quelle n'erano le eccezioni. Tal fu lo Statuto del
1415, proprio di Firenze, lume ai codicetti (46), un per comunelle,
vivuti fino al napoleonico. Tali le sparse leggi, che successero b,
quel docoimento di civiltà e sapienza, promulgato l'otto, distrutto
il quattordici, per odio al nome. Prima e dopo, molti aveano avuto
incarico di scrivere un codice ; il Neri da Francesco (47), il Vemac-
cini (48), il Ciani, il Tosi dal primo Leopoldo, il Lampredi dal
figlio (49), varii dal nipote (50): tutti per cagioni diverse e oscure
lasciaron l'opera a mezzo (51). Laonde Toscana non avea, come non
ebbe mai, legislazione pròpria: gli sparsi editti, meglio che un corpo
di leggi, eran mende del diritto romano, del canonico, e qua e là resti
degli ordini medicei e francesi. Ciascun d'essi rimorchiavano ag-
(45) Quanto grande , cosi è scomposta e imperfetta la farragine delle
leggi del Granducato: i regolamenti interni di polizia , di amministra-
zione, di registro ecc. dalla origine fino ad oggi, sparsi in circolari, leggi
senza numero, non mai raccolte. La più parte delle leggi medicee rac-
colte in 28 volumi dal Cantini. Quelle dal 1737 al 1814 sono in fogli vo-
lanti; talune rarissime; dal 14 al 49 nella raccolta del Cambiagi, ma
senz'ordine, legata a fascio, e imperfetta; un volume in-fol. per anno. Le
leggi Lucchesi sono anche più rare, ma meglio ordinate. Repubblica
(1802-1807) 6 voi. Principato (1807-1819) 27 voi. Ducato (1819-1847) 32 voi.
Le leggi poi del Granducato dal 49 al 59, altri 13 voi. in-fol. Indicando
perciò le leggi, non mi è dato, fta tanto disordine, dare altra indicazione
che la data : unica scorta a rintracciarle.
(46) Questi codicetti, un per comunello, non stampati, eran penali e ci-
vili : nelle pene, varii : e cosi nel regolare lo stato delle persone, le suc-
cessioni, le doti, i rapporti di buon vicinato, il danno, le servitù ed altre
minori materie.
(47) 5 maggio 1745. F. Zobi, St. Civ., t. I, doc. 14.
(48) 10 luglio 1787.
(49) 21 maggio 1792: dopo il 1814 fu dato ugual incarico, e con ugual
frutto al Collini, poi al Matte ucci.
(50) Nel 1838, nominata una Commissione a rivedere i lavori, in materia
di codice, preparati in un secolo di vane prove.
(51) Valentissimi uomini, cultori appassionati deirantico testo avversa-
vano il principio della codificazione ; e anche oggi sono in Toscana molti
che l'avversano.
72 RIVISTA CONTEMPORANEA
giunte e varianti che di mole superavano U testo, e poi si ^perde^wo
in cento tomi, ovverà scritta la consuetudine, che da secoli ha. in
Toscana, ne'casi in cui manca la legge, vigor di legge. Nondimeno,
àncora in così vasto mare, la eguaglianza e la lihertà civile. Dove
i tempi nuovi recavano varietà di casi, andavasi per analogia: l'a-
nalogia, scoperta che era, diveniva parte del dritto nuovo, aggiunta
all'antico : le glosse dei chicisatori e le sentenze de'moderni lume e
scorta ai giudici : preferite alle estranee, le proprie. La ragione, bene
spesso alle prese con l'autorità, sorreggevasi ricorrendo airantico
diritto, traballava fra le leggi che n'erano eccessioni, affondava nel
mare delle discordi sentenze. Ornai queste, {(iù s'accostavano a questi
tempi, prive di lena per spiccar voli, andavano terra terra : e quelle,
di locuzione infelice, barbaro stile, sfregio alla purità toscana, per
vivere avean d'uopo ferirsi Tun l'altra, e cresceano confusione nelle
già confuse menti de'giudici. Sicché soventi volte, nella varietà dei
casi, n'andava a picco la giustizia.
Le scarse leggi che faceano le veci di codice, e sgretolavano il
dritto antico, erano le seguenti : due del quattordici (52), sulla pa-
tria potestà, gli obblighi de'minori, la emancipazione, la interdizione,
la tutela, la curatela, il dritto di testare, quel di ricevere, le suc-
cessioni intestate: una del trentotto (53), su quella che i curiali
dicono capacità civile delle donne. Le successioni erano governate
da principii di preferenza agnatizia, escluse le femmine, salva ad
esse la legittima; reminiscenza di feudalità, spelta da poco. La
patria potestà cessava, pei maschi e per le femmine, a trentanni:
per queste, il consenso del padre suppliva all'autorità del giudice,
che prima richiedevasi in ogni atto: nel resto, come lo esigevano
i tempi ed i costumi, provvedevasi alla condizione economica e ci-
vile della donna or figlia, or sposa, or vedova: però i dritti delle
madri e mogli non li tutelava legge positiva, ma il patto. Una legge
del trentacinquè (54^1 , stabiliva la capacità degli stranieri a succe-
dere : buona perchè ammetteva il principio della reciprocità. Del co-
dice napoleonico erano rimasti gli anticoli suU'ammessione della
prova testimoniale. Regolava le ipoteche una legge del trentasei (55),
modellata a quella di Francia, cui andò innanzi in alcune parti: i dan-
nosi vincoli agl'immobili toglieva: i titoli e dritti pupillari e mu-
liebri, cautelava: le ipoteche non doveano aver valore che dalla
iscrizione. Difetti però di quella legge, ne'casi di espropriazione, la
citazione diretta agl'iscritti, in luogo di quella per proclama: cadu-
(52) 15 novembre 1814. È hg^e di 237 art. ed 11 cap.— 18 luglio 1814.
(53) Legge 20 novembre 1838.
(54) Id. 11 dicembre 1835.
(55) Id. 2 maggio 1836.
STUDn STOBId B AMMINKIWATITI 73
cita nelle esecuzioni fulminate oltre c^erti temini, di soverehio bre^i :
i INX^tti di graduatoria, alle mani dei procuratori legali, non dei
giudici; difetti questi che triplicando il dispendio, scemavano il
pregio de'beni. Gli atti dello stato civile dal diciasette (56) in poi,
erano fid^i ai parroci, e alla fin d'aano, accolti in ufficio a parte:
onde ai chierici pareva aver rimesso deirautorità antica, e ai laici
della indipendenza dello Stato dalla Chiesa. Contro i fidecommissi
stavano leggi del secol scorso, dalle quali prima furon limitati (57),
poi disciolti (58): ingiuria a quelle la facoltà di incommendaxe i beni
nell'ordine e nome di santo Stefano. Il contratto enfiteutico, favo-
rito da più leggi di incontestabile utilità e pregio (59): alla capacità
civile de' luoghi pii, vegliavano attente quelle del 1751 e 1769 (60),
freno all'ingordigia de'cbierici, gloria toscana, esempio e scuola agli
altri Stati. Le cause di pertinenza delle curie, il matrimonio, la ma-
teria de'beneficii ecclesiastici , regolate dal gius canonico: il resto,
dal dritto comune, o da leggi die insieme a quelle sui luoghi pii,
accennerò discorrendo della Chiesa. Qui raccoglievasi tutta quanta
la legislazione civile di Toscana. L'altre materie erano alla mercè
del dritto antico, modificato dal canonico, e dalla universa consue-
tudine. Alla espropriazione per cause di pubblica utUità, e simili
gravi materie, nissuna legge vegliava: il dritto anticq era muto: né
la consuetudine potea supplifvi: sola scorta del giudice, il lume
proprio : legge a privati , l'arbitrio : ornai legislatore e giudice a
un tempo.
XII. — Non meglio ordinate le pene: non aveano, come non ebber
mai, codice: poche leggi, opera de'principi lorenesi, scadute con essi,
riapparse nel quattordici, alterate da altre,, cosi lacere e malconcio
ne faceano le veci : era proprio miracolo si reggessero in pie. Né era
dato ricorrere a quelle degli antichi, senza dar di cozzo nel cristia-
nesimo: non alle medicee (61), senza che la tortura, il taglio della
mano, la morte ad ogni piò sospinto, e lo sfrenato arbitrio del giu-
(56) Legge 18 giugno , 28 novembre 1817.
(57) Id. 22 giugno 1747.
(58) Id. 23 febbraio 1789.
(59) V. Saggio di un trattalo teorico-pratico sul sistema livellare se-
condo la legislazione e giurisprudenza toscana delTavv. Gir. Poggi, in
cui sono descritte le vicende e le leggi bh* livelli.
(60) Leggi 11 marzo 1751 e 2 marzo 1769.
(61) Le principali leggi medicee che ressero fino al 1786 erano: lo sta-
tuto fiorentino del 1415 che da Cosimo venne esteso a tutta Toscana,
meno Siena; appendice sua, 29 leggi contro i ribelli, 43 sui reati politici,
46 per le uccisioni e il mal costume. Notevole è come Cosimo, fondator
dello Stato, non s'impicciò di leggi civili ; badò solo a quelle cbe spic-
ciayan sangue. 7. Cantini, Raccolta delle Leggi Toscane.
74 BtVlSTÀ OONTEMPqBÀNRA.
dice, gelassero il sangue. Doveano perciò bastar quelle poche, reg-
gersi in onta agli strappi e agli urti, nel resto accordarsi, supplirvi
poi la consuetudine, pianta indigena, ornai autorevole come legge.
Lo si era dichiarato per pubblici bandi (62). Nelle scuole poi, lad-
dove le leggi eran mute, insegnavasi ed illustravasi la consue-
tudine: materia invero di risa, se non ne andasse della vita e della
libertà degli uomini.
Fra quelle leggi, di cui dirò solo le parti che rimaneano nel
quarantanove, la maggiore per mole, prima per ordine di tempo
era quella deir86 (63), opera del Tosi, gloria di chi la promulgò,
meraviglia per que'tempi: in questi, venne poi qui bruttata e al-
trove superata. Pregi suoi, l'antica crudeltà volta in mitezza: non
tortura, non taglio della mano, nop vendette di sangue, non confisca
ch'è pena ad innocenti nascituri : del crimenlese neppur vi ha titolo:
fitcea giustizia delle colpe, non vendetta; l'arbitrio del giudice an-
nientava: gli uomini valutava tutti eguali; sola distinzione fra essi,
i rei dai non rei. Questi pregi, che nel secol scorso, fra leggi atroci,
resti di barbarie, le valsero così grande celebrità, oscurava cosi:
dizione arruffata : le pene frastagliate da regole di processo : dell'an-
tica legislazione serbava parte: fra le pene la fustigazione, la gogna,
il confino, abolite poi (64): mirava più ad atterrire che a correggere,
a castigare che a prevenire; non definiva le colpe: intendendo frenar
l'arbitrio de' giudici, ne vincolava fino il pensiero: pene, come di-
consi, tassative, rendevano cieca ed arbitraria la legge: la colpa
regolata sul danno materiale ; la dignità umana, la morale entità,
come non fossero; spergiuro, calunnia, falsa testimonianza, pressoché
perdonate: altre colpe scordate: il primo fallo non distinguea dal-
l'abito di mal fare; sui correi e complici tacque; due colpe in un
solo non previde; il conato di delinquere, i casi per cui scema o
s'addoppia la colpa, noncurò; onde potea ben dirsi legge, ma non
codice delle pene. I delitti di lesa maestà, le offese alla religione,
gli omicidi premeditati, puniva, con pena uguale, una legge del
95 (65); soverchia mitezza per le colpe della carne: troppa severità
per altre; aggiungeva rigore a quella deir86; e meglio che rigore,
qua e là gli aggiunse crudeltà; nondimeno variò l'indole d'entrambe
variando nella scala delle pene, quella per le maggiori colpe. Nel
quarantanove niuna sarebbe incorsa nella pena del capo ; cancellata
essa neir86, ristabilita nel 90 pei novatori, nel 95 estesa ai rei di
(62) Nella riforma giudiciaria del 3 agosto 1838.
(63) Legge 30 novembre 1786. Fu detto la consigliassero il Beccaria^ il
Filangieri, e il Condorcet; ma non è certo.
(64) Quella del confino abolita con decreto 31 dicembre 1836.
(65) 30 agosto 1795.
snriffi sfouox b AinainsTBATnri 75
Stato, di offesa coscienza e d'omicidio, poi circoscritta ai casi in cui
unanimi fossero i giudici, stette fino al 47 a minaccia della società
contro un solo, offesa alla legge che dal Sinai bandiva a principi
e sudditi il rispetto della vita; nel sopradetto anno disparve (66).
Taluni editti sui furti violenti (67), sulle bancherotte (68), falsità
di cambiali (69), di cedole e di moneta (70), compievano la serie
delle leggi penidi dello Stato. Erano altrettante mende e aggiunte
a quelle del secol scorso; ciascuna nascendo aveva urtato le ante-
riori. Ai giudici stava il decidere i punti di discordia, interpretare
grincerti, supplire al silenzio della legge. Bene spesso taluna colpa
non avea pena; varii gradi di colpe o colpe varie, punite da una
pena sola; tormento questo alla coscienza del giudice, che bilica
incerto fra le sue dita, come una penna, la libertà, se non la vita
del reo. Allora l'arbitrio onestato dalla consuetudine era la più si-
cura guida dei magistrati, solo lume a distinguere gli estremi dei
delitti, i gradi delle pene, e proporzionar questi a quelli: lavorio
invero mirabile d'intelletto, pel quale alla scienza fu sostituita la
prudenza de' giudici ; e fecer le veci del codice, i cento volumi in cui
raccoglievansi le loro sentenze. Dubiteranno i posteri che i legislatori
del mondo, i discendenti de' Paoli e degli Scevola, fossero giunti a
tale nel quarantanove da non aver leggi che bastassero a guarentir
la giustizia ! Fortuna volea che specchiata fosse la più parte dei giu-
dici, miti i loro animi, quanto Findole di quelle popolazioni, e quanto
le informi e lacere leggi che governavano lo Stato. Delle quali in-^
vero la più parte, anco pei delitti comuni, splendeano di mitezza
forse soverchia: severa solo quella pei furti violenti, sanguinaria
njssuna: più della legge, mite poi la pratica : dolcezza che popolava
di ladroncoli e di minori rei, lo Stato.
XIII. — La sola legge che avesse ampiezza di codice, era quella
del commercio, venuta di Francia e scampata nel quattordici, qui
come nella restante Italia , all'ira de'retrivi. Nata oltralpe di geni-
tori italiani , gli statuti delle repubbliche e il consolato di mare,
ragion volea rimanesse fra noi. Era il solo codice del granducato :
avea meno aggiunte e mende che ogni altra legge : ma illesa non
n'era: variava qua e là la procedura, dacché furon tolti i tribunali
di commercio: in loro vece gli ordinarli: i )ion commercianti potevano
firmar cambiali e scampare al carcere: qua e là altre mutazioni di
minor conto (71).
(66) Decrelo li ottobre 1847.
(67) Legge 22 giugno 1816.
(68) Id. 6 agosto 1827.
(69) Id. 2 febbraio 1823.
(70) Id. 9 febbraio 1847.
(71) Id. 15 novembre 1814.
W BITI6TA 0CKTB1IP0BA.KBÀ
Non T'era codiee pei militari: in tempo di pace, le leggìi de*oi-
vili pnniTano le loro colpe: pei. casi di guerra, una legge del quin-
dici in pochi articoli, modellati su quei dell* Austria: da quelli ritrae-
vano è vero la crudeltà, la pena del bastone, ed altre a martoriar
le carni, ed a sfregio della creatura fatta ad immagine di Dio: ma
ineseguita, perchè giammai, tranne i mesi del quarantotto Ai caso
di guerra, e anche in quelli, Tenne scordata, secondo Tolea lo stil
toeeano, di mollare in tutto che era milizia.
XIV. — Non migliore delle leggi, la procedura che per taluno
è sciensa , per tal altro è ruota su cui ha da scorrer veloce la
giustizia. Non accolta in un codice, ma sparsa anch'essa in più
leggi; runa del quattordici (72) pei giudizii civili, in cinque parti,
mille centoérentaquattro articoli, imitazione qua e là del codice firan-
cose, alla prova lenta e dispendiosa, da moltiplicare quistioni non
risolverle, confondere i giudici non guidarli. A quei che diconsi
giudisii esecutivi provvedea una legge del trentotto (73): entrambe,
quasi a rimorchio traevano a sé un'altra di duecento ottantotto ar-
ticoli, e poi un'altra di seicento quaranta di ugual anno (74): ave-
vano, fira le altre pecessità — che a tutto doveano provvedere — da
completare la prima *di quelle leggi e dar le norme per la giustizia
pesale, alle cui forme, prima vegliava il caso, se non l'arbitrio. Pregi
loro, la publicità ne'giudizii; pluralità de'giudici ; uguaglianza per
tutti; libera difesa; individuale libertà; molte guarentigie all'impu-
tato innanzi l'arresto; altrettante prima che condannato; la diacus-
sioiie pubblica a processo compiuto; un difensore al reo; un custode
alla legge; il pubblico ministero; ed altre cautele e guarentigie della
reitta giustizia. Loro difetti, i giudizii eternati dalle forme del pro-
cesso scritto; la confusione di questo con quello orale; la mancanza
di giudici istruttori; la mano poliziesca a raccogliere le prime prove
a formulare le accuse innanzi i minori giudici. Nelle cause civili
poi erano principali difetti i seguenti : moltiplicità degli atti; grave
il dispendio ; eternità di litigii ; quistioni innumerevoli di processo;
soluzioni a capriccio, contraddette da altre. Avea la riforma del tren-
totto tentato diminuire i giudizii incidentali, accorciare i termini
probatorii e decisivi, scemare il costo della giustizia, sbrigar gli
affari. Nondimeno bruttissima parte delle leggi toscane si mantenne
k procedura, abbor^aoeiata in duemila e più articoli, non disposti a
codice, e di sovente fra loro alle prese.
XV. — Siffatta legislazione era ruina de'litiganti, salute de'col-
pevoli, mercato de' curiali, tormento de'giudici: dubbio se quistio-
(72) Legge 15 novembre 1814.
(73) Id. 7 gennaio 1838.
(74) Id. 2 agosto, 9 novembre 1838.
8TUDU «TOBIGI S ÀMMtKISimATIVI 97
Dando si riarette il. suo: caso rincorrer pena pari a colpa. Fra la-
menti infiniti mettevanst in conto de'raagistrati i vizii delle legf*i,
e non sol da priyati , ma dal governo che muoveva loro addebito
di eternare i giudiaài , e in pubbliche circolari ne li riprendeva.
Quattro erano i gradi di giurisdizione (75) : le pretare , la prima
istanza ne'circondarii, le corti. regìe a Firenze e Lucca, urna corte
di cassazione a Firenze, indipendenti dal poter civile, meno le pre-
ture, che eran centro a potestà giudiziarie, poliziesche ed ammini-
strative in un tempo. Il pubblico ministero ovunque era collegio di
giudici; non avea potestà esecutiva; iniziava i giudizii dì interdizione;
vegliava airosservanza delle leggi; le rivendicava innanzi al tribunal
sapremo: accusato il reo, ne chiedeva a' giudici la condanna. I
pretori giudicavano da soli in materia civile e di trafici fino a hre
quattrocento, inappellabilmente fino a settanta: istruivano l processi
criminali, sentenziavano de'lievi farti e deQe offese: dannavano fino
ad otto giorni di carcere: innanzi ad essi fungevano da pubblico
ministero i Delegati, ufSziali di polizia. I tribunali di prisna istuiza
composti di uno o più turni collegiali, giudicavano le cause sdipe*
riori alle facoltà de'pretori, e inappellabilmente fino a lire ottocento;
e più, dei delitti che si punivano con T esigilo dal compartimento.
Le corti regie divideansì in due e più camere, ciascuna di cinque
conti^ieri, pei litigi e pei reati: rivedeano le sentenze della prima
isrèsttsa in materia civile, e sentenziavano le colpe meritevoli di pena
superiore aU^esiglio. La cassazione accoglieva i ricorsi contro ]«
sentente d'ogni gtad^ di giurisdizioBe: non ne sospendea Tesecu-
zione: entr» quattro mesi, termioe violato q«asi sempre, avea debito
pronunciare sulla violata legg^ o violata fórma delie sentense, non
sulla sostanza: sovra i processi primitivi, non su nuovi: respingere
i richiami, o annulkndo le sentenze, rinviar le partì a chi let avea
profferite: rigìudicasse Tisteseo tribunale, non l'ugual turno. Cosi
cancellava i giudizii della priina e seconda istanza, i voti di otto
giudici, di tre pubblici Ministeri , e non era terza istanza. Le era
neg<o annullare una sentenza ingiusta, o confermarne una giusta,
se imperfetta era nella forma. La forma, al di sopra del diritto,
rompoa l'ordine logico de'giuditzii, rinnegava la scuola itaUc». Brà
questo congegno giudiziario un portato ddlla Francia, meno, al so-
lito, i ritocchi: e meno il corpo delle leggi insieme a cui nacque,
e che oltralpe grimprimeano il moto. E perciò rivolgendosi quel
meccanesimo fra leggi di cui nissuna età ritagliata al suo dosse,
le squassava e lie frangea: e sebbene di fina opera egli fesse, si
sgangherava ogni giorno più. Doveano i tribunali adunque giudi-
(75) Legge 2 agosto 1838—9 marzo 18«,
78 RIVISTA OONTBHPOBANBA
care con procedure ora nuove, ora vecchie, e più antiche di essi,
ninna nata con essi: sopra leggi sbocconcellate da posteriori, ninna
intera: la giustizia dovea reggersi sulle stampelle: e la cassazione
averla in tutela, vegliate all'osservanza di leggi non iscritte, torre
a codice i cento volumi in cui si compendiava la giurisprudenza,
custodire la uniformità del disordine.
XVI. — Quest' erano le leggi e gli ordini della giustizia nel gran-
ducato, airinfuori di Lucca. Nella quale essendo di fresco aggiunta,
né eransi conservati né mutati tutti gli antichi ordini suoi. Opera
a mezzo, a spizzico, come ogni cosa di quel governo e di quello
Stato. Solo i tribunali uniformi. Erano poi leggi toscane da poco
promulgate, quelle sulla giurisdizione ecclesiastica, procedura, pa-
terna potestà, tutela, curatela, interdizione, emancipazione sullo stato
civile, sull'ipoteche, sugli acquisti de'stranieri, de'luoghi pii, sui
testamenti e fidecommissi (76). E in pari tempo mantenevansi il co-
dice civile, quel di commercio, e tutte le altre leggi lucchesi dal
quattordici in poi, per ciò che non contraddicessero a quelle di sopra
enunciate. Ora non è a dire se in siffatto campo pascolassero i
torcileggi, e si accapigliassero i giudici: bene oravi di che nutrire
le incertezze, gli arbitrii degli uni, i cavilli degli altri. In materia
criminale poi, abolito il codice e ogni altra legge del piccol ducato,
imperavano le toscane dell'SG, del 95 e il codazzo delle mende e
delle aggiunte. Tantoché nel granducato, correndo l'anno quaranta-
nove, in materia civile e commerciale erano due legislazioni.
XYII. — Dirò qui della giustizia amministrativa. Fra gli ordini
imperfetti dello Stato, era un conforto, che tutti fossero uguali in-
nanzi ai giudici: ninno avesse privilegio di foro, meno i militari, le
cui colpe giudicavano i superiori; solo le cause spirituali fossero ri-
serbate ai vescovi: nemmeno i commercianti convenissero in un foro
proprio: e l'amministrazione dello Stato fosse tratta innanzi ai tribu-
nali ordinarli, a guisa di privato. Epperciò oravi la regia Avvoca-
tura (77), la quale innanzi ad essi, difendea le ragioni del fisco,
delle regalie, e il patrimonio del principe. La legge raccomandava
ai giudici di sentenziare, non in guisa che i diritti del fisco preva-
lessero a que'dei privati, ma secondo la buona ragione. Avea poi
l'avvocato regio quest'altri uflicii : dirigere i negozii de'trattati e
quelli delle reali possessioni, presiedere agli archivi , custodir l'ar-
madio di ferro, il libro d'oro, vegliare ai titoli di nobiltà, ai dritti
di cittadinanza, alle naturalità, adozioni, legittimazioni. Ora per le
ragioni onde l'amministrazione non avea privilegio alcuno di foro,
(76) Leggi 12 dicembre 1847 — 26 febbraio 1848.
(77) Istituita eoa Decreto 27 maggio 1777.
STUDU 6T0BICI B AMMIMiaTftATtyi 79
cosi nemmeno esercitaya giurisdizione contenziosa, all'infuori di po-
che e rade eccezioni. Le quali erano queste. In Grosseto una Com-
missione giudicava le cause di affrancazione e ogni altra a cui desse
luogo il sistema economico, col quale da molti anni tentavasi resti*
tuire a cultura la maremma. Le controversie sugli appalti erano
conosciute dal consiglio degllngegneri a ciò costituito in tribunale
amministrativo , in numero di tre , più il presidente e un assessore
legale. Ogni altra controversia, in cui entrassero le ragioni dei terzi,
conoscevasi dai giudici .ordìnarii. Quelle poi fra le amministraeioni,
venivano risolute dall'arbitrio dei capi-aziende, regola il caso, uni-
formità di decisioni nissuna. E poiché innumerabili erano le leggi,
e le istruzioni e le mende e le aggiunte di ciascuna di esse , e fre-
quenti le incertezze, i dubbii, i conflitti fra uno ed altro ufficio : e
niun istituto eravi con potestà di risolverli, vegliare all'osservanza
delle regole, alla perpetuità delle massime, custodire la giurispru-
denza amministrativa; cosi le decisioni variavano di giorno in giorno,
e l'amministrazione errava nel caos. Il che riusciva tanto più dan-
nevole in fatto di contabilità: nella quale fra montagne di leggi,
istruzioni e regole, le dubbiezze sorgono a ogni passo, e l'ordine è
l'unico lume a leggere nella selva de'numeri, bilanciare le ragioni,
armonizzare le aziende. Ad una camera de' conti, la quale non manca
mai in ogni bene ordinata amministrazione, tentava supplire un uf-
ficio detto delle Revisioni, antiquato, arruffacifre, impotente ad ogni
cosa utile e composta. E dove ancor quello non giungea, valea tant'oro
di zecca, l'arbitrio o il capriccio dei capi-ufficio.
XYIII. — Ma se nella giustizia amministrativa era difetto la
mancanza di giudici, nella economica lo era lo averne troppi. Primo
anello fra il poter civile e la giustizia erano i pretori, i quali per
runa conoscevano delle lievi cause e ofifese, e per l'altro mestavan
dentro alla polizia, neluoghi ove non fossero i suoi delegati (78).
Ed ancor questi dipendeano dai due ministeri dell'interno e della
giustizia, avendo uffici dall'uno e dall'altro e molti in comune fra
loro. Di questa guisa si dicevano funzionarii di polizia quei della
giustizia, e della giustizia quei di polizia. Ma se i primi si impa-
niavano negli uffici dei secondi, rimettendo cosi della indipendenza
e nobiltà loro, i secondi rivaleggiavano coi primi, ed alcuna volta
gli andavano innanzi. Lungi dunque dal patir confronto co'pretori
erano rivali del pubblico ministero di cui facevano gli uffizii innanzi
ai pretori, e riteneano le più importanti attribuzioni nello scuoprire
i delitti e raccogliere le prime prove. Poi anch'essi eran giudici,
manipolando una giustizia tutta loro e invereconda.
(78) Legge 9 marzo 1848.
80 mtlBf A CONTBHPO^tAKBA
Quattro delegati ettno in Fitenze, tre in Liromo, quindici iu
tutta Toscana, distinti in tré classi. Avevano sotto di essi carabi-
nieri, « bargelli, e birri sopravvivuti alla legge che li rimandò, i
quali e per conto loro, tanto li spingeva il costume, e per conto
dei delegati spiavano pensieri, parole, gesti ed ommissioni. Questi
erano i principali istrumenti di quella giustizia che dicevasi econo-
mica, e noi diremo più sotto il perchè. Quale fosse , quale origine
si avesse, ninno potea saperlo di preciso (79) : erasi rannicchiata
nei due anni delle riforme, ora affaccendavasi all'ombra degli Àu*
striad : allora strinse , adesso allargava gli artigli ed il cuore.
Era sopravvissuta alle leggi che l'avevano bandita ; non aveva
perciò avuto d'uopo rmascere. Non avea codice, né legge o ragion
di vivere, ma vivea. Vivea ex lege, per il mal abito de'poliziotti,
le tradizioni del luogo, le rovine degli ordini liberi, le paure dei
retrivi, la impunità guarentitale dalla presenza degli Austriaci: vivea
pei suoi ministri, ribattezzati è vero nel 48, ma lasciati ai loro
posti, con facoltà non circoscritte nemmen dalla legge che gli mutò
nome (80): poteano dunque allargarsi fin dove era suolo toscano e
darvi dentro per ogni via e verso, fin nel santuario delle coscienze.
Dalla giustizia ordinaria differita la economica nell'oggetto, nella
fon&a dei giudizii, nelle pene, n-elta indole de'suoi ministri (81). Ed
invero, conoscevano di flatti, non definiti per legg«, ma vaghi, di
mero sospetta o voglia: procedura ignota, guarentigia all'accusato
noesuaa: pene a capriccio: giudici che erano agenti prezzolati dal
poter civile, dal quale nemmeno aveano l'autorità di cui usavano:
prendevansela. Ciò che a giudici ordinarii era negato, arresttere senza
prove di reità, dannare in segreto a pene non iscritte, offendere
gl'imputati, erano i minori degli arbitrii per cui andava odiafta la
giustizia economica.
(79) Neri Corsini, fin dal 9 maggio 1831, in un Rapporto al Grantluca
(V. Zobi Docum, ufficiali ^ t. I, p. 187), aveva scritto queste notevoli pa-
role: « Dovendo qui parlare delle facoltà e poteri del Buongoverno (Po-
lizia) occorre di rimarcare, che queste facoltà sarebbero limitatissime
secondo Tart. 56 della legge 30 novembre 1786 le cangiate cir-
costanze de' tempi, hanno poi costretto ad ampliare in fatto quelle attri-
buzioni e senza che siano emanate nuove leggi o istruzioni, il Governo ha
annuito, ecc., ecc. »
Il ministro Cempini scriveva a di 20 agosto 1832 al collega Corsini:
« non si conosce la legge che riveste il Buongoverno di facoltà tanto
estese i* ; e più sotto lamentava « l'inconveniente di non esserci, almeno in
atto pratico un mezzo efficace di reclamo contro le risoluzioni economi-
che ». Venne allora pubblicata la legge 13 settembre 1832, che poco o nulla
definiva; all'arbitrio restò la forza di prima.
(80) Legge 9 marzo 1848.
(81) Galeotti, Delle Leggi e dell' Amministrazionr della Toscana, 1847.
STUDI! 8T0BICI E AMMINISTRATIVI 81
fiiassumerò le potestà della polizia, recando la definizione che
di essa davasi nelle scuole, e che ù scritta nel repertorio del dritto
patrio, al titolo Polizia vigilante. La quale suonava così: è scienza:
è parte del dritto criminale: ha per iscopo tener lungi dalla società
le offese, dagli animi lo stimolo: è economica quaudo previene le
male tentazioni, aiutando la diffusione de'mezzi di vivere: è didat-
tica vegliando alla istruzione della mente e del cuore: è vigilante
lorchò allontana le cagioni delle offese, e del disordine, anche prima
che scoppiano: perciò ha d'occhio gli oziosi: la vigilante dicesi poi
antigiudiziaria se limitasi a rimuovere quelle cagioni, giudiziaria
se castiga paternamente i traviati: la giudiciaria è correzionale se
si dispiega sopra immoralità, è semplice se sopra azioni oneste ma
pericolose, come il porto d'armi.
Così sollevata al fastigio di scienza, destro era chi riuscisse sca-
polar da tante reti ch'ella distendea in virtù di quelle tante potestà
e appellazioni di didattica economica, vigilante, antigiudiciaria, pu-
nitrice, correzionale, semplice, censoria, edilizia, sanitaria, munici-
pale. E perciò gli agenti suoi erano arghi a cent'occhi, centimani
a frugar ne'luoghi più riposti. Dal cane vagolante al cittadino che
paga l'èstimo, non v'era termine all'imperio loro. Vero è che la
civiltà del sito li aveva sdentati e disartigliati, prima che in età
fossero di straziare e mordere. Nondimeno ora per la memoria dei
giorni a loro nefasti, alla libertà benigni, ed ora per la voglia di
aggraduirsi gli Austriaci, vendicarsi delle facoltà perdute col meri-
tarne delle maggiori, taluna volta si provavano ad apparire feroci:
ma quelli non eran visi da tigre; onde non riuscivano altro che più
del solito vili e molesti. Sapeano di poter correre a parole, ad ar-
bitrii, assicurandoli il mite animo dei molestati: nò invero fu mai
esempio di testa di delegato mozza da un Ghino di Tacco. E perciò
punivano fino un mal sguardo, un gesto, un sospetto, a questa
maniera : strappavano taluno ai cari proprii : lo traevano al carcere : là
stava rinchiuso un pezzetto: poi lo si rimandava: il giudizio era
compiuto : la pena scontata. Ma il più di sovente la procedura era
anche più economica: chiamavasi il reo: ben bene lo si ammoniva;
con gli ammonimenti, buona copia d'ingiurie: poi lo si licenziava.
Lo scilinguagnolo de'Toscani in bocca al delegato, vero rigagnolo
di contumelie e di immondizie. Guai a chi ardisse tener testa alle
parole: poteansi mutare in funi e attortigliarsi ai polsi dell'incauto.
Fin qui tormentavano a capriccio : verrebbe il giorno in cui la potestà
di tormentare avrebbono i delegati da una legge.
XIX. — Vengo omai all'amministrazione civile, incominciando
da quella che dal ministero dell'interno suole dipendere. Era lo
Rivista C — 6
82 RIVISTA CONTBMPORANBA
stato divìso in compartimenti, circondarii, distretti e comunità (82):
le prime due partizioni, governative: le seconde amministrative. A
capo del compartimento stava un prefetto, del circondario un sotto-
prefetto, del distretto un ministro del censo: dei comuni un gonfa-
loniere.
B poiché il comune è tanta parte, anzi il sostegno deiredificio,
varrà che io ne discorra un po' da alto, e a lungo, gli ordini suoi.
Reggevansi le comunità senza codice, con leggi antiche, varie da
città a campagna, via via lungo gli anni offese da posteriori ; con
lacune mai colmate, altre apertesi nelle mutazioni del governo,
screpolature per ogni dove: mostre di largo vivere, e sommissione
a quanti erano gli stipendiati dello Stato: lo Stato non tutore ma
arbitro dei comuni: gravi i carichi, mal ripartiti, peggio ammini-
strati, testimonio il deficit: non votati da chi vi contribuiva: dalle
magistrature banditi gl'ingegni che non avessero censo: magistrati
senz'uffici: gli uffici alle mani di intrusi: gli ordini del comune,
conquassati: qua e là le ruote sue infrante: fermo il moto: il comune
alla mercè del governo.
Guai erano questi di antica origine: ne'secoli andati, quanti erano
comunelli, altrettanti gli Stati liberi, retti da statuti, di età antichis-
sima, Tuno a rovescio dell'altro, secondochè erano di comuni rurali
o urbani, prossimi o lontani a feudi: la feudalità li oppresse: le
repubbliche ne disfecero una parte: i Medici il resto; Leopoldo I li
ravvivò sulle ruìne de'feudi: diede loro balìa di se stessi; poi in
parte la ritolse: Ferdinando III serbò le apparenze di libertà, tolse
tutta la sostanza (83). Nel quarantanove, nonostante le seguite vi-
cende, eran sempre i comuni tal quale furono dal 1816.
Coglierò da leggi e regole infinite (84), monche, contraddittorie,
le potestà e gli ordini loro. I quali erano questi: il magistrato dei
priori e il consiglio dei deputati del popolo: così li chiama la legge
(82) Decreto 9 marzo 1848.
(83) Legge 16 settembre 1816.
(84) 27 dicembre 1769 -- 12 maggio, 27 settembre, 7 dicembre 1772 —
13 febbraio , 22 dicembre 1773 — 23 maggio, 23 settembre, 29 settembre,
2 ottobre 1774 — 10 aprile, 17 luglio, 25 febbraio 1775 — 25 gennaio, 13
febbraio, 3, 17, 23 giugno, 17 luglio 1776 - 2 giugno, 24 novembre 1777 —
11 aprile, 30 giugno, 7 luglio, 7 dicembre 1778 — 20, 24 aprile, 16 novem-
bre 1779 — 20 novembre 1781 — 26 novembre 1783 — 26 giugno, 17 set-
tembre 1784— 22 maggio 1785 — 23 gennaio, 22 maggio 1786 — 28 luglio
1787 — 29 aprile. 3 luglio 1788 ~« 20 aprile, 28 ottobre 1789 — 25 giugno,
6 luglio 1791 —15 giugno, 18 novembre 1798 — 2 maggio 1805—27 giugno,
12 settembre 1814 — 4 febbraio 1815 — 16 settembre 1816—20 gennaio
1817 — 6 aprile 1818 — 7 gennaio, 13 settembre 1819 — 27 gennaio 1820 —
15, 30 aprile , 18 ottobre 1822 — 22 marzo , 11 settembre 1827. — E circo-
lari, biglietti, istruzioni senza numero.
STUDII STORICI B AMMINISTRATIYI 83
del secol scorso. Il numero degli uni e degli altri vario secondo il
luogo. A capo de'priori il gonfaloniere: lo eleggeva il principe:
stava in carica tre anni (85): i priori due: anch'essi eletti dal prin-
cipe, sopra un numero doppio del bisognevole, estratto a sorte fra
i contribuenti del comune (86) : il giudizio del principe, qui come
pel gonfaloniere, rischiarato dalle informazioni della polizia. I de-
putati del popolo, come i priori, estratti a sorte, ma vari i requi-
siti che agli uni e agli altri si domandavano : le regole della im-
Mrsazione , il censo e la condizione degl'imborsati , variavano da
comune urbano a rurale : negli urbani (in numero di quattordici) i
possidenti erano distinti in tre borse, de'patrizi, de' cittadini, e dei
campagnuoli che pagassero almeno due fiorini di imposta : nei
rurali, non guardavasi al censo, ma alla condizione di padre fami-
glia. Una borsa conteneva i nomi di tutti quelli ch'erano possidenti ;
un'altra, dei coloni ed artigiani (87). In ogni comune, esclusi i
commercianti e gli scienziati: ne' Comuni urbani anche gli artigiani
e i coloni : ma in nessun luogo quelli che operano con l'ingegno
erano preferiti ai braccianti. Fra tante difformità questo pregio, che
gli ebrei ed i scismatici fossero a pari de'cattolici. Ma maggiore di
quel pregio era questo vizio, che i possidenti campagnuoli, sover-
chiando quei di città, causa la pochezza del censo, ogni ufficio era
loro, e gli ordini del comune, alle mani di quei che meno inten-
dono: né la sorte potea essere piO illuminata dalla legge.
Ora delle potestà: mal definite ab antico: peggio quando altre
leggi vi recarono mutamenti ; incertissime poi lorchè molte attri-
buzioni dal consiglio scesero al magistrato , e da questo al gon-
faloniere. Rarissime volte rìunivansi i consigli; e quelle poche
erano le facoltà loro ridotte a confermare o eleggere i medici, gli
impiegati del comime, stabilirne le provvisioni , aprire o chiudere
strade, scegliere chi ripartisse la tassa di famiglia, e quella degli
artieri, ne'luoghi ov'era, votar le spese pel mantenimento de'ponti,
degli alvei, delle strade, ed altre minori facoltà. Le entrate e spese
che dicevansi ordinarie (88), in piena balìa del consiglio, esecutorie
appena votate, senza uopo di altra* approvazione. Ogni spesa però
straordinaria, rigorosamente vietata: doveasi richiederne l'assenso
incominciando dall'autorità più vicina, fino al culmine della ge-
rarchia, il ministro. Ma poiché indefiniti erano i rapporti delle rap-
presentanze comunali cogli ufficiali del governo, e la ingerenza loro
nei negozii del comune, non era limitata da alcuna legge, cosi av-
(83) Decreto 4 febbraio 1815.
(86) Id. 16 settembre 1816.
(87) Id. 23 marzo 1774.
(88) Id. 30 novembre 1781.
84 RIVISTA CONTEMPORANEA
veniva che essi , dal primo rilP ultimo erano altrettanti tutori del
municipio, per fin l'ingegnere dell'acque e strade.
Come poi il consiglio avea nome, non balia di legislatore, cosi
il magistrato potea dirsi ombra senza corpo: o corpo senz ufficio :
perchè ogni potestà era in man dei gonfalonieri , i quali meglio
che rappresentanti del comune , erano agenti del governo e degli
infimi della gerarchia: come tali, a quando a quando rimbrottati,
intimiditi (89). Aveano talune facoltà di buon governo, tale altra
di governo civile, obbligo di ragguagliare l'autorità ogni sei mesi,
non sui voti ma sui portamenti del comune: esercitava la polizia
municipale, ed altri uffizii, tanto da confonderlo fra gl'impiegati, e
averlo sottoposto ad ogni ordine di funzionarii, fino a quello dei de-
legati di polizia.
Le quali potestà e attribuzioni dei gonfalonieri erano accre-
sciute , accorciate , contraddette da circolari , editti senza numero.
Della docilità loro ai funzionarii del governo , ricattavansi impe-
rando sul magistrato e sul consiglio, od usurpandone le atttribu-
zioni : avvegnaché quanta autorità era lasciata al comune , altret-
tanta avessero eglino chiusa nel loro pugno. E così poteano dirsi
arbitri dell'entrate e de' beni comunali , regolatori supremi delle
spese : i conti davano tardi o mai: onde l' amministrazione ora
alla peggio : la piccolezza di taluna comunità , causa prima delle
sue tribolazioni : altre erano popolose ma fallite : di ricche, nessuna :
le spese d'amministrazione qui toglieano un quarto, là metà delle
entrate. Queste superavano per tutti i comuni della Toscana i tre-
dici milioni: nascevano dalla prediale per sei, e da altre gravezze
né generali, né uniformi, come quelle pel mantenimento de' corsi
d'acqua, e le decime: un decimo e più nasceva da beni, proprietà
antiche, di cui i comuni non serbavano omai che il dominio diretto :
la proprietà era nei privati. I debiti. de' comuni superavano i trenta
milioni; e s'accrescevano ogni anno. Compilavano i comuni il loro
bilancio sulle cifre date dal gonfaloniere, lo rivedea lentamente l'uf-
ficio de'sindacati; l'indugio togliea ogni virtù alla revisione: ripar-
tivano da sé le imposte: le riscuotevano i ^ camarlinghi, specie di
servi a due padroni, il comune e Io Stato.
Ninna indipendenza era dunque negli ordini municipali: dignità
nessuna in chi vi avea parte, colpa la sorte, che scegliendo fra i
(89) Circolare del presidente del Buon Governo, 18 seti. 1815. — » A
questo essenziale dovere (dei rapporti semestrali) non venendo corrisposto
dalla maggior parte dei Gonfalonieri destinati dalla legge ad essere miei
efficaci cooperatori nella più delicata ed interessante parte di pubblico
servizio, mi trovo nella necessità di richiamare alla memoria dei Gonfa-
lonieri le disposizioni delTart. 11 delle Istruzioni 20 gennaio 1817, onde
vogliano farsi carico di xiniformarsi esattamente ai sovrani comandi.
STUDii Storici e amministrativi 85
più coglieva gV inetti, spesso illetterati, alla mercè poi di un furbo
che la sorte avesse pescato nel fondo delle borse e lanciato a pe-
scare nel consiglio o nel magistrato. Severi ordini, non leggi, vie-
tavano ai comuni il metter voce, in quel che strettamente non si
riferisse alla economia loro (90): le deliberazioni cassate, mutilate
ad ogni pie* sospinto, alle magistrature tolta ogni forza, fino nell'am-
bito in cui più ne aveano di mestieri: e perciò le cariche erano
tenute in nessun conto e i migliori cittadini schifavano onestarle
del loro nome, averne i titoli, non le potestà. La indifferenza ad aiu-
tare la vita del municipio era tanta, che ben di# sovente or questo
or quello ritrovavasi senz'amministratori: tali divenivano allora gli
agenti del governo. Ed a siffatta conseguenza li traeva egli, non giu-
dicando i municipii base e sostegno della piramide sociale, e perciò
disfacendone la vita. Le forze loro assorbiva e struggeva nello Stato;
lo Stato, centro d'ogni ordine, senza pregio nemmeno di unità, cosi
era tutto, il comune nulla: o tutt'al più macchina buona a spremer
sangue, cioè denaro, per sé e per lo Stato: cosi né le proprie entrate
né gl'impiegati suoi gli apparteneano: il governo, estorceva o to-
glieva a prestito. le prime, sfruttava l'opera de' secondi, testimoni i
camerlinghi. Fino al quarantotto i comuni vissero di vita ignorata
fin dai contribuenti, e dipesero dal ministero della finanza: da un
annoerai in tutela di quel dell'interno (91). Veniva promessa poi una
legge, la quale dovea definire i limiti della tutela, i dritti di quei
singolari pupilli, i comuni, un di repubbliche libere: indicare le
autorità tutorie: sostituire alla sorte il voto degl'illuminati: disfare
la scarmigliata orditura degli ordini comunali. A suo luogo misu-
reremo le promesse ai fatti.
XX. — Il distretto era un aggregato di più comuni : talvolta com-
poneasi di un solo : avea a capo un ministro del censo : lo nominava
il principe : questi i suoi uffici : custodire i libri e documenti cen-
suarii, eseguire le operazioni risguardanti i passaggi delle proprietà,
compilar le liste dei contribuenti alla prediale, degli elettori e degli
eligibili ài Parlamento. Avea seco un Aiuto con cui dividea il la-
voro. Né altra importanza amministrativa ebbe mai il distretto: nes-
suna poi politica.
XXI. — Dal distretto allo Stato non eranvi che divisioni gover-
native, nissuna amministrativa. Le quali eran le seguenti: undici
circondarii, otto compartimenti : ciò che il prefetto era agli uni, il
(90) Circolare 14 agosto 1815 incaricava i Cancellieri di — Annunziare
alle magistrature , che il Governo vuole che si astengano dal deliberare
sopra oggetti non re feribili strettamente alla loro economica amministrazione.
— Cosi il Comune, come ente morale, era spento.
(91) Decreto 9 marzo 1848.
86 RIVISTA CONTBHPOBANBA
vice prefetto era agli altri : quello dipendea dal ministro deirinterno,
questo dal ministro e dal prefetto. Ninna legge diceva i termini della
dipendenza loro, ninna definiva quelli della vigilanza sulle autorità
subalterne, le relazioni dei capi politici coi polizieschi, coi giudiziari],
con le rappresentanze dei comuni : la legge che istituiva gli uffici,
dette loro nomi nuovi, tacque delle potestà, meno di quella de' pre-
fetti sopra i pretori e delegati, in quanto esercitassero attribuzioni
di polizia amministrativa: l'uso faceva che, funzionarti di ordine e
grado diverso esercitassero uffici uguali : dei conflitti che ne nasce-
vano, giudicava il tempo : chi più tirava, quei la vinceva. Non molti
gli impiegati di segreteria in ciascun circondario e compartimento :
due consiglieri allato dei prefetti : le attribuzioni loro le avrebbe
meglio definite una nuova legge : cosi diceva quella che istituiva
que' posti (92).
Se il comune avea vita di tisico, una rappresentanza serva, il
circondario non ne avea alcuna, il compartimento nemmeno, all' in-
fuori di un Consiglio per quanto concerneva strade, acque, benefi-
cenza e sanità (93); e nulla più. Nel concetto de' governanti toscani,
altre necessità provinciali non aveano da esistere,. o ninno rappre-
sentarle, esserne l'interprete : attendessero che il governo se ne ac-
corgesse da sé. Cosi mancava, ciò che da lunghi anni aveano altri
Stati d'Italia, le rappresentanze provinciali; onde gli interessi del
circondario o della provincia erano alla discrezione del governo, non
degli interessati. Queste cose erano lafnentate da tutti; e ninno vi
avea provveduto quando n'era il tempo, prima che seguissero i disastri
e la invasione degli Austriaci. Che anzi nacque questo caso, il quale
io reco perchè la tristezza di queste pagine si rompa in un riso:
cosi fosse dato ridere sempre della povertà nostra, ogni volta che
gli antichi guai della patria turbano l'anima. Composta nel quaran-
tasette una Commissione di venti, a gettare le basi di nuovi ordini
municipali e provinciali, si disciolse appena udì concesso lo Statuto :
quasi che con lo Statuto sparissero le necessità dei municipi! e delle
Provincie, o le rappresentanze loro avessero a fondersi in quella dello
Stato : sicché dopo che ebbero, lungo due mesi, assordato senza frutto
la sala di Luca Giordano ove si riunivano, udironsi per bocca del loro
presidente, queste parole : gli studii e la missione loro, e le speranze in
loro riposte, ornai prive di scopo : le conferenze tenute, averli dimo-
strati atti a discutere ben altri interessi che non i municipali o com-
partimentali : la sala dei Cinquecento li attendeva: vi corressero.
Questi legislatori ebbe in quei tempi la Toscana.
(92) Decreto 9 marzo 1848.
(93) Idem.
I
STUDII STORICI E AMMINISTEATIVI 87
XXII. — Ebbe cosi lo Stato un Parlamento, prima che il comune
e la provincia ottenessero una libera rappresentanza, onde la pira-
mide iircominciata dal culmine, non avea altri ordini che la reg-
gessero, non la naturai sua base, il municipio: stava da sola, fra
ordini d'ogni tempo, indole e colore, principio di un ordine nuovo
non addentellato al vecchio; e le masse che vivono ad intervalli
della vita politica ed ogni giorno della vita municipale, doveano
rinunciare a questa per quella, finché poi rimanessero prive d'en-
trambe. Lo Statuto quasi conscio di non poter vivere da solo fra ordini
cosi diversi, promettea esser seguito da queste leggi, invano attese
poi, che tutte assieme doveano compier Topera e rifare a nuovo lo
Stato: quelle sulle attribuzioni de' funzionarii civili; sugli ordini dei
municipii e dei compartimenti, a squittinio, non a sorte; sulla istru-
zione pubblica; sulla uniformità delle leggi in ogni punto dello
Stato; sulla responsabilità dei ministri e dei loro dipendenti; sulle
espropriazioni per causa di pubblica utilità : per tacer di altre leggi
sulla stampa, sul dritto elettorale, ecc., ecc., venute in luce poco dopo.
Ora quest'era la sostanza dello Statuto (92)
Notevole in quello Statuto la facoltà che aveva il principe di
stringere trattati e leghe senza udire il Parlamento: il divieto di
accogliere nello Stato presidii stranieri: l'obbligo di riunir le Ca-
mere ogni anno, riconvocare il Consiglio tre mesi dopo averlo di-
sciolto: ora come fossero rispettati questi obblighi del principe,
come egli usasse di quella facoltà, quanto vivesse lo Statuto, lo ve-
dremo a suo tempo.
XXIII. — Fin qui delle rappresentanze de' comuni, dei compar-
timenti e dello Stato. Ora del governo che nel silenzio del Parla-
mento, nell'assenza del principe accoglieva in sua mano quanta po-
testà sfuggiva agli invasori austriaci. Quel che i vice-prefetti erano
al circondario e i prefetti al compartimento, i ministri erano allo
Stato. Tutta Tamministrazione spartivasi, prima fra cinque (95) poi
fra sette mmisteri (96), estero, intemo, giustizia e grazia, affari ec-
clesiastici, guerra, finanza, istruzione, da cui dipendeaBO le arti e
la beneficenza; il commercio e i lavori pubblici erano parte della
finanza: la polizia parte dell'interno.
Servo il comune , nullo il compartimento, invaso lo Stato , la
(94) Lo compilarono Nicolò Lami, Gino Capponi, Pietro Capei, Leonida
Landucci, Leopoldo Galeotti. Lo promulgarono, il 15 febbraio 1848, i mi-
nistri F. Cempini, C. Ridolfi. B. Bartalini, C. Serristori e G. Baldasseroni.
(95) Decreto 16 marzo 1848.
(96) Decreto 4 giugno 1848.
88 BIVTSTA CONTEMPORANEA
rappresentanza di ogni ordine e dello Stato era perciò nei ministri.
Dalla circonferenza dovea la vita rifluire al centro: al centro volgersi
ogni rivo deiramministrazione, gli ordini del principe lontano e
degli Austriaci : i vizii della centralità tutti quanti, senza il pregio
dell'unità: la forma costituzionale col principe in esilio e i nemici
in casa. Il governo perciò avuta l'imbeccata del granduca e tastato
il generale degli Austriaci, raggiava i suoi voleri al compartimento,
al circondario, al distretto, al comune. Raccoglievasi adunque nei
ministri ogni balìa, quella di ordinare e quella di eseguire, potestà
esecutive e legislative a un tempo : ninna rèmora tranne la paura di
dispiacere agli Austriaci vicini, al principe lontano: complice de' mi-
nistri il consiglio di Stato. Era composto cosi (97): un presidente, che
era il primo ministro, un vicepresidente, i ministri di Stato, nove con-
siglieri ordinarii, altri straordinarii, varii relatori ch'erano i segretarii
dei ministri, sei uditori, un segretario: i consiglieri ordinarii retri-
buiti, li straordinarii no: solo i ministri e i consiglieri aveano voto
deliberativo. Divideansi per sezioni ; erano tre, pegli affari ammini-
strativi, pei giudiziari! e di culto, e per quelli della finanza: in
ciascuna preparavansi i lavori : discutevansi poi fra tutte, meno per
le cose di minor conto : le deliberazioni erano valide se prese a mag-
giorità di voti, presenti due terzi dei membri, non compresi ì mi-
nistri; Dava parere il Consiglio sui progetti di legge, e di sovranjB
disposizioni; altri compilava quando n'era richiesto: necessario sol-
tanto il suo voto sopra regolamenti per le pubbliche aziende: nel
resto rispondeva, se dai ministri era interrogato. Cosi quel che al-
trove alleggerisce la soma dei ministri, qui era un corpo senz'anima:
le facoltà sue pressoché nulle : quelle poche mal definite dalla legge :
ancor più vago il modo con cui avea da esercitarle : servo dei mi-
nistri che nel Consiglio sedevano, vi avevano voto, e nelle sezioni i
loro segretarii. A questo modo la parte come il tutto, era invasa e
diretta dai ministri. I quali potea pur dirsi vincessero di numero i
consiglieri ordinarii, non essendo questi più di nove, mentre quelli
erano sette e compatti. I segretarii loro riferivano in Consiglio sul-
l'opera propria, i ministri giudicavano quelli e se stessi. Le sezioni
del Consiglio, quasi fossero sezioni del ministero, rette da funzionarli
che qui erano segretarii, là relatori: devoti in ogni cosa ai ministri,
pei quali il Consiglio di Stato era ciò che il Consiglio di Prefet-
tura ai prefetti; non il fonte delle leggi, non tribunal supremo
di amministrazione, non moderatore de' ministri, ma ora docile loro
strumento, ora sollevato da essi a grado di Consulta, pur di riversare
sopra altrui la responsabilità dei proprii atti. A questo modo nel
(97) Decreto 15 marzo 1848.
STUDI! STOBICI B AMMINISTRATIVI 89
pugno di quelli accen1a*aya8i ramministrazione che si partiva dal
comune, ingrossava nel circondario, s^allargava nel compartimento:
al disopra dello Stato, quasi loro piedestallo, i ministri ; ed il Con-
siglio, non loro giudice, ma servo o complice. Lo vedremo alle prove.
XXIV. — Non confortevoli le condizioni della finanza. Non oravi
ciò che dicesi gran libro o monte comune, in cui si registrano e gua-
rentiscono i crediti sullo Stato : ma se non la formalità della iscri-
zione, oravi la sostanza, cioè il debito. Grave alla fortuna pubblica
ed al credito dello Stato: incerto poi se più la importanza dei de-
biti, 0 il non essere raccolti in un libro a quiete dei creditori, nuo-
cesse a quella riputazione di prosperità che si ebbe lo Stato, dacché
Napoleone, rovQ^ciando i beni del clero nella voragine del monte
comune, Tebbe colmata. Avea di due maniere debiti (98) : fruttiferi
dal due al cinque per cento, ed infruttiferi. Fra i primi quello a favore
ieirimperator d'Austria, resto di vecchio credito, dubbio neir origine,
avvalorato dalla prepotenza imperiale (99), consentito dalla viltà gran-
ducale: sommava ^ sei milioni e trecentomila; e più altri quattro milioni
iifuttiferi, saldo di frutti su quel capitale : la causa pia e gli spedali,
per beni venduti nel quindici, erano creditori di quasi tre milioni e
metzo: Tappaltatore dei taWchi lo era per mezzo milione; la Banca
di Éconto per quasi uno intero ; la Cassa di risparmio per tre, le co-
muiità e luoghi pii, a titolo di prestanza, per oltre sette; eranvi
credti privati per undici ; debiti deirex-ducato di Lucca per tre e
mezz* : quasi due milioni avuti a prestito nel quarantotto ; uno nel-
Tapria del quarantanove : sei di buoni del tesoro emessi nel breve
goverio dei triumviri ; oltre due milioni con de' fornitori ; tre e mezzo
in cam)iali a carico del tesoro ; quattro a credito delle amministra-
zioni di vari i dipartimenti. Sommavano così i debiti fruttiferi a cin-
quantaqattro milioni e mezzodì lire: gli infruttiferi, compreso quello
di quatti» a favore delFimperatore austriaco, ed altri varii e sparsi
qua e làyg-iungevano a più di diciotto milioni. A riscontro di questi
debiti, pale repetibili e parte no, figuravano nei bilanci dello Staio
centosedicimilioni, fra palagi, ville, edifizii varii, terreni, miniere di
ferro, saline zolfiere, artiglieria, munizioni, azioni sopra ferrovie e
banche, maha e suoi attrezzi, crediti, compresi quelli di incerta
esigenza. Di^uesti beni e capitali, solo quarantatre milioni erano
fruttiferi, il reto no : degl'immobili valutati sessantaquattro milioni,
solo trentasett fruttavano alla finanza: il rimanente erano di uso.
Né qui è tutto la cifra de' debiti sebben minore di quella de' beni
e capitali, era Cavissima alla fortuna publica, si perchè quelli co-
(98) Rendimela di conti della Finanza toscana pel 1847. — Idem per
gli anni 1848, 184. 1850, del ministro delle Finanze.
(99) V. Zobi Do^m. uff. t. 2, e. XXII. • . -
90 RIVISTA OONTBMPOBANBA
stavano di annuo frutto, più che non rendessero i centosedici milioni
attivi, sì perchè questa era cifra scritta è vero ne' bilanci, ma illu-
soria : stava non ad inganno dei creditori dello Stato, ma a giustifi-
care innanzi ai sudditi lo sperpero del pubblico denaro, dacché era
salito al trono il granduca regnante. Perchè in quella cifra di beni
e capitali erano scritte le somme spese a miglioria di terreni, ri-
stauro d'edifizii, colmature di paludi, e quelle altre per cui si parve
al Giusti che il principe asciugasse tasche e maremme: al che Leopoldo
incontrato il poeta per via, rispose arguto: erraste, asciugai le tasche
e non le maremme : ed era pura verità. Ora questa singoiar specie
di capitali attivi, erano una bazzecola di ventun milione e più: per
non dire de' crediti fluttuanti, dubbii nell'origine o di incerta riscos-
sione. Ogni anno perciò aggiuntavasi qualche somma al frutto dei
beni perchè pareggiasse l'interesse dei debiti : e questi s'accrescevano
di alcuni milioni a cuoprire tutte le spese annue. Perchè se da al-
cuni anni erano andate crescendo le entrate, assai più aumentarono
i dispendii e coi dìspendii i debiti; circolo vizioso in cui n'andata
di sotto la pubblica fortuna e il credito dello Stato.
XXV. — Già ai tempi del primo Leopoldo erano le entrate n«ve
milioni; altrettante le spese (100). Le vicende innanzi il quinlici
aveano creato nuove spese e nuove risorse, le antiche raddóppiite :
nel ventiquattro, salito al trono Leopoldo II, pochi erano i deoiti :
alcuni milioni di contante nel tesoro, alcuni altri di annuo civinzo:
ma le spese superavano già i sedici milioni all'anno: le entiate, i
diciannove (101). Nel quarantasette queste erano giunte a vei^isette
milioni e quelle a ventinove; annuo disavanzo di due milioii, per
cui, già da tempo, eransi raddoppiati i debiti. L'annessione d Lucca,
la perdita della Lunigiana, la guerra e i disastri del quaantotto,
le baldorie della plebe nel quarantanove, cause di calami tàpubliche
e sconcerti finanziarii, fecero il resto. Crebbero alcune tase: altre,
nuove di pianta, poi cancellate col ristauro del principat' e supplito
ai bisogni con prestanze e nuove imposte.
Quattro categorie d'entrate provvedeano allora allf spese dello
Stato. Le dirette, cioè la prediale, innanzi il quaranset^ di tre, poi
di quattro e mezzo, solo nel quarantanove oltre setteniilioni ; e la
tassa di famiglia quasi per due. Le indirette, regalie /varie imposte
fra cui i dazii doganali, e quei di consumo in talu> città, non in
tutte, per nove milioni e mezzo ; la tassa de' commer anti a Livorno
per oltre trecentomila ; le sanitarie quasi altrettant; il canone del-
l'appalto del tabacco per due milioni e trecentom&; l'azienda del
(100) F. Governo della Toscana — Rendiconto di Leroldo I.
(101) r. Bilancio consuntivo originale 1824 esisten» manoscritto nella
Regia Depositerìa.
STUDU STORICI B UOnNISTBATIVI 91
sale per quasi tre ; quella dei lotti per due ; le Poste per mezzo ;
il bollo e registro per un milione e mezzo; gli emolumenti giudi-
ziarii ed altro per settecentomila; i fiscali per trecentomila; gli uni-
versitarii quasi per centomila : le indirette superavano perciò dician-
nove milioni. Le patrimoniali, cioè le rendite de' beni, delle miniere,
de' censi, canoni dello Stato, sebbene figurassero per un valore di
cento sedici milioni, non giungevano a un milione ed ottocentomila
lire annue. Per ultimo i rimborsi cioè le somme con cui le comu-
nità concorrevano a stipendiare gli ingegneri delle acque e strade, la
tassa di revisione con la quale i Luoghi pii compensavano la tutela
che lo Stato avea su di essi, ed altre di cui taluna eventuale, in
tutto quasi mezzo milione. Così nel quarantanove le rendite dello
Stato sommarono a trentun milione di lire (102).
Maggiori delle entrate, le spese: erano queste: raiq[)anaggio del
principe per due milioni settecento sessantaquattro mila lire; l'ammi-
nistrazione civile per quasi due milioni; le relazioni estere oltre
quattrocento mila lire ; la guerra oltre dieci milioni ; la giustizia per
tre; le carceri per ottocento mila; i frutti dei debiti circa tre milioni;
la sanità pubblica per oltre settecento mila; il culto per trecento
mila; l'istruzione per un milione; lavori d'acque, strade, edifici pub^
blici tre e mezzo ; censimento mezzo* milione ; beneficenza pubblica
uno e ducentomila ; pensioni quasi cinque milioni ; spese di perce-
zione delle rendite quattro milioni e mezzo ; buonificio delle maremme
quasi trecento mila : nel quarantanove, colpa le vicende politiche,
sommarono le spese a quasi quaranta milioni : cosi superando di nove
milioni le entrate (103).
XXVI. — Delle quali discorrendo in succinto dirò primieramente
che non grave, sebbene cresciuta di un terzo (104) da quel che era
nel quaransette, la fondiaria che andava a profitto dell'erario ; mag-
giore di essa quella a profitto dei Comuni : ripartite entrambe a do-
vere: il catasto, incominciato l'otto, sospeso il quattordici, prose-
guito il diciannove, compiuto il trentuno, attivato il trentaquattro,
dirigeva la finanza perchè colpisse a segno : i beni fondi stimati sulla
rendita capitalizzata al cinque per cento, detratte le spese annue:
la rendita, presunta minor del vero, onde le stime de' beni riusci-
rono tali che pochi fecero lamenti : le case stimate in ragion degli
aflStti, norma varia e fallace. Niun immobile, da Leopoldo I in poi,
immune dai tributi: tutti, chiesastici o laici, privati o regii, n'erano
colpiti. Si v'erano eccezioni e alleviamenti pei luoghi ove i miasmi
(102) V, Rendimento di conti della Finanza toscana per gli anni 1848,
1849, 1850, pubblicato dal ministro Baldasseroni. Firenze 1852, tip. Grand.
(103) lìndem,
104) Decreto 28 marzo 1848.
92 RIVISTA CONTEMPORANBA.
costringevano a gettar l'aratro, le malattie fugavano i y illiei, e 1
privilegi e le immunità tentavano richiamarli. Le paludi, un sesto
del territorio, invano migliorate da tagli, colmate, argini, canali,
gettando cosi molti milioni per nobilissima ma sfortunata ragione.
Dirò più innanzi, come nel quarantanove fosse giunta la spesa a
venti milioni, senza che a quelle maremme si restituissero gli abi-
tanti, esse air aratro, né fossero pervenute ad alleviare la finanza coi
tributi come ogni altro suolo. All'isola del Giglio era fatta grazia
d'ogni imposta terriera : alla Pianosa ed all'Elba solo di quella parte
che va in beneficio dello Stato. Fra gli altri redditi, odioso il testa-
tico, grave dacché venne doppiato: colpiva per stirpi non per capi.
La tariffa doganale risaliva al secolo scorso, meno le mende e le
aggiunte che ne doppiavano e contraddicevano il testo. Il tabacco (105)
e la pesca del tonno monopolio di appaltatori, il sale regalia del
governo. Dogane ai confini, a riscontro di altri Stati, miti: alle
porte delle città, gravissime e fastidiosissime : né sempre uguale, né
dappertutto, il dazio consumo. Considerevole il reddito del Lotto (106)
con cui il Governo alle volte ruba, sempre vince il denaro del po-
vero (107). Gravi il registro, le tasse giudiziarie, le fiscali, regolate da
leggi antiche : quella del registro, risaliva al quattordici (108) ed era,
così la chiamò una legge posteriore (109), oscura e scompleta ; vi sup-
plivano interpretazioni, circolari, aggiunte, che in Toscana non man-
cano mai, nemmeno ai monumenti puTDblici. I beni del demanio,
centosedici milioni, sparsi sopra sessantotto mila* ettari, non rende-
vano da pagare i frutti dei debiti fruttiferi, cinquantacinque milioni:
colpa la mala amministrazione, le beate illusioni sul valor de' beni,
la certezza dei debiti : la rendita netta non ascendeva a lire venti
per ettare. E perciò le annue spese superavano le entrate, prima di
due, poi di sette, poi di nove milioni: arduo il sopperirvi, sia ricor-
(105) Notevoli in Toscana le vicende della piantagione del tabacco. Leo-
poldo I la concedè (18 giugno 1789); Ferdinando III la vietò (18 ottobre
1791); tornò libera a tempi dell'Elisa. Nei ristauro del 15, limitata solo
ad alcune località: il 15 maggio 1830 per ultimo proibita dappertutto.
(106) V. nota 11, pag. 64 il detto di Giangastone.
(107) Per un caso ben raro, scherzo della fortuna, furono tante le vincite
del 1849, che la finanza non introitò che mezzo milione, di due che ogni
altro anno era e fu usa a vincere sui privati. Nel rendiconto del ministro
delle Finanze pel 1848-1850, leggesi, pag. 7, questo lamento, contro la
fortuna che si era permesso quello scherzo « n^m lascierò inavvertita la
tf circostanza straordinaria che nell'anno 1849 fu perduta quasi affatto la
« rendita della Regalia del Lotto, essendosi di tanto elevate le vincite a
ff confronto delle giuocate da non lasciar margine alle spese di ammini-
« strazione ».
(108) Legge 30 dicembre 1814.
(109) V. Legge 25 gennaio 1851.
STUDII STOBICI B AMMIKISTBATIVI 93
rendo ai privati, sia all'estero, sia ai beni del demanio. Fra le spese,
la lista civile gravissima, un dodicesimo di tutte le rendite; quasi
il doppio di quel che era regnante Leopoldo I (110) : la guerra, prima
un settimo, poi un quarto, poi un terzo delle pubbliche risorse, se-
condochè ai valorosi di Curtatone era succeduta gente fuggiasca nei
perigli, vile ai confini, licenziosa e turbulenta per le vie, brutta
gente da posporre, per sicurtà pubblica e privata, a soldati merce-
narii (111). Gravissimo il carico delle pensioni e dei sussidii agli impie-
gati, or premio di onorati servigi, ora alla ignoranza, altre volte a
servigi colposi : sempre poi numerosa la turba de' pensionati, de'po-
stulanti sussidio, di tutto un po', insaziabili ancor dopo che allo Stato
mungevano un ottavo delle entrate. L'istruzione invece figurava
umile e modesta nel bilancio per solo un milione, appena un qua-
rantesimo delle altre spese. Molto spendevasi ne' pubblici lavori,
quantunque le sole strade postali e fabbriche regie fosserq a carico
dello Stato : alle vie provinciali attendessero i Comuni : ai fiumi e
canali navigabili, i possessori frontisti. Perultimo, enormi le spese di
percezione dei redditi : quelle del patrimonio dello Stato salivano al
trenta per cento de' profitti : per le indirette variavano dal venti al
settanta, meno pel tabacco dato in appalto: la prediale e personale
nette di ogni spesa, riscuotendole le comunità per conto dello Stato:
le spese di percezione superavano quindi il venti per cento di tutte
le entrate.
XXVIL — Ora degli ordini che amministravano la finanza. Un
uflScio generale di revisione (112) sindacava le aziende dello Stato,
fino le comunali e quelle dei luoghi pii. Il denaro pubblico era rac-
colto in un sol tesoro, quel della Depositeria ; di là versavasi al di
fuori per le spese. Le regie possessioni amministrate da un soprin-
tendente per conto dello Stato : dal tesoro pubblico toglievasi la prov-
visione 0 lista del principe: delle imposte dirette, lo Stato ricono-
sceva debitori i Comupì e non i censiti : riscuotevansi dai camar-
linghi, a rate bimestrali insieme alla quota di spettanza de' Comuni:
versa vansi nel tesoro ogni due mesi. Tre uffici di contribuzioni in-
dirette: quel delle dogane, dazi i consumi, pedaggi, marchio e bollo,
in Firenze, dal quale dipendevano sei direzioni, una per città: quel
del registro e aziende riunite, la cui amministrazione divideasi fra
tre compartimenti, di Firenze, Siena e Pisa; nei circondarii un ufficio
di esazione: per ultimo quel della lotteria. — Le condanne pecunia-
(110) Con Francesco TI ammontò a 1,260,000 lire; con Leopoldo I a
1,575,000; con Ferdinando HI a 2,604,000 ; con Leopoldo If a 2,764,000.
(Ili) V. Ricordi sulla Commissione governativa del 1849 di G, Cambray
Digny, cap. IX.
(112) Risaliva al 20 marzo 1795.
94 BIVISTA CONTBMPOBANBA
rie, le spese processuali esigevansi dairufficio del Regio Fisco (113),
il quale attendeva alla economia delle carceri, alle spese pel servigio
deUa giustizia criminale, e ad altro. Cosi raccoglievansi da ogni
angolo dello Stato le entrate pubbliche e facevansi le spese : sem-
plicità lodevole, ma costosa: la contabilità poi deirex-ducato di
Lucca, varia da quella di Toscana: varie le scritture e i modi di
percezione fra provincia e provincia: e molti gli abusi, inveterati,
inanimiti dalle lentezze con cui procedea T ufficio delle revisioni.
XXVIII — Queste erano dunque le condizioni della finanza toscana
quando nel cominciare del quarantanove tornò ad essere governata
nel nome di Leopoldo II: i beni dei comuni, dammeno dei debiti:
le loro entrate dammeno delle spese: le spese dello Stato dappiù
delle entrate : fra queste la diretta, minore della quota a beneficio
dei comuni : le contribuzioni regie e comunali, ripartite pel numero
degli abitanti, quasi trenta lire a testa: i beni demaniali, per molta
parte infruttiferi : il valor nominale maggiore assai del reale : il reale
maggiore dei debiti: i frutti dei debiti, il doppio del reddito del pa-
trimonio dello Stato : il debito di questo, aggiunto a quello dei co-
muni, al di sopra di sessanta lire per capo. Delle imposte, taluna
mite, altra grave : ripartite a segno le dirette : fra le indirette, ta-
luna off^a ai sani principi della economia : le spese mal distribuite
non gettavano i semi della futura ricchezza, non doppiavano i ri-
colti : seminagione sterile e improvvida, sopra terreno feracissimo.
Il disavanzo d'anno in anno maggiore: i creditori dello Stato, non
iscritti, non guarentiti : onde il credito era nullo, i capitali sordi
alle dìiamate, nascosti o in fuga fuor del confine: confusa, grave,
dispendiosa, varia l'amministrazione delle spese, la percezione delle
entrate. Onde la fortuna de' comuni e quella dello Stato stavano
ugualmente sul pendio della voragine. Dio salvi i reggitori dalla
vertigine.
Enbico Pani Rossi.
(eaniinua)
(113) Decreio 7 marzo 1778.
95
LO SCARICATOIO DI CLAUDIO
INTERRAMENTO DEL LAGO DI FUCINO
Uno fra i lavori più giganteschi ch'abbiano tentato gli antichi,
che i presenti ripigliano, e che possiamo ornai esser certi di veder
condotto a termine, è senza dubbio l'interramento del Lago di
Fucino.
Noi non sapevamo estimare al giusto l'importanza di questa im-
presa colossale prima d'averla veduta coi nostri proprii occhi.
Difatti noi stimavamo, come il Comune dei Martiri, che si trat-
tasse dell'asciugamento di qualche palude, d'una specie d'incanala-
mento in mezzo a grandi stagni, simili alle paludi pontine o alle ma-
remme toscane, romane e napoletane. Ma quando condottici all'Incile,
sede principale dei lavori, ci siam vista dinanzi una massa d'acqua,
la quale non misura meno di 60 chilometri di circonferenza, confes*
siamo di esserne stati compresi di altissima meraviglia.
E per vero, conoscevamo tutti i laghi svizzeri e italiana: il lago
Maggiore, il lago di Como, di Garda, d'Iseo, quelli d'Àgnano,
d' Avemo, di Fusaro , eppure non provammo mai tanto diletto dalla
loro vista, quanto da quella del Lago di Fucino.
Codesto dipese anche in parte daU'averlo visitato in due epoche
differenti e molto diverse fra loro. La prima volta ci fu veduto in
tutta l'aspra beltà dell'inverno: il ghiaccio ne copriva le rive, e una
tempesta, proprio una tempesta infernale, faceva echeggiare le cir-
costanti montagne dei più sonori e spaventosi muggiti.
Ieri scorgemmo il lago ornato di tutte grazie giovenili, fresco, ri-
dente, un vero sorriso di primavera fiorita.
E se si pensi che fra poco, codesta ampiezza di acque non sarà
meglio che una memoria nella mente di coloro che ne furono spet-
tatori ; quando riflettasi che si tratta di disseccare il bacino d'un
96 RIVISTA OONTBMPOBANEA
lago che contiene oltre a due miliardi e cinquecento milioni di metri
cubi, di acqua, in guisa da non lasciarci che una specie di corrente,
una specie di riviera in mezzo del bacino, versandone altresì, perchè
la non debba mai straripare, la piena soverchia nello scaricatoio che
la condurrà nel Liri ; quando tutto ciò si consideri, non si può a meno
di ammirare altamente la potenza, l'audacia e la volontà umana.
Il secolo XIX si fecondo in progetti, in lavori d'ogni maniera,
incredibili, titanici ; questo secolo cui nulla è impossibile, né alcuna
difficoltà occorre che ei non valga a superare ; che ci dette il vapore
e l'elettricità, ottemperando con docile intelligenza al comando del-
l'uomo; che trafora da parte a parte il Monte Cenisio; questo secolo
solo, ripetiamo, poteva effettuare il pensiero, il desiderio, il disegno
di Cesare e degli imperatori romani.
Quanto gli antichi, pur così forti, e risoluti, e miracolosi non
seppero compiere con tutti i mezzi di un floridissimo imperio, colle
braccia e col sacrifizio di 30,000 operai, il secolo xix eseguì in otto
anni, senza .pubblicità, senza romore, coli' aiuto della sola industria
privata, sotto l'abile e saggia direzione d'un solo ingegnere.
Nessuno invero credeva all'esito di un'opera ch'era fallita ai Ro-
mani, cioè ai primi lavoratori del mondo, e perfino colui che primo
ebbe Tidea di riprendere il lavoro abbandonato, dubitava anch'esso
sulla riuscita del negozio al quale -si avventurava.
Nei più tristi giorni della reazione succeduta alla rivoluzione del
1848 nel reame delle Due Sicilie, re Ferdinando II per rimeritare
alcuni stranieri di segreti e sinistri servigii resi alla propria causa,
accordò loro la chiesta concessione
Se non che prima d'entrare in un racconto che concerne la
vita contemporanea, reputiamo opportuno di significare particolar-
mente le immense difficoltà che si dovevano vincere e sormontare:
al quale scopo conviene riferirsi all'origine dei primi lavori e far
conoscere il disegno primitivo ideato da Cesare, messo in esecuzione
e continuato da. Claudio, e finalmente lasciato a mezzo sotto Nerone
dopo incertissimi esperimenti: sicché, senza altri proemii, tocche-
remo addiritura la parte storica e tecnica di quest'arduo lavoro sul
lago di Fucino.
Il bacino di cui quel lago occupa il fondo, è formato nel ramo
più importante ed eccelso degli Apennini, presso a poco a ugual
distanza dai mari Adriatico e Mediterraneo. Il suo territorio appar-
teneva altra volta al paese dei Marsi^ uno tra i molti piccoli popoli
che resistettero per tanto tempo e con tanta energia all'invasione
romana. Pare che quel bacino sia proprio disposto ad arte per restare
totalmente isolato dai paesi circostanti, dai quali è diviso per una
cinta di alte montagne che formano, appiedi del loro versante in-
INTEBBAMENTO DBL LAGO DI FUCINO 97
terno, un vasto piano coverto nella parte più bassa e considerevole
dalle acque del lago. Siffatta configurazione del paese dichiara le
cause per cui esiste e tanto distendesi il Iago : imperocché è desso
il serbatoio naturale di tutte le acque che caggiono neir intemo
delle montagne, o sgorgano dai loro fianchi e siccome non hanno
sfogo nò comunicazione colle riviere delle valli situate dall'altro lato,
hannovì periodi di piena e di decrescenza, secondo lo stato più o
meno piovoso delle stagioni.
Codesta regione andò in ogni tempo famosa per la sua pingue
feracità; né altrimenti può essere, dacché i suoi strati superiori vi
sono costantemente addotti dalPacque pluviali, che dalle eminenze
circonvicine, affatto disboscate, traggono seco le parti più molli, e
le depongono nelle terre sottostanti. Ma a questa lusinghiera ric-
chezza fan coqjkrapposto le frequenti inondazioni, le quali tanto più
son terribili in quanto lentamente avvengono, e spesso per molti anni
consecutivi, mentre il ritrarsi dell'acque, seguendo la stessa norma,
non avviene che per via progressiva, e in seguito a parecchi anni
di siccità 0 per lo meno scarsamente piovosi. Siffatta incertezza
continua sulle sorti della proprietà, non consente agli abitanti di re-
care l'agricoltura a quegli incrementi dì cui la sarebbe capace, ed
infirma i vantaggi che e* potrebbono trarre da un terreno favorito
dalla natura.
SI gravi ostacoli alla coltivazione agricola del paese avevano de-
terminati i suoi antichi abitatori a invocare la potenza degli impe-
ratori romani, affinché riparasse ai mali che senza posa li minaccia-
vano, e li salvasse dalla rovina cui erano costantemente esposti.
S'indirizzarono adunque a Cesare, che concepì il progetto di gettar
l'acque del lago nel fiume Liri, ma la morte del dittatore troncò il
divisamento, e le suppliche restarono inesaudite fino al tempo di Clau-
dio imperatore.
Cesare avea però, molto innanzi che gli abitanti ricorressero a lui,
ideato un disegno molto più gigantesco. Per ovviare alle carestie
periodiche che affliggevano Roma, ed erano cagione ai moti popolari,
egli aveva deliberato di far scavare il gorto d'Ostia, acciò potesse
accogliere le navi tutte che venivano dall'Oriente e avrebbero per
tal modo recato fin nel cuor di Roma, distante poche miglia soltanto
da Ostia, tutte le ricchezze, tutte le mercanzie e tutti i grani del Le-
vante. E per assicurare in caso di guerra l'approvigionamento in-
temo di Roma, avea risoluto di interrare il lago di Fucino, che sarebbe
così divenuto il granaio, il deposito di riserva per Roma. Se non
che, come dissimo sopra, la morte lo impedì dal mettere in atto il
progetto, la cui effettuazione sarebbe stata un vero e sommo beneficio
alla città eterna.
HivMa (7.-7
98 RIVISTA COMTBMPORANBA
Favorito di Claudio, come si sa per tutti, era il liberto Narciso,
il quale non si può ben conoscere, se non riandando la maestrevole
pittura cbe ne fa Tacito nel v libro degli Annali. Bisogna leggere
quant'egli scrive intorno al matrimonio che, morta Messalina, Claudio
s'indusse a contrarre con Agrippina madre di Nerone. Quel passo è
magnifico e mirabilmente toccato. Claudio adunque per le urgenti
istanze della popolazione, risolse di far eseguire Tinterramento del
lago di Fucino.
Parecchi progetti vennero assoggettati all'imperatore, e non pochi
speculatori romani sollecitavano la concessione dei lavori: ma Nar-
ciso che avea fiutato il negozio, e vedeva in tale intrapresa un si-
curo mezzo di arricchirsi, non durò gran fatica a tor di mezzo ogni
concorrenza, e abusando del potere che esercitava sull'animo fiacco
e inetto di Claudio, gli fé' decretare che l'apertura dello scaricatoio
per lo scolo delle acque del lago starebbe a spese dello Stato, sic-
come opera di utilità pubblica e nazionale, e che lui, Narciso, avrebbe
la direzione dei lavori. Una clausola del decreto che nominava Nar-
ciso a siffatto ufficio, portava che se i lavori venissero compiti nel
termine di undici anni, a datare dal giorno della concessione. Nar-
ciso s'avrebbe un premio di 5 milioni di sesterzii. Come si vede,
cosi in fatto di speculazione, come in ogni altra cosa, noi non siam
meglio che i plagiarii degli antichi. Infatti, al tempo di Claudio
era già conosciuto il sistema dei premii, e iBomani, che nulla igno-
ravano, si intendevano anche nei guazzabugli dell'agiotaggio.
£ fama che due progetti fossero in sulle prime presentati; uno
dei quali avrebbe condotte le acque del lago nel Salto, l'altro le
avrebbe fette scorrere nel Liri. Il primo progetto appariva più fa-
cile all'esecuzione, ma il Salto confluendo con la Nera che va anche
essa a metter foce nel Tevere sopra Roma, temevasi che le nuove
acque del Fucino non dovessero per avventura accrescere le inonda-
zioni alle quali la città era naturalmente soggetta. Epperò fu prefe-
rito il secondo progetto.
Allora Narciso fece incominciare il traforamento della montagna
di Salviano, mentre più che 30,000 operai venivano impiegati allo
scavo del gran canale sotterraneo, che dovea correre fino al lago
di Liri, e che da quel punto prese nome di Scaricatoio di Clau-
dio. EU'era un'impresa gigantesca, e senza Jdubbio una tra le più
meravigliose opere dell'antichità, imperocché si dovesse attuare la
congiunzione per una lunghezza di oltre 21,000 palmi (5,600 metri)
attraverso una montagna altissima, tutta di roccia calcare compatta,
e ad un livello di 300 palmi circa (80 metri) al di sopra della su-
perficie delle campagne.
È agevole farsi ragione degli ostacoli che i Romani dovettero
INTBRBÀMENTO DBL LAGO DI FUCINO 99
superare; privi com'erano di istrumenti, ignari di nozioni geodeti-
che, e dei processi e agenti meccanici, che oggidì han reso fami-
gliari a noi consimili lavori, furono costretti di ricorrere a mezzi
empirici, lunghi e dispendiosi, di andar tastoni, spesso ingannandosi,
emendando o bene o male i proprii errori, lottando insomma con ener-
gia e sagacia contro difficoltà d'ogni fatta.
Narciso però non mirava se non al guadagno in quest'opera gi-
gantesca, alla quale un uomo d'ingegno avrebbe consacrato tutta
la vita per condurla felicemente a fine, e così illustrare il proprio
nome: esso esclusivamente curandosi di arrivare all'inaugurazione nel
termine assegnato, non temette di sacrificare la vita di più che 50,000
operai che perirono nel lasso di undici anni. Ma non basta, che sti-
mando non si dover trascurare in un negozio anche i minimi profitti,
egli specula su tutto. Si fa fabbricatore dì mattoni; ma invece di fabbri-
carli con coscienza e fornire una manifattura buona e durevole, som-
ministrò mattoni di pessima qualità; e così fu di tutti gli altri materiali
impiegati nella costruzione dello scaricatoio. Non è pertanto a mera-
vigliarsi se, al momento della inaugurazione dei lavori, presenti
Claudio ed Agrippina, Narciso vedesse fallire i suoi computi e le
sue speranze.
Ecco come Tacito descrive questa soleiinità.
e In questo tempo fu tagliato il monte tra il lago Rossigliano
f (Fucino) e '1 Garigliano (Liri), perchè più gente vedesse la magni-
« fica battaglia navale ordinata in esso lago, a concorrenza di quella
f che fece Augusto nel pelago da lui cavato di qua dal Tevere, ma
« con meno legni e minori
« Fatta la festa, fu dato l'andare all'acqua, e scoperto l'errore
f dello spiano, non livellato al fondo né a mezz'acqua del lago. Onde
f poi lo raffondò, e per ragunar di nuovo il popolo, gittativi sopra
€ i ponti, vi fece una festa d'accoltellanti a piede. Ove apparec-
€ chid un convito allo sbocco dell' acqua , che sgorgò con tal
e furia che si trasse dietro le cose vicine e smosse le lontane.
< E ogn'uno stordì per lo remore; e Agrippina servendosi dello spa-
f vento del principe, voltasi a Narciso, soprantendente dell'opere,
€ disse averla lui fatta male in prova, per farne bottega e ru-
cbare (1) »
Agrippina, madre di Nerone, che odiava il favorito di Claudio e
n'avea ben d'onde, essend'egli oppostosi forte a che l'imperatore la
disposasse, colse di buon grado il pretesto del mancato scorrere del-
Vacque nello scaricatoio per poter nuocere a Narciso, e nulla sparmiò
(I) Tacilo, Annali, Lib. XII, cap. LVI e LVII. Trad. Dayanzati. Firenze,
Lemonnier 1852.
100 BIVISTA OONTBMPOBANBA
per perderlo nell'animo imperiale. Ma Narciso che conoeceva meglio
d'ogni altro Claudio, non durò fatica a giu8tifical:^i, e incolpando di
tutto gli operai, comandò se ne giustiziassero alcuni per placar Tira
degli Dei e di Cesare, e fé' ripigliare alla meglio i lavori. Poco omai
gli importava dell'esito. La clausola del decreto di nomina diceva,
che se in undici anni l'opera era condotta a tale da dare corso alle
acque, cinque milioni di sesterzii gli sarebbero toccati in sorte. U
suo scopo era ottenuto, poiché l'acqua era corsa. Le sue azioni ave-
vano raggiunto il premio, anzi avevano guadagnato in valore, ed eì
ne fruiva la differenza. Che potea dunque desiderare di più?
Or non c'è forse moltissima analogia fra codesto Narciso e i nostri
speculatori moderni? Come oggi, al tempo dei Romani, era costume
prevalersi dello stato proprio per farsi aggiudicare un'impresa, alla
quale il concessionario , per la natura del pròprio ufficio , dovea
nondimeno parere estraneo, e per conseguenza incapace. Ma non è a
fame le meraviglie. Co^ì fu in ogni tempo, e il secolo xix s'assembra
in molta parte alla più gloriosa età romana, e in uno all'èra più vergo-
gnosa e immorale. Narciso s'ebbe e s'avrà sempre non pochi imitatori.
Per loro, ingannare, rubare, spogliare lo Stato, lungi dall'essere una
colpa, un delitto, è una pro^a di bravura, di intelligenza dei tempi,
di animo forte e spregiudicato, la quale dovrebb'anzi rimeritarsi
d'una corona civica.
Lo scaricatoio incominciato da Claudio non fu punto compiuto in
ogni sua parte, e Nerone, secondo narra Plinio, mosso da una bassa
invidia contro la memoria di colui, cui doveva l'impero, abbandonò
quell'opera che poco dopo cadde in rovina. Le storie non ne parlano
più fino ad Adriano, che, riparatolo, lo tornò all'uso suo primo. Di-
verse iscrizioni rinvenute sul territorio d'Avezzano attestano sifEatto
ristauro, e contraddicono a coloro che asserirono lo scaricatoio non
essere mai stato idoneo allo sgorgo del lago di Fucino. Simile opi-
nione, nata dalFinterpretazione di certi passi piuttosto oscuri in qual-
che storico, d'altronde smentita da altri, è tanto più fallace che negli
ultimi tempi si è potuto accuratamente ispezionare l'opera in ogni
sua parte, e constatare la buona esecuzione e l'esattezza dei lavori.
Caduto l'impero romano, l'Italia non fu più che un ammasso di
rovine, sotto le quali si sepellirono colla civiltà le scienze , ]e arti e
que' magnifici monumenti che l'aveano fatta la regina e la mera-
viglia del mondo. Lo scaricatoio corse la sorte dei palazzi e dei
templi di Roma ; venne ben presto ricolmato ; e fu colpa del tempo e
degli uomini spesso più distruttori di lui. Nullameno nel secolo XIII,
l'anno 1240, Federico li ne ordinò lo scavamento e il ristauro. Ma
i lavori di riparazione ripeterono tutti i vizii e i difetti dell'igno-
ranza d'allora, sebbene per verità con quel lavoro non s'intendesse
INTBBRAMBNTO DEL LAGO DI FUCINO 101
che di ricuperare i terreni sommersi, e contenere costantemente il
Iago nelle sue sponde, affine di proteggere dalle inondazioni i teni-
menti vicini.
Alfonso I d'Aragona vi fé' altresì alcuni lavori, ma l'opera mal
curata , relitta per negligenza ed imperizia degli uomini , ogni di
più deperiva. Da Alfonso fino al principio del secolo XVII progredì
la rovina.
A quel tempo un principe della Casa Colonna, signore del paese,
volle tentare l'impresa : i comuni limitrofi gli si unirono ; ma i la-
vori poco durarono per difetto di denaro.
Passò lungo lasso di anni , durante i quali il livello del lago
restò pressoché uguale, e i proprietarii lungo le rive si credettero in
salvo da nuove inondazioni. Finalmente le acque tanto scemarono,
sotto il regno di Carlo III, da scoprire le rovine dell'antica Valeria
0 Marruvio, inghiottite da secoli (1), tra le quali rovine si trovarono
le statue di Claudio, di Agrippina e di Nerone, che vennero tras-
portata al palazzo di Caserta. Le inondazioni ricorsero più tremende
dal 1783 al 1787 , e invasero le terre migliori , cioè le più pros-
sime al lago. Il re Ferdinando I, tocco da tale disastro e dalla
squallida miseria che incumbeva sugli abitanti del paese, condonò
loro le imposte, e giusta il progetto di un prete per nome LoUi,
volle riaprire lo scaricatoio sepolto sotto gli scoscendimenti di terra.
Fu poscia preferito il progetto dell'architetto Ignazio Stile, e nel
1790 incominciarono i lavori, che furono continuati per due anni
finché i cattivi metodi usati dagli ingegneri, e soprattutto il loro
disaccordo, ne causarono la sospensione. Gli avvenimenti politici che
si succedettero in Europa nel corso di 20 anni, e forse meglio ancora
le collisioni dei diritti privati, malgrado reiterati tentativi, impedirono
che l'opera fosse ripresa prima del 1825.
Finalmente gl'ingegneri incaricati a quel tempo dell'impresa, la
proseguirono con solerzia somma, e dopo parecchi anni, lavorando
indefessamente e con rara abilità, giunsero a scavare lo scaricatoio da
un capo all'altro. Allora soltanto fu dato di formarsi un'idea esatta
dello stato dei lavori da eseguirsi, dei vantaggi e delle spese che
ne dovevano derivare, e si tracciò con precisione un rilievo topogra-
fico complessivo e parziale.
n govèrno bramoso di incrementare la fortuna pubblica, resti-
tuendo all'agricoltura tanti terreni perduti, nonché di farla finita
(1) Il lago di Fucino, per esser cessato lo sgorgo deiracque, sommerse
tre città e un gran numero di ville che sorgevano sulle sue sponde. La
storia ci ha conservato il nome delle città, e sono Valeria o Marruvio,
Penna e Archippe, che devono contenere un tesoro di antichità non meno
preziose che quelle di Pompei.
102 ' RIVISTA CONTBMPORAMBA
una volta coi mali che desolavano quelle contrade, pensò che in una
impresa di quella fatta, raggi ungerebbesi più prontamente il fine
coi capitali e coli 'industria privata che con altro mezzo qualsia.
Epperò sancì la costituzione di una società anonima, intesa a ristau-
rare lo scaricatoio di Claudio in tutta la sua estensione, nonché a
dar sfogo all'acque del Fucino. A questa società dovevasi concedere
in proprietà assoluta i terreni prosciugati, in compensamento e
come indennità dei grandi lavori da eseguire.
Lo scaricatoio di Claudio che mette in comunicazione il Liri e
il lago di Fucino, ha la sua imboccatura sulla sponda manca di
quel fiume, un po' al di là di Capistrello: stendesì sopra un piano
abbastanza vasto, chiamato i Campi Palentini, attraversa il monte
Sulviano, e sbocca appiedi del suo versante intemo, poggiando la
testa alla riva occidentale del lago, due miglia e mezzo circa a
oriente d'Avezzano. Misura il canale la lunghezza di 21,995 palmi
(5,660 metri) e la larghezza minima di 8 palmi: la sua profondità
varia dai 10 ai 37 palmi, e il declivio dalla testa alla imboccatura
è di palmi 27,5 (metri 7,27 cent.). Questa imboccatura stessa so-
vrasta di palmi ^,5 (metri 11, 11 cent.) al fiume Liri: finalmente
il corso è sempre al di sotto della superficie delle campagne a una
profondità mai minore di 300 palmi (metri 80) (1).
In mancanza dei mezzi impiegati oggigiorno nei lavori di simil
natura, i Romani, per effettuare il piano del canale, dovettero, a
partir dalla superfìcie, perforare ad ugual distanza dei pozzi verti-
dali, dal cui fondo, seguitando la direzione esteriore andavano ad
incontrare ciascuna uscita intermediaria. Né bastava che codesto
procedimento fosse lungo e difficile per se stesso, che e' dovevano
per soprassello vincere gli ostacoli risultanti dalle qualità diverse
dei terreni, i quali differenziano tra loro dalla pietra calcare com-
patta all'argilla pura. Ignari della polvere da cannone, a forza di
scalpello si facevano strada nella roccia, e in difetto di bussola che
li guidasse nell'oscurità sotterranea, soventi errarono la direzione, e
furono costretti a rimediarvi poscia.
Oltre ai pozzi verticali, che sono 32 dall'imboccatura alla testa
del canale, oggi quasi tutti ostrutti, si aprirono dei corridoi obliqui,
addomandati Cunicoli ^ che servivano a comodo dei numerosissimi
operai impiegati nel lavoro, e in pari tempo giovavano all'introdu-
zione e circolazione dell'aria, la quale troppo presto e facilmente si
rendeva mefitica, in que'luoghi profondi, in quelle latebre della
terra, per la presenza di tanti e tanti uomini, e per la combustione
delle faci destinate a rischiararli.
(1) Queste misure furono da noi prese e copiate sul piano tracciato nel
1825 dall'ingegnere del goTerno Afais de Rivera.
iktbbbàhbnto dbl lago di fucino 103
Da Capistrello alla riya del lago, il canale attraversa diverse specie
di terreni misti, nell'ordine e proporzioni seguenti :
A Roccia calcare compatta . . . Palmi 2411 Metri 637,83
E Masse splide di grandi pezzi di roccia > 1021 » 270,10
C Strato spesso di terra argillosa, di cui
286 p. 0 7 m. 65 cent, rivestiti di
mattoni » 3276 » 866,66
E Masse solide di grandi pezzi di roccia > 172 » 45,50
A Roccia calcare compatta .... » 2847 » 753,17
E Massi solidi di grandi pezzi di roccia » 320 » 84,65
D Argilla franata, rivestita di mattoni > 3008 » 795,77
A Roccia calcare compatta .... » 3259 » 862,16
B Rottami misti d'argilla di consistenza
solida > 1484 » 392,59
B Id. meno consistente .... » 1514 > 400,52
B Id. Id. in parte franati » 910 » 240,74
D ed E Terre miste di roccia, franate, nella
proporzione di:
D Terre 460 p. — 119 m. 04 cent.
E Rotocie 342 p. — 90 m. 74 cent. » 793 » 209,78
Totale P. 21,395 » 5,660 —
Ne risulta che sommando i terreni per qualità essi sono distri-
buiti alla maniera seguente nello intiero scaricatoio *
A Roccia calcare compatta . . . Palmi 8517 Metri 2253 —
B Rottami e terreni di consistenza diversa» 4288 > 1134,20
C Strati spessi di terra argillosa . . » 3276 > 886,70
D Terre e argille > 8458 » 915 —
E Masse solide di roccia » 1856 > 491 —
Totale Palmi 21,395 Metri 5,660 —
A tutte queste diverse parti dello scaricatoio necessitano lavori
di ristaurò e di ampliamento. Gli anditi che percorrono la roccia
calcare (A) , i massi solidi di gran pezzi di roccia (E), gli spessi
strati di terra (C) e i rottami (B) hanno bisogno di essere ingran-
diti, regolati e per qualche parte sostenuti con murature. In quella
parte che attraversa l'argilla pura (D), e che oggidì è quasi total-
mente interrata da'scoscendimenti consecutivi, si aprirà un nuovo
corridoio. Questo ultimo andito è quello appunto che fin dal prin-
104 RiyrSTA contbmpobanba.
cipio pìik si scostò dalla lìnea retta, secoDdata con sufficiente regola-
rità nel rimanente della galleria, ed è altresì solcato da numwosi
bulicami d'acque, dimodoché queste non trovando che un difficile
afogo, hanno mollificato il terreno, rendendo più arduo il lavoro che
altrove. Sarà pertanto più utile e men dispendioso aprire in questo
sito un nuovo corridoio, più diritto e corto deirantico, e nel quale
sarà fatto di rinvenire dei terreni più compatti. Finalmente l'ultima
parte (D ed E) che comprende delle terre miste a massi di roccia,
è totalmente colmata, e quindi a riforsi di pianta. Lo scaricatoio
per tutta la sua lunghezza avrà un declivio regolare e un'apertura
costante; lo sfogo dell'acque sarà regolato e contenuto dalle cate-
ratte airingresso dello scaricatoio, affinchè nelle stagioni piovose
non possa alzarsi che fino a un certo livello. A questo modo la
pressione dell'acque correnti uon potrà difficoltare i lavori, e Tacqua
verrà condotta alle cateratte, mediante un canale cavato nel letto
del lago, dalla testa dello scaricatoio fino alla parte più bassa del lago
medesimo.
Il bacino del lago di Fucino è poco profondo, se si riguardi alla
sua estensione. Le terre che cominciano appiedi delle montagne, se-
guono un piano dolcemente inclinato fino al punto più basso del
lago, situato, come fu detto, a 44,000 palmi o 11,640 metri dalla testa,
dello scaricatoio. Ne conseguita che un qualunque accrescimento
nel volume dell'acque, basta a farle dilagare sopra un vasto territorio.
Nel 1835, nel qual anno fu compilata la carta che ci serve di guida,
le acque toccarono il minimo livello di cui s'avesse fin là conoscenza,
e gli scandagli non diedero che una profondità mf^ima di 39 palmi
(m. 10, 30 cent.). Il governo profittò di questa circostanza per fis-
sare i limiti del lago e delle sue dipendenze, e descrivere i confini
delle proprietà circonvicine. A base di tale definizione servirono quelle
portate dai rilievi catastali del 167& e del 1740. Consta da siffatto
lavoro che la superficie del lago, qual è presentemente, equivale a
miglia quadrate 42,36 o a 2,883 moggia napoletane, corrispondenti a
2,207,554 moggia legali (14,556 ettari, 81 are). Mentre esegui vasi
quel lavoro, il lago non misurava che una superficie di 38 miglia
quadrati 9,248 o 39,405 moggia napoletane, e lasciava scoperte circa
8,478 moggia napoletane di terra.
Poscia s'alzò progressivamente e non solo ricoverse quei terreni,
ma invase le possessioni particolari limitrofe, di cui una porzione ò
tuttavia sommersa per la stesa di circa 2900 moggia napoletane, che
appartengono anch'esse alla concessione, sendo però fatto obbligo o
al concessionario di reintegrare i proprietarii , o a quest' ultimi di
pagare la bonificazione dei proprii terreni alla Compagnia.
Quanto finora abbiam detto , è sufficiente a fornire un concetto
INTSBRAKBNTO DBL LACK) DI FUCINO 106
sommario dei principali lavori eseguiti per T interramento del lago di
Fucino. Ma innanzi di procedere nella descrizione tecnica e alquanto
arida dei lavori, stimiamo utile di dare una rapida occhiata al paese,
ai suoi mezzina! suoi abitanti, afiine di far comprendere appieno l'im-
portanza di quest'opera capitale.
Abbondano in quella contrada tutti i materiali necessarii; la terra
da mattoni, la pietra da calce d'ogni maniera, la pozzolana, il legname
da costruzione e da bruciare, colà o a poca distanza si trovano, ed è
agevole procurarsi abili operai d'ogni mestiere dal muratore al fale-
gname e al legnaiuob. Malgrado il flagello che di continuo minaccia
il paese, la sua fertilità vi fé' sempre concorrere numerosi abitanti, e
le sponde del lago sono molto più popolate che per avventura non si
creda. Avezzano, capo luogo del distretto , Pescina e Celano sono
centri di qualche momento, ed otto o dieci altri luoghi, comechè meno
importanti ; contano tuttavia una popolazione che può essere vantag^
giosamente adoperata, e dalla quale l'impresa può traire un prezioso
partito (1). Il popolo è generalmente laborioso, e gli uomini in difetto
di lavori che li tengano a casa, vanno a cercarsi ogni anno a Roma o
a Napoli un'occupazione, che presceglierebbero senza dubbio di tro-
varsi in patria.
Ecco il magnifico e splendido quadro che fa di questo paese uno fra
i più egregii scrittori francesi, Giorgio Sand ; e noi stimiamo cosa
ottima riferire quelle due pagine stupende :
e Paese aspro in uno e ridente; ma l'asprezza vi predomina, e
il sorriso vi è un tantino forzato. Il clima estremo ; freddissimo Tin-
vemo, la state caldissima. L'uva vi matura a stento, e dà un vino
molto acre, di cui gli abitanti abusano non poco , come in tutti i
luoghi ove nasce cattivo vino. I culmini delle montagne sono spesso
avvolti di gelidi vapori, e quando, il vento ne li spazza via, la pioggia
va a fermarsi nei bacini. Alla stagione in cui siamo, la è una con*
tinoa stranezza di combinazioni, un accavallarsi di nubi fantastiche,
e subite eclissi di sole , e quindi splendori cosi freddamente sereni
che ti trasportano a sognare quell'alba prima del mondo, quando la
Imce fu ftitta, vale a dire, quando l'atmosfera terrestre sbarazzata
dalle tempeste, lasciò penetrare i raggi del sole sul giovine pianeta
abbagliato. Esisteva allora l'uomo ? È un'ipotesi.
e Bensì esisteva all'epoca in cui queste terribili lave che mi
attorniano, hanno invaso e sconvolto il terreno. Ossa umane allo
(I) Ecco i nomi dei paesi colla cifra della relativa popolazione : Avez-
zano 4718— Trosano 1351 — Luco 2655 — Collelongo 2026 — Viilavalle-
loDga 1808 — Celano 6525 — Azelli 1483 — Ovindoii 1865 — Pescina 4359
— Cerchio 1499 — Collemerle 1453 — OrCona o Marsi 2658 — Yisegna
1263 — Oriuochio 1225.
106 BIVISTA CONTBMPOBANBA.
stato fossile furono rinvenute alle falde di una montag^na vicina,
sotto i basalti e le scorie in un ammasso di breccia compatta; erano
le reliquie di un vecchio e d'un fanciullo. Dunque Tnomo fu spet-
tatore dei grandi drammi della natura, la cui tradizione era stata
di tal modo obliata , che non ci volle meno a ripristinarla che tin
decreto della scienza moderna.
t Ma quello che più mi monta, è di cercare negli esseri presenti
la traccia delle vicende sociali. Io trovo qui una razza caratteristica,
che armonizza fisicamente col stiolo che la sopporta: scarna, triste,
rude e quasi angolosa nei suoi modi ed istinti ; ma sopratutto vi
scorgo la viva impronta del regime feudale : un cieco spirito di
sommessione, che reagisce costantemente contro un feroce spirito di
rivolta; una lotta fra la superstizione che accetta tutti gli errori, e
le passioni violente cui la superstizione dà ansa. In nessun luogo
il potere del prete è più assoluto, e in nessun luogo la rea-
zione rivoluzionaria contro il prete fu e sarà forse più brutale un
giorno.
tSe io riandai col pensiero la campagna di Roma descrivendo il
bacino d'Avezzano, che pur ne differisce essenzialmente, fu perchè
vi ho notato una certa analogia: non già l'analogia fisica di quel
tempio che primeggia nel quadro per lo stile severo e l'audace
giacitura, non men che quello di Roma spicchi nel circostante de-
serto per la gigantesca sua mole ; bensì un'analogia intellettuale e
morale nell'indole delle due popolazioni.
t Se ne eccettui la importante differenza, che sorge dalla bramosia
del guadagno e dall'amore al lavoro proprii dei montagnari, troverai
qui una grande somiglianza con moltissime popolazioni degli Stati
romani. Il culto appassionato delle imagini, residuo dell'idolatria
pagana, la stupida fede nei piccoli miracoli paesani, i vizii monacali,
l'odio e la vendetta primissimi affetti, ecco non i caratteri dell'a-
bruzzese odierno (che da quarant'anni in poi s'è già dirozzato di
molto) ma le memorie che la sua storia e i suoi monumenti rive-
lano ad og^i linea e ad ogni passo.
e La breve cerchia delle sue montagne protesse i più insolenti
ladronecci del feudalismo e le più rapaci dominazioni del clero.
L'Abruzzese ne sofferse fuordubbio, ma vi contribuì nondimeno, e
la sua devozione e i suoi costumi portano tuttavia il marchio delle
lotte violente e delle barbare credenze del medio evo
e Una divinità dell'antico Egitto, trasportata, secondo dicono,
di Palestina dal Buca di Sora, è l'idolo che la rivoluzione ha osato
di infrangere dopo una venerazione secolare. Fu inaugurata una
nuova Vergine Nera^ ma si constatò che essa è apocrifa, ed opera
meno miracoli dell'antica. Fu gran ventura che nel tesoro del
INTBBBAHHNTO DSL LAOO DI FUCINO 107
Duomo 8i conservassero i cerei recatisi in mano dagli angioli, quando
scesero dal cielo per collocarvi da loro stessi la statua d'Iside sul-
l'altare. Godesti cerei si espongono alla venerazione dei fedeli. E
quanto alla religione, basterà.
e ÀUa taverna la è un'altra cosa. Ognuno si porta il proprio col-
tello a guaina, e lo conficca per la punta sotto la tavola fra le
proprie gambe, dopo di che si discorre : e cioncano, garriscono , si
riscaldano e si scannano Tanto sia detto per gli istinti.
I quali, la Dio mercè, ogni dì più si ammansano ; ma nell'anno di
grazia 1862 non sonosi ancora inciviliti, talché i piaceri tengono
pur sempre alcun che di feroce. Le donne ne sono però eseluse, che
i preti vietano ad esse la danza e fino il passeggio in compagnia
del sesso virile. Gli uomini adunque ni un freno hanno, niun rispetto,
ni una delicatezza nelle loro relazioni: generalmente reluttano all'au-
torità diretta del prete, e gli abbandonano in balìa le proprie donne:
ma vive pur sempre in essi la passione deUe guerre religiose, onde
si bisticciano sul dogma col bicchiere alla mano, e non di rado si
uccidono. Codesto può servire alla storia.
t Quanto alle abitudini, esse sono la manifestazione di questa vita
passionata e violenta. La rozzezza delle idee produce quella dei co-
stumi: e l'uomo che male interpreta lo spirito di religione, inter-
preta male anche la vita pratica, e se medesimo snatura.
« Hannovi nel paese, malgrado l'aridità di molta parte della sua
superficie, dei mezzi immensi : vene di terreno d'una fertilità prodi-
giosa, pingui pasture e molto buon volere nei lavoratori della terra ;
ma i paesani (parlo di quelli che possedono quanto coltivano, pe-
rocché la miseria mette gli altri all' infuori del desiderio) nulla frui-
scono, e di nulla par che bisognino. Le loro case sono incredibilmente
indecenti : le soffitte in graticolati di panconcelli servono di ricet-
tacolo a vettovaglie di ogni maniera, miste a tutti i cenci di casa.
Entrandovi ti senti affogare dal tanfo di lardo rancido, unito a
quello di tutte immondezze, penzolanti di là a. foggia di lampade ;
e vedi in un fascio le candele colle salciccie, la biancheria sporca e
le scarpe vecchie col pane e la carne. La costruzione di molte case
arieggia più la fortezza e l'accampamento che l'abitazione ordinaria :
la parte superiore elevasi sopra un'alta base, e raccogliesi sotto un
tetto schiacciato, sul quale ascendesi con delle scale. In una di queste
abitazioni entrai per caso, e vidi devote immagini dappresso a lubrici
quadri, abbenchè per vero fosse una specie di locanda, un luogo
di riunione, ove le donne non ponevano mai piede. Stetti ascoltando
dei paesani che bevevano. I loro parlari s'assembravano alle imma-
gini pendenti dai muri: erano un assieme di giuramenti sulle cose
sacre e di oscenità grossolane : nuova analogia col lingoaggio pae«
108 BinSTA OONTBMPOBÀNBA
sano dei dintorni di Roma. In verità pare che allo zelo soverchio per
le forme esteriori del colto, s'accompagni sempre un gran bisogno
di bestemmie.
e Io accenno sempre ai paesani della montagna, poiché quelli che
più s'appressano al centro del bacino e delle sue città sono meglio
inciviliti. Del resto si negli uni che negli altri, siccome nei Romani,
io traveggo e discemo delle pregevoli qualità. E' sono probi ed alteri:
nessuna servilità nelle loro accoglienze, e nell'ospitalità loro un fare
grandemente sincero. Per certo nell'anima loro riflettonsi la beltà
e l'asprezza di quel cielo e di quella terra. Quelli Ara dessi che sono
credenti senza ipocrisia, non devono esser pii e religiosi a metà, e
quelli che hanno un po' viaggiato o ricevuto una qualche istru-
zione pratica, favellano con certa franchezza un po' boriosa, che non
ispiace a chi sia alieno da pregi udizii di razza
e Le donne hanno tutte un'aria arditella e cordiale : io le stimo
buone e impetuose, ned è tanto la bellezza quanto la grazia che fàccia
loro difetto. Il cappellino di feltro nerb, che portano in testa ornato di
conterie o di piume, conferisce ai loro volti certa vivacità, se son gio-
vani, certa autorità, se son vecchie ; ma troppo tien del maschile.
e Le spalle larghe e quadrate, mal rispondono al gracile corpo, e
la nessuna pulitezza rende disgustoso agli occhi il loro abbigliamento.
Nella montagna Canno gran mostra di stracci in colori, sopra lunghe
gambe nude e infangate; ciocchò non toglie che al collo e agli orecchi
vadano adorne di smanigli d'oro e fin di diamanti : contrasto di lusso
e di miseria che mi ricordò i mendicanti di Tivoli... »
Nessuno potrebbe dare una descrizione più esatta e viva con mag-
gior splendore di stile, e noi siamo lietissimi di aver riportato questa
pagina del grande scrittore.
Feraci oltremodo, siccome sopra abbiamo detto, devono essere
le terre che formano il fondo del lago di Fucino, ed il terreno che
lo circonda, lo prova abbastanza. D'altronde deposte, come furono,
per lasso di secoli, dall'acque che ve l'hanno condotte d'ogni
punto del territorio, sonosi commiste con le sostanze animali e ve-
getali che il lago ha ricevuto nel suo seno , antecipandone altresì
la decomposizione. NuUameno qualunque possa essere la loro eccel-
lenza, si penserebbe a torto che le potessero immediatamente venir
comparate alle altre, e trovassero per or acquirenti. La loro lunga
immersione necessiterà dei lavori di acconciamento, che attribui-
ranno tanto più di valore ad esse, con quanto più di abilità sa-
ranno condotti gli antedetti lavori; e questo secondo compito della
Compagnia non è già meno importante del primo, imperocché da
esso dipende una i»ù pronta ed utile attuazione dei beneflcii sociali.
Da troppo tempo il lago nuoce ai tenìmenti che lo attorniano ;
INTBRBÀMraiTO DEL LA0O DI BUCINO 109
troppo spoBSO distrasse la fortuna degli abitatori delle sue rive, an-
che quando si stimavano più sicuri che mai, perchè i giusti timori
da lui incussi possano svanire nei primi tempi della sua decrescenza,
e perchè i capitali possano concorrere su quelle terre, che tanti ne
hanno sprecati altre volte. Non prima adunque che sia trascorso qual-
che tempo, e quando la popol^ione del paese sarà ben convinta che
lo scaricatoio offra uno sbocco sufficiente a tutte l'acque che potes-
sero affluire, nascerà la fiducia, e le terre troveranno acquirenti*
Questo tempo indispensabile dovrà essere usufruttato ad ammogliare
le condizioni delle terre: le sorgenti che esistono nel lago, le cor-
renti d'acqua che oggi vi si gittano entro, se governate con intel-
ligOQza, saranno potenti ausiliarii alla prodazione. Una coltivazione
appropriata a tutti i varii terreni, e che seguisse gradatamente il
loro ammegliamento rispettivo e proporzionale ; delle piantagioni di
alberi razionalmente scelte alla consolidazione e salubrità delle terre ;
una sufficiente quantità di animali, il cui letame riscalderebbe quelle
partì di terreno che la sommersione raffreddò di soverchio, e rende-
rebbe fruttifere in carne e lana le erbe delle praterie, prodotto primo
della terra; tutto ciò diciamo non tarderebbe a risarcire la Società
dei sacrificii patiti, in attesa dei beneficii effettivi che a buon diritto
le spettano.
Codesti mezzi non sono i soli d'altronde, sui quali la Società deva
fare assegnamento ; imperocché se è d'uopo di certo tempo perchè i
terrieri possano credere all'efficacia dello scaricamento del lago, e' son
per contro tutti disposti a prendere in appalto le terre liberate dal-
Tacqua , da molto tempo ne conoscono la grande fertilità , anzi le
'affittano dapertutto facilmente, e in certi siti a carissimo prezzo (1).
Del resto la direzione dei lavori di riduzione che abbiamo segna-
lato, è per avventura men dispendiosa che la non potrebbe parere
sulle prime : soventi volte in Inghilterra è assai più facile ed econo-
mico il fare a nuovo che il ristaurare: tutto dipende dal punto di
partenza, e se il progetto è ben ideato e chiaramente formulato, non
si richiedono ad attuarlo che dei lavori molto semplici sotto una
sorveglianza savia e solerte. In un paese dove gli uomini sono in-
tellig^ti e laboriosi, è agevole di dar loro un buon impulso, se il
loro interesse medesimo ve li determini naturalmente. Il territorio
d'Àvezzano è ben lontano dal rendere prodotti adeguati alla sua
potenza : la coltivazione vi è mal diretta, le terre mal preparate, scarso
il bestiame, le piantagioni poco idonee e mal ripartite. Senza dubbio
ne son molte le cause, le quali cominciano già per la maggior parte
(1) Nel territorio di Ortucchio furono affittate» il prim'anno, delle terre
lasciate asciutte dal lago, fino a 14 ducati 1(2 per coppa. La coppa di
Avezzano equivale a 0,7225 di moggio legale.
110 RIVISTA OONTBHPORANBA
a cessare, ed anzi alcune più non esistono, abbenchè gli effetti con-
tinuino ancora. Fra quest'ultime possiamo accennare il difetto di co-
municazioni, dacché 11 paese non ebbe fino al dì d'oggi nessuna
strada carrozzabile. Perduto in mezzo delle montagne, unico veicolo
v'erano gli animali da soma, e per soprassello i sentieri che dove-
vano battere erano impraticabili quasi tutto l'inverno. Presente-
mente la strada da Sora ad Avezzano, offre comode vie per girare
il paese; ohe non tarderà a sentirne i beneficii.
Le terre comprese nei limiti della concessione fatta alla Compagnia,
si estendono, come abbiamo indicato, a 2,207,554 moggia leggali
(42,883 mogg^ia napoletani o 14,566 ettari), eccettuate le terre poste-
riormente invase dall'acque, e sulle quali la Compagnia ha dei diritti
da far valere. Il valore d'un moggio napoletano varia in questa re-
gione da 80 a 100 ducati : prendendo a base il valore minimo, i terreni
costituenti la proprietà della Compagnia, dopo il prosciugamento,
costeranno 3,430,640 ducati, o 15,000,000 di franchi circa.
Bisogna por mente che la configurazione del letto del lago è atta
a facilitare un sistema d'irrigazióne, mediante il quale il valore delle
t^rre aumenterà non poco, e che tutte quelle terre formando il fondo
di una valle, hanno di per se stesse un prezzo maggiore dell'altre
che stanno intomo, mentre è altresì mestieri computare le spese di
riduzione, nonché, trattandosi di terre vergini, i prodotti dei ricolti
pei primi anni. Riassumendo adunque tutto [quanto abbiam detto,
ne risulta che la Società restando proprietà dei terreni ricuperati
dalle acque, deve disporre in due parti distinte l'impiego del pro-
prio capitale e la direzione dei lavori. La prima consiste nel ristauro
e nell'allargamento dello scaricatoio Claudiano , nella costruzione '
delle cateratte e del canale mediano, e finalmente nella totale emis-
sione delle acque del lago. La seconda riflette lo acconciamento, l'ap-
palto, l'abile distribuzione degli utili ricavabili dal suolo e dalla na-
tura del paese sull'intero territorio.
Per tal modo il prosciugamento del lago di Fucino ha precipuo
scopo di restituire airagricoltura da 16,000 a 17,000 ettari di terre
feracissime, quasi di continuo tolte all'industria e coverte dalle acque
che vi occupano un bacino di circa. 65,000 ettari, lasciato dalla natura
senza uscite né comunicazioni visibili colle correnti d'acqua delle
valli limitrofe. La qual mancanza di sfogo assoggetta il lago a tutta
l'intensità dei fenomeni metereologici : la sola evaporazione è norma *
costante dei suoi mutamenti ; il suo volume e la sua altezza variano
secondo le volubili condizioni igrometriche dell'atmosfera, ingros-
sandosi ogni qual volta, a colpa di quest'ultime, non possa svaporare
una quantità maggiore dell'acqua che il lago riceve, e decrescendo .
nel caso contrario. La tavola seguente dimostra le altezze del lago
INTBR&àMBNTO DEL LAGO DI FUCINO 111
riconosciute colla maggior esattezza dopo il 1783 , e indica quanto
incostanti ne sieno le variazioni.
Anni Profondità del lago
1783 M. 13,49
1787
>
17,36
1816
»
23,01 massimo che si conosca
1836
»
10,23 minimo che si conosca
1852
»
14,06
1853
>
16,18 questo accrescimento av-
venne in 40 giorni.
1869
>
17,78
1861 1«
maggio
ji
19,44
L'accrescimento continua, e a non pochi villaggi popolosi è mi-
nacciata la 8(Nrte delle vetuste città di Àrchippo, di Peuno e Ma-
ruvio , che , come dissimo , sparvero inghiottite dalle acque del
lago.
I volumi aumentano in proporzioni assai maggiori. Galcolavasi
che il bacino contenesse:
Nel 1835
716,757,300 M. cubi
1852
1,123,234,800 >
1853
1,430,928,500 >
1859
1,818,113,500 f
1861 0 in quel tomo
2,500,000,000 f
I due livelli del 1816 e del 1835 che hanno fra loro una diflforenza
di 12 m. 69 cm., segnano il massimo ed il minimo delle mutazioni
che si conoscano; ma questi limiti non rimasero pùnto insuperati.
L'autorità degli scrittori antichi, e sopratutto le numerose traccio
della presenza del lago nel piano d'Avezzano, provano che a più ri-
prese deve aver tocco lidi più elevati di quelli che occupava ne!
1816.
La differenza dei due livelli 'forma intorno al lago una zona di
3,139 ettari di terra i più fertili di tutto il paese, e suddivisi in
meglio di 3,600 fondi di proprietà privata; ma que'possessì sono
pressoché illusorii e di un godimento assai dubbio, perocché dal
1780 al 1861, vale a dire nello spazio di 81 anni, furono invasi o
minacciati per 62 anni senza intervallo, mentre per soli anni 19 il
lago seguì una progressione di decrescenza.
I tenimenti contermini del Fucino, che gli abitatori credono in
sicuro dalle sue inondazioni , danno in condizioni prospere , un
112 BIYISTA CONTEHPOBANBÀ
reddito corrispondente a un capitale da 2,700 a 3,400 franchi per
ettaro, e non attribuendo a quelle che giacciono nella zona soggetta
alle allagazioni, che un valore al di sotto della media di 2000 franchi,
ne risulta che l'instabilità del lago toglie all'agricoltura un capitale
di 6,278,000 franchi, jattura che la Marsica sente in maggior grado,
sendochè la classe indigente vi è in molto numero.
È dunque chiaro che Tinterramento del Fucino è , sotto ogni
aspetto, importantissimo.
Suo scopo infatti è di restituire nel pristino ben essere parecchie
&miglie spodestate del proprio ; d'assicurare la esistenza a più di
30,000 braccia, in un paese ove per difetto di lavoro un numero
quasi uguale ne espatria a una certa stagione dell'anno ; di render
salubre una vasta contrada, e finalmente di dotare la fortuna pub*
blica di una rilevante ricchezza.
I Romani tentando cotesto interramento, ne avevano compresa
tutta la gravità economica e politica. Fu atto di somma sapienza
ministrativa quello compito da Claudio imperatore, edificando il fa-
moso scaricatoio che da lui si addomanda, e che dovea riversare nel
Liri le acque del lago ; dacché nell'eseguire quel lavoro, il più no-
tevole nel suo genere fra quanti ci furono tramandati dall'antichità,
ei non cercò soltanto di schiudere una nuova fonte d^approvigio-
namento per Roma, ma altresì volle diffondere il ben essere in mezzo
a una popolazione di spiriti guerrieri, che la miseria incitava alle
rivolture; ingentilirne i costumi, moderarne gl'istinti, sviluppando
gl'interessi di cui è fattrice l'industria agricola.
Dopo 19 secoli, il bene dello Stato e delle popolazioni reclamano
tuttavolta il medesimo provvedimento. Le infruttuose prove esperite
da Claudio e ai nostri giorni, in ogni tempo e sotto tutti i governi,
ne attestano Futilità e la necessità suprema.
La somma dei lavori eseguiti dalla Compagnia che si tolse co-
desta impresa gigantesca, il confronto tra le proporzioni e la potenza
dell'antico scaricatoio col moderno, convinceranno ognuno come
quest'opera, già celebre a buon dritto presso i Romani, sia pur oggi
la più grandiosa nella sua specie. E per vero, il lago di Fucino, al
quale vuoisi dar sfogo, è il massima volume di acqua mediterranea
e l'emissario odierno il più lungo e largo canale sotterraneo che si
sia scavato fin qua.
Cofifronto tra le dmensUmi dei due scaricatoi^ antico e moderno.
Lavori eseguiti dopo iZ 1853.
Lo scaricatoio Claudiano che bisognava ricostruire, era stato
scavato per la prima volta nel 1835 in tutta la sua lunghezza, a cura
INTEBRAHBNTO DEX LAGO DI FUCINO 113
dell'ingegnere Afan de Bivera, direttoce generale dei ponti e delle
strade napoletane: ma i lavori provvisorii di puntellatura che egli
avea fatti, rovinarono durante i 20 anni scorsi dalla esecuzione loro
al cominciamento della ricostruzione nel 1853: accaddero scoscendi-
menti molti e voluminosi; le acque, del lago invasero la parte su-
periore del canale, e lo scaricatoio ne veniva di bel nuovo quasi
interamente distrutto e reso inaccessibile quasi per tutta la sua
lunghezza, la quale dal fiume Liri alla testa del canale sulle rive del
Iago misura m. 5,679 e 56 cm.
Il canale attraversa il piano dei Campi Palentini a una profondità
sotto il suolo che valria dagli 85 ai 120 m. , e il monte Salviano a
400 m. circa sotto la vetta. I Romani gli aveano data un'apertura
la cui superficie variava da mi' 14,80 a mi' 4,11. La china comune
del solaio deUa cateratta era di m. 7, 14 e, ma ripartita irregolar-
mente presentava in certi siti delle controchine, le cui sommità erano
più alte che l'entrata del canale, e in diversi punti notavansi delle
deviazioni non piccole dalla direzione generale. L'uscita dell'acqua
dallo scaricatoio, supponendo la pressione corrispondente all'altezza
del lago nel 1835, vale a dire mi* 10,32, doveva essere al massimo
di mi' 12,384 per secondo. Servendo come canale, in tempi nor-
mali, con un'altezza di 3 m. d'acqua, poteva dare ogni secondo
mf 9,120.
Nel costruire il nuovo scaricatoio fu seguita la direzione dell'an-
tico, tranne in qualche parte, ove fu forza aprire dei nuovi corridoi
per riaccostarsi alla linea retta. L'apertura presenta una superficie
costante di mi* 19,989: il suo declivio è regolarmente di 0 m. 001 e.
Il solaio della cateratta fu abbassato alla testa del canale di mi* 2,39;
all'uscita di mi* 0,792, ciocché necessitò in alcuni luoghi una in-
cavazione di 4 m. 50 e. a causa delle -controchine. Sotto la pressione
corrispondente all'altezza attuale di 22 m. 86 e, lo sfogo dell'acque
può salire a mi' 67,506 per ogni secondo : sotto quella del 1835,
ossia di 10 m. 32 e, salirebbe a mi' 46,616. Finalmente, in tempi
normali, servendo come canale, con un'altezza d'acqua di mi* 3,80,
emetterà mi' 28,078.
Da cotesto cifre numeriche emerge l'enorme differenza che inter-
cede fra l'opera moderna e l'antica; ma entrando nei particolari, la
si può valutare ancora più al giusto.
Lo scaricatoio di Claudio mostrava dei saggi in ogni maniera di
muratura; ma però, se ne togli quella a rottami di pietra scalpel-
lati, l'opera reticolare non vi si vedeva per nulla. I pilastri erano
talvolta in mattoni ; ma più spesso in muratura comune con o senza
rivestimento di mattoni, le volte e i pavimenti erano per lo più fab-
bricati con una specie di smalto, in mezzo al quale si veggono tut-
Mivista (7.-8
114 RIVISTA CONTEMPOEANBA
tavia le estremità degl'intavolati. Queste diverse guise di muratura,
commiste assieme quasi a casaccio, e senza alcun ordine o ragione
di essere, hanno non poco contribuito ad accelerare la rovina dello
scaricatoio.
L'opera moderna è in ogni sua parte fabbricata con pietra calcarea
scalpellata, di qualità perfettissima.
I Romani che pur conoscevano perbene le proprietà e l'uso della
pozzolana, non se- ne sono mai serviti, comechè i loro pozzi ne attra-
versassero spessissimi banchi. Essa non fu adoperata che nei nuovi
lavori, nei quali si scrupoleggiò a tal segno da rivestire in mattoni
un andito della galleria che passava per uno spesso strato di terra,
abbastanza compatta perchè dopo 1900 anni quel passaggio si rin-
venisse nel miglior stato di conservazione. I nuovi lavori resero at-
tivi 18 pozzi, dei quali 12 profondi da 85 a 96 m., e due corridoi
obliqui [eunicuU)^ di cui uno lungo 180 e l'altro 260 m.
Ai lavori del Tunnel- non si pose mano che nell'anno 1856: al
mese di aprile 1860 erasi terminata la galleria per una lunghezza
di 3,747 m. ed eseguito lo scavo di mi' 84,060,90 in terreni diver-
sificanti dalla più dura calcare compatta fino all'argilla e alla sabbia
finissima.
Per quest'opera venivano impiegati :
In muratura di rottami scalpellati mi' 14,321,80
Id. ordinaria. 3,172,82
Id. in mattoni 1,133,77
Id. in pietre crude . . . 4,509,58
Totale mi' 23,137,97
L'inaccessibilità dello scaricatoio, all'epoca che ne prese possesso
la Compagnia, aveva reso necessario di istituire i progetti sui piani
di Afan de Rivera ; e dietro a que'dati calcolavasi uno scavo di mf
60,955 per l'intera lunghezza dello scariòatoio. Siffatti computi con-
cernevano soltanto un'apertura di m^* 12 di superficie, ma il rapido
ingrossare del lago dal 1852 al 1853 persuase tornare insufficiente
questa apertura: la si è dovuta portare a m[^ 20, e ne risulta che
appena a due terzi del lavoro, gli scavi eseguiti oltrepassano già di
mi' 23,105,90 la quantità totale anteriormente computata.
Secondo questi stessi dati le murature calcolate per l'intera edi-
ficazione dello scaricatoio ascendevano a m\^ 11,928: a [due terzi
dell'impresa • codesta somma aumentava di m^* 11,709,97, vale a
dire del doppio e nondimeno restavano tuttavia a praticare m^*
1,494,90 di galleria per giungere al punto in cui l'acque avrebbero
dovuto entrare nel canale.
INTBBRAMBNTO DBL LACK) DI FUCINO 115
Da un fli rilevante aumento dei lavori ne conseguitò la necessità
di accrescere il capitale sociale in considerevoli proporzioni, d'impie-
gare un tempo molto più lungo, e di assoggettare per ogni rispetto
la Compagnia a più gravi carichi che la non si fosse aspettati
dapprima.
Malgrado le violenti commozioni in cui trovasi la Marsica dopo il
1860 e il forzato allentare dei lavori durante Tultimo trimestre del 1860,
il 30 di aprile 1861 la gallerìa era aperta in tutta la sua lunghezza
e interamente compita sopra m[' 4,284, di cui m}^ 2,184,14 sono in
muratura di rottami scalpellati, m^* 310 ricoperti di mattoni) e il ri-
manente ii^ roccia compatta. A quel tempo restavano ancora m[' 842
di galleria da allargare e cavar nella roccia, e diversi anditi in mu-
ratura da fabbricare dì pianta. Oltre a questi lavori sotterranei bi-
sog^nava eseguire alla testa del canale, nel lago, dei lavori di pre-
sidio e di isolamento, e costruire una diga, per la quale non ci volle
meno che un assodamento di cento e più mille metri cubi di terra
e di roccia.
Queste cifre testificano solennemente la grandiosità del lavoro^
che fu Qompiuto senza interruzione e nel più profondo silenzio, in
mezzo ad ostacoli di ogni maniera, e d'avvenimenti atti a causare
in via ordinaria un'assoluta sospensione.
Ci pare di'aver significato a sufficienza il genere e la natura dei
lavori, e le difficoltà che sì dovevano superare per condurli a ter-
mine. Il lettore avrà compresa l'importanza dell'interramento, e figu-
ratasi quella vasta circonferenza di 60 chilometri ieri coperti dal-
l'acque, ed oggi convertiti in praterie ed in campi, ove le ricche
messi fruttificheranno Tabbondanza di tutto, mentre prima vi regna-
vano la sterilità, la carestia e la fame. Allorché quei 65,000 ettari
ben coltivati daranno dei ricolti che era follia di sperar per lo in-
nanzi, ed un paese intero destituito d'industria e dì commercio, sarà
per ciò messo in grado di prosperare mediante lo scambio dei suoi
novelli prodotti, non si dovrà forse confessare la utilità di questa
colossale intrapresa? Non è. forse un miracolo che abbiasi potuto
inaugurare a questi giorni il primo sgorgo dell'acque nello scarica-
toio? Senza dubbio l'opera non è finita, anzi ne siamo ancora al
cominciamento, ma non è men debito di ammirare gli sforzi incre-
dibili che ci vollero per giungere a tanto.
Per far ben capire al lettore l'indole dei varii ostacoli ed impe-
dimenti che si frapposero airesecuzione dei lavori^ ci è mestieri
toccare di alcune particolarità intorno alla costituzione della Com-
pagnia. Sarà un breve cpnno ed utile ad un tempo, imperocché sia
codesta una pagina inedita degli intrighi, di cui fu teatro per lo passato
il Bearne di Napoli. Abbiamo già detto fin dal principio che l'impresa
116 KIVISTA CONTEMPORANEA
era stata concessa ad alcuni stranieri in premio di certi secreti ser-
vigii resi a re Ferdinando II negli anni 1848 e 1849. Costoro non
avevano alcun credito né politico né finanziario; e nondimeno deli-
berarono di fondare una Compagnia onde mettere in atto la xsonces-
sione. Per gran ventura i Napoletani nati fatti per diffidare di qua-
lunque Compagnia industtiaie, costituentesi con un pretesto più o
meno industriale e lodevole, e capeggiata da personaggi più o men
titolati, principi, duchi, baroni, cavalieri ; per gran ventura, diciamo,
i Napoletani non risposero con molta premura all'appello dei suc-
cessori e continuatori dell'opera romana. Quelli che avevano arri-
schiato il negozio, non lo riguardavano che come un affare di Borsa, e
speravano che un forte premio avrebbe salutato la risurrezione del-
l'impresa incominciata da Claudio. Ma s'ingannarono. La nuova
Società venne accolta con indififerenza dal pubblico, e le azioni lungi
dal guadagnare non trovarono nemmanco acquirenti a una cifra assai
minore del pari. A dir corto, i consigli di amministrazione e di sor-
veglianza, i direttori e gli impiegati seppero soli di che colore fos"
sero le azioni, e di qual forma. Il negozio folli addirittura. In onta a
ciò, eransi potuti incominciare gli studii dei lavovi, eransi tracciati
alcuni piani, i conti preventivi erano stati fatti : ma tutto questo va-
leva a nulla, che il nerbo della guerra, e d'ogni altra cosa, vo' dire
il denaro mancava. Allora uno dei concessionarii ebbe un'inspirazione
bellireima, la quale rivelò in lui il vero genio dell^ speculazione.
Un bel giorno partì da Napoli e si recò a Roma.
Il principe Alessandro Torlonia è conosciuto per tutta Europa, e si
sa per tutti- che le sue ricchezze sono ingenti: esse aumentano ogni
giorno, ma*come ha ragione il proverbio che fortuna non fa felicità,
il principe Torlonia è una prova vivente di questo vero. Proprietario
di milioni, potendo soddisfare ogni suo desiderio, e' darebbe, ne
Siam certi, tutte le sue dovizie per la felicità domestica. Infatti il
principe ha da lunghi anni la* moglie inferma e priva delle facoltà
mentali: la sua unica figlia é cieca, sorda e muta; e l'erede d'un
patrimonio^ la cui ricchezza contasi per decine di milioni, non può
fruire né colla vista, né con alcun altro umano senso, delle beati-
tudini di tanta fortuna. Non avevamo dunque ragione di dire che
la sorte del principe Torlonia non è punto invidiabile?
Il Direttore dell'interramento del Fucino sapendo tutto questo, pre-
sentatosi al principe, gli espose la cosa con tutti i suoi particolari e
le sue conseguenze : esser codesto un mezzo per rendersi immortali :
tutti quelli che si adoprarono per quel lavoro, esser passati alla po-
sterità: Narciso, Agrippina, Claudio, Nerone, Adriano aversi un posto
a parte nelle narrazioni degli storici : Tinterramento del Fucino essere
impresa dogana del principe, e nel tempo stesso un buon negozio sotto
INTEBBAMBNTO DEL LAGO DI FUCINO 117
lo aspetto finanziario: niun altro poter effettuare un'opera cotanto
grandiosa. Insomma qualche di dopo il principe Torlonia partiva per
Avezzano, facendovisi accompagnare dal celebre ingegnere francese
signor di Montricher, a cui Marsiglia deve il magnifico canale della
Duranza. Il signor di Montricher esaminò tutto, segnò un piano,
guarenti al principe la buona riuscita dei lavori e la possibilità reale
di venirne a capo, e finalmente ne assunse la direzione. Il principe
rassicurato, poiché aveva ogni fiducia nel celebre ingegnere ; lusin.
gato dal pensiero di illustrare il proprio nome con quell'opera gigante,
di compiere un lavoro, del quale i Romani non avevano potuto veder
l'esito, e innanzi al quale 19 secoli si avevano arretrato; il principe, ri-
petiamo, volendo che la sua fama suonasse alta fra i posteri, deliberò
di accollarsi il negozio.
Ma di questo strano affare non fu certo men strano il modo dovuto
usare dal principe. Narriamo un episodio dei più singolari fra quanti
possono pingere pib al vivo lo stato di terrore e di suggestione in
cui giacevano le provincie napoletane.
La Compagnia formatasi in seguito alla concessione accordata da
Ferdinando II s'intitolava: Compagnia Napoletana di prosciugamento
del Lago Fucino e di restaurazione delV emissario di Claudio. L'ammi-
nistrazione generale erasi allogata in strada Medina n'' 61, ed una
succursale era stata stabilita in Avezzano. Furono istituiti condigli di
amministrazione e di direzione, nominati i direttori dei lavori e degli
affari contenziosi, tutti insomma i moltissimi impiegati ordinari!. Cia-
scuno si appostò del suo meglio, e fecesi il nido fra tanta moltitu-
dine di sinecure soavissime. Fra stipendii, indennità e assegni di pre-
senza, ciascun amministratore s'era fatto un grasso appanaggio, e se
ne stava in panciolle. Tutti credevano che non la durerebbe molto
a quel modo, perchè non si aveva alcuna fede nella riuscita dell'im-
presa, e si opinava che fin dal principio sarebbe stata abbandonata e
lasciata sospesa. Immagina dunque, o lettore, la dolce e grata mera-
viglia di quella gente, quando, arrivato a Napoli il principe Torlonia
col signor di Montricher e col direttore che era andato a cercarlo in
Roma, nulla fu cangiato, e ciascuno rimase al suo posto. Ed ora senti
perchè il principe Torlonia lasciasse tutto nello statu quo.
Ferdinando II era un sovrano assoluto, e come tale un po'capric-
cioso. Poteva darsi benissimo che un giorno o l'altro si risapesse
dal re come i lavori progredissero davvero, e la concessione da lui
accordata, lungi dal restare allo stato di lettera morta, si rendesse
proficua a coloro ai quali egli avea creduto di gittare un osso nudo
da rodere, e nulla più : sicché (se ne avevano tanti esempii) Ferdi-
nando II poteva in quel giorno muover liti e cavilli al principe Tor-
lonia, cui sarebbe stato forza tacersi, non potendo, povero principe ro-
118 BIVISTA CONTBMPOBANEA
mano, lottare con una maestà come quella di Ferdinando II. Laonde,
per ovviare al caso, il principe Torlonia comprò da solo tutte le azioni
restate invendute, vale a dire tutte, se ne togli le azioni libere ri-
serbatesi dai fondatori dell'impresa, i quali però non tardarono a
cedere anche quelle al Torlonia. Questi sborsò la somma di 5,000,000
di franchi.
Più tardi la Compagnia abbisognando di nuovi fondi, si tenne
una seduta d'azionisti, e il prìncipe attribuì a se stesso, unanima-
mente, con un sol voto, i 7,000,000 addizionali di cui non si poteva
W^ senza. E avvedutamente adoprava: conciossiachè se saltava il
ticchio al re di Napoli di dargli molestia, egli cedeva una parte
delle sue azioni al portatore a' suoi corrispondenti francesi, inglesi,
russi, tedeschi, e allora sorgevano contro Ferdinando II gli amba-
sciatori di tutte le potenze a chiedergli conto delle vessazioni da lui
t&tter ai loro connazionali. Per tal modo può dirsi che, tranne qualche
mena sordina, qualche secreta opposizione, la Compagnia non ebbe
nulla a patire dalla malivoglienza -e gelosia reale.
La Compagnia adunque restò nominalmente a Napoli: ognuno
riscosse puntualmente (e questo giovò moltissimo) le proprie prò-
vigioni; le sedute furono tenute regolarmeilte ; insomma tutto andò
per lo meglio. Ma la vera residenza delia impresa e la direzione dei
lavori erano in Avezzano. L'agente del principe era un francese, emi-
grato dopo il colpo di stato del 2 dicembre 1851, il signor Leone de
Rotrou. Per dargli maggiore autorità in paese fu fatto eleggere
agente consolare di Francia. É uomo di non comune intelligenza,
che l'anno scorso fu creato cavaliere dei Ss. Maurizio e Lazzaro, ed
era proprio adatto all'ui^po, perchè vivace, solerte, intraprendente, in
un paese usato di andare a rilento e a camminare a ritroso. Il si-
gnor di Montricher prese stanza in Avezzano onde dirigere in per-
sona quell'opera cui si era grandemente affezionato. Sventuratamente
nel 1858 mori di febbre, lasciando il lavoro incompiuto, ma in corso
regolare d'esecuzione.
Oli succedette nella direzione dei lavori un ingegnere di gran
valore, il signor di Bermoi^, che del resto avea aiutato il signor di
Montricher fin dal principio dell'impresa; per cui non era già un
uomo nuovo, ma un continuatore dell'illustre ingegnere, morto a 40
anni appena, all'apogeo della sua fama, e in tutta la forza del suo
raro ingegno.
I signori Brisse, Lavancher, Amedeo Bafa, Edoardo Scheffer ed
altri furono i collaboratori del signor di Montricher e poscia del si-
gnor di Bermont; e devesi riferire a loro merito se i lavori prose-
guirono regolarmente. Eglino se ne divisero il compito. Uno andò
a Capistrello, e diresse i lavori da quella parte, e curò l'erezione
INTBBBAMBNTO DEL LAGO DI FUCINO 119
delle case che per otto anni ricoverarono 2,000 lavoratori: un nuovo
paese era nato quasi per incantesimo ; chiesa, scuola, case, tutto sor-
geva in pochi giorni. Un altro fece lo stesso all'Incile, situato sulla
sponda del lago vicino air imboccatura della scaricatoio, mentre Ca-
pistrello era posto dall'altro lato di Salviano, all'estremità dello sca-
ricatoio anzidetto. Altri dirigevano il taglio dei legnami, le fabbriche
dei mattoni, i cantieri ove si costruivano i carri di trasporto, i va-
goniy tutte insomma le opere da falegname. Altri infine stabilirono
e condussero le ferriere , le fonderie ove si colavano le rotaie , ove
si fabbricavano ì chiodi , gli arnesi , gli stromenti d'ogni fatta.
Fabbriche di corde, di stoppa, magazsrini, baracche di varie guise
furono ordinate, erette e costrutte. Finalmente bisognava ingegnarsi
alla meglio : non ci era modo di procacciarsi dall'interno o dall'esterno
del reame nulla di quanto fosse necessario. E così sia detto degli
operai; che convenne chiamar dal di fuori i falegnami, i fabbri ferrai,
i fonditori, i muratori ecc. onde far apprendere agli incoli jl mestiere
che s'erano scelto. Per dieci anni non ci fu più emigrazione : tutti i
montanari e gli uomini e le donne della pianura ebbero lavoro, -e
4,000 persone vissero di quell'impresa toccando un onesto guadagno.
Ecco il lavoro gigantesco che fu inaugiltato a questi giorni, o piut-
tosto il cominciamento di quel lavoro che fu benedetto non ha guari.
Infatti il bacino che dà l'andare all'acqua, non serve a scaricarla che
fino a una certa altezza, affinchè una parte della galleria (lunga 410 m.
tuttavia piena d'acqua, e ostruita dai scoscendimenti) possa per tal
modo venir essiccata e reintegrata, come il restante dello scaricatoio.
Oli è da \ma galleria provvisoria cavata nella roccia, a mancina, e
che fa quindi un angolo esteriore colla galleria più lunga, in ragione
della sua sinuità di 480 m., che l'acqua si versa per giungere al-
Tultimo scaricatoio. Fu calcolato che non ci vorranno men di due
anni per conseguire la desiderata decrescenza.
n lavoro costò finora 14,000,000 di franchi, ma noi possiamo
esser sicuri che ai andrà più oltre. Del resto ciò poco monta al
principe Torlonia. Allorché il signor Peruzzi, allora ministro dei la-
vori pubblici, visitò un anno fa lo scaricatoio in compagnia del
principe, questi alle giuste lodi tributategli dal ministro, rispose:
e Ho speso finora 14 milioni, ma non già sulle mie rendite ordi-
narie, né sui miei capitali; sono profitti d'alcuni miei negozii, indi-
pendenti dal mio patrimonio. Avrei potuto dispome a beneficio di
qualche favorita. D'altronde se io mi muoio, ho almeno provveduto
al pieno compimento di questa impresa, ed ho regolato in • conse-
guenza la bisogna, senza pregiudizio alcuno dei miei eredi».
Non possiamo meglio conchiudere che con due parole sulla so-
lenne inaugurazione del bacino che dà sfogo alle acque, le quali
120 RITISTA OONTTOfPOBAKBA
dallo scaricatoio si riversano nel Liri. È a notarsi per incidema oke
tutti i paesi che giacciono dopo Capistrello, sulla spondtt del Liri,
hanno intentato una lite alla Compagnia, ed invero inondati come
sono r inverno, essi chieggono se saran dannati a perire anche la
state nell'acque. L'avvenire deciderà sulla giustezza delle loro ragioni.
Frattanto ecco come uno dei nostri amici ci racconta T inaia gura^
zione:
« Ieri mattina adunque a 7 ore suonate, il prefetto d'Aquila col
suo seguito, il generale Chiabrera, il sotto-prefetto d'Avezzano,
l'ingegnere ispettore del genio civile della provincia, signor Mas-
sari, il presidente del consiglio d'amministrazione ed il direttore
della Compagnia, scortati dagringegneri Bermont, Brisse e Lavanchy
anche della Compagnia, si recarono a visitar l'emissario. Gran sod-
disfazione provarono tutti ad esaminare l'opera grandiosa, e benché
non potessero farsi una giusta idea dei pericoli corsi e delle diffi-
coltà superate, pure non si rimanevano dall'ammirarla, massime il
prefetto.
« Il giorno dopo, alle 6 1[2, fu la solenne inaugurazione. Spettacolo
davvero grande ed imponente. Le rive del canale erano adorne di
oriflamme e di bandiere tilcolori. Sopra la galleria di comunicazione
fra il canale scoverto e l'emissario, era apparecchiato un elegante
altare adorno di lumi, intomo al quale avevano preso posto le au-
torità civili, militari ed ecclesiastiche della provincia, e meglio che
cento persone invitate.
Molta popolazione era accorsa da Avezzano e paesi vicini. Come
l'abate latosti ebbe recitate le preghiere appiè dall'altare, e si fu
recato sulla testa del canale a benedir le acque ^d i lavori, cominciò
tosto ad agire il congegno che sollevava ad uno ad uno i tavoloni,
i quali arginavano la caduta delle aeque. Esprimere l'ansia e la
perplessità degli astanti non è guari possibile con parole. Tolti i
tavoloni, continuava l'ansietà del pubblico, perchè l'argilla flrapposta
tra quelli, benché non sorretta da nessun lato, opponeva tuttora
ostacolo alla caduta delle acque. Le filtrazioni si facevano ad ogni
istante più copiose, ma la massa reggeva; cominciò poi a barcollare,
finalmente crollò. Allo irrompere delle acque nel sottoposto bacino
levossi un grido unanime di gioia e di applauso. Fu un momento
solenne, indescrivibile. ... Le acque fluiscono ora regolarmente, ed
il successo, comechè non dubbio, è oggidì assicurato. Il coraggio
e la perseveranza del signor principe Torlonia sono stati benedetti
da Dio e premiati dall'esito felice.
Compiuta la solenne inaugurazione, e rimasti tutti un pezzetto a
guardar la caduta delle acque e il loro frangersi rigogliose e spruz-
zanti fino al palco d'onde era stata impartita la benedizione, ed il
INTBBRAUBNTO DBL LA^O DI FUCINO 121
loro immettersi precipitose nel piccolo traforo di comunicazione, fu-
rono serviti dei rinfreschi a tutti gli invitati, signori e signore, ai
quali era stato riservato un posto distinto. La popolazione intanto si
ritirava, ed era belio vedere molte barche solcare il lago in diverse
direzioni, e molti veicoli con innumeri pedoni disperdersi in tutti i
sensi per le campagne, gridando evviva al re Vittorio Emanuele ed al
principe Alessandro Torlonia, autore dell* intrapresa. Curiose erano le
oeservazioni di quei contadini, presso i quali esistendo le tradizioni
dei tanti falliti tentativi di prosciugamenti, non credevano alla testi-
monianza de'proprii occhi vedendo riuscito quest'ultimo, e dicevano:
« Fucino se ne va clawero ora ».
La sera i convitati convennero ad un gran banchetto di 30 coperti,
che riusci allegrissimo ed ottimamente servito. Il prefetto bevve alla
salute deiringegnere signor Bermont che aveva diretto i lavori, e
prendendo occasione dalla sua qualità di francese, bevve alla durevole
alleanza di Francia ed Italia. Rispose il Bermont bevendo alla salute
del principe Alessandro Torlonia cui era principalmente dovuto l'otte-
nuto successo, ed a quella deiringegnere Brisse sotto-direttore de'la-
vori che aveva cooperato con lui ad ottenerlo. Il vice-presidente del
Consiglio di amministrazione della Compagnia avvocato Cacace, bevve
alla salute del Re.
Seguirono molti altri brindisi ed i nomi del Re e del principe Tor-
lonia furono soventi. festeggiati.
Ho omesso -di dirle che sul luogo istesso dell'Incile, dalle autorità
intervenute e dal direttore della Compagnia, fu sottoscritto un verbale
constatante il seguito cominciamento della immissione delle acque
del lago nel fiume Liri.
Luigi db l^ Varennb.
122
DELLA EPIGRAFIA
n
PENSIERI
Gli uomini in effetto non son fra loro sconnessi, né le genera-
zioni e le epoche son di guisa indipendenti, che la successione loro
non sia ordinata in virtù di correlazioni causali, e di vincoli inte-
stini, che runa all'altra congiungono. Tutto quello è compreso nel
creato, è reciprocamente connesso nella vita e nella operazione, di
quella maniera medesima, che da un'idea sola è supernamente rap-
presentato, l'idea cioè d'universo o del cosmo; e ciò che ai volgari
e superficiali pensatori si par segregato ed autonomo, non è che dis-
forme e distinto, vale a dire non è che apparentemente tale, con-
ciossiachè, quanto è sottoposto a limiti di spazio e di tempo, è
volubile e vario, e nella sua movenza e nel suo dispaiarsi e molti-
plicarsi /ermo e sostantivamente uno. La società è l'accolta, o la
somma completa degli uomini che furono sono e saranno^ insomma
è l'umanità. È errore massiccio limitarla ad un'epoca, quasiché gli
uomini tutti da Adamo a noi, o i nascituri sino alla pienezza dei
secoli nonsieno stati e sieno insieme parti e membra d'una ed identica
comunità, quasiché l'umanità non fosse un gran tutto, che si di-
svolge, e disvolgendosi, ad un tempo su se stessa ritorna, per arri-
vare al suo fine e alla plenaria e perenne sua vita nel principio
stesso onde l'attinse. L'idea di società é yna come qualsivoglia
altra, ma ordinata ad incarnarsi nel tempo e nello spazio in indi-
vidui innumerevoli, come appunto il cosmo é ordinato ad enuclearsi
in obietti moltiformi, che ne compongono lo sviluppo. Adamo e
(*) Vedi il Fascicolo di Settembre.
DBLLA BPmEAFIA 123
il Caos a ma) agguagliare espressero siffatta unità e l'ordinazione di
essa a moltiplicarsi. Ogni moltitudine peraltro, se è segno di perfet-
tibilità, non lo è mai di perfezione. Questa sta nell'unità, nell'aboli-
zione dei punti del tempo e dello spazio, onde fu simboleggiata in
antico nel cerchio o nel rotondo, e colla parola orbis significata
dalla sapienza latina, e dalla cattolica teologia nella circuminsessione
divina,' e nella immanenza degli spiriti in seno a Dio. La perfetti-
bilità al contrario esige e tempo e spazio, e distesamente profitta
d'ambedue. Non essendo possibile di pensare che perfezione finale
si dia senza perfettibilità precedente, neppure si può pensare a fi-
nale unità senza antecedente moltiplicità. La quale alla sua volta
non può essere diretta o inclinata all'unità, se quest'essa non le
serva come di spirito e di fondo, che a quel termine nascosamente
la guidi. L'idea che Dio ha del mondo e dell'umanità, e l'umanità
e il mondo nella primigenia unità loro, ossia prima e dopo la crea-
zione, non sono perfette in quanto elleno rappresentano un com-
plesso di oggetti certi e distinti, comunque conchiusi in germe in
una unità che li contiene, ed a cui sono naturalmente aggregati: in
quanto ai fatti, sono effettive unità corrispondenti alle idee, son cioè
fatti complessi e unità risultanti e ordinale a svilupparsi. Perlochè
l'umanità e il mondo, che si dispiegano obbedendo alle leggi della
perfettibilità e del tempo, e al proprio ordinamento, tendono per
virtù anche infusa e connaturale a riunfrsi e a rientrare in se slessi,
inquantochè ogni dispiegamento non è dispersfone, ma semplice
estensione e diramazione, che non perde mai l'unità del principio,
né può star senza quella di fine, avendo il tempo e I^ spazio, con-
dizione di essa diramazione, Irmiti certi. Cotal ritorno delle varietà
nell'unità fondamentale, deve essere omogenea all'egresso, ossia di
quella forma che l'idea umana una e latente svariatamente si appa-'
lesa in individui, debbono questi analogamente, cioè per gradi e
svariandosi, nascondersi rientrando in lei come a loro principio e a
loro ultima meta.
La società ha dunque due modi di esistere, uno cioè invisibile,
l'altro visibile, l'uno temporaneo, l'altro estemporaneo, riposto il
primo nell'unità sempiterna residente in Dio innanzi e dopo il
tempo, l'altro nella moltiformità transitoria dominata dal' tempo,
corrispondente quella al principio ed al fine, e questa al mezzo. Il
modo d'essere-visibile è quello del tempo; quando essa è concreta
in individui, consta di forme e di momenti, è tramezzata, ricinta e
compresa dal tempo e dallo spazio, brevemente quando è fenome-
nale. Stato cosiffatto, comecbè precario e mobile, è effettivo quanto
agl'individui: quanto alla società però è ideale. Lo stato vero e pro-
prio di lei è lo invisibile quale fu al cominciamento, quale ritornerà
124 RIVISTA CONTBMPORANEA.
al compir della sua carriera, allorché rinverlita su se medesima si
vedrà piena ed intiera in quell'essa perfezione a cui tende, e inverso
cui con ogni suo disvariarsi s'avvia. Il discorso passaggio dallo
stato precario al permanente, ovvero il ritorno degli individui nel
genere o nel loro principio effetlivo, si cognomina morte e scomparsa.
Ma è opinione solamente del volgo ch'ella stia nella scissura dei
vincoli sociali, nello annichilamento della vita, in una condizione
d'essere degli uomini nuova del tutto e segregala dall'attuale, nel
rompimento assoluto dei due tempi presente e futuro.
Pei pensatori non è così, né cosi sembrò alla universale coscienza
dei popoli, i quali ancorché non se ne addassero, ancorché giu-
dicassero il contrario andando presi alle apparenze, si diporta-
rono come persuasi dell'opposto, soverchiando cosi il sentimento
gli errori e gl'inganni d'un mal avviato o mal nutricato intel-
letto Per morte invero l'individuo sfugge alla visibilità cangiando
sue forme, e se vuoi, qual individuo cessa d'esistere in mo' deter-
minato e singolare/ trapassa dal tempo che é una foggia, una
condizione fenomenale di sua esistenza, alla permanente e inva-
riabile dell'eternità, immergendosi nella umanità e confondendo in
essa la sua vita propria e individua. Imperciocché doppia vita ha
l'uomo, una individuale che quaggiù si completa, perché allegata al
tempo e allo spazio, e distinta dall'unità sostanziale della umanità^
ed una come sociale. La qdale si termina insieme colla società o
coll'umanità nel sud totale, allorquando questa ultima ha finite le
sue evoluzioni, e simultaneamente al tempo cessa il terreno viaggio,
ed ha esaurita la sua perfettibilità. Né per lo dinanzi la vita degli
individui sotto questo aspetto si completa, inquantoché la società é
indivisibile, e sebbene per individui si manifesti, per essi e con essi
non si fraziona. Conseguentemente la morte nulla ha che fare colla
società, sia perché ella e invisibile nella sua pienezza, sia perché
non va soggetta in se medesima a cangiamenti di stato. È un ac-
cidente che interessa meramente i singoli, e avvegnaché tutti quanti,
pur tutti quanti nella singolarità loro, nella individualità della loro
esistenza mondana. Eglino di vero rientrano nel centro, onde quasi
sortiti si slontanarono per travalicare il tempo e aprirsi la strada
con esso alla teleologica eternità, e man mano comporre laverà
società da cui individuandosi, come dire, si dispiccarono per un mo-
mento. Laonde dappoi alla morte, poiché vanno a costituire quella
società concreta, che é la condizione loro natia e finale, depongono
nel tempo le forme transitorie già assunte alla loro venuta, acconci
argomenti al proprio sviluppo. Tali sono il corpo, la fissa dimora,
gliospizii, le insegne, la famiglia e le ricchezze, appanaggio derivato
dalla creazione, nell'opera della creazione, diponibile allorché l'uomo
j>BLLA BPieBAPLA. 125
morendo oltrepassa i limiti della creazione. Quindi accade die
l'uomo cedendo alla nuovissima necessità, non dismette affatto dal
comunicare colla superstite società, né affatto rimane in mezzo a
lei, ma per un lato solamente, cioè per quello sociale, mentre
come individuo perdendo questo secondo lato^ o questa forma, se
ne dilunga.
VI.
Le idee sopraccennate tralucono dalla stessa filologia latina, infi-
nibile miniera di civile sapienza antica e universale; miniera entro
cui scavando si guadagna maggior filosofia che non in mille vo-
lumi. Diffatti le parole da quella impiegate ad esprimere la morte,
non suonan mai distruzione. o fine assoluto. Elleno sono: Obitus^
Funtis, DecessuSj Interiius, Transitus, Immigralio: vocaboli dal co-
mune significato di partenza d'uno in altro luogo o compimento di
lavori, trasferiti ad annunciare l'avvenimento della morte. Tale è la
voce parehtaliaj destinata a significare le onoranze rese ai defunti
e ad esprimere insieme non pure la continuazione dei vincoli di
parentela, ma l'estensione di essi a tutti quanti, appunto perché
abolite le discrepanze delle famiglie e dei luoghi per cagion della
morte, gli uomini ritornano senza eccezione cognati.
Unica la parola mori ha valore assoluto, e non traslato, e sta a
rappresentare l'idea di distruzione. Ma perocché ella é voce di si-
gnificato deciso, e per ciò stesso della lingua antica, esprime l'idea
volgare, la usuale e rozza credenza. Perocché il tropo, quando si
riferisce a idee morali é opera dell'arte^ o meglio della scienza pro-
gredita,- e non é prodotto da povertà di lingua ma da dovizia di sa-
pere. I traslati indoUi per difetto di vocaboli son figli della fantasia,
perchè il popolo cheli crea, più da questa che non dall'intelligenza
0 dalla riflessione riceve fecondamente e virtù generativa. Quelli
che partoriscono eleganza, e che riverberano idee speculative e
d'un ordine più elevato, non son lavoro del popolo né dell'imma-
ginativa, ma di maturi artifizii e di studiati confronti. I quali in
tanto fruttano eleganza inquanto si raflrontano bellamente coi tipi
eterni del bello che non ha di fantastico né gli elementi e nemmeno
la forma. Mentre poi i traslati popolari e immaginosi scendono al
sublime, quali spessissimo rinvieni nelle lingue d'oriente, quali in
Dante a rimpelto di se medesimo e di Petrarca, per aver quegli ta-
lora profittato dei traslati popolari, talora a guisa del secondo aver
usati quelli che il proprio intelletto graziosissimamente suggerivongli.
Le parole mors e mori erano in bocca degli ignari, lo nolammo,
e quasi patrimonio dozzinale della plebe: in quella dei dotti furonvi
126 BIYISTA OONTBÌCPORÀMBA
per lo più le altre, appena che col crescere della civiltà la lingua
eziandio si crebbe, e di greggia e durissima si rese gentile e rotonda.
Lo che insegnò anche per la voce mori un temperamento che la
converte in emori^ levigandone per siffatta maniera il conio e sce-
mandone quel valore reciso e assoluto che aveva di prima. Quest'esse
considerazioni potrei rafforzare coirispezione di altre filologie, se
non fosse sufficiente la latina in cui tutto lo anteriore e il Sincrono
sapere si travasò. Dirò peraltro che non poteva avvenire disforme*
mente, quando i nostri proavi in mezzo a fole ed errori di più
ragioni professarono dottrine religiose e filosofali chela distruzione
apertamente diniegavano. La metempsicosi e la palingenesi son di
tdli sistemi nei quali la morte non può essere appresa che come un
cangiamento di forme, una cessazione d'una condizione a cui un'
altra subentra. Poco rileva se questa condizione seconda è oltra*
mondana o non. Ciò che costituisce l'essenza della dottrina è la
trasformazione. La quale in nissun sistema è eterna, o senza limiti,
0 quando lo fosse ha sempre un aumento che via via distacca chi
vi è soggetto dall'indole comune degli uomini, e lo innalza a più
perfetta a più nobile natura* Gli accessorii, oltre a riuscir di leggero
momento, sono anco pel differir dei popoli fra loro, e pell'igdo-
ranza o per la confusione di loro dottrine assai spesso indecisi e
scambiati; né chi pretendesse posarvisi sopra e contrastarci quanto
asseveriamo, si sentirebbe nell'obiezione sua rinfrancato o inespu-
gnabile. La religione di Godama, per esempio, distesa in gran parte
di Cina, Cocincina, Giappone, Tonchino e Ceylan, che nulla è più
in ultima analisi della religione di Brama^ una delle più vecchie e
più professate forme di metempsicosi, ammette una trasformazione
ripetuta sino al punto in cui le anime trasformantisi non abbiano
attinto' quel grado di perfezione che essi designano col nome di
NiebaUf grado che attinge qualunque uomo, per dirla colle parole
di dotti etnografi^ when is no longer subject io any ofthe following
miserìes, namely lo weight old age^ disease, and death (1). Della
dottrina trasformativa di quei popoli che il camismo snaturò, io
non parlo, perchè dopo all'essere la più arruffata ed incerta è insiem
così bassa da non meritarne nemmeno il nome. Ciò nuH'ostante
avendo vaghezza d'addentrarsi in quegli oscuri laberinti sepolti
sotto densissima lava di molta barbarie, non ne torneremmo a mani
vuote, che più qua e più* là è dato di raggranellare qualche seme,
che al proposito nostro mirabilmente soccorre.
(1) Asiatik researches; voi. 6 , art. 8.
DBLLA BPI0BAFU 127
VII.
Concludendo adunque» è da ritenere che il defunto eziandio non
meno dei vìventi deve esser considerato sótto doppio aspetto. Pel
primo come pertinente al tempo mercé l'unità della società e il
costei infìnibile sviluppo, coerentemente al quale non è strappato
0 diviso da coloro che sopravvivono o vivranno, anzi è loro colle-
gato e con esso loro si muove seguendo sua stella : dall'altro come
in effetti pertinente aireternità^ ed irretrattabilmeute occupato da
lei, perfezionata già la sua vita singolare e individua. Una formola
sotto cui si enuncerebbe cotale stato umano e i duplicati nessi col
tempo e lo eterno, col continuo e il discreto, parrebbe questa : la
perfezione raggiunta d'uno dei lati della vita bilaterale umana, e
l'aspettazione effettivamente ferma e idealmente mobile della perfe-
zione deiraltro lato o del totale; 11 lato di cui ha guadagnato la perfe-
zione è lo individuale. L'espettazione della perfezione dell'altro ò
l'aspettazione del ritorno della società all'unità primigenia, è il costei
pleroma o perfezione universa, e per ciò stesso la perfezione dei sin-
goli elementi e membri che la compongono e la incarnano. E tale as-
pettativa è ferma di fatto, conciossiachè il defunto varcati i cancelli
del finito non è capace più d'acquisto o movimento di sorta, ma sta
immoto né può attendere ad incremento qualsiasi se non gli venga
porto da altrui. Quindi è che aspettando sta fermo, né si argomenta
a procacciarlosi né a dar mano a persona che glielo procacci. Ideal-
mente e converso partecipa al commovimento sociale^ che la società
idealmente una e indivisibile, nel suo perfezionarsi ed incamminarsi
alla meta, si risgaarda sempre tale dall'un confine all'altro del
tempo, di maniera che il defunto parimente é porzione integrale di
lei, e con lei si muove e si ravvicina alla perfezione, comunque ide-
almente soltanto. Questo lato umano, poiché sia adempito, apporta
la perfezione totale^ conciossiachè l'elemento o lato sociale dell'uomo
essendo positivo ed eterno, supera ed- assorbe l'individuale e il
singolare, e ne investe per intiero la natura. Dal canto proprio la
società a cui le intime sue leggi e l'ingegno suo intestino non
possono essere celate, e se^la mente e la scienza non lo dettano, il
sentimento e la voce di natura lo persuadono, non potè né può mai
contare i defunti quali assenti, e molto meno a sé impertinenti ed
alieni, se le preme di non disfare e perdere se stessa. E ciò é tanto
vero ed incontrastabile che il fatto costante lo rafferma. Il vivo ed
inestinguibile sentimento della continuità sociale non affievolisce per
evento qualunque la potenza e vivacità propria, e ad ogni occasione
fa capo. Mai fu spento o indebolito tal sentimento, perchè quello
128 BIVISTÀ OONTBAiPOBANBA
Stato in cui gli uomini di già infuturati si posano^ è la mira sicura
a cui è rivolto indefettibilmente l'occhio della società viatrice. La
quale di quella guisa che non può smenlicare che esso è il termine
della sua infuturazione, cosi non può nemmeno avvisarsi d'essere
sciolta con chi vi è di già arrivato, se non foss'altro, in grazia della
similitudine o dell'identità del fine.
Vili.
L'intima e naturai convinzione, comunque non sempre avver-
tila, che i decessi sotto specie difl'erenli restin congiunti a noi, è
la suprema cagione in cui virtù dai monumenti e dalle iscrizioni
sorge una voce ed una forza che di tanto signoreggiano il cuore
umano. E gli affetti e la gratitudine perdurano per loro siccome
fossero vivi, e le tombe che li racchiudono ci obbligano con per*
petua e salda riconoscenza. Anzi con maggiore, conciossiachè essi
sentimenti divengono più augusti dalla religione e da quella ma-
gniiicata e soprannaturale idea che fa maggioreggiare l'uomo ap-
pena morto, irradiandolo di lume eternale e quasi divino. E poiché
all'umano spirito quaggiù fan di mestieri sensibili oggetti per ec-
citare e sostenere pensieri e sentimenti, ed ama di esternarli oca
mezzi sensibili del paro, quasi giudice e riparatore insieme della
propria fiacchezza, cosi l'uso di segni che rammemorassero i morti
parve ovunque necessario. Il desiderio, proprio a tutti, di raccostarsi
ai suoi diletti, ed aver come una copia o un ritratto di loro, rese
più frequente e più esteso quest'uso; tanto gli uomini di qualsivoglia
grado vanno convinti, che la morte non li disgrega, o tanto son
tratti da intestina legge ad impedire che ciò paia avvenuto.
Ecco precisamente onde scaturisce la cagione dell'uso epigrafico,
e dell' influsso esercitato , e della venerazione in cui l' ebbero,
tanto maggiore quanto maggiori e più purgate furono le religioni
dei sepolcri, le civili aspirazioni, o le ambizioni e le glorie nazio-
nali, i sentimenti dell'umana e social dignità; e cosi resulta quanto
quest'uso sia copulato alle leggi rettrici la società, è da esse tragga
sua vita e sua radice.
Ma conciossiachè l'Epigrafia è il ségno sensibile dell'uomo invi-
sibile^ affine di simboleggiarlo giustamente, due cose deve adunare
ed esprimere: vale a dire la condizione bilaterale del decesso, da
un canto unito a società, dall'altro in possessione dell'eterno, ^el
che appunto è riposta la dimostrazione dell'anello che i tempi
e gli uomini avvince, in ordine alla vita interminabile d'oltre
mondo,
DBLLA BPI0RAFIA 129
Per soddisfare alla prima, deve porgere in rilievo Tindole, le
azióni, le doti speciali del rappresentalo, tutte le costui proprietà
individue, talché ei si paia vìvo ed in faccia a noi. Per conseguenza
l'epigrafe deve sentire a meraviglia del tempo e del luogo in cui
Tepigrafato dimorò, § rivestirlo e scolpirlo, vuoi moralmente, vuoi
civilmente, al naturale. Insomma deve enunciare ciò per cui quel
dato uomo appartenne al mondo nostro, e quasi in pittura o meglio
in iscoltura eseguirne il ritratto, di sorte che ei sopravviva nel bel
mezzo di noi, qual non ne fosse partito. Dal che si raccoglie facile,
qualunque uomo meritare l'epigrafe come merita il sepolcro; non
tanto perchè persona non vive senza parenti o senza amici, e perciò
non muor senza lacrime, o senza superstiti affetti ; ma anche per-
dbè, pur quantunque inetto o nullo, alcun officio accompli in so-
cietà^ quello almeno di perfezionare se medesimo, e di essere
nieml)ro sociale; della qual prerogativa niuno può stimarsi immune
0 spoglio giammai.
In virtù di tal riflessione, lo dicemmo, la lingua del Lazio chiamò
parmtalia i funebri onori ai trsipassati, qualunque fossero, e sor-
sero spontanei il cimitero comune, e i convogli funebri stipati di
moltitudine dì popolo: usi vigenti tuttora ed a meraviglia compen-
diati nelle onoranze a illustri defunti, della cui iattura la società
intera si sente commossa.
Mal si appose il eh. Contrucci scrivendo esser buono lo annotare
sui marmi sepolcrali in un colle virtù i difetti dell'epigrafato, per
frodar nulla alla scrupolosa sincerità del racconto. L'avv. Pellegrini
con quell'acume e fiore di senno che ciascuno conosce, impugnò
bravamente siffatta sentenza, ma tacque alcune ragioni che a noi
piace di aggiungere. I difetti invero sono appresi dall'idea umana
e sociale, e sono esclusiva appartenenza degl'individui, non già della
specie 5anzi per essi Tindividuo è, come a dire, impertinente alla
società, non mica soltanto allorché è morto, ma da vivo eziandio.
Causa per cui, nel concetto degli uomini, niuna società e ninna fa-
mìglia son mai solidali delle iniquità d'un costoro membro o in-
dividuo, mentre all'incontro delle lodevoli ed oneste azioni la luce,
comechè s'allumi in un solo, tutti irraggia e colora. Adoperando
a norma del sig. Contrucci, si negherebbe onninamente l'idea fon-
damentale e genitrice della epigrafia, idea paragogica e affermativa
dì fronte ai difetti che fan restrizioni, e mero nulla.
Per servire al secondo requisito, l'epigrafia ha da mettere in ri-
salto e con amminicoli adatti effigiare la perpetua immanenza del
defunto, l'alienazione di luì dal tempo e dal discreto, svegliare
idee religiose colle quali l'eternità si identifica, e curare che esse
idee, disvariate o cozzanti, simultaneamente e da un solo contesto
JUvUta C. — 9
130 RIVISTA CONTBMPORANBA
si deducano, perchè espressioni d'uno e simultaneo stato del de-
funto. A queste due necessità convenientemente rispondendo TEle-
giaca^ in verun altro componimento od occasione della vita umana
si scorgeranno meglio sporgenti nelle loro vere armonie il cielo e
la terra, natura e soprannatura, società e individuo, tempo ed
eterno, fine ed esordio, perfettibilità e perfezione, insomma i vitali
e ingeniti nodi che questo universo all'altro disposano.
IX.
L'Epigrafia che nominammo epica, serv^e, lo ripetiamo^ a de-
scrivere e raccomandare gli avvenimenti del tempo e la eccellenza
degli uomini in questa vita. Molto cura degli intervalli che il tempo
e lo spazio frappongono, e nulla delle relazioni che Tun mondo
connettono all'altro. Partorisce il sublime, anzi di esso solo va in
cerca o si ciba, il bello capricciosa riveste, o più spesso trascura.
L'area per cui s'aggira è la perfettibilità del cosmo^ ragguardatolo
in sé e negli elementi di cui consta, nella loro distinzione e singo-
lare esistenza : genera insieme e provvede a quei bisogni che si
provano quaggiù, di eccitamenti e stimoli d'esempii, premii e privi-
legi. Accanto al sentimento dell'unità della razza umana e della
convivenza sociale, rampolla invero non manco robusto in ciascuno,
quello di non isperdere se stessi e la propria singolarità personale.
Lo che mentre produce l'eroismo o certo le virtù dei singoli, che
tanto poi giovano alla società universa, vivifica ad un tempo quella
reazione indispensabile che gli individui e la società tenendo in
salubre conflitto, risparmia il sopravvento di quelli su questa, e
viceversa, e conserva quella equazione che allo spiegamento e allo
scopo del cosmo son condizioni necessarissime. Su di che si piantano
l'emulazione e la boria dei popoli e dei singoli uomini, il desiflerio di
spingersi a galla, di sorvolare agli altri, di uscire dalla volgare
schiera, il timore di confondersi nel vasto ed oscurissimo tutto ;
inoltre gli studii dell'umana mente d'assicurare la soddisfazione di
siffatte necessità, di appagare un desiderio ardentissimo, e le rive-
lazioni spontanee di quei primi cultori di lettere 6 di arti, che tal
sentimento incarnarono, e come dire corroborarono con questi
esteriori rinforzi. Perlocchè se l'uomo per via d'amminicoli e di
segni convenuti, si capacita che i tempi e gli uomini universi non
sono se non se una sola cosa; perchè e segni e amminicoli riscontra
analoghi alle sue connaturali convinzioni ; vuol anco che paia al-
l'opportunità che tutti i tempi e gli uomini tutti nella precaria esi-
stenza loro son riconosciuti distinti, né vuol che lo individuo, seb-
bene ordinato a società ed a lei confluente, si sommerga come tale
OBLLA EPI0BAFIA 131
e s'affoghi. E ciò perchè sente nel cuor suo esso bisogno e questa,
nitida verità. Cotale essendo la genesi e Tingegno deirepigrafia e-
pica, è manifesto che dee restringersi al cerchio sol del creato, e
questo fingere, qual egli è, senza occuparsi di relazioni, che il
creato trascendono. Quindi gli uomini, attingendo le idee che rego-
lano la vita terrena e la condizione perfettibile in cui essa versa,
non tanto prendono animo e forze^ ma per sensibili esemplari
anche ai tipi supremi e ideali si erigono.
Lungo per avventura e non dicevole al tema riuscirebbe ragio-
nare dell'epica e della sua essenza vera, quando amassimo di dame
pieno conoscimento, e sviscerarne il riposto e forse poco noto ca-
rattere. Ma perchè al concetto che noi accenniamo averne, sta
contro una quantità di contraddittori, conviene avvertirne qualche-
cosa. Non è buona ragione, dico dunque, disaminare una epopea
dal canto della forma o degli accidenti, qual è costume, sendochè
l'essenza di essa ha più estensione della attribuitale d'ordinario,
e la forma ha poco o niente bisogno di modellarsi su proposto e
stabilito disegno. laverò concedo epici i poemi d'Omero e quello
di Virgilio per noverarne alcuno, ma non darei per epici la Messiade '
di Klopstok né l'Orlando Innamorato o il Morgante, contuttoché la
forma non disti dall'omerica, e su quel tipo o sul virgiliano sieno
fabbricati. Anzi son tanto fisso in siffatto pensare, che non credo
possibili, senza stranarli, poemi epici oggidì, quando per tali si ap-
prendon quelli che guardan le regole rettoriche o le pastoie del
classicismo vetusto. Se l'Enriade di Lombardi, e più altri avessero in
fondo dell'epico, io son d'avviso lo perderebbero stemperato nelle
angustie d'una grammatica da pedanti, e nella copiatura di esem-
plari che son fuor di stagione. La sostanza dell'epopea non è smar-
rita, né può essere; ma non è agevole a scorgere ove ella risieda,
e molto meno lo estrarla e lo ammantarla di suoi proprii vestimenti.
L'epopea antica non è buona pei giorni nostri, e ciò che forse al-
lora si prestava all'epico, oggi prepotentemente ripugnerebbevi. La
natura umana non è cangiata, e se ispirò a Omero le pagine ini-
mitabili, e nei Greci destò tanto amore ed ossequio a quei versi,
può suscitare ora degli epici novelli e dei novelli ammiratori. Ma
chi leggerebbe Omero fingendoselo vissuto at giorni nostri? In lui
si ammirano la grandezza del genio, il fulgore dei colori, la pere-
grinità delle immagini e delle narrazioni, il magnanimo ed anco
il turpe nobilissimamente descritti e tratteggiati, ma la mente del
leggitore si riporta a quella età da cui come diverte ogni formosità^
ogni meraviglia sparisce. A che dunque accattare oggigiorno le idee
da epoche tanto opposite alla presènte^ e accomodar fole e macchine
che nella mente umana non trovano accesso, perchè inverisimili
132 RIVISTA CONTEMPORANEA
e relullanli? Il Romanzo storico, se ben discerno, è soUenlrato mas-
sime all'Epopea, e ben accorti furon coloro che prima di mischiare
le demonia e le fate, gli angeli ed i genii, le visioni celesti e i
sogni, hanno ombreggiato di verisimili e probabili accidenti un fatto,
lasciando ciascuna cosa al suo posto, e nel preciso ordine a cui
appartiene. Il vizio di studiare e coltivare le lettere senza imparare
lo perchè o la ragione interiore, ha caricato i dotti dell'immane
soma dei canoni e delle leggi rettoriche, e isterilite le lettere, resi-
duatele ad un formalismo e ad una semplice meccanica. Per con-
seguenza non rade volte la lirica si addobbò delle pompe dell'epo-
pea^ contuttoché reluttantissime e opposte ad essa, e l'epica si ma-
scherò e si sfigurò sotto le delicate sembianze della lirica. Perchè
ciò che lirica ed epica appellano, non istà a senso dei retori nella
sostanza, ma sibbene nella forma e spezialmente nella qualità e
quantità dei versi, senza addarsi che se Omero epico usò l'eroico,
e Anacreonle il lirico, lo impiegarono a servigio delle materie che
avean pronte, e non viceversa, scegliendo una veste alle idee, non
idee a vesti già preparate. Ma non riflettendo, si asserisce che le
odi pindariche, spezialmente le olimpiche, son lirica, e cosi le ora-
ziane, senza farne cerna : e non ti ricuserebbono di qualificare per
epico il Giovane Àroldo e fantasie cosiffatte, come ti assicurano es-
serlo il S. Benedetto, la Messiade e il Paradiso Perduto. I quali ultimi
due ricchissimi di lirica e stupendi, son poveri d'epica di guisa che
quella che contengono è tutta accattata e al soggetto loro imperti-
nente. Lo che ha recato nel bel mezzo della Religione e nel sacra-
rio della Teologia la caligine dei fantasmi e le stranezze del sen-
sismo pagano. Vizio e bruttura che renderà incomportabile e
stucchevole a chi si pasce del vero e si diletta del verisimile, il pro-
seggiare poetico dello Chateaubriand, o i meditati omei del Lamar-
tine e consorti piagnucolosi d'Italia. Uomini certo di non ordinaria
levatura^ ma guastatori del poetare, e confonditori degli elementi
onde ogni poetare consta, o delle specie nelle quali non a capriccio
ma con profonda ragione si distingue. Formandosi adeguato con-
cetto della varia poesia è spediente il persuadersi nulla esser più
micidiale delle regole e dei canoni a cui sono stati costretti i com-
ponimenti dai retori. Canoni cui non obbedì Manzoni e fu sommo
in drammatica; né Giusti o Rossetti nella lirica e nell'epica sovrani;
e cui non obbediranno mai gl'ingegni poderosi, conoscitori delle
lettere ; canoni che spregia chi scrive sentendo,- o chi legge e si
commuove. Le lettere diramandosi in più generi corrispondono ai
diversi tipi di cui l'anima umana colle sue passioni e suoi bisogni
è sede e principio. Il verso è una forma, e contribuisce in verità
all'espressione degl'inlemi movimenti dell'anima, anzi dalla natura
DELLA EPIGRAFIA 133
di essi moti è prescelto, e quasi improvviso e non pensalo fluisce;
ma non è la sostanza, e se una lirica in verso eroico riuscirebbe
mal panneggiata, non per questo smetterebbe d'essere tale, come non
un'epopea sebbène sconcia o mal tagliata in brevi versi e scorrevoli.
La sostanza della lirica è il bello e l'ideale, dell'epica l'immaginoso
e il sublime; in questa il senso, in quella predomina l'idea. Con
questo canone parecchie quislioni relative a poemi battezzati per
epici si risolvono. I quali ricalcitrano ai ricettarii della rettorica, ma
nonpertanto non sono meno epici, conciossiachè l'elemento sensi-
bile vi signoreggia, e in tutta la sua frascosa appariscenza vi sfjarza.
Con questo si scevra l'elemento lirico, il quale contuttoché orlato
dalla bizzarra fantasia dei poeti difierisce dall'epica che dalla fan-
tasia è generato, e da quella e per quella ha crescimento. Ciò che
si riferisce a religione, sien pure le gesla di Benedetto, o la prodi-
giosa caduta della umanità o la riparazione cristiana, ripugnano
all'epica^ eminentemente ideale, e se puoi tribuire corpo visibile
agli angeli e immaginarti un Eden a piacere (comunque sempre tu
vada contro al vero e quasi rasente all'inverisimile) non puoi però,
senza aflbmicare di paganismo la lucidézza della Teologia cristiana,
torre a prestito lo macchine da Omero, o le strampellerie da Tur-
pino. Chi lo tentò non riusci più là d'Esiodo, che fu epico perchè il
paganesimo è gran cava, dirò forse l'unica, dell'epopea; e se Tasso
s'inchinò ai tempi suoi, o ricantò le fiabe dei tempi grossi che il
precedettero, paganeggiò non diverso dall'Autore dei Lombardi,
comecché questi si forbisse a cagione dell'età da quelle insanie
ond'é inzeppato il meraviglioso libro d'Ariosto e intessuto il gran-
dioso ordito cristiano di Torquato.
All'epica epigrafia si riconducono, che che ne sembri in contra-
rio. Me epigrafi imprecative, le abominative, del pari dirette ad in-
dividui e non trascendenti il finito, e quelle che appellano a stu-
pendi catastrofi da cui per avventura furono oppressati e umiliati
popoli interi o nazioni. Son dessi invero documenti positivi, sebbene
negativi a prima vista, o alla mostra, efficaci e fecondi nel resto, né
contrastanti alla natura dell'Epica. La quale non istudia d'abolire
l'intercalare del tempo, né di rannodarlo all'eterno, essendo nel
tempo ciò di che testimonia, e scomparendo col tempo. È volta ai
singoli uomini, e guarda scrupolosa il giro delle private o nazio-
nali idee, non le generiche o le ecumeniche, quantunque quelle con
queste si raffrontino. Anco allora che ostenta di rivolgersi al mondo
intero, non è che una iperbole, non una posizione ordinaria di pa-
role e dì idee; s'approfitta del fantastico e del poetico, sia quanto
alle frasi sia quanto al concetto, in che propriamente l'iperbole è
situata 9 che non raro é piedestallo al sublime.
134 RIVISTA CONTEMPORANEA
In tal classe d'epigrafia, ammesso che la partizione nostra non
si addicesse a lutti, comprendonsi esattamente le possibili spezie
che dagli autori si enumerano. Essa in effetto ha per iscopo la vita
terrena e singolare, alla quale tutte le sorta d'epigrafare intendono,
qual più qual meno, a seconda delle relazioni che in molte guise
regolano la individuai sussistenza.
Tanta sapienza civile è raccolta nell'uso e nell'indole dell'Epi-
grafia, e negli effetti che dimanano da lei. Nulla di quanto discor-
remmo si ricusa di parer vero all'occhio scrutatore che ne imprende
accurato e dicevole esame. È sopra ogni prova manifesto diffatti che
gli antichi nostri fecero dell'Epigrafìa un pubblico tiegozio, e quasi
una porzione della loro civiltà e religione, e votarono a questo ge-
nere di comporre la teologica sapienza contemporanea, quasiché
in essa tutta si abbreviasse la vita sociale e la scienza universa, o
almeno vi si riflettessero di preferenza. Certo nulla è più accostante
alla teologia di quello sieno le tombe o la morte, eziandio pei pa-
gani, i quali comeché credessero i loro Dei continuamente vagolare
per il mondo, pur nondimanco estimavano la loro fìssa dimora
al di là della terra in luoghi pei quali il sepolcro era adito e guida.
Per noi la vita più prossima a Dio incomincia oltre la tomba, allo
sprigionarsi dell'anima dal carcere del corpo. Anzi sopra gli avelli
la religione si dispiegò e si mantenne, purgandosi superlativamente
di quel materialismo che teoricamente l'abbrutlava, o di quelle in-
sanie e di queirindiflerenza che speculativamente la travagliavano.
Mai tomba o munumenti civili dalle orgogliose piramidi agli umili
cippi s'ersero insignificanti, senza vita o senza comparir circondati
di relazione colle rimanenti idee formanti il patrimonio scientifico
0 morale di que' popoli. 11 qual patrimonio invero non che fosse
costituito, era certo coperto o avviluppato dalla teologia loro, causa
per cui la teologia più che non altro spicca e risalta.
Ad esprimere l'idea di tempo e di sopravvivenza, nulla cosa era
meglio adatta della consuetudine dei sepolcri gentilizii o quasi do-
mestici, come solevano anticamente fin dall'evo patriarcale. Allora
componevano volontieri i cadaveri dei parenti nei campi medesimi
pei quali aveano pascolato, vivendo, gli armenti, o presso le abita-
zioni e le capanne che ne alloggiavano la discendenza , e persino
nelle case stesse, onde mirabilmente dicevan componere i Latini il
seppellire. Costumanze vigenti allorché le rade famiglie del globo
tenean luogo di società, e non rigettate anche posteriormente dai po-
poli men colti e incivili.
DBLLÀ BPIORÀFIA 135
Dilatatasi la civiltà coll'assetto definitivo delForganismo della
società, il cimitero con epigrafe comune fu uno e sociale, prossimo
alle città, non raro loro proseguimento, di quella guisa che per lo
addietro era stato famigliare e pressoché giunto alle case. E cotanto
avea barbificato nell'anima ai popoli civili d'allora la convinzione,
che morte non disgrega il consorzio sociale, ma ne è parziale tras-
formazione che appellavano i sepolcreti necropoli e a foggia di città
li costruivano, imbalsamando i cadaveri per preservarli da disfaci-
mento, e imbandivano sulle urne vini e focacce, o apprestavano
lume e preziosi oggetti i più cari, i più consueti al tumulato. Inoltre
opinavano che poi alla morte i dismessi ofiìzii riassumessero nelle
sedi beate ove dimoravano, o le anime loro trasmigrando in nuovi
corpi ai parenti si avvicinassero ed agli amici, o circolassero tute-
latori attorno a loro, o si facesser parventi nel sogno mattutino o
nelle notturne vigilie. Le quali strane persuasioni e più strane ma-
niere, di descrivere lo stato postumo degli uomini riflettono nondi-
meno a sufficienza la sostanza e le apparenze riunite. Tessere pos-
sente e il non essere , la sussistenza eflettiva fenomenalmente
manifeslantesi. Arrogo l'uso dei sogni e di amminicoli e di forme
tuttora verdi, che mentre pertenessero all'indole e al carattere del
defunto non fossero forastiere e intempestive all'epoca in cui la so-
cietà dedica.vale. Perocché siccome da questo lato l'individuo era
alla società congiunto, cosi dovea essere ritrattato con segni volubili
e transeunti. Quindi si abbellivano le urne di emblemi e di simboli
relativi agli o£Bzii civili, agli incarichi che avea portati il defunto, o
caratteristici della nazione : scolpivasi il nome, la famiglia, la tribù,
la stirpe; si notava la qualità dei sostenuti impieghi, servigi resi,
in particolar modo se militari ; e per indizii simboleggiavansi la
professione di vita e le virtù onde avevanla decorata , l'anno di
morte e il vale supremo dei parenti. Argomenti atti ad effigiarlo
come vivo e prossimano, ammantato al naturale delle prerogative
possedute e del carattere proprio, al popolo a cui apparteneva, e
a cui ritenevasi, comechè nascosamente, partecipare. Ciò non mancò
mai, ed é appunto quello che costituisce le differenze epigrafiche
dei differenti paesi. «Talvolta, scrisse Gantù (1), i voti che si fanno
pei morti sarebbero più convenienti ai vivi»; verità slorica che ap-
poggia assaissimo la nostra dottrina, e che si raffronta con quel-
l'altro fatto non meno storico, e di tanto peso per noi, narrato dagli
archeologi, del convertire che facevano talvolta una epigrafe dettata
per uom vivo, dappoi alla costui morte, colla giunta di un verso,
in epitafio. Sopratutto contribuiva a questo l'arte , la quale o scoi-
(1) Docum,per la Storia wnit?., — Archeologia, voi. I, pag. 457.
136 RIVISTA CX)NTEMPORANEA
pisse 0 piDgesse gli avelli, e di suoi fregi e abbellimenti li accon-
ciasse, conservò sempre il tenore e lo stile addicentesi ai tempi. Lo
che quando da alcuno onche oggidì vien trascurato non so quanto
meriti di non essere deriso. Imperciocché coloro che per eccentri-
cità (afBnchè mi valga d'un vocabolo che la moderna polizia ha
surrogato al più trito d'insipienza e capriccio) scelgono di insudiciare
le tombe con rabeschi vecchi e con anticate milografie, non sanno
che somiglianti anacronismi ridondano meglio che a lode a carico
sicuro dell'encomiato, il quale sol quando avesse contraddetta la
propria età, o le fosse rimasto indietro potrebbe meritare ornali dì
tal fatta, industriosamente e per ispregio adoperati ad indicare, che
sebbene vissuto ad una certa stagione^ ei si diportò di guisa da sem-
brare nato dieci o venti secoli innanzi. Anche qaeslo è un difetto
che in Italia sparirà, e che è assai scemato, perchè molti hanno
conosciuto quanto sia falso ricorrere all'antico, e quello superstizio-
samente venerare sia nell'arte, sia nelle scienze politiche e civili.
Non è da negare, che nell'antichità si incontrino parecchie cose
degne dei tempi nostrali, né disdicevoli ad imitare e ringiovanire,
e che non si abbiano a prezzare ed anco copiare le bellezze che vi
sono, ma l'arte nell'antico non rinviene se non se le sue regole morte
ed immobili, non lo spirito; del pari che la politica e la civiltà vi
trovano assai poco di buono, tranne il patriotismo, benché cieco e
mal applicato, non mica quella libertà sobria e quella onesta costi-
tuzione, che l'eroismo barbarico e la feodalità anco più barbara
disconobbero. Come poco avventurati sarebbero coloro, che esibis-
sero per modello delle arti gli etruschi maestri , cosi non lo son
meglio quelli che da Plutarco e Cornelio attingono esemplari di
virtù cittadina, e idoleggiano la classica Roma, e ne propongono a
continuo meditare e ad empire l'animo nostro le istorie insieme-
mente alle greche.
Altro é invero libarne il buono e il bello, di che non hanno pe«
nuria, e invece^ spesso abbondanza; altro é rinsanguinarsene, secon-
dochè taluni pretenderebbono. Le quali, o perchè amano lo stare
0 il dare indietro, e s'avvisano che progresso non sia, o se sìa, con-
sista nel tornare all'antico indietreggiando, o perchè hanno scorto
che la civiltà vetusta è stata levata in alto in secoli poco lontani e
che cognominano aurei o argentei ; non rifìnano di punzecchiarci,
e son convinti del dover noi riporre in cima delle nostre aspirazioni
e dei nostri sludii la classica antichità. Non si addanno però costoro
che il progresso, se è un ritorno all'antico, anzi airantichissimo, non è
un indietreggiare, ma un avanzare segnando una curva che è incli-
nata verso l'estremo che le servi di principio, e che se secoli indietro
andavan presi dalie grandezze e apparenze dell'evo eroico, ciò fu
DELLA BPIdBAPIA 137
perchè quei secoli ammiratori erano minori degli ammirati, mentre
il nostro supera di gran lunga qualunque degli antecedenti. L'arte
è premuta in Italia dal latinismo predominante per colpa della
Curia e del Clero, sotto la cui balia , qual ogni altra disciplina,
scadde e poi risorse. Canova exempligrazia coirinalzare un monu-
mento a Vittorio Alfieri, e ricingerlo di tanta sapienza nazionale e
di tanto liberi pensamenti, ci arricchì non solo d'un capolavoro di
scoltura, ma anche più d*un modello divino dell'arte rinnuovata e
redinlegrata, d'un parlante insegnamento del vero genio delle arti.
Al che non si inalzò l'autore del monumento Giusliano, il quale e
per l'anno in che fu fabbricato, e per le ossa che ebbe a custodire,
meritava altro ingegno se non più nobile scalpello. L'arte è un
geroglifico, ed è il linguaggio con cui si fa parlare la natura e quasi
a noi si pareggia. Né un quadro né un rilievo valgono alcun
pregio senza che rappresentino li pensieri del tempo che vuoisi
descrivere o della persona effigiata. Di quel modo appunto che non
istà, né nella delicatezza e vivezza dei colori la pittura, o nella fi-
nezza dei tratti la scoltura, ma nell'invenzione e nell'idea ; cosi
conviene andar persuasi, che gli ordini greci disformi non sono
destiluiti di ragione nelle loro differenze, come non lo sono i di-
versi stili architettonici, né che possano rinverdirsi con lode, o ado-
perare a capriccio. Le disformità, le varietà artistiche son conteste
mirabilmente ai pensieri, ai costumi, al senno delle epoche varie o
dei popoli, mentre le figure medesime o gli elementi onde constano,
quaU la linea, gli angoli,' i cerchi, i capitelli, le cornici, i fogliami
adornatori, hanno loro cjigione inserita nel tesoro comune della
scienza suprema.
L'idea d'immanenza e la forma novella assunta dal morto, op*
posta a quella visibile e fugace, si enunciava per segni o mezzi che
l'eterno e l'immutabile o il continovo testificassero. Fornivano buona
dovizia a tal uopo le religioni e le simbolichedei Gerofanti. Le quali
perchè a quell'età costituivano o la somma del sapere, o certo la
corteccia e la coperta, tanto seguirono o si mescolarono alla. signi-
ficazione delle cose fuggevoli e passeggere, quanto a quelle perma-
nenti e immutabili. Ciò nondimeno, a questo secondo effetto cor-
rispondevano più direttamente, che a prima vista sembra o sembrar
può che dell'altro non si curassero.
Le aspirazioni, gli antefissi^ le invocazioni, comunque spiranti
affetto e desiderio, erano internamente collegati per virtù della li-
turgia alla essenza delle religioni. I promontorii fra i popoli marini,
e i monti fra i mediterranei eran divoti ai sepolcri, per lo più in
faccia all'oriente. Epa comune sentenza che qualsiasi altura rav-
vicinasse al cielo e guidasse a partecipare del consorzio dei numi
188 BIVISTA GONTBMPORANBÀ
i quali dilettavansi dei monti sopra cui collocavano all'altezza delle
nubi il cielo uranico o sidereo e Tolimpo, abitazione {tempio) dei
numi. L'oriente era il sito ove allogavano il cielo empireo o l'igneo
più addentro dei rimanenti cieli, cielo vivificatore, o diremmo cau-
sale, e d'onde ogni bene, ogni vita dimanasse reputavano; cielo
misterioso, che i Latini contraddistinsero con propria nomenclatura:
limes coeliy quaedam coeli regio , o plaga. E l'arte stessa, che è bi-
laterale piegavasi al medesimo ofBzio, pingendo o rivelando ogget-
tivate le credenze della gente con simboli a decoro delle urne.
E il passaggio dei laghi inferni eie atre porte di Dite, e le apoteosi,
e gli augelli, e gli animali quadrupedi, e i mostri, o altri emblemi
quali si veggono nei cippi, quali sappiamo dalle istorie contenere
la fede, o piuttosto le superstizioni dei diversi paesi. Le piramidi
tetragone valevano l'eternità distesa ed occupante i sepolti; la cor-
nice elittica contenente inscritti i nomi dei regi indicava la sovra-
nità in sé perfetta star separata, e soprastare al rimanente; le ca-
riatidi sorreggenti un coperchio a triangolo isoscele figuravano il
tempo sorreggente l'eterno, la terra che ha il ciel per coperchio o
per complemento. Da tutto sapean trarre lor prò, e tutto che era
in loro potere amavano concorresse ad attestare il grand'avveni-
mento e insieme la più feconda delle umane convinzioni. La lingua
parlata che è l'ammanto visibile, ma l'ottimo delle idee, fu d'uso
assai posteriore a qualunque altra qualità di segni. La prima scrit-
tura fu la geroglifica volgare e grossolana, in appresso la jeratica.
Ambedue furono un graduino più in su della pittura e scoltura,
come si par chiaro da più alfabeti fonetici, che ritengono dell'ideo-
grafico, e che impiegavansi in luogo di cifre numeriche, o river-
beravano la natura delle arti. L'ideografia, sistema complesso, è (se
non cel concedono storicamente, cel consentiranno in grazia della
logica) anteriore alla geroglifica e alla scrittura fonetica. L'idea
previene il suono, e l'immagine con cui quella si afiaccia allo inten-
dimento umano trattandosi d'idee di cose sensibili, che sono il senso
dei popoli rudi come de' fanciulli, è certo anteriore al suono, che
par quasi un'imitazione del pensiero, o fuor di dubbio la più omo-
genea e spiritual manifestazione. La scrittura figurativa o simbolica
è complessa e più materiale della fonetica, la quale emana, o come
dire sboccia da quella.
Francesco Dini.
{contintca)
189
PORTI E VIE 8TRATE DELL'ANTICA LlfilIRIA
saHHABia
I. — Difetto di fonti Moriebe — la Tavola PtuUngeriana e VlUntrario à^JntonÌiì0 —
3. Le spiaggie ligustiche. — 5. Porti etruschi di Ludì e di Geoova. — 4. Savo e I f^ada
Sabatia, — 5. .11 porto di Monaco. — 6. Come scomparvero le stazioni navali di Ven-
timlglia e d^Àlbenga. — 7. Porti Interruti. — 8. Collegi ed offici marittimi. » 9. Tie
liguji anteriori al Romani. — 10. VÀwreiUa e VEniUa di Seauro — s^adotla II nome
d^^uTilia. — 4 1. Suo corso da Luni a Tortona.— 12. V Emilia: da Tortona ai $ab«iii.
— 15. VEmilia: dai SabaziI al Varo. — i4. Ponti romani in Liguria. — ^5. La PO'
stumh, — 16. Mansioni e Mutazioni. — 17. Vie municipali o minori.— 48. Struttura
ed altre particolarità delle vie militari. — i9. Cagioni della loro rovina.
1. — Tema combattuto e difficile per difetto d'antiche memorie
e yarietà d'opposte sentenze. Pur noi non verrem manco a quella
pertinacia d'indagini che si ricerca in simili trattazioni.
I primi albóri geografici risalgono appena a' tempi d' Augusto ,
e sono inoltre si scarsi, che gli scrittori latini i quali poco o nulla
conobbero i baluardi delle Alpi meridionali o marittime, lungamente
piatirono se fosse l'Italia foggiata a mo'di triangolo o d'un quadrato.
Anzi questa regione, a dir vero, non ebbe per secoli molti appella-
zione sua propria. Il sacro nome d'Italia, ristretto dapprima al breve
rispiano che dal golfo Lametico corre a quel di Scillace, venne mano
a mano allargajidosi, massimamente nella guerra Sociale in cui otto
popoli si coUegarono a danno di Roma; appresso Polibio vi com-
prendea la Venezia e la Oallia Cisalpina, di cui fiEusea parte eziandio
la Liguria.
Se fossero fino a noi pervenute le opere di M. T. Varrone — De
Ora Maritima — e — LUoralia — il tema che abbiamo alle mani
sarebbe assai men ponderoso. Nella prima d'esse , il più dotto dei
Romani descrive non solo le nostre prode, i ridotti navali e quanto
in essi v'avea di più rilevante ; ma divise altresì i piani renaj e le
scogliere a fior d'acqua, che diceansi are nel linguaggio paesano, ove
140 BIVISTA OONTHMPOBÀNBA
rompeano i legni veleggianti da Sardegna in Sicilia (1). Nella se-
conda sua opera traccia le distanze delle baje , de' seni e de' porti
del Mediterraneo, computando perfin quanti passi divideano l'Italia
dall'Istria, dalla Liburnia, dall'Epiro, dall'Africa, dalla Sardegna e
dalla Corsica (2). Questi volumi avrebbero invero sparso di gran luce
intomo le nostre costiere. Delle quali non ci restano che povere e
infedeli nozioni ; avvegnaché i soli due documenti che giunsero in-
fino a noi, sieno guasti da sconci di nomi e d'errori : e le discordi
sentenze di dotti disputatori non abbiano avuto altro costrutto che
d'abbuiar di vantaggio le profondità del passato.
Correndo il secolo xv, Corrado Celie cavava da una badìa di
Germania una carta delle vie romane su dodici fogli di pergamena,
che appresso venuta a mani del Peutinger di Augusta, s'ebbe il nome
di Tavola Peutmgeriana. Non pochi ingegni la fecero in breve sog-
getto di lor profonde speculazioni , e massimamente il Meerman , ìì
quale dai caratteri e dagli ornati avvisava non eccedesse il secolo
di Carlo Magno ; altri per l'opposto la fanno una copia (per quan-
tunque guasta dai scorsi de' trascrittori) del lavoro geografico com-
pilato per ordine e mandamento di Teodosio il giovane. Qualunque
possa essere il concetto de' leggitori, cert'è che tanti sono gli storpi
onde va deturpata, da non potervi accomodar fede veruna.
Il secondo documento è V Itinerario che va sotto il nome deU
Vìmi^T2itore Antonino y sebbene alcun l'afiermi redatto fin dai tempi di
Giulio Cesare con successive addizioni. La sua nuovissima compila-
zione s'ascrive ad Stieo Ister nel secolo iv. Anche questo itinerario
segna i nomi de' luoghi percorsi dalle vie militari ; ma la computa-
zione delle miglia è si stranamente confusa e i paesi sì sconciamente
trasposti, che il critico non può fiaivi sopra assegnamento di sorta.
Dal che manifesto consegue che sommi eruditi , come il Cluverio ,
il Cellario, il Targiani^ il Troia e altri non pochi impugnano l'auto-*
rità di questi due documenti, (Siccome tali da non potervisi attendere.
Non parlo del Rwoennate che ani^aspò la sua Tavola intomo il
secolo IX, e che conia a sua posta nomi di città, di pagi e d'autori
non mai conosciuti nò uditi. In questa scarsità d'istorici e tradi*
zionali presidii, vantaggiandomi del poco che sparsamente n'accen-
narono gli antichi , per quanto alterati dalle violenti storsioni dei
chiosatori, a giovamento degli studiosi delle prische memorie pongo
mano ad un lavoro, che l'esatto conoscimento de* luoghi potrà ren-
dere men difettivo.
(1) Serv. in ^neid., I, 108. — e Virgilio cantava:
Saxa Yocant Itali, mediis quae in fluctibus aras,
Dorsum immane mari summo.
(2) Plin., EitU Nat., Ili, 5.
PORTI B YIB 8T&A.TB DBLL'ANTIOA LU^UBIA 141
2. — Egli è noto essere la Liguria divisa da quella grande alzata
di monti che dalle scaturigini del Varo insino a Vado formano le
Alpi marittime, e da Vado in giù gli Àpenninì, che i geologi so-
gliono considerare come diramazione dell'Alpi e d*una sola forma-
zione, dai monti Apuani infuori , i quali costituiscono un calcareo
saccaroide o primitivo, e perciò non hanno appicco di sorta col si*
stema apenninico. È pur noto chiamarsi Liguria marittima o trans-
apennim queir orlo di terra ch'ò ristretto fra i monti ed il mare dal
Varo alla Magra; mediterranea o cisapennina quella ch'è vòlta a set-
tentrione de' Giovi fino al risvolto del Po tra le Alpi e la Trebbia.
Chi percorre , movendo da Nizza , la nostra costiera , s'avviene dal
promontorio di Monaco al capo delle Mele (1) in ire grandi conche
0 vallate chiuse intorno intorno da un increspamento di monti, che
snodatisi dalla resta dell'Alpi, protendono le loro braccia sul mare.
La prima d'esse cammina da Monaco al promontorio di San Remo ;
la seconda da San Remo a Costa Bainera, e da questa al capo delle
Mele la terza. Ivi s'apre in tutta la sua maestosa bellezza il ridente
anfiteatro della Liguria che declina alla punta del Corvo, e abbraccia
sei golfi. II primo de' quali si stende dal capo delle Mele a quello
di Noli ; il secondo da Noli a Portofino ; il terzo da Portofino alla
punta di Manara; il quarto da questo a Monte Mesco; il quinto è
contravallato dal Mesco e dall'isoletta del Tino già commessa con
la Palmaria alla terra ; il tratto che da quest'isola corre al promon-
torio del Corvo chiude l'ultimo golfo. Tutti questi seni son conter-
minati da gruppi e catene di balze spiccantisi dall'Apenninó e sca-
vati da insolcature profonde, a infinite vallecole, da un laberinto di
gole, di curve e burroni, per lo cui mezzo s'adimano rivi e torrenti
che dalle soprastanti pendici ricevono il tributo delle acque; però
ne' tempi antichissimi queste valli non erano, o, a dir giusto, il mare
in esse^ ingolfandosi , lor dava aspetto d'altrettante baie e stazioni.
Imperocché essendo allor le montagne popolate da fitte selve, che,
come sacre, rado o mai s'abbattevano, non poteano le acque travol-
gere al basso i terreni che doveano tanti secoli appresso alzare le
piaggio marittime. E infatti alle piaggie non si raccoglievano i Li-
guri, poiché piaggie e greti non eranvi ancora ; le castella ed i pagi
sedeano sulle alture, e quelli che veggiam sorgere sul basso de' lidi,
non hanno origine antica. I letti delle fiumane e le valli erano adun-
que i porti naturali de' Liguri. Ciò chiarisce il gran numero delle
vetuste stazioni in così importuosa regione, tra i cui monti il mare
addentrandosi, moltiplicava le rade e le cale.
(1) Promontorium Merulae. Leandro Alberti lo dice Cavo delle Meire^
nome che tuttavia serba fra i terrazzani.
142 RIVISTA OOMTBMPORANBA
Però le pioggie, le frane e le nevi rammollite via via spolpando
le vette, ne avvallarono le spoglie terrose, onde le fondure colma-
ronsi, e i torrenti agglomerandone ì frantumi alle foci, alzarono le
ripe che il mare crebbe a sua volta con la posatura de' fiumi e con
dune di ghiaie ammassate. In questa guisa il limo delle montagne
formando le prode, riempio i tanti seni e le baie che col nome di
porti erano un tempo in Liguria, e che per la più parte or troviamo
interrate. Nò ciò avvenne soltanto sulle nostre costiere, ma ben an-
che in quelle d'Orbetello , d'Ostia , di Taranto , Frejus , Narbona ,
Nauplia, Candìa, Mileto e fin sui lidi fenicii, i cui porti egual-
mente scomparvero. I fiumi minando da* monti alzarono ovunque,
e più che altrove fra noi , le soggette vallate , e distesero quella
gran zona alluvionale che abbraccia tanta parte d'Italia. Tali in-
terramenti si scorgono in singoiar modo presso la foce padana, I
sedimenti del fiume fecero scomparir le lagune che ai tempi di Stra-
bene attorniavano Ravenna, e quelle, ch'or ha venti secoli, faceano
d'Adria un gran porto, Adria ch'or dista venticinque mila metri
dal mare cui legava il suo nome. Forse anch'essi i colli Euganei
non erano un tempo che un gruppo d'isole. Fuor di dubbio è per-
altro che i torrenti i quali avvallansi dal lato destro del. Po, cioè
l'Arda, il Taro, la Braganza, l'Enza, la Parma, la Secchia ed il
Grostolo spinsero coir assidue lor piene dalle falde degli Apennini
l'Eridano fin dove di presente egli scorre. Parma e Modena erano
un giorno paludi (1) : l'agro loro assodavasi di limaccio e di materie
deposte dalle acque. Mantova, Como e Seggio furono pur esse gore
e marosi ; e l'Arno formò l'agro pisano, come il Nilo il delta d'Egitto.
Questi fatti che la scienza suggella di sua autorevole testimonianza
ci raffermano nell'avvertita sentenza, e varranno ad allucidare alcune
questioni finora rimaste insolute.
3. — Egli è facile arguire che i Liguri, i quali per- la sterilezza
ed asperità delle loro giogaie erano costretti ad arrangolar sulle glebe
per {strappare un povero alimento alle pietre, dovessero fin dai loro
incunaboli volgere gli occhi alle sottostanti marine, farsi pescatore
dapprima, e poi corseggiatorì , e perciò calar sulle coste e cercar
rade e stazioni. Il magnifico golfo di Luni, di cui il Mediterraneo
non ha l'uguale, tirò i Liguri assai per tempo a fame comoda stanza
al loro naviglio : e a tal induzione è rincalzo una tradizione anti-
chissima che vuol Luni fondata in origine dai liguri Apuani piut-
tosto sui colli che inghirlandano il golfo, che non verso le foci del
Magra.
(I) Cicer. Epist, Fam. X. — Modena in lingua etrusca diceyasi Mutiti o
Muini che Yale aquitrinosa. Dall'etrusco Mut o Muta deriva il moderno
mota.
POBTI B YIB STBATB DELL' ANTICA UQUBU 143
, Questo vasto lembo di mare, chiuso a levante dal monte Caprione^
e a ponente da grandi spicchi di rupi, ha distese, quasi argini, tre
isolette innanzi alla bocca; Pahnariay che ricorda com'ivi provassero
un giorno le palme , Tino e TinoUo , che restringendone il troppo
spazioso accesso, lo fanno sicuro da ogni nodo di venti. Lasciando
da parte i paraggi del lato orientale del golfo, come Lerici e Pertusola,
e soffermandoci invece al suo lato occidentale in quella amenità di
prospetti tra San Vito e Portovenere, si riscontra una serie di seni
capaci e profondi quanto il più dir sì possa; tali son quelli di Pa-
nigaba, deÙe Orazio, del Varignano, del Castegno, dell'Ulivo, di
Fezzano, di Cadimare e Marcia. La mitezza del clima, il sorriso de'
poggi, quali vestiti d'aranci , d'ulivi e vitigni , quali bruni di ci-
pressi e di pini : il biancheggiar delle ^ille e delle borgate, quali
stese sulle poppe de' colli, quali specchiantisi nell'azzurro dell'onda
che bava d'aria mai non increspa: e in lontenanza il contrasto di
fondi valloncelli boscati di castagni e d'abeti , e sovr'essi irte ed
aride rocoie su cui domina la Castellana^ quasi regina del golfo,
fanno di questi ridotti un incanto che mal può ritrarsi a parole. A
buon dritto natura destinò questi ameni rivaggi ad essere la vera
staziqne delle armate italiane.
E tele fu un giorno, quando la potenza toscanica padroneggiò i
mari e fino all'Alpi (1) allargandosi dominò la penisola (2). Ivi era
il principale ricetto delle sue forze navali, dacché lo tolse ai Liguri.
I Romani, poco dediti al mare, punto nulla il curarono; Efmo che
lo visiteva quando andò centurione in Sardegna, fu il primo per
avventura a volgere la loro intesa a quella meraviglia del golfo :
Sst operae pretium^ cives^ cognoscere partum
Limai.
Slrabone lo dicea maximus non solo, ma anche pulcherrimuSy magnae
profunditatiSy mvltos intra se portus complectens (3) ; ed Aulo Persio
che fra quelle vaghezze di cielo e di mare sortiva' la culla, canteva:
mihi mmc ligus ora
Intepety Aibernatqtie meum mare^ qiw latus ingens
Dant scopuli; et multa litus se valle receptat.
Limai portum est operae cognoscere ^ cives:
Cor jnbet hoc Enni (4).
(1) NeirAIpi marittime, presso Drap, il villaggio di Auma accenna forse
il limite estremo dell'impero tuscanico. Ruma infatti suona in etrusco
borgata di confine. Anche il primitivo nome dell'Albula o Tevere, che
segnava ad oriente i termini della Tuscia media, era Rumon\ onde il
laziare Roma. V'ha un Rumo in Brianza ed un altro in quel di Trento,
(2) Tit. Liv. Decad. I, lib. V. — Serv. ad Uh. JI Georg, v. 534.
(3) Strab. Lib. V.
(4) Satyr. VI.
144 BIVISTA OONTBHPOBÀNBA
Anche SUio Italico e Plinio l'esaltano a gara, e vuoisi che VirgUiq
descrivendo un porto di Libia, ritraesse quello di Luni (1).
Però i Romani non seppero emulare, come sopra si disse, gli
Etruschi, e lo neglessero affatto. Al risorgere de' Comuni italici,
Pisa, quasi erede dell'etrusca potenza, mandando in Lerici una co-
lonia, intese a farne sua scala di traffico : ma questa volta il valor
ligure cancellò le antiche disfatte, e Meloria segnò la caduta dì Pisa.
Senonchè i Genovesi al par de' Romani poco o nulla pregiarono
queste felici posture; anzi è fama che non potendo difenderle da
nemiche ambizioni, perchè al lembo estremo del loro paese, stolta-
mente avvisassero deviare la Magra e costringerla a metter foce nel
golfo, acciò i sedimenti del fiume via via lo colmassero. Con miglior
senno i Visconti, sotto il cui imperio giacque brevi anni la signoria
genovese nel secolo xv, intesero a fame il naturai porto delle Pro-
vincie lombarde ; ma rivendicata a libertà la repubblica; le opere già
intraprese a quest'uopo presso il Torrette si lasciarono in abbandono,
talché in oggi a gran pena se ne scorgono le sole rovine. -Più tardi
la Signoria murò nel seno del Yarignano (1720) un lazzaretto, ove
le navi sospette di contagione potessero far quarantena. Napoleone I
riprese il grande disegno de' Visconti, ed anzi divisava fondare sul
rivaggio di Panigalia una vast^ città cui avrebbe legato il suo nome.
Tutto fu invano; solo all'Italia fìa dato tornare al prisco onore il
più antico e degno porto d'Italia.
La signoria degli Etruschi estendevasi anche sul porto di Genova:
poiché fortissimi sull'armi navali (nella guerra contro i Focesi, la
sola città di Argilla armò sessanta galee), mal poteano comportare
che Genova in tanta vicinità di confini cogli emporii di Luni, Pisa,
Cere, Tarquinia e Populonia sfuggisse alla lor soggezione ; onde le
guerre diuturne che si chiusero con la prevalenza del popolo etrusco
e con la federazione di Genova al Nome toscanico, simboleggiata
dal Giano bifronte. E se questo è, come ragionevolmente si tiene,
ben può affermarsi aver Genova fin da que' tempi smessa la sua pri-
mitiva selvatichezza, e fatta emporio de' popoli italici , dovesse non
men di Marsiglia, ch'allora cominciava a fiorire, avversare le guerre
ed i perpetui rivolgimenti ond'erano involte le tribù liguri. Le quali
soprammodo gelose della libertà loro, e viventi di ratto e di guerra,
armata mano opponevansi a qualsivoglia straniero visitasse a cagion
di traffico le loro marine : laddove per l'opposto doveva stare a cuor
de'Genuati, per l'esca del guadagno, porgersi amici e manierosi
(1) Tum quos a ni^reis exegit Luna metallis
iDsigDis porta, quo non spatìosior alter
Innumeras capisse rates et claudere pontum.
S. Ital. De Bello Punte, Lib. Vili,
Vedi Plin., Lib. Ili, 8 — Virgil. Enetd., Lib. ì.
POBTI B TIB STRATB DBLL' ANTICA LIGUBU 14&
colle foirestiere nazioni , acciò continuassero ad usare ai loro porti.
Questo assiduo contatto con altri popoli addolci non poco la nativa
lor indole. Avvi nelle città marittime, al dire di Cicerone, certa cor-
ruttela e mutamenti di costumi ; imperocché vi sMnnestino di nuovi
parlari e nuove discipline, e vi s'apportino non solo mercatanzie
straniere, ma sì nuove usanze, cosicché ninna parte rimansi intera
delle patrie instituzioni. Quinci non lievi arguizioni discorrono a
sgroppare un difficile nodo ; quello cioè di chiarir le ragioni per cui
abbiano i Grenuati nelle lunghe guerre esercitate dai popoli della
ligure federazione contro i Bomani, costantemente tenuto le parti ne-
miche, dal solo caso in fuori, in cui Magone forzatamente tiravali a
romper fede ai Latini. Queste peraltro verranno agevoli e piane, se si
considera che Tinfluenza toscanica ammorbidì la loro innata fierezza,
e gli fé' propensi alla pace non men degli Etruschi medesimi, i quali,
anziché collegar Tarmi loro a danno dì Boma, non le seppero opporre
che sforzi parziali. Una tal confettura acqueta ogni dubbio, e assume
aspetto di verità irrepugnabile, avvegnaché in altra guisa non possa
comprendersi , come abbia Genova immutabilmente parteggiato per
una politica che la sceverava dai popoli della ligure federazione.
Del resto, il porto di Genova, da cui non ha molto cavavasi un
superbo rostro di trireme appartenente ai secoli della romana domi-
nazione, era fin da que' tempi di tale ampiezza da ricettare le sessanta
navi da guerra con cui vi si poneva Publio Scipione. Esso occupava
assai tratto dell* odierna città ; i nomi di PTé$ (prati), Campo^ Vigne^
Canneto^ Fossatello e Fossato accennano a luoghi in prima coperti dal
pelago, e appresso vólti a coltura, e in oggi mirabili per superbi edi-
ficii ; i nomi della Marina^ delle Fosse del Colle, di Rivolta {JRipa alta),
di Matta mora (1) a' pie di Carignano, e non pochi altri indizii n'ac-
certano che anche fra questo poggio e quel di Sarzano ingolfavasi il
mare. Perch'io son d'avviso che Genova, oltre l'attuale suo porto reso
in oggi sì angusto, avesse, al paro di quasi tutte le antiche città , un
altro men ampio, ma più sicuro ridotto nel luogo detto tuttavia la
Marina, che appimto sottostava a quel colle su cui primamente la
città edificavasi. Un tal colle, detto da un'arce sacra a Giano Sarzam
(Arx Jani) abbracciato ai due lati dal mare su cui sporgeva a foggia
di lingua, fé' attribuire a questa città la denominazione di Genova,
che negli antichissimi idiomi «Monh punta sull'acque (2).
(1) Con questa voce desunta dagli Arabi, presso 1 auali suona ancor
oggi fosse ai grano, i Genovesi designavano il luogo dei loro granai, come
con voce egualmente moresca dicevansi Reha i depositi delle mercatanzie.
(2) Difettando gli antichi popoli italici, non che i Romani, della lettera
G, presso i quali è noto averla introdotta primamente Garvilio, usavasi
invece la lettera C; onde si sarà scritto Cenua anziché Genua, Quindi da
cen, punta, e da at? , aqua, formavasi il nome di Genova. Egual radice
riscontrasi nei nomi di Gen-^ava, Ginevra: e di Gen-abumt Orléans, poste
Sivista (?. — 10
146 BIVI8TA OONTBHPOBÀNBA
4. — Anche il suo porto avea Savon o Savona, non potendo noi
consentire con chi volle locar Savo in Saorgio nel contado di Nissza. Né
giova che Savo da Tito Livio sia detto oppido alpino^ avvegnaché, se-
condo lo storico padovano, i Liguri occidentali fino ai Sabazii apparte-
nessero all'alpi marittime; al che pur s'accosta Strabene dicendo, nei
Sabazii aver termine il claustro alpino, e da Genova incominciar gli
Àpennini. Inoltre, se si pon mente che Magone fé' stanziare in Savo
dieci navi onuste delle spoglie di Genova per esso lui smantellata, e
che a tal uopo doveva scegliere un luogo di presso e sul mare, ogni
dubitazione verrà dileguata. Questo porto già in parte insabbiato dalla
vicina JSansobbia venne, com'è noto , distrutto dai Genovesi nel 1525,
i quali per punire la contumacia de' Savonesi v'affondarono due vec-
chie navi colme di pietre.
I Vada Sdbatiay che ^estendevansi fino al monte alle Mete, non
erano anch'essi che un ampio sfondo, una rada, ove come avvien
di presente, ben riparati soeteneansi i navigli ; non essendovi di veri
porti artefatti traccia alcuna in Liguria, come mostra aperto Stra-
bene. Né su ciò può cader dubbio, sebben Plinio chiami porUu i Vaia
Sabatia^ avvegnaché sogliano i cosmografi antichi adoperare nel
senso istesso le voci portus e statio, testimone il Mazzocdii.
5. -^ U porticello di Monaco, cosi detto, secondo Strabene, per
indicare l'angolo estreme ove i Massalioti poneaoo a svernare le ar-
mate loro, non era capace di molti né di grossi navili. Quando il
console G. Ostilio Mancino ebbe il carico della guerra contro Nu-
maozia, per via di terra recavasi a Monaco, ove già /essendo le navi
in assetto di vela, udì voce che dall'alto tuonavagli — t'arresta, e
Mancino 1 — Il console esterrefatto die volta e trasse al porto di Ge-
nova, ove stando surto co' legni, favoleggiasi che un immane ser-
pente, quasi a sviarlo dalla ingiusta sua impresa, mentre e' sferrava,
gli sibilasse incontro e s'immergesse in profondo. Questo sinistro
prenuncio fu di corto seguito da una orrenda disfatta toccata dalle
armi romane. Niun altro ricorde ci resta intorno a questo ridotto
che apparteneva alla tribù dei Vedianzi. Sappiamo soltasite che le
sue prode venivano talor flagellate da un furioso rovaio che addi-
mandavasi Cercio^ e che spesso impediva l'appulso alle navi (1).
entrambe in identica giacitura a quella di Genova: Ginevra suirangolo
formato dal Lemano ed Orleans su quello formato dal Loira.
(1) Quaque sub Herculeo sacratus nomine portus
Urget rupe cava pelagu^; non Corus in illum
Jus habet, aut Zephyrus : solus sua litora turbat
Circius et luta prohibet statione Monoeci.
LucAN. Phars. Lib. I, v. 405.
V. anche Viro. Eneid., Lib. VI, v. 850.
Ventus Circius armatum hominem... plaustrum oneratum percellit. Cat.,
Origin. L. IH, ap. Aul Geli. L. Il, e. 22. — Pila. L. Il, e. 47. — Senec.
Quaest. naiur. Lib. V, e. 17. — Strab. Lib. IV. — Diod. Sic, Lib. V, 26.
PORTI B VIE STBATB DJBLL' ANTICA LIGURIA . l^
6. — Fin qui abbiamo di volo rinfreflcato la memoria di quelle
stazioni che tuttora eussistooo; dobbiamo ora tornare in veduta le
molte che sparvero, ma di cui ci restano non dubbie testimonianze
nell'aspetto de* luoghi, o aperti riscontri negli istorici antichi.
Yentimiglia ch*era stanza di un numeroso presidio e d*un fla-
mine (1), il che non consentivasi che a grandi e illustri città, van-
tava il suo porto; e presso la fontana del Borgo dove appunto anco-
ravano i legni, leggevasi, or fanno più secoli, una inscrizione che
accennava ad un faro ivi eretto a comodo de' naviganti. Questo porto
restò affatto deserto quando gli Arabi annidarono in Frassineto, e
Botari devastò la Liguria^, nel qual tempo ^i abitatori delle spiaggie
marittime fuggendo i luoghi aperti, ripararono in grembo alle so-
prastanti montagne.
Tanto jmr intervenne del porto d'Albenga, potentissima un giorno
sul mare. La sua stazione posta allo schermo del Capo Vadino che
davale il nome e dell'isola Gallmara da cui distava non più d'un trar
di balestra, fu ingoiata dal fiume e sepolta dall'arene risospinte dai
flutti. Il Centa che porta al m^e 11 tributo di ventisette milioni e
trecenquaranta due mila metri cubi d'acqua ogni giorno, menò un
di le vorticose sue piene a levante della città ; ma appresso abban-
donato alle proprie licenze si sviò dal suo letto, scaricandosi sopra
il porto Vadino. I marosi, gli estuari e gli sfondi che in più luoghi
ti si parano innanzi in vicinanza del mare, chiariscono gli spaglia-
menti del fiume, che con acervi di ghiare e limaccio n'interrava il
cratere, senza pur intieramente colmarlo. U lago del Serpente e quel
di Varenna, subbìetti di favole e di pietose leggende, son baratri
che la posatura dell'acquie non ha potuto riempire.
7"" D'altri navali ricetti ci resta tuttavia qualche traccia, tra cui
gioverà ricordare quello di San Salvatore presso la foce dell'Entella,
la iella Jlumana dell'Alighieri (2). A due miglia dal mare so ne
scorge l'ampio ricinto, in cui sterrando trovi l'arena sottoposta agli
strati argillosi, e cavansi ancore, rostri ed altri nautici arnesi. Il
nome stesso di Pónte di Mare dato al ponte di S. Maddalena, benché
discosto oltre un miglio dal lido, è nuovo rincalzo alla nostra sen-
tenza. Nel suo bel mezzo or vi torreggia la superba basilica d'In-
nocenzo IV de' Fieschi (anno 1244), dominatori di queste contrade.
Il ridentissimo golfo Tiffulio, detto or di Rapallo, fioriva anch'esso
per molte stazioni : sussistono tuttavia quelle di Portofino (Delphint
(1) Cicer. Episi. L. Vili , EpisL XV.
ri e Ghia
Da bella.
Dantb, Purg. Canto XIX.
(3) Intra Siestri e Chiavari s*adima
Una fiumana bella....
148 RIVISTA CONTBMPORANBA
portus), sebben ristretto in angustissima cerchia, e di Paragi che
con ligure appellazione un dì nomavasi Mosca. I vaghi e sicuri
bacini di PrellOy Trivello, Poma e Langano son oggi quasi inter-
rati. Del tutto scomparso è il vasto ridotto che dalle foci del Boga
0 Boato girava e sfondavasi fino in Val di Cristo^ stanza di un ve-
tusto cenobio, nelle cui vecchie mura scorgonsi' pendere a ganci
grosse annoila di ferro, atte già a securare i navili dalla furia delle
onde. La faccia del luogo e il covar che vi fanno l'acque paludose
e morte, le quali forse diedero il nome a Rapallo {rea pàlus) con-
fermano il nostro assunto. Non parlo dell'antica Tigulia che, a nostro
avviso, è d'uopo ricercare in Trig^so, come la Segesta Tiguliorum
neir attuai villa di Sesta sul Vara.
Non miglior ventura sortirono le rade d'Albissola {Alba Dodlia)^
dì Noli {ad Navalia) e di Varigotti, di cui peraltro si scorge la
cerchia e la torre che la sormontava, forse ad uso di faro o di pro-
pugnacolo. Il Fridegario la fa distrutta da Rotari nel 641. La sta-
zione d'Alassio posta nel luogo che serba ancora l'appellazione di
Porto Selvo e ne' portolani di Fos$fiy soggiacque pur essa alle in-
giurie del tempo. Taluni la dicono rada della Zaigueglia.
L'autore dell'itinerario marittimo segna tra Monaco e Nizza tre
navali stazioni : Avisio, Anao ed Olivula. Neppur dr queste abbiam
traccia, dalla terza infuori ch'è l'Olivella. L'OlfvtUa detta ne' tempi
di mezzo Castrum de monte Olivo lasciò di sé mesto ricordo in alcuni
ruderi, che scorgonsi biancheggiar di lontano sulla pendice dèi
monte Olivo. Il suo porto trovavasi alle falde del colle, al lato orien"
tale del seno di Villafranca. Il Petrarca e con esso il Cluverio e il
Beretta, confuse il porto di Villafranca con quello d' Olivula, di cui
nel 1375, epoca del viaggio di Gregorio XI da Avignone a Roma,
più non eravi traccia alcuna.
Chi volesse annaspar conjetture intorno ad Anaonem^ potrebbe ac-
cennare che questo porto fosse non già la rada che al dir del Giof-
fredi, chiamavasi Malo^ sì un'altra stazione nella penisola di S. Ospi-
zio detta di Sospiers^ in quella parte che riguarda a settentrione la
spiaggia tra Villafranca ed Eza. Così del pari YAvisio portuSy nome
travisato in quello d'Eza tra Villafranca e Monaco, dovrèbbe porsi
là dove la piaggia d'Eza ai due lati incurvandosi, lasciava un capace
ricetto alle navi. Senonchè il difetto assoluto d'ogni memoria non ci
consente a sgroppare tai nodi.
Non farem cenno di Porto Maurizio, di cui cercheresti indarno
vestigio che accusi l'esistenza d'una stazione navale: e non di Nizza
che del pari ne difettava. Bensì un porto d'un'entrata maggiore di
quattrocento tese esisteva tra Frejus (Forum Julii) ed Antibo, detto
il porto Oa^ybio dell'antica Egitna^ il moderno porto d'Agay, che
POETI B VIB STBATB DBLL' ANTICA LIGURIA 149
gualche autore confuse con quel d' Olivula. Ma qui facciam sosta,
non essendo del nostro argomento allargarci oltre i confini ligustici.
8. — Abbiamo qua e là tocche di volo le diverse cagioni che con-
corsero a distruggere i porti delle nostre costiere. A queste s'ag-
giunga Pavere i Romani senza intermissione avversata la potenza
marittima de' popoli italici, per cui sempre intesero ad assottigliare
le loro forze navali e sdegnarono ristorarne i porti e le rade. Roma
pose ogni studio a cancellare i caratteri dei popoli che conquistava :
la sua spada abbatte ogni grandezza, og^i memoria de' vinti ; strozza
ne' suoi terribili amplessi i nostri commerci e nelle sue leggi dichiara
infami il lavoro ed il trafSco. Ogni nostra gloria marittima doveva
quindi perire. Ond'è che a' tempi di Strabene il quale visse intorno il
principio dell'era volgare, la Liguria non aveva più porti, e soltanto
in pochi luoghi poteano approdare le navi e gittar l'ancore (1).
Augusto infine ne affrettò la rovina, quando aperse un ampio arsenale
a Frejus, e pose una fiotta in Aquileja e in Ravenna e un'armatetta
sul lago di Como e sul Rodano, senza pur darsi un pensiero delle an-
tiche e grandi stazioni della Tuscia e della Liguria che già volgeano
al loro declino. Questo superbo dispetto delle nostre cose navali rese
per avventura mal conte le seAolae o collegi d'arti marinaresche che
pur erano in gran fiore tra noi, primo germe di quelle confraternite
o associazioni, onde uscirono ne' bassi tempi quelle generazioni ga-
gliarde d'artefici e combattenti, che ogni cosa improntavano di loro
audace natura e che volsero perfin le Crociate in una immensa specu-
lazione di traffico.
Fra queste corporazioni giovi toccar quelle dei VessiUarii Scalarii,
Navicidarii e Centrones^ cioè fabbricatori di centores o schiavine, e i
Dendrqforij cioè i somministratori del legname atto alla costruzione
de'navili. Questo collegio d'artieri doveva sopramodo prosperare fra
noi, dove le montagne arborate d'abeti e di larici, piante noderose e
ferrile che vigoreggiano tra i nudi scogli e il battagliar de' tifoni,
offrivano largo campo al valor degli artefici. Industria antichissima
e tutta nostra era questa: di che fa fede Virgilio, solerte raccoglitore
delle italiche tradizioni, il quale cantando della ligure armata e dei
suoi condottieri che trassero in soccorso d'Enea, descrive la nave
superba su cui veleggiava CupavOj rampollo del re ligure Ciffnc^
sulla cui poppa sorgeva sculto un ingente Centauro, che levando in
alto un macigno, sembrava scaraventarlo ne' flutti.
E qui forse converrebbe indagare per che modo i Liguri, che da
prima usavano certe lor fuste manesche e sottili, le convertis-
(1) Omnino autem universum litus a Monoeco portu ad Ètruriam usque
coDtiuuum est, et portubus caret, nisi quatenus paucis locis appelli ntives
sinit, et defigi ancoras. 3tiub. L. IV.
150 UnnfiTA OOKTBBfPO&ANBA
sete, suirese^ipio de* Fenieii, in navi di grsm oorpi e tondegpgumiti
e come appresso salUosera a quella bdkzsa di fimne d'i accenna Vir-
gilio. Seooncbè queste e domiglianti rìcerefae ci tparrebbero per av-
Tentura fuori del eercbio ehe ci siam divisato. Soltaoto, continuaodo
il primo nostro assunto, diremo, che il non esservi stato in Liguria
alcun prefetto navale, come a Como, ad Aquileja e al promontorio
Miseno, ove Plinio esercitò tal ofileio, mostra il niun eonto in cui ci
aveano i Romani. Eppur grassi guadagni tirava Roma dai nostri
porti, ove le mercatanzie per opera d'ingordi dazieri pagavano sfol-
gorati balzelli : da un ottavo fino al quarantesimo del loro valore.
Arrogi ebe il fisco attribuivasl Tun per cento sopra ogni vendita,
e il venti per cento sopra ogni schiavo'. Peraltro il preaa» di questi
cbe a' tempi di Catone era di millecinquento dramme (denarios),
cioè di milleduecnto lire ciascuno, fu appresso si teikue tìbe nelle
Oallie s'aveva a miglior derrata uno sebiavo ebe un an&^ra di vino.
Soltanto nel V secolo siede in Liguria un Cornei ripamm e ui^
Comes porìuSy il cui carico era più ch'altro un nome vano.
9. — Facendoci ora a trattare delle vie strato in Liguria, forz'ò
rammentare essere appunto le vie quasi lo specchio delle condizioni
civili d'un popolo, avvegnaché agevolando l'esercizio de' traffici e lo
spaccio delle derrate, come le vene del corpo umano, difEondono in
ogni dove il battito, il calore e la vita. La storia della lor floridezza e
del loro decadiaiento in Italia è quella del popolo italico. . Salde e
maestose segano l'intera penisola a' tempi della romana grandezza;
manomesse come og^i altra cosa gentile nei secoli della barbarie e
delle civili conflagrazioni, ancor esse risorgono' al rifiorire de' tempi
nuovi.
Se il testimonio di Livio , di Strabene , di Posidonio e di Floro
intorno l'efferata selvatidbezza de' Liguri rispondesse al vero, assai
di leggieri c'indurremmo ad opinare che la Ligurria difettasse di facili
vie, e che ogni agevolezza di transito dovesse riferirsi ai Romani. Ma
interviene ire assai circospetti noli' aggiustare piena credenza a quegli
scrittori che, avversi al ligure nome, ne distrussero le prische memo-
rie, e ciò maggiormente quando il discorso della ragione e le stesse
istorie nemiche dell'opposto fan fede. Se i Liguri aveaa porti, armate
ed eserciti, doveva di necessità il loro paese essere solcato da comode
vie. E per vero, come loro potea venir fatto senza facili accessi di met-
tere in punto gli eserciti, e traghettare dalle interne foreste i legnami
agli arsenali di Luni, di Genova, d'Albenga, di Yentimiglia e di Mo-
naco? È fuor di contrasto che un'ampia via pel eolle di Tenda, detta
poi la Domina^ v'aprirono gli antichi Tesmofori o i coloni fenicii ; è
pure fuor d'ogni dubbio che Magone circa un secolo innanzi a Emilio
Scauro condusse per le nostre montagne i suoi elefanti, e al disopra
PORTI E VIE STRATB DKLL'ANTIOA LKJUBIJL 151
d'AIbenga per il passa di Nava scese in riva del Tanaro. Arroge che
Polibio, il quale sessanta anni appresso il passaggio d'Annibale, va-
lioò l'Alpi, ci narra che ben quattro strade a lui note tracciavanle :
l'uoa per la regione dei limrim ove il Cartaginese era disceso: due
su quel ie' Salirsi e de' EieU^ e infino la quarta per gli altipiani della
Liguria marittima (I). Alcuni anni appresso i Romani conobbero anche
i passaggi dell'alpi Gamiche per le valli del Tagliamento e del-
l'Isonzo, e quelle pel litorale dell'Adriatico, ove i monti spianano in
verso il mare. Le cose anzidette chiariscono non potersi esclusiva-
mente gloriare i Romani d'aver apertole prime strade nel nostro paese.
Bensì loro assentiremo il vanto superbo d'averle munite e rese agevoli
a trarre in Soma^ con più prestezza e sicurtà i tributi e le spoglie dei
vinti (2) e a condurre da un \\xogo all'altro gli eserciti ohe aveano a
disegno lo sterminio dei popoli, i quali vegliavano a custodirle e a
loro contenderne il varco. Tale l'eroica tribù degli Steni; Il Senato
benché già dominasse gran parte dell'Alpi, divisava tagliarvi una
gran via per più facilmente domarne la contumacia ; perchè impose a
Q. Marcio Re d'assalire quel popolo, che più gelosamente d'ogni altro
guardava il valico alpino. Dopo lunghi e disperati conflitti veggendosi
i liguri Steni d'ogni banda attorniati, arsero pagi e castella, donne
ed infanti sgozzarono e precipitaronsi dentro gì' incendii suscitati
dalle loro mani. Perfin coloro che gemeano in cattività de'uemici
s'uccisero di laccio o di &me, mostrando di che tempra cuori aves-
sero in petto. Un solo, mirabile a dirsi, non v'ebbe neppur fra i
più giovani in cui l'amor della vita potesse tanto, da fiar loro so-
stenere il servaggio (3). CoA il passo dell'alpi Graje (il piccolo S. Ber-
nardo) s'aperse ai Romani coll'eccidio d'un popolo intero. Ma il tristo
guadagnar che ne fecero ! poiché continuo i montanari loro ne dispu*
tarono il varco. È noto che Valerio Messala inviato a debellar l'Aqui-
tania fu costretto a comperarne il passaggio: e tanto pur avvenne a
Sartorio, il quale a chi di ciò l'appuntava, rispose : non si paga mai
troppo il tempo da chi medita eccelsi disegni.
Per l'opposto, Cozio figliuolo di re Donno che signoreggiava
l'aspre regioni poste fra il Roccamelone e il Monviso, che appresso
dal suo nome si dissero Alpi Com , amicatosi Augusto , agevolò
il passo a' Romani con nuove tagliate fra i suoi dirupi; (4) onde il
(1) Strab. IV.
(2) Ut omnia tributa velocitar et tato transmitterentur. Vroco^p.
(3) Paul. Oros. L. V, e. 14. — Fast. Capit. Fragm. Pigh. Tom. \\\,
pag. 83. — Epit. Tit. Liv. LXII.
(4) Hujus sepulcrum reguli (Cotii) , quem itinera struxisse retulimus,
Segusioneest moenibus proximum; manesque ejus ratione gemina reli-
giose coluntur. Amm, Marceli , Lib. V.
162 BtinSTA CONTBMPOBÀNBA
titolo di prefetto ch'ebbe a'tempi di Cesare, gli venne dall'imperator
Claudio commutato in quello di re.
Tornando ora al nostro compito, s'egli è certo che i Liguri pos-
sedeano già una via che solcava gran parte della loro costiera, non
che altre parecchie che dal mare metteano alle regioni apenninicole
e alpine, non può a'Romani contendersi d'averle rassettate, spianate
e aperte alcun' altre. Noi c'ingegneremo a divisarle ed a seguirne,
per quanto è possibile, il corso, additandone le mansioni e le traccie,
e toccando tutte quelle particolarità che hanno appicco al nostro
argomento. •
Eh. CBLB8IA.
{emtinua)
153
RASSEGNA POLITICA
Allorché gli animi si aUietavano pella speranza che si sarebbe
alla perfine ottenuto dair Imperatore de'Francesi il suo uUinuUum
sulla questione romana in senso favorevole all'unanime desiderio
degl'Italiani, l'insospettata nomina del sig. Drouyn de Lbuys a Mi-
nistro degli affari esteri in surrogazione del sig. Thouvenel amico
dell'Italia venne a soffocare ogni speranza, anzi originò gravi timori
considerando quale fu la politica del sig. de Lhuys quando fu altra
volta al potere. La nomina del sig. La Tour d'Àuvergne, molto
devoto al Papa, all'ambascieria francese in Roma, e la traslocazione
altrove dell'ambasciatore francese presso la corte italiana, il sig.
Benedetti, provatissimo amico della causa nostra, confermano le in-
duzioni che realmente l'indirizzo politico sulla questione di Roma
mutò; gli osanna poi che canta in tutti i metri il sig. La-Guerroniòre
nel suo foglio Za Franee rimuove le dubbiezze che alcuni potevano
ancora conservare. La circolare del nuovo Ministro, in date del 18
andante assevera che non sarà cangiata la politica imperiale, ma non
dichiarando esplicitamente quale dessa sia, lascia campo ad ogni ma-
niera di interpretazioni, secondo il proprio sentire; sgraziatamente,
raccogliendo ogni piccolo sintomo, si viene nella convinzione avere
l'Imperatore deliberato di continuare a sostenere colle armi francesi
lo scettro temporale del Papa , come l'articolo della Franee del 23
andante dà per positivo.
Ewi chi attribuisce questo cangiamento all'influenza dell'Impe-
ratrice in voce di molto devota al Pontefice ed a concordi rappre-
sentanze dell'episcopato francese, nessun membro del quale non è
più oggidì gallicano; altri lo attribuiscono a. dispetto cagionato
all'Imperatore dalla nota del ministro Durando che vuoisi sia stata
interpretata come comminatoria di una risoluzione ; altri perfine a se-
greti negoziati col gabinetto britannico, per far cessare i gran VMetmgs
garibaldisti , in cui si protestava contro l'occupazione di Roma per
parte de' francesi, i quali eccitavano negli operai francesi un'agitazione.
154 RIVISTA OONTBMPORANKA
À detta di costoro si sarebbe pattuito il mantenimento dell'integrità
deirimpero Turco, ciò che implicherebbe freddezze nelle relazioni
colla Russia, a patto però che non fosse più avversata la indefinita
occupazione di Roma da truppe francesi, e si lasciasse l'Imperatore
arbitro delle sorti del papato. Ora il sig. di Tbouvenel essendo av-
versario della politica britanna rispetto alla Turchia, e parteggiando
pello Czar, l'Imperatore lo avrebbe esonerato dal Ministero degli af-
fiiri stranieri per ottenere impedite le proteste in Inghilterra contro
il potere temporale del Papa e la presenza di soldati francesi in Roma,
senza cui quel potere svanirebbe in poco d'ora.
Profani ne'segreti dei gabinetti abbiamo voluto riferire le varie
voci corse per ispiegare la venuta al potere di chi avversò a Parigi
l'unità italiana: bene osserveremo che la notizia della nomiTMt del
sig. Drouyn de Lhuys fu accolta con plauso dalla stampa giorna-
liera britanna e che i meetings cessarono , perchè mancato loro
l'appoggio de' membri del Parlamento ed il permesso della polizia;
soggiungeremo quindi che non andavano errati coloro i quali an-
nunciarono che il giornale La Prance^ prossimo a venire in luce,
diretto dal sig. di La-Guerronière, sarebbe stato il portavoce delle
idee imperiali. - I primi numeri sollevarono lo sdegno universale,
ed il giornale fu sollecito a dichiarare non essere foglio né officiale
né officioso, ma i fatti sono venuti a provare come le antiche relazioni
tra il redattore proprietario di quel periodico e l'augusto capo del-
l'Impero non erano state interrotte, e conoscerne egli le intenzioni,
esseme egli, come opportunamente lo chiamò il deputato De Cesare,
il rifelatore (1).
Pare dunque si voglia ripigliare il programma di Villafranca in
quanto può ancora eseguirsi; cioè a dire, non si vuole un'Italia,
ma tre, ma quattro, e se più meglio ancora. Quantunque il federa-
lismo insanguini oggidì l'America settentrionale in modo da spaven-
tare gli amici dell'umanità, il sig. di La Guerronière, che trovò
(incredibile a dirsi!) un alleato nel sig. Proudhon, si è posto a strom-
bazzarne le beatitudini , attalchè non si sa come non abbia proposto
di scindere almeno in due la Francia, facendo un impero al di qua
della Loira con Marsiglia per capitale, un altro al di là con Parigi,
e restituendo per debito di coscienza Avignone al Papa, stato ven-
duto a denari contanti dalla regina Giovanna con rogito di cui si
hanno gli atti autentici, mentre la donazione fatta da Pipino di Roma
e contomi è tuttora controversa. Questi tre Stati dovrebbero essere
confederati acciò la Francia potesse provare le delizie attuali della
Confederazione degli Stati-Uniti.
(1) L'Alleanza franco-italiana.
BASdB<}NA POLITICA 1S6
Come ai dovrà condurre l'Italia in queste gravi contingenze? A
nostro povero avviso ne pare essere miglior consìglio quello dato
dal foglio inglese Th$ TimeSy cioè di temporeggiare. L'attuale enUnie
eariiale coir Inghilterra sarà, come le precedenti, passeggiera, anche
essendo al Ministero il sig. Drouyn de Lhuys^ perchò l'animosità
tra le due nazioni è troppo radicata. Il Pontefice dal suo canto non
vorrà continuare a vivere pel beneplacito di Napoleone ed essere in
balìa del presidio mandato per sostenerlo in trono. La situazione
politica delle cose in Prussia, massime dopo i recenti discorsi di
quel Sovrano alle Deputazioni municipali con cui lascia intravedere
che governerà a modo suo e non a quello della Camera elettiva, è
tesa talmente che deve rompersi , dal che ne nascerà un subuglio
nell'Alemagna da chiedere necessariamente l'attenzione di Napo-
leone III alle agognate rive del Beno. In quanto alla Turchia, seb-
bene soggiogati i Montenegrini e costretti i Serbi a contentarsi di
fatili soddisfazioni, la pace non sarà durevole. Tra gl'Islamiti de-
spoti ed i Cristiani oppressi non vi può essere pace. Tutti gli
sforzi dell'Inghilterra cristiana per sostenere la Turchia maomet-
tana, non produrranno fuorché la prolungazione dell'agonia, ma non
mai la sua salvezza; e se l'Inghilterra potè lusingarsene per la
vittoria riportata dopo un anno di parziali sconfitte dal Sultano che
comanda a 36 milioni contro i Czernogori che non sommano se non
a cento trenta mila, — la recente nuova insurrezione greca che
costringerà il re Ottone satellite dell'Austria ad abbandonare il
regno (anzi già se n'era annunziata la partenza) tornerà a met-
tere in dubbio se possa l'impero Turco in Europa continuare a sus-
sistere. I Sovrani ed i Ministri credono di vivere ancora ne' se-
coli ove potevano a loro capriccio fare e disfare gli Stati. Gli avve-
nimenti hanno un bel provar loro che nei dì che corrono le volontà
nazionali vogliono essere prese in considerazione, essi stanno per-
tinaci in queste loro pretese, ed a vece di progressive e pacifiche
ricomposizioni di assetti politici, seminano rivoluzioni. Quella della
Grecia si estenderà nelle isole dell'Arcipelago, nella Tessalia e nella
Macedonia. L'Inghilterra sarà larga d'armi e di soccorsi alla Turchia,
ma ciò nullameno non potrà salvarla.
Né credasi nemmanco che il nuovo Ministro di Francia valga a
ridar forza all'Austria malgrado le rosee profezie dell' OstdeiUschepost,
Ad onta di tutte le moine fatte, l'Ungheria non si lascia adescare
dalle promesse del giovine imperatore, il quale ha già dato saggio
del come intenda a mantenere lo statuto costituzionale che h^a lar-
gito. Il gabinetto viennese è astuto, ma il patriotismo magiaro ha
occhi di lince, e scorge il tranello che gli si prepara. D'altra parte
l'elemento slavo , cosi preponderante per numero nell'Impero Au-
156 BIYISTA OOKTBKPOBANBA
striaco , se non ne rovescia il governo , vi crea piccoli ostacoli sì,
ma continui, da incepparne razione. L'antagonismo tra le varie
nazionalità si propaga neiresercito che fu la tavola di scampo del-
TAustria negli anni 1848, 49 e 59, così a lei fatali. Insomma l'Im-
pero è cancrenato, e per salvarlo è necessaria l'amputazione.
E quand'anche tardassero a scoppiare insurrezioni nella Germania,
tutto lascia presumere che nel corso dell'anno prossimo la Russia
sarà teatro di sconvolgimenti. I poveri polacchi danno agl'Italiani
un bell'esempio da imitare. La loro indipendenza politica è assai
più problematica della nostra. A noi mancano solo Roma e Venezia,
ai polacchi tutta quanta la patria; eppure non disperano; e con
una meravigliosa pertinacia rifiutano le libertà che lo Czar pare di-
sposto a largir loro se a prezzo dell'indipendenza e dell'integrità
territoriale. Nella Russia poi i mali umori vanno crescendo ne'boiari,
nell'esercito e ne'contadini, e le innumere sette religiose spingono
in tutte le classi a chiedere un sistema rappresentativo che, com'è
composto quell'Impero , ne cagionerebbe lo sfascio. Nel Caucaso ,
quegl' indomiti montanari hanno ricominciato a far scorrerie colla
peggio dei Russi. Nella Finlandia poi evvi tal spaventosa carestia,
che su due milioni d'abitanti, 200 mila non hanno più modo di vi-
vere assolutamente, e 300 mila devono nutrirsi d*erbe selvatiche.
Profittando della crisi politica che minaccia di sconvolgere la Prus-
sia, la Danimarca , traendo ardimento dal parentado ch'è per strin-
tra la dinastia che la regge con quella dell'Inghilterra, provvede in
modo da incorporarsf amministrativamente lo Slesvig, questo cavallo
di battaglia delle pretese tedesche su cui giurisconsulti , storici e
pubblicisti di tutta l'Allemagna scrissero tanti libri da comporne una
biblioteca. Siffatte provvidenze hanno maggiormente inaspriti gli
unitarii tedeschi che rimproverano al gabinetto di Berlino una ingiu-
stificabile pazienza. Ecco un altro focolare d'incendio che aspetta gli
si appicchi la miccia.
Inoltre i piccoli principi tedeschi, scorgendosi minacciati di essere
ridotti alla condizione di vassalli del potere unitario che si vagheggia
istituire in Francoforte, vanno parecchi di loro a gara in dare prove
di liberalismo onde ascriversi nella lista dei candidati alla corona uni-
taria. È saputo quanto abbia già operato in questo senso il Duca
di Sassonia Gotha, il cui ritratto è divenuto d'obbligo in tutte le
povere stanze degli operai. Ora entra nell'agone il Granduca di
Baden. Egli ha testé concesso parità di diritti civili agli Israeliti, e
dichiarò di lasciar libero a' suoi sudditi di recarsi al Von-Parlement
in Francoforte il dì di domani, stabilito per discutere fra le altre la
proposta di non potersi costituire una Germania con esclusione del-
l'Austria, che anche i Tedeschi vogliono tutta la Germania e non
BA8SB0NA POLITICA 157
lasciarne staccata veruna parte : prese inoltre sotto la sua protezione
le società ginnastiche che sono associazioni politiche. Mentre altri
sovrani tedeschi, nemici non pure dell'unità germanica ma di tutto
quanto pute di liberale, agiscono in senso opposto e paiono vogliano
proprio, coi loro provvedimenti dispotici, accelerare lo scoppio della
rivoluzione. Essi sono il vecchio Re di Wurtemberg il più innanzi
in età dei sovrani deirEuropa, il Re di Anovria e l'elettore di Assia-
Cassel. Loro segreto alleato è il Re di Baviera che, se pur osasse,
ne farebbe altrettanto ; non avendone il coraggio sì restringe a farla
da campione del papismo e dell'Austria, ciò che fu l'una delle cause
dell'attuale rivoluzione della Grecia e della cacciata del suo fratello
Ottone , ma con ciò sollevandosi contro la Germania protestante
accumula fasci pel futuro incendio.
Cagione eziandio di disordini in qualche Stato europeo esser può
la guerra civile che dilania la Confederazione Americana. Ove si
protragga epperciò accresca la miseria degli operai nei filati in co-
tone, questi possono lasciarsi trascinare ad atti colpevoli per costrin-
gere i loro governi o ad intervenire o a riconoscere l'indipendenza
degli Stati del Sud. Nell'un caso si avrà una guerra lontana costo-
sissima e schiererà la Francia dall' un lato e l'Inghilterra dall'altro.
Rotto l'accordo fra quelle due potenze dominatrici, la conseguenza
ne sarà di doversi la Francia occupare di tutt'altro che di conser-
vare il potere temporale del Papa.
Noi quindi non sapremmo bastantemente raccomandare calma di
spirito e costanza di propositi ai nostri concittadini onde poterne subito
cogliere il destro per riunire le membra ancor sparse della nostra pa-
tria. La costituzione delle nazionalità politiche vollero altrove molti anni
di lotte e di sagrifizii. Solo i popoli che perdurarono nel loro intendi-
mento la conseguirono. Noi dobbiamo né violentare lo sviluppo della
crisi, né smarrirci se nuovi incagli sorgono ad inceppare la realizza-
zione dei nostri desideri! e la ricognizione dei nostri santi diritti.
Dovremmo intanto trar partito del tempo sia per ordinare le cose in-
terne, assestare la mala condizione delle nostre finanze, promuovere
i mezzi industriali della nazione e preparare armi ed armati pei di
delle battaglie. Dovremmo adoprarci a tutt'uomo a smettere gli odii
provinciali, municipali e personali che ci frazionano in tante piccole
sette e ci tolgono quella forza ch'é la risultante dell'unione. Questi
odii sono quelli che cagionarono al nostro corpo politico gravi ferite,
le quali, se non vi poniamo eflìcace rimedio, non si potranno sanare.
I nemici della nostra unità, che conoscono perbene la magagna
secolare della nazione, sanno soffiar dentro a queste ire provinciali ed a
queste personali avversioni, e duole il dirlo, ma ottengono il loro in-
tento. Si ha un bel dimostrare che oggidì l'esercito è italiano non
158 BIYISTA GONTBMPOBÀNBA
piemontese, i seminatori di zizzanie gli danno sempre questo seéondo
nome. Quando vi era il ministero Ricasoli gridavasi volesse fare
Italia mancipia della Toscana. Bravi Minghetti al potere? Gli si
bandiva la croce addosso buccinandolo deliberato a porre da banda
tutti gl'impiegati piemontesi. Altri subillano che le provincie Napo-
letane e le Siculo sono ingovernabili ; che bisognerebbe lasciarle di
per loro a districare la matassa, negandosi così a quel reciprocò
concorso di aiuti che solo può congiungere e dar saldézza alle varie
parti dello Stato.
La*Camera poi è scissa in tante, diremmo, chiesuole da non avere
più veruna maggioranza. Il Ministero è monco : sarebbe indispen-
sabile che fosse compiuto. Ma chi eleggere? Se si pone innanzi il
Deputato Tizio, le chiesuole A. B. C. lo respingono ; se Cajo non è
voluto da altre, se Sempronio è alla sua volta inviso ad altre fra-
zioni politiche. Si grida da taluni : Fate che regni la pubblica si-
curezza, senza del che il popolo sarà costretto a desiderare la re-
staurazione degii antichi ordini ; altri alla lor volta cantano : doveirsi
torre lo stato d'assedio nelle provincie australi , smettere per ogni
dove i rigori polizieschi , non far staggire i giornali che imprope-
rano contro il Gk)verno, perchè ciò lede la libertà, mentre il desiderio
di libertà fu quello che solo costituì il nuovo regno d'Italia. Ora in
questa dissonanza di cervelli, dirò col Guicciardini, dove sono varii
pensieri, varii fini, non può esser né resoluzione fondata, nò azione
ferma (1) ; e come potrà il Ministero riordinarsi per ottenere la coe-
sione e l'influenza di cui in realtà difetta ? Ognuno gli grida raca,
e nessuno gli stende la mano tanto da porlo in istato di trarre per
ora la nave a riva, riserbandosi a riprendere il largo con altri pi-
loti al timone tornata la bonaccia.
Gli è per un mare così tempestoso che la nave italiana solcò
rOceano politico nel volgente mese. Se le burrasche non la fecero
affondare devesi non al pilota, che in mezzo alla bufera, o più non
guardava la bussola, o forse lo stesso ago magnetico, per l'attra-
zione esercitata da nembi elettrici, dava false indicazioni, bene si
deve al contegno calmo della ciurma, e dello aver tutti dato mano
ai remi per fuggire dal terribile tifone.
Ora mi verrebbe opportuno quell'antico adagio % se Sparta piange,
Messenia non ride; ed invero, se l'Italia è sbattuta dai marosi, i
fiotti hanno bersagliato ben anche Inolte altre navi. Vi sono taluni
che, scorgendo essersi Napoleone III reso arbitro dell'Europa , cre-
dono nulla possa giungere a turbare l'ordine generale s'egli noi
vuole. È noto quel detto di un pubblicista di grido : Si la Prance
est satUfcMe^ V Europe est tranquille.
(1) Considerazioui sui discorsi di Machiavelli, N. 58.
RASSEGNA POLITICA 159
Se lo sii non indagheremo ; riconosciamo soltanto che è, almeno
apparentemente, tranquilla; ma la qontinuazione di questo stato -di
calma dipende dalla continuazione in prospera salute dell'imperatore.
Guai se si ammalasse e durasse a lungo infermo !
É la forza del suo volere, l'assoluta sua autorità, malgrado il
Sciato ed il Corpo legislativo, che paiono essere stati creati per limi-
tarla, che la mantengono tale : del rimanente è agevole di conoscere
come dall'un lato il partito clericale appoggiato dalle popolazioni
rurali, dall'altro i liberali avendo per sé le classi operose urbane, si
guatino in cagnesco. Fra i due ondeggia il. partito dell'antica di-
nastia degli Orléans, il quale non osa pronunziarsi, vuoi per Tuno,
vuoi per l'altro, Aonde poterne ugualmente usufruttuare. l«a mano
di Napoleone, forte per la devozione dell'esercito , bavaglia questi
partiti ; ma se per caso la lasciasse cadere solo per qualche tempo
o per troppa stanchezza o per mala salute, in un subito tutta la
Francia sarebbe in iscompiglio. I repubblicani furono sconfitti, aut
non disparvero. Si sa che la polizia vigila per impedirne i conati,
e di quando a quando pubblici provedimenti vengono a far fede
delle non interrotte associazioni di congiurati. Ora, ove mai lo stato
di salute impedisse per alcun tempo Napoleone di dirigere esso stesso
il Governo, si potrà credere che all'imperatrice Eugenia sarebbe dato
di frenare le opposte mene dei partiti politici della Francia? Mai no.
Ma si dirà: questa vostra supposizione è affatto gratuita, e nulla
ne fa presagire la possibilità. Rispondo: I fogli francesi hanno,
non è ancor molto, riferito avere l'imperatore d'uopo di riposo, e
questa essere stata la causa di aver protratto più a lungo la sua
assenza da Parigi. Ora l'intricata condizione in cui versa l'Europa,
la guerra civile nell'America, l'impresa contro il Messico, la conti-
nuata occupazione di posti militari nella Cina e nell' Indo-Cina non
sono certamente per concedergli ozio e calma onde rifrancarsi di
forze e riacquistare piena salute, epperò quest'una delle contingenze
ohe possono lasciar modo al disbrigo della questione romana potrebbe
eziandio fra non molto spazio di tempo verificarsi. Ma quale sarà per
essere il partito che abbraccierà la nazione e per conseguenza il Go-
verno, verrà conosciuto soltanto dopo che il Parlamento nazionale
convocato pel 18 del prossimo venturo novembre si sarà pronunziato.
Allora soltanto sapremo se l'attuai Ministero starà ancora al potere
0 se lascierà luogo ad un altro, il quale (nella presente disparità
di pareri e di passioni politiche) durerà eziandio fatica a conseguire
una ragguardevole maggioranza, senza la quale nessun Ministero
può ben dirigere la cosa pubblica. Vi ha chi vaticina tempestosi di-
battimenti, interpellanze insidiose e proposte irritanti che potranno
costringere il Ministero alla grave e pericolosa misura di sciogliere la
160 RIVISTA CONTBMPOEANBA
Camera. — Non siamo così pessimisti, e vogliamo credere che i rap-
presentanti della nazione, inspirandosi alla vista dei gravi pericoli che
ne circondano, tempereranno i loro desiderii, e per volere tutto oggi,
non si porranno a rischio di tutto perdere domani , e si persuaderanno
hene che, come disse nel 1854 il sig. De Feuillide nella Presse ^
ragionando di uno scritto del sig. Emilio de Grirardin sulla questione
d'Oriente, che « les. nationalités sont l'oeuvre du temps, non d'un
protectorat, d'un décret, d'une guerre». Saremo lietissimi se il
tempo venisse a mostrare che non c'ingannammo nelle nostre pa*
triotiche previsioni.
Di ciò peraltro che siamo convinti che il tempo non sarà per
smentirci, si è che se il Ministro facesse comunicazione alla Camera
della supposta proposizione francese di lasciare al Papa Roma e la
sua Comarca, tutti i deputati, non uno eccettuato, risponderehbero
unanimi : Non possumus. Che se il Papa non crede poter cedere i
beni che Pipino gli regalò sebbene non fossero suoi, la Camera non
ha veruna facoltà, come non ha il potere di smembrare la nazione.
Può bensì rivendicare le parti che le mancano, ma disitdlianizzare
gl'Italiani non mai.
Torino, 26 ottobre 1862.
G. Vbgbzzi-Ruscalla.
Luigi Pomba Gerente.
161
COLONIA PIEMONTESE IN CALABRIA
STUI>IO ETNOGRAFICO
A S. A. I. il Prioeipe LUIGI LUCIANO BONAPARTB.
Intento a compilare una carta etnografica deiritalia, ogni qual-
volta nelle mie dubbiezze ho ricorso alla molta vostra dottrina in
fatto di dialetti, voi cortesemente le sciogliete, attalchè, se mi verrà
fatto condurre a buon fine questa mia lunga ed ostinata impresa,
dovrò saperne grado specialmente all'Altezza Vostra.
Desideroso di teslimoniarvene le più sentile grazie, né sapendo
come, pensai dedicarvi un breve Saggio di queste mie ricerche
etnologiche, lietissimo se incontrerà il vostro ambito suffragio.
Laffezionato
Vegezzi-Rusgalla
Torino, 20 novembre 1862.
Nella estrema parte d'Italia, dove la gran catena degli Appen-
nini rasenta le tepide onde del Tirreno, ai piedi dell'alpe che ha
nome la Cresta del Bitonto^ fra il rivo de' Vani a borea ed il rivo
della Scala ad austro, nel territorio già, negli antichissimi tempi,
della repubblica Turina ed ora della provincia della Calabria cite-
riore, circondario di Paola, mandamento di Cetraro, sorge sur una
montagnuola un paesuccio^ che, giusta l'anagrafe data dalla stati-
stica amministrativa del 1861, contava 1517 abitanti dediti alle pa-
cifiche cure dei campi ed in ispecìal modo alla cultura dei bachi
Jtkriita C. — li
162 RIVISTA CONTEMPORANEA
da seta. Alpestre n'è il territorio, però bene vi allignano la vite^ il
fico, l'olivo, il gelso ed i cereali, ma ciò che fa meglio conosciuto
questo paese si è una sorgente termale di antica celebrità, le cui
acque sono un potente rimedio contro le affezioni nervose da cui
trasse il nome il vicino paese di Fuscaldo (Fmts calidus).
Esso Comune ha nome Guardia, e la favella de* suoi abitanti è
diversa da quella dei Comuni circonvicini, come è diversa la foggia
di vestire delle donne, non che alcune costumanze rurali.
Oggidì che avventurali avvenimenti fecero una sola famiglia
degl'Italiani di tutte le provincie, oggidì che sono congiunte sotto
lo slesso scettro l'alta e la bassa Italia, mi è paruto che alcuni rag-
guagli sur un Comune nelle Calabrie popolato da una colonia pie-
montese potessero avere, se non altro, il merito dell'opportunità o
per dirla con un francesismo che s'introdusse nella lingua italiana,
di opportunità.
Guardia di Calabria ebbe da taluni impropriamente il nome di
lombarda; questo predicato spetta all'altro Comune omofono ch'è nel
Principato ulteriore, circondario e mandamento di S. Angelo di Lom-
bardi, come risulta da atti autentici e da lungo a stampa (1); quindi
reputiamo abbiano erralo così chiamandola lo storico Giannone, e
dopo lui il Bolla. La confusione che ne derivò fece incappare in un
grave sbaglio i signori cav. Ferdinando De Luca e D. Raffaele Ma-
striani, i quali, nel loro Dizionario corografico del Reame di Napoli
(Milano 1852), dicono successa in Guardia del Principato ulteriore
la strage degli eretici, di cui sarà discorso qui dopo. L'appellativo
che conviene a questa Guardia di Calabria è quello di piemontese,
che originarii del Piemonte ne sono gli abitanti. E se veramente
anche Guardia di Calabria è stata della lombarda, si è perchè nel-
l'età di mezzo davasi il nome di Lombardia a tutte le terre italiane
dal Mincio alle Alpi Cozie e marittime. Lombardi furono detti in
Francia, Svizzera ed Alemagna i mercatanti Chieresi, Astigiani e
di Cavori'e che primi istituirono in que' paesi Monti di pietà o pre-
stiti contro pegno, da cui ne venne a tali banche in Francia il nome
di Lombards (2). Di più, ancora nel secolo xvn il Leger^ nativo
delle Valli presso Pinerolo, cosi si esprime: la Lombardie où soni
les vallées du Piémont (3).
(1) Natale, Prospettiva ed effetti del sistema feudale per la causa della po-
polazione di Guardia Lombarda. Napoli, 10 gennaio 1798.
(2) Cibrario, Scorte di Chieri, § xviii, p. 246 della 3a ediz. Torino 1855,
e Blaire, Des monts de piété. Parigi, 1856, T. i, p. 9. Ducange, Glossar, med,
et inf. Latin, ad me. Longobardi, edit. 1845.
(3) Histoire generale des églises évangéliques des Vallées du Piémont. Leyde
"9, Parte i, p. 155,
COLONIA PIEMONTESE IN CALABRIA 163
1 varii sierici napoletani che mi fu dato di qui consultare non
danno notizie né del come né del quando si stabili quella colonia
di Piemontesi^nella Calabria ; supplirò al loro silenzio traendole da
storici piemontesi, o dirò meglio dagli storici delle valli di questa
parte dell'Alpi cozie che sono ascritte al circondario di Pinerolo,
provincia di Torino, dove da tempo antico, e certamente innanzi
all'eresiarca lionese Pietro Valdo^ stanzia una popolazione cristiana
bensì, ma non romana.
Ecco come il Gilio (in francese Giles), nativo di Perosa e pastore
evangelico alla Torre, paesi entrambi di quelle valli, ch'ebbe non
pure facoltà ma mandato di compulsarne gli archivi! comunali e dei
sinodi, e potè inoltre valersi delle tradizioni, narra quest'emigrazione
de' suoi concittadini (4). A vece del testo francese, ci è paruto meglio
riprodurre la versione italiana data dal Priore Rorengo consignore di
Lusema (grosso borgo valdese) : sia perchè cattolico, sia perchè ag-
giunse al testo qualche particolare, che gli fu comunicato verbai*
mente dallo stesso Gilio, per esempio, laddove asserisce a cosi mi
ha detto a voce l'autore », non senza soggiungere che dalle poche
date che riferisce si desume accennare circa l'anno 4345 (2).
€ Essendosi ritrovati alcuni Valdesi con un gentiluomo calabrese
in Torino, alloggiati insieme in un'osteria (cosi mi ha detto a voce
l'autore) in familiar discorso si fosse rappresentato che le valli
erano tanto popolate che non vi si poteva più cavare il vitto, onde
esso gli offri terre vacanti nella Calabria^ mediante condizioni ra-
gionevoli, sopra di che i popoli delle Valli mandarono uomini ca-
paci per riconoscere il sito di quei terreni, quali ritrovarono molto
fertili, essendovi colline e pianure ornate di ogni sorta di alberi frut-
tiferi, come di noci, castagne, ulivi, melangolo, ecc., e di terreni
atti a ricevere ogni sorta di sementi, fecero colà convenzioni che
pagando un tributo dei terreni che possederebbero, potessero abi-
tare a parte e fra loro costituire una comunità o più, e stabilire re-
golatori, con facoltà d'impor ìa^We e di esigerle senza essere obbli-
gati di prenderne altra permissione né renderne conto alcuno,
eccetto fra di loro. Accordarono ancora coi signori e magistrati
di tutti i diritti ordinarti e casuali che gli potrebbero pervenire e
del tutto ne ottennero istromenlo autentico, il quale fu dopo con-
fermato dal re di Napoli Ferdinando di Aragona (3) e che stabilito
(1) Histoire des églises réformées autresfois appelées vaudoises, Ginevra,
1644. p. 18.
(2) Memorie hislorichc deltintroduitione delVheresie nelle Valli di Lucerna,
marchesato di Saluzzo et altre di Piemonte, Torino, 1649, p. 77.
(3) Ferdinando I, figlio naturale di Alfonso I, tenne la corona dal 1458
al 1494. Ferdinando II, figlio di Alfonso 11, regnò nel 1495 e 1496. Gilio non
indica la data.
164 BIVISTÀ CONTEMPORANEA
il contratto ritornarono nelle Valli e disposero buon numero di
gente a vendere le loro ragioni per andare nella nuova colonia ed
abitazione come fecero parecchi con moglie e figliuoji i quali, ar-
rivati nella città di Mottalto ivi vicino cominciarono a fabbricare il
borgo che si chiama il borgo degli oltramontani (1).
e Dopo cinquant'anni^ essendosi moltiplicato e cresciuto il nu^
mero con altri venuti dalle Valli, edificarono un altro borgo un
miglio lontano, chiamato San Sisto, ove vi fu dopo una delle più
celebri chiese riformate. Indi, secondochè andavano crescendo e
moltiplicando, edificarono Vaccarizzo, Argentina (2) e S. Vincenzo.
Poscia il marchese Spinelli gli concesse di edificare ne' suoi luoghi
la Guardia^ terra chiusa e muragliata in luogo elevato, presso il Me-
diterraneo con notevoli privilegii ed in tutti questi luoghi moltipli-
carono i Valdesi... grandemente e circa il 4400, essendo i Valdesi
in Provenza inquisiti ad istanza del pontefice che sedeva in Avi-
gnone, molti ritornarono nelle valli d'onde erano discesi i loro
padri, e di là, accompagnati da molti delle Valli, andarono nelle
frontiere delle Puglie... e col tempo edificarono villaggi ossia terre
chiuse^ cioè Montelione, Montauto (3), Faito, la Cella e La Motta.
Finalmente circa il 4500 alcuni delle Valli andarono ad abitare
nella città di Volturara vicino ai detti villaggi » .
Con altre parole e qualche disparità nelle date narrò prima del
Gilio queste emigrazioni di Valdesi nella Calabria e nel Principato
il loro più antico storico, cioè il Perrin da Lione (4), al quale con-
sta che dai barbi, cioè dai pastori delle chiese valdesi, era stato
dato l'incarico di scrivere la storia dei loro religionarii. Gioverà
riferirne il passo levato ugualmente dalla traduzione data dal
Priore Rorengo perchè la doppia relazione cresce fede al racconto.
(1) Forse è il borgo che oggi dicesi degli escisi. Vedi: Giustiniani, Di-
zionario geografico ragionato del regno di Napoli. Ivi, 1802, T. v, p. 130.
(2) Non trovai registrato questo nome neppure nel Grand* Atlante geO'
grafico del regno di Napoli, di Gio. Ant. Rizzi-Zannoni, inciso nel 1808 in
ben 34 fogli. In esso, in questo spazio di territorio evvi, sovra Fuscaldo,
un colle segnato Argentino ; vicino a Vaccarizzo scorre un torrente che
dicesi Argentina. Vedi Rodotà, DelVorigine e stato presente del rito greco in
Italia, Roma, 1763, T. 4ii , p. 69. È certo che il paesuccio San Marco
un di chiamavasi Argentana. Vedi il Giustiniani (op. cit.). Nella Breve
descrizione del Regno di Napoli in Xll provincie, di 0. Beltramo. Napoli
1686, a p. 418 è segnato: Argentino con 18 fuochi.
(3) Altro modo di scrivere Montalto. In piemontese direbbesi Montaut,
Alto in provenzale antico si disse aut ; nel dialetto napoletano, giusta il
Galiani, dicesi auto. Casentino, Tasso in calabrese, Cant. xi, strofa 37, usa
pur esso autu, ma nella traduz. del Vangelo di s. Mattia, del sig. Lucente
(Londra 1862) è scritto avutu.
(4) Histoire des Vaudois. Ginevra, 1618, p. 169,
COLONIA PIEHONTRSE IN GAL ABBI A 165
« Circa l'anno 1400, ritrovandosi nella valle di Pragelato (1)
cresciuto e moltiplicato il numero del popolo, fu necessario licen-
ziare molta gioventù e cercare altra abitazione; giunta in quelle
parti (Principato e Calabria) , ritrovandosi il paese inculto, però di
natura fertile ed opportuno alla produzione di grani, vini, olio e
castagne, s'indirizzarono ai signori diretti e con essi accordarono
contratti d'enfiteusi sotto varie condizioni. Indi ritornata la detta
gioventb a dame ragguaglio ai parenti e ingrossato il numero,
molti di essi presero moglie e ciascuno condusse la propria in Ca-
labria ove fabbricarono alcune terre, cioè S. Sisto, la Guardia, Vac-
carizzo, Rosa (2), Argentina, S. Vincenzo e Monteleu (3) onde i
signori di detti luoghi si stimavano avventurati d'aver ritrovato si
buona gente a coltivare i terreni ».
Il Rorengo, tradotti questi passi, s'industria a mostrarli in con-
traddizione onde negare una emigrazione .di Valdesi in quelle
parti numerosa abbastanza da formare colonie, il perchè muove a
sorpresa come il Muston (4) la cui storia dei Valdesi è la migliore
di quante se n'abbiano (e non sono poche) abbia citato il Rorengo
come narratore di queste emigrazioni ; però tutti i sofismi del priore
Rorengo sono distrutti dal fatto, come verremo in seguito spo-
nendo, che prova essere gli attuali abitatori della Guardia real-
mente di schiatta valdese e per tali stati riconosciuti quando furono
spente le colonie di Montalto, San Sisto ed altri luoghi testé men-
zionati.
Il pastor Gillo ben meglio del Rorengo poteva conoscere le
cose, giacché il suo avo paterno era appunto stato nelle Calabrie a
visitare que'suoi compatrioti; e come mai egli ed il Perrin ne' suoi
tempi, in cui non vi erano guari relazioni tra queste due estreme
parti d'Italia avrebbero potuto conoscere resistenza di piccole ed
umili borgate come quelle di S. Sisto e Vaccarizzo, come sapere
che gli Spinelli di Fuscaldo erano feudatarii di Guardia?
(1) La valle di Pragelato è a dritta del Chiusone mentre quella di Pe-
rosa è a sinistra. Gli abitanti professavano il culto valdese, maTeditto del
re di Francia, del 7 maggio 4685, ordinò la distruzione dei tempii pro-
testanti e ne vietò il culto sotto gravi pene. Da quella data a giungere al
1750, quella valle divenne mano a mano esclusivamente cattolica.
(2) Credo abbia voluto dire Rose, paese oltre il fiume Crati, circon-
dario di Cosenza.
(3) Certo vuol dire Montelione. Leu per leone è in più idiomi romanzi.
Il catalano ha lièo, il portoghese léo, il provenzale ha pure, secondo THon-
norat, leou ; il dialetto bresciano liti, ma il daco-rumano ed il macedo-
rumano hanno precisamente leu. £ questo un esempio di derivazione dal
caso retto a vece del sesto caso obliquo latino.
(4) Histoire complète des Vaudois du Piémont, Parigi, 1857, T. i, pag. 127.
166 BIVISTA CONTEMPORANBA
Tal è Torigine di questa emigrazione di eresiarchi dall'alta Italia
nella bassa : peraltro quasi un mezzo secolo prima già altri s'erano
di Lombardia recati nel Reame di Napoli, e forse parecchi^ se non
tutti, erano Valdesi, giacché vi andarono nel 4268, cioè dopo la di-
struzione degli Albigesi. Ciò risulta da due documenti inediti che
io debbo alla cortesia ed amicizia dell'esimio signor Lattari, Diret-
tore del grand'archivio di Napoli^ e che per la loro importanza fo
pubblici in calce a questa monografia. Essi gioveranno a chi vorrà
scrivere la storia delle persecuzioni religiose in Italia nel secolo XIII
stata trasandata dal Mac-Crie, sebbene siano state più crudeli che
quelle del secolo XVI e XVII.
Quanto alla data della emigrazione di cui riferii i particolari,
i due citati autori discordano. Secondo il Gilio avrebbe avuto prin-
cipio poco dopo il 1315, giusta il Perrin all'anno 1370. Il già citato
Muston, senza dirne il perchè, inchina a stabilirla al 1350 (1).
Nessun storico napoletano ne fa parola, fuorché il Morelli in un
suo recente opuscolo (2) nel quale dice che questi Valdesi ven-
nero a stabilirsi colà « l'anno 1497 sotto il governo di Federigo II
di Arragona figlio di Ferdinando I , epoca in cui si sparsero in
molte parti». Senza precisare l'anno, prima di lui accennò aver
avuto luogo quella immigrazione durante il regno di Federico II,
l'egregio bibliotecario il cav. Palermo (3).
In questi dispareri più induzioni fanno reputare doversi stare,
se non al 1268, alla data del 1316 indicata dal Gilio, giacché quella
del Morelli pare si riferisca ad una posteriore emigrazione accen-
nata dal Leger (i), altro storico valdese, ch'ebbe luogo circa il 1475.
Il mio avviso si fonda sulle seguenti considerazioni. Nel 1316,
eletto papa Giovanni XXIJ, erasi recato ad abitare in Avignone. Ora
tornando ad aver vicino alle Valli il Pontefice, i Valdesi dovevano
naturalmente bramare di allontanarsene per isfuggire alle perse-
cuzioni, che su di loro i suoi antecessori avevano sempre attirate,
seguendo il precetto evangelico : Citm autem persequeniiir vos in
civitaie ista, fugiie in aliam (s. Matteo x, 23). Perchè nel 1316 il
reame di Napoli si ricomponeva sotto lo scettro di re Roberto (5),
(1) Op. cit. T. I. 127.
(2) OptucoU starici e biografici. Napoli, 1859. Sulla venuta dei Valdesi
nella Calabria ci tra, pag. 35. Basterebbe a provare l'anteriorità deiremi-
grazione dei Piemontesi valdesi nel regno di Napoli, il fatto della morte
colà avvenuta del barba Tommaso Bastia d'Àngrogna nell'anno 1409.
Gilio, op. cit., p. 203.
(3) Archivio storico italiano, Firenze, 1847, Tom. XI, p. XXI.
(4) Op. cit., P. 11, p. 7.
(5) Annali d'Italia, Ad ann. 1316.
COLONIA PIEMONTESE IN CALABRIA 16*?
epperò griminigranti potevano sperare di essere lasciati tranquilli
nella loro óuova sede; e perchè pare possa esser probabile che il
gentiluomo calabrese venuto in Torino ad ingaggiare valdesi fosse
uno del seguito di Ugone del Balzo, siniscalco in Piemonte di re
Roberto, che guerreggiava onde ricondurre all'obbedienza parec-
chi Comuni ribellatisi (i).
Arrogi che e sotto il governo delle due Giovanne i baroni occu-
parono molte regalie onde vieppiù si eslesero i disordini del
sistema feudale... i baroni... usurparono i titoli a lor modo » (2).
Queste parole tratte dagli Atti del Comune cui spetta veramente il
nome di Guardia lombarda nel Principato, nella causa contro il
principe di Scilla, chiariscono il perchè i Piemontesi immigrati colà
lasciarono trascorrere oltre ad un secolo e mezzo senza far confer-
mare dal potere regio le convenzioni baronali. Solo Ferdinando li
d'Aragona, che regnò dal 1495 e 4496 rivendicò con due prammati-
che (I, De Salar, e De Baron.) i diritti sovrani, misconosciuti dai
suoi vassalli feudatarii, come rilevasi dalla celebrata Storia della
congiura dei baroni di Porzio. Ciò spiega perchè solo nel 1497 i
Valdesi chiesero la regia sanzione ai patti che aveano stretto coi
feudatarii di Montalto, Volturara, Fuscaldo, ecc.
Perchè in quell'epoca (1316) Cuneo, Possano e Cherasco erano
tornati nella sudditanza dell'Angioino di Napoli per cui le relazioni
tra i due paesi erano tornati a rivivere (3); perché in quei giorni
il Piemonte, il marchesato di Saluzzo e quello di Monferrato erano,
carne ben osservarono il Muletti (4) ed il Grassi (5), corsi dalla
sfrenata soldatesca delle Compagnie di ventura agli ordini del testé
nominato Ugone del Balzo e di Riccardo Gambatesa, altro siniscalco
del Re Angioino. Quindi per desiderio di vita tranquilla, quei val-
leggiani furono volonterosi di emigrare in luoghi che reputavano
essere allora calmi e felici sotto un Re a quei di cosi stimalo
da indurre Firenze a sottomettersi alla sua signoria, e che aveva
riconquistate appunto le terre calabresi che Federigo di Sicilia
aveva occupate (6). ^
Tutte queste circostanze inducono a preferire la data che assegna
(1) Goflfredo. Storia delle Alpi marittime ab an. ne' Monumenta hist,patr.
Torino 1839, p. 708.
(2) Natale, Prospettiva ed effetti del sistema feudale per la causa della po-
polazione di Guardia Lombarda. Napoli, 10 gennaio 1798, p. 78.
(3) Storia dei Principi di Savoia del ramo dAcaja, Torino, 1832, T. i,
pag. 80.
(4) Storia di Saluzzo. Saluzzo, 1830, T. iv, p. 47.
(5) Storia della città d'Asti. Asti 1817, t, 2, p. 8.
(6) Villani. Storia fiorentina (odiz. Classici). Milano 1802, t. V, p. 77.
168 BinSTA CONTBMPOBANBA
il Perrin, e ciò almeno infintanlochè la pubblicazione di docamenti
che si possono trovare negli archivii di Cosenza, Lucerà o Napoli
non ci diano altre meno incerte indicazioni.
Ritornando alla emigrazione, il Gilio narra che la prima volta
impiegarono venticinque giorni a recarsi dalle Valli a Montalto
nella Calabria citra (i). Noteremo di passo che i paesi colà edifi-
cati ricevettero nomi omofoni a quelli delle loro valli native, cioè
Celle (Selle), che è nella valle di Germagnano; Castelluccio se-
gnato nella carta annessa all'opera di Morland, in vai d'Angrogna ;
Paltò, per il jetacismo proprio del vernacolo calabrese, da Faetto
nella Valle di S. Martino, e La Motta da La Motte ai piedi del
Leberon vicino ad Aigues in Provenza ove si erano recali dal Pie-
monte ; sistema che, seguirono, altrove più tardi, dopo la cacciata
dalle valli pinerolesi, avvenuta nel 4686, di quei poveri religionarii
eseguita dalle truppe del Duca di Savoia, ma a ciò costretto dalla
prepotenza di Luigi XIV ; che la Francia è da secoli avvezza ad
imporre i suoi voleri all'Italia ed allora i principi di Piemonte erano
troppo piccoli per potervi negare obbedienza. Molti di quei ban-
diti essendosi rivolti al duca Eberardo Ludovico di Wurtemberg,
n'ebbero da lui, con diploma del 4699 (2), assegnamento di terre
tra Maulbronn e Knittlingen, ed ivi edificarono casali, cui posero
nome di Villar, Pinasca, Lusema e Mantoulles (3), per ricordarsi
cosi meglio i paesi ch'erano stati costretti di abbandonare perchè
dissidenti in fatto di religione, cioè perchè protestanti.
Le storie nulla ci dicono di quei coloni a giungere fino all'anno
4560, cioè all'epoca in cui se ne fece strage perchè scoperti pro-
fessanti la religione riformata.
A prima giunta parrà impossibile ch'abbiano potuto per oltre
a due secoli lasciar ignorare aver dessi un culto distinto da quello
della Chiesa romana. Le seguenti considerazioni peraltro ne mo-
streranno la possibilità.
io I Valdesi, cosi leggesi nel Bert (i), ne' primi tempi della
loro separata esistenza erano bensì distinti dalla cattolica Chiesa,
ma non veramente separati da essa in guisa da costituire un vero
scisma.
2o Benché seguissero le pratiche del loro culto speciale, essi
{{) Gilio, op, cit., p. 19.
(2) Trorasi stampato in Von Moser, Actenmdssige Geschichte der Vat-
denser im Wurtemberg, Zurigo, 1791, p. 476.
(3) Hahn. Geschichte der Ifaldenser und verwandter Sekten, Stuttgard,
1847, p. 229.
(4) I Valdeii. Torino, 1849, p. 36.
COLONIA PIBlfOMTBSB IN OALABSIA 189
si erano adattati di recarsi ad udire la messa (1) e facevano battez-
zare i loro figliuoli dai preti cattolici (2).
3« Non si raccoglievano per pregare in verun luogo partico-
lare, seguendo quel precetto del Vangelo (Matteo v, 6.) Tu autem
eum araveris intra in eubiculum tuum et, clauso ostia j ora Patrem
tuum in abscandito.
4o Essendo iconoclastici, ciò che indusse taluni a crederli
seguaci di Claudio vescovo di Torino (825-839) eresiarca, non ba-
dando che il culto delle immagini già era stato rigettato dal Con-
cilio di Francoforte del 794 (3), mal si poteva conoscerne il culto.
S'arroge inoltre ch'essi là non cantavano, se insieme raccolti, delle
preci (4); quindi riusciva impossibile di conoscerne la religione.
5o Perchè le visite che ricevevano dei loro barbi o pastori
delle Valli pinerolesi non avevano luogo fuorché ogni due anni.
Questi giungevano due insieme, Tuno vecchio detto il reggitore^
l'altro giovane chiamato il coadiutore. Ma dessi non solo non ve-
stivano come non vestono nemmeno oggidì un abito particolare,
ma esercivano un mestiere, per esempio di flebotomo, fabbro, pa-
nieraio ecc., 0 di mereiai ambulanti, e ciò pour leur servir de
couverlure è^ les voyayes loinlains (5).
G^ Perchè il loro soggiorno nelle colonie non durava se non
alquanti giorni, e tant'era la loro cura nel celarsi che, per farsi
conoscere dai loro correligionarii, avevano un parlicolar modo di
bussare alla porta.
Arrivati gli emigranti nel 4316 in quelle lontane regioni avranno
indubitatamente saputo come già 45 anni prima fossero stati i dis-
senzienti della Chiesa di Roma perseguili e martoriati dal governo.
Ciò gl'indusse necessariamente a porre ogni studio nel tener celato
il culto che professavano per non correre gravi pericoli di strazii e
di morte.
(1) Mac-Crie, Histoire des progrès et de Vextinction de la riforme en Italie
au XVI siede, traduìt de Tanglais. Parigi, 1831, p. 280.
(2) Perrin, op. cit., p. 19.
(3) Klee Mantbel de rhìstoire des dogmes chrétiens, traduz. dal tedesco di
Mabire. Parigi, 1848, p, 467, L'anteriorità deTaldesi a Valdo, fu dimostrata
ad evidenza da Allix : Some remarks upon the ecclesiastical history of the
ancient Churches of Piemont. Oxford , 1821 , Gap. xiz, e da Monastier,
Histoire de VÉglise vaudoise depuis son origine et des Vaudois du Piémont,
Tolosa, 1847, Gap. x. Monsignor Charvaz, già vescoTO di Pinerolo, tentò
provare l'opposto, ma non vi riusci. Peraltro questo libro di polemica cat-
tolica è un modello di temperata disamina e di spirito cristiano. Recherà
ches historiques sur Vorigine des Vaudois, Parigi 1836.
(4) Gilio, op. cit., p. 16. Muston, op. cit., p. 6 e 7.
(5) Gilio, op. cit., p. 16. Hurter, Histoire dn Pape Innocent III, trad. de
Tallemand. Parigi 1855. T. Ili, p. 32.
170 BIYISTA CONTBMPOBANBA
Se avessero perduralo a condursi con siffatta segretezza avreb-
bero scampato dalle ire del clero cattolico.
Venne la riforma di Lutero. Pubblicamente abbracciato nella
Germania, il protestantismo si diffuse in altre parti d'Europa^ anzi
penetrò nello stesso regno di Napoli , massimamenle pei soldati
tedeschi del re cattolico di Spagna, dopo il sacco dato a Roma nel
4527 (1). Ivi il Valdesio, Flaminio, Martire, Ochino, Curione, nel
1530-50, osavano professare le loro dottrine antiromane. I Valdesi
delle Calabrie credettero esser giunto il momento di non più celare
il culto per essi professato. 11 barba Egidio Gillio che poco dopò
tal tempo era stato a visitarli, li consigliò di continuare a praticare
il loro culto con circospezione; ma quando egli fu partito,
gl'impazienti fecero rigettare questo suo prudente avviso, ed i
religionarii , ma specialmente quelli di Guardia (2), mandarono
tosto certo Marco Usegli , calabro-valdese , a Ginevra (giacché i
Valdesi avevano abbracciate le dottrine di Calvino) per avere pa-
stori; ed in questa Roma del calvinismo si diressero nel 1630 gli
stessi Valdesi del Piemonte per ottenere pastori onde surrogare i
quattordici spenti dalla terribil peste che in quell'anno desolò queste
contrade. Di là non si mandarono miga ai Calvinisti nel reame di
Napoli pastori ginevrini, sibbene, perchè li sapevano piemontesi,
vi mandarono due pastori piemontesi , cioè certo Luigi Pasquale
di Cuneo, già soldato nelle truppe ducali di Savoia e che aveva ab-
bracciato la riforma di Calvino, e Giacomo Bovetto (3).
Intanto i Valdesi del Principato e della Calabria, vieppiù animati
dai progressi che udivano farsi dal protestantismo nel reame e fuori,
osarono aprir tempii pel loro culto, e giunto Paquale a San Sisto
non il Bovetto (che, s'ignora il motivo, si recò a vece a Messina, ove
(1) Boehmer nelle Note a, Le centodieci divine considerazioni di Giovanni
Valdesso. Halle, 1862, p. 538.
(2) Compendio dell'istoria del regno di Napoli, per Collenuccio, Roseo e
Costo. Napoli, 1771, T. Ili, p. 209. Costo Ivi dice che si mandarono
quattro dei capi calabro-valdesi a Ginevra, Gilio a vece nomina solo
rUsegli.
(3) Mori and {History of the evangelical Churches of the Volley s ofPied'
moni, Londra 1658), seguito in ciò da Leger (op. cit., p. 204), dice che si
mandò col Pascal Stefano Negrino a Montalto e S. Sisto, ma Gilio dice
<5he il Negrino di Bobi era stato mandato prima a surrogare il suo avolo
Egidio, e nomina a vece il Bovetto. Meille in un suo articolo inserito nella
Revue Suisse, T. ii, p. 691, Losanna 1839, sull'autorità di uno scrittore del
Cantone de'Grigioni, dice che Pasquale parti con un altro pastore e quattro
maestri di scuola. Però Summonte, Dell'istoria della città e regno di Napoli,
ivi, 1675, p, 339; Porrino, Teatro eroico-politico de'Goì^eimi de' Vice-Re del
Regno di Napoli, ivi, 1770, T. i, p. 169; e Pacca nel Compendio delVistoria
del Regno di Napoli, ivi, 1771, a p. 209, dicono soltanto due pastori.
COLONIA PIEMONTBSB IN CALABRIA 171
fa posto a morte come eretico), si diede a predicare le dottrine di
Calvino, non con la pacatezza di prudente pastore, ma colla foga
di un missionario neoflto (1). Da San Sisto andò a Guardia ed ivi
del pari si pose a fare pubblica propaganda di calvinismo.
Giunti a quest'epoca non fanno più difetto gli storici napoletani
e da essi come del luogo, e perchè cattolici, trarremo il racconto,
e non da quelli delle Valli piemontesi, che per essere protestanti a
molti sarebbero sospetti, sebbene ingiustamente.
Inteso delle predicazioni di Pasquale in Guardia certo Gian An-
tonio Anania Cappellano, confessore e maestro delle dame, in casa
del feudatario cav. Salvadore Spinelli, march. Fuscaldo, egli si fece
sollecito (come riferisce il padre Fiore calabrese (2) ed è quasi co-
piato alla lettera da Giannone) (3) a scriverne al cardinale Ghislieri,
. detto l'Alessandrino, perchè di Bosco presso ad Alessandria in Pie-
monte, che fu poscia Papa col nome di Pio V., ed era in allora
niente meno che inquisitore generale. Egli n'ebbe per risposta Tin-
carico di lasciare ogni altro impiego, per tutto dedicarsi ad estirpare
l'eresie, unendosi per ciò con gesuiti. Lieto della missione, D. A-
nania ed i gesuiti si diedero a predicare con tutto lo zelo, ma nulla
conseguendo colle polemiche dommatiche, minacciarono dal pul-
pito l'intervento repressivo del braccio secolare, il perchè que'Val-
desi cominciarono a levarsi a tumulto ; citati nauti i giudici laicali
ed ecclesiastici, non comparvero, e per sottrarsi alle pene incorse
dalla contumacia, alcuni gittaronsi alla campagna (4).
il marchese Spinelli allora ricorse al Vice-re Duca di Alcalà
spagnuolo, il quale non volendo, nel fervore di distruggere l'eresia
e gli eresiarchi, lasciarsi superare dal suo concittadino il Duca
d'Alba, che governava le Fiandre in nome dello stesso re Filippo II
di Spagna, ch'aveva nel 1558 ordinato fosse dannato a morte
chiunque vendesse o comprasse libri proibiti (5), spedi immanti-
nenti sul luogo Annibale Moles, giudice di Vicaria per costringerli
a rinnegare l'eresia. I Valdesi, sapendosi innocenti di ogni colpa
contro la fede dovuta al sovrano, e contro le leggi civili, opposero,
nella coscienza del loro diritto, resistenza alla pubblica forza. Da
questa soprafatti quelli del Principato, ripararono per le dense selve
dell'Apennino, ed alcuni si gittarono in Guardia che, per essere
cinta di mura, posta sur un'altezza e circondata da due corsi d'acqua
(1) Porrino, op. cit., p. 169.
(2) Calabria illuslrata. Napoli, 1691, p. 83. '
(3) Storia civile del Regno di Napoli, Lib. xxxii, Gap. v, § 11.
(4) Pacca, note al Compend. delVist. di Napoli già citata, T. in, p. 208.
(5) Prescolt, Histoire du Hègne de Philippe II, Iraduit de l'auglais par
Renson et Ithier. Bruxelles. T. ii, p. 54.
172 BIYISTA CONTEMPOBÀNRÀ
pareva potesse offrir loro agevolmente modo dì difesa, e porli cosi
in tempo di ricorrere al trono regale, onde ottenere facoltà di poter
seguire il proprio culto, che non era già la nuova eresia di Lutero,
ma la fede evangelica a quella di più secoli anteriore.
Il marchese Spinelli, scorgendo raccogliersi in un comune dei
suoi feudi i religionarii discacciati d'altrove dalle truppe regie, non
volle aspettar queste per isnidarli, onde cosi farsi un titolo di be-
nemerenza presso il fanatico e sanguinario Vice-re, ma prevedendo
che 4^>i pochi uomini d'arme di cui poteva disporre, non avrebbe
potuto impadronirsi di Guardia, s'appigliò ad un cosi detto strata-
gemma, ma meglio direbbesi gesuitico ed infame tranello. Eccone
il racconto quale dato da Tommaso Costo, autore che non può es-
sere sospetto ai lettori cattolici i più intolleranti.
e Lo tinelli considerando quella terra (Guardia) essere in <
luogo alto e fortissimo, onde avrebbe avuto troppo che fare a vin-
cerla colla forza, pensò di usare in vece di essa un inganno^ e fece
in cotal modo. Prese cinquanta uomini di Fiscaldo, suoi vassalli,
dei quali si fidava assai, e sotto nome di delinquenti, li mandò alla
Guardia, come in prigionia sicura^ e mandò con essi quasi guardiani
cinquanta altri giovani tutti armati segretamente di archibugietti a
ruota. Costoro entrati nella Guardia senza verun contrasto^ se ne
impadronirono, e delle catene de' lor compagni incatenarono i
principali della terra ; il che fatto, con un tiro d'archibugione av-
visarono Io Spinello, che ciò attendeva in luogo vicino con trecento
altri armati. Andatovi adunque con essi, prese prigioni tutti i ri-
manenti terrazzani, che dati in balia della corte, furono tutti chi
scannati, qual segato per mezzo e qual'altro buttato giù da un al-
tissimo balzo fatti crudelmente, ma meritevolmente morire. Stra-
nissima cosa a udire, fu l'ostinazione di coloro che mentre il padre
vedeva dar morte al figliuolo^ ed il figliuolo al padre, non pure non
mostravano dolore, ma lietamente dicevano che sarebbero angeK
di Dio, tanto il diavolo a cui si erano dati in preda gli aveva
acceccati» (1).
Questa narrazione che termina con vilmente improperare ai
martiri di una religione che quei Valdesi avevano per vera, ci di-
pinge tali crudeltà da far inorridire, eppure vi hanno di molti fa-
resti cattotiei, eome^ a mo' d'esempio, gli scrittori della Civiltà
Cattolica^ dell' Armonia^ dello Stendardo in Italiay e del Monde in
Francia, che rimpiangono quei tempi, e non solo fanno voti, ma
cospirano onde ricopiarne le sevizie per ricondurre il cattolicismo
all'aurea purezza di cui godeva quando si svenavano gli Albigesi a
(1) Compendio citato^ nella nota (41), p. 210.
COLONU PIBtfONTBSB IN GALABBU 173
Beziers, si rivocava Tedilto di Nantes e 8i accendevano i roghi in
lepagna per ispegnere nelle fiamme maomettani ed ebrei.
A maggior edificazione di questa mala genia di fanatici della
intolleranza cattolica, vogliamo ancora riprodurre tre documenti
sincroni della strage di que' Valdesi. Essi furono in parte già pub-
blicati dal Pianta, da cui li copiarono Mac-Crie (1) e Monastier (2).
Essendo tutti e tre scrittori protestanti, si poterono asserire apocrifi.
L'egregio bibliotecario cav. Palermo li diede nuovamente in luce
copiati fedelmente dagli originali, esistenti nell'Archivio mediceo
carteggio di Napoli (3), epperò non è più dubbia l'autenticità. Eccoli
per intiero, stante la somma importanza di queste tre lettere, ad og-
getto di mostrare l'origine e lo sterminio delle colonie piemontesi in
Calabria, una eccettuata. -^ Questi documenti datici da un biblio-
tecario egregio, cattolico, e stati editi in Toscana anteriormente al
i848, ci disposano dal riprodurre la lettera in data del 37 giugno
1561, del padre inquisitore Luigi Dappiano al cardinale Ghislieri
che dà pure parecchi particolari; ma edita dal Gillo (4), scrittore
protestante, dai gesuitanti non vi si presterebbe fede.
Lettera i.
S'intende come il signor Ascanio per ordine del signor Viceré
era sforzato a partire in poste alli 29 del passato per Calabria, per
conto di quelle due terre de' Luterani, che si erano date fuori alla
campagna ; cioè San Sisto e Guardia. Sua Signoria a Cosenza al
primo del presente ritrovò il Signor Marchese di Buccianico suo
cognato, che era all'ordine con più 600 fanti e cento cavalli, per
ritornare a uscir di nuovo in campagna, e quella fare scorrere, e
pigliare queste maledette genti: e cosi parti alli 5 alla volta ddla
Guardia, e giunto quivi, fecero commissarii et inviò auditori con
gente per le terre circonvicine a prender questi Luterani. Dalli quali
è stata usata tal diligenzia, che una parte presero alla campagna;
e molti altri, tra uomini e donne, che si sono venuti a presentare,
passano il numero di 1400; et oggi, che è il di del Corpo di Cristo,
ha fatte quelle giuntar tutte insieme, e le ha fatte coadur prigioni
qui in Mont Alto, dove al presente si ritrovano: e dimandar mise-
ricordia, dicendo che sono stati ingannati dal diavolo ; e dicono
(1) Op. cit. a noia (3).
(2) Hisioire de TEglise vatidoise, deputs son origine^ et dei Vaudois duPié'
mont. Tolosa, 1847, T.
(3) Archivio storico italiano (del Vie usseux), Firenze , 1849, T. ix, p. 193,
(4) Op. cit., p. 182.
174 RIVISTA CONTBMPOKÀNEA
molte allre parole degne di compassione* Con tutto ciò il signor
Marchese e il signor Ascanio hanno questa mattina, avanti che par-
tissero dalla Guardia, fatto dar fuoco a tutte le case; e avanti ave-
vano fatto smantellare quella, e tagliare le vigne: ora resta a far
giustizia, la quale, per quanto hanno appuntato questi signori con
gli auditori, e fra Valerio qua inquisitore, sarà tremenda; atteso
vogliono far condur di questi uomini, et anco delle donne, fino al
principio di Calabria, e fino alli confini, e di passo in passo farli
impiccare.
Certo, che se Dio per sua misericordia non muove Sua Santità
a compassione, il signor Marchese et il signor Ascanio ne faranno
di loro gran giustìzia, se non verrà ad ambi due comandato altro
da chi può lur comandare.
La prima volta che usci il signor Marchese, fece abbruciar San
Sisto, e prese certi nomini della Guardia del suddetto luogo, che
si ritrovarono alla morte di Castagneta^ e quelli fece impiccar, e
buttar per le torri al numero di 60: sicché ho speranza che avanti
che passino otto giorni^ si sarà dato ordine e fine a questo negozio,
e se ne verranno a Napoli.
Di Monf Alto alli 5 di giugno 4561.
Lettera 2.
Fino a quest'ora s'è scritto quanto giornalmente di qua è pas-
sato circa a questi eretici. Ora occorre dir come oggi a buon' ora
si è ricominciato a far l'orrenda iustizia di questi Luterani, che solo
in pensarvi è spaventevole : e cosi sono questi tali come una morte
di castrati; li quali erano tutti serrati in una casa, e veniva il boia
e lì pigliava a uno a uno, e gli legava una benda avanti agli occhi,
e poi lo menava in un laogo spazioso poco distante da quella casa,
e Io faceva inginocchiare, è con un coltello gli tagliava la gola^ e
Io lasciava cosi: dipoi pigliava quella benda cosi insanguinata, e col
coltello sanguinato ritornava pigliar l'altro, e faceva il simile. Ha
seguito quest'ordine fino al numero di 88; il quale spettacolo quanto
sia stato compassionevole lo lascio pensare e considerare a voi. I
vecchi vanno a morire allegri, e gli giovani vanno più impauriti.
Si è dato l'ordine, e già sono qua le carra, e tutti si squarteranno,
e si metteranno di mano in mano per tutta la strada che fa il pro-
caccio fino ai confini della Calabria ; se il Papa ed il signor Viceré
non comanderà al signor Marchese che levi mano. Tuttavia fa dar
della corda agli altri, e fa un numero per poter poi far del resto.
Si è dato ordine far venir oggi cento donne delle più vecchie, e
COLONIA PIEMONTESE IN CALABRIA 175
quelle far tormentare, e poi farle giustiziar ancor loro, per poter
far la mistura perfetta. Ve ne sono sette che non vogliono vedere
il Crocifisso, né si vogliono confessare, i quali si abbrucieranno vivi.
Di Moni' Allo, alli 41 di giugno 1564.
Lettera 3.
Ora essendo qui in Mont' Alto alla persecuzione di questi eretici
della Guardia Fiscalda, e Casal di San Sisto, contro gli quali in un-
dici giorni si è fatta esecuzione di 2000 anime; e ne sono prigioni
1600 condennatì ; et è seguita la giustizia di cento e più ammazzati
in campagna, trovali con Tarme circa quaranta, e raltri tutti in
disperazione a quattro e a cinque: brugiate Tuna e l'altra terra, e
fatte tagliar molte possessioni.
Questi eretici portano origine dalle montagne d'Agrogna nel
principato di Savoia, e qui si chiamano gli Oltramontani : e'regnava
fra questi il crescitey come hanno confessato molli. Et in questo
Regno ve ne restano quattro altri luoghi in diverse provincie: però
non si sa che vivin male. Sono genti semplici et ignoranti et uomini
di fuori, boari e zappatori ; et al morir si sono ridotti assai bene
alla religione, et alla obbedienza della Chiesa Romana.
Di Mont' Alto, alli 12 di giugno 1562.
Alcuni storici Valdesi e Napoletani come Collenuccio, Summonte,
Perrin, lones, ecc., hanno asserito che tutti quei coloni piemontesi
furono allora esterminati dalla soldatesca del Viceré e dei Vassalli
di Calabria e Principato. Dessi s'ingannarono. Le colonie olirà l'Ap-
pennino di Monlalto (1), Vollurara e S. Sisto, cioè quelle nel Prin-
cipato furono spente di fatto (sebbene dagli storici si taccia se
siano 0 no stati dai feudatarii signori dei luoghi sagrificati e
martoriati come dal Marchese Spinelli), ma quello di Guardia sop-
pravisse. Didatti si fece grazia della vita, al dire di Costo (2), a
quelli di Castelluccio, Faito, Celle e di Monteleene, grazie al pie-
(1) Egli è certamente a quest*eccidio che Montalto come Rose dovet-
tero la soverchia diminuzione dei loro abitanti, attribuita al feudalismo
da Zuccagni Orlandini. Corografia fisica-storica-slatistica delVIialia, Fi-
renze, 1845, T. XI, Supplemento^ p. 290 e 293. — Notisi che, a ripopolare
i borghi di Montalto, Vaccarizzo e Volturara, si condussero coloni Alba-
nesi nella prima città siao dal 1580, degli altri non trovo la data: nel 1709
furono sollecitati a passare dal rito greco al latino. Rodotà, op. cit., T. 3,
pag. 72, 101, 102. .
(2) Compendio citato, p. 210,
176 BIVI8TÀ OONTBHPOBANRA
toso intervento del Vescovo di Bovino, perchè — non vi è dubbio —
abbracciarono la fede Cattolica-romana loro insegnata col capestro
e la mannaia, modo di propagandismo che non fu certamente quello
degli Apostoli, sibbene quello dei Papi diventati Principi temporali.
Nel 1560 secondo il citato Mac-Crie (1), quei coloni piemontesi a-
scendevano a quattro mila, da quanto si può dedurre dalle narra*
zioni della persecuzione da loro sofferta, una metà di essi furono
posti a morte ; non è detto quanti giunsero a tornare nelle Valli
Pinerolesi^ ma considerando l'operosità con cui i protestanti di
tutti i paesi mutuamente si soccorrevano e si aiutavano nelle
loro sventure, sono proclive a credere che alcuni abbiano potuto
pervenire a mettersi in salvo nelle Valli (2) ed eziandio nella
Svizzera , altri saranno miseramente periti errando pei boschi
delle inospiti balze degli Appennini, ove erano nascosti per scam-
pare dal ferro della soldatesca. I superstiti, perchè non ebbero il
coraggio di preferire il Cielo alla vita, come consiglia il Vangelo
(S. Matteo cap. X. v. 39), ottennero il perdono, abiurando la fede
avita, a condizione però di non più ammogliarsi fra loro (3). Seb-r
bene k) tacciano gli storici è certo che furono tutti, od almeno nella
loro grande maggioranza confinati in Guardia, giacché leggesi nel
Gilio (4) die duecento liberati a Montalto, nel Principato, feudo di
un altro Barone, furono mandati in luoghi vicini a Guardia, come a
Getraro e Fuscaldo. E veramente Guardia era rimasta affatto disa-
bitata, e in una località si può dire segregata, alle spalle ha monti
scoscesi, ove non vi sono paesi, il comune era murato cosi da po-
tersene chiudere le porte, e da Fuscaldo, come da Intronata è facile
respingere chi si attentasse uscirne. Di più il Viceré, non che Tin-
quisizione avevano acquistato prova come il marchese Spinelli
non si lasciasse muovere da sentimenti di misericordia vèrso
gli eretici, anzi provasse una voluttà nel farli scannare, forse egli
era ad un tempo terziario domenicano ed afiQgliato ai gesuiti. Dal-
l'altro lato ci pare che questi neofiti per violenza dovessero bramare
di trovarsi tutti raccolti insieme, e per sfuggire agli schemi dei
cattolici, per esonerarsi dallo spionaggio del clero , e sia infine
perchè essendo Guardia poco discosto dal mare, mentre Montalto
e le altre terre sovranominate ne sono assai discoste, ove mai si
fosse ripigliato a perseguitarli avevano una via di scampo pel mare
(1) Hiftoire du progrès , etc., p. 281.
(3) Toutesfois Dieu fit la grice à plusieur^ hommes et femmes, habillès
la plus part en hommes, d'arrÌTer à sauveté en la vallèe de Luserne , par-
tie au temps mdme de la persécution. Leger, op. cit., Parte ii, p. 19.
(3) Fiore, op. cit. 83 e Giannone, op. cit. e cap. cit.
(4) Op. cit., p. 182,
COLONIA PIBMONTSSB IN CALABRIA 177
onde torsi immedialamenle dalla soggezione del re di Spagna. Co-
munque poi la cosa sii avvenuta sta in fatto che di tutti i menzionati
paesi, solo le donne di Guardia hanno conservato fino ad oggi una
foggia particolare di vestire, hanno una breve sottana di panno rosso
colla vita dello stesso colore, ornato di gala parimenti rossa , con
maniche di velluto o di panno nero. In capo hanno cappelli intrec-
ciati con nastro rosso o nero, ed in questo caso come segno di lutto:
costumanze tutte che le vecchie persone di Val d'Angrogna ricor-
dano erano seguite nella loro fanciullezza, ma ora ite in disuso (i).
Sta in fatti che solo quei di Guardia nel circondario di Paola bauio
una favella dissomigliante dai vernacoli calabresi.
Questa circostanza diede luogo a varie opinioni sulla loro ori-
gine ne' secoli scorsi. Il Barrio li dice Oltramontani, e soggiunge
tu bilingues sunt ; nam suam et latina lingua uluntur (2). Giustiniani
il geografo li vuole Albanesi ! (S) Costo assevera che traggono orì-
gine dai Ginevrini (4). Summonte dice che alcuni derìvarono da
Ginevra e tace degli altri (5). Marafìotti sta contento allo scrivere:
€ Guardia abitata da gente oltramontana, stata ingannata da alcuni
Lombardi venuti d'oltre Po ; ragionano tra di loro nella propria
lingua, ma con noi altri ragionano in italiano (6). Giannone poi
dice che Guardia e vennero ad abitarla da oltre i monti, e parte di
Lombardia Valdesi ed Albigesi (7), per quantunque nulla induca a
credere che fra quegli emigranti si noverassero Albigesi, ch'erano
già stati pressoché tutti esterminati dopo la distruzione di Beziers
nel 1218, cioè 18 anni dopo la bolla pontificia che promosse la
Crociata contro questi eretici (8).
Da quanto abbiamo narrato, è facile di scorgere come inesatte
siano queste derivazioni; sqIo potrebbe sotto un aspetto giustificarsi
l'appellativo di Oltramontani, perchè non significò solo l'abitazione
oltre monti, ma eziandio eresiarca, e qui potrebbe esser presa in
questo senso, giacché lo storico d'Aubigny dice che gli eretici rice-
vevano i varii nomi di Valdesi, Albigesi, Ultramontani, Gioseffini,
Lollardi, Fraticelli, Piccardi, Lionesi^ Gazari, Patareni ed Aposto-
(1) Morelli, op. cit., p. 34, nota i.
(2) De antiquitaU et situ Calahrtce, ... cum notis Th, Aceti. Rem*, 1737,
pag. 80.
(3) Op. cit., ad voc.
(4) Op. cit., 339.
(5) Op. cit., 209.
(6) Croniche et antichità di Calabria, Padova, 1601, p. 273.
(7) Op. cit. Lib. xxxni, Cap. v, § ii.
(8) Morone. Dizionario di emdizione storico ecclesiasHca. Yenesia, 1850,
T. i. pag. 203.
JHvista C. — 12
178 RIVISTA CONTBMPORANBA
liei (1). Solo il Carnovale, storico sincrono a quell'eccidio, ne dà
Tesalla provenienza^ dicendoli Piemontesi (2). Peraltro^ che si sa-
pessero essere tali, è fatto evidente dal documento contemporaneo
pubblicato da Pianta^ non integralmente, Mac-Crie, Monastier, ed
integralmente dal cav. Palermo, e qui poco dianzi riferito, giacché
vi si legge : e questi Eretici portano origine dalle montagne di An-
grogna nel principato di Savoia, e qui si chiamano oltramontani».
Che se non è Angrogna in Savoia, si nel Principato di Piemonte,
vuoisi notare che nel secolo XVI quel Principato faceva parte della
Monarchia di Savoia^ il cui capo intitolavasi Duca, essendo noto che
solo alla pace di Utrecht assunse il titolo di Re di Sicilia (1713),
pel trattato di Londra, scambiato poscia in quello di Sarde-
gna (1718).
Che siano originarii dalle Alpi del Piemonte, si deduce oltre
alla accennata singoiar foggia di vestire delle donne, dallo avere
ogni casa un picciol orto chiuso tutt'intomo da siepe, coll'ingresso
munito di un rozzo cancello fatto di rami infitti orizzontalmente
nelle due aste verticali non alte un metro, come nelle montagne
piemontesi ; — dall'essere quegli abitanti nella gran maggioranza
di capelli e d'iride color castagno; dallo avere una carnagione più
colorita che quella dei Calabresi proprii, e di essere di questi più
attivi ed operosi, dimostrando cosi derivare da paesi di clima vigo-
roso, il quale sviluppa maggiormente il sistema nervoso. Colà le
donne^ come quelle delle Alpi piemontesi, vanno a spacciare la tela
e le trine che tessero durante la stagione invernale. Costumanza
non seguita dalle Calabresi. — La persistenza delle costumanze,
come nota il De Goubineau (3), è un essenziale carattere etnologico.
Cosi l'uso ch'è in Normandia e non nelle altre provincie francesi
di circondare di faggi e d'olmi le case rurali, attesta l'origine scan-
dinava di quella popolazione (4). ^
Ma se queste rassomiglianze di costumi e dì sembianze potevan
constatarsi soltanto dai pochissimi che visitarono per caso quelle
due cosi distanti regioni, ben si poteva, togliendo ad esame il ver-
nacolo di Guardia, scovrire Torigine di quegli abitanti. A ciò non
posero mente i numerosi filologi della Calabria, ed è l'assunto prin-
cipale che mi proposi nel dettare questo studio etnologico. Bene il
Morelli nel suo opuscolo già citato (5), asserì che malgrado un tal
tassodi tempo « pure continuano a conservare il loro dialetto patrio,
(1) Citato da Léger a p. 19, Parte i.
(2) Bistorta et descrittione del Regno di Sicilia, Napoli, 1591 in 4«.
(3) Essai sur l'inégalité dei races humaines, Parigi 1855,, t. Ili, p. 1851.
(4) Qavel. Les races humaines, Parigi 1860, p. 309.
(5) Prefaz., p. 31.
COLONIA PISMONTBSB IN CALABBIA 179
pronunziando moUissime parole francesi frammiste alle italiane »
e su 34 che riporta, sole tre sono francesi, e di queste tre ne ha sba-
gliate due. Le altre SI sono omofone ai dialetti valdesi i quali non
sono dialetti francesi, discostandosi assai da essi , sibbene parlari
quasi identici all'antica lingua de'trovatori (1). Ma non è nei voca-
boli che consiste il carattere di una favella , si nell'organismo,
cioè nella grammatica. Il russo aperse l'adito a tutte le voci di lin-
gue straniere, ma però è rimasto russo. Il turco fu compenetrato di
voci arabe adiismisura, ma per aver conservato il suo edificio gram-
maticale è sempre una lingua tatara. Che più? nell'inglese i voca-
boli normanni superano in numero gli Anglo-Sassoni; per siffatta
intrusione di un elemento straniero, pati di molto nella gramma-
tica, avendo perduto le desinenze nella declinazione de' nomi e
nella coniugazione dei verbi, ma non diventò una lingua neo-latina.
Sebbene tra l'italiano e l'antico provenzale^ lingua spenta, molta
fosse la somiglianza, attalchè Raynouard (2) e dopo lui Perticari (3)
pretesero quella, figlia di questa, il che fu provato insussistente
da Lewis, Diez, Fauriel^ Galvani^ Bruce-White, Schlegel, e per ul-
timo Max Muller (4), però le differenze, per quantunque siano
piccole, le costituiscono lingue separate. A quel modo che le lingue
eulte determinano le nazioni, i dialetti indicano le tribù, clans
eco, cioè le frazioni, o, direm meglio, suddivisioni delle nazionalità.
Se ramtico provenzale, lingua letteraria, opperò convenzio-
nale (5)^ avesse potuto sopravivere allo stato di lingua eulta, i [io-
poli di Catalogna, Valenza,. Murcia ed Isole baleari, della Francia
olire la Loira, e dell'ItaUa già Gallia cisalpina, sarebbero di nazio-
nalità provenzale, e per tali li considerò ancora il Fuchs (6). Spenta
quella lingua per la perduta indipendenza politica, i popoli suddetti,
in vista della molla relazione tra l'antico provenzale ad occidente
collo spagnuolo^ nel centro col francese, e ad oriente coU'italiano,
divennero frazioni delle nazioni spagnuola, francese ed italiana, ed
(1) Diez, La poesie des troubadours, traduzione da] tedesco di De Roisin.
Parigi, 1845, p. 232. Muston, op. cit., T. iv, p. 92. Perticari esaminando
il noto poema la Nobla Leyczon, trattato religioso dei Valdesi, scritto nel
secolo XII, dice: « Questa è lingua italica del duecento, tutta simile alla
romana del cento t. DelV amor patrio di Dante e del suo libro intomo al voi--
gare eloquio , Parte n, Cap. xvj.
(2) Choix des poisies originales des troubadours, T. vi. Grammaire com.
parie, Parigi, 1821.
(3) Op. cit.. Parte ii.
(4) The science of language, Londra, 1861, p. 163.
(5) Milà-y-Fontasals, De los trovadores en Esparia, Barcellona, 1861, p. 15.
De Laveleye, Histoire de la langue et de la littérature proveti^ale, Bruxelles,
1845, pag. 57.
(€^ Die romanischen sprachen. Halle 1849. F. Karte von Fischer.
180 RIVISTA CONTBMPOBANBA
Ugual sorle si ebbero i loro vernacoli. Diventarono dialetti di quelle
lingue (1).
Dal sovra esposto, rimane evidente che non si può dire francese
il dialetto di Guardia; che gli esempi riferiti dal Morelli per ciò
dimosti^re, non calzano, massimamente perchè non dal confronto
meramente glottico si desume la figliazione e fratellanza delle
lingue, si specialmente da quello grammaticale.
Allorquando una colonia parla un idioma di carattere affatto
diverso da quello usato dalla nazione fra cui vive, questo meno si
guasta dal continuato secolare contatto, perdio gli organismi delie
rispettive lingue sì contrastano ed impediscono l'amalgama di forme
diverse. Cosi p. e. i Baschi nella Spagna e nella Francia, gli Albanesi
nell'Italia australe, i Tedeschi dei VII e XllI comuni nel Veronese
e nel Vicentino, i Normanni nell'Yersey hanno potuto conservare
meno corrotta la propria favella; ma quando una colonia parla un
dialetto di lingua alfine a quella della nazione fra coi si recò a
vivere, per la somiglianza organica delle loro favelle, il vernacolo
dei coloni è più agevolmente trasformato. Da ciò lo avere nella
Danimarca il frisone assunto caratteri Danesi e nella Gronfinga ca-
ratteri olandesi ; per ciò il ruteno o malopusso a Leopoli si è polo-
nizzato mentre si è russificato a Kiow e Zy tornir; e per prendere
esempi nelle favelle neo-latine, il genovese parlato da una colonia
a Mons, dipartimento del Varo , ed un dialetto occitanici) parlato
nelle montagne del Morvand, regione della lingua d'OiI (2), sljn-
bastardirono al contatto di parlari della stessa famiglia.
Ciò volemmo premettere acciò non si facciano le meravigliente
quei di Guardia hanùo, mi si conceda l'espressione, calabrizzalo il
loro vernacolo; e come potevano conservarlo intatto essendo co-
stretti a parlare calabrese cogli abitanti di tutti i paesi vicini? Come,
se era vietato di accasarsi tra loro, ma dovevano unirsi con cala-
brese come narrammo qui sopra? eppure ad onta di tutto ciò soffri
solo alcune intrusioni di vocaboli, tenne la re desinenziale degl'in-
finiti deiverbi, la mutazione in e dolce della bilettera pi latina come
nel genovese, nel napoletano e ne) portoghese, e la pluralizzazione
assunse talvolta la vocale eufonica; ma i verbi come nei dialetti
chiamati dall'egregio mio amico il cav. Biondelli gallo-italici (3),
non hanno preterito definito imperfetto; peraltro a vece di com-
porlo come il perfetto indefinito usa il presente d'andare coU'infi-
(1) Vegezzi-Ruscalla, Della nazionalità di Nizza. Torino, 1860, p. 19, e
Diritto e necessità di abrogare il francese come lingua ufficiale in alcune t>alli
della provincia di Torino. Ivi, 1861, p. 22.
(2) De Gembloux Histoire littéraire,,. des Palois. Parigi, 1841, p. 19,
(3) Saggio sui dialetti gallo^italici, Milano, 1853,
COLONIA PIBMONTBSE IN CALABRIA l8l
Dito del verbo sostantivo. Il v^nacolo di Guardia rigetta parimenti
la desinenza lo Dei partìcipii , come i dialetti dell'alta Italia. La
negazione come nelle lingue germaniche viene dopo il verbo ,
quindi non dice: io non voglio^ ma mi vegi pa: Ich will nicht. Il
francese avece pone il verbo in mezzo a due negative : Je ne
veux pas.
Un'osservazione fonetica qui occorre, la quale afforza la teoria
dell'egregio Sckleicher e di S. A. I. il principe Luigi Luciano
Bonaparte (i). Si è l'azione del ietacismo che a quel modo ch'agi
nel calabrese operò nel vernacolo di Guardia. El provenzale antico,
diventò je^f, essejesserSy ìuru liuru, entre jentrCy jeure da eure
(ora) ecc. (2).
Cosi vediamo che il presente del verbo bUi (essere) russo, esmi,
esiy este diventò in illirico j'e^om, je$i,jest ecc., e in polacco jsem,
j$i, jest; zemUaTQSso fatto in polacco ziemlia ecc., ed in Bucuresci
alla pronunzia lo stesso verbo sostantivo offre uguale jelacisroo, per
cui il YaiHant (3) scrisse, non secondo la lingua eulta , ma della
plebe, iestijjeste per sei ed è, e jeram, jerai, jera, jeram, jeraizi,
jera, era, eri ecc., a vece di e$ti, este ; eramu, crai, era, eramu, ecc.
Un'altra osservazione si è di trasformare, come nei dialetti ca-
labrese, di Sicilia, NapoU e Genova e come nella lingua portoghese,
la pi latina innanzi, in e dolce, dicendosi cchiù per più.
Premesse queste poche osservazioni. sulle alterazioni patite dal
vernacolo d'Angrogna, passando alla Guardia, porgeremo ora un
elenco di alquanti sostantivi accompagnati da pronomi o da tempi
di verbi col confronto del dialetto delle Valli o d'Angrogna, o di
S. Martino Porosa, per mostrare come abbia conservato il dialetto
di Guardia l'impronta della sua derivazione dal provenzale antico,
cui sono ancora somigliantissimi i dialetti delle regioni elevate
delle terre valdesi. Essi basterebbero a provare l'essere quei di
. Guardia origiaarii dalle valli di Pinerolo.
Italiano Dialetto di Guardia d'Angrogna di Cosenza
Mio padre Mon paìre Mon paire Patrima
Mia madre Ma maire Ma maire Mammama
Mio avo Mon Donn Mon Donn Nannuma
(1) Zur vergleichende sprachengeschichte. Bonn, 1848. Il Vangelo di
s. Matteo volgarizzato in dialetto... cosentino... con alcune osservazioni
Sul permiUamento delle vocali, del principe L. L. Bonaparte. Londra 1862.
(2) Il dialetto friulano offre uguali esempi di jetacismo: essere, era, di-
ventano yem.ycre; difetto, erba, mezzo, vedendo, sono modificati in dtfieto,
jerbui miexXf viodind, ecc.
(3) Orammaire roumane, Bukarest, 1840, p. 50 e 53.
182
Mia ava
Tuo zio
Tua zia
Suo fratello
Sua sorella
Tuo nipote
Tua nipote
Mio suocero
Mia suocera
n cappello
n berrettino
La camicioletta
La scarpa
Le calzette
n treppiede
La caldaia
La padella
Il cucchiaio
La forbice
L'ago
Il ditale
L'acqua
La pera
Il sole
Le orecchie
Il naso
La ginocchia
Il piede
La chioccia
n porco
Il bove
L'asina
Il cane
La cagna
La gatta
n corvo
La capra
Avete pranzato?
Avete cenato?
Vieni qua
Venite^qiaa
Io non ho
Tu non hai
BIVISTA CONTEMPOBANBA
Ma gnogna
Ton barba
Tadant
Son fraire
Sa sorr
Ton nibù
Ta nessa
Mon siòre
Ma madona
Lù ciappel
La cùpalingh
La gipptingh
Lù cioussère
LO cotlssiet
Lù triesp
La peiloro
La pella
La chigliere
La tesuira
La ghiuglia
La diale
L'aiga
La prùss
La soleglie
Le oreglie
La na
Le ginuglie
Lapo
La chias
La pierch
La biuv
La ross
La vess
La vessa
La ciatta
La cuvrass
La ciabra
Vi se'disnà?
Vi se'sinà?
Vengh eissl
Vene eissl
Mi n'aju pa
Ta n'a pa
Ma nonna
Ton barba
Ta dant
Son fraire
Sa sorr
Ton nebu
Ta nessa
Mon messer
Ma madona
Lu ciappel
Lu ciapelin
Lu gippun
Lu ciausser
La ciaussa
Lu treipé
Lu peirOl
La peila
Lu cuglier
La tesoira
La ghiuglia
Lu diale
L'aiga
Lu prass
Lu soleglie
Le oreglie
Lu na
Le ginuglie
Lu pè
La ciuss
Lu pierch
Lu biuv
La rossa
Lu vess
La vessa
La ciatta
Lu curbass
La ciabra
Ve seu disnà?
Ve seu sinà?
Ven aissì
Vene aissl
Mi n'ai pa
Tln'as a
Nannama
Ziuma
Ziama
Frate sue
Suoru sua
Neputìta
Id.
Suocruma
Socrama
Lu capiellu
Lu cuoppulino
La camisola
La scarpa
Lecazette
Lu tripìdo
La cuadara
La fresstira
Lu cucciaru
La fuorfice
L'agucchia (l'acu)
Lu jiritale
L'acqua
Lu piru
Lu sule
Le ricchie
Lu nasu
Le jinocchia
Lu pede
La hhjuocca
Lu puorcu
Lu vue
La ciuccia
Lu cane
La cane
La gatta
Lu cuorvu
La crapa
Aviti manciatu?
Aviti cenatu?
Vieni ccà
Veniti ccà
Io non tiegnu
Tu non hai
COLONIA PIBMONTBSR !N CALABRIA
183
Quello non ha
Volete questo?
Io ebbi
Io ho avuto
Io fui
Sono stato ricco
Io non voglio
Io non ne voglio
Jell gn'a pa
Vole' Isongh?
Hi vau avere
Mij'ai ajù
Mi vo jessere
Mi ssù sta ricch
Mi vegl pa
Mi ne v5gl pa
Chel a n'a pa
Vole' ison?
Mi vau aver
Mi ai agù
Siù ita
Siù ita ricch
Mi vOj pa
Mi na vdj pa
Ghillu non ha
Vuliti chistu?
Io ebbi
Io haju avutu
Io fuessi
Signu statu riccu
Io nun vuogliu
Io non ni vuoglio
Ma una pruova ancora più conchiudente e più evidente si avrà
nella versione che offriamo ai nostri lettori della ben nota parabola
del Figliuol Prodigo. Le ragioni che mi Tecero prescegliere questo
testo» malgrado le ripetizioni di vocaboli che presenta, già le ho
fatte conoscere nel già citato mio opuscolo : StUla nazionalità di
Nizza (1), la cili prima pubblicazione fu appunto in questa Rivista
Contemporanea (ottobre 1859), è quindi superfluo. ridirle; ram-
menterò soltanto che avendosi questa parabola voltata in 85 dialetti
francesi, 91 dell'alta Italia ed in 71 svizzeri ; cioè tedeschi, romandi,
italici e romanci, sarà a tutti agevole l'istituire paragoni con quelli.
Di presente ne basta che si noti come l'amalgama di voci, verbi e
desinenze Calabre, abbia imbastardito non scancellato il carat-
tere originale del vernacolo di Guardia. La traduzione a fronte nel
vernacolo d'Angrogna fu condotta neirintendimento di mostrare la
rassomiglianza con quello di Guardia, il perchè si è adoperato nella
versione delle Valli Angrogna e S. Martino di esprimere il preterito
perfetto col verbo vaiy come è indole del vernacolo di Guardia,
mentre in quelli si usa di rado.
Non è mio assunto lo scendere a confronti gioitici e gram-
maticali tra il dialetto delle valli Pinerolesi, e l'antica lingua dei
trovatori, né ragionare delle alterazioni patite dal dialetto di quelle
Valli del secolo XIV in cui sono scrìtti i loro trattati dogmatici e
disciplinari pubblicati da Perrin, Leger, Monastier; Hahn ecc. Tra-
lascierò dal far osservare che spartirey spendù, mondiglia e più
altre voci non sono di quella, si analogie italiane. Succede lo stesso
in altri dialetti occitanici. Il Raynouard (2) facendo una rivista di
un Dizionario del dialetto Lemosino, cita più voci che sono in quello
e non nella lingua provenzale. Come la lingua de'trovatori non
dittongizza l'ó breve latino di porais; nello spagnuolo si muta in
uè; ma in questi due vernacoli del pari che in quelli di Valdieri,
Castelmagno, Elva ed Acceglio, nelle Alpi piemontesi, si dittongizza
in te.
(1) Torino 1860.
(2) Journal des Savants. Paris 1824; p. 174 80-96.
184 BIVISTA CONTBMPOKANKA
Scrivendosi a tanta distanza di paesi queste due versioni da per-
sone, ignorando rispettivamente Taltro vernacolo e coH'orecchio
assuefo a pronunzie diverse, non si è certamente potuto riprodurre
l'esatta fonologia, né seguire un uniforme sistema grafico. Vo-
lendo, per quanto era in noi, rimediare a quest'inevitabile diver-
genza, ci attenemmo al metodo seguito dall'egregio nostro amico
Biondelli (1), cioè dando alla u sempre il suono italiano , e se-
gnando Vu lombardo o francese con due punti , cosi ù come nel
tedesco. Anche il suono rappresentato dall'rà francese, segnammo
coll'd punteggiato tedesco ; cioè col raddolcimento della vocale pri-
mitiva, detto in tedesco umlaut^ e dal Benlòw deflessione (2).
Uno studio etnografico non è uno studio linguistico: oltrecchè
io non avrei la dottrina richiesta a scriverlo, le poche osservazioni
che ho qui esposte, credo siano sufficienti a dimostrar la speciale
natura del volgare di Guardia, per quali cagioiTi e come abbia
diversificato da quello della madre patria.
PAIABOIA DEL mimi PBODIGO
Vanoblo di 8. Luca, Cap. xv, vbbs. 11-32.
Tradotta dal testo italiano di Giovanni Diodati (A) — nel dialetto di Guardia dal Rev.
Cav. D. Luigi Vairo, parroco di Guardia (B) — in quello d'Angrogna e S. Mar-
tino, dal Rev. Jalla, pastore della Chiesa evangelica-valdese di Torino (C) —
in quello di Cosenza, dal sìg. N. N. (D).
V. 11.
A. Un'uomo avea due figliuoli.
B. In om a l'avia dù figli.
C. Un om s'avia dui filh.
D. *N omu avia dui figli.
V. 12.
A. E '1 più giovane di loro disse al padre, Padre, dammi la parte
de' beni che mi tocca. E '1 padre sparti loro i beni.
B. Lu msgù piocitt di liùra a vai dire a lù pa'ire. Palre dùnnemm
la ptlrsitin di li bengh chi m'attocc. E ÌH paire a gli vai spari
li bengh.
(1) Saggio sui Dialetti gallo-italici, cit. p. XXIX a XXXII.
(2) Aperta general de la science comparative des langues. Parigi
1858 p. 27.
COLONU PIBM0NTB8B IN CALABBIA 185
C. Lo maj picit de lur vai dire a lu pajre : Pajre dunname la pur-
Sion de li bengh che m'attoccia. E lu pajre lur vaj spartire
li bengh.
D. Lu cchiù giuvane d'iddi disse a lu patre.— Patre, dammi la parte
de li bieni chi me tocca. E lu patre li spartiu le rrope.
V. 13.
A. E pochi giorni appresso, il figliuol più giovane, raccolto ogni
cosa, se n'andò in viaggio in paese lontano : e quivi dissipò
le sue facoltà, vivendo dissolQtamente.
B. E pecchi giùrni apprè, lù figliù majù giùvin, riùnitogni cosa, si
ni vai annare in viegg in pajl lontanù, e eillaj a vai dissipa
le sue robbe, bi vivire dissQlùtament.
C. E poch gium appré, lu fili maj giuve, riunì tut, se ne vaj au-
nar en viagge en paj luntan ; e ejlaj vai dissipa sa robba, b6
viure dissuhitament.
D. B puecu juemi appriessu lu figliciellu, cchiù giuvane, ricota ogni
cosa, si nne jiu *mmiaggiu a nu paise luntanu. — E là dis-
sipau la rropa sua viviennu dissolutamente.
V. 14.
A. E, dopo ch'egli ebbe speso ogni cosa, una grave carestia venne
in quel paese ; tal ch'egli cominciò ad aver bisogno.
B. E cure jella s'avia spendù ogni cosa addùnch na grande care-
stia a vai venire en cheli pajl e jell a vai cominsà ad aver
bissognh.
C. E curo el ha agii spendù tuta cosa, una gran carestia s'en vai
venir en chel paj, e el vaj cumensà a aver besugn.
D. B dopu ch'iddu spised ogne ccosa 'na gran caristia vinned' a chillu
paise, de manera ch'illu cuminciau ad avire bisuognu.
V. 15.
A. Ed andò, e si mise con uno degli abitatori di quella contrada,
il qual lo mandò a' suoi campi, a pasturare ì porci.
B. E a vai partiri, e si vai chiava avùnd ignungh de chelli ch'abbi-
tavan en chella centra, lù quale a lù vai mand' a li campi seu
a paisser li pierchi.
C E vaj partir, e se vaj bùtar sub un de chelli ch'abifavan en
chella centra, lu qual lu vaj manda a li camp, a guvemar
li pierch.
D. E jiu, e li mise ccud'unu de l'abitanti de chilla cuntrada, chi lu
mannaud' alle campagne sue a pascere li puorci.
186 RIVISTA. OONTBMPOEANRA
V. 16.
A. Ed egli desiderava d'empiersi '1 corpo delle silique, che i porci
mangiavano: ma nimmo gliene dava.
B. E jell a dissidderava di s^accevattare lù corp de chelle mondiglie
di ligùmmi chi mingiavano li pierchi, ma gnungh i gnene
dava.
C. E el desiderava d*umplirse lu corp de chella mondiglia di legume
che mingiavan li pierch, e pa nùn gnene donava.
D. Ed illu desiderava de s'inchiere lu cuorpu de le cuorchiale chi
li puorci manciavanu ; ma nuUu li nne dava.
V. 17.
A. Or, ritornato a se medesimo, disse: Quanti mercenari! di mio
padre hanno del pane largamente, ed io mi muoio di fame!
B. Ma vignù jentra di sé a vai dire. Canti travagliatùri di mon paire
i gli anghj pangh abundansiiù, e mi, mi mierù di famm 1
C. Ma vignù ant sé, a vaj dire : Canti travagliur de mon paire j' ann
de pan fin ch*j volen, e mi, mi mdiru de &ml
D. Ora, faciennu judiziu disse : Quanti travagliatùri de patrimma
hannu pane in ahhunnanza, ed io mi muoru de fame !
V. 18.
A. Io mi leverò, e me n'andrò a mio padre, e gli dirò: Padre, io
ho peccato contr' al cielo, e davanti a te ;
B. Mi mi cacciti, e mi ni vaù avùnd mon paire , e gli vaù dire :
Paire, mi j ai picca cùntra a lù celù e d'annangh di tu ;
C. Mi vói leva, e me ne vau annar ub mon paire, e gli vau dire :
Paire, mi ai pecà centra al cel, e d'innant a tu ;
D. Mi vuogliu abbiare, e mmi nne vuogliu jire da patrimma , e li
vuogliu dire : Tata aju peccatu cuntra lu cielu e cuntra de tle.
V. 19.
A. E non son più degno d'esser chiamato tuo figliuolo : fammi come
uno de' tuoi mercenarii.
B. E mi su pa ciù dignù di jessere chiama ton figliù, famm jessere
com ignùngh de li travagliatùri teu.
C. E mi siu pa pi degne d'esser demanda ton filh ; fai me cum a un
de li teù travagliur.
D. Nun signu cchiù dignu d'essere chiamatu figliu tuo : tienimi
cum'unu de li travagliatùri tuì.
COLONIA PIBM0NTR8B IN CALABRIA 187
V. 20.
A. Egli adunque si levò, e venne a suo padre : ed essendo egli an-
cora lontano, suo padre lo vide, e n'ebbe pietà: e corse, e
. gli si gittò al collo, e lo baciò.
B. Ielle dùngh a si vai caccia e vai vinire avùnd son paire, e com
jera ancora Itlntanù, son paire lù vai veire, e ne vai avere
compassiùngh, e a vai cùrr e li si vai tapp* a la cpU, e lù
vai baiss.
C. El adunco se levò, e san vai venir ub son paire, e cum a Tero
tutio lontan, son paire lu ve, e n*en vai aver compassiung ;
e vai curre, e li se vai tappar al col, e lu vai balsar.
D. Illu addunca s'azau e bbinne duve lu patre ed essennu illu an-
cora luntanu, lu patre lu vitte, e nn' ebbe pietate, cursedi e
li si jettand' allu cuollu, lu vasau.
V. 21.
A. E '1 figliuolo gli disse : Padre, io ho peccato contr' al cielo e
davanti a te: e non son più degno d'esser chiamato tuo
figliuolo.
B. E Iti figlia a gli vai dire : Paire mi j ai picca cùntra la cela
e d'annangh a tu, e mi siju pa ciù degn di jesser chiama
ton figlia.
C. E lu filh gli vai dire : Paire, mi ai pecà centra al cel, e d'innant
a tu; e sin pa pi degne d'esser demanda ton filh.
D. E ru figliu li disse : Patre aju peccatu cuntra lu cielu ed avanti
de tie, e nun signu cchiù dignu d'jessere chiamatu figliu tuo.
V. 22.
A. Ma '1 padre disse a' suoi servitori: portate qua la più bella ve-
sta, e vestitelo, e mettetegli un anello in dito, e delle scarpe
ne' piedi ;
B. Ma la paire a vai dire a li servitari seu : Portensi eissi la vest
maj bella e vestensi-lu e chiavensi-lu 'n aneli a la di, e li
ciousseri a i pò.
C. Ma lu paire vai dire a li seu servitur : Portense ejsl la vesta mai
bella, e vesti-lu e butà-li un anel al dò, e li ciussier a li pè.
D. Ma lu patre dissed' alli servituri sui : Purtati ccà la cchiù bella
vesta e vestitilu e mintitili n'aniellu allu jiritu e le scarpe
alli piedi.
V. 23.
A. E menate fuori '1 vitello ingrassato, ed ammazzatelo : e mangiamo,
e rallegriamci :
188 BIVI8TA OONTBMPOBANBA
B. E portensi lù veli 'ngrassà e ammazzensì-lù, miDgengh e fà^engh
festa.
C. E porta ejsel lu veli 'ngrassà, e ammazzalu, e mìDgengh, e fa-
sengh lasta.
D. E purteti fora lu vitiellu 'ngrassatu ed ammazzatila : manciamu
ed allegramuasi.
V. 34.
A. Perciocché questo mio figliuolo era morto, ed ò tornato a vita:
era perduto, ed è stato ritrovato. E si misero a far gran festa.
B. Pirchì chistù mon figliù a Fera mort e vai torna a vitt, a l'era
pirdù e Tè sta ritrova. E si vangh chiava a fàire na gran
festa.
C. Perchè (^est mon filh era mort, e a l' ò toma a vita, era perdù,
e ò istà retrovà. E i se van bùtar a far dna gran festa.
D. Ppecchi stu figliu mio era muortu ed è tumatu mmita, era per-
dutu ed è statu truvatu. E si misun a fare gran festa.
V. 25.
A. Or il figliuol maggiore di esso era a' campi : e come egli se ne
veniva, essendo presso della casa, udì '1 concento e le danze.
B. Ma lù figliù maiù, grand di jell a l'era a li campi ; e comm'jell
e si ni vinia, e cure a l'era daprò la ca a vai judire lu cant
eli balli.
C. Ma lu filh mai grand d'el era a li camp, e cum a se n'en venia,
e cum a l'era dappè la ca, a vai uvi li cant e li bai.
D. Ora lu figliu cchiù granne erad' alli campi e cumu illu sinne
venia, stannu vicinu alla casa, sentiù li suoni e l'abballi.
V. 26.
A. E chiamato uno de' servitori , domandò che si volesser dire
quelle cose.
B. E vai chiamm' ignungh de li servitùri, e a vai dommand chi si
vùlesser dire chelle cose.
C. E a vai demanda un de li servitur, e li demanda che se volessen
dire chelle cose.
D. E chiamatu unu de li servitùri dimannau chi vulisseru dire
chille cose.
V. 27.
A. Ed egli gli disse: Il tuo fratello è venuto, e tuo padre ha am-
mazzato il vitello ingrassato : perciocché l'ha ricoverato sano
e salvo.
B. E cheli a gli vai dire: Ton fraire a l'è vignù, e ton paire gli
vai ammazza lu veli mai 'ngrassà pirchì l'a riciviù sand e
salvd.
COLONIA PIBMONTBSB IN GALABBIA 169
C. E «el gii di : Ton fraire è vegnti, e ton paire li vai ammazzar
lu veli mai 'ngrassà, perchè a l'ha recebii san e salv.
D. Ed illu li disse: Fratitta è vinutu e patritta had ammazzata In
vitiellu 'ngrassatu, ppecchi Tha ricuperata eanu e sarvu.
V. 28.
A. Ma egli s'adirò, e non volle entrare: laonde suo padre uscì, e
lo pregava d'entrare.
B. Ma jell a si vai addirari , e velia pa jentrà , ma lù paire a vai
sagli di fora, e lù vai prega di jentrari.
C. Ma el se bùtà en colera, e velia pa entrar; ma lu paire vai sagU
de fSra, e lu vai prejà d'intrar.
D. Ma illu si sdignau, e nu voze trasire perciò lu patre esciu e lu
pregava di trasire.
A. Ma egli, rispondendo, disse al padre : ficco, gik tanti sani io ti
servo, e non ho giammai trapassato alcun tuo comiuidafnento:
e pur giammai tu non m'hai dato un capretto, per ralle-
grarmi co' miei amici :
B. Ma jell a vai rispùnd a VX paire: Mi ti serv' da tant jaimi e mi
j'aiu &ttù seflipre so che mi j ai ditt, e pa mai m' avez dùnnà
un ciabrett pi mi rallegrari cu li meu eompagnungh.
C. l[a el reipund al paire: Mi te servo da tanti ann, e ai sempre
fait so che tu m'a dit, e vu m'avè pa mai donna Un eiabrett
per raUegrame ub mi compagnon.
D. Ma illu rispunniennu dissed' allu patre : Eccu, giÀ tant'anni io
ti siervu, e mai nud eju mancatu a nullu tuo cummannu,
e puru tu mai m* hai datu nu crapiettu pe' scialare ocu l'a-
mici mie.
V. 30.
A. Ma quando questo tuo figliuol , e' ha mangiati i tuoi beni con
le meretrici, è venuto, tu gli hai ammazzato il vitello ingrassato.
B. Ma eCire ehest ton figliù ca s'è mingià li bengh teu a bi li
mali fìmmini a Tè vignù, ta gli vai ammazza lù veli maitk
'ngrassà.
C. Ma cure chest ton filh, che s'è mingià li teu bengh ub la
maria fenna, e vegnù, tu li vai Itmmazzar lu veli mai 'ngrassà.
D. Ma quannu chistu figliu tuo, chi hamanciatu lerropetue culle
male fimmine , è venutu , tu 1* hai ammazzatu lu vitiellu
'ngrassatu,
190 B1VI8TA OONTBHPOEANBA
V. 31.
A. Ed egli gli disse: Figliuol, tu sei sempre meco, ed ogni cosa
mia è tua.
B. E jcU a vai dire: Figlio ti ti sii tuttavia avùnd mi, e ogni cosa
mia Tè la tua.
C. E el vai dire : Filh tu tu se tutia ub mi, e tuta cosa mia è tua.
D. Ed illu li disse : Figliu, tu si sempre ccu mie, ed ogni cosa mia
è la tua.
V. 32.
A. Or conveniva far festa, e rallegrarsi : perciocché questo tuo fra-
tello era morto, ed è tornato a vita : era perduto, ed è stato
ritrovato.
B. leùre convinia chesta danza e chesta festa , pirchl chest ton
fraire a Tera mort e Tè toma a vitt ; a l'era perdù, e s*è sta
ritrova.
C. Eùira convenia chesta danza e chesta festa, perchè chest ton
fraire era mort, e a Ve torna a vita ; a l'era perdù, e a le istà
retro va.
D. Ora s'avia de fare festa ed allegrarse , ppecchl chistu fratitta
era muertu ed è turnatu 'mmita, era perdutu ed è statu truvatu.
Chiuderemo quest'articolo facendo osservare una curiosa coin-
cidenza di nomi. Discendenti dai prischi Taurini, stanziati ai pie
delle Alpi Gozie, abitano oggidì sur un lembo marittimo del terri-
torio, che nell'età remote formava parte della repubblica Taurina.
Le persecuzioni religiose che insanguinarono gli ultimi secoli
dell'età di mezzo, furono causa di questa emigrazione, come furono
causa dello sterminio di parecchie di quelle colonie nei primi secoli
dell'evo moderno. Oggi in grazia del progresso dell'incivilimento,
eh 'è assai più umano di ciò che fosse il sentimento cattolico all'e-
poca della maggior potenza dei Papi, non si fa più strazio di coloro
che professano opposte credenze religiose (fatta astrazione del go-
verno pontifìcio, il quale è necessariamente intollerante). Soltanto
dal fanatico governo della Spagna, che rimane quasi stazionario
nell'universale incedere, si condannano alla galera coloro che leg-
gono la bibbia in volgare (1). Quindi quelli di Guardia nulla oggidì
(1) Nella Correspondencia de Madrid del 6 ottobre ultimo, è riferito che
il tribunale di Granata condannò losè Alhama Teva a 9 anni di carcere e
Manuel Matamoros ad 8 anni, entrambi alPinterdizione perpetua dei di-
ritti civili, per aver fatto pubblica professione di fede evangelica. Il fìsco
si appellò da questa sentenza come troppo mite ! !
COLONIA PIBMONTBSB IN CALABRIA 191
hanno a temere, tornando a stringere amichevoli relazioni coi pie -
raontesi abitanti nella madre patria, sebbene quelli siano ferventi
cattolici, e questi zelanti evangelici. Le differenze di culto non de-
vono dividerci. Tutta Italia in oggi aspira, all'unita, e dal Monte-
bianco al Capo Passaro, dal Brennero al Capo Teulada, qualsiasi
culto professino, qualsiasi lingua parlino, qualsiasi la plaga che
abitano, e quale il governo che li regge, tutti sono fratelli, tutti
italiani.-
G. Vbgezzi-Ruscalla.
APPENDICE
DIPLOMI (ÌDediti) Di RR CARLO DANGIO'
cavati dai registri angioini che si conservano nel grand' archivio di Napoli.
I.
Scriptum est comitibus, marchionibus, baronibus, potestatibus,
consulibus civitatum et villarum, comitatibus ac omnibus alila po-
testatem et jurisdictionem habentibus et aliis amicis et fidis suis, ad
quos presentes (sic) lictere (sic) pervenerint. Sa^utem et omne bo>
num. Cum dilecti nobis in Chrìsto firatres predicatores (sic) in terris
carissimi domini et nepotis nostri illustris Regis Francie {sic) inqui-
sitores heretice {sic) pravitatis auctoritate apostolica deputati in Lom-
bardia et ad alias partes Ytalie (sic) sicut intelleximus, proficìsci
intendant seu mittere nuncios speciales ad explorandum ibi hereticos
et alios prò baresi (sic) fugitivos qui de terris predictis (sic) aufu-
gerunt et se ad partes Ttalie {sic) transtulerunt et prò ipsis bere-
ticis et fugitivis ad loca unde aufugenint per se vel per eosdem
nuncios reducendis rogamus vos et requirimus quatenus eisdem fra-
tribus vel praedictìs eorum nunciis presentium portitoribus in ex-
quirendis predictis {sic) vestrum impendatis consilium, auxilium et
192 BIVISTA CONTBMPORANBA
favorem ac per terras et potestates Testras et amicorum Testrorum
ìpsos salvo et secure et cum rebus societate et familia suis condu-
catis et conduci faciatis eundo redeundo et morando ad salvamentum
et liberationem eoruin efficacia iutendentes quotius sibi necesse fuerit
et vos inde duxerint requirendos — datum apud urbem veterem pe-
nultima madii prime (sic) indictionis.
(Ex Regesto Andegavcnse, A. 1269 fol. 64 é ter^.)
II.
Karolus etc. universìs justitiariis secretis baiulis iudicibus ma-
gistrìs iuratis ceterisque (sic) uficialibus atque fidelibus suisr per
regnum Sicilie (sic) constitutis etc. Cum religiosus vir frater Ben-
venutus ordinis minorum inquisitor heretice (sic) pìravitatis Bege-
batum et lacobucium familiares suos latores presentium {sic) prò
capiendis quibusdam hereticis per diversas partes reg^i nostri mo-
rantibus quorum nomina inferius continentur mictat ad presens (sic)
et petiverit nostrum sibi ad hoc favorem et auxilium exhiberi fide-
litati tue (sic) etc. quatenus ad requisitionem dictorum nunciorum
vel alterius eorumdem omnes huiusmodi hereticos cum bonis eorum
omnibus tam stabilibus quam mobilibus se seque moventibus ca-
pientes faciatis personas illorum in locis tutis cum summa diligentia
custodire - bona vero ipsorum ad opus nostre curie (sic) fideliter et
sollicite conservari attentius provisuri ne in hoc aliquem adbibeatis
negligentiam vel defectum sicut divinam et nostram indignationem
cupitis evitare et nihilominus de iis quae ceperitis faciatis fieri qua-
tuor publica consimilia instrumenta quorum uno penes vos rétento,
alio penes cum qui bona ipsa custodierit dimisso tertium ad cameram
nostram et quartum ad magistros rationales magne nostre curie (sic)
destinetis — nomina vero hereticorum (sic) ipsorum sunt haec:
Marcus Petrus Neri — Rigalis de Monte — Gilia de Montisano —
Ioannes Bictari — Bigorosus — Bonadius de Regno — Boncivonga de
Veterelana —Verde filia Guidcmis Versati — Flore de colle Casali —
Benerenutus Malyen de Àqua pendenti — Meliorata uxor eiusque {sic)
olim dicebatur Altruda — Sabbatina que vocatur bona — Magister
Matteus textor — Alda uxor eìus — Joannes^Ursi — Angelus Ursi
de Guardia Lombardorum — Vitalis Maria uxor eius — Bemarda
et Bemardus vir eius — Gualterius provincialis — Bernardus sutor.
— Bemarda uxor eius -> Raymundus de Neapoli — Petrus de Majo
da^ancto Germano — Benedictus Calderarius -^ Petrus Malanocta
^ Maria uoior eius ^ Maria filia ipsorum -^ Salvia et Nicolaus filius
COLONIA PIBÌIONTBSB IN CALABRIA 193
eius. Andreas gener eius — Benedictus frater diete Salvie (Ho) —
Bona filia eiusdem — Salvia de Rocca magnifico — ludex Bainaldus
— ludex Guarinus Boianus Capocia — Petrus lannini — Guillelmus
frater eius — Garaldus, bonus homo Odorisi — lacobus Verardonus
Ioannes mundi — Thomasius Ioannis Guarnaldi de Ferraria — Pe-
trus bictari nepos Ioannis bictari — Margarita uxor quondam Zoclofi
domini Ferrane (sic) — Sibilla cog^nata eius de Melphi — Magister
Matteus textor — Alda uxor eius. Magister Maurus mercator de ca-
salverò — Matteus Ioannis Golia — Ioannes et Gemma filli eius -
Suriana. Matteus Marratonus — Gemma femina eius — Binago de
Aliphia. Magister Mannetus de Bonafro — Nicolaus frater lacobi
Maria mater eius de Boiano ^ Guillelmus de Isernia — Sergius
Margarita uxor eius de Sancto Maximo — Yiatrix filia eius — Ro-
bertus filius dicti Ugonis. — laconus riccus ^ Magister Bainaldus
Scriba. — Canapadula de Beate filius — Sconuele de Sancto Sibato
— Conradus tethinicus qui dicitur morari in Fogia — Benevenutus
lazeus et eius uxor , qui moratur prope Sanctum Matinum et ste-
terunt in Aliphia — datum in obsidione Luceriae decimosecundi Au-
gusti decime (tic) secunde (sic) indictionis.
(Ex Regesto Aadegavense, A. 1269 B. f« 47.)
MMita C. — 13
194
PORTI E VIE STRtTE KELl'iUim LIGURU
n
SOHIVARie
I.—, Difetto di foutl istoriehe — la Tavola PeuUngeriana e Vllùierario é^JnUmino —
3. T> Bpiftggie ligustiche. — 5. Porti etruschi di Luni e di Oenova. —4. Savo e 1 f^ada
Sabatia, ^ 5. Il porto di Monaco. — 6. Come scomparvero le stazioni navali di Yen-
limiglia e d'AIbenga. — > 7. Porti interrati. — 8. Collegi ed offici marittimi. — 9. Vie
liguri anteriori ai Romani. ^10. VAurelià e V Emilia di Scauro — s^adotta il dome
à^^urelia. ^41. Suo corso da Luni a Tortona.— 12. VEmUia: da Tortona àk Sabadl.
— 43. VRmilia: dai Sabazii al Varo. — 44. Ponti romani in Liguria. — 45. La Po-
slumia, — 16. Mansioni e Mutazioni. — 17. Vie municipali o minori.— 48. Strutturi
ed altre particolarità delle vie militarL — 19. Cagioni della loro rovina.
10. — Egli è noto che dalle trentasette porte di Roma partivano
trentuna vie militari e strategiche, e ducento quindici strade mag-
giori. Centro di tutte il miliario aureo ' del Foro. Tre peraltro ne
erano le principali. VAppia, il cui facìmento risale all'anno 442 di
Roma, fu aperta da Appio Cieco censore, e attraverso le paludi
Pontine per una tratta di cenquarantadue miglia metteva a Capua.
La Flaminia^ tirata dal console di questo nome, correva ben tre-
cento miglia per la Sabina, l'Umbria e il paese de'Senoni infino a
Rimini; qtiindi col nome d'SmUia proseguiva per la Gatlia Cisalpina
fino ad AquHeja al dir di Strabene (1). Questo secondo braccio di
via fii costrutto dal console M. Emilio Lepido l'anno 567 di Roma.
Un'altra umilia pur v'ebbe, spesso confusa col nome d'Aurelia^ e
di questa giova occuparci.
Valorose e potenti oltre ogni dire furono quelle tribù che in età
remotissime tennero que' dossi montani che si dissero già Pietra
Apuana^ oggi le Panie. Ivi vuoisi sorgesse la dubitata città d'Apua^
i cui abitatori gittarono le fondamenta di Lim e d' Arringa che ap-
(*) Vedi il Fascicolo precedente.
(1) Strab. Lib. V.
POETI B yiB STBATB DBLL' ANTICA LIGUBIA 195
presso fu Lucca. Fra queste due terre discorrea la Versilia che ha
le sue fonti nel Montaltissimo a borea e sulla Pania della Croce a
levante, e porta i npmi di Cardoso^ di Fornacchia^ di T^rrinca e di
Serra^^ secondo 1 varii torrenti che vi fan capo. Questo fiume tenne
già un corso diverso, come quello che, piegando a mezzogiorno,
mettea foce nel mare presso a Montroni; Cosimo I de*Medici lo volse
a pigiente a beneficio di quelle aduste pianure. 11 contado che dalla
Versiglia ebbe nome, comprendeva le antiche città di Biracelo^ Bon-
delidj Tursenay e il Imcus Feroniae, che appresso si disse il Foro di
Clodia in vicinanza alla foce del Serchio, o, come per altri si tiene,
nella valle di Montignoso, cui successero Capezzano, indi Barga e
Pietrasanta. Ivi, oltre VAurelia, mettea la vìa CasHa^ ch'era un
ramo della Flaminia. UAureliay volgarmente nomata la. via del
Diavolo per la meraviglia che ingenera la sua salda struttura, si
sprofonda nelle morte acque del Giarde ed il lago di Porta. Ne fu
autore Caio Aurelio Cotta che tenne la podestà censoria due anni
appresso la .prima, guerra punica.
. Senonchò le continue rivolture degrindomiti Apuani chiarivano
i Romani della necessità d'una via che agevolasse il passaggio delle
legioni in Liguria. Più .fiate si cimentò tal partito in Senato, e
massimamente quando i consoli Cajo Flaminio Nepote e Marco E-
milio Lepido ottennero rilevate vittorie sopra gli apuani ; ma la dif-
ficoltà dell'impresa mandò a vuoto il disegno, appagandosi invece
d'aprir nuove vie nella Grallia Cisalpina ed in Etruria, onde poter
da due lati tenere in rispetto le tribù montanare. Infatti dopo ben
ottant'anni d'inutili armeggiamenti non altro poterono . profittare i
Latini che un decorso di dodici stadii (un miglio e mezzo romano)
per servire ad una via lungo il mare (1). Soltanto nell'anno 645 di
Rjoma.M. Emilio $cauro, già illustre per la eostruzione del ponte
Milvio e l'asciugamento delle paludi tra Parma e Piacenza, dopo
aver prodigato i liguri transalpini, credendo aver buon pq^alle
mani, aprì come censore la via militare da Luni ai Sabasj che dal
suo nome si disse Emilia^ (2) diversa dall'altra Emilia di Lepido
che da Bimini metteva a Piacenza. L'Emilia di Scatiro ebbe da al-
cuni pur il nome di Cassia^ come cqntinuazione di quel ramo della
Castia che per Viterbo calava in Toscana. Altri pur le assegna altri
nomi: ma la frequenza con cui s'usava VAurelia venendo da Boma
in Toscana, fé' considerare VSmUia di Scauro come un proseguimento
(1) Strab., L. IV. Questo passo, a mio avviso, fa alteralo dai trascrittori.
(2) Consu), Ligures et Gt^ntiscos domuit atque de his triumphavit. Cen-
sor, viam Emiliam stravit, pontem Milvium fecit, ab ipso post dictum
Emilium. Aur. Victor. De Virit ili. e. LXXII.
196 KIVISTA CONTBMPOBANBA
di .quella, e rigettare le altre appellazioni. Ond'è che noi pure per
ragion di chiarezza riserbando il nome d'Jìmilia a quel tratto che
vedrem giungere da Tortona ai Sabazj e oltre il Varo, e di cui diremo
in appresso, designeremo con Tappellazione d'Aurelia la via che, dopo
avere attraversato pel corso d' ottantacinque miglia le città litoranò
d'Etruria, cioè Centumcellae^ Pyrgos, Alsium e QravUcay metteva a
Pisa e a Luni e da questa a Tortona, in ciò spalleggiati dagli antichi
itinerarii, non che da Cicerone, Vopisco e Rutili© Numaziano (1).
Gli autori moderni confondono indistintamente i nomi à^Aurelia e
à: Emilia {2),
11. — Senonchè occorre anzitutto mostrare la fallacia d*una opi-
nione assai radicata nel volgo non solo, si bene ne^più saputi scrittori,
secondo la quale la via di Scauro traversando la Liguria marittima
correa lungo le prode da Luni ai Vadi Sabazj, da dove superando il
dorso degli Àpennini calava a Tortona. Questo errore che deriva da
un passo di Strabene cui mal si seppe chiarire e dalFavere insieme
stranamente accozzato la Peutingeriana e Yltifierario d'Antonine, deve
ornai rilegarsi fra i sogni. Se TEmilia di Strabene (Àurelia) avesse
solcato il litorale fino ai Sabazj (da non confondersi come altri fece
con una tribù d'egual nome che stanziava presso Ceperano) il greco
scrittore non avrebbe ommesso d'accennare oltre Pisa e Luni a
qualche altra stazione intermedia, siccome Genova allor emporio prin-
cipale de* Liguri. Un tal silenzio ci rafferma nella sentenza che l' Àu-
relia tenesse un diverso andare da quello che le vollero attribuir 1*0-
derico, il Berger, e dietro le lor poste tutti coloro che, svariando dal
vero, ne fecero subbietto delle loro speculazioni.
Il solo Spotorno ed assai prima il Repetti, parmi sien quelli che
neir interpretazione del testo di Strabene (3) abbiano colto i^el segno.
Desideroso di mettere un po'di luce nella tenebrosa questione^ ri-
(1) Cicer. Philipp. XII. — Vopisc. Vit, Aurelian. — Rulil. Numatian.
I/tner.
(2) Sed ili ad ani imad versione digaum est, non modo tantum totum tra-
ctum a Roma ad Vada Sabatia modo viam Aureliam , modo Emiliam tum
inliistoriis, tum in vetustis inscriptionibus esseappellatum, sed viam etiam
quae postmodum a Vadis Sabatiis trans Alpes Arelatem est dieta, in qua
munienda neque Cottae, neque Scauri partes ullae esse potuerunt, atrau*
qae tamen sibi nomen Aureliae et Emiliae vindicasse, quod ejus canti'*
nuatio haberetur, quae in Alpes iisdem erat vocabulis nuncupata Hinc
ex crebris commeantium ac remeantium erroribus confusio ac perturbatio
priscorum nominum est orta, tum maxime , cum vetustate obtritis co-
ìumnis milliariis initio positis, aliae inferiori aevo in earum ]ocum sunt
substitutae Monti, De viis Romanis.
(3) OìJtoc ^è ò 2xa3p^; wtIv 6; xaì rnv A^puXtav é^òv orp&oac ^ ^i« t»v niia«M itati
Aouvuv (axpi Sft^Tcdv, xarrtdOev ^là AipOovou;. Strab. Lìb. V.
POSTI B YIB STRATB DBLL' ANTICA LIGURIA 197
cercai con ogni possa l'aiuto di valorosi ellenisti, e son lieto, per tacer
d'altri, che il dottissimo Mons. Cavedoni abbia voluto sugg^ellare con
l'autorità del suo nome l'opinione di cui siamo mantenitori. Senza
punto entrar nell'analisi del testo greco, il che ci trarrebbe a disquisi-
zioni troppo discordi dall'indole del nostro lavoro, eccone il letterale
volgarizzamento, quale l'illustre Modenese inviava all'amico mio G. B.
Passano, che mi confortò de'suoi lumi in queste lentissime e sazievoli
trattazioni — IRc autem Scaurus iìle est, qui jSmiliam viam con-
siravUy quae per Pieas et Lunam, Sàbatos usque^ per Derthonam
(transit). — La greca particella Bik non può aver altro valore che
jw, sottintesovi il verbo passare. Dal che si trae che l'Emilia (Au-
relia) anche secondo Strabene, passando per Tortona, progrediva fino
ai Sabazj.
E che tale ne fosse il vero andamento n'è riprova il difetto d'un
vestigio qualsiasi in tutto il lungo decorso da Luni a Savona pel
litorale, sia di costruzioni o di pietre miliari o di monumenti epi-
grafici, di che pur abbondano le altre vie consolari. Arroge che
niun antico scrittore lasciò ricordo che accenni a passaggio di le-
gioni lungo la costiera marittima fino ai Sabazj; laddove per con-
verso sappiamo che dai porti di Pisa e di Luni sferravano le armate
romane a perlustrare il litorale, e dalle foci del Lavagna e dal golfo
Tigulio (e non già dallo Sturla come tiene il Durandi, avveg^nachè
lo Sturla metta in Lavagna nel territorio di Carasco al di là del
Oiovo) salpò il console Postumio, quando profiigati i Garuli, i Zo-
picini e gli Sreati si fé' a visitare marina marina le prode degli In-
ganni e degli Intemeliiy prima d'assaggiarli con l'armi.
Ne va in conseguente, che l'argomento tirato dal veder segnate
nella tavola Pentingeriana e n^W Itinerario le mansioni d'una via da
Luni a Savona di per so cade, si scarsa è la fede dovuta a docu-
menti incerti d'autore e di tempo, inesatti per error di distanze e
storpiamento ne'nomi. Con più aspetto di vero bassi a ritenere che
una tal via non appartenesse all'Emilia di Scauro, ma fosse piut-
tosto una via municipale o traversa che serviva di comunicazione
fra i finitimi pagi, essendo noto che i Romani lasciavano alla balia
de' soggetti aprir que'tragitti che più tornavano lor profittevoli, co-
me era appunto questo del litorale, angusto e disagevole al dir di
Strabene (1).
Dicemmo per il litorale : niun peraltro s' avvisi cercarne le
traocie in vicinanza del mare. Le mansioni di Boron (la Vara) e
iAVAlpe Penamo (il Bracco) ne sono ancor di presente discoste. I
(l) Imminent grandes ac praerupiae montium rupes, angustum relin-
quentes juxta mare transitum. Strab. Lib. IV.
198 KI VISTA CDNTEBfPOKANBÀ
luoghi ad MonUia^ ad Salaria (Moneglia e Solaro) ed altri siffiitti
che veggiam specchiarsi ne'flutti, sedeano allor sull'alture ; e noi
tuttavia non senza meraviglia contempliamo negli alpestri villag^,
tra le finestre d'antichi abituri, infitti alcuni ferri ed ingegni, i
quali,' come la tradizione c'insegna, usavansi a sospendervi i remi,
le reti ed altri nautici arnesi, segno non dubbio che il pelago di gran
tratto arretra vasi dai luoghi in prima occupati. Infatti le pianure di
Chiavari, quelle d'Albenga, le valli d! Diano e d'Andora: quelle fra
la Bòrdighiera e la Nervia ed altre assai, furono un di sepolte ne*flutti.
Sarebbe quindi follia l'argomentarsi che questa via litorana corresse
lungo le attuali ripe marittime ; egli è mestieri internarsi, dove più
dove manco, fra i monti, antica stanza de' Liguri, per indagarne gli
aggiramenti e le curve.
- Ripigliando ora, dòpo queste necessarie intrammesse, il nostro ra-
gionaménto, e' fa d'uopo porre sott'occhio al lettore il vero andamento
della via militare di Scauro, né questo, a mio avviso, può parer dub-
bio, se si ritiene che le foci ed i seni delle valli fra la Magra, Pontre-
moli, la Cisa, monte di Bardone,Fornuòvo, Val dì Taro, Borgo san Don-
nino (Julia Fidentia), Firenzuola (Florentia), Tortona, e presso Acqui
fino ai Sabazj, presentano il cammino più agevole, più diretto e più
breve. Vero é che anche dell'andare di questa via ci mancano monu-
menti visibili, e he diviseremo con più acconcio le cagioni a suo luogo;
qui sol rileva osservare, che, perduti ne' bassi tempi i nomi d'Aurelia
e d'Emilia, si conobbe con l'appellazione di ClaudiayChe noi col Be-
retta teniamo le venisse assegnata in onore di Flavio Claudio
Giuliano , come appresso le vennero del pari assegnati altri nomi.
12. — Questa via strategica non si rimaneva, come dicemiho, a
Tortona, ma calava ai Sabazj, e a questo ramo, di cui restano grandi
e maestose reliquie, diamo il nome d'Emilia, avvegnaché con questo
più specialmente Tindiziino i monumenti in essa sterrati. Essendo
disegno di Roma penetrare nel cuore della Liguria per infrenarne le
rivolture e tragittare gli eserciti nella Grallia Cisalpina e da questa
nel paese de' Liguri, doveano le legioni appianarsi un passo nelle in-
terne Provincie e munirlo in modo saldo e durevole. Quind'é che la
via si fé' correre in parte sulle bricche de'coUi per reggere ad ogni
tormento d'acque e di frane. A porne in disegno tutto l'andar ch'ella
fa da un termine all'altro, diremo che movendo dalla region de'Sabazj
in luogo mal noto, ma forse dai Vadi, stendevasi sulle poppe de' gioghi
fino ad ffasta, picciol luogo sugli Apennini che nel X secolo apparte-
neva alla dizione de'vescovi Savonesi ; ivi un ramo minore scendeva
ad Alba DocUia (Albissola), e a Ficus Virginis (Varazze); il principale
traversava, scemando l'erte, Cono/ico presso il Cairo: quinci a non
molto spazio toccava Crixio che noi poniam presso Spigno all'abazia
POBTI B VIB STBATB DELL* ANTICA LIGURIA 199
di 8. Quintino, e volteggiando presso Acqai (1) dava a Tortona. Consi-
derevoli avanzi se ne scorgono presso Melazzo, Monteehiaro, Strevi e
Cassine. Pressochò intatta conservasi da Castelnovo Bormida fino a
Tortona: in alcuni luoghi è sepolta da franamenti e dirupi. Cajo Va-
lerio fu quegli che in più tratti la ristorava in un colle terme d'Acqui.
Appresso continuata oltre Po , rannodò Ivrea ad Aquileja , cor-
rendo per Vercelli, Novara, Milano, Bergamo, Brescia, Veroua e
Vicenza. '
13. ^ I Sabazj non erano peraltro il limite estremo della via mili-
tare di Scauro : essa pi^osèguìa fino ad Arles. Augusto che ne fu il
continuatore e la fregiò di colonne miliari, cominciavala al punto in
cui quella di Scauro avea fine, cioè a Vado, otto anni innanzi Tera
volgare. Il nome di Omlia Augusta secondo alcimi assegnato a- tal
via, è assai controverso ; onde per noi si respinge, dovendosi piut-
tosto riferire a quel tratto che dalla Trebbia per attravetao il Pie-
mcmte correva nei dintorni di Nizza.
Anche il ramo di via proseguito, da Augusto non potea correre
di presso al mare. Se fino ai dì nostri la strada litorana era chiusa,
dovrem noi credere fosse aperta e spianata or fan venti secoli? Chi
non ricorda, imprecando, i trarupi di Noli resi infami da Dante (2)
e le paurose ritorte di Vose e di Caprazoppa? Se tanta fortezza di
borri e di balze ci mostra che l'antica via consolare era affatto per-
duta, pone anche in sodo che la stessa non poteva condursi in vi-
cinanza del mare. Il paese irto di stagliate roccie e di stagni, onde
il nome di Vada che s'avviene in più luoghi, facea si che la strada
dovesse imboscarsi e secondare gli svolti de' gioghi men repenti e
difficili.
Infatti da Vado (3) ove per colli disagiosi Ventidio portò dalla
Oallia tre legioni ad Antonio disfatto nella giornata di Modena (4),
*
(1] Tum Clastìdium, Derthona et Aquae Statiellorum pauiisper praeter
yiam. Strab., Lib. V.
(2) Vassi in Sanleo e discendesi in N^li. Dante.
All'asprezza di questa via accenna un altro poeta del secolo xiv :
da Porto ad Andona (Andora)
La strada so : ma convien ch'uom si spoltri
Siccome va da Finale a Savona,
Da Albenga, da Noli anco e da Veltri
Fino a Genova. E Solino allor rise ,
Poi disse: va, che del cammin qui m*oltri.
Per quei vallóni e per quelle ricise
Andammo.
Fazio degli Vherti, Bit. lib. HI, e. 6.
(3) Jacet inter Apenninum et Alpeis, impeditissimus ad iter faciendum.
Brut, ad Cicer., Epist, XIII.
(4) Cicer. Fami/. XI, 10.
200 BIVISTA CJONTEMPOBANKJl
saliva l'erta di Noli, sboccava a Verzi sul Pinalese e per Peglino
ch'era una delle tante figuline ligustiche, Carbuta presso Rialto e
Madonna della Neve riusciva sopra Magliolo. Una mansione n'era
il PùUupicey forse oggi Giustenice. Due altre mansioni sorgeano fra
Albenga e Yentimiglia: il l%eus Bormani e Costa Balenae. Ivi pure ci
verrà fatto tracciarne le ripiegature e gli andari. E per vero da
Albenga che allor sedeva alle falde del monte che la prospetta a
ponente, saliva sul luogo nomato la Rama, dove torcendo a sinistra
conduceva al Tirazzo o Signora della Guardia a cavaliere d'Alassio:
scendea sulla Morula non lungo d*Andora e per il promontorio di
Rollo e Villa Faraldi traeva in Val di Diano, ove, oltre i ponti che
n'accusano il corso e di cui diremo a suo luogo, se ne scorgono
presso S. Siro non poche reliquie. In questi contorni, fatto stima
del divario che corre fra il miglio romano ed il. nostro che d'un
quinto è maggiore, dee porsi il Incus Barmanij ohe l'itinerario d'An-
tonino segna a quindici miglia d' Albenga. La via tirava oltre a
Costa Balsnae^ oggi Costa Rainera: da quell'antica mansione ebbe
origine Taggia, la quale evidentemente trasse il nome dal Tacua
che le scorre vicino: ivi non pochi avanzi che tuttodì vengono in
luce ce n'indiziano il vero decorso. Quindi fiancheggiando il Monte-
negro conduceva a Ventimiglia, da cui per il colle di Castel d'Appio
sfogava verso Lumone, oggi Mentono. Ivi un braccio secondario
correva a Sospello, alla Briga e per Tenda calava alla valle di Pesio,
alla Chiusa e imboccava la grande via di Tortona. La via litorana
saliva al Trofeo d'Augusto in Alpe summa nel luogo detto oggi
Tu/rlìa da turris in via, testimonio infallibile del di lei corso : calava
quindi nella vallata del Sembola : varcato il Paglione e seguendo le
regioni dell'Ariana e le falde di Merindola, attraversato il rivo di
S, Andrea saliva alla capitale dell'Alpi marittime Cemenelon, oggi
Cimella, costeggiando la valle della Balma alcun poco, e quindi il
deflesso del colle fino al luogo detto i Quattro Cammini. Il Varo var-
cavasi presso alla foce in quel punto in cui secondo Strabene questo
fiume, traripando nel* verno, allargavasi fino a ben sette stadii (1).
Augusto volendo sicurare il passaggio dell'Alpi dalla infestazion
de'ladroni (cosi nomavansi i popoli alpini che grossi in arme ne
contendeano il varco ai Romani) indisse loro, quattordici anni in-
nanzi l'avvenimento di Cristo, una guerra sterminatrice, e allor
maggiormente munì del proprio tal via per quanto gli venne assen-
tito dall'asprezza de'luoghi ; avvegnaché correndo essa tra ricise e
scheggioni di rupi che sportano su precipizii ed abissi, onde il nome
che appresso le si attribuì di Cornice, non era possibile per quanto
(1) Stadium 125 nostros efficit passus ; hoc est pedes625. PHn. L. H, e. 23.
POKTI B VIB STBATB DKLL'àNTIOA UOURIA 201
scarpellasse a punta le roccie, Tincere in tutto una cosi sdegnosa
natura (1). Due monumenti attestano la piena disfatta de*popoli
alpini ; cioè la mole di Turbia pressoché rovinata e l'arco di Susa.
In quel tempo fondavasi altresì Augusta Praetoria (Aosta) neirintesa
di dominar ()a quel yarco le gole dell'Alpi per gli appostamenti e
guati de* montanari tuttavia mal sicure. Altri ristauri vi fecero
apinresBO i successori d'Augusto murando in acconcie posture rocche
e Ibrtilizii detti ClausuraSy onde il nome di Chiuse.
Nel villaggio di Garquier presso alla Turbia sterraronsi, or fan
pochi anni, due colonne miliari di cui Tuna diceva come l'Emilia,
per gli uscimentì del Retubia e per vetustà resa inservibile, venisse
rì&tta da Adriano del proprio. Il Retubia è fuor di dubbio il Rotuba
che ancora a nostra memoria diceasi la Rotta. La seconda colonna
vennevi apposta dall'Imperatore Antonino che forse anch'esso del
suo la racconciava. Albenga mostra pur essa un monumento che
accenna ad un Metilio sopraintendente dell' Aurelia (Emilia) e pa-
trono della plebe urbana. Ciò fa manifesto come solesse usarsi in-
distintamente il nome d' Aurelia e quello d'Emilia.
14. — Che una tal via s'aggirasse per attraversa gli svolti delle
montagne, ne son certa riprova gli stessi ponti antichissimi che in
più luoghi sfidano ancora l'urto de'secoli : e là dove i torrenti più
prossimi al lido ne van tuttora sguarniti, le fiumane di Diano, Vlm-
peroy V Argentina, e la Nervia ne son cavalcate a quattro e più miglia
all'interno. L'eccellenza a cui giunsero i Latini in quest'arte, vuoi
per saldezza di massi, vuoi per la riquadratura e il commesso dei
marmi, è a tutti assai nota; il ponte di Traiano sopra il Danubio
è insuperabile per audacia di concetto e maestà d'esecuzione. Opera
non manco grandiosa era fra noi l'acquedotto che movendo da Pietra
Bissara toccando Arquata e Libama correva a Tortona, irrigandone
l'agro e alimentandone le terme capaci di ben settecento individui.
S'ignora in qual punto valicasse la Scrivia : alcuni ne designano il
luogo presso il ponte di S. Bartolomeo: altri nelle colossali arcate
di cui già vedeansi i vestigi nei contorni di Precipiano. Asti di due
pmti abbelliasi : l'un sul Borbore presso cui s'eresse un arco a Oneo
Pompeo Strabene, padre del Grande ; l'altro marmoreo sul Tanaro
gittatovi da Giulio Cesare quando, .dome le Gallio, ebbe stanza in
quella città. Publio Urvino edile ne fu creato prefetto. Avanzi d'un
ponte antico scorgonsi anch'oggi sul Taro. Di romana struttura è
(1) Aagustus Caesar lairoaum eccidio viarum structuram adjecit, quan«
tum omnino licuit perfici; neque potuit ubique perrumpere naturam sa-
xorum iDgentium, praeruptarum rupium alias vìae impendentium, alias
subjacenlium, ita ut \el ìeviter e via egressi in periculum venirentine'
yitabile, cum in fuudo carentes valles esset decidendum. Sirab, L. IV.
BIYI8TA GONTBHPOBAMBA
un ponte saldissimo detto il Pùnte dette FaU ed anche d'Orlando nel
Finalese sul ritano di Pond presso la borgata di Verzi : e tale opino
sia pure il Pùnte del Corvo che inarcasi anch'esso nella vallata supe-
riore di Final-Pia, nomata ne'tempi di mezzo Campania viUae maris^
segno non dubbio che il mare un di s'ingolfava in que'luoghi. Ben
più meraviglioso si è il Ponie^lv/ngo a levante d' Albenga, opera del iv"
secolo e forse di Costanzo imperatore, sotto le cui solide arcate in
parte sepolte, un di il Conta menò le sue piene. Corre oinqueceatot-
tantotto palmi in lunghezza, e in larghezza quattordici. I pilastri del
ponte àeWSveno^ per cui la via militare veniva a Diano Castello, atte-
stano anch'essi la romanità di quell'opera. Del resto, nulla di co-
spicuo, tranne la leggerezza e solidità loro, come murati a pietre vive
e di vena fortissima, offrono questi ponti fra noi. Eglino sona in
ispecie assai stretti ; il che non toglie che in alcun d'essi appaiano
tuttavia le traccie iiòWactus^ posto nel bel mezzo per il transito dei
cavalli e dei carri, non che sui lati il rialto de'marciapiedi (decursoria)
spalleggiati di parapetti e murelli per sicurare i pedoni.
15. — Le vie strato di cui finor ci occupammo non sono le più an-
tiche in Liguria. E per vero, se tornava arduo ai Bomani tagliare le
loro strade fra popoli riottosi e contumaci, questa difficoltà venia
manco rimpetto a Genova amica, da cui, come da centro, poteauo le
legioni addentrarsi in tutta la regione de'liguri. Fino dall'anno 606
di Roma il console Spurio Postumio Albino Magno ponea mano ad una
via che collegasse Genova alla region cispadana e le assegnava il suo
nome. Forse e' non fé' munirla e renderla atta al passaggio de' grossi
eserciti, non potendo noi consentire che Genova, già .gagliarda di
traffici, difettasse di facili comunicazioni. Comunque sia, la PùiUtmia
corrottamente Costumay. saliva per la valle di Polcevera a Ponte
Decimo, il cui nome ricorda l'uso i^Qtichissimo di segnare le strade
con pietre miliari: i luoghi di CeptUma ed il rio Vinelasea che costeg-
giava (1), sono ancora mal noti ; forse pel giogo di N. S. della Vit-
toria, meno erto e repente, calava in vai di Scrivia, lambendo le terre
ed i pagi che appresso addomandaronsi Borgo de'Fornari, Pieve,
Isola buona. Ronco, ViUavecchia, Isola e Pietra Bissara. Ivi la mala-
gevolezza de'passi costrinse i romani a far enormi tagliate di massi
calcarei, mwcè le quali, secondando gli aggiramenti delle montagne,
metteva a Rigoroso sott'esso il colle Aventino, oggi Ventino, fin ad
Arquata, entrava Libama e n'uscia rimpetto ai monti della Crena a
libeccio. Ove partiasi in due rami: l'uno correva a Gavi: l'altro, ra-
dendo il colledi Brionte, varcata la Scrivia presso Cassano, per Yilla-
verDia tirava a Tortona.
(l) Vedi la Tavola di bronzo scoperta in Polcevera nel 1506.
POan B VTB STBATB DBLL' ANTICA uaUBXA. 803
16. — Ebbi più sopra a ragionar di stazioni che seguentemente
incontravansi ad ogni tanto dì via. Nomavansi mansioni e muiaHani.
Le mansioni serviano di solito a stanza delle legioni al fin d'ogni
marùia ohe per Io più computavasi di ventimila passi : in casi urgenti
di yetktisei mila ; poiché il soldato romano, sebbene onusto di far-
daggio e di pali di circa sessanta libbre di peso, facea non manco di
venti miglia in cinque ore. Erano le mansioni un gruppo di case e
dificii con ampio palagio fornito di suppellettili e arredi deg^ni della
maestà deg^i Augusti, i quali vi sostenevano (1) a rifarsi de'disagi di
lunghi viaggi e di militari fatiche. Ivi raccoglieansi i tributi delle
terre circostanti e serbavansi le salmerìe per le legioni, i foraggi per
i cavaAi. Erano amministrate da gran personaggi che chiamavansi
manc^: e Valentiniano commise a'consoli che tuttavolta passassero
in vicinità d*alcuna mansione, ne inspezionassero gelosamente i
granai, importando anzi tutto che le milizie avessero cilbi sani ed
incorrotti.
Soggette alle cure de'man^pi erano pur le mutazioni. Questi
luoghi, come il nome l'indizia, serviano allo scambio de'cavalli e dei
carri ad uso pubblico, avvegnaché i^privati ad usarne doveano otte-
nerne uha special permissione. Al tempo de' Cesari insti tuironsi pub-
bliche corse (cursus publici) e poste regolari {vehiculaiiones) ogni
cinque 0 sei miglia: ciascuna d'esse andava fornita di quaranta ca-
valli : Teodosio ne accrebbe le mute fino a sessantaquattro. Mera-
viglia il leggere quanto gl'imperatori curassero, sotto severissime
pene, che i viaggiatori e gli stradieri non avessero a patir danno e
molestie. E dirò cosa strana, ma vera, e tale da tome il vanto ai mo-
derni : che cioè la vigilanza de' Cesari sulle pubbliche corse fu spinta
a tal segno, da vietar che i cavalli fossero aspramente battuti, non
altro essendo lecito che colla voce , o tutt'al più con legger sferza in-
citarli, se pigri , (innocuo titillo) pena il bando, ove alcun trasmo-
dasse. Tali cure partorivano mirabili effetti, quello in singoiar modo
della rapidità dei messaggi, a tal pervenuta da poter corrersi cento
miglia in un dì. È fama che Tiberio alla nuova del sinistro di Druse,
facesse in ventiquattr'ore ducente miglia, da Lione in Germania. Con
tal rattezza propagavansi in ogni angolo dall'impero le nuove per
opera de' diarii o giornali, de' quali, al dir di Svetonio, fu primo in*
ventore Giulio Cesare. Nomavansi acta o diurna e ve n'aveano nelle
Provincie e perfinneir esercito. Con non minore velocità, le vie schiu-
deano l'entrata ad ogni forastiero prodotto : ai lavorj della Grecia
come alle fiere dell'Africa, ai frutti di Spagna come alle mercatanzie
della Fenicia e della Siria.
(1) Ecce literae de instruendis mansionibus, iuvectio ornameutorum re-
gaìium quae ingressurum impératorem significarent. Svet. in Tib, e. X«
S04 RIVISTA OONTEMPORANBA
La gigantesca costruzione di queste vie avute ne' bassi tempi
come opere d^incantamenti e di genii, doveva richiedere un numero
stragrande d'artefici e d'operai. Divideansi in quattro specie: pri-
meggiavano gV ingegneri che aveano il carico dei lavori: seguiano
i legionarii che vi davano opera soltanto nei silenzii dell'armi : i pro^
vineiali^ con che si sopperiva ai bisogni de'più disagiati terrazzani:
venian da sezzo i condannati che purgavano ivi la pena dei lor ma-
leficii. L'erario* della repubblica sostenea questi enormi dispendii, tut-
tavolta che le vie percorressero Provincie soggette aUa senatoria
giurisdizione: se provincie di Cesare, il Fisco; se vie comunali,
provvedeano i Municipii.
17. — Imperciocché, oltre le principali, è fuor di dubbio che
parecchie vie comunali o traverse legavano i pagi delle cognate
tribù, e dalle terre più litorane facean capo alle con valli dell'Àpen-
nino e della Liguria montana. Una d'esse correva da Oenova per
la valle della Trebbia a Piacenza, e forse a questa devonsi riferire
le traccio che in più luoghi t'occorrono sul monte Penna. Verosi-
milmente le tribù degli Ercaii^ dei Garruli e dei Lapidiciniy abita-
tori della Fontanabuona, avean /oleato il loro agro d'una via che
metteva alle foci del Lavagna o porto di S. Salvatore. La tradizione
di questa via che ne'bassi tempi si nomò Panatiera sussiste viva
tuttora: i conti di Lavagna per privilegio degl'imperatori tedeschi
ne riscossero lungamente le gabelle ed il pedaggio. Incisa, villaggio
d'Orerò, nomavasi un giorno Intercisa^ e accenna a qualche ramifi-
cazione di questa via, ovvero a qualche tagliata di rupe per avere
un facile accesso in vai d' Avete.
Genova inoltre dovea senza fallo dar mano ai Sabazj. Diffatti un*
sentiero tagliando la Ih)etuma in luogo mal noto, tirava a Sestri
di ponente, ove sorgeva il sextum lapidem. Tra Voltri ed Arenzuio,
ascendendo dall'aprica villa di Vesima né appariscono tuttavia le
vestigia. Forse anch'esso il nome di Vesima rammenta la vigesima
colonna miliare, sebbene torni oggi assai malagevole misurar cosif-
fatte distanze, ignorandosi il punto da cui si dipartivano le vie co-
munali. Un'altra strada movendo da Genova solcava la riviera
orientale: i nomi di Quarto e di Quinto ne fanno aperta testi-
monianza.
Intorno a questi sentieri nessun monumento scritto ci resta : ina
la terra è gelosa custoditrice. de'proprii fasti. Le spesse reliquie di
massicci petroni che ti si parano innanzi in più tratti del monte
Armetta^ che a mezzodì guarda Varazze e a settentrione il Sassello,
c'inclinano ad opinare qhe su que'bricchi serpeggiasse una via che
facea capo iXM Emilia^ vincolo di comunicazione colle tribù monti-
giane e i Stazielli, di cui fecero i Romani strazio cosi disonesto.
POBTI E VIB 8TRATB BBLL' ANTICA LIGURIA 266
Infatti Armeiia non è che corruzione A' Ermete^ poiché soleanei a
Mercurio dedicare i luoghi elevati e le pubbliche vie, sulle quali
sorgeano erme in suo onore, e a* pie' d'esse i viandanti accatastavano
ciottoli e sassi.
Di vie n^iinori o traverse è altresì testimonio un vetustissimo
ponte romano nel territorio di Quiliano, che mena alle foreste della
Consevola e delle Tagliate: non che gli avanzi d'un tramite fra
Garessio ed Àlbenga dalla banda d'Erli e di Zuccarello, Tantica
regione degli EpaiUeri. Rado in oggi pie' mortale s'inerpica a se-
guirne le scabre vestigia: ma in que'ciottoloni si rigorosamente
l'un l'altro addentati, lo storico ravvisa ancor l'orme che v'impres-
sero un giorno gli elefanti di Magone. Non andrebbe lontano dal
vero chi avvisasse esser questo un torcimento di quella via che
correndo le falde occidentali dell'Alpi marittime toccava la Chiusa,
Boves e Boccavione, e traversando vai di Stura fra questo fiume e
TAlpi, camminava al colle dell'Argentiera. Era questa ab-antico la
via che attribuivasi ad Ibreole (1) simbolo d'industre colonia: via
cui tanti seeoli appresso (centovent'anni innanzi Tera volgare) D<f
mìrìo Enobarbo trionfator degli Arverni faceva rassettare, e vi le-*
gava, come già dicemmo, il suo nome.
Posciacbè accennammo a Magone, non sarà fuor di luogo il ri-
cordare come non poche terre in Liguria si gloriino d'aver dato il
passo anche ad Annibale e ne conservino il nome. Lasciando da banda
quanto in ciò v'ha di favoloso o d'incerto, dirò che nel comune di
Pregala fra i monti Penice, Lesima ed Ebro, corre presso il Barostro
una lunga tratta di via che s'addimanda strada d'Aimiòaìe, Non
può invero cader punto di dubbio sulla di lui presenza in que'luoghi.
È noto com' e' dopo avere svernato in riva alla Trebbia, tentasse il
valico degli Apennini, ove si sformata tempesta si ruppe addosso
all'esercito, che fu costretto a dar volta e accamparsi a dieci miglia
dalla città di Piacenza. Alcuni di appresso, prodigato Sempronio,
questi calò sul Lucchese, molestato nel suo sbarraglio dai Liguri,
per le cui forre passava, lasciando nelle lor mani cattivi due tribuni,
due questori e cinque cavalieri.
La via tenuta dall'oste Cartaginese fu senza fistilo fira 1» Trebbia
e la Nura, via che fu appresso condotta, attraverso questo fiume, a
Velleja. Esistono ancora i nomi di Quarto, di Settimo e di Colonne
a mezzodì di Piacenza. Da Velleja la vja varcando la foce degli A«
(1) Accenna a questa via Siiio Italico là dovè parlando d*£rcole canta :
Scindentem nubes, frangentemque ardua mentis
Spectarunt superi. SU, Ital, L. III.
Virg. Eneid. L. VI — Diod. Sùml. L. IV. 19.
20$* BIVISTA CONTBMPOIUNBA
I
p^inkii a Taverna metteva nella vallata del Leno e quin<^i in quella
del Taro e della Magra da cui volgeva in Toscana.
Per l'opposto la via che fé' Sempronio nella sua fuga, fu TAu-
relia che si <}isse poi Claudia. Un braccio minore della quale tirava
a Velleja e passando per Settime a sinistra della Nura riuscia sovra
Travi, già TrivimMy poiché ivi metteano tre strade. L'una d'esse
traeva a Roccazese, come rilevasi dagli atti delle ss. Liberata e Ifau-
stina riferiti dal Giovio ; l'altra costeggiando la Trebbia solcava
l'agro libamese fino a Bobbio, e continuando a sinistra del fiume dava
a Vesmo, cioè ad i>igesimuin lapidem e calava dalla parte del Bi»
sagno (1) su Genova. Della terza strada non trovo riscontro alcuno.
Questi ed altri sentieri serpeggianti pei dossi del nostro Apennino
e della più parte de'quali per non far qui troppo lunghe intramesse io
mi passo, erano appunto que'tramiti vicinali o traverse che necessa-
riamente dovean collegare i finitimi popoH. Vi presie^eano i maestri
de'poffiy cui era demandato l'officio di tenerli rassettati e vigilare acciò
i soldati, che in essi s'avventuravano, non patissero disagio di leg^a,
di sale e di strame. Vuoisi che Tinstituzione de' maeitri de' f agi
ascenda a Numa Pompilio (2).
18. -* Poste le cose anzidette, non dispiaccia al lettore, poiché ci
Siam messi su queste ricerche, oh^o tocchi alcun poco di altra par-
ticolarità chiamate dall'argomento, e che invano si cercherebbero nei
patrii scrittori. Per quantunque 1 Latini studiassero tirare aiilo i lor
viottoloni in sulla piana, come usavano i Cartaginesi, ciò non potea
venir fatto fra le gibbosità di alpèstri regioni, in cui carpando a
stento, era d'uopo guadagnare l'ertezza de' gioghi, far gomiti e fac-
cio, ore i torcimenti del terreno il portavano, e m que' filari di. mon*
tagne serrate, giù per le chine men trarupate* e dirotte, calar nelle
valU e binroni, per superar di nuovo altre vette. Perciò assai varia
è la larghezza delle vie consdari : non mai d'otto o di sedici piedi (3) ,
ma. sempre di gran lunga maggiori. I lati erano muniti di margini
che levavansrin altezza a due cubiti.
Isidoro 'riferisce ai Cartaginesi il costume di: selciare, a lastroni le
vie (4) : in Italia, a quel che ne^ trovo, quattro strati per lo più vi
(1) Bii-amnis^ e più anticamente Feritor o Feritori, Il Fabretti uel suo
lodato Glossario scrive sul testimonio di Plinio che questo fiume è in
o^i Lavagna!! ìf OH è-nuaya l'arte di compor ].ibi:i da libri,; seoz^ darsi
punto la briga di per sé chiarire le cose.
(2) Dionig. Halicarn, L. II et IV.
(3) Viae latitudo, ex lege XII Tabularam, in porrectum octo pedes
habet; in anfraotum, idest ubi flexumestf sexdecim.
Ga^'us in L. 8, ff, de Servii, praed. rust,
(4) Primum Poeni dicuntur lapidibus stravisse. Isid. De Orig.
PORTI B VIB 8TRATB MLL'aNTICà LIGURIA 207
si scorgono.' L^inferiore, che i Latini diceano si0iuinen,è un ammasso di
sabbione e di pietre accomodato a snoli sopra un solido fondo che appel-
layasi gremum; se il fondo era acquitrinoso o non fermo abbastanza,
lo si rassodava con subliche e palafitte su cui basatasi il massicciato.
Ciò impedia che il terreno per intenerirsi che faccia, non ammollasse,
n secondo strato (rudus) è un misto di scaglie e lapillo legati con calce:
il terzo (nudeus) è un formato di cemento, di creta e di stabbio insiem
pesto e battuto con pesanti arnesi di ferro; il suolo superiore che
addomandavasi summa emsta o patimentwm componevasi d'enormi
lastre di pietre ad angoli e spicchi, legato con calcistruzzo, e Tune
commesse ed immorsato nelle altre con mirabile dicfeiplìna e saldezza.
V'avea nen)el mezzo un rialto (affffer) a scolo delVacque piòvane.
Tale ci si mostra TEmilia da Tortona ai Sabazj che tanto ancor oggi
s'eleva sulla faccia de' luoghi per essa percorsi. Ciò chiarisce il nome
che il volgo le dà di Leeaia o elevata dal suolo : avvegnaché i Ro-
mani usassero innalzare le lor vie sui circostanti torreni, conficcane
dovi tigni, agocchie e fittoni, e afforzandone i lembi, per r^ìderle
men soggetto alla violenza delle acque. V'hanno in Francia strade
romane che s'alzano fino un venti piedi dal pianò; non minóre eleva-
zione s'ebbe al certo l'Emilia, se si tien conto di quanto s'aderse il
terreno pel disboscamento delle montagne e l'avvallar delle frane.
l 'Quattro strati òhe divisavano questo vie consolari, non si ti0con^
trano nelle minori, atto ai carri (actt^) e a soli pedoni (iter), neppur
si riscontrano in quella tratta della Aurelia che da Lutti mettova a
Tortona. Questa inftttti noù resse al par dell'Emilia all'urto del tempo.
Forse un tal braccio apparteneva a quel genere di vie che si di'^
ceano terrena j perchè non selciato: otveno gla/reaim^ perchè appena
rispintiato da ghiaia o da torren sabbionoso, anziché di que' larghi
cubi di selce, che davano alle lor vie 'militari un'impronta aflMto
pelasgica. In tal credenza mi salda il vedere che di questo decórso
di via, come più indietro si disse, non ci restano che scarsi vestìgi,
locchfè ìion incontra delle altre. Né questo sarebbe il solo caso di tale
struttura. Anche la via Appia nelle paludi pontine, che pur fu detta
regina viarum, si vide, nelle scavazioni ivi fatto, difettare in più
luoghi dei quattro strati anzidetti, ed essere stata soltanto coperta
di ghiaia, sebben Cesare, quando era edile, l'abbia rifatta à'sue sjiese
e appresso Nerva e Trajano.
Le distanze segnavansi da colonne miliari di forma tonda o qua-
drata, alto da otto piedi, e sopra ciascuna d'esse, oltre il numero,
delle miglia, leggevasi un M. P. significanti millia passuum. Sene
fa autor Cajo Gracco, il quale inoltre sulle vie fece ^>porre di dieci
in dieci passi acconci petroni, onde tornasse agevole al viaggiatore
il salire a cavallo, essendo allora ignoto l'uso delle staffe che rodammo
208 BIVISTA GONTBIfPORANBA
dai Longobardi. La legge delle XII Tavole proibiva interrare i ca-
daveri entro il pomerio e nella cerchia delle città ; perchè lungo le
vie principali, oltre le case, gli archi, Tedicole e i tempii, allistavansi
con più frequenza ermi, cippi acherontici, urne (1) cinerarie, onde
Tepigrafe si spesso ripetuta del — sisie, viator, — Vedeansi lungo
la Poetumia e l'Emilia i sepolcreti e gli apogei delle fan^iglie Elia^
Mettia, RwtUiay Augurina, VUnUana, Poplicola, Cicurina, JPetroniay
Menrda^ Plotia ed altre, dai quali s'estrasse quantità egregia di la-
pidi, monete, medagJi.e e lumi di cotto. Arrogi i molti vasi che un
error radicato fa credere vari lacrimtUorii^ cioè serbati a ricever le
lagrime degli afflitti parénti ed amici : laddove per Topposto non sono
che anfore d*olio e di profumi con cui s'ungevano i trapassati. D{
vasi lacrimatorii non una pai'ola abbiam dagli antichi. Presso Tor-
tona si rinvenne il sontuoso sarcofago di Publio Elio Sabino innal-
zatogli dalla di lui madre Antonia Tmffo con la scritta — i(mo WMmo
este : nemo immortaiis — non che le tombe di Cofo Mario, e Tito Fla-
minio morto virtuosamente pugnando sul Reno nelle legioni di Druso
e d'altri non pochi. E steli sepolcral*, e cippi, ed altre anticaglie sif-
fatte sterraronsi pure in qiiel tratto dell'Emilia che traversa la Li-
guria marittima, massimamente in Àlbenga, Taggia, Ventimiglìa e
presso Drapp in prossimità del casale che dicesi Ruma. Questo ramo
dell'Emilia che da prima arrestavasi ad Àrles, fu appresso continuato
per Narbona, Tarragona e Cartagena infino a Grade.
Ad ogni sbocco o crocicchio di via sorgeva un tempietto od edi-
cula dioata ai Lari Compitali, ed ivi se ne celebravano i ludi (2).
Era questo un rito antichissimo italico, ripristinato, al dir di Ma-
crobio, da Tarquinio Superbo, il quale a Mania o Zara o Larunda^
madre de' Lari, custodi e proteggitori de' campi (3j, scannò parecchi
fanciulli, il che mostra come i sacrifizii cruent: non fossero ignoti in
Italia. Appresso alle vittime umane sostituironsi bulbi d'aglio e papa-
veri. Augusto d'una annoval festa con che si propiziavano i Lari,
due ne prescrisse, l'una alle calende di maggio e Taltra a quelle di
giugno, ordinando che le loro immagini fossero sempre ornate di
fiori (4).
(1) In agris sepulcra fuisse juxta militares et publicas vias in quibus
cadavera, ac si cremata essent, cineres ponebant. Pìnt, Aer. Roman,
(2) Compitalia (ubi viae competuni).
(3) Vos quoque felicis quondam, nunc pauperis agri
Custodes, fertis munera vestra, Lares.
Tihul lib. I.
(4) Lares ornare bis in anno instituit vernis
Floribus et aestivis.
Svet. Vii. Aug. cap. 31.
POBTI R TIR 8TRÀTB DILL^ANTIGA UetTRU 209
CSentro di tutte le grandi vie eh'ò &ina corresaero oltre a cento-
mila miglia, nella baiBea Italia fu Roma, nella settentrionale, Milano
ed in parte anche Modena, ove facean capo la Flaminia, TAurelia e
la Cassia (1). Boma che Ateneo nomò eompiudio ieWwimerso^ per
maglio imperiare sopra le genti, volle a aò avvicinarle con fwcjM co-
municasioni, improntandole sul primo della gagliarda sua vita e
appresso infiacchendole co* suoi rotti costumi. Non v'ebbe città d^
qualche momento che non ne sentisse le potenti influenze, dalla Bri.
tannia all'Euftttte, dall'Atlante alla Scizia ; avvegnaché non manco
di quarantotto ampie vie nella sola Italia per la tratta di tremila
leghe corressero da Boma a Brindisi, Beggio, Aquileja, Verona,
Como, Aosta, Nizza e le Alpi. Nove n'ebbe pur la Sicilia, che in
0^ n'è priva : sei la Sardegna, una la Corsica. Sul primo queste
vie, del pari che i boschi comunali, davansi in cura a' censori e a' tri-
buni ; da seaqaK) si delegò tal officio ad uno speciale maestrato che
addomandavasi mur$i9r reipMice ed anche ìegiiHy assistito da una
dieta di savii.
19. — L'epoca deUit l<Hro rovina c'è affatto ignota. Volendo awen-
ti^rare qualche probabile oonjettura, non possiamo obbliare che
l'Emilia^ la quale più d'ogni altra serba i caratteri che i Bomani im-
prontavano ne'lor monumenti, sussisteva ancora pressoché intatta
da Tortona ai Sabazii nel secolo XIII; e per vero sappiamo che
intomo il 1282, dovendo la signoria genovese costrurre cinquanta
galere, ne toglieva il legname sul monte Ursale nella terra di Pa-
reto, facendolo traghettare in Savona. Niun sentiero o ricisa, dal-
l'Emilia in fuori, costeggia tal selva: ond'é che il legname non po-
teva carreggiarsi in verun altro modo.
Quanto alla Postumia, detta nei tempi di mezzo Sirata vMi^
Scrifim, perché dall' Apennino a Serravalle lambiva la Scrivia, ninno
può al certo ignorare come allora fosse in gran fiore, dovendo neces-
sariamente accalcarvisi quanto ben forestiero andava da Genova ai
transalpini. Essa toccava Asti, che fra tutte le città del Piemonte
aveva il primato per copia di ricchezze e vivezza di traffici, a tale, che
al tempo della cattività di Tomaso di Savoia, la Francia per rappre-
saglia sequestrava nelle sue banche otto centinaia di lire astesi, che
rispondono a meglio di otto milioni di franchi. Da questa città le
mercatanzie genovesi tragittavansi al Moncenisìo per tre punti diversi.
Il primo d'essi uscendo dalla attuai porta di S. Antonio piegava a
mancina verso la chiesa degli Apostoli ; a Bavigpiano, fatto un angolo
retto, tirava a destra per la cresta d'un monticulo detto il Cappèllo e
(1) Tres vite sunt ad Mutinam .... a supero mari .
Flaminia: ab infero, Aurelia: medio, Cassia.
Cicer. Thilipp. Xll, ».
SJMita C. - 14
210 RIVISTA CONTBMPORÀNBA
trascorrea fra Baldicbierì, Grambetta e Bellotto a sinistra di Villa-
franca: quindi volgendo a settentrione fra Sobrito e S. Paolo, ve-
niva a Dusino (a duodecimo lapide) e solcando il piano di Buttigliera
e Riva metteva a Chieri, Torino e Rivoli.
La seconda via, lasciata Àsti alle spalle, penetrava in vai di Ri-
late, nomata già di Giovenale, e per la regione di Terzo {tertius lapis)
correva a Settime {septimum lapidem) e per Montecliiaro, Cocconato,
Castagneto, San Raffaele e Castiglione riuscia parimente a Torino ed
a Rivoli. Più usata peraltro era la via che pervenuta a Tortona
varcava il ponte de' cavalieri del Tempio e a circa due miglia al me-
riggio di Torino piegava a Rivoli e Val di Susa. Di che dolca forte
ai Torinesi, nel cui territorio fin da tempi antichissimi era il sdltus
Taurinontmj cioè il passaggio oltremonti. Fin dal 1111 privilegia-
vali Arrigo V con la concessione della via romana (1), che dalla
loro città mettea nella Gallia, in un colla balla sui mercatanti e via-
tori che la pervagavano, e vedeansi perciò vedovati dei grassi proventi
del pedaggio e dei balzelli che le mercatanzie liguri dovean pagare
alle porte della loro città. Ond'è ch'entrarono in lega con Andrea
Delfino viennese, il quale signoreggiava le valli di Oubc e della Pe-
rosa (13 luglio 1226) statuendo dovesse egli contendere il passo ai
Genovesi ed Astigiani, che non facessero la via per Tortona, Torino
e Pinerolo.
Se la Postumia serbavasi pressoché intera, l'Aurelia da Luni a
Tortona è affatto perduta. I guasti in essa avvenuti per la sua men
salda struttura, come già avvisammo, fur tali, che fin dal v secolo
persuasero Rutilio Numaziano reduce in Francia da Roma a non
avventurarsi a quel difficil tragitto. Il poeta giunto a Pisa in com-
pagnia di Palladio (anno di Cristo 421), visitò il simulacro ivi eretto
a suo padre Lacanio già rettore della Toscana e ne udi popolarmente
le lodi ; ma funestato all'aspetto dei visigotici disertamenti e impos-
sibilitato a tener la via Aurelia già intransitabile, s'affidò al mare (2).
Allora al nome d' Aurelia sostituivasi quello di Claudia e appresso
s'ebbe altri nomi; come di MofUe Bardone, Frandgena, Francesca^
Romeay lombarda e Pontremolese. Per l'alpe di Bardone guidò re Gri-
moaldo nel 669 i Longobardi in Toscana: la percorse nell'895 Arnolfo
re d'Alemagna, chiamato all'impero da papa Formoso, e un anno
appresso il Marchese di Toscana, che il re Lamberto sconfisse; nel
(1) Monum. Hist. patr. Chartar, 1 , 737.
(3) Electum pelagus, quoniam terrena viarum
Piena madent fluviis, cautibus alta rig^nt.
Postquam Tuscus ager, postquam Aurelius agger
Perpessus Geticas anse vel igne manus.
Rut. Num. Itiner, L. I.
POBTI B VIB STBàTB DELL* ANTICA LIOUBIA 211
1100 tenne la via di Pontremoli Timperatore Arrigo IV, e ventanni
dopo papa Calisto: nel 1133 Lotario re d'Italia e Innocenzo II tras-
sero dopo la dieta di Roncaglia per queste balze alla volta di Roma.
Non dirò degli altri illustri personaggi che vi transitarono, come Fe-
derigo I che nel 1167 trovando assiepato ogni passo (1) potè a fatica
cogli aiuti d'Obizzo Malaspina, fra incomodi e disagi d'ogni ra-
gione, calare a Tortona : e Federigo II, Corradino di Svevia, Lodo-
vico il Bavaro, Luchino Visconti, Carlo Vili e tanti altri (2). Il nome
di Xomea le venne dair essere questa la sola via che dopo il x secolo
tenevano i pellegrini, i quali dal settentrione conducevansi a Roma
ed in Palestina.
Quando al primo albeggiare delle libertà municipali, i nostri Co-
muni gelosi delle proprie franchigie, più non videro nei loro vicini
che altrettanti nemici <^ sterminarsi, ognun d'essi intese ad isolarsi
non solo, ma a porsi anche allo schermo dalF aggressione dei loro
contermini. Gran parte della difesa stava appunto nelFabbarrare i
passi e rendere impervie al nemico le proprie terre : quindi le strade
si manomisero, onde difficoltare ogni facile accesso o sorpresa. Arrogi
la micidial guerra che per ben dieci anni esercitarono Federigo II e
i Pisani (1241) contro il Comune di Genova, seme d'un odio che non
perdonava neppur coli' intera disfatta de' vinti, e che maturava larga
messe di sventure all'Italia. Ben due fiate i nemici col nerbo di grosse
ed ordinate milizie penetrarono col ferro e col fuoco nel cuore della
Liguria per istringersi addosso alla città , la quale deserta dai popoli
a lei soggetti, altro scampo no)i vide che scassinar le vie che a lei
davano, asserragliare i contorni e francheggiarsi di quell'usbergo di
monti, onde l'attorniava natura. Questo disperato consiglio sorti a
prospero rìuscimento di cose : i nemici ritentarono gli aditi antichi,
ma i passi resi difficili e scabri più non consentivano il varco agli
(1) Apud Pontremolum divertit a publica strata.
Cardio . Aragon. In vit. Alexand. III.
(2) Un itinerario del 1154, opera di Nicolò abate Tragotense, indica il
nome d'alcune borgate fra il tratto di Piacenza e Luni. « A Placentia,
egli scrive, versus austrum diei itinere attingitur Burgus S. Donnini.
Has inter hospitium extat Erici. Attingitnr tura flumen Tarus ingens et
parum, quod numquam contaminatur aut miscetur, omnis enim sordes
ipsi immissa fundum illieo petit. Uuic ab austro est vicus Tari. Trans-
eundus tum mons Bardonis. Longobardìa dicitur regio a monte Bardonis
versus austrum, ad alpes versus septentrionem se porri gens Est in
monte Bardonis Crucis emporium (le Cento Croci), et villa Francorum,
tum Pontremulus, inde iter diei ad convivium Mariae. Inde urbs Luna ,
apud quam arenae lunenses. Decem milliarum itinere transeundae sunt
hae arenae amoenae , burgis undique circumdatae : illic latus patet pro-
spectus. Inter Mariae convivium Lunamque.jacent burgus Stephani (borgo
S. Stefano) et burgus Mariae (Sarzana) ».
212 RIVISTA CX)NTBlfPORANBA
eserciti. Così vennero manco le grandi vie militari , e a breve andare
se. ne cancellavano appieno le traccio. E per vero da quel secolo in
poi, più non t'occorre ne* lig^uri annali alcun cenno di cavalleria geno-
vese, che pur ne' primordii della repubblica, seguendo i fulgóri su-
perstiti della tradizione latina, s' insti tui va sulla foggio dett'<^iaA
equestre di Roma. Nel secolo dell'Alighieri, la Liguria non aerbava
che scarse vestigia dell'antiche sue vie, e i sentieri che usavansi
erano di tal fortezza ed asperità , che il poeta fraffrontandoli alla
roccia die dovea salir con Virgilio, cantava :
Tra Lerici e TurUa la pii diserta
La pii^ romita via è una scala
Verso di quella agevole e aperta (1).
Il Petrarca rammentava a sua volta — isrrestrem duritiemù$tér
tìfusticos seopulos (2). La Liguria tuffata nei negozii marittimi
dispettò le cose terrestri , ma le nuove e vergini vie che s'^iorae
sui flutti, le diedero il dominio de* mari, e aggiunsero all'antico un
nuovo emisfero.
Eiff. Gbimu.
(1) Dani. Pwrgra^, Canto 111.
(2) Petrarca. Epitt. famil, L. V, 3.
213
ST^ll STORICI E AWIINISTRiTIVI
I.
DELLO STATO, DBfiLI ORDINI K DBLLB LEGGI DI TOSCANA
NEL 4849
I. ivferteofi. — II. Vife Totcana fri i rotUmi di tutu i tempi, di tulU i regni — IH. Dal
Medici. — Vf. Di Francesco di Lorena. — V. Di Leopoldo I. — VI. Di Ferdinando III.
^TfiL DeiBoi^nidi. — THI. Dell'Elisa. — IX. Ristauro del quattordici. — X. Di Leo-
poldo II, uUimo dei GranducbI. — XI. Leggi civili. — XII. Leggi criminali. — XIII.
Leggi commerciali e militari. — XIV. Leggi di procedura. — XV. De' tribunali. —
IVI. Leggi di Lucca. — XVII. Della giustizia amministrativa. — XVIU. DelU giustizia
eeoBODiea. ,— XIX. Dell' Ammialstrazione — Comuni. — XX. Distretti. — XXI. Circon-
darli — Cempartimenti. — XXn. Stato. — XXUI. De' Mlnlstrt e del Consiglio di SUto-
— XXIV. Condizioni della Finanza. — XXV. Rendite e dispendll. — XXVI. Riflessi
ioUe rendite e sui dUpendiU — XXVU. Degli ordini della Finanza. - XXVIII. Epilogo.
—XXIX. Leggi sugli acquUU deUa Chiesa. — XXI. Loro vicende. — XXXI. Beni della
Chiesa nel quarantanove. ~- XXXII. Istruzione dei chierici. — XXXIII. Giurisdizione
e leggi ecclesiastiche. ~ XXXIV. Dei concordati con Roma. ~ XXXV. Della istruzione
pabbUca.— XXXVI. DeUa stampa. —XX XVII. Dell'esercito. — XXXVUL DeHa marina.
XXXIX. De' tratUU. — XL. Commercio e Industria. XLI. Livorno. ^ XLIL Contra-
rietà dell'industria e commercio toscano. — XLIII. Dell'agricoltura. — XLIV. Della
( continmziùne ejlne * )
XXIX. ^« Alla povertà dei Comuni e dello Stato, fitcea contrasto
Topulenza della Chiesa, smisurata, contennenda, sebbene antiche
leggi avessero vfetato che nelle larghe bisaccie del clero andasse poco
pet volta a caseare tutto il bene degli altri uomini. Già Io statuto
fiorentino del 1415 avea limitato la facoltà di nuovi acquisti : ma poi
il volere di Martino V, l'arrendevolezza de'capi della repubblica, vi
(*) Vedi nel Fascicolo precedente, la lettera a G. Finali e la prima parte
di questo scritto.
214 EIVISTA CONTEMPOBANBA
tolsero ogni riparo (114). Ugual divieto era in quel di Siena (115)
a Montemerano fino dal 1489: Cosimo I lo mantenne : Ferdinando I
lo confermò per publico bando (116) : anche Pistoia nel 1593 se ne
fece forte a vincere Tingordigia de'frati e preti, che ove non erano
impedimenti, invadeano ogni terreno. Più della repubblica i Medici,
più de'Medici i Lorenesi, furono vogliosi, siccome il lume della ci-
viltà portava, di por riparo a quella sete insaziabile de'beni altrui
onde veniva ingiuria alla religione ed allo Stato, da quelli che di
sudditi e membri, voleano divenirne compratori e signori. E fino al
quarantanove eransi mantenute le leggi che da Leopoldo ebbero il
nome, e ne lo ricambiarono di gloria, le quali limitavano gli acquisti
della Chiesa, governavano i beni e le persone dei chierici : parte
migliore della legislazione toscana, e la migliore che in tali materie
vigesse in Italia. Ma poiché, la Chiesa è tanta parte della fortuna
pubblica, de'mali, dei beni degli Stati, e causa prima della povertà
e servitù della penisola, stimo ritrarne le condizioni e i rapporti
suoi con lo Stato, discorrendo le leggi che le tolsero i privilegi,
parte dei beni, e se non disfecero le usurpazioni del passato, limi-
tavano quelle a venire.
Agli acquisti della Chiesa provvedevano due leggi del secolo
scorso (117): la prima in quindici articoli: questo ne è il succo: la
conservazione della ricchezza pubblica persuadere di porre limiti al
passaggio de'beni nelle manimorte : quindi ogni atto che in esse
trasferisse dominio o possesso di beni di qualsivoglia indole e specie,
per di più di cento zecchini, fosse nullo, se non avvalorato dall'as-
senso del principe. Nelle manimorte , così dette perchè prendono e
non rendono e ritengono con tenacità meravigliosa, erano compresi
i corpi morali, le università ecclesiastiche , laicali e miste: ninna
legge fu mai cosi ampia : parve soverchia, ed era scarsa : soverchia,
perchè faceva un fascio delle comunità, de'luoghi pii laici od ec-
clesiastici , e toglieva agli abitatori de*conventi ogni diritto a rice-
vere cosa alcuna dalle loro famiglie ; scarsa poi , perchè non pre-
vedea né riparava le astuzie e frodi , di cui furono in og^ni età
maestri i chierici , a eludere le leggi, torre a'principi la potenza,
agli Stati il sangue , cioè la fortuna. La seconda di quelle leggi,
valeva alla prima di interpretazione e aggiunta : distingueva im-
plicitamente le corporazioni laiche dalle ecclesiastiche, favoriva le
prime, inseveriva contro le seconde che eludessero la legge: di-
(114) Decr. 19 maggio 1427 nella Raccolta di leggi e statuti relativi alle
manimorte, di A. F. Adami. Venezia 1767.
(115) F. Raccolta suddetta.
(116) 31 maggio 1592. Vedi Raccolta suddetta.
(117) Leggi li marzo 1751 —2 marzo 1769.
STUOn STOBICX fi AilMlNISTRATIVI 2l6
ceva civilmente morti i regolari professi : gli concedeva solo rice-
vere legati, fino a cinquanta zecchini di contante, dai parenti pros-
simi , e serbare , nell'atto che professano voti , una rendita di ugual
somma: vietato ai secolari Tufficio dì eredi fìduciarii, esecutori delle
volontà altrui, amministratori di chicchessia: — un'altra legge (118)
gli permise poi la tutela dei pupilli , ed eseguire le \iltime volontà
dei congiunti : — la facoltà di testare in prò d'istituti laici cosi cor-
retta : a chi avesse agnati o cognati fino al terzo grado di paren-
tela, conceduto il lasciare a luoghi pii un ventesimo de'proprii beni :
tutti s'ei non avesse parenti: purché in ambo i casi il dono non
superasse i cinquecento scudi. A ridurre il numero dei beneficii, era
disposto che per dei nuovi dovesse richiedersi la grazia del prin-
cipe, ed ei l'avrebbe concessa sol quando lo reputasse convenevole.
— Queste leggi ricordano i nomi del Rucellai e dell'Alberti che le
distesero, le scomimiche da Roma minacciate al principe che le fece
sue, i piagnistei e le maledizioni del clero, l'ire invelenite de'retrivi.
XXX. — Ma se la ragione dello Stato, il lustro della religione,
i vincoli del sangue, la fortuna dei più, aveano conforto da quelle
leggi, intese a porre argine alla piena che minacciava travolgere
e inghiottire la ricchezza pubblica, nondimeno più avea potuto la
tenacità dei chierici a serbare gli acquisti che non il poter civile
a strapparli ; più l'astuzie de'chierici ad accrescerli, che non il vigor
della legge a limitarli. E neppure venne mai dato conoscere a
quanto ammontassero, meno in questi ultimi anni in cui furono
accatastati gli immobili: della ricchezza mobile, niun computo. Nel
secol scorso erano in Toscana venti diocesi, ventisette mila eccle-
siastici, trenta per mille abitanti (119): povero e questuante il clero
secolare, pingue a dismisura il regolare, insulto alla miseria pub-
blica. Immuni da tributi, le proprietà del clero sfuggivano ai cal-
coli: le querele dei laici, le contrizioni e le menzogne dei chierici,
norme ugualmente fallaci per cogliere il vero. Nel 1737 (120), im-
posto loro un primo tributo — trentadue mila scudi — aveano
gridato allo scandalo, al sacrilegio: ma le confessioni loro sebben
menzognere , rivelarono una rendita di oltre un milione e cento
mila scudi, da beni rustici e urbani, esclusi quei de'cardinali , del
sant'Ufficio, dell'ordine di Malta, e i beneficii con cure d'anime, e
i beneficii vacanti: cifra quasi uguale a quella che tutto lo Stato
(H8) Legge 9 ottobre 1788.
(119) Notizie censuarie del 1765 astratte dagli stati dell'anime, esistenti
nella filza 236 deirarchivio della Reggenza. Le riporta lo Zobi, Storia
Civile j fra Documenti.
(120) Bando 5 agosto 1737.
216 BIYISTA CONTEMPORANIU
prodttceva alla finanza (121) : ed ancora assai lùitgi dal vero. Tredici
anni dopo, accurate indagini scoprirono una massa di beni immo-
bili e fruttiferi per oltre venticinque milioni di scudi. E neppur
questa cifra colse il segno.
Varie le vicende di que'beni. La soppressione dei gesuiti (122)
fece sparire di Toscana dieci collegi, centreirtasei individui, due
milioni e più di valori : restituì alla fortuna pubblica tanti beni,
per ventimila scudi annui (128) : picciol vena per tante aeque che
stagnavano. La mira di tarpare una potenaa che s'ascoiidea e mol-
tiplicava nell'ombra , suggerì il sottoporla a pubblici pesi (124) ;
favorire il passaggio dei beni dalle mani morte alle vive, mercè
l'enfiteusi (125) costringere taluna corporazione ad alienare in quella
guisa i suoi beni; abolir le decime; vietar le questue; sopjHrimare
qua e là confraternite, abazie, conventi, fino a centocinquanta ; i
loro beni alienare per oltre tre milioni di scudi ; soccorrere con emì
11 clero secolare. — Così provvedendo còl soverchio degli uni al
necessario degli altri, tornarono al secolo beni stagnanti da secoli.
Opera questa incompiuta, poi martellata dalle mani stesse che
aveanla cominciata ; perchè dei conventi disciolti o dissanguati, al-
cuni vennero poco dopo restituiti , altri straricchiti. 3olo il tur-
bine che nel cominciare del secolo infuriò dalla Francia (126), fece
uguale giustizia di tutti, gettando a terra conventi d'ogni ordine,
sesso e colore : i beni, niuno escluso, riunì a quelli dello Stato: onde
colmarono il debito pubblico, confortarono il credito e la pubblica
fortuna. Nemmeno allora si conobbe a quanto ascendessero quei
beni : certo è aolo che oltre a tredici milioni di franchi, pr(q;>rietà
della Chiesa, isoritti nel gran libro, vennero cancellati (127) ; degli
immobili nessuna stima o calcolo.
XXXI. -*- Naufragata nell'otto la fortuna della Chiesa, era tor-
nata a galla nel quattordici. Ristabiliti gli ordini religiosi, grandis-
sima parte degli antichi beni venne loro resa, per quasi quarantadue
milioni di lire: altri s'obbligò rendere lo Stato, e pagarne intanto
(121) Alla morte di Gisngastone, la rendita della finanza ascendeva a
1,314,000 scudi.
(122) Leopoldo I, il 28 agosto 1773 diede Vexequatur alla Bolla di Cle-
mente XIV, 21 luglio 1773 : fu il più sollecito de' regnanti.
(123) Queste notizie sono date dallo Zobi, Mannaie, p. 174; e secondo
egli narra, estratte da una cronacbetta ed altre carte che si conservano
neirarchivio dell'arcispedale di S. Maria Nuova di Firenze.
(124) Legge 28 marzo 1770.
(125) » 20 dicembre 1769.
(126) i 24 marzo 1808.
(127) » 9 aprile 1809.
STUDn 8T0BI0I B àJocnotìnLLTin 217
i fhrtti. Coel la Chiesa possedè intorno a duecento milioni (1S8)^
sensa tener calcolo degli edificii destinati al culto o ad abitaaeni
dei preti. Ha d'allora in fino al quarantanove, le migUc^e dei bèni,
li nuoyi acquisti permessi dal GoTemo, le elemosine dei derotiy i iOc«
corsi della stessa finanza, a parroci , a mense , a monasteri, areano
anco aecresciuto la fortuna della Chiesa: alla ingordigia dé'èbiefici,
alla cdposa eonniyenza del Governo, debol riparo le leggi del secolo
scorso.
B perciò correndo Tanno quarantanove, questi erano i beni delle
manimorte ; la superficie loro oltre cinquecento mila quadrati,, cioè
un dodicesimo di tutto Io Stato (129): la rendita imponibile oltre tre mi"
lioni di lire, cioè un quattordicesimo della ricchezza territoriale: venti
diocesi, duemila seicento diciotto parrocchie, trecento dodici oonrenli,
diciassettemila ecclesiaiici, sopra un milione ed ottocentomila abitanti,
dieci per mille (130) ; la rendita imponibile dei laici ventisette lirv m
capo; quella degli ecclesiastici centoseesantasei. I valori moUH, i
canoBù liveliarii, .i frutti de' censi, le sovvenzioni dei devoti ^ t soo-*
cotsi delle Stato y ornai tributario della Chiesa per quasi quattro^
centomila lire annue (131), sommavano ad altrettante (132).
Altre laanimorte erano i beni dell'ordine di Santo Stefimo; Io
istituì Cosimo I a celebrare le dis&tte d^li insorti (133) : sparve in-
sieme ai beni, nel cominciar del secolo : rivisse nel quattordici : fu
dotato di cinquantamila scudi di rendita: da allora al quarantanove^
(128) Notevole fu questa risposta di Ferdinando III ai gemiti che il Pon-
tefice traeva dalla povertà della Chiesa : f Mi feci render conto dei pàtri-
ff monio che rimane tuttora ad essa nel mio granducato, e seppi ehe mai-
« grado ìawertUà dei postati tempii ascende all'incirca a una rendila di
fl quattro milioni e mezzo di lire, non valutati i seminarii, le congregs-
f zioni, le opere ed altre cause pie, né l'aumento che avverrà in quel
« patrimonio per la restituzione dei beni al clero regolare... Onde la Santità
ff vostra vede chiaro quanto viene ad accrescersi il fondo capitale tpet-
e tante alla Chiesa, il quale oggi ammonta presso a poco a duecento mi-
• lioni di lire ». Lettera di Ferdinando IH a Pio VII in data 30 agosto 1815.
(129) Risultanze catastali: Sopra 6,253,120 di quadrati imponibili, ap-
partengono alla Causa Pia ben 519,561. Vedi Rapporto stUr operazione ca-
tastale dei 90 novembre 1834 di Inghirami, Paoli e Lapo de' Ricci. Zobi
ìicBhuale p. 974.
(190) V. Zaccagni Orlandini BÀcerche statistiche sulla Toscana, t. 1,
Firease, 1851.
(131) V. Rendiconto della Finanza Toscana per gli anni 184S49-50 Cai.
Spese t tit. 9, Prospetto viu.
(192) Aggiungasi che ndll'ex-ducato di Lucca, ov'era tm catasto divétta
da quello di Toscana, i beni ecclesìAstici eraao esenti dai trìtmti.
(193) Qu^le di Montemurlo 1537 e di Scannagallol554, ambe oombai*
tute il 2 agosto, giorno di santo Stefano.
218 BIVISTA CONTEMPOBANEA
ne avea acquistato oltre un milione e mezzo, per commende istituite
da privati, in prò delle loro discendenze, poi dell' ordine. Resto di feu-
dalità In pieno secolo decimonono, nella sostanza veri fìdecommissi,
nella forma un'ingiuria alla legge che li proibì, e a quelle che limi-
tavano gli acquisti delle manimorte.
XXXII. — E nemmeno potea perdonarsi alla Chiesa quel gran
cumulo di beni, avuto riguardo al loro uso, o alla istruzione che
dai conventi si diffondesse nelF intorno. Erano ben lungi le tenebre
di quei tempi, in cui la Chiesa parve l'arca santa intesa a serbare
documento della sapienza antica , ed alla ragione de'muscoli op*
poneva il lume della civiltà , riparata in quegli asili di quiete
dalle ingiurie de' tempi. Ambo i cleri ora erano piuttosto di malo
esempio ai laici, che di aiuto negli studii. Gli studii dei chierici ne-
gletti, dammeno di quanto la civiltà del secolo e l'ufficio loro con-
sente. Il loro numero soverchio^ Ma pochi ottenevano istruzione
ne' seminari!, e quei pochi scarsa e ripiena di pregiudizi! : i più ,
qua e là coglievano un po' di latino , qualche dogma , qualche
sentenza de' santi padri, tanto da sciorre i quesiti, pei quali vestir
l'ordine sacro, buscare un ufficio, scalare una cura. Allora agli studii
addio per sempre : .pochissimi i loro libri e quei pochi, tutto Tanno
polverosi o preda de' topi, incuria degna di altri ministeri, penuria
tbllerabil solo ne' tempi in cui .il prezzo di cento volumi superava il
benefizio. Nulla di meglio ne' conventi, meno quei degli Scolopii e
Barnabiti, dediti, e con gran frutto, alla istruzione: gli altri ricetta-
coli di rozzi e pigri fuggi-fatica : né miglioravano là dentro se stessi
né altri. Sopra trecentododici chiostri, ben pochi quelli rallegrati da
sorriso di patria, o di carità e riconoscenza pubblica: della biblioteca
e della cucina loro, questa sola in riputazione e dentro e fuori del
chiostro : né di là potea venir mai dottrina che mettesse radice fra gli
uomini. Frati e preti, di sovente per mondani trascorsi, segno alle risa
ed agli schemi dei cittadini, cagion di scandalo nelle campagne; che la
religione la quale non alberga in petto de' leviti, mal si fa ricovero
e schermo del cappuccio : i voti a frenar le ree passioni non tengono.
Stella polare ai chierici era Roma guida della vita loro , cosi nelle
buone come nelle ree opere; le bolle, i decreti delle congregaizioni, fin
quelli dell'Indice, erano il lume de' loro occhi : le pretensioni aposto-
liche, articoli di fede : e dopo la fuga del pontefice, il suo esilio a
Gaeta, e i trascorsi di Roma, progresso, civiltà , riforme , parevano
ai chierici toscani, lacciuoli per sovvertire la fede, gergo di atei e
ipiiscredenti : non più adunque progresso , non più scoperte : giri il
sole, la terra stia : il pontefice imperi sull'orbe; poggi in cielo poi
capo , in terra con le sacre piante ; tributari! ! re , servi gli uo-
STUDH STOBICI B AMMINISTKATIVI 219
mini: tal Chiesa, tal fede, tal scienza, sola àncora di salute nell'uni-
verso ! (134)
XXXIII. — A siffatti animi riuscivano insopportabili i freni di
og^i maniera, che ritrovavansi nelle leggi dello Stato. Di ben dieci-
mila individui era l'esercito dei chierici secolari : il loro numero
maggior di quello dei beneficii, sebbene molti fossero i semplici, quasi
sinecure a stipendio, e quelli di regio e pubblico patronato : i primi e i
secondi davansi per concorso (135) : gli ultimi ad arbitrio : in fticoltà
de' vescovi rifiutare gli eletti, se tristi o inabili (136). Le congrue
misere : molte però le elemosine per messe, mortorii, suffragii : scarsi
in campagna i sacerdoti e le parrocchie; in città strabocchevoli:
vario il numero delle loro anime, varie le entrate, qui troppe, là
scarse o nulle: ai parroci privi di congrua concedute le decime:
vietata ogni pensione sui beneficii curati (137), e lo andare a busca di
miglior parrocchia : inamovibili quelli che da comunità o luoghi pii
dipendevano (138): obbligati alla residenza, vietato correre a feste e
uffici, e lucri, altrove (139). Molti poi gli ecclesiastici a stipendio
delle collegiate, cui prestavano la voce in coro e nulla più : chi ser-
"viva dieci anni in una chiesa, acquistava senz'altro, diritto agli or-
dini sacri. Numerosi gli oratorii privati : si accrescevano ogni anno
dei nuovi, che Roma concedeva a chi nobile e ricco poteva pagarle
la grazia. Vietato poi ai vescovi lo ordinare , come suolsi dire a
patrimonio, dove l'utile e le necessità del culto non lo r chiedano: né
per ciò diminuiva il numero dei secolari (140).
Dei regolari, tre mila frati, quattromila monache. Fra i primi,
meno i monaci che i mendicanti : quelli, di civile origine, vestendo
l'abito crescevano il loro stato: questi, di oscura, si toglievano a una
povertà reale, per una povertà sol di nome: allato de' mendicanti
molti laici, tutto il dì a busca nelle campagne per conto del con-
vento. De' conventi di monache, taluno vòlto alla istruzione : i più
alla contemplazione solitaria, più o meno evangelica: ricche entrate,
pompe frequenti rallegravano quelle monachelle : il parroco del sito
né vi aveva voce, nò confessione : confessori bene spesso i regolari
del medesimo ordine: cosi lo spiritual coniugio era perfetto: ma
(134) Il Baldasseroni scrivendo al maresciallo Radetzki Del luglio del
49, cosi parlò del clero toscano: Il clero secolare e regolare è stato fin qui
amico dell'ordine e del governo e benissimo disposto verso la Casa Austriaca.
V. Doc. Zob. t. 2, n» cxxxii.
(135) Circolare 7 gennaio 1780.
(136)
13 luglio 1782.
(137J
16 novembre 1776.
(138)
1 gennaio 1784.
(139)
7 gennaio 1780.
(140)
21 aprile 1773 , li gennaio 1778,
2M BIYIflTA OONTBMPOSAKBA
vtetato era a qve' coniugii lo accomilEiàr l# dMtaDaé, sounbiÉrsi
doni, ricordi, immagini sante. Pei frati la vestizione ayve&ita a di'
ciotto annif la professione a ventiquattro; per le monache, quella a
venti^ questa a ^nt'aoiii (141) : nò doti nò doni potevano recare al
convento (142). Nello spirituale dipendevano dal vescovo, nel reità
dal poter civile.— Questi nominava gli operai de' convénti di monaohe,
confermava i cancellieri, ministri attuarli, vicarii generali e benéfi-
ciarii di già. eletti dai vescovi : in focoltà de' quali era lo ammonire e
punire gli ecclesiastici di ogni ordine; tronca ogni dipendenaa dei
regolari dai generali residenti fuor deUo Stato : pena ai trasgressori
il rigor della legge: i provinciali si rivolgessero ai vescovi pei
n^gozii ecclesiastici, al governo pei civili; nullo ogni privilegio,
grado e onore conceduto dai generali ai regolari senza VexepuUur
del Governo (143): niun straniero poteva aver grado nei c<m-
ventì (144) : ninno avervi stanza all'infùori dd mendicanti (145) :
chi vestisse l'abito fuor dello Stato, diveniva straniero : a niun pro-
vinciale estero, a niun sindaco apostolico (146) conceduto il vie-
tare e il sindacare i conventi senza l'assenso del governo e degli
ordinarli : e nissun straniero, senza di quello, il predicare in To-
scana (147).
I sacerdoti con beneficio residenziale incardinati alla chiesa ove
esso era fondato : i sacerdoti semplici alla chiesa parrocchiale : tutti
insieme e canonici e regolari dipendenti dal parroco : dovevano aiu-
tarlo ne'divini uffloii, nel custodir gl'infermi, amministrare i Sacra-
menti^ ammannire la istruzione al popolo. Ai parroci vietato ogni
tributo a vescovi forestieri : a qualsiasi ecclesiastico ogni tributo, o
tassa in prò* di Roma (148): occorrervi il ben^lacito regio (149):
senza di quello proibito il chiedere dispense a Roma per canonici
impedimenti, all'ammissione nel clero, a conseguir benefizii, ordini
sacri, chiese curate (150). I benefizii concessi ai soli sudditi, e fra
questi a quelli che di già servivano la chiesa (151): ninno poteva
fruir di più di un bwieflzio. In potestà poi de' vescovi distribuire le
rendite ecclesiastiche senz^ obbligo aleuno verso Berna, in qualsivoglia
modo, e in qualunque tempo awwMsse la vacanza de'baiéficti di
libera collazione, o di patronato ecclesiastico (152). Le censure di
Soma, i monitorii di scomunica, senza il regio assenso né potevansi
pubblicare, né affiggere, né eseguire.
(141) Circolare 28 marzo 1785. (147) Circolare 27 anrile 1786.
(142) » 30 luglio 1783. "
* (143) » 26 ottobre 1784.
(144) » 31 giugno 1781.
(145) » 17 gennaio 1781.
(i46) » 22 marzo 1783.
(148)
15 giugno 17te.
(149)
31 giugno 1779.
(150)
IO ottobre 1777.
(151)
5 agosto 1785.
(152)
12 agosto 1783.
STU0U 6T0BI0I B AMMim6T&ATIVI CBl
Niaiuiì privilegio ii foro : alla Chiesa di Roma negata ogni po-
testà di giudicale sudditi toscani : alle curie coneeduto solo il eoBo-
score delle eause puramente spirituali : potevuio iniiggere pene di
ugual calibro ddle colpe, cioè spirituali : ai tribunali ordinarti ri-
serbate le cause di sponsali agli effetti civili, le benràciarie cori
nel possessorio come nel petitorio, i Jitigii dei chierici, i loro delitti;
niua appello a Boma dalle sentenze de'tribunali ordinaria : unieo
privilegio dei chierici le pene irrogate secondo il gius canenieo.
Cosi le cause spirituali, di pertinenza delle curie vescovili, il ma-
trimonio pel quale non vi era altea legge, e la materia dei benefldi
eedesiastict, regolate dal diritto canonico. Nel resto, la l^islaaene
civile: la legge uguale per tutti: nei diritti e nei doveri, nelle
colpe e nelle pene, ne'privilegii della difesa, nel danno dell'aceuea,
nella pluralità dei giudici, nella parità di foro, nella tutela che le
Ic^fgi luseordanrano ai beni ed fiUe peroene, gli ecdesiastioi dai kftei
ncw si distinguevano.
P«ir questo modo gli ^ni aveaao dritti e doveri pari a guelfi
itìgU altri : aacerdeid della chiesa, sudditi del poter civile : f q^isee-
patO 6 i parroci, r^tuiti in dignità, non pia servi di Bomac tm
Tioseraito de'regolari e i loro generali all'estero, interposti i vescovi :
fra i mescevi e la Curia Romana , interposto il potere civile : pi&
che altrove grande l'autorìilà de' vescovi, ma pur sempre #udditì del
pt ÌACif e : vietato ad essi il pubblicar pastorali od omelie sensa Tassenso
dri governo: le bolle di Boma, di nessuna efEU^cia se non vestite
deU'exequatur lìegio : i poteri della chiesa insomma xlistinti da ^«ett
dello 8t$tD : quiella in tutela di questo : questo non signore out pro-
tettore : e nel principe raccdta la potestà di vegliare a che epl prCf
testo della religione non si turbi la economia pubblica, l'ordine ci-
vile e morale dello Stato, la coscienza d^le famiglie.
XXXIV. -T- Ma ^e di questi ordini andavano altieri i laici, ne
veilgogiaiavano i duerici, frementi qui non meno che altrove di ee^
sene trattati a p^i di quelli : la Curia romaica poi, da più di sftfESO
sicei^ , 1^ mostrava orrore , ne 0K)veva doglianze. Nondimeno il
tksUo edificio , compiuto neJ secolo aoerae , resistito aUe mutarioni
petitiidiie , all'iva de'retrivi , ai ocmati de'chierici onde smuoverio ,
avea vigili custodi e strenui difensori. Poche leggi erano nmpvfsse
cosà fortemente nella coscienza di un popolo, come le leopddine
in Toscana : onde il governo avea dovuto rispettarle più che ogni
altro, e fino al quarantanove fare il viso acerbo a chi gli suggm:>iva
modificarle: di tutto pauroso, avea anche avuto paura a offendere
il sentimento popolare, e quella gloria che sentivano i toscftni di
aver libero qu^i compiutamente lo Stato dalla Chiesa, ridotta
la Chiesa in Chiesa, i beni de* chierici come beni mondani^ tribù-
222 KIVISTA GONTBMPORANBÀ
tarli; le persone come mortali punibili. Chi più avea da lamentare
i soprusi de'chièrici era ragione che ponesse amore a quelle leggi
che ne lo aveano liberato . Altri tempi invero aveano scavezzato in
Toscana la Chiesa a ridosso dello Stato : donde lotte antichissime
dell* uno con l'altra: perdente la Chiesa al tempo della repubblica,
vincitrice co'Medici, disfatta co'Lorenesi. Vero è che anche Cosimo
vegliò a tutelare lo Stato dalle usurpazioni de'chièrici, mettendovi
a guardia il dipartimento della giurisdizione (153). Paolo III n'era
ito sulle furie: Cosimo fermo. Ma poi tirandolo la voglia di titol
regio, permise che alla giurisdizione , Roma opponesse la nunzia-
tura , e n'ebbe in grazia il titol di granduca, nemmen quello di re ;
donde lotte eterne, lunghi conflitti, querele acerbe di Roma, ingiurie
al principe ed allo Stato : finché la nunziatura ebbe rovesciato la giu-
risdizione, e lo Stato fu allagato e invaso da chierici. Sgomenti i Me-
dici, ridanno vita alla giurisdizione perchè contrasti le usurpazioni
dei chierici, dia braccio alle ragioni de'laici : era tardi, perchè quelli
aveano ornai privilegio di foro, leggi proprie, birri, carceri, solda-
tesca, ricchezze smisurate, Sant'Ufficio, immunità reali, personali,
locali, tribimali e giurisdizione dappertutto. Leopoldo I fece argine
a tanta piena, distruggendo la nunziatura e il Sant'Ufficio : le Curie
esautorò, i chierici fece pari ai laici, e da quel giorno la domina-
zione ecclesiastica in Toscana non fu più che una memoria.
Il lungo imperio, la precipitosa disfatta, lungi dal mettere in pace
l'animo de'chièrici, aveano essi mirato ognora alla riscossa, morso
sdegnosi il freno delle leggi nuove ; ora nel quarantanove vivevano
nutrendosi di una speranza , gravissimo pensiero dei laici , che il
principe vivendo in Gaeta frammezzo alla Curia apostolica, piegasse
alle moine del Pontefice, incappolasse nelle reti che là gli tendeano
i chierici, perchè falcidiasse le leopoldine. La speranza degli uni, il
timore degli altri, divenivano invero escusabili riflettendo che Roma
non era mai venuta meno di lamenti e rimostranze, dal quindici fino
al quarantanove contro quelle sapienti leggi, ed erasi accerrita vie più
dalle ripulse che infino allora avea avuto da chi si mostrava geloso
dei diritti dello Stato. Quante volte avea tentato di stringere con-
cordati, altrettante eranvisi opposti i ministri toscani. [Il Rucellai ,
al principe che lo richiedea di consiglio avea dato questo sanissimo:
non conviene di entrar mai in trattati con la Corte di Roma (154);
(1^) Decreto del 1545, elaborato da Lelio Torello da Fano.
(154) Ecco le parole del ministro Rucellai in un voto disteso il 14 luglio
1769, sopra domanda del principe: «Non conviene entrar mai in trattato
« con la corte di Roma, e non prestar mai rorecchio a farlo per via di
m concordati, perchè, come saviamente si rileva dal Giannone» è stato sem-
«pre questo il solito colpo di riserva, che quella scaltrissima corte ha
STUDII STORICI B AMMINISTRATIVI 223
notevole poi la risposta del Bertolini — che avendo egli (Leo- '
« poldo I) rivendicata la maggior parte de'suoi diritti sovrani per
« la via di fatto, era indispensabile seguir lo stesso metodo nel ricu-
c perare il poco che rimaneva: altrimenti si correva pericolo, me-
e diante un concordato, non solo di non ottenere l'intento rispetto
e al poco che restava a rivendicare, ma di rimettere del molto che
€ si era riacquistato — (155).
Queste e le seguenti parole dettate da Leopoldo I nel partir di
Toscana, ritraevano in certa guisa i pensieri impressi nelle menti
de*laici correudo Tanno quarantanove : né avrebbono saputo dare al
principe in Gaeta altri consigli che questi del suo avo : e Non sia
€ mai usata condiscendenza veruna verso la corte di Roma, quando
te si tratta di giurisdizione o di autorità in specie nelle materie ec-
€ desiastiche.... Non si faccia innovazione nel sistema ed ordini
e veglianti in materia di chiesa e si tengano fermi tutti gli ordini
e stabiliti in quanto alla giurisdizione con avere in vista di non
e ceder mai e di resister sempre a tutte le pretensioni della Corte
€ Romana, senz'accordare dispensa o facilitazione veruna in questa
« materia. Si tenga forte nel non accettare foglio, dispensa nò breve
e alcuno proveniente da Roma senza Texequatur regio. Si tenga
€ forte l'ordine dell'abolizione della nunziatura e suo tribunale e
e delle curie dei vescovi tanto per le cause civili che criminali.
€ Non sì accordi mai dispensa dalle prescrizioni contenute nelle
< leggi delle manimorte : e per alienazione dei beni ecclesiastici non
« si abbia mai ricorsoci beneplacito di Roma i. (156) I quali con-
sigli, già ripetuti dal Fossombroni, dal Frullani, dal Corsini al prin-
cipe, ogni volta che affacciavansi pretese della Chiesa, correvano poi
nel quarantanove alla mente de'sudditi, perchè da poco erano le
leggi Leopoldine scampate da grave periglio. Innanzi la morte di
Gregorio XVI avea la Curia romana dato un nuovo assalto alla To-
scana: e chiesto: libera comunicazione de' vescovi con la Santa Sede;
facoltà in essi di delegare a chi loro aggrada la predicazione apo-
• messo in uso, e ohe mai non le ha fallito, quando si è yeduta in circo<-
« stanze di dover piegare, usando ciò per stratagemma onde acquistar
« tempo, senza frattanto nulla recedere dalle sue pretese, poiché in nes-
« sun concordato havvi dichiarazione che implichi di recedere alcuna
• cosa o preteso diritto e privilegio di fronte alla potestà laica » . V, Zobi,
Si, civ. della Toscana dal 1737 al 1848.
(155) Queste parole trovansi nella' memoria 14 febbraio 1779, del mini-
stro Stefano Bartolini, esistente nel protocollo n^ 12, Segreteria di Stato,
anno 1779.
(156) Leggonsi queste parole nelle Istruzioni lasciate alla Reggenza il
17 febbraio 1790. Contengono esse 127 articoli, si conservano nel proto-
collo 2, Segreteria di Stato, anno 1790.
23M BinSTA CONTBMPO&ANBÀ
stolica : di pubUìcare pastorali ed altri atti, senza sottoporli all*ap-
pfovasioiie del poter civile: che le materie dei veri e proprii spon-
sali fosseco eegolate dalle leggi canonidbie: che il dritto di punire
le defeaioni e trasgressioni deg^ ecclesiastici tornasse alle cvurie, e
il loro giudizio non patisse appello innanzi alla potestà laica {157).
Al nuUviso Gregorio , i ministri toscani aveano risolutamente risposto
di no : ma al pontefice Pio (158), che si annunciava tutta quanta dol-
eezia e carità di patria, non lo seppero : nel nome suo il nunóo chiese
gli m consentissero i cinque punti Gregoriani : si cominciò (grande
errore) a discuterli: da un mal passo ad un altro, il Buoninsegni venne
Riandato a Boma, onde concertarvi una lega italica, e il concordato,
tantoshè lo Stato scampando dall'Austria, incappasse nella peggiore
ddle signorie, quella dei preti. Mal scelto il messo, perdiè prete che
da Boma potea attendere un cappello di vescovo. Questo ne fu il frutto :
cIm i cinque punti, scorrendo da una all'altra delle pie mani del
Pontefice, divennero quindici (159): di furbesca dizione, sostanza
volfina» veri lacciuoli per gli incauti, tiri mascagni, perchè il gran-
diioa, come disse taluno, spezzasse lo scettro e ne gettasse la metà
nel Tevere. Conosciuti a Firenze, venneno disconfessati ; il Buonin-
segni fu in voce di matto : ebbe ordine tornarsene a casa. La corte
di Aowa, vòlta allora a ben altre cure, tacque : ma quella era tregua
e nou pace d^iurabile : intanto i oasi d'Italia fugarono il Pontefice e
il QrandMea > il quale gimgendo a Gaeta si trovò petto a petto
col Poatofi09. "- Di qui le paure de'laici, le speranze de' duerici
toscani, Nel corso di quest'istoria vedremo, anche in materie giù-
rifidinonali^ il firutto de'eonciliaboli di Gaeta.
SXSlV. "^ Lo Stato non pcovvedea meglio all'istruzione dei
laici di quel che la Chiesa provvedesse a quella de'chierici : gli
uni non aveano di che proprio invidiare agli, altri. Ora non essendo
buona le leggi che punivano i delitti, era ragione che nemmeno
tali fossero quelle che, diffondendo la istruzione, pane dell'intelletto,
mirano a prevenirli : non raccolte in forma di codice, quasi legge
unica, ma sparse disposizioni, viete consuetudini faceano l'ufficio
di legge. Bra cosi sentita la necessità di un nuovo ordinamento,
che nel quarantasette venne eletta ima commissione a comporlo. Lo
(157) V. Zobi, St. civile della Toscana, dal 1737 al 1848, t. 5. p. 391.
(i68) Nel 47 a chi parlava al Pontefice di estendere le leggi giurisdi-
zionali del i^anducato anche a Lucca, che da poco era annessa, rispon-
deva concitato — incontrerebbe fnille volte la morte prima che annuire a
tollerare un tale avvenimento, V. Nota Bargagli incaricato di Toscana a
Roma, 11 novembre 1847. Doc. Zobi, t. 2, n» cxxtii.
(159) F. Progetto di Concordato disteso dal cardinal Vizzardelii e mon-
signor Boosinsegni poi firmato da entrambi il 30 marzo 1848. Lo riporta
)o Zobi St. Civ., t. 5, Doc. 61.
STUDn STOWCI B AMMINISTRATIVI 225
stosso statuto, non ardi venir fuori, senz'annunciare che di poco
avrebbe esso tardato. L'antica sapienza, non so se deggia dire ìtaliea
o toscana, scrìtta ne' monumenti, monumento anch'essi di quanto fra
noi sappia l'ingegno, stava ad imperituro rimprovero alla incuria
de' viventi. La libertà di insegnamento antica in Toscana quanto
quella del commercio, sconfortata, minacciava fuggire una terra in
cui non valeva al governo che di pretesto a trascurare l'insegna-
mento. Solerte quello ad arricchir gallerie di belle arti, ordinare gli
archivi, le pergamene degli avi, i musei di fisica, di storia naturale,
le accad^Qtue ed altri istituti, a decoro dello Stato, a richiamo dei
stranieri, avea da tempo remoto considerato la istruzione come un
debito tutto domestico, in cui lo Stato non avea da metter voce.
Così il popolo in balìa di sé, godea non la libertà dell' insegna-
mento, ma quella dell'ignoranza, complice il governo. Nel bilancio
dello Stato, la istruzione, umile e modesta, appariva per un solo
milione, del quale la più parte era volta alle arti belle, a dotare
l'accademia della Crusca, librerie, conservatorii, ed istituti di edu-
cazione non istruzione (160) : poco più di quattrocento mila lire an-
davano all'università di Pisa, e alla clinica nell'ospedale di Santa
Maria Nuova (161). E qui limitavasi la mano del governo : ogni
altro istituto d'istruzione o era a carico de'Comuni, o della Chiesa,
0 vivea di dotazioni proprie, o della carità privata.
Due imiversità, qualche liceo, rade scuole, erano i templi consa-
crati agli studii : il numero dei templi, in ragione di quella dei de-
voti, volea dire degli studiosi. Delle università, quella di Pisa, man-
tenuta da redditi proprii e da soccorsi del governo, avea sei facoltà,
filosofia, matematica, scienze naturali, teologia, giurisprudenza e
medicina. Quella di Siena, università libera, avea solo le tre ultimcc
Nella prima erano quarantasei cattedre: nella seconda ventisette.
Delle quali alcune troppo umili meglio avrebbero convenuto a un
liceo, altre troppo sublimi a scude di perfezionamento:' dispregiando
le prime, sgomenti delle seconde, i giovani finivano per disfiorare gli
studii, ftur come l'ape, cogliere un po' di tutto, e nulla di nulla.
Poi il soverchio numero delle cattedre, frastagliando la scienza, che
è una, in infiniti minuzzoli, li abituava all'analisi, non li sollevava
aBa sintesi. Nissuna cattedra di diritto amministrativo; nondimeno
ve n'era una di economia, sola in Italia, eccezione a quel vero, che
i principi più temono Teconomista che non il demagago. A quelle
due università e all'Arcispedale di S. M. Nuova riducevasi tutta
quanta la superiore istruzione. In peggior stato la secondaria e l'ele-
V. Rendiconlo della Finanza per gli anni 48, 49, 50, Cat. Spese,
tit. 10, prosp. IX.
(161) Ibidem,
BivUta C. - 16
226 RIVISTA CONTEMPORANEA
mentare, per le quali niunà provvisione facea il Governo , abbando-
nandole a ridosso de' Comuni ode' privati. La secondaria riducevasi
a pochi licei, uno a Lucca, uno a Firenze, uno a Pistoia fondato
dalla virtù del cardinal Forteguerri : qua e là qualche ginnasio, li
seminarli dipendenti dai vescovi, e le scuole degli Scolopii e dei Bar-
nabiti, i quali volgevano alla istruzione pubblica i proprii redditi. E
nuir altro. L'istruzione elementare era tutta a carico dei Comuni : qua e
là qualche scuola or con due or con un solo maestro, mal retribuito e
perciò mal scelto. Taluna scuola normale, eretta da Leopoldo I, era
scomparsa per l'avversione di quelli che stimavano la ignoranza del
popolo guarentigia della obbedienza sua. Un privato, Cosimo Ridolfi,
Hvea aperto trent'anni addietro, scuole di reciproco insegnamento
ed avuto il conforto di diffonderle per molte città del granducato:
ma poi più poterono le guerricciuole de' retrivi, l'abbandono in cui
le tenne il Governo, che non il buon volere del Ridolfi: in specie
dopò la istituzione degli asili infantili, prima avversati dai chierici,
poi favoriti quando ne ottennero la direzione. Per ultimo eranvi
collegii e convitti, diretti con varia ragione, il più gran numero in
man de' chierici, non sorvegliati dal poter civile. In taluno serba-
vansi forme proprie de' tempi andati, reminiscenze di feudalità; i
fanciuUetti doveano chiamarsi l'un l'altro pel titolo non pel nome:
e perchè non straziasse, come un corno, un oboe fuori di chiave, fra
quella nobilea un nome senza titolo, non vi si ammettevano che quelli
i quali documentassero una nobiltà almen di quattro generazioni.
Tale il collegio di Siena.
Da queste scuole doveasi diffondere l'irruzione, il pan dell'a-
nima, per tutti i gradi sociali. Il frutto era proporzionato alla se-
menta. Fatta una somma , la Toscana , terra classica delle arti e
delle scienze, era da meno degli altri Stati d'Italia, e per numero
di scuole e di studiosi: molti i Comuni di quattro, sei, otto mila
abitanti, nei quali non si contavano scuole né per femmine né per
maschi, né per la istruzione del leggere e dello scrivere, né per la
religiosa: così condannavasi il popolo a durare nell'ignoranza, fra i
guai, le colpe, forse i delitti, che nella prima educazione e nel co-
stume pubblico hanno la ragione e accusano la impreveggenza del
governo. Sopra duecento ottantamila adolescenti, otteneano una qual-
siasi istruzione, poco più di un decimo, trentamila, per tre quinti
dai Comuni, due quinti da privati (162) : il restante morivano senza
avere appreso a scrivere la lingua che sorbivano col latte, a leggere
quel che dicevano. Con una rendita fondiaria di oltre quarantacinque
milioni di lire, lo sforzo de' Comuni e dei privati a prò dell'istru-
(162) Ricerche statistiche sulla Toscana di Zuccagni Orlandini, t. 1.
STUDII STORICI B AMMINISTRATIVI 227
zione secondaria ed elementare, non superava le trecento settanta-
quattromila lire airanno; e sopra un'entrata di quasi quaranta milioni ^
il Governo volgeva all'istruzione superiore poco più di trecentomila
lire (163) : alla inferiore, nulla.
XXXVI (164).
XXXYII. — Quel che risparmiavasi nelF istruzione andava speso
per l'esercito : né per questo avea egli vigor di corpo, ardore d'animo:
ma rotta la disciplina, disonesto il costume, virtù nessuna. Il che era
mestieri ascrivere a cause antiche e recenti. Nel passato, poca propen-
sione aveano i Toscani mostrata ai ludi di guerra : sotto la repub-
blica, soldavano mercenari! ; la milizia disdegnavano : nobiltà stava nei
trafSci , da cui non si toglieano che per difenderli se minacciati.
E perciò non pensando mai a offendere , non furono valenti che nella
difesa. Cosimo I avea fidato solo nelle milizie mercenarie, né am-
messovi i Toscani, se non quando, commesso alcun fallo, meritavano
una pena; perciò divisa di condannato avea da essere quella del
soldato, luogo di pena l'esercito, unico scampo alla galera. Svigoriti
poi gli animi in secoli di pace, posposti lungo tempo a presidi stra-
nieri (165), l'èra napoleonica non avea trovato nerbo d'uomini; solo
virtù solitari in animosi, il cui nome andò confuso nelle migliaia
dell'Impero, e la cui vita si spense in estranee contrade, per causa
non loro, mercenarii alla lor volta anch'essi. Il ristauro del quindici
richiamò gli antichi ordini della milizia, tali. quali erano due secoli
innanzi; niun profitto dalla scienza napoleonica, insegnata in un
corso di venti anni, sopra cento campi di battaglia. Scusavasene il
(ìovemo col dire che non potendo volger l'animo a difendersi da stra-
nieri assalti, pei suoi sudditi non avea d'uopo di agguerrita milizia.
(163) Ibidem, V, Bilancio della Finanza Toscana, Cat, Spese ^ tit. 10,
Prospetto IX, per gli anni 47, 48, 49, 50.
(164) Leggi sulla stampa, !<> maggio 1847 e 17 maggio 1848.
(165) Da ciò Tavversione dei Toscani, nel secolo scorso, al servigio
militare. Reco quel che la Reggenza scrìveva al granduca Francesco li
(V. Nota 17 novembre 1759, Archiv. centr. di Slato,'filza 83, n*> 1.) « Sussi-
fl stendo, dopo tanti anni di felice tranquillità, un'avversione naturale al
« servizio di guerra, non esservi stato altro compenso che di obbligare
f le comunità a descrivere li più capaci e mandarli per forza, 'accompa-
f gnati dagli esecutori (birri), senza di che poche teste si sarebbero armo-
« late ». V, Doc. Uff. pubblicati nel 1860, t. 2, Doc. lviii. — Leopoldo I ebbe
poi in fastidio la milizia: per lungo tempo non mantenne più di quattro
compagnie. Poi, con Decr. 22 febbraio 1790, disciolse anche quelle: pre-
sidiò la capitale con birri e facchini. La sbirraglia fu sempre per lui la
prediletta delle milizie. Nel 1797 il Fossombroni, in uno scritto ^nviato al
generale Bonaparte, diceva del popolo toscano: « essere cosi dissuefatto
fl dalle idee di guerra, che il solo passaggio di poca truppa, lo mette in
« pensiero •. V, Gualt. Mem. Stor. t. 2, Doc. cxxxvii.
228 RIVISTA dONTEMPORANEA
Cause più recenti, del poco conto in che erano tenuti da' sudditi
e dal Governo, le milizie dello Stato si erano queste. Ribattezzata
da un lavacro di fuoco, da un nuvolo di palle a Curtatone e Mon-
tanara, aveanò, ritornando in patria, trucidato il loro duce • né eransi
scoperti i rei, o se scoperti, non eransi puniti. Poi le innovazioni a
cui si volle dai Triumviri sottoporre quel rimasuglio d'uomini, e le
ultime vicende , aveano dato il colpo di grazia alla disciplina. Prima
di quelle novità, erano così distribuiti : un reggimento di veliti, due
di linea, dieci compagnie di artiglieri, due squadroni di cavalli, sei-
mila uomini al più: coi presidii e cogli invalidi settemila (166): coi
volootarii rimasti alle bandiere, ottomila : Indisciplinata gente, male
armata, peggio vestita; le artiglierie scarse, le munizioni disformi
dalle bocche (167) ; pochi cavalli ai pezzi, meno ai traini : da reputarsi
un miracolo lo averli trascinati oltre il confine, il tener con essi la cam-
pagna, il ricondurli a casa. Prima e dopo la fuga del principe dallo
Stato, i governanti toscani aveano mirato ad accrescerli fino a quattor-
dicimila : meglio a guardia loro che della patria. Venne creata un'Ispe-
zione generale delle armi speciali (168) : mutaronsi gli archibugi, si
crebbero fino a quattro i reggimenti di fanti, più quello de' veliti : le
batterie pure fino a quattro, di otto pezzi ciascuna, un qrfarto da asse-
dio (169): un reggimento di artiglieri diviso in due battaglioni e
sedici compagnie: una compagnia di zappatori, tre di artefici: tre
battaglioni di bersaglieri : due di guardia municipale : poi altri corpi
sotto il nome di Battaglione Italiano, Battaglione Pieri (170), Legione
Zanardi, Legione Estera, Legione Livornese. Moltiplicati i quadri,
mancavano gli uomini : il numero stragrande de' reggimenti, de' bat-
taglioni, delle legioni, non era che una jattanza, una ostentazione
di operosità, con cui si avvisarono conquider gli animi, respingere
gli impeti, difendere i confini. Notevole è che negli ufficii della
guerra non trovasi documento del numero dei militi, che allora
fossero sotto le bandiere (171) : non può arguirsi che dalle paghe.
I. pochi valorosi, che in Lombardia aveano combattuto nel nome
d'Italia, ed eran puri del sangue del loro duce, confusi ad accoz-
cagha d'ogni nazione, fuggiasca nei perigli, usa al viver licenzioso,
(166) V. Note al Rendiconto della Finanza Toscana pel 1847, ov'è indi-
cata la cifra di 7068 come numero medio de' militi toscani.
(167) Il gen, de Laugier nel Rapporto 29 maggio 1848 al ministro della
guerra, dice : gli obizzi per difetto di non analoghe cariche erano inservibili,
(168) Lettera 28 dicembre 1848 del Ministro della Guerra e quello delle
Finanze, in cui sono esposti i pensieri sull'esercito.
(169) Decreto 7 dicembre 1848.
(170) Cosi chiamato dal nome del maggiore, quello stesso che insieme
all'Orsini attentò ai giorni di Napoleone III.
(171) 7. Note al Rendiconto della Finanza Toscana per gli anni 48-50.
STUDII STORICI E AMMINISTRATIVI 229
procacciante grosse paghe (172), o pascolo a spirito torbido : gente che
nò ispirava fede a governanti (173), amore al loro duce (174), sicurezza
alle proprietà, timore ai nemici. Nondimeno la prova superò Taspet-
tazione: all'entrare de' Tedeschi, in un baleno abbandonati i confini,
gettate le armi, gli impedimenti precipitati ne' burroni o distrutti,
le inonorate divise sparse pei campi, peste per le vie, i vili a dirotta
giù pei clivi delle Alpi, libero il passo a nemici attoniti di tanta
viltà. Fuggendo apprèsero mutato in Firenze il Governo, caduti i
triumviri, ristaurato il principe, sospese le paghe: e allora divennero
infesti nell'interno (175) , più che non lo erano stati ai nemici nel
confine.
* Per queste vicende, la spesa dell'esercito che alla metà (176) e
(172) Odasi ciò che della Guardia Municipale, la meglio pagata, scri-
veva il Marmocchi, ministro dell'interno, al Guerrazzi, da Livorno, disp.
I marzo 1849 • sono due grandissime piaghe, la e la Municipale
a indisciplinata e ladra, spavento dei galantuomini e del commercio , do-
A lore grandissimo dei buoni patrioti ». |Reco questo ed i seguenti giudizii,
perchè meglio si scorgano i frutti della dominazione Lorenese, e delle
improntitudini popolari.
(173) Assai più notevoli e severi sono i giudizii che di quell'accozzaglia
fece il Guerrazzi. App, air Apologia, p. 72. 'k Di due maniere ebbi a espe-
fl rimentare volontarii, foranei e nostrali: pellegrini i primi della libertà
« non mica, bensì di quante osterie e postriboli occorrono da un estremo
« all'altro della penisola: e se non tutti, almeno in parte, e spesso fedi-
c fraghi e ladri e quando non riescano nei mal sortiti disegni, si sban-
• dano con vergogna. Dei nostrali poi, alcuni erano mossi da amore san-
« tissimo di patria, altri da ingegno torbido, da speranza di scioperato
a vivere e da presagio di facile vittoria ». V. Gazz. di Torino, 1861, n« 169.
(174) Il generale D'Apice scriveva il 27 febbraio 1849 al Guerrazzi :
« Che faranno le truppe nel momento dell'attacco? io l'ignoro». E addì
8 marzo al ministro della guerra: « Qui viviìamo ad imprestiti. La prima
t volta che un capitano si presenterà alla compagnia dicendo non vi è
t denaro, io resterò senza truppa ». E addi 6 aprile di nuovo al Guerrazzi:
II Sempre più mi confermo della falsa posizione in cui mi trovo. Se il ne-
« mico penetra per l'Abetone marcia su Firenze. Se per Garfagnana scende
a diritto a Lucca Nell'uno e nell'altro caso io sono tagliato fuori con
I le poche truppe che ho, e sulla fedeltà delle quali uon posso contare e
ff perdo l'onore ». A questi rapporti, piacevolmente rispose il ministro
della guerra: « Eimanendo senza soldati è inutile chiedere istruzioni,
« mentre se avviene la temuta diserzione, io non saprò come rimediarvi ».
(175) V, Ricordi sulla Commissione Governativa Toscana del 1849 di L.
G, Cambray-Digny, Gap. ix. La indisciplina poi era tale che da soldati
venne minacciata la vita del generale Mei ani : anche il maggior Pieri, che
fu poi complice dell'Orsini ^ corse pericoli.
(176) F. Bilancio di previsione pel 1757, in cui l'amministrazione della
guerra figura per lire 2,244,466. Trovasi fra i documenti originali passati
dairarchivio mediceo a quello delle riformagioni. F. Zobi, Stor, civ, della
Toscana, t. I , Doc. XXVII.
230 EIVISTA CONTBMPORANKA
alla fine (177) del secolo scorso superava di poco i due milioni, e
nel quarantasette (178) non giungeva ai cinque, ascese nel qua-
rantotto (179) a dieci milioni. Nel quarantanove la si previde di
undici. Il piccolo esercito, alla meglio riordinato, col disperdere i
riottosi, sciogliere i quadri che non aveano militi, cancellare i reg-
gimenti fantastici , tornare agli antichi (130) , constava allora , di
due di fanti , uno di veliti , qualche compagnia di artiglieri, altre
di cacciatori, uno squadrone di cavalli, le compagnie de' veterani,
dei cannonieri di costa, de'presidii, e nulla più: in tutto settemila
uomini. Erano cosi raccolti : la coscrizione dava i militi (181): l'an-
zianità e il favore gli ufficiali : niun collegio o scuola militare, nem-
meno per le armi dotte (182) : mancanza solo giustificata dal niiln
conto in cui esse erano tenute. Tutto il materiale dell'artiglieria e
le munizioni erano stimate nel bilancio del quarantasette (183) per
poco più di due milioni : in quello del quarantanove, dopo i seguiti
aumenti, per tre milioni e novecento mila (184): accrescevasi poi
ogni anno per poco più di quarantamila lire (185) : pegli artiglieri
spendevasi quasi un milione : il costo medio di un ufficiale dell'eser-
cito non giungeva a lire duemila per anno : quel de' militi a seicento
lire. Così il mantenimento de' corpi militari assorbiva circa sette
milioni : altri tre andavano in quelle spese che diconsi non eflfettive.
La disciplina, assai migliore da quel ch'era sotto i triumviri, quando
la turba predicando ai soldati essere cittadmi anch'essi, li trascinava
fuor delle fila, ad accender baldorie su per le piazze, ed aiutare
schiamazzi ne' circoli. Ma non era più severa di quella che negli
(177) Governo della Toscana sotto il regno di S. M. Leopoldo I. Stamperia
Cambiagi, 1790. La spesa della guerra pel 1765 ammontò a L. 1,918,294.
13. 3, compreso la marina, e nel 1789 a L. 2,272,951. 6. 4.
(178) F. Rendiconto della Finanza Toscana pel 1847.
(179) V, Rendiconto della Finanza Toscana per gli anni 1848-50.
(180) Co' decreti 13, 17, 19, 27 aprile 1849 vennero disciolti i corpi della
Guardia Municipale: de'volontarii Guarducci, Petracchi e Peva: il Batta-
glione Italiano; il Battaglione Bersaglieri: il 22 aprile aperti nuovi ruoli
pe' Yolontarii che intendessero servire 3 anni: il 27 richiamati i disertori,
e bandita una nuova leva.
(181) Leggi 8 maggio 1828 e 8 agosto 1826.
(182) Il primo pensiero d'istituire un collegio militare in Toscana, uopo
è dirlo a lode del vero, nacque nel ministro della Guerra d'Ayala; il quale
ne rendeva conto al ministro delle Finanze, in data 28 dicembre 1848 con
queste parole : avere vagheggiato assai sottilmente il pallido pensiero di un
militare liceo,
(183) L. 2,013,771. V, Rendiconto della Finanza Toscana nel 1847.
(184) L. 3,935,190. F. . » » 1848-50.
(185) Nel 1847 si spesero presso a poco, secondo il solito, 31,418 lire:
nel 1848 L. 131,851: nel 1849 L. 108,052: nel 1850 L. 57,024, e cosi via
via si diminuì : onde il materiale era pochissimo.
STUDII STORICI E AMMINISTRATIVI 231
anni innanzi il quarantotto veniva lamentata ogni volta occorresse
discorrere del soldato toscano. Ed a ragione, perchè non erano mu-
tate le leggi, per le quali in tempo di pace, i delitti dei militari
non punivansi dappiù di quelli dei civili ; e la impunità ottenuta dai
rei, anche in tempo di guerra, fino da quelli che aveano assassinato
il loro duce, avea tolto agli occhi de' militi ogni prestigio alla
legge. Tale era lo stato dell'esercito toscano tenuto in poco conto
da'cittadini, in nessuno dal principe e dalle milizie austriache. Qual
fosse poi il suo ufficio arduo era il conoscerlo, una volta che il prin-
cipe non mostrava fede che negli austriaci : ai confini omai invasi
non occorreva difesa : la indipendenza dello Stato era una vana pa-
rola co' nemici dentro casa ; ed alla interna sicurezza vegliavano
meglio assai de' militi toscani le turbe de' poliziotti e de'birri.
XXXVIII. — Ninna forza marittima, dacché Leopoldo I vendendo
le migliori navi , disfacendo le malconcie , vi avea dato il colpo di
grazia. Nissuno avea più pensato a ristaurarla. L'annua spesa della
marina che nei bilanci del secol scorso appariva (186) per più di
quattro cento mila lire, nel quarantanove era appena di centocin-
quanta mila (187) : così distribuite : centoquaranta mila al corpo, il
quale componeasi di tredici ufficiali e centotredici marinai : dieci-
mila appena a mantenere il materiale, composto di un solo e pic-
colo vapore, due o tre bastimenti, qualche barca da approdo e nul-
l'altro. Basti che ne'bilanci della finanza era valutato tutto il
materiale marittimo, lire duecento novantatre mila (188). A queste
proporzioni era ridotta la marina che in altri tempi avea corso i
più lontani mari, resistito alle tempeste, cercato tesori e lidi scono-
sciuti, vinte battaglie, superate le flotte de' maggiori Stati dell'Eu-
ropa. Non scuole navali ; non premii a naviganti ; non cantieri. Elba
e Livorno, e la spiaggia che dai confini della provincia di Pisa si
distende fino a quelli dello Stato Ecclesiastico, inutil beneficio della
fortuna. Così venendo meno la marina guerresca, mentre gli altri
Stati centuplicavano la propria, perde pure ogni riputazione la com-
merciale : che i noleggiatori preferivano munirsi di patenti di quegli
Stati che aveano forza a proteggerli.
XXXIX. — Mancando omai una marina che tutelasse le ragioni
de' sudditi e del governo, affidaronsi a trattati, i quali aveano da pro-
teggere la bandiera, i traffici, le vite dai barbareschi, il commercio da
ingiuste restrizioni,
dei defunti,
restrizioni, i patti di reciprocanza marittima, le proprietà
ti, i parti dell'ingegno , le ragioni dei privati, l'esecuzione
(186) F. Bilancio di previsione pel 1757. Archiv. delle Riformagioni :
Gov. della Toscana sotto il regno di S. M. Leop. I. Zobi, Si, civ.^ 1. 1 e 2.
(187) V. Rendiconto della Finanza Toscana nel 1848-50.
(188) F. Rendiconti del 1847-48-49-50.
232 RIVISTA CONTEMPORANEA
delle criminali sentenze. Di questi trattati, alcuni erano di antica
età, via via corretti da altri, o rinnovati, così per rinfrescare gli
obblighi o aggiungere forza ove mancava fede di contraente. E tutti
insieme, i vecchi e i nuovi componevano il dritto intemazionale del
Granducato.
Cinque trattati con Turchia: il primo (189) e il secondo (190)
antichissimi, davano ai Toscani abilità di commerciare coll'impero,
ma con bandiera e patente dell' imperatore de' Romani : un terzo del
secol scorso (191), concedeva lo stabilir consolati negli scali di Tur-
chia, le merci pagassero il tre per cento del loro valore e senz' altri
aggravii, potessero spandersi per ogni dove: altri due trattati del
trentatre (192) e del quarantuno (193) confermavano quegli accordi,
altri patti aggiungevano, base le reciprocità, fine avvantaggiare i
traffici de' Toscani in Levante. Due trattati con Tripoli (194) e Tu-
nisi (195) avvisavano di por termine nel secolo sc<^so a piraterie,
sicurare il commercio, i navigli de' Toscani, dai ladronecci dei cor-
sari, che fin nel porto di Livorno, un tempo, ardivano inseguirli.
Patti che non giiarentiti da una propria fiotta, racoomandavansi alla
buona fede tripolina e tunisina, fede corsara, peggio che punica. Con
Tunisi altri trattati confermarono questi accordi (196) , abolirono la
schiavitù (197), restituendo i catturati: per ultimo, imo del venti-
due (198) fermava amistà, libero il commercio, navigazione tran-
quilla ; le merci toscane pagassero, come in Turchia, il tre per cento
del loro valore; i consoli giudici dei litigiiira toscani ; le proprietà
dei defunti si serbassero agli eredi ovunque fossero. Uguali accordi
con Tripoli nei trattati del diciotto (199), del ventuno (200) e del
ventinove (201). E fin qui reggevano. Con Austria resse a lungo
(189) 1561. É inedito. Lo accenna lo Zobi, Storia civile della
Toscana^ t. 5.
(190) Diploma di Maometto IV, 12 febb. 1667. É inedito. V, Zobi, t. 5.
(191) Trattato di pace e di commercio dei 25 maggio 1747. V. Raccolta
delle Leggi toscane.
(192) Trattato di pace, amicizia e commercio 12 febb. 1833. Ibid.
(193) Trattato di commercio 7 giugno 1841. Ibid.
(194) Trattato di pace, di commercio ecc. 27 gennaio 1749. Ibid.
(195) » » » 23 dicembre 1748. Ibid.
(196) Trattato supplementare 13 gennaio 1758. Ibid.
(197) Preliminari di pace 26 aprile 1816. Ibid.
(198) Trattato di pace 11 ottobre 1822. Ibid.
(199) Articoli preliminari di pace 24 dicembre 1818. Ibid.
(200) Trattato di pace ecc. 21 aprile 1821. Ibid.
(201) Trattato supplementare 5 marzo 1829^. Inedito. Lo accenna lo
Zobi, St. dv., tom. 5.
STUDn 8T0BICI ^ AMMIKISTRATIVI 2S3
una convenzione del secol scorso (202), poi confermata da altra (203)
che da ambedue le parti riduceva i dazii su grasce e tessuti alla
metà dell* usato: nutrimento questo agli scambii fra i due Stati.
Altri trattati di commercio e navigazione con Inghilterra (204) , di
navigazione con Svezia (205), di reciprocità di trattamento deUe ri-
spettive bandiere con gli Stati Uniti (206), col Belgio (207), con
Prussia (208), con Austria (209), con Svezia e Norvegia (210). Acce-
duto agli accordi di Francia e Inghilterra sull'abolizione della tratta
de* Negri (211): con Svezia (212), con Austria (213), con Prussia (214),
col Belgio (215), con la Svizzera (216; cancellato il barbaro diritto
detto di albinato, per cui erano del principe i beni dello straniero,
che senza lettere di naturalità morisse fuor di patria : e per ultimo
stipulato con Austria (217) e con Francia (218) Testradizione dei rei.
Questi i trattati con Testerò. In Italia poi era Toscana vincolata
air estradizione dei rei d*ogni specie e dei disertori con Parma (219),
Modena (220), Sardegna (221), Roma (222): alFabolizione delFalbi-
(202) J:diUo di Francesco II granduca di Toscana, 23 febbraio 1748.
F. Raccolta delle Leggi.
(203) Trattato di commercio 16-27 ottobre 1769. Inedito. Le sue disposi-
zioni sono inserite nel motuproprio 18 die. 1775. Raccolta delle Leggi.
(204) Trattato di commercio e navigazione 5 aprile 1847. Ib.
(205) Trattato di navigazione 15 ottobre 1847. Ib.
(206) Dichiarazione 1 settembre 1836 del presidente degli Stati-Uniti.
7. Zobi. S^ civ., t. 4.
(207) Dichiarazione 20 dicembre 1839 del ministro degli affari esteri del
Belgio. V. Raccolta delle Leggi.
(Ì08) Dichiaraz. scambiata dal governo toscano col governo di Prussia,
9 aprile 1847. F. Raccolta delle Leggi.
(209) Dichiaraz. scambiata dal governo toscano ool governo d'Austria,
24 aprile 1847. F. Raccolta delle Leggi.
(210) Dichiaraz. scambiata dal governo toscano col governo di Svezia
e Norvegia— 26 gennaio, 25 giugno 1841. F. Raccolta delle Leggi.
(211) Atto di accessione 24 novembre 1837 ai trattati 30 novembre 1831
e 22 marzo 1833 fra Francia e Inghilterra.
(212) Dichiarazione 5-6 maggio 1819 del governo toscano e del ministro
svedese in Firenze. F. Raccolta delle Leggi.
(213) Convenzione 31 agosto 1821. F. Raccolta delle Leggi.
(214) Dichiarazione 25 apr. 1826 fra i due Stati. Ibid.
(215) » 7 aprile 1848. Ibid.
(216) » 28 agosto 1839. Ibid.
(217) Due convenzioni 12 ottobre 1829. Ibid.
(218) Convenzione 11 settembre 1844. Ibid.
(219) Due convenzioni 2 agosto 1817. Ibid.
(220) Convenzione 20 giugno 1818. Ibid.
(221) » 7 die. 1825 e 12 genn. 1836. Ibid.
(222) • 15 febbraio 1827. Ibid.
234 RIVISTA CX)NTBMPOBANBA
naggio con Parma (223), Sardegna (224), Napoli (225): alla tutela delle
produzioni dell'ingegno dalla pirateria libraria, con Austria e Sarde-
gna (226), Modena (227) e Parma (228) : alla reciprocità di tratta-
mento delle navi, nei porti dello Stato, con Roma (229): un trattato
di commercio e navigazione avea solo con Sardegna (230). Questi
i legami del Granducato cogli Stati italiani.
Fra tante convenzioni , è notevole che poche fossero di com-
mercio, e quelle poche antichissime : in Italia una sola : più che a
prosperità dei traffici, moltiplicità di trattati a riavere i delinquenti:
confusi i rei di Stato con quelli di dehtti comuni.
Poche le legazioni e i consolati a rappresentare all'estero le ra-
gioni dello Stato, amicargli le Corti, doppiarne i rapporti, tutelarne
i traffici e i sudditi. Fino al quarantasei non avea la Toscana che
tre legazioni, a Vienna, a Parigi, a Costantinopoli. Nel quaransette
vi aggiunse quella di Roma. Nel quarantotto quelle di Napoli e To-
rino. A Londra, a Pietroburgo, a Madrid, a Lisbona, all'Aja, a Ber-
lino, non avea alcun ministro. La spesa delle legazioni giungeva
appena a trecentomila lire per anno (231). Ma anche più imperdo-
nabile era la scarsità dei consolati: nulla costavano allo Stato: in
alcuni luoghi le ragioni dei Toscani erano affidate ai consoli del-
TAustria: là dove poi lo Stato avea consoli proprii, o erano stranieri
a Toscana o mercanti che, soddisfatta la boria, si industriavano a
rimuoverne i pesi : e vi riuscivano a meraviglia : sicché né le ra-
gioni dei privati aveano mai efficace protezione, nò lo Stato ricevea
lustro da quei consoli. E il Governo, il quale dava fondo ogni anno
a quasi una entrata di quaranta milioni, qui usando una malconsi-
gliata economia, coglieva questo frutto, di isolare Toscana nel bel
mezzo d'Europa, mantenerla all'infuori de' grandi commerci, lontana
da grossi centri, impoverire i sudditi, ed assottigliare ogni anno le
risorse dello Stato; necessità allora di prestiti o nuove imposte.
XL. — Nondimeno la ricchezza nazionale mantenevasi pei buoni
ordini economici , ch'erano la miglior parte dell'armatura dello
(223) Trattato 2 agosto 1817. V, Raccolta delle Leggi.
(224) • 5 gennaio 1818. Ibid.
(225) Decreto del Re di Napoli 3 maggio 1819. Inedito in Toscana.
V. Raccolta delle Leggi delle Due Sicilie.
(226) Accessione 7 dicembre 1840 al trattato.... fra Austria e Sardegna.
(227) » 7-10 febbraio 1843 al trattato suddetto.
(228) » 14 febbraio 1843.
(229) Notificazione del governo di Livorno, 23 febbraio 1847, con cui al-
l'art. 3 si stabilisce il trattamento della bandiera pontificia. V. Gazzetta
di Firenze , n. 24 del 1847.
(230) Trattato 5 giugno 1847.
(231) V. Rendiconto della finanza 1848-49-50, cat. Spese, tit. 3, prosp. II.
STODII STOEICI B AMMINISTRATIVI 235
Stato , meraviglia e scuola agli estranei (232), vergogna agli altri
Stati d'Italia pei quali pareva invero non valesse esempio o scuola.
Ora risalendo alla origine di quegli ordinamenti, verrà in chiaro
come i Toscani fino al quarantanove ne menassero un giusto vanto,
e il Governo, il quale potè aprire il confine ai nemici de' suoi sud-
diti, non ardisse mai vulnerare quegli ordini. Notevolissimo indizio
della civiltà toscana, le buone leggi dello Stato essere cosi impresse
nella coscienza de' cittadini, che il Governo non potesse falcidiarle,
senza offenderli, e quanti erano i cittadini, altrettanti fossero i vi-
gili custodi di quelle leggi. Perchè da quelle riconosceano la ric-
chezza di cui godevano. Avea essa patito varie vicende: prospera
quando ne' secoli andati era quasi privilegio delle repubbliche ita-
liane, scadde poi con la loro fortuna. Prima cagione di prosperità
le crociate, per cui i mercatanti toscani si spinsero in Levante, reca-
ronvi merci , trassero tesori : sì un tesoro anch'essi vi portarono,
quel della civiltà, che disdegna i confini, vince le distanze, ha a
patria il mondo. Firenze e le altre città italiane erano allora i ban-
chi degli Stati europei : la libertà moltiplicò quelle ricchezze : poi il
principato le assottigliò: i mali ordini le distrussero: traffici e so-
stanze s'apersero altre vie, approdarono ad altri lidi. Si aggiunsero
le scoperte dell'America, e del Capo, sconsigliate guerre in Levante
a mutare i centri della mercatura , torla a noi , recarla in paesi
da poco sbarbariti. La concorrenza fece il resto. Grandezza di Stati,
grossi eserciti , gloriosa marina , avea dato i mari e i traffici in
mano a Inglesi, a Fiamminghi, a Spagnuoli, poi a Francesi: per
opposte cagioni li aveano perduti le città italiane: e dove più era
bisogno di scienza a vincere la potenza degli stranieri, eran nate
leggi disparatissime, irrazionali, aiuto alla concorrenza degli altri
popoli. Anche in Toscana la si aiutò per mille guise , con leggi
restrittive , proibitive , che volendo fare dei traffici un privilegio,
e proteggerli di troppo, tolsero loro il sole, che sol li vivifica e
scalda , quel della libertà. Di qui erano nati , per manco di sa-
pienza, dazii enormi sulle materie di cui avea più d'uopo l'in-
dustria, divieti per quelle ch'erano del suolo, dogane da città a
città, molteplici sistemi di esazione, varietà di imposte : quant'erano
i Comuni altrettanti gli Stati dannati al cerchio di poveri interessi,
a versarsi in ogni ramo di traffici, quant'erano le necessità del Co-
(232) Riccardo Cobden, venuto in Italia nel 47, parlò cosi innanzi ai-
rAccademia de' Georgofili : «Lasciatemi aggiungere che noi avemmo il
fl vostro buon esempio; noi non isdegnammo, ve l'assicuro, di citare l'e-
« sempio della Toscana, perchè stampammo un rapporto sul sistema del
u libero commercio di questo paese, rapporto ehe fu consegnato a ciascuno
r dei membri della nostra Camera dei Comuni ». F. poi la nota 241.
236 RIVISTA CONTEMPORÀNBA
mune: veri piccoli mondi, che aveano a bastare a sé e provvedere
solo per sé. Notò uno scrittore, che una merce la quale fosse da Li-
vorno inviata a Cortona, toccava dieci dogane, quarantaquattro im-
poste, perdendo un sesto del suo valore (233). Non migliori le in-
dustrie : statuti senza numero, privilegii d'ogni ragione, fuor di una
àola: fin allo spirare del secol scorso, erano vissute le corporazioni
dell'arti : lo esercizio era un privilegio : il privilegio sottraeva i pri-
vilegiati al gius e al foro comune: i figli seguivano la sorte del
padre: obbligo in essi di appararne il mestiere: vietato il torsi da
una per altra ofScina senza il consenso dei padroni e de' consoli
dell'arte : mercedi scarse ; insufiScienti al cibo quotidiano : gli operai
in peggio stato de' coloni: sicché l'industria difettava di braccia :
soverchia protezione la soffocava, essa che per vivere ha duopo di
aria libera : e soventi, capitali, ingegno e forze produttive si fran-
geano in vani sforzi. Onde, fra queste pastoie e mali ordini, nel
secolo scorso la industria era nulla; languido il commercio: né
bastava a inanimirlo che Livorno fin dai tempi di Cosimo I fosse
porto-franco : le importazioni valutavansi otto volte più delle espor-
tazioni : queste al più otto milioni : due terzi erano manifatture (234):
la popolazione, stazionaria, indizio infallibile di miseria.
Tali erano (235) le condizioni dei traflSci e dell'industrie quando
nel secolo scorso spuntò l'aura della loro libertà: guai, di cui anche
nel quarantanove talun vecchio poteva serbare ricordo. Pochi poi
ignoravano, e qui consisteva il vanto di Toscana, che sedici anni
prima del Quesnay (236), trentuno del Galiani (237), trentasei di
Adamo Smith (238), Sallustio Bandini (239), umile prete, avea a
principe qui granduca , in Vienna imperatore , favellato di libertà
commerciale : e quando il Colbertismo imperava in Europa, e prima
che Turgot lo combattesse, e Roberto Peel molti lustri dipoi lo
distruggesse in Inghilterra, il Neri (240) toglieva in Toscana i vin-
(233) Carli. Saggio politiro ed economico della Toscana, Milano 1787. Lo
scrisse nel 1757 ; ebbe gli appunti dalla Dogana di Pisa, ov'era direttore
F. M. Gianni, che poi fu senatore e ministro.
(234) Carli. Ibidem.
(235) Sul commercio e sull'industria toscana , V. Pignotti, Saggio sul
commercio dei Toscani; Zobi, Manuale economico.
(236) Quesnay. TraUalo sulla libertà dei grani, inserto neirEnciclope-
dia. Parigi 1755.
(237) Galiani. Dialoghi sul commercio dei grani. Parigi 1770.
(238) Smith. Sulla ricchezza delle nazioni , 1775.
(239) Bandini. Discorso economico sulle maremme senesi, scritto nel 1736,
f presentato a Francesco II nel 1739, quando il Galiani avea undici anni, e
0 Smith ne avea nove. Quel discorso venne stampato solo nel 1775,
morto l'autore.
(240) V, Memoria del Neri a difesa della legge sul libero commercio
dei grani, inserta nelTappendice ai Provvedimenti annonarii , del cav. Fab-
broni.
STUDII STOfilCI B AMMINISTRATIVI 237
coli del commeFcio, sbrigliava i traffici e le industrie, nel nome
de' principi! che alBandini valsero in vita fama di pazzo, e dopo morte
gloria imperitura : la quale principi e scrittori fecero poi loro (241),
frodandola al Bandini, quando egli non parve più tocco da pazzia o
fu gloria apparire prima di lui pazzi. Così il commercio, nato libero,
avvincolato poi, tornò libero in Toscana prima che altrove. Ora
poiché le leggi nuove non vennero distrutte mai più, discorren-
dole brevemente , avrò raccolto in questo fuggevole quadro, quelle
che erano in vita nel quarantanove, a gloria e prosperità dello Stato.
Vincoli distrutti, libertà diffusa negli ordinamenti economici, ma a
gradi, a spizzico, tanto che il passaggio dalle restrizioni ai benefici!
del libero scambio avvenisse senza gravi perturbazioni. Erasi inco-
minciato dal commercio dei grani, un tempo costretti a restar dove
erano, marcir sul sudo, se abbondavano : prima conceduto il trarli
dmlla sola maremma per dodici anni (242), poi lo introdurli nello
Stato per quattro mesi (243), indi per sedici (244), e per ultimo,
meno lievi limitazioni, a tempo indefinito (245) : sparvero ancor
quelle (246): la congregazione dell'annona e le magistrature che
aveano a scopo satollare e invece affamavano, caddero per non ri-
sorgere : la vigilanza del Governo nei prezzi de' prodotti del suolo,
nelle sussistenze, si parve, quale è, nefiasta (247): e il commercio
dei grani divenne libero. Tolti i gravosi dazi! sui frumenti esteri,
eran pure scomparsi quelli che fra città e città ne contrariavano la
circolazione (248), il divieto di fabbricare o vendere pane, le tasse e
privative sul vital nutrimento.
Sancito il principio del libero scambio, che prima o poi afliratel-
lerà tutti ! popoli per via di scambievoli profitti, mancava il trame
il maggior partito, onde i germi che Toscana racchiudeva in seno
e fino allora imbozzacchiti per manco di spazio e di libertà, frutti-
ficassero. Quel che più ripugnava ai principii della sana economia,
le gabelle sulle prime necessità erano state moderate : scosso l'antico
(341) 11 governo inglese nel 1827 richiese alla Toscana comunicazione
delle leggi sulla libertà del commercio dei grani e delle modificazioni
che aveano subito negli ultimi trent*anni.
(343) Nel 1739 , ma solo per due terzi d^lle granaglie raccolte nelle
maremme.
(343) 2 aprile 1764.
(244) 7 aprile 1766.
(245) 18 settembre 1767.
(346) 24 agosto 1775.
(247) Diceva il Fossombroni : « Un governo fa troppo poco quando non
fa nulla per regolare i prezzi delle cose ; per fare abbastanza, dee assicu-
rare il pubblico che non farà mai nulla in quel senso, e 'specialmente noi
commercio delle sussistenze ».
(248) Decreto 15 settembre 1766,
238 RIVISTA CONTBMPORÀNBA
sistema daziario (249) : le dogane distrettuali così regie che dei
Comuni, le tariffe estratti parziali erano scomparse: serbatasi una
sol linea doganale, quella della frontiera: una sol tariffa per Tin-
troduzione, estrazione e transito delle merci: alle porte delle città,
il dazio consumo, vario dall'una all'altra: tolti i balzelli sui pesi e
misure che tormentano il piccolo commercio e di poco aiutano l'era-
rio. Compiuta poi, nel secol scorso, una nuova tariffa daziaria, via
via corretta e ampliata, vivea ancora nel quarantanove : buona dap-
prima, non lo era più quando lo svolgersi dei traflSci e di una più
di altra industria, ne chiesero una migliore e consona alle mutate
condizioni.
Anche l'industria crasi emancipata dalle antiche pastoie (250):
i vincoli alle arti ed ai mestieri, gli obblighi degli operai, le patenti
di esercizio, i monopolii opificiarii, le privative, i privilegii d'ogni
maniera, il magistrato supremo e le corporazioni delle arti, i tribu-
nali e gli statuti che vi presiedevano, le leggi che offendevano la
libertà dell'uomo, e isterilivano l'industria, omai non erano più che
nella memoria de' nostri vecchi : distrutti i limiti alle mercedi eransi
resi agli operai i diritti, i doveri, la dignità di liberi uomini. Queste
innovazioni, per le quali il commercio e la industria riebbero lena
e sangue, compiute mentre in Europa signoreggiava il protezionismo,
aveano sollevato a molta altezza il piccolo granducato, da meritare
le acerbe critiche degli uomini che sogliono a priori condannare
ogni novità.
Quelli invece che lo staiu quo giudicano, negli ordini civili, segno
di regresso, e negli economici padre di povertà, faceano lamento
che questi fossero nel quarantanove tal quale erano sessant'anni in-
nanzi: onde Toscana già fosse addietro a quegli Stati che da lei
ebbero il primo esempio. E che le industrie fossero abbandonate di
soverchio a se stesse: la iniziativa privata dovesse supplire all'in-
curia del Governo : nissuna scuola di arti e mestieri : al naturai genio
degli abitanti lasciata la cura di migliorarli , alle forze ed alla ope-
rosità loro quella di regolare i traffici, accrescerli, aprirgli nuove
vie. Le Camere di commercio da anni molti aveano cessata ogni vi-
gilanza : sicché non illuminavano il Governo sulle necessità dei ne-
gozii, né i cittadini : Governo e governati, fiduciosi omai nella bontà
degli ordini leopoldini, si tenevano a quelli, e pareva loro non occor-
resse di più alla felicità dello Stato. Vero é che da qualche anno (261)
(249) Decreto 31 agosto 1781.
(250) Decr. 1 febb. 1770, 2 giugno 1767, 9 dicem. 1768, 4 aprile, 10 set-
tembre, 25 ottobre, 5 e 9 dicembre 1771, 21 gennaio, 9 maggio 1772 , 18
gennaio, 20 febbraio, 17 marzo, 26 aprile, 14 giugno 1773 ecc.
(251) Decreto 12 luglio 1839.
STTJDIl STORICI B AMMINISTRATIVI 239
Ogni triennio avveniva in Firenze una mostra delle arti e manifatture :
la emulazione era eccitata per via di premii : i perfezionamenti per via
di confronti : aperti alcuni tronchi di ferrovia, quel da Livorno a Fi-
renze, da Siena ad Empoli, da Firenze a Pistoia, da Lucca a Pisa ; in
tutto un duecento chilometri : in progetto altre linee : ma poco assai
poteano influire sulla industria parziali mostre di quella toscana, e
sul commercio, tronchi di ferrovie, racchiuse dentro i confini dello
Stato. Più linee telegrafiche, ma a sola disposizione del governo,
non del pubblico. Poi nessun stabilimento di credito, fuori delle ban-
che e le casse di risparmio : le une e le altre di fondazione privata :
queste erano più di venti, di cui la centrale in Firenze (252): di
quelle una a Livorno, una a Firenze (253) e nelle principali città :
aveano statuti varii, e liberi un dall'altro.
Ma quantunque gli ordini economici poco avessero progredito
in dodici lustri, la industria e il commercio eransi andati svolgendo^
singoiar virtù di quegli ordini. Fra le industrie prosperavano nel
quarantanove le minerali quantunque nate da poco : quella del ferro
dell'Elba, ì forni fusori di Follonica, il rame di Montecatini, di Mon-
tevaso, di Rocca Federighi, il borace di Montecerboli, il piombo e il
mercurio di Pietra Santa, il fossile di Montebamboli ; principali ric-
chezze, che la industria privata trae dalle viscere della terra e reca
all'estero, ove le scambia con cereali, cotoni e bestiami. Altre indu-
strie, i cappelli e le treccie di paglia, i panni di Prato, gli alabastri
di Volterra, i coralli di Livorno, i mosaici di Firenze, i tessuti di
Pisa, le paste di Pontedera, e le sete, gli olii, il vino, i legnami. Colle
industrie prosperavano i commercii (205).
L'importazione che nel secolo scorso era otto volte più della espor-
tazione, nel quarantanove stimavasi a fatica \in terzo di più : taluno
credeva invece fosse assai di meno (255) : la esportazione che dodici
lustri innanzi limitavasi ad otto milioni di lire, nel quarantanove su-
perava di certo i cinquanta milioni. Fra le merci esportate notevole
l'aumento seguito nelle treccie e cappelli di paglia, che nel secolo
scorso giungevano appena a un mezzo milione di lire (256) e nel
quarantanove superavano i dodici milioni: all'incontro la esportazione
delle sete e dei drappi serici era discesa da quattro a due soli milioni
di lire. La proporzione fra l'entrata e l'uscita dei prodotti e delle
(252) Furono inlrodotle in Toscana nel 1829» e approvate dal governo
il 30 marzo 1830.
(253) Gli statuti approvati con le notificazioni 8 agosto e 4 ottobre 1826.
(254) V. Zobi, Manuale, p. 423-5. Prospetto comunicatogli dal governo
pel 1841.
(255) Ibidem, p. 426.
(256) r. Carli. Saggio politico ed economico mila Toscana,
240 BIVISTA CONTBMPOKANBA
merci, non meno che l'indole delle tariffe doganali, si rivela dai risul-
tati della finanza (257) : le gabelle di introduzione ai confini frutta-
vano nel quarantanove circa tre milioni e seicentomila lire. Quelle
di estrazione, poco più di duecentocinquantamila: il transito un
centomila lire: il resto dei proventi doganali, quasi cinque milioni,
nasceva dal dazio di consumo. Di grande utilità sarebbe lo accertare
il prodotto delle industrie e l'ammontare dei traflSci, prima o dopo
i nuovi ordini, onde così metterne a prova la bontà. Ma fin qui
niuno potè compiere un simil studio (258) : fino al quarantanove e
più innanzi, non oravi alcun ufficio che ne raccogliesse gli elementi.
Anzi composta da privati negli anni avanti una società di statistica,
il Governo l'approvò (259), il buongoverno, allora onnipotente, no:
quello ammise lo statuto della Società (260), questo proibì ai Comuni
di somministrarle notizia alcuna. Cose che ad estranei appariran
false, eppur son vere.
XLI. — Ma sebbene privi di notizie statistiche, là dove anche ai
ciechi ed ai più avversi si pare il frutto del libero scambio, ò Livorno.
La popolazione che nel secol scorso non giungeva a quarantamila (261),
superava nel quarantanove, gli ottanta (262) : tutti vòlti ai traffici,
airindustrie o al mare. La cinta della città che allora era meno
di tre miglia, ora giungeva a cinque. Solo da due secoli avea grado
di città : da tre, il porto-franco, il quale avea più giovato a stranieri
che ai Toscani : stranieri i capitali, i mercatanti e le merci : minima
parte quelle dello Stato : ora la libertà de* grani, Tabolizione dei
ceiq>i al commercio interno, avvivando quello, avea trasformato Li-
vorno : di scalo a prodotti stranieri , era divenuto sfogo ai proprii
ed alimento ai traffici dell'Italia centrale. Congiunta a Firenze da
una ferrovia , attendeva e attende si compia la rete delle italiche,
per versarsi potente in ogni veicolo del commercio: quella intanto
di Firenze vi recava le derrate dello Stato, e univa Livorno alle più
(257) Rendiconto della finanza toscana nel 1848-50, cat. Entrate, tit. II,
art. I, prosp. I.
(258) Tuttavia, molte utili indicazioni trovansi nelle opere statistiche
del Serristori e del dott. John Bowring.
(259) Rescritto li settembre 1824.
(260) Rescritto 16 maggio 1825. Vedi Antologia, voi. XXIX a XXVII.
(261) Il Fossombroni , ministro di Ferdinando III, in uno scritto in-
viato nel 1797 al generale Bonaparte (F. Gualtexio Mem, Stor,, t. 2, Do-
cum. cxxxvii), riporta queste parole dell'Arnould, dalle quali apparisce il
progressivo sviluppo di Livorno, e la popolazione sua nella fine del secolo.
« La popolazione, che nel 1767 non giungeva che a 30 mila abitanti, supe-
« rava i 58 mila nel 1781 Gli Israeliti nel 1784 erano 7 mila, e nel 1790
e più di 18 mila t. Notevole è lo sciamare degli Israeliti dalla Toscana da
allora ad oggi. Nel 1849 Livorno ne conteneva poco più di 4 mila.
(262) F. Zuccagni Orlandini, Ricerche statistiche sulla Toscana, t. i.
STuDii Storici b amministrativi 241
prospere città della Toscana. L'olio, giunto ch'era dall'interno e dal-
l'estero, si riponea in certi bottini, cosi chiamavansi, specie di docchi,
ove capono ben venticinquemila barili: sono trecento ventiquattro
recipienti, murati, vestiti di lavagna, capaci di sessanta a ottanta
barili per ciascuno. Li grani serbavansi in grandi fossi o pozzi mu-
rati e asciutti. La media quantità che colà ritrovavasi era più di
quattrocentomila sacca. Livorno, un tempo città sol di commercio,
lo era divenuta, dacché cessò il sistema regolamentario, anche delle
industrie: nel quarantanove prosperavano quelle del corallo, la ma-
nipolazione dei cenci, fabbriche di sapone, di cf|pelli di paglia, di
vele, cordami, di tartaro, di biacca, di salnitro, raflSnerie di borace,
conce di pelli, mulini a vapore, fra le principali industrie : dei loro
prodotti, picciol parte andava in Toscana: il più, si spandeva in
Levante e nelle Americhe. Ma sovra ogni altra industria, rigogliosa
quella della costruzione delle navi : si aiutava de' legnami indigeni :
nata fin dai tempi dei Medici, poco o nulla aveva progredito: il suo
grande sviluppo data da questo secolo: quasi la industria privata
vergognasse dell'avvilimento in cui il Governo avea gettato la ma-
rina dello Stato, e si studiasse costruirne una nuova. Il numero dei
bastimenti mercantili che nel secolo scorso appena giungeva a cento,
nel quarantanove superava ]i trecentocinquanta, della capacità di
ventimila tonnellate (263): salivano in quelli, duemila e cinque-
cento marinai. Il movimento marittimo nel porto di Livorno era di
ottomila legni per anno, capaci di ottocentomila tonnellate. Le imbar-
cagioni potevansi valutare tonnellate : gli arrivi per la somma
dei suoi traffici superava li milioni. Sopra novantamila abi-
tanti, ventiquattro case di commercio possedevano più di un mi-
lione: taluna anche otto o dieci: un quarto di esse erano toscane : le
altre oriunde straniere : il maggior numero greche e ricchissime.
Nondimeno, nullo era lo spirito di associazione ;x tutto compievasi per
isforzi individuali : anco i legni, di qualunque portata fossero, appar-
tenevano a un solo: basti che non un sol vapore mercantile avea
bandiera toscana.
XLII. — Tali erano le condizioni commerciali dello Stato. Diffi-
cile il dire se omai fosse giunto a un punto , oltre il quale non
gli fosse conceduto il far cammino , finché o il Governo, o le associa-
zioni private non aiutassero i traffici, con una considerevole marina
od altri modi ; e la Toscana rimanesse in mezzo a Stati con cui non
potea moltiplicare gli scambii. Perchè un sol trattato di commercio
avea in Italia, col Piemonte, un semplice accordo con Roma pegli
(263) V. Suir avvenire di Livorno , discorso del prof. Bonaini, Ietto al-
rAccademia dei Georgofili il 1« giugno 1856. V, Torelli , Avvenire del s
commercio europeo, t. IH.
Rivista C. - 16
242 RIVISTA CONTEMPORANEA
approdi: nissuno di ferrovie, di telegrafi: le proprie linee ammezzate,
tronche ai confini, colpa i diversi umori e sistemi che oltre quelli
prevalevano. Piemonte oppresso dal protezionismo, Roma da ordini
empirici, convenevoli tutto al più a terre allor allora scoperte dal-
l'acque 0 dalla civiltà. Non sarebbe facile il dire che cosa avesse
potuto la Toscana accomunare con que' Stati, se prima essi non si
fossero sollevati fino a lei, od ella non avesse rimesso parte della sua
libertà commerciale. Finché adunque le relazioni fra Toscana ed i
vicini erano difficili come quelle con la Cina o l'India ; ed i prodotti
suoi, perseguitati A^onfini da dazii enormi, come le merci russe o
inglesi, le industrie e le arti non potevano sperare un gran sviluppo.
Il contrabbando, è vero, si intromettea fra le produzioni toscana e le
dogane nemiche, in specie dal lato di Romagna ; ma i fabbricanti non
poteano doppiare i loro prodotti sperando salute dal contrabbando :
sfuggivano quindi le migliorie, perchè il frutto non dava compenso
ai sacrificii : produceano non secondo le materie prime dello Stato o
il genio inventivo degli abitanti, ma in ragione dei bisogni locali
e delle probabilità dello smercio. Così avveravasi per Toscana quel
che potea dirsi di tutta Italia, che il lavoro era mal distribuito, le
industrie spostate dai loro naturali luoghi, e i prodotti contro genio:
dal che la mediocrità loro. Il vapore avea rese libere le navi dai
venti, le ferrovie eransi sostituite alle rotabili, il telegrafo avea sop-
presso le distanze, spostati i grandi centri della mercatura, molti-
plicati i rapporti, fusi gli interessi degli Stati in Europa, in tutto fi
móndo, meno che in Italia: ove perfin la Toscana, vessillifera al
mondo di libertà commerciale, non avea potuto fare un passo dal di
in cui raggiunse il massimo di quella prosperità che da leggi
ottime, picciolezza di Stato, e guerricciuole di dogane nemiche, le
era consentita.
XLIII. — Nondimeno la popolazione che alla metà del secolo
scorso era di ottocentomila, e nel cominciar di questo un milione
e cento, era giunta nel quarantanove a oltre un milione e sette-
centomila (264): né parca dovesse arrestarsi qui. Cagion dell'aumento,
legge davvero universale , la prosperità dello Stato : e di questa ,
il libero scambio ch'erasi sostituito ai vincoli ed alla protezione,
e la libertà agricola, la quale avea spezzate le servitù rurali. Il
che mi invita a conchiudere questo quadro, discorrendo le leggi
che vegliavano all'agricoltura, e le condizioni della piU laboriosa
parte della popolazione.
Non è dato bene intendere il moto ascendente della ricchezza
(264) V. Zuccagni Orlandini, Ricerche statistiche sul granducato di To-
scana, tom. I. Rendiconto della finanza toscana 1847-48-49-50,
Studii Storici b amministrativi 243
territoriale toscana, senza volgere per un istante le spalle al presente,
e riguardare un secolo addietro. Allora lo Stato potea dirsi unità
immaginaria, e il diritto di proprietà il più dubbio di tutti i diritti:
cinquanta feudi sbocconcellavano lo Stato : vincoli d'ogni maniera
isterilivano il suolo. Principe e villici alle prese, quello co'feudatarii,
questi co' padroni. Un terzo del suolo era campi e pascoli: il resto
boscaglie, roccie e paludi : i miasmi , nell'estate vi fugavano i vil-
lici : privilegi ed esenzioni richiamandoli, sospingevanli a morte: tagli,
colmate, e argini, impotenti a ridar salubrità a tanta parte di suolo:
onde sopra ottanta miglia quadre, solo ottocentomila abitanti, cento
per miglio. La proprietà era indivisa, ristagnante da secoli, privilegio
del clero, de' feudatari i, de' nobili d'ogni grado e ragione: scarsa
parte aveano cittadmi e villici : proprietà sol di nome ; conferiva
obblighi; nulla più (265). Era privilegio de' ricchi sopra le terre dei
poveri, la caccia, la pesca : privilegio di quelle terre, le servitù di
pascolo, macchiatico, legnatico: de' villici le servitù personali, l'obligo
di abbandonare il ricolto, frutto dì tanti sudori, per lavorare a strade
ed opere pubbliche, quando da feudatarii o da Comuni n'erano ri-
chiesti. Vietato lo sboscare senza licenza, l'escavar miniere, ricercar
tesori, monumenti, piantar tabacco, coglier sale ; le imposte a ca-
priccio; fallaci le stime de' beni; immuni quelli de' feudatarii, del
principe, del clero: fra i privilegii, quello per cui lo spendivendolo
de' conventi avea diritto scegliere su mercati il meglio, prima che
altri: gravi multe ai contravventori. Ricordo altri vincoli perchè diano
ragione del come la condizione dei villici fosse abbietta, le leggi fi-
scali, il suolo incolto. Era vietato il vendemmiare senza licenza del
giudice: obbligo denunciare il ricolto, il nascimento del bestiame,
le vendite : gabelle per ogni dove, il divieto di circolar frumenti, il
prezzo legale dei ricolti, le decime, le privative, fin per la vendita
del pane, le tasse fin sui macinati, il sigillo delle carni, cause di
frequenti carestie, assottigliavano il rozzo e scarso nutrimento che
i villici aveano a dimezzare ai loro figliuoli. I ricoveri loro, tugurii
da metter pietà: rovinavano per la incuria de' ricchi, i quali faceano
parsimonia di puntelli a salvar la vita di chi si frangea tutto il di
l'omere per essi : ninna legge proteggea il patto colonico : in potestà
de* possedenti rimandare i villici, anche prima che la terra loro avesse
resa centuplicata la semente: due pesi, due misure pei dritti e do-
veri de' padroni e de' servi : quelli liberi di scacciarli ; questi non li-
beri di irsene: l'aratro, gli arnesi rurali, unica ricchezza del povero
colono, strappati da padroni inumani a que' miseri quando più aves-
(265) La collezione delle Leggi Medicee è piena zeppa di vincoli alla
proprietà terriera. V, Cantini, Collezione delle Leggi Medicee. Sono volumi
XXIII.
244 RIVISTA CONTEMPOBANBA
sero mangiato di quel che la terra, tormentata da essi, avesse loro
prodotto; e bene spesso non valeva cader sfiniti sul solco per me-
ritar un salario che saziasse la fame. Vita sordida, miseranda, finché
0 gli stenti, 0 carestia, o alluvioni li toglieano a' patimenti. Cosi la
cultura del suolo circoscritta da secoli, non ardiva spandersi, e né
i ricolti, nò la prima e più ricca derrata, che è Tuomo, moltiplica-
vansi, secondo che i terreni bisognosi di abitatori richiedevano.
Ora dal secol scorso al quarantanove, tutto era mutato. Chi conti
la popolazione d'allora e d'oggi, indaghi quanto fruttasse il suolo,
e quanto ora frutti, confronti la mutata ubertà de' terreni, il numero
de' proprietarii, i vincoli d'allora con le nuove leggi, la Toscana di
un secolo fa, con la Toscana del quarantanove, quei rimarrà oltre-
modo colpito dalla trasformazione, in specie agricola, e benedirà al
principio che operava il miracolo. I feudi non erano più (266) : i fi-
decommessi disciolti (267): parte delle manimorte riscattate mercé
l'enfiteusi : leggi provvide limitavano i nuovi acquisti del clero,
disfacevano le immunità d'ogni specie, sottoponeano agli oneri dello
Stato i beni, siano chiesaici o laici, privati o regii, ninno escluso:
non v'erano più servitù di pascolo, di legnatico, di macchiatico (268),
nò ogni altra limitazione al diritto di proprietà : liberi omai gli sbo-
scamenti (269), la escavazione di miniere (270), la ricerca di tesori.
Nissuna privativa di caccia, così odiosa a poveri coloni (271), libera
la pesca, la circolazione dei prodotti, la vendemmia senza licenza
del giudice (272). L'obbligo di denunciare i ricolti, le contrattazioni,
la nascita del bestiame, le gabelle senza numero, quelle sui ma-
celli (273), sul macinato, omai eran ricordo di un tempo fortunata-
mente trascorso. Le servitù personali, le comandate, abolite dal prin-
cipio che vuole liberi gli uomini, e non meno i villici che i proprie-
tarii. Innanzi alla legge erano uguali e gli uni e gli altri : anzi,
quasi a premio di loro fatiche , in special modo proteggevansi i
coloni : durante la seminagione o il ricolto , non potevano essere
molestati per debiti, e neppur dai tribunali , meno che per delitti
comuni. I bestiami aratorii , e gli arnesi rurali , unica ricchezza
di quei miseri, erano per legge dichiarati proprietà intangibili: in
facoltà di quelli come dei padroni il disciogliersi dal patto colo-
(266) Legge 29 aprile 1749.
(267) » Giugno 1747, 23 febbraio 1789.
(268) « Abolite nel 1766.
(269) » 20 gennaio 1776, 24 ottobre 1780.
(270) » 5 agosto 1780, 13 maggio 1788.
(271) » 13 giugno 1772, 26 ottobre 1773, 24 febbraio 1781.
(272) » 18 marzo 1786.
(273) » Abolita il 16 novembre 1824.
s
ti
STUDn STORICI E AMMINISTRATIVI 245
nico (274), date certe condizioni di modo e di tempo. Cosi ragricol-
tore in nessuna parte d'Italia era protetto, e pari al padrone, come
in Toscana.
Non è meraviglia se emancipata la proprietà e la industria, venne
colà in grand'onore l'agricoltura, ed i proprietarii, non più oppressori
de' coloni, si diedero a migliorarne Je condizioni. Che anzi si vide
cosa, a cui in Italia già da tempo erasi disusati : i ricchi e quelli
che a ricchezza aggiungevano nobiltà, volgersi all'agricoltura, ed
onorarsene, a mo' degli antichi. Cessato il pregiudizio che l'arte
agraria fosse solo arte pratica, vi erano giornali e scuole di coltiva-
zione, patrono ora il Governo, ora privati : un'accademia detta dei
Georgofili (275), già da un secolo vegliava attenta alle migliorie del
suolo (276), omai prediletta occupazione degli ottimati. I Ridolfi, i
Capponi, i Ricasoli, dopo le sventure del quarantanove, erano a quella
ritornati, pronti a lasciare i campì, ove un'altra volta la patria avesse
duopo de' suoi cittadini.
Per queste leggi e provvisioni, la ricchezza del suolo, la cultura,
il numero degli abitanti andavano crescendo ogni anno : la proprietà
che nel secolo scorso potea dirsi privilegio di pochi, erasi ridotta in
frammenti. Il catasto (277) avea quattordici anni innanzi numerato
centoquarantaseimila proprietarii, dodici ogni cesto abitanti, sopra
una superficie di sei milioni e cinquecentomila quadrati (278), im-
ponibili di una rendita al di sopra di quarantotto milioni di lire:
il medio possesso era perciò di quarantatre quadrati, la media rendita
di trecento lire. Fuor della causa pia ecclesiastica e laica, la quale avea
un dodicesimo del suolo, con una rendita di oltre tre milioni di lire,
(274) Legge 2 agósto 1785.
(275) La fondò il Montelatici nel 1753 : auspice il governo. V. Som-
mario storico degli studii e vicende deirAccademia de' Georgofìli nel
primo secolo di sua esistenza per M° Tabarrini. Firenze 1853.
(276) Può ben dirsi che quell'accademia stette ognora a guardia dei
principii economici del Bandini, del Neri, del Fabbroni : pronta a stridere,
tanto che la udisse tutta Toscana, se il Governo s'attentasse manometterli.
Gli accademici discutendo di economia, di pastorizia, di prosciugamenti,
s'addestravano per ben altre discussioni. Uno scrittore vivace notò già che
da essa uscirono i Mirabeau i Barnave in sessantaquattresimo del 1848.
Con più ragione può dirsi che di là uscirono quelli che condannarono al-
Tostracismo la dinastia di Lorena nel 59. Certo è che l'Accademia de' Geor-
gofili iniziò i Congressi scientifici, le Casse di risparmio, gli Asili d'in-
fanzia, le Scuole di mutuo insegnamento: per le sue cure venne aperto il
Liceo di storia naturale in Firenze; fu a capo d'ogni utile impresa; acqui-
stò e mantenne grandissima autorità, tantoché il Governo ne insospettì.
(277) Rapporto sull'operazione catastale del 30 novembre 1834 dell' In-
ghirami Paoli e Lapo de' Ricci.
(278) Il quadrato agrario toscano è di 10 mila B quadre : un miglio è
di B 2833 1(3: il B sta al metro come 583,626 sta a 1,000,000.
246 BIVISTA CONTBMPORANBA
il maggior de' proprietarii era il Granduca per quasi ottantamila qua-
drati, ed una rendita imponibile di quasi mezzo milione: non più di
dieci aveano una rendita maggior di centomila : sol ventuno più di
cinquantamila : le proprietà al di sopra di diecimila lire annue, eran
quattrocentocinquanta: da cinquemila a diecimila eran settecento-
cinquanta : da mille a cinquemila eran seimila : da cinquecento a
mille più di settemila : da cento a cinquecento più di iirentunmila :
per ultimo possedeano da una lira a cento di rendita imponibile ben
ottantottomila (279). Cosi spartita la proprietà, ragion volea si dif-
fondesse la cultura. Mentre nel secolo scorso a stento un terzo del
suolo era a campi e pascoli, nel quarantanove, sopra sei milioni e
mezzo di quadrati, settecentomila erano a viti, cinquecentomila a
ulivi, un milione a frumenti, quattrocentomìla a castagni, un mi-
lione ed ottocentomila a pasture, meno di altrettanti eran boscaglie,
roccie, strade, acqua, paludi (280). La esportazione dei prodotti, che
nel secolo scorso appena giungeva a quattro milioni di lire (281),
potea dirsi nel quarantanove quasi otto volte più. Fra quelle v'erano
tre milioni di sete : undici di cappelli e treccie di paglia : sette di
olio (282) : due milioni e mezzo di sai borace : quattro di legname
da costruzione: sette di grano gentile. La libertà economica, mol-
tiplicando i prodotti e le proprietà, faceva del toscano forse il più
agiato popolo d'Italia, sebbene il terreno da cui traeva l'alimento,
non ne fosse il più ferace : in ragion della prosperità , crescevano
ogni anno , di ben quindicimila gli abitanti : cento che erano per
miglio quadro eran divenuti duecento: i coloni nella proporzione di
quarantaquattro a cento (283): i proprietarii di dodici a cento: ai
bisogni della popolazione bastava la ricchezza del suolo: la emigra-
zione era scarsa : a ninno mancava né il pane né il tetto, né i soc-
corsi nella vecchiaia : agiatezza quasi in ogni dove, povertà in pochi
luoghi , miseria in nessuno.
XLIV. — Nondimeno, accosto a vigneti e campi fertilissimi dis-
sodati dalla man dell'uomo, erano luoghi paludosi ove i miasmi,
le febbri^ lo squallore della natura, resistevano a fatiche, a tesori,
a scienza con cui volevansi mutare in lieti ed ubertosi campi. Di-
scorrendo quanto vi fu compiuto, e quanto recalcitrò a' costringimenti
dell'idraulica e dell'uomo, avrò detto qual fosse lo stato di quella
(279) Statistica ufficiale. V. Gazz. di Firenze, gennaio 1848. Zobi, Ma^
nuale degli ordini economici.
(280) Risultanze catas/ali.
(281) r. Carli, op, cit,
(i>82) r. Zobi, Mannaie, p. 423, prospetto comunicatogli nel 1841 dal
Governo.
(t>83) V. Zobi, Stor, di', t. 5, p. 823,
STUDII STORICI E AMMINISTBATIVI 247
tanta parte di suolo, correndo Tanno quarantanove. Da lunga età,
in Toscana, narrasi di luoghi ove i miasmi e le malattie fugavano i
villici, lieti serbar la vita rinunciando ai ricolti: privilegii e doni
invano tentavano richiamarli a cogliere una ricchezza che uccidea.
Opere di varia ragione, fatte qua e là da privati e principi, a mi-
gliorare quelle paludi, s'ebbero alcune buon risultato, altre no. Co-
simo I avea incominciato, Ferdinando I e Leopoldo I proseguirono
a sciugare il pian di Pisa dalle acque putride. La vai di Nievole,
oggi amenissimo giardino, cent'anni fa palude, crudele alle vite,
ingrata alle fatiche degli uomini : le acque che da poggi scendevan
pure e schiette, giunte al piano si spandevano e si corrompevano :
miasmi perigliosi : la estate mortale. Sovra ottomila abitanti nel 1756
perirono seicento. Oggi è lieta di verdure, di vigne, di casolari, di
villici, d'acque pure, di ricolti : gli studii del Fossombroni, la virtù
dell'idraulica, il danaro dello Stato, fecero il miracolo. Val di Chiana,
lunga sessanta miglia, sparsa di paludi, vedova di case e di coloni,
era sepoltura pegli arditi, luogo di pena ai condannati, sgomento a
ogni uomo. In men di ottantanni sparirono gli stagni, li bassi piani
colmati col limo de' colli che fiancheggiano la valle : l'acque allac-
ciate/costrette in canali e bacini : l'aria divenne pura; lieto il sog-
giorno : fecondi i campi ; giardino e granaio di Toscana.
Restava la Maremma (284) : dai confini del pian di Pisa, agli
Stati della Chiesa scorre lungo il mare sessanta miglia, s'addentra
a terra diciotto. Rinomanza infausta vi ha il pian di Grosseto, aria
letale, acque putride, febbri e sepoltura ai viventi. Da quanti secoli
l'aria e l'acque vi siano corrotte, il suolo contristato da ogni ma-
niera di guai, e luogo di pena a rei o a vittime dei rei, non v'ha
istoria che lo dica. La tradizione s'abbuia nella più remota antichità,
da apparir caso recente quel della misera inanellata a chi la trasse
viva in maremma, ove si disfece (285). Poeti e prosatori, lungo i
secoli, fecero piangere le nostre fanciulle con pietose leggende (286)
(284) Infiniti gli autori che ne discorrono : nominerò 1 principali : Sal-
lustio Bandini. Discorso economico. — Governo della Toscana sotto Leo-
poldo I. — Memorie del Bonificamento delle maremme, del cav. Tartini,
1838. — Zobi, Manuale. — Storia civile. — Memorie economiche e stati-
stiche sulle maremme toscane, del D^ Salvagnoli , 1846. — Rapporto sul
Bonificamento delle maremme dal 1828 al 1859, di Ant. Salvagnoli , fatto
per ordine del Governo della Toscana.
(285) Dante, Purg., Canto V, 135.
(286) Il Sestini, nella leggenda della Pia, cosi descrive la Maremma:
Acque stagnanti in paludosi fossi ,
Erba nocente che secura cresce
Compressa fan la pigra aria di grossi
Vapor d'onde virtù venefica esce:
248 BIVISTA CONTEMPOSAMSA
di chi vivo era colà costretto a sorbir miasmi, e sepolto. La pietà
de' viventi, la carità del natio luogo, la vanità di compiere opera
soventi tentata , voluta sempre , compiuta mai , aveano già indotto
i principi a seppellirvi qualche milione in lavori e fatiche sterili.
Francesco II vi chiamò una colonia dei Lorenesi : die a ogni fa-
miglia un moggio di terra a grano, un altro a vigne, ulivi e orto :
due buoi, una vacca, due pecore, gli arnesi rurali, le sementi. Di
mille ch'erano, pochi scampando alla malsania rividero la dolce
patria : gli altri perirono. La maremma restò quale era. Leopoldo I
offerse (287) la libera proprietà dei beni a chi li asciugasse, privi-
legii d'ogni maniera: s'accinse a lavori idraulici: costaron due mi-
lioni: non n'ebbe frutto: né di lui riman colà vestigio. Intanto si
disputò sui rimedìi, e chi disse bastar l'idraulica, chi sane leggi
economiche, chi privilegii, chi libertà illimitata, a ridurre feconda
e sana la maremma ; chi disse una, chi altra sentenza. Le dispute,
le male prove, poi i rivolgimenti napoleonici sospesero i lavori: li
riprese Leopoldo II nel ventinove. Dall'avo e da alcune esperienze
di privati (288), ebbe egli l'esempio, gli eccitamenti dal Fossom-
broni, e più che dai guai del suolo, la spinta a tentar l'impresa
dalla vanità e speranza di compierla. Boria e nullaggine fin nel par-
larne a sudditi (289) : aver raccolti quanti lumi dava l'istoria, la
scienza e la pratica: voler compier l'opera, senz'aggravio alcuno ai sud-
diti, e da solo e presto e bene: chiudesser la bocca e gli occhi e non gli
riaprissero che a lavoro compiuto : non avrebbero atteso un pezzo (290).
Il disegno era questo : come già fecesi per Valdichiana, colmar le
bassure, prosciugarle allacciando l'acque, ridurle a campi : ma innanzi
tutto, vincer la malsania, sperdendone la causa, il palude di Casti-
glione, da ridursi, come fu un tempo, a lago, versandovi l'acque
E qualor più dal sol vengon percossi
Tra gli animanti rio morbo si mesce ,
Il cacciator fuggendo da lontano
Monte, contempla il periglioso piano.
(287) Decreto 9 febbraio 1769.
(288) I Gherardesca dal 1780 al 1840 bonificarono la vasta tenuta di
Bolgheri fino alle terre di Bibbiena e Castagneto nelle maremme: Tacque
allacciarono: oggi aria sana, ubertà, sestuplicato il ricolto e la popola-
zione. In Val di Nievole i Peroni colmarono la tenuta di Bellavista.
(289) Decr 27 novembre 1828.
, (290) Il Vieusseui scrisse il 1® marzo 1829 ai ministri Corsini e Fossom-
broni, chiedendo poter discorrere neW Antologia della Maremma, tesserne
la storia, scriverne i mali, i rimedii. Gli fu negato. Un primo articolo in
cui levava a cielo il concetto di Leopoldo 11, ed attestava la riconoscenza
de* Toscani per quella impresa, venne dalla censura barbaramente muti-
lato. Diffidavano fin delle lodi. Il Vieusseux dovè abbandonare il campo :
cose incredibili, e pur vere.
STUDII STOBICI B ÀMMINISTBATIVI 249
deirOmbrone, deviato dal suo naturai letto. L'ardito concetto del
Fossombrone ebbe mende frivoli, esperienze fallaci, contraddittorie,
colpa chi dovea eseguirlo, e del principe, che ad averne proprio
tutto il merito vi mettea voce e lìngua a sproposito. Nondimeno un
canale costrutto in sedici mesi, da cinquemila operai, mille per
miglio, scaricò Tacque dell*Ombrone nella palude: poi dovè allar-
garsi perchè angusto: lenta seguiva la colmatura: il limo recato
dairacque ingombrando lo sbocco nella palude, venne aperto altro
sfogo, braccio al canale. Né bastò : fu tentato colmar la superior
parte del lago, scaricandovi la Bruna, la Sovata, influenti impetuosi,
che più volte rupper gli argini e si squagliarono nell'abitato. E con-
venne attenersi alle sole acque dell'Ombrone e da quelle attendere
la lenta colmatura del lago. Altrove altre opere : la colmatura dello
stagno di Scarlino : Orbetello a traverso lo stagno di questo nome,
congiunta per una diga al promontorio Argentaro : nel pian di Pisa,
prosciugati gli stagnuoli di Vada, il lago di Rimigliano : i latifondi
Vada e Cecina, paludoso il primo, selvoso il secondo, ambo proprietà
del demanio, vennero dissodati, ceduti a privati, ricoperti di caso-
lari e di abitanti. L*opera de' privati, aiutando quella del Governo,
colà il successo fu splendido.
Ma quel che altrove era farmaco, per maremma, appariva inutil
sperpero di scienza, arte, forze e tesori. Venti anni di lavori indefessi
aveano inghiottito venti milioni (291), distrutte le illusioni de' cor-
tigiani, moderate le borie del principe, e la speranza nutrita da
questa generazione di vedere l'opera & fine. Vero è che la misera
provincia erasi in venti anni vestita qua e là di.oliveti, di vigne
e campi, di casolari, di armenti, aperto il petto a nuove vie, a ci-
sterne, difesa da torrenti : avea allacciate l'acque disperse, arginati
i fiumi, sorretti i ponti, mutati più lagaccioli in campi fertilissimi,
aggiunto nel padule di Castiglione acqua ad acqua. Né le morti,
le febbri, i miasmi, eran scomparsi, gli abitanti moltiplicati, la sa-
nità protetta dalla malaria. Le vicende del quarantotto, la fuga del
principe, la sfiducia dei più aveano distolto l'animo da quelle cure,
rallentati i lavori: onde i guai si rigeneravano, e non incontrando
impedimenti s'accrescevano. Il clima mite in inverno, soffocante in
(291) Nel Rendiconlo della finanza a tutto il 1847 figurano spesi
15,540,567 15 per la maremma
337,000 -— pei piani di Vada e Ceima, oltre a
2,570,000 — spesi da privati.
Nel rendiconto del 48-49-50
apparisce : 402,410 — pel 1848
251,734 — pel 1849
L. 19,101,411 15
250 RIVISTA CONTBMPOBANBA
estate: in quella, sciami di villici (292), cittadini, fin le autorità
del luogo, fuggivano ogni anno le esalazioni letali : i lavori dell'in-
verno devastati dagli armenti: i ricolti perigliavano la vita di chi
attendeva a mieterli : povertà per chi fuggiva : morte a chi restava :
e sovente pena meritata a chi, restando, faceva suo l'altrui. Tale
era la condizione della maremma : rigogliose le piante palustri, tanto
più copiose e letali le esalazioni: i monti a ridosso le paravano i
venti, le serbavano accumulati i miasmi della terra. Alle acque che
discendono da colli, e nel basso si ammelmano, andavan miste acque
minerali, pregne di gas o di pestilenza. Quelle che le avrebbono
recato sanità, si precipitavano ne' fiumi, e si versavano al mare:
quelle putride ristagnavano. Onde la malsania con varia ragione era
infesta nel piano, a pie' de' colli che accerchiano la maremma, su
per le pendici, in cima a monti, e giù nelle convalli. Per tanti guai,
nissun farmaco.
Dal golfo della Spezia fino a Gaeta (293), regna malaria : di in-
certa intensità: ove sono maggiori paludi, più mite : ove minori, più
perversa : là infesta, ma sol ne* dintorni de' luoghi umidi : qui, a
molte miglia, negli asciutti campi, sin pei colli, a ridosso de' tugurii.
11 cielo questo privilegio diede a Toscana.
Novara li 10 settembre 1862.
Enricx) Pani Rossi.
(292) V. Notizie e considerazioni intorno l*agro Grossetano del barone
Bettino Ricasoli.
(293) V. Memorie su la condizione idrografica della maremma Veneta,
e le bonificazioni cui è suscettibile, del cav. Paleocapa. Venezia 1848.
251
BABA-DOKIA
A S. A. S. LA PRINCIPESSA ELENA
PRINCIPESSA REGNANTE DEI PRINCIPATI RUMANI
Ti risovvenga del materno affetto,
Nessun mai ti amerà dell'amor mio.
Giusti.
Alta era la notte, le stelle brillavano nel firmamento, spandendo
una luce soave e melanconica sulla terra ; l'aura accarezzava molle-
mente i fiori e muoveva a dolce susurro le fronde e la luna inargen-
tava i fiotti del mare cosi da parere tante lame d'argento guizzanti
sulle onde.
Bella nott&, tutta profumata.
Fra le piante di aranci ed i cupi leandri avanzavasi mestamente,
a passo tremante ed incerto, una donna, sfinita in volto, ma nulla-
meno ancora bella, di una bellezza foriera di vicino tramonto ; mezza
velata pareva un'ombra vagando in cerca della sua amica; di fre-
quente passava la mano nella sciarpa che cingeva i suoi fianchi, e
sembrava volesse con quel moto frenare i battiti ineguali e rapidi
del suo cuore; si fermava, guardava di quando a quando il cielo
con occhi languenti, quasi chiedendo aita, e poscia tremolanti e
lagrimosi gli abbassava al suolo.
Dopo lunga e penosa via, fatta lentamente fra piante ove nessun
sentiero indicava esservì una meta, soSermossi un istante; pareva
che non potesse ire più oltre, tanto erano folte le macchie di spini e di
virgulti ; non però si aperse colle mani un varco, e dopo breve tratto
di cammino entrò in una misteriosa grotta. Era quel luogo certa-
mente conosciuto da ben poche persone, giacché le piante e Tederà
rampicante ne celavano l'ingresso.
252 RIVISTA CONTEMPORANEA
In quella grotta la bella ma languente donna si buttò in ginocchio;
le mani alzate supplichevoli verso il cielo , orava invocando la pietà
divina ; sebbene a stento potesse proflFerire le parole, pure un nome
distinto esci va dalle pallide sue labbra. — Fatima! — Ah il cuor
di una madre trova sempre vigore quando si tratta dei figli ! quella
donna cosi soffrente, chiedeva al cielo di lasciarla vivere una vita
peggior della morte , onde potere allevare la sua figlia ; la sua
cara Fatima. Quel sentimento faceva sì che raccogliesse l'estreme
forze che le rimanevano per continuare una vita che, se non fosse
stata madre, ne avrebbe aflFrettata la fine; anzi, allorché aveva la
figlia a sé dappresso, vi sarebbe detto ritornata in salute e ringiova-
nita per folleggiare con lei, e nasconderle ch'era per lasciarla orfitna
e deserta in terra. Quali contrasti! Una donna disavventurata e
morente vestita a festa, presso ad un palagio, nascosta, a ginocchio in
una grotta ; una sultana pregando di soppiatto il Dio dei cristiani I
Essa non era di sangue musulmano : essa aveva nell'harem per-
durato nella religione di Cristo ; ed in quella con tutta cura ed in-
finito zelo aveva allevato la sua creatura, ma per ciò nascondere
alle schiave dell'harem, aveva dovuto insegnarle la sua lingua ma-
tema, ch'era affatto diversa dalla tatara favella.
Da piccina Fatima fu quindi educata alla virtù ed all'amore della
patria di sua madre. La sultana le dipingeva coi colori più avve-
nenti il bel paese che l'aveva vista nascere, e provava ineffabile
consolazione nello scorgere i rapidi progressi che faceva quella sua
creatura, la quale, già dimostrava sarebbe stata di carattere perse-
verante più di lei stessa, e maggiormente bella. Però questa singo-
lare avvenenza le dava martello, perchè a lei era stata causa d'in-
felicità; oh quanto aveva maledetto di essere la più bella dell'harem,
e quindi assunta al grado di favorita. Triste onore che , essendo
cristiana, abborriva.
La sultana, sempre inginocchiata ed immobile in quello speco,
come se rapita in estasi, rivede tutto il suo passato trascorrerle len-
tamente dinanzi gli occhi ; vede sua patria, la sua famiglia, le tra-
versie patite, gli accidenti singolari di cui fu vittima, e tenebroso
le si presenta l'avvenire!
Balza in piedi esce dalla grotta, guarda le stelle, e vede essere
l'ora già avanzata. L'alba era per sorgere, e lunga via deve anco A
fare per giungere all'harem senza lasciar conoscere che n'era stata
alcune ore assente; non ha tempo da perdere, e s'avvia quanto più
sollecitamente le poche forze le consentono; di quando in quando
si sofferma, perchè ogni rumore del vento che scherza fra le fronde,
le fa credere di essere ricercata e punita, ed allora paventa di essere
divisa dalla sua cara figlia, dal solo bene ch'abbia sulla terra, e con
BABA-DOKIA 253
novello ardore ripirende la via; fra rincertezza ed il timore giunge
nelle sue stanze; tutto è silenzio, nessuno saprà quella sua gita
notturna, potrà ancora recarsi altre volte ad orare nella grotta dive-
nuta il suo segreto santuario.
n mattino la sultana era assai male perchè la veglia erasi troppo
stancata ! Poche speranze rimanevano di salvarla, sentiva che la sua
ora estrema stava per giungere a passi veloci, non cercava ad illu-
dersi ! Le sue schiave piangevano, pensando al rischio di perdere la
loro buona signora.
Contro l'uso consueto dei Musulmani, un certo Radamante e la
sua famiglia avevano libero accesso nell'harem. La sultana lo fece
chiamare a sé, e cosa gli disse ? nessuno lo seppe, solo dopo quella
conversazione la povera derelitta aveva aspetto più calmo, anzi sor-
ridente.
Rimasta sola, chiamò a sé dappresso Fatima ; le baciava la fronte
e chiudendole gli occhi colle scarne dita, le palpava le ciglia fine e
spesse; povera madre! erano le ultime carezze che le prodigava, e
voleva largamente profittarne ! la fanciulla con tutto cuore eonrìspon-
deva e si smarriva nello scorgere la sua diletta madre cotanto in-
ferma. Bene quella tentava di farle credere non sentirsi tanto male,
ma non poteva riuscire ad ingannarla; povera Fatima! che non
avrebbe dato per riavere la madre sua in salute !
La sultana considerando che ogni istante che perdeva incaresze
sarebbe stato tolto al poco che rimanevale su questa terra, fece se-
dere la ,sua figlia accanto al suo funebre letto, e prese a dirgli:
— Fatima, poche ore mi rimangono a vivere ; giurami di serbar
segreto ciò che sto per narrarti.
— Madre mia! dolce madre, lo giuro; ma tu non morrai, tu non
lascierai la tua diletta sola su questa terra, oh no: io ti voglio
seguire.
— Cessa, mia cara; Dio cosi vuole, e noi dobbiamo adorare i
suoi decreti; ho assai vissuto; ho lottato contro tutte le avversità
che mi si pararono innanzi, per renderti felice. Dio infrange i miei
sforzi a mezza via ; sia fatta la sua volontà ; ora ascoltami : se avessi
vissuto infinoacchè tu fossi stata grandicella, non ti avrei svelato questo
segreto, ma spero che tu essendo ragionevole e pia, benché acerba
d'anni, saprai seguire i ricordi ed i consigli di chi tanto ti ama, e
tanto ha porte sofferto.
Ti ho educata nella fede cristiana ch'è la mia religione e quella
de' miei maggiori, e che seppi conservare in questo harem, ove fui
forzatamente rinchiusa : oh mia dolce Fatima ! Iddio ti preservi dal-
l'iliade di mali ch'io sofferei
Fatima udendo che la voce di sua madrosi affievoliva, le porse
264 RIVISTA CONTBMPORANBA
una coppa di un'acqua aromatica ; dessa, dopo averne bevuto alcuni
sorsi, potè riprendere lena e proseguire.
— Sui quindici anni io era bella ed i miei genitori erano fieri
della mia bellezza 1 Incauti ! che triste dono fu per me ! Io era adoc-
chiata da tutti ; e la rinomanza della mia leggiadria sì era divul-
gata in lontani paesi.
La mia patria, cara figlia, ben lo sai, non è la Turchia, né l'isla-
mismo la mia religione ; lo sai perchè ti ho insegnato la vera fede,
quella di Cristo, il Salvatore. Permani in essa, e ti sii guida il Van-
gelo in ogni tua azione.
Se mai ti è dato. un di essere libera, ritorna nel mio paese ch'è
tra il Dniester, i Carpazii ed il Danubio, cioè nella Rumania, qui
detta Bogdania. Là è la mia dolce patria ; là ove sono sepolti i miei
genitori, sotto zolle che non mi fu dato d'irrorare colle mie lacrime;
oh mia Fatima, ama quel paese ; che quello è la tua vera patria ;
io ricordo le dolci acque della Dumbowitza, il maledetto Pruth (1) e
le nevose cime dei monti Butcegi ; ricordati che il tuo cuore deve
battere sempre costante a due amori ; a quello di patria e quello
della religione ; sciagurata se vi manchi.
Io, continuò, aveva diletto di passeggiare poco lungi della mo-
desta nostra abitazione ; non aveva le pompe orientali di queste sale,
però era ben più felice. A me piaceva dilungarmi alquanto da casa,
massime verso sera per potere contemplare la luna e le stelle del fir-
mamento, e godere la brezza della marina.
Una sera alcuni Tatari che passavano colà , furono colpiti dal
mio sembiante, risolsero di subito rapirmi ; circondarmi, turarmi la
bocca colle loro ruvide mani, fu Taffare d'un istante.
Venni rapita all'improvviso ; le mie lagrime, le mie grida sofib-
cate non valsero ad intenerire quei barbari, uno di essi mi prese fra
le sue nerbute braccia, e salito sur un cavallo morello mi pose in
groppa, gli altri cavalcavano a lui accanto disposti, all'uopo, di re-
spingere chi si fosse posto sulle loro traccio per liberarmi.
Non seppi mai se la mia famiglia abbia avuto contezza del mio
ratto, sebbene qualche pastore potrà forse averle detto di avermi visto
trasportata da una masnada di Tatari. Poveri i miei genitori ! Chi
sa se avranno sopravissuto a questa loro e mia disgrazia?
Tradotta dopo più giorni di viaggio per lande deserte nell'arida
Crimea, qui fui venduta a MengeliGherai , Chan dell'orde No-
gaiche che vi erano attendate
(1) Evvi una ballata popolare contro il Pruth, di cui l'egregio B. Ales-
sandri pubblicò il testo e la versione francese. V. Ballades et chants popu^
laires de la Roumanie, Parigi 1855, pag. XIV.
bàba-dokia 255
Non potè proseguire nel lungo racconto delle sue triste vicende
perchè il favellare l'aveva maggiormente indebolita ; tratto a tratto
ripigliava facoltà di parola, ma non poteva sviluppare un*idea, e se
ne valeva per esortare la sua figlia ad osservare fedelmente la fattale
promessa dì seguire i suoi avvertimenti.
Alcune ore dopo la sultana spirava fra le braccia della sconsolata
Fatima I la povera fanciulla erasi gettata sovra il corpo esanime della
sua madre, la baciava chiamandola ad alte grida ; invano le schiave
vollero strapparla fuori di quella stanza, non fu possibile: allora chie-
sero di Radamante, il quale, avendo un'influenza sullo spirito dell'or-
fana^ la costrinse con dolce violenza a lasciare quel luogo.
Come tutto divenne tristo per l'infelice! Le splendide sale del-
l'harem si mutarono per lei in nera carcere ; increscioso le divenne
persino il ridente, olezzante e' sontuoso giardino , che accerchiava
la reggia del Chan. Il cielo sfolgorante di Crimea nella tetra
solitudine del suo cuore , gli sembrava d'ogni luce privo. Ahi
l'infelice !
Chiedea Tusale immagini
La slanca fantasia,
E la tristezza mia
Era dolore ancor.
Leopardi.
Radamante era padre di quattro fanciulli, cioè di un maschio e
tre femmine, la maggiore delle quali era coetanea di Fatima, ed il
figlio n'era maggiore di cinque anni.
Egli era un rumano della Moldavia, stabilito in Crimea pel suo
commercio. Aveva grand'intelligenza ed era patriota a tutta prova.
Da ben vent'anni commerciava ne* porti del mar Nero, e colla sua
probità nei traffici, erasi cattivata la confidenza e la stima dei so-
vrani e dei negozianti di tutti quei paesi. Stefano il grande , vai-
voda di Moldavia, lo sceglieva per inviar lettere e regali al Chan
Mengeli-Gherai, e perciò era di firequente in viaggio dall'un paese
all'altro.
Il sultano trovandosi debitore di somme ragguardevoli a Rada-
mante, gli aveva concesso libera entrata nell'harem a lui ed alla
sua famiglia, ove andava a smerciare stoffe, gioielli e orificerie ; non
è mestieri il dire quanto questa famiglia fosse cara alla infelice sul-
tana; con essa ella poteva ragionare della sua terra natale, e par-
lare la comune lingua, poiché la patria consiste in essa. La nazione
256 RIVISTA CONTEMPORANBA
sta oeiridioma che da bambino sMmpara e che perdura sulle labbra
e nel core, ricordando così le dolci prime fasi della vita.
Fatima non aveva altra consolazione, fuorché il poter vedere i
Radamanti ; con essi soli erale concesso favellare della sua genitrice,
poiché la povera orfana ogni dì sentiva maggiormente il peso della
perdita fatta; in ogni condizione la morte della madre è per una
figlia grande disgrazia, ma per lei era più grande ancora : non aveva
perduto soltanto la madre, ma la maestra, Tamica, la correligionaria
e quella con cui poteva parlare il rumano. Chiusa fra le mura del
harem, non poteva nemmanco avere il conforto di svagarsi dalle tristi
imagini colla vista di nuovi oggetti e di altre persone. A lei, della
città che abitava era, si può dire, noto soltanto il nome. E questa
città chiamavasi CaflFa, eretta sulle rovine dell'antica Teodosia dagli
attivissimi nostri Genovesi , che vi avevano stabilito fondachi ed
uno scalo, come dicevasi nel medio evo, ed in oggi diciamo Colonie.
Ivi coll'attività e l'industria di cui erano e sono ancora dotati, fe-
cero lapide fortune, ed erano diventati i padroni di Caffa, l'avevano
munita di fortificazioni per riparare 1 loro tesori dalle invasioni dei
Tatari attendati in Crimea , ed avevano , si può dire, il monopolio
della navigazione del mar Nero ; im console eletto annualmente da
Genova, era ivi spedito a governatore. I loro statuti, fondati sulla
più retta giustizia, erano cosi apprezzati che i Tatari chiedevano di
esserne retti.
Venezia, per disavventura d'Italia, sempre rivale a Genova, ve-
deva con invidia la crescente prosperità dei Genovesi in quel litorale,
ove anch'essa possedeva alcuni piccoli fondi ; volendone scemare il
potere, spedì nell'anno 1296 una flotta per abbattere le colonie ge-
novesi e distruggere da capo a fondo questo grand'eraporio dei li-,
guri commercianti. La colonia genovese stata sarebbe irrevocabilmente
perduta , se non fosse stato dell'inverno freddissimo sopragiunto ,
il quale fece perire il terzo dell'armata veneta che si era ancorata
sotto il comando di Giovanni Soranzo nel mare di Azof (1) per cui
più non trovandosi in grado di continuare a guerreggiare contro i
Genovesi, abbandonò la Tauride, ch'era stata creduta un paradiso
terrestre, e la provarono inferno. La vittoria di Curzola nel mare
Adriatico riportata dai Genovesi sui Veneziani, condusse le due re-
pubbliche a stringere un trattato di pace, per cui quelli rimasero
tranquilli signori del litorale della Crimea, mentre deirintemo con-
tinuarono ad essere padroni i Tatari.
Maometto II che voleva vendicarsi di una sconfitta a Berat avuta
dai Moldo-Valacchi, spedi un'armata di quarantamila uomini con
(1) Canale. Bella Crimea, Commentarti storici, T. I, p. 202. Genova 1855.
L
BABA-DOKIA ' 257
482 vele, sotto il comando di Ahmed Pascià, ad attaccar nella Tau-
ride (1) i Genovesi, che sospettava li proteggessero; con tutta la
ferocia di un barbaro guerriero li vinse, perchè colti alla sprovve-
duta. Ohiesta ed ottenuta una tregua, il di dopo gli Ottomani, entrati
in Gaffa e negli altri luoghi dei Genovesi, passarono a fil di spada
tutti i commercianti Moldavi che si trovavano, ed il cui numero
ascendeva a 160. Di più scannarono il nunzio di Stefano il grande.
Fu vendetta atroce, iniqua, ma Maometto voleva lavare l'onta
sofferta.
Onde umiliare i Genovesi e ridurli all'impotenza, Maometto se*
questrò tutti i loro beni e rapì le loro più belle figlie per condurle
nell'harem di Costantinopoli; centocinquanta adolescenti dell'età dai
undici ai quindici anni furono destinati al servizio della corte im-
periale, 0 ad essere di forza arruolati nel corpo dei Gianizzeri, dopo
peraltro di averli costretti ad abbracciare l'islamismo.
Miserando spettacolo I lo scorgere tanti giovinetti rapiti ai geni-
tori, e più di uno di essi imitò Virginio il romano, trafiggendo la
propria figlia anziché vederla disonorata ; ed i figliuoli invocare la
morte onde salvarsi dalla schiavitù e dall'apostasia.
Badamante in questi frangenti aveva perduto la sua fortuna pel
naufiragio di un bastimento che veleggiava alla volta di Gaffa ; at-
talchè fu compiutamente rovinato. Per campare si pose a fare il
dragomanno, come quello a cui erano famigliari più lingue; ma
per non insospettire i Turchi, diedesi per greco di nazione, onde così
essere prescelto a condurre a Costantinopoli i cencinquanta giovani
schiavi, eletti ad essere del servigio del Serraglio sui mille e cin-
quecento di cui si erano impadroniti.
Badamantino era in cerca ddla sua sorella che credeva si fosse
nascosta in qualche luogo remoto, per fuggire alle persecuzioni di
qualche musulmano. Vagando per ogni dove, ed essendo già notte,
penetrò nei giardini dell'harem, e mentre stava guardando se dietro
qualche pianta si fosse riparata la sorella, tutto ad un tratto udì un
grido acuto:
— Badamantino, per pietà, salvami !
— Fatima? che fai qui mia buona amica? Tu forse ignori che
in questi giorni Gaffa è posta a sangue e a ruba?
— Senza saperne i particolari bene, le tremende scene mi sono
note, e la voce di esser Gaffa caduta in mano dei Turchi fino a noi
pervenne. Gli è appunto nel trambusto destato da questa notizia che
io potei evadermi dalle custodite sale dell'harem. Iddio pietoso si è
(1) Hammer. Histoirede VEmpire oUoman. T. 3, p. 197. Parigi 1836, e
Canale, Op. cit., T* 2, p. 143.
XivUta C. — 17
258 RIVISTA OONTBMPORANBA
mosso a pietà di me facendomiti incontrare, perchò tu potrai sa^Tarmi,
Ma di'? come sei qui penetrato in queste ore vespertine?
— - Cerco la sorella mìa da più ore ; ma zitto I vi sono dei Gianiz-
zeri ; ritieni il fiato Fatima, affinchè non ci sentano, altrimenti siamo
perduti entrambi, e per sempre.
In quello i giovanetti si gettarono in terra, rannioehiandoei come
più potevano fra mezzo ad odorosi mirteti che li nascondevano agli
sguardi investigiatori dei Turchi; come i loro cuori balzavano dalia
spavento! — Baba-Dokia! mormoravano sommessi ad ogni istante;
potessimo essere presso a te: saremmo sicuri; qui tutto ò contro
di noi, Baba-Dokia! se tu potessi vederci ed udirci, ci concederesti
aiuto.
E colle orecchie tes« giudicavano al rumore dei passi se venivano
alla loro volta, ed allora tremavano; se se ne dilungavano, riapri-
vano il cuore alle speranze. Alla perfine, fattosi animo, uscirono dal
nascondiglio per allontanarsi, ma ad ogni istante scorgevano altri
Gianizzeri a poca distanza, ed allora o dieteo piante od in messo a
cespugli cercavano uno scampo; cocd mano a mano si trovarono
presso la misteriosa grotta in cui soleva inginocchiarsi la sultane.
Fatima, nel ricalcare le traccio della sua genitrice, si lasciò cadere
in ginocchio, ed alzò la mente a Dio ; Radamantino cercava al fioco
chiarore degli ultimi barlumi del crepuscolo, di conoscere s'erano in
luogo sicuro, e parendogli che al, reputò meglio il soffermarsi tutta
la notte, che arrischiare di smarrirsi volendo uscire, ovvero di ca-
dere nelle mani della soldatesca sbandata.
— Radamantino, odo voci, ascolta vengono qua sono
i Turchi
— Zitto paurosa, confida nelFEssere Supremo, e non temere ; ma
dando questi consigli, egli tremava come una foglia al vento ; voleva
infondere valore e coraggio nella sua compagna, mentre egli stosso
era sbigottito.
Tutta la notte fu un lungo martirio: Radamantino pensava al
padre ; quanto doveva essere afflitto nel non averlo più visto, e come
avrebbe creduto che fosse stato o ucciso da Tatari o rapito dai Turdii.
À vece Fatima, scossa la mente dai ricordi del luogo, parevale ria-
vere la madre ai lati, e udirne le sante parole. Ma alla perfine, stenca
dalla troppo lunga commozione, cadde assopite sopra il muschio che
stondevasi quasi teppeto sul suolo e sulle mura di quella grotte.
Radamantino l'udì addormenterai e si pose a far da scolte alla
sua giovine amica, con quell'acute vigilanza con cui il cane sta a
guardia del suo padrone.
Cosi trascorse la notte; svegliatasi ai primi albori mattutini, i
due giovanetti si fecero a studiare come dovevano fare per uscire
BABA-DOKTA 259
inoflfidrvati, quando ad un tratto udirono un calpestìo vicino, e poco
dopo una voce
— Mio padre, esclamò Radamantìno^ e un raggio di gioia gF ir-
radiò il volto«
U povero Badamante era stato tutta la notte in cerca di quel
suo benedetto ragazzo. Fini col sospettare si fosse nascosto nella grotta
per isfnggire a qualche insidia, e bene si era apposto ; egli poi co-
nosceva tutti gli andirivieni di quello speoo, il quale aveva un'uscita
fuori dei giardini, mettendo in una deserta via dì Gaffa.
Useiti, non senza che la pia Fatima tralasciasse di ringraziare
Iddio dell'averla salva , RadamMite condusse i giovanetti a casa, e
non trovando altro mezzo di scampo per Fatima , le fece indossare
abiti maschili, e coA l'imbarcò sulla galea che dovea trasportarli a
GostefitinopoU ; nessun ostacolo, grazie alla sagacità di Badamante,
s'oppose a questo imbarco.
Ànehe Mengrii^Ghlierai Chan, ch'era stato fatto prigione, fu indi-
rizzato in essa città; però vi giunse prima dei giovanetti eletti pel
serrag^o, i quali saliti sulla nave, diedero un ultimo addio a CafiSa ;
lamentandone la rovina.
Fatima poi era doppiamente triste, perchè abbandonava per sempre
la terra, ove grtacevano le spoglie della sua genitrice, per la quale nu-
triva così sacro ricordo, da essere divenuto un culto.
III.
Tempeste il mar minaccia,
L'aria di nembi è piena,
Ma Valma è pur serena,
Ma disperar non sa.
Metast., Trionfo di Clelia,
n naviglio ottomano, forte di più galee, salpò dalla sponda fio-
rita della Crimea lasciando dietro di sé i profumi balsamici delle
odorose piante che stanno in riva al mare; procedeva velocemente
spinto dal ritmico movimento di cento remi. Quando ebbe percorso
parecchie miglia, i fanciulli rimasero costernati per non vedere più
se non cielo ed acqua, e tristamente fissavano i loro sguardi nell'in-
finito con indescrivibile dolore ; sembrava che volessero coi fitti
sguardi al cielo sollevare un lembo dei misteri della vita e vedere
ciò che il destino loro preparava; la notte già stendeva il suo manto
tutto smaltato di brillanti stelle, e quel tenebrore infondeva negli
animi un non so che di religioso al dolore, per cui quasi unanimi
260 KIVISTA OONTBMPOBANEA
8i fecero a pregare per se stessi e pei loro genitori orbati dalla fe-
rocia musulmana.
Solo un uomo passeggiava con passo calmo sul ponte della galea;
la sua alta statura pareva maggiore fra le ombre della notte, e
quando i raggi di Diana gli battevano in volto, scorgevasi esaere in
sulla quarantina ; i suoi lineamenti non erano belli, ma esprimevano
im carattere franco ed ardimentoso, che ingenerava di subito sim^
patia; però certi moti impazienti di quando a quando lasciavano tras-
parire che non trovavasi nel suo stato abituale.
Quest'uomo era Radamante ; egli pensava alla sorte di coloro che
lo circondavano ; pensava a suo figlio ed a Fatima appena trilustre ;
età in cui le illusioni si belle, fresche, poetiche e buone, fanno cre-
dere universale la virtù; quei due giovanetti così schietti, lindi ed
impressionevoli all'udire narrare una generosa azione, loro s'inumi-
diva il ciglio di gioia e di pietà. Ahimè I quante volte in un istante si
distruggono quelle candide nature e quella confidenza nell'avvenire !
Le cure affettuose che Badamante aveva per i giovani genovesi
lion valevano a consolarli della loro disgrazia ; ricordavano di aver
lasciato in Gaffa dei genitori, che mai più non avrebbero potuto riab-
bracciare ; imbarcati sopra diverse galee non potevano neppure divi-
dere assieme le loro pene, gridavano forte: pietà i come se fossa
apparso qualche buon genio nel firmamento atto a salvarli, ed i
barbari turchi se ne beffavano chiamandoli giaurri; quanti diversi
sentimenti I ' chi crederebbe al vedere , scorrere si tranquillamente
quelle galee, che in esse si racchiudevano rapitori e rapiti, lagrime
e dileggi, fiducia di vendetta e certezza di possedimento, libertà
e schiavitù.
Vogavano le navi, quando una di quelle tempestose bufere che
regnano nell'Eusino, sorse ad agitare le onde con furore; trovayansi
al largo; non eravi tempo di giungere ad un porto per ripararsi;
quella dolce luce della luna, che bagnavasi brillante e pura nelle
acque tratiquille, si nascose dietro a nubi spesse e rossigne, nunzie
di un orribile uragano! Le onde soUevavansi impetuose e nere,
formando una spuma bianca che flagellava le galee, lo spavento
invase non solo i trasportati, ma i remigatori, i piloti ed i capitani
del naviglio; era un silenzio profondo, lugubre silenzio di morte;
dopo alcune pause la bufera ricominciava a muggire con maggior
furore ; il vento fischiava fra l'alberatura delle navi e ne rompeva
i cordami.
Quei giovani che pochi istanti prima erano addolorati si, ma in sa-
lute, divennero dallo spavento come agonizzanti ; e mandavano chi
gemiti, chi urli, chi strida. Solo Radamante fra il furore ed il mug-
gire della tempesta rimane calmo coU'occhio fisso nel cielo tempo-
BABA-DOKIA 261
stivo, e di tpatto in tratto mormorava con voce mipplichevole : Baba-
Dokia! poi ritornava impavido a contemplare quel tremendo spet-
tacolo, scorgevasi avere presentimento che dal male dovesse scatu-
rirne un bene, cioè un mezzo di salvamento; a ciò pensava
Tutto ad un tratto il vento diede una tale spinta alla galea su
cui egli trovavasi, che fu separata dalle 69 altre che componevano
con quella la flotta turca, e buttò in mare il pilota. Radamante, senza
metter tempo in mezzo, espertissimo com'era delle acque del mar
Nero, si pose al timone e diresse il bastimento in altra direzione,
invocando TEnte Supremo per toccare la meta agognata. ,
Dissipatasi la bufera, il mare poco a poco tornò nuovamente tran-
quillo e placido. Radamante aveva diretta la prua verso le sponde
della Moldavia. I marinari turchi accortisine si spaventarono gran-
dem^te della direzione presa, ed il trovarsi alla mercè di esso lui
non li assicurava nullamente; ma egli, buon parlatore, seppe dar
loro ad intendere che non avrebbe preso terra su quelle sponde, ma
costeggiato per sicurtà di navigazione, intendendo approdare a
Sinope.
I giovanetti tornarono pur essi a racquetarsi , quantunque si
trovassero sfiniti da un così lungo e fortunoso viaggio. Da cinque
giorni e cinque notti stavano neirEusino senza poter toccare le sponde.
Badamantino e Fatima ch'erano sempre rimasti l'uno a lato dell'altro,
parevano un'anima sola, un solo cuore in due corpi. Quei giovanetti
provavano reciprocamente una immensa simpatia, che vieppiù s'ac-
cresceva per la comunanza dei dolori e delle speranze. Fatima era tutta
impaurita e nondimeno si sforzava di non piangere e si tratteneva
fin anco dal sospirare ; solo rimaneva chetamente appoggiata a Ba-
damantino come s'egli fosse stato la sua àncora di salvezza.
L'alba del quinto giorno sorgeva ed al chiarore incerto dell'au-
rora videro un punto nero.
— Terra 1 terra I fu un grido generale ; in quelle parole tutto si
racchiudeva, la gioia era generale, i Turchi poi pienamente convinti
delle parole di Radamante, presero pur essi parte alla comune gioia,
credendo di essere in faccia all'Anatolia e non solo d'essersi salvati,
ma di aver soverchiato nella navigazione le altre navi da cui il vento
li aveva separati, e si lusingavano d'essere i primi ad avere parte del
bottino^ allorquando avrebbero deposto ai piedi del sultano i tesori
raccolti ed i giovani genovesi rapiti.
Radamante quando fu presso terra s'accorse ch'era all'isola dei
Serpenti, che forma un triangolo colle bocche di Kilia e di Sulivan del
Danubio, che dai Greci è detto Fidonisi e dai Turchi Ilane-Adassi (1):
(1) Corréard. Guide marxlime et stratégique dan$ la Mer Noire, Parigi
1854, pag. 65.
262 RIVISTA CONTEMPORANEA
nulla disse, anzi fece saputo trovarsi poco distante di Burga e mu-
linava in so come sbarazzarsi dai Turchi ; questi ch'erano tutti dei
pascialati interni dell'Asia minore, epperò non conoscevano quel mare,
credettero alle parole di Eadamante.
Il quale gittò Tàncora per potere rinnovare le provigioni d'acqua
potabile, di cui da alcuni giorni erano quasi privi, ciò che aveva
fatto soffrire doppiamente, perchè è duro trovarsi in metóo all'acque
e quasi morire di sete.
I Turchi si slanciarono nei palischermi impetuosamente, portando
seco loro gli otri per riempirli d'acqua fresca, stanchi a dar dei reir '
nei fiotti tempestosi. I tamarindi, i mirti e le mortelle erano folle
su quella spiaggia e spandevano un'ombra soave, cosicché i Turchi
furono tratti ad assidervi presso ed ivi consumare la frugale refezione
dei marinari, epperò si sdraiarono placidamente sulla morbid'erba,
e stanchi com'erano, finirono coU'addormentarsi. Lungo fu il sonno,
ma appena desti si fecero solleciti a riempire gli otri nella più lim-
pida fontana che zampillava ai pie di quegli odorosi arbusti.
Ciò fatto s'avviarono carichi delle otri alle sponde del mare per
tornare a bordo. Allah! Allah I sclamarono esterrefatti. La galea aveva
levate le àncore ed era già in alto mare salpando a piene vele
verso settentrione ; i Turchi si posero ad urlare nel vedersi così in-
degnamente traditi ; nulla potrebbe ridire le loro smanie ; essi invo-
cavano da Maometto la punizione di coloro che gli avevano abban-
donati. Ma vedendo che cotesto loro smanie non mutavano la loro
situazione, con quell'apatia propria degl'Islamiti, si racquetarono
dicendo : Non vi è Dio che Dio, e Maometto è il suo profeta.
Radamante, lietissimo della riuscita del suo stratagemma, quando
fu ad alcune miglia dall'isola, dirizzò la prua a libeccio per andare
alle bocche del Danubio e precisamente al lido di Bulina, però avendo
ancora remiganti ch'erano tutti Musulmani, loro disse che avendo
felicemente toccato terra dopo tanti marosi, voleva regalarli con be-
vanda gradevole ; in questa gittò una polvere narcotica. Bevutone i
marinari , in breve caddero in profondo sonno , allora Radamante
aiutato dai giovanetti più robusti li prese e li gittò uno ad uno
nel mare.
Sbarazzato da quelli, collocò i giovanetti ai giglioni dei remi. For-
tunatamente il vento spirava propizio alla meta, per cui quasi senza
quelli adoperare venne a poca distanza dell'isola di Mohan ; vi erano
sulla spiaggia dei pastori. Fatima, che sempre era accanto a Rada-
mantino, diede un grido di gioia.
— Senti, oh senti quel canto! È quello che la madre m'insegnava!
— Una do'ina ! dissero ad una Radamante ed il suo figlio.
— Siamo dunque nella Rumania? Oh me benedetta! potrò porre
BABA-DOKIA 263
i piedi su quel suolo che vide nascere la mìa genitrice, che m'in-
segnò ad amare sovra ogni altra cosa dopo Domenedio !
E la giovinetta piangeva di consolazione , e nella brezza marina
le pareva udire la soave voce della sua madre a parlarle della sua
patria; la gioia di toccare quella terra promessa, le fece dimenticare
il ribrezzo che le aveva cagionato il vedere a buttare nell'onda i
Turchi ebri e addormentati. Sebbene in quella età le ire di popolo a
popolo fossero cruenti e feroci, attalchè si considerava opera laudevole
il far soffrire tormenti ai nemici, Fatima, oltreché aveva indole buona
e pietosa, era stata dalla sua madre educata nello spirito vero cri-
stiano, quello che consiste nel versetto del Vangelo: f Nauti a Dio
non vi sono pagani e credenti, ma tutti figli».
Badamante non stette inoperoso contemplando la gioia de* suoi
figli ; ma tosto innalzò all'albero di trinchetto la bandiera Moldava
fra le grida della giovine ciurma, che chiamava i pastori a darle
aita; ciò che meglio valse allo scopo si fu il suono della zampogna,
che Badamante aveva Imboccata e con cui ripeteva melanconicamente
la melodia delle dolne rumane, il che attrasse l'attenzione dei pastori
meravigliati.
Allora due robusti Mohani si gettarono nel mare portando in
ispalla grosse gomene, di cui slanciarono l'un capo sulla galea ; altri
pastori che erano sulle sponde si posero a tirare a tutta forza la nave
e cosi prese terra malgrado la respingente onda del fiume.
Radamante prima di scendere dalla galea volse lo sguardo alle
montagne moldave, fra le quali signoreggiava altero il Pione —
Baba-Dokia, sclamò, ti ringrazio ! — Fatti scendere i giovanetti in
mezzo ai buoni pastori che accorrevano, gareggiando far festa ai
sopravenuti , che scendendo presti dalla galea, non appena posto il
piede in terra s'inginocchiavano, e perchè Genovesi , gridavano —
Ave S. Giorgio ! — il gran santo protettore della marina e delle co-
lonie liguri.
I capi dei lìohani mandarono alcuni pastori sul bastimento onde
vi stessero a guardia, e con essi rimasero alcuni Genovesi, gli altri
ch'erano già sceei a terra furono collocati chi nelle celibe, cioè ca-
panne dei contadini, altri in tane sotto terra; e nell'une e nelle altre
si accese un vivace fuoco , e dato tutto ciò che possedevano , cioè
latte, cacio, e pesce, li rifocillarono ; ciò che più li fece contenti si
fu la mamaliga, cioè la polenta : mangiandone Radamante si sen-
tiva ritornare giovanetto.
264 RIVISTA CONTEMPORANEA
IV.
La feccia sua era faccia d'uom giusto.
Inferno, e. XVII.
Che bel spettacolo eia il vedere sdraiati su foglie di sorgo quei
giovanetti addormentati ed abbracciati stretti uno all'altro ; i loro
sogni dovevano essere dorati, poiché il sorriso errava sulle loro labbra;
Fatima, sempre vestita da giovanetto, teneva stretta la mano di Rada-
mantino nella sua, ed aveva il capo mollemente appoggiato sulla
sua spalla.
Il mattino i Grenovesi, nello svegliarsi, rimasero tutti stupefatti ;
avevano sognato di trovarsi nuovamente in grembo alle loro famiglie.
Con quanto dolore la loro illusione scomparve ! Con qual invidia non
guardavano la mandra di agnello che pascevano su quell'erbosa
spiaggia. Sono liberi ; sono con ohi loro die vita.
— Perchè non siamo com'essi?
— Dio aiuta chi pone fiducia in lui , disse Radamante ; censi*
derate per quale strana vicenda di avvenimenti scampammo dalle
unghie di que' barbari infedeli? Ciò vi dovrebbe persuadere che la
mano di Dio vigilava sopra di noi; abbiate fede e lo scoraggia-
mento non entrerà ne' vostri cuori. Chi sa che fra non molto ritor-
nerete in grembo delle vostre famiglie ; dopo una serie di sciagure,
sentirete viepiù la dolcezza dell'amore dei vostri genitori ; ma se a
vece di secondarmi fate i piagnoloni, io non potrò proseguire nella
difficile intrapresa di restituirvi alla vostra patria.
— Troppo lungi siamo da essa ; l'orizzonte è tutto fosco non vi è
il menomo barlume di speme rispose un' giovane più degli altfi
attempatene : non rivedremo mai più i nostri cari.
Poco ottenne Radamante colle parole sue. Venuta l'ora di levar
l'ancora li fece imbarcare, ed aiutati dagli ospitali Mohani, salpò
alla volta di Ealia e dopo otto ore di navigazione vi giunse.
Sbarcati entrarono in Kilia, anticamente Achillea o distoma-
thum; era allora una fortezaa ohe difendeva l'entrata nelle bocche
del Danubio e cosi proteggeva la navigazione dei Moldavi su quel
gran fiume e sul mar Nero. Vi era un forte presidio capitanato dal
governatore Pascalab Isaia.
Radamante si recò tosto da lui, gli narr^ la catastrofe di Caffa, i
patimenti sofferti nella navigazione e come eransi liberati per un
miracoloso fatto. Il capitano l'udì compassionando ed ammirando la
di lui sagacità, e gli promise agevolargli il modo di recarsi da Ste-
fano Domnu o Vaivoda di Moldavia, a cui la posterità diede l'ap-
BABA-DOKIÀ 266
pellativo di Grande, onde chiedere protezione. Non solo Isaia fu
mosso a pietà dei Genovesi, ma tutt'i Kiliesi ch'erano accorsi, udendo
la notizia di quel meraviglioso sbarco, accolsero amorevolmente i
poveri giovanetti, i quali si credettero tornati nelle loro famiglie e
perciò s'abbandonarono a novella speranza.
Dopo ciò Radamante condusse la sua giovane ciurma in chiesa,
acciò ringraziassero il Signore dello averli salvi. Fatima nel porre
i piedi in quella sacra soglia, si senti talmente compresa da senti-
mento religioso che senza l'aita di Badamantino sarebbe caduta a
terra; gl'insegnamenti della religione cristiana, l'imponenza del
culto greco, la maestà delle basiliche di cui le aveva tante volte
parlato la sua madre le tornavano a mento ; vedeva cogli occhi ciò
che le avevano dipinto le parole; l'altare, le sante immagini, i can-
delabri, i turiboli, l'augusto rito. Oh con quanta commossione si
prostrò sino a terra! né potè sciogliere un accento, tanto era sorpresa.
Il pallore del suo volto era fatto più evidente da due cerchia nere
sotto gli occhi, che palesavano la sua stanchezza e rendevano mag-
giormente strano che quella persona fosse vestita d'abito maschile.
Badamantino, finito ch'ebbe di recitare la sua prece di ringrazia-
mento, stette tutt'occhi a guardare la giovinetta; la trovava più
bella del consueto e le pareva illuminata da luce celeste ; quando si
fece cenno di uscire dalla basilica. Fatima non aveva più forza da
reggere in piedi e a mala pena potè strascinarsi sorretta dal suo fido
compagno.
Tutto la sorprendeva, il vedere quelle donne libere andare e ve-
nire senza essere bavagliate; quale differenza con i costumi tatari,
allora soltanto capi quante pene la ^ua povera genitrice aveva do-
vuto sopportare.
Intanto Isaia spedi un n^esso onde recasse la novella dell'arrivo
di Radamante a Stefano il Grande, che trovavasi allora a Citate-
Alba, cioè la Città bianca, poco distante da Xilia; indi fece subito
disporre un camerone onde alloggiare i Genovesi, ai quali i merca-
tanti Genovesi e Veneti stabiliti in quella città furono larghi di ogni
maniera di conforti.
Stefano il Grande, sagace politico come era, da anni teneva
d'occhio alle mene dei Turchi per ampliare il proprio dominio nel-
l'Europa. Egli aveva preveduto che Maometto II avrebbe invaso la
lontana Crimea e che la colonia di Caffa era troppo debole per
resistere; previdp che dopo il conquisto della Crimea si voleva
volgere le armi contro la Moldavia, aggredendola ad austro sul Da-
nubio, a borea sul Dniester, cioè l'antico Tyras Danastrum ; il per-
chè aveva fatto costrurre alcuni forti lungo la spiaggia Moldava
dell'Eusino. Egli si era data l'alta missione di salvare la eulta Europa
366 EIVISTA CONTEMPOBANEA
dalle invasioni del Turco, che cercava trarre dalla sua la mal accorta
Polonia. I potentati dell'Europa non secondarono quel gran principe,
e le conseguenze ne furono immense : Venezia, Austria e la Polonia
ebbero a patirne irrimediabil danno. L'invidia cosi negli Stati come
negli individui produce sempre rovina.
Oiunto il messo, Stefano lo rimandò tosto al capitano in Kilia
annunciando il suo prossimo arrivo.
Il governatore Isaia e Radamante s'intesero onde preparare un
degno ricevimento al Vaivoda. . Sapendolo schiettamente religioso
indovinarono che il suo primo passo stato sarebbe lo andare subito
nella basilica, opperò Radamante ivi fece schierare i Genovesi nauti
al peristilio, ed egli là sotto espose, per offerire in regalo, tappet
di Persia e d'India, e gemme di Golconda montate in collane
braccialetti ed orecchini ; anfore antiche, medaglie ed armi tempo
state di gioie. Fece, diremmo, un bazar delle mercatanzie che aveva
con sé trasportate. La vista di queste splendide cose valse a temperare
l'inquietezza in cui erano i giovani, giacché paventavano di trovarsi
al cospetto del Vaivoda , il cui nome avevano inteso a pronunziare
con ispavento dai Turchi. ♦
Un forte grido s'udì dalle torri : Erano le sentinelle che annun-
ciavano Tarrivo del Vaivoda, i bronzi squillavano a festa e si con-
fondevano colle musiche militari ; il popolo prorompeva in applausi.
Fatima era tutt'occbi a guardare le truppe che sfilavano nella
via con bandiere spiegate, i capitani le fecero schierare sulla piazza.
Il clero sul peristilio della chiesa ed il venerando metropolita coi
santi evangelii in mano, attendevano che ponesse piede su quelle
sacre soglie. Radamante si era nicchiato col figlio e Fatima nell'in-
tercolonio del peristilio.
— Fratello? Vedi come brillano le armi? Guarda come i cavalli
ftinno scoppiare scintille dalle dure selci battendovi sopra l'ugne
ferrate? Di' un pò? Siragunano fórse tanti armati per essere vicini
i Turchi ed i Tatari? Dio miot tion stiamo qui ad aspettare che
si combatta. Fuggiamo.
— Fatima, tu cosi coraggiosa fra le tempeste, hai paura di cosa
che non sai se sia vera? ora che slamo al cospetto dell'immor-
tale vincitore dei barbari, ora fatti animo.
Stefano entrò nella città; cavalcava un destriero arabo di man-
tello bianco dall'occhio ardente e vivace , era tutto coperto dalla
schiuma e dalla polvere della strada. Il Vaivoda scese lentamente ;
s'incaminò verso la chiesa. I giovani genovesi, caduti in ginocchio,
stavano nell'atto di chi chiede protezione : Stefano era piccolo, brutto
di aspetto severo, ma
e La faccia sua era faccia d'uom giusto »
BABA-DOKIA 267
il SUO «guardo aveva il riflesso delle lame d'acciaio; se fissava una
persona in volto pareva volesse scrutarne i più minuti pensieri r egli
così severo e duro, fu non pertanto commosso scorgendo a sé pro-
strati que' poveri ragazzi,
Radamante si accostò reverentemente al principe, e lo informò
di tutti i particolari dell'avvenuto : Stefano volle poscia interrogare
tutti i giovanetti, e quando stava per ritirarsi, la bellezza di Fatima
lo fece sofiTermare, e quantunque abitualmente pallido lo divenne
ancor di più.
Ritiratosi nel palazzo, riunì il suo consiglio onde deliberare sulla
sorte dei Genovesi. La politica e l'umanità li poneva sotto la sua
protezione; fu deciso che i Boiardi più ricchi adotterebbero alcuni di
quei giovanetti, altri sarebbero istruiti a spese del Governo. I più
svelti li destinò ad essere suoi paggi. Con ciò Stefano voleva fersi
via a stringere un'alleanza politica colla repubblica di Genova in
que' giorni ancora molto potente in mare. Quanto a Fatima, la cui
bellezza cattivava tutti gli animi, Stefano decise di mandarla presso
alla sua madre, la principessa Elena, e sua moglie, la principessa
Voquitza, figlia di Vlad signore della vicina Valachia. Radamante
poi, che aveva salvo tanti cristiani, si ebbe in dono una terra; e
fu dato un impiego in Corte al suo figliuolo.
Così quell'immortale Vaivoda non dimenticò nessuno. Conosciu-
tesi queste sovrane determinazioni, il pot)olo applaudì alla nobile
decisione verso quei giovanetti, perchè sapeva che Italiani e Moldavi
discendono del pari dalla gran gente latina, epperò sono fratelli.
Deh ! eiò non dir : non hai tu madre m queela
Reggia?
Alfieri, Polmk$ a. Il, s. Ili.
Fatima, felicissima dell'esser fuggita dall'harem di Caffa, nuUa-
meno provò dolore quasi pari a quello provato il dì che fu orbata
della madre, nel separarsi da Radamantino. Stefano che la vide pian-
gere, per consolarla, le promise che in ogni anno li avrebbe uniti
per qualche giorno.
— Che farò senza di te? diceva Fatima a Radamantino , a cui
questi rispose :
— Ed io, quando non udrò più quelle labbra di corallo, da cui
pare sgorghino rose e viole, chiamarmi dricemente, oome vivrò?
268 BIYISTA CONTBMPOBÀNBA
0 Fatima, ora io sento che Tesserti presso è bisogno, è necessità
per me.
— Badamantino fa core, che se ti vedo cosi sfiduciato non reggo
ad abbandonarti. Io chiederò al grande Stefano, cosi buono, di la-
sciarmi sempre indossare questi abiti maschili onde stare teco.
— No, Fatima, tu non devi continuare a vivere sotto mentite
vesti ed a nasoondere quella squisita bellezza di cui ti fu largo
Iddio. Tu devi essere ornamento nella Corte della madre e della
sposa dell'ottimo principe che regge questa avventurata Moldavia.
Io saprò rassegnarmi al mio fato.
Radamante, vedendo le lagrime dei due giovanetti, pensò esser
meglio abbreviare quegli istanti, e pregò Isaia, stato incaricato di con-
durla alla principessa, di disporre alla più presto per la sua partenza; il
Pescalab vi aderì; poche ore dopo entrava nel palazzo. Non ridiremo i
pianti della giovane nel separarsi dal padre e dal figlio, che facilmente
i lettori li supporranno, ma solo che, salita in vettura, si allontanò
rapidamente da Kilia. La residenza delle principesse era a' piedi dei
monti Carpazii a Neamtzo (1), ovvero Piatra; nel cui castello passa-
vano rinvemo. Alla bella stagione andavano in campagna in una villa
ad un quarto di lega da Domnesti. Fatima arrivò quando appunto
stavano villeggiando.
Da Eilia a Neamtzo vi è lungo tratto, giacché quella sta alle
bocche del Danubio e Tattro alle sorgenti del fiume Bistritza neirin-
temo della Moldavia ; dopo un viaggio, che a Fatima parve etemo,
benché fosse tutto attraverso a ridenti prati e costeggiando il fiume,
giunse finalmente a Neamtzo; dopo essersi puliti gli abiti sciupati
dal lungo viaggio, Isata la condusse alla villa ove trovavasi la prin-
cipessa Elena. Questa raccolse con tanta bontà che la giovine si
senti allargare il cuore. Isaia, dopo d'aver preso gli ordini delle no-
bili donne, riprese la via di Kilia ove affari del Governo lo richia-
mavano.
Fatima non aveva mai visto delle signore d'illustri natali e guar-
dava con femminile curiosità quell'abbigliamento, composto da una
veste listata di seta bianca e azzurra, su cui la sopraveste di stoffa
e colore uguale scendeva sino alla coscia; lunga sciarpa che faceva
più giri, rannodava al petto una guemizione colla forma d'un arco,
toccando al basso fino all'osso iliaco; e la sommità dell'arco princi-
piava al cavo del petto; superiormente all'arco girava* una gorgiera
tutta ricamata in oro, indi un colletto di tela bianca attaccato da
(1) Questo castello dicesi dagli Slavi sii stato edificato dai Cavalieri di
Malta di lingua tedesca. Ora come i Tedeschi son detti in russo Niameise^
da ciò il nome suo. Vedi The frontiers landi of the Chriéttan and theTurk.
Londra 1853, T. 2, p. 31.
BABÀ-DOKTA. 269
un piccolo spillo. Lungo manto di porpora trapunto da fino lavoro e
scendente fino a terra aveva per guarnizione grosse treccie d'oro che
giravano tutto attorno; il davanti poi, fino allametà, ornato di gal-
loni lunghi una spanna e fatti delle stesse treccie d'ora, disposte alla
ussara, e cosi pure sulle spalle, tre per tre, ^soa un grosso bottone
su? ogni cordone, questo di pietre preziose ; il colletto del manto era
composto d'una spallina di pelliccia poco presso pari jalle cosi dette
palatine d'oggidì : il manto era foderato della stessa pelliccia; ma ciò
che maggiormente attrasse gli occhi di Fatima, si fa l'acconciatura
del capo; i capelli trecciati battevano sulle tempia compressi da
una corona ducale, come raffigurata nei blasoni, tutta oro e gioie;
cioè quattro punte fioriformi più elevate e quattro minori ; la fascia
dall'altezza di quattro dita tutta lavorata a cassetti in rilievo, con
gemme di ogni colore. Dal punto delle tempia scendevano fino agli
omeri due enormi fiocchi, composti da sei catenelle d'orp, pendenti
da un fermaglio ed aventi dal capo mferiòre un bottoncino. Vesti-*
menta ricchfssima nel suo complesso, di cui può aversi miglior con-
cetto nel ritratto della Principessa cb'è a Corte di Arges, e ohe venne
riprodotto nella magnifica Rivista Romana di luglio del corrente 1862.
. Più semplicemente, ma a quella foggia, avevano pure vestita Fa-
tima, che non trovava pel momento cosa di buon gusto> avvezza come
era allo sciolto e comodo vestire delle tatare di Crimea.
La dolcezza ed il carattere della giovane, la sua fede cristiana le
valsero tutta la benevolenza della principessa Klena, \% quale non
sapeva più staccarsi un istante dalla sua protetta; ogni giorno veniva
un popa ad insegnarle i dogmi della religipne oitodossa, tutte
queste cure e cortesie fecero sì che la giovane si trovava felice, e
l'essere lontana da Radamantino non era giù disperato dolore, ma
soltanto tranquilla mestizia.
Quanto le piaceva ire a passeggiare pel giardino, oppure andare
con mistero a visitare Baba-Dokia, in cui tanto fidava. Radamantino
le aveva raccomandato di trattenersi sovente con essa, ed ella, osser-
vatrice del consiglio, ogniqualvolta poteva escire dal palazzo, colà si
recava ; d'altronde quei siti erano cosi pittoreschi e ridenti da non
saziarsi mai di rivederli.
— Mio Dio, su questa terra non ho più nulla a desiderare fuorché
la mia madre; oh se me l'avessi a lato, sarei la più felice delle
donne. Queste parole le sfuggirono un dì ch'era per i viali del giar-
dino. La Principessa l'intese e le disse :
— Ingrata, non sono per te ima madre affettuosa? Fatima, co-
teste tue parole mi fanno male ; io t'amo quanto amo il mio figlio,
e ti do prova del mio affetto ogni volta che mi è dato di farlo ! Io
assunsi di essere tua madre, e sono gelosa che tu possa amare di
più quella che perdesti in Caffa.
270 RIVISTA CONTEMPORANEA
— Perdonami I o Frìnoipessa, io non intesi offenderti con queste
parole che dissi a me stessa. Sento che qui sono felice, conosco ed
apprezzo tutte le gentilezze^ la bontà, l'affetto che immeritevolmente
tu accordi a me povera infelice. Procurerò di testimoniare il meglio
che io sappia la mia riconoscenza, e mattino e sera, nella basilica
come nella mia camera, prego Cristo Salvatore e la Vergine Panagia
di rimunerarti con ogni maniera di felicità. Ma non ti offendere se
fira le delicatezze della mia vita attuale io ricordo lagrimandp l'in-
felice che mi dio vita e ch'oggi dorme l'eterno sonno in una terra
ch'è in man degrinfedeli.
Fatima in poco fu convenevolmente istrutta nella religione cristiana
ed il vescovo disse ch'era tempo di amministrarle il battesimo. L'au-
gusta cerimonia fu stabilita e si compì a Piatra con grande apparato^
Essendo imposto dal rito greco che il battesimo abbia luogo coU'im-
mersione in un fiume« come praticava s. Giovanni nel deserto, Fatima
fu battezzata nella Bistritza e la principessa Elena fu la santola ; il
venerando metropolitano Teoktite le diede l'acqua egli stesso e le
pose nome Dominica, come aveva desiderato la sultana sua madre
prima di morire. Non ò duopo dire quale numerosa folla intervenne
a quella cerimonia, le sventure della giovine erano diventate popo-
lari, al che si aggiungeva ohe la Principessa, onde rendere cara Fa-
tima ai suoi vassalli, l'aveva elotta a sua elemosiniera ; ogni largi-
zione della Principessa passava per le mani di Fatima, dal che ne
venne che nella città di Piatra e su tutto il monte Pione era dessa
chiamata la Ninfo generosa e soccorritrice. À.Fatima piaceva salire
su per gli scabri massi di quel monte, ne' quali distratto in tratto
erano intagliati grossolani altari; più in alto saliva la giovine e più
le pareva avvicinarsi al cpeatore, tant'era la pienezza e la purità della
sua religione. I monaci dei conventi della Moldavia predicavano
modello delle giovanetto questa neofita. In ima parola : quando no-
minavano Dominica sedevano aggiungervi il predicato : la santa !
VI.
Gloria il precede, e de' marziali il coro
Genj l'accerchia , e dietro a lai si stanno
In aer librate con perpetuo corso
Sorte, Vittoria e Fama.
Ugo Foscolo, Ode a Bonaparte,
Corsero alcuni anni ; in ognuno di essi, quando capitavano i
giorni in cui a Fatima ed a Radamantino era dato di trovarsi sotto
lo stesso tetto, quelli erano i giorni d'immensurabile felicità. Stefano
amava Radamantino, sia per l'intelligenza che dimostrava, come pel
BABA-DOKU 271
coraggio di cm dava prova, e prevedeva che sarebbe stato utile un
di la 0ua mente ed il suo braccio alla terra rumana.
Ma se il tempo fuggiva veloce per que' giovanetti, lentamente si
addensavano le nubi in politica. Stefano che sempre era in lotta ora
coi Turchi, ora cogli Ungheresi, ed ora coi Polacchi, guardava im-
pavido l'avvenire perchè aveva fidanza nella propria strila.
Chiari non andò che si verificarono le sue previsioni.
I Turchi capitanati da Maometto II si ragunarono oltre il Da*
nubio, per aggredire la Moldavia subitamente senza lasciare tempo
al Vaivoda di stringere alleanze. Inteso di ciò Casimiro lY, re di
Polonia, e conoscendo che questo progetto sarebbe riuscito fatale
alla cristianità, spediva ambasciatori al sultano, pregandolo di so-
spendere la sua marcia ; questi rispose che la sua armata era desi-
derosa di vendicare il suo onore militare; ciò non pertanto l'avrebbe
ritirata di Bulgaria e ricondotta nell'Anatolia, se Ste&no si sotto-
mettevp a pagare un tributo, a rendere i prigionieri Turchi fotti nella
guerra precedente, ed a sgombrare i forti di Kilia e d'Akerman (il
forte bifmco).
Stefono conscio di tutto ciò e sdegnato delle pretese del gran
Signore, umilianti per lui e pel suo popolo , convocò l'Assemblea dei
beiari e loro espose le cose: tutti respinsero unanimi quelle domande
insultanti, e giurarono di morire sul campo di batta^ia anziché fore
olocausto a Maometto della libertà d'una nazione che erasi difésa
sempre con tanto onore.
L'esercito Moldavo mosse quindi verso il Danubio, su cui i Tur-
chi avevano di già gittate cinque ponti di barche per tragittarlo.
Fatima colla principessa Blena si recarono a visitare il principe
innanzi che partisse co' suoi soldati: tristo fu l'addio. Badamante
era dei primi del corteggio militare di Stefiino, e suo figlio gli era
scudiere
Quando furono per salire in arcioni onde porsi a capo d^'armata,
Fatima prese per le mani Badamantino e gli disse:
— Giurami di non mai abbandonare ciò che sto per rimetterti.
Tu lo porterai ognora su di te; gli ò un talismano che ti salverà
da ogni pericolo: ciò dicendo trasse di tasca una borsa di perga-
mena bianca ; egli la guardò e giurò. -^ Allora essa lo fece ingi-
nocchiare dinanzi a sé, e passatogli al collo il cordone serico che
riteneva la borsa, gli disse: — ^ in questa semplice borsa bianca
vi sono tre cose, le più sante che io possegga; tu le porterai
sempre appese al collo come ora io te le ho messe: la bianca
borsa ti ricordi il candore della nostra dolce amistà; ciò che vi
sta dentro, ti risowenga il nostro passato, quando tornerai me ne
farai restituzione; l'uno é un lembo della veste che lamia madre,
272 RIVISTA OONTBMPOEANEA
di benedetta memoria, portava il di che morì ; l'altro è una pianti-
cella di muschio che staccai nella misteriosa grotta ove quella ìg^nota
martire della fede cristiana orava il nostro Dio Salvatore : ciò ti sia
di spinta a pugnare contro il miscredente mussulmano ; l'ultimo è
un pezzo di roccia che mi diede Baba-Dokia, e non occorre che io
te ne dica di più. Iddio ti protegga come già ne protesse in quella
memoranda notte ove ci trovammo riuniti.
Radamantino le strinse la mano e con venerazione la portò alle
sue labbra; non osava alzare gli occhi sino a lei, si sentiva contur-
bato ed aveva tema di lasciare scorgere che le lagrime gli inumi-
divano le ciglia : la giovinetta se n'accorse e trovò bene dì allonta-
narsi d'alcuni passi onde parlare al principe ed a Radamante; ma
la tromba diede il segnale della partenza; i cavalieri balzarono in
sella , diedero degli speroni e partirono. Già erano discosti , e le
donne rimaste sul luogo agitavano ancora 1 fazzoletti bianchi spe-
rando fossero visti, ma la polvere sollevata dai cavalli e dai fanti
s'interponeva agli sguardi.
Fatima, rientrata nel palazzo, si lasciò cadere sui tappeti sin-
ghiozzante e quasi convulsa. Lo sforzo violento che aveva fatto per
essere in apparenza calma l'aveva affranta ; le sue donne fecero ogni
possibile per confortarla ; ma esse pure avevano chi il padre, chi 11
figlio, chi il flratello o l'amante all'armata. Trascorsero alcune ore ;
Fatima rinvenne, e chiesta la protezione di Dio, si sentì bastevol-
mente forte per rassegnarsi a quella crudele separazione.
L'indomani la principessa Elena colle sue donne si ritiravano nel
castello di Niamtzo ch'era una formidabile fortezza, come abbiam
detto ; colà non temevano di essere assalite. Il forte era grande così
da poter contenere numerosa schiera di armati ; i>erò in quei dì non
eranvi che donne e vecchi, giacché tutti gli atti a portare le armi
erano partiti col loro sovrano.
Stefano giunse sulle sponde del Danubio quando l'esercito turco
stava per tentarne il passaggio. Ogni orda che giungeva a porre
piede sulla terra moldava, era a prezzo di numerosi morti e feriti ;
che i Moldavi loro contrastavano arditamente il passo. Avrebbe in
poco fugati i Mussulmani ove non fosse stato il tradimento di Ylad
principe di Yalachia e suocero di Stefano, anzi venuto al trono
merco sua, il quale, per ambizione di estendere i suoi dominii, si
era alleato col gran sultano. Stefano si trovò importante avere a
combattere due forti armate, tra entrambe di 300,000 uomini, ed egli
non noverava fuorché 47,000 combattenti. Questa immensa disparità
di forze che avrebbe fatto fuggire senza trar colpo ogni altro capi-
tano, non solo non intimori Stefano, anzi gì' ingenerò nel petto mag-
giore audacia e temerità.
BÀBÀ-DOKIA 273
I corpi dell'esercito moldavo, ch'erano etati collooati a difesa dei
passi dei monti Carpazii si videro perduti per avere il traditore
Ylad di Yalachia guadato il Danubio sur un altro punto e tagliate
le comunicazioni tra essi ed il corpo principale eomandato dal vai-
voda. Questi, visto non esservi altro scampo, si ritrasse verso la
sponda destra della Moldava, incendiando tutti i paesi ch'era costretto
di abbandonare per togliere cosi ai nemici vettovaglie e riparo.
Maometto erasi già avanzato sino a fiomanu e lungava il Se-
reth^ opperò le truppe nemiche fiancheggiavano quelle di Stefano;
bisognava o fuggire alla dirotta o pugnare disperatamente. Il paese
è ivi tutto piano, ed è la parte più fertile della Moldavia. Ne' tempi
di cui discorro erano i campi e le rive smaltati di fiori silvestri che
ti rapivano. In mezzo a quella pianura ove Stefano elesse combattere
una lotta esiziale, fece erigere una gran cr<Mie in legno, acciò fosse
simbob della causa per cui si combatteva ; quella croce era gigan-
tesca cosi da dominare tutta l'estesa pianura.
I spahi ed i seckli, cioè la cavalleria scelta e quella dei presidi!,
cominciarono a correre in ordinati squadroni, calpestando quelle pra-
terie e spaventando i buffali ed i buoi che fuggivano verso la mon-
tagna sorpresi da quell'improvviso correre, dalle grida e dal suono
delle trombe. I cavalieri Moldavi ch'erano a guardia. dei valichi,
vistisi soverchiati dal numero degU aggressori, si posero in salvo con
precipitosa fuga. I miseri abitanti delle celibe o capanne rurali, ve-
dendo sorgiungere i Turchi, abbandonarono le loro povere dimore
per rifuggirsi in Niamtao.
n mattino della domenica il grosso dell'armata mussulmana irò*
vavasi schierato contro il piccolo esercito moldavo. Ahi giorno ne-
fasto ! Stefano capitanava i suoi bravi aiducdbi , che come leoni si
cacciarono nelle fila ottomane, facendo ampie stragi. Ma Timmensa
soldatesca turca, posta in seconda fila, concedeva di riparare tosta-
mente alle perdite, anzi le fece prendere l'offensiva. Costretti dal-
l'onda crescente dei Musulmani, gli aiducchi indietreggiano e si
accalcano attorno alla croce, continuando a combattere eroicamente e
morendo con coraggio a prò della patria.
Stefano, visti cadere i suoi fidi , non pone tempo in mezzo , si
slancia neUe schiere ottomane, ed animando i suoi colla voce e col-
l'esempio, pervenne a trattenere il nemico dall'innoltrarsi maggior-
mente nel paese.
Nel secolo xv gli eserciti moldavi non avevano l'ordinamento at-
tuale: erano composti di compagnie di cavalli e di fanti, armati
come Livio, il gran storico di Roma, ci dipinge i Numidi, o come
narra Cesare lo fossero i soldati di Ambiorige. I boiari, vassalli al
vaivoda, scendevano in campo ognuno di essi traendo seco buon
Rivista C. — 18
274 niVlSTA CONTBMPOBANEA
numero di combattenti armati di lande, picche, massze, ascio, gia-
velline o freccie; I boiari avevano chi tre chi quattro cavalli ca-
duno , acciocché stanco l'uno , potessero salire sur un altro per
continuare a combattere; i semplici combattenti a cavallo avevano
selle ma senza arcioni, la sciabola e l'arco ovvero la lancia come i
Polacchi. I Moldavi non avevano la disciplina militare odierna, non
l'avevano nemmeno i Turchi ; ma compensava questo difetto il fa-
natismo religioso d'ambe le parti.
Badamante ed il suo figlio non s'erano mai scostati dai fianchi
del principe, ed avevano come lui pugnato da eroi; essi avevano
giurato di fare sacrifizio della loro vita a prò di lui che gli aveva
accolti, amati e favoriti.
Il sopragiungere di una notte tenebrosissima sospese necessa-
riamente la pugna ; ma essa durante, Stefano e suo figlio Alessandro
accompagnati dai due Badamante, travestiti da semplici arcieri, vi-
sitarono il campo, sia per raccogliere i Moldavi feriti, sia per ispiare
le posizioni ; ciò conseguito, si ritirarono nelle tende.
In questo mentre nel castello di Niamtzo le donne attendevano
con febbrile impazienza di conoscere l'esito di quella tremenda gior-
nata, e salivano suile torri per {scorgere più lungi l'atteso arrivo di
qualche messo; la sera si ritiravano ed inginocchiate davanti ad
\m crocefisso , salmodiavano unite dame e serve ; era edificante il
vedere prostrata tutta una popolazione chiedente al Dio degli eserciti
cristiani la salvezza del paese e dei loro parenti.
Era il lunedì 26 luglio 1476 ; un triste presentimento pesava sul
cuore della madre del vaivoda e della sua nuora, la principessa Yo-
quitza, figlia di Ylad il traditore; tutto il di stettero ora pregando,
ora salendo sugli spaldi delle fortificazioni, spinte colà per ispiare
come piegassero gli eventi.
Nulla fu loro dato scorgere ; il perchè passarono una notte nel-
l'ansia la più crudele ; l'alba si alzò tingendo di liste sanguigne le
nubi all'oriente, pronube di grandi sventure. La coraggiosa princi-
pessa Elena era sempre in vedetta sulle torri ; verso sera vede giun-
gere migliaia cavalieri al galoppo seguiti da fanti ; ma la polvere
della strada che sollevavano, non lasciava conoscere chi fossero dessi.
Ahimè I erano i Moldavi, che respinti e fuggenti venivano a ripararsi
dietro le forti mura di Niamtzo.
Elena si affacciò alle feritoie sovrastanti alla porta della fortezza
e (1) — Non aprite, gridò, che non è mio figlio Essa però aveva
riconosciuto Stefano che giungeva, per la prima volta in vita sua,
(1) Ubicini. UUnivert ou HUtoire et description de tout ìetpeuplet» Paris,
T. 2, pag, 43.
BABA-DOKTA 275
sconfitto ed umiliato. Udendo la voce di sua madre rispose: Madre!
non riconosci il tuo figlio? Al che la forte donna replicò (1): Ah tu
ti sei scordato ch'io sono la tua madre! Ricalca le tue orme; fa che
ti rivegga vittorioso o mai più. Meglio morire che dovere la sua
salvezza ad una donna! Queste magnanime parole che non hanno
altro riscontro che in quelle di Vetturia a Coriolano, furono udite
daihoiari e dai soldati ch'erano giunti *con Stefano.» Furono scintilla
che rianimò il loro coraggio. Stefano giurò df ritornare alla pugna
e di morirvi anziché indietreggiare di un passo, ed i suoi hrandendo
in alto le armi replicarono : Lo giuriamo con te !
La principessa Voquitza, questa avvenentissima donna, ch'era
pur essa salita sul terrazzo che copriva la porta del forte, animata
da fuoco patriotico, incuorava i soldati a ricominciare la battaglia.
Pareva su quegli spaldi una dea ; i lunghi, fini e biondi capelli gli
cadevano mollemente abbandonati sugli omeri bianchissimi e mezzo
scoperti, facevano mille aggraziate anella attorno all'eburneo collo.
Fatima alla sua volta rimproverò acerbamente Radamante dello aver
seguito il vaivoda anziché perire da forte sul campo della gloria.
I fuggitivi Moldavi tornarono incontro il nemico per vie traverse.
Sorpresero di fianco Taccampamento ottomano. I Turchi sdraiati
stavano festeggiando la riportata vittoria nel di precedente. Stefano
irruppe fra le tende come un fulmine di guerra , coi dodicimila
uomini, che solo gli restavano. — Il grido era: Viva Traiano! in
ricordo del fondatore delle colonie romane in Dacia. I Musulmani
suonarono ben tosto a raccolta. Una pugna acerrima ne segui.
Trentaniila rumani di Moldavia furono morti, ma la vittoria rimase
a loro, perchè gli Ottomani vi lasciarono centomila uomini, e furono
vergognosamente costretti a fuggire.
Quella giornata, cosi splendida per la Moldavia, era costata cara
assai. Radamante capitanava 1 giovani Genovesi, ed erano rimasti
sempre a lato di Stefano facendo predigli di valore, ma nella lotta il
vaivoda fu dal suo destriero, ribelle al freno, trascinato in mezzo ai
Turchi, che subito lanciarono freccie, e ferirono mortalmente il ca-
vallo. Radamante vistolo cadere, scende dagli arcioni e dà al principe
il suo buon destriero, ma in quello una freccia evidentemente desti-
nata a Stefano, lo colpisce in un occhio e penetra nel cervello. Ra-
damente spira dicendo : — Baba-Dokia ! confido a te i miei figli. —
6aba-Do e non potè proseguirei
Inutile il ridire come la perdita di cosi provato amico e di cosi
(1) J. A. Vaillant. La Rumarne. Paris 1844, T. 1 , p. 256. —Vi è nel
libro intitolato : Canti e lagrime di D, Bolintineanu (in rumano). lassi 1852,
una bellissima ballata su questo episodio, intitolata: Stefano il grande e
sua madre.
276 RIVISTA CONTEMPORÀNEA
strenuo scudiero fosse riuscita acerba al vaivoda. Non però ristette;
che la salute della patria era il suo supremo amore. Badamantino
fu da quella irreparanda sventura cangiato in tigre. Roteando Tazza
si cacciò tra una falange turca ed immolò un ecatombe di spahì per
vendicare il suo padre. I Genovesi non furono a lui secondi e tanto
fecero, che poco mancò non s'impadronissero dello stesso visir co-
mandante dell'esercito ottomano.
La valle ove successe questa memorabile battaglia si chiama
tutt'ora la Valle Alba, cioè bianca, per la infinità di cadaveri, che
rimasti spolpati, ricopersero colle loro ossa biancheggianti quel piano.
Durarono più anni insepolti ; la putrefazione de' cadaveri ammorbò
l'aria, e la Valle Alba divenne, da saluberrima ch'era, pestifera, per
cui rimase deserta. Oggidì ancora, che tornò ad essere sana, spin-
gendo l'aratro a rompere le zolle , si riconducono alla luce molte
ossa dei caduti in quel memorando giorno.
VII.
Chiusa fiamma è più ardente ; e se pur cresce,
In alcun modo più non può celarsi.
Petrarca, Canzone XVI.
Lasciamo che Stefano il Grande attenda nella pace a rimarginare
le molte piaghe cagionate dalla guerra ai suoi Moldavi e ricondu-
ciamoci in Crimea.
Il Chan Mengelì-Gherai era uomo di sentimenti superiori ; ben-
chò tataro non era come i Tatari barbaro e rozzo. Ristabilito sul trono
da Maometto II, in condizione di vassallo del gran sultano, non
erasi mai dimenticato la sua sultana favorita, di cui conservava la
più soave rimembranza, per modochè ricordava ad ogni istante la di
lei fanciulla , Fatima , il sospiro del suo cuore , ed avrebbe dato il
trono per ritrovarla. Essendo certo che crescendo in età sarebbe
cresciuta in bellezza, iva fantasticando in quale mano sarebbe ca-
duta ; povero padre I era pure da compiangere !
Egli si era promesso di serbar sempre presso a so Fatima, di
rivivere nei nipoti che dessa gli avrebbe dati. Aveva potuto cono-
scere, quando l'aveva bambina nell'harem , il carattere amoroso ed
arrendevole di lei. Oh quante volte la chiamava sospirando pei viali
del giardino o per le sale del suo palagio, ma non riceveva risposta.
Invano le sue molte donne cercavano svagarlo, Mengeli-Gherai era
sempre nella più profonda malinconia.
BABA-DOKIA 277
Fatima vedeva ogni giorno Eadamantino, poiché era scudiere di
Ste&no; da alcun tempo la Moldavia godeva pace, opperò dessi, tro-
vandosi abitare lo stesso palagio, potevano vedersi di spesso. Questa
loro vicinanza accese in essi un vivissimo amore, che iva ingigan-
tendo ogni giorno ; però sì tacquero a vicenda questo loro affetto.
Un mattino in cui Fatima erasi, secondo il suo costume, recata a
pregare^'in un tempietto che sorgeva in fondo del giardino, tratta
dal tepore che regnava, dal profluvio di odori ch'emanavano da mille
varii fiori, e dal canto degli augelli ch'ivano saltellando di fronda
in fronda, si pose a sedere a mezza via, e quasi assorta dall'incante-
simo di quel sito, se ne stava cogli occhi fissi nel zBif&ro del cielo.
Badamantino, che era pur esso nel giardino a godere l'aria tepida
di un cosi bel giorno, continuando il suo passeggio, vide di lontano
Fatima, immobile e pensierosa. Piano piano le si accosta, e quando
ne fu distante solo tre passi, si fermò, non diremo a contemplarla,
ma a venerarla. In quello una nidiata di uccelletti ch'era fra i rami
di un cespo di mirteti presso cui stava Fatima, sciolse improvviso
il volo. A quel rumore dessa fu scossa, china gli occhi, e vede a
poca distanza di sé Radamantino con un ginocchio a terra, i gomiti
poggiati sull'altro, e tenendosi coUe palme il volto. A quella vista
le sue guancie divennero come bragia rosse, volle profferir parola,
ma non seppe. Radamantino meno timido, si alzò, e postosi a sederle
a fianco, prese le sue mani fra le sue, cosi disse :
— 0 Fatima, io benedico di essere sceso a respirar quest'aria
così serena e balsamica, ed in mezzo a questi fiori, perchè mi par
luogo eletto onde svelarti l'animo mio. Sappi che io t'amo d'im-
menso amore. Lo tacqui sin ora, ma non posso più frenare il mio
labbro. Non ti ricorderò come fummo uniti da fanciulli , le nostre
comuni vicende vuoi tristi vuoi felici, e l'amicizia che legò tua madre
al mio padre. — No. Io ti chiedo di dirmi soltanto se m'ami, o s'io
devo morire.
— Eadamantino quale discorso tu lo sai, ogni volta che
ci troviamo soli assieme, provo un inesprimibile imbarazzo ; sii cor-
tese di lasciarmi, giacché il tempo fugge, ed io devo recarmi a fare
l'ordinaria preghiera del mattino.
— Cosi mi parli? crudele! Il tuo labbro mentisce, perché nelle
occhiate che ci siamo avvezzi a ricambiarci, io lessi parole d'amore,
promessa e giuramento di amarmi.
— Ebbene ti risponderò che le hai interpretate quali erano. Ar-
rossisco al confessarlo, perché io credeva che il mio segreto non si
fosse a te palesato. Ma ora che l'hai scoverto,, ora che senti dal
mio labbro a dirti: io t'amo, devo farti riflettere che la reciproca
nostra condizione non é assicurata. Noi qui siamo accolti e trat«
278 RIVISTA C0NTBMP01.ANEA
tati con ogni maniera di riguardi. Il tuo padre facendo olocausto
della sua vita al grande Stefano, ti ha dato certamente diritti alla
sua gratitudine. Ma in uno Stato ch'è, può dirsi, in continua guerra,
possiamo noi calcolare che la nostra attuale posizione sii per essere
durevole? Se un altro rovescio come quello di Valle Alba incogliesse
il Vaivoda, e che più non potesse avere la rivincita, di' un po', che
sarebbe di noi?
— Oh Fatima, se nelle risoluzioni si avesse sempre a pensare
alla dimane, non mai si prenderebbero. È un sotterfugio per dilazio-
nare la nostra unione. Consenti che io domandi la tua mano al Vai-
voda, giacché l'amor mio è cosi intenso, che mi bisogna o coronarlo
o morire.
— Sempre fai di queste brutte minaccio. No, Badamantino, non
è ancora tempo a ciò. L'ottima principessa Elena non vorrebbe sepa-
rarsi da me in questi tempi di pace incerta e sospetta, ed io sarei ingra-
tissima se la lasciassi. Aspetta che la Moldavia tomi tranquilla, ed
allora ti darò mano di sposa, per non mai più dividermi da te ; ti
seguirò nelle battaglie come nelle peregrinazioni, sarò con te nella
città, come bisognando nelle capanne; ma ora abbandonare la Prin-
cipessa, che tanto fece per me, mi sarebbe impossibile cosa.
La giovine donna mandò fuori queste parole a stento, che senti-
vasi fascinata dallo sguardo di Radamantino, il quale strettele le
mani nelle sue e guardandola con occhi di fuoco, pareva volesse
costringerla a dirle di subito quel si che implorava.
— Badamantino, abbassa gli occhi, che que' tuoi sguardi m'in-
cendiano lasciami, per quell'amore che ti ho palesato, Badaman- '
tino lasciami.
— No ; non partirai prima di aver deciso della mia vita !
— Ascolta : risolutamente ti dico che adesso non ti do risposta ;
domani toma in questo giardino ; là alle soglie del tempio ti dirò
ciò che ho deciso.
— Bipetimi che m'ami ; quelle parole mi daranno forza ad
aspettare.
Ed allacciando la giovine per la vita, se la strinse al petto, le
impresse un vivo ma puro bacio sulla candida fronte, e parti.
Dessa tornò a sedere agitatissima , poi , rimessa dall'orgasmo
. provato, si recò nel tempio, ma in tutte le immagini che pendevano
dalle pareti raffigurava Badamantino. Chiese quindi supplice ft Dio
ed alla sua Madre d'inspirarle la risposta che dare gli doveva.
Il mattino susseguente era bello e sereno. Fatima s'avviò pian
pianino per que' viali : bramando quasi di tardare ad essere al co-
spetto del suo amante; temente e pensierosa, proseguiva il pas-
seggio, allorché trovossi ad un tratto faccia a faccia di un uomo
BABA-DOKU 279
che all'aspotto dimesso reputò un mendicante ; la giovine gli porse
alcune monete, ma questi prendendola dolcemente per mano, si pose
a dirle in lingua tatara, e con accento flebile ed affettuoso.
€ Figlia d'Oriente ! (1) tu nata là dove sorge la luce e la vera
« fède ; tu nata nel paradiso terrestre, nelle sale principesche della
€ corte di Bakchi-Serai ! La tempesta del mar Nero ti trasse a
« queste sponde tutte zeppe del sangue musulmano I Vedi le tue
€ sorelle di Crimea fra le perle ed i profumi voluttuosF deir Arabia,
e sono alTapice della felicità, non provano altro dolore se non quello
e di saper la loro cara Fatima schiava di giaurri in terra straniera!
e Obbedienti al Profeta , molti di noi ci diemmo a percorrere le
€ terre dall'Oriente all'Occidente, non curando alcun pericolo per ri-
€ trovare le tortorelle smarrite. Dopo tante indagini, ti ho trovato.
€ Allah è grande ! Allah vuole il tuo ritomo 1 Fatima, io sono il più
€ felice di tutti i mortali ! ti ricondurrò nella tua patria ! vieni, se-
€ guimi. Maometto fuggi pur esso dalla Mecca, ma la sua fuga
€ assicurò il trionfo dell'Islamismo. Un santo ardore ti dia le ali ai
« piedi! Vieni!
Fatima credette costui fosse un mentecatto, ma quello continuava
pur sempre a dire : il Profeta me lo impose; e traeva la giovine con
tutta foraa verso di lui ; allora sbigottita Fatima, prese a fare conti-
nuamente segni della croce, credendo fosse un demonio venuto a ten-
tarla, ma, nò i segni di croce, né le preghiere valsero a respingere
quell'uomo.
n Tataro^, scorgendo non essere facil cosa indurre colle parole
quella creatura a seguirlo, pensò adoperare la violenza. Fatima fatta
ardimentosa dal pericolo , e sebbene si trovasse là sola , e dove le
grida non giungevano ad essere intese nel palagio, ributtò con forte
colpo nel petto il Tartaro dalla pelle giallognola e dagli occhi obliqui,
e gli disse:
— Scellerato Nogaio! mi accorgo che tu sei un Nalba escito
ddl' inferno per tentare la mia fede. Io sono figlia d'una martire
cristiana che mi educò nella fede di Cristo, del vero Dio. Egli è mio
scudo, mia salute, e nel suo santo ed adorato nome t'impongo d'al-
lontanarti ! Toma ai tuoi idoli bugiardi ed alle steppe del Volga, in-
nanzi che taluno qui venga a farti prigione.
n Tataro a queste parole sali in sulle furie barbariche. Era un
iman, ed è noto quanto questi religiosi musulmani siano fanatici
di ricuperare i giovani islamiti, caduti m potere dei cristiani. Era
giunto a scoprire ove eransi rifugiati i giovani Genovesi, per via
di alcuni Turchi, ch'erano stati con quelli condotti in làoldavia, o
(1) G. Asaky. Nouf)eUe$ historiques de la Uoldo-Roumanie. Jassy 1859*
280 RIVISTA CX)NTBMPORANEA
commessi la chiamano, Bogdaula, ed aveya pare saputo ivi trovarsi
Fatima; si diede quindi a trovar modo di parlarle ' da sola, e di ra-
pirla, sperando di riceverne gran ricompensa da Mengeli-Gherai.
L' iman aveva combattute le ultime battaglie , e quella stessa di
Vair Alba ; conosceva palmo a palmo le città, rumane, ed erasi intro-
dotto nel giardino aspettando il destro per sorprendere Fatima, in-
durla colle impromesse di felicità e di onori a seguirlo , e non ade-
rendo, involarla.
Appunto avendo visto tornar vane le parole, T afferrò per un
braccio, e coU'altro trasse un yatagan di sotto le vesti, e glielo
infisse nel seno.
Ahi!..... mi muoio!
Badamantino che era stanco del lungo aspettare alla sogHa del
tempio, cominciava impazientarsi ed a dubitare fosset preso a dileggio
il suo amore : s^avviò importante verso il palazzo, quando gli parve
udire la voce di Fatima; si slancia, divora lo spazio che ne lo sepa-
rava, e giunse in tempo per vedere l'Iman pugnalare La giovinetta
e cadere
come corpo morto cade.
Slanciarsi sul Tataro , trapassarlo colla spada fu istantaneo ; poi
si pose non a gridare, si ad urlare, attalchè mosse a scompiglio le
guardie della corte del Vaivoda.
Intanto egli sollevò Fatima ch'era caduta in terra, immersa nel
proprio sangue ed in quello del Tataro da lui svenato. Fattosi col-
Taiuto di servi a trasportarla negli appartamenti della principessa,
là venne spogliata perchè respirava ancora : figuratevi il dolore del
giovine, nel vederle fitto nelle carni il pugnale; ma oh prodigio I
la lama aveva scivolato tra le vesti ed un reliquiario od amuleto
che aveva appeso al collo, e cosi non era entrato che di sghembo
nelle carni. Quando messa a letto, Badamantino entrò in camera, ed
avendo udito come la ferita era leggiera, perchè il pugnale aveva
urtato contro un corpo duro che la giovine aveva dentro un sac-
chettìno, e nascosto sotto le vesti , cadde in ginocchio, e Baba-Do-
kia, sclamò , quanto ti devo I — Voltosi poscia alla principessa che
era accorsa presso alla sua amica, le disse : — Ti ricordi quando noi
due, prima di partire per la battaglia in cui peri il mio povero padre,
fummo a visitare Baba-Dokia, e stettimo tanto tempo colà, e come
ella ci diede un pezzetto del macigno 1 noi lo conservammo gelosa-
mente, lo spezzammo in tre parti, uno l'ebbe mio padre, poveretto I
al quale non giovò, l'altro Fatima, io il terzo. Ebbene ora fu salva
da Baba-Dokia. Oh appena Fatima sarà guarita, io ascenderò la
vetta del monte, e là a ginocchio ti renderò grazie di avermi salvato
colei che amo immensamente. .
BA6A-D0KIA 281
Dopo alcun tempo Fatima rinvenne ; la ferita era medicata, né
lasciava timore che s'inasprisse ; il dolore era leggiero. Quando seppe
com'era stata miracolosamente salva, essa pure ricordò Baba-Dokia
e rese grazie a Dio. Radamantino lasciò la sua amante colla prin-
cipessa, e fu a ricercare se negli abiti dell'iman, per esso ucciso,
trovava qualche traccia di chi era ; e rinvenne un berat con cui era
raccomandato a tutti i credenti in Maometto, onde potesse far preda
di Giaurri. Inoltre quello scellerato aveva legato sul petto un Bacchet-
tino, Io svolse, e trovò che era quello stesso perduto dal suo padre
alla battaglia di Vali' Alba, e che l'iman aveva reputato dover essere
un talismano.
— Baba-Dokia, disse Radamantino, tu mi salvasti l'amante e
drizzasti il mio ferro a vendicare la morte di mio padre.
Tornato presso a Fatima le narrò l'esito delle sue ricerche, e dessa
alla sua volta raccontò alla Principessa minutamente l'accaduto, e
d'animo schietto com'era, non le tacque che si era recata nel giardino
per dar risposta a Radamantino che gli aveva fatto preghiera di
sposarlo, e soggiunse ch'era risoluta di dire ch& pazientasse, non
volendo separarsi da lei in giorni ove la guerra rumoreggiava an-
cora d'intorno, e quando sapevasi che Maometto II anelava a trar
vendetta della sconfitta di Valle Alba.
La buona Elena la rampognò d'averle nascosto questa sua in-
clinazione, e, lungi dallo sconsigliamela, diede il suo assenso alla
loro unione.
Avuto questo insperato assenso , Fatima creda essere giunto
il tempo di palesare il vero essere suo, e raccontò al Vaivoda, alla
principessa Elena, ed a Maria, seconda moglie di Stefano, essere
dessa figlia del Chan di Crimea Mengeli-Gherai, come la sua madre
fosse stata la sultana favorita, e come da lei educata nrila fede di
Cristo, non che i particolari della sua fuga. Il principe spedi allora
un messo a Mengeli, che trovavasi a Bakchi-Serai, onde informarlo
che la sua figlia viveva, ch'era stata battezzata, ed ora andava sposa
al prode Radamantino, e ch'egli, Stefano, ravvisava in quest'unione
un avviamento ad una stretta alleanza fht i due Stati. Mengeli-Gherai
il quale non era, benché Tataro, nemico del nome cristiano, e tro-
vando opportuna un'alleanza col Vaivoda, accolse bene il messo, e lo
rinviò con sontuosi regali per la sposa, a cui mandò dire reputar
buone tutte le religioni che riconoscono un Dio solo e onnipotente :
ch'egli era felice di sapere la sua diletta figlia prospera e avventu-
rata, e conchiudeva mandandole la sua patema benedizione.
Quella benedizione allietò oltremodo Fatima, perché l'ebbe come
vaticinio di felice avvenire. Stabilito il dì delle nozze, in quelle si
fecero di grandi feste, a cui presero parte tutti della città. Il
282 BIVISTA OOMTBHPOHANBA
venerando archimandrita della Moldavia Teoktiste li sposò nell*an-
tica. basilica dedicata a S. Dimitri, e pronunciò un eloquente ser-
mone, inteso a dimostrare come la fede e la virtù ottengano meritato
premio.
Pochi giorni dopo Radamantino colla sua sposa si recavano in
pellegrinaggio al monte Pione, onde andare compiere il voto &tto
a Baba-Dokia; non è d'uopo il dire quanto quella gita fosse fatta
con animo lieto ; essi si amavano tanto, avevano posto il loro amore
alla prova d'infinite sventure e di aspri dolori e confidavano pertanto
che avrebbero, uniti, godute felicità future.
Vili.
Antica storia narra cosi.
Carrer.
Coloro che avranno avuto la gentilezza di leggere questo mio
povero e disadorno racconto, vorranno certo sapere chi sia Baba-Do-
kia. Cotesto giusto desiderio io intendo soddisfare, ma qui non posso
più appoggiarmi alla storia, giacché Baba-Dokia non vive che nelle
leggende e nella tradizione orale dei Rumani, ed in canzoni popolari.
Nell'anno 100 d. C. TAiano mosse contro Decebalo re dei Daci,
il quale, non pago di esser giunto ad imporre a Roma un annuo
tributo, iva raccogliendo sotto le armi i vicini Sarmati, accresceva
gli apparati bellici e intendeva di ritornare ad aggredire i Ro-
mani. Vinto , chiese ed ottenne la pace , ma poco dipoi tornando
a porsi in armi, Traiano tornò nel 103 a combatterlo. Oli apparecchi
della guesra ed il ponte sul Danubio richiesero tre anni di tempo.
Nel 107 Sarmiz-getusa, la metropoli dello Stato, venne in potere
di Traiano, e Decebalo, dopo aver imprecato l'esterminio de' Romani,
8i cacciò il ferro nella gola, e morì per non cader prigione. Traiano
fece ampia strage dei Daci, e per ripopolare quelle terre, vi mandò
numerose colonie, da cui discendono gli attuali Moldo-Valachi, ed
a cui devono la loro lingua semi-latina. Ciò è storia: ora diremo la
leggenda.
Decebalo, secondo questa, aveva una figlia di straordinaria bel-
lezza che chiamavasi Dokia. Traiano la vide, e se ne innamorò per-
dutamente; però essa non volle mai saperne di lui, poiché era presa
d'amore per Zamolxi, ora avuto per Dio della guerra, della divina-
zione, della medicina, della poesia e dei defunti (1), ma che fu le-
(1) Bergmann. Lei Gètes. Strasbourg 1859, p. 191 e seg.
BÀBA-DOKIA 283
gl'alatore, pontefice e re dei Ceti, grand'uomo che insegnò le dot-
trine di Numa, Gothama, Mokavira e Pitagora a' suoi vassalli.
Decebalo essendosi ucciso anziché arrendersi a Traiano, Dokia
per non cadere cattiva di questi, fuggi sul monte Pione che, come
abbiamo di già detto, è nella giogaia dei Carpazii ; ma Traiano che
voleva possederla ad ogni costo, l'inseguì per tutte quelle rapide
balze, e quanto maggiori erano gli ostacoli, tanto più grande era in
lui il desiderio di raggiungerla.
Nascosta , come usava 2«amolxi , in misteriosa grotta , viveva
nelle tenebre, e nutrivasi di erbe crude, ma Traiano scopri il luogo
dov'erasi rifugiata, e penetrò nello speco. Allora la misera Princi-
pessa uscitane fuori da un pertugio, incontrata una mandriana,
scambiò le sue ricche vesti di seta, il manto di porpora e la gem-
mata corona, contro gli umili abiti ed un velo bianco di quella,
ed ivi rimase a custodire il gregge.
Mezza velata e coi capelli sciolti stavasene sulla cresta del monte
che chiamasi Ciahlòu, vigilando l'armento, quando Traiano, ch'aveva
riconosciuto l'inganno delle mutate vesti, le corse incontro ; dove
fuggire? non vi ò mezzo. L'imperadore di Soma le parla del suo*
amore ; n'ò respinta con fierezza, ma quelle ripulse accrescono la
fiamma nel cuore del vincitore dei Daci, stende la mano ed afferra
l'infelice Dokia con tutta forza. È nel procinto di cader preda della
passione di chi aveva sterminato 1 Daci, non ha più mezzo di
■campo; ma le sorge pensiero d'invocare Zamolxi onde la salvi dal
disonore.
Traiano l'abbraccia, se la stringe amorosamente al petto; ma
«ente un freddo scorrergli per le mani, ma trova un corpo resistente
alla pressione; ch'era avvenuto? Dokia era stata mutata in sasso,
che iva giganteggiando, mentre Traiano esterrefatta la contemplava.
Zamolxi, dicono le leggende, era stato il primo ed unico amore di
Dokia, e col suo potere l'aveva cosi tolta dalle ugne dell'imperiale
suo tentatore. Ma Traiano, prosegue la leggenda, continuò ad amarla
benché metamorfosata in macigno; anzi, toltasi di capo la corona
dei Cesari, la pose su quello della statua, e perdurò finché egli visse
ad amarla*
Una di queste canzoni popolari riferita dall'egregio Asaki cosi
appunto Gonchjude:
Trajan vede acesta «ina
Desi està vincitor
Fromusetii ei s'inchina
Se subgioga de amor
Il Pione è visitato oggidì da quanti vanno pei Carpazii, indottivi
dai popolani i quali credono ancora al magico potere della cima più
284 BIVISTA CONTEMPORANEA
alta del Ciahldu, che parte dalla natura, parte dall'arte fu cosi ri-
dotta da raasomigliare di lungi ad una statua circondata da venti
pecore (1) che sono altre cime di monti minori circostanti. Un'altra
cima maggiore s'innalza fra quelle gregge, quella, dicesi, è l'aquila
che Traiano pose a guardia nel partire, onde vigilasse su Dokia. A
queste elevate cime fanno corona rupi scoscese, che addossate a quelli
paiono antri , e la leggenda dice , essere U ove Dokia si riparò,
quando fuggi alle ricerche di Traiano.
Divinizzati dalla popolare superstizione, essa divenne il genio
protettore del paese, ed in oggi se in Moldavia trovi un all)ero di
grossezza straordinaria, il contadino ti dirà che Baha-Dokia vi ballò
attorno.
Ad essa, come a genio o ninfa buona, si attribuiscono i tempo-
rali ; se tuona, si crede siano i suoi sospiri che si spandono per le
regioni del cielo. Dessa volge a suo talento i primi giorni di pri-
mavera, opperò sono designati ditele DoUeij cioè giorni di Dolda;
forse ciò deriva dacché nel rito greco non unito, santa Doquie si
celebra al cominciamento di marzo : la quasi omofonia dei nomi con-
fuse la Ninfa e la Santa. Però mi fu detto da chi sa di lingue
slave, che il nome di Baba-iDokia deriva da quelle nelle quali Babà
o Babcia significa vecchia donna, e Doi^ spirito, genio e simili, il
che equivarrebbe a dire: spirito antico o vecchia fata.
Il Pione diventò quindi il soggiorno degli oracoli ; vi si trovano
statue rozzamente intagliate nel granito. I Rumani che sono ancora
cosi entusiasti di Traiano da (dare alla via lattea il nome di via di
Traiano, che gli attribuiscono fatti portentosi, hanno ad un tempo
in venerazione Baba-Dokia, e se oggidì le classi eulte si ridono di
siflEatte volgarissime credenze, i contadini le hanno per verità incon-
trastata. À confermarli in ciò s'aggiunge il fatto che nelle spelonche
di que' monti si ripararono i cristiani per iscampare dalle persecu-
zioni dei barbari, e vi costruirono segreti altari , come nelle cata-
combe di Roma. Ivi si condusse la celebre principessa Elena, moglie
del Domno Pietro Mejear detto Rareche, ed ivi pure nel 1821 venne
a spirare la misteriosa Serafina; Chi era quella bella giovine accorsa
presso il creduto simulacro di Baba-Dokia? Nessuno fin ora lo seppe.
Chi sa quanti ancora della Rumania continueranno ad ire al monte
Pione in pellegrinaggio ! Durevolissime sono nel popolo le supersti-
ziose credenze, e l'Europa australe ed occidentale che pure mena
vanto di gran coltura, ribocca ancora di credenti nelle meraviglie
novelle dei medium che fan parlare i morti.
(1) De Kogalnichan. Hisioire de la Valachie et de la Moldavie. Berlin
1837. T. 1, p. 9.
BABA-DOKIÀ 285
Tal ò in quante minori parole mi fu possibile la leggenda di
Baba-Dokia : ora darò fine al racconto.
Fatima e Radamantino mentre stavano contemplando l'informe
statua del genio benefico della Moldavia, un pezzo del sasso di cui
è composto, loro cadde ai piedi ; essi l'ebbero come un segnale che
la loro unione era gradita , ne trassero lieti auguri! , e lo conser-
varono quale miracoloso talismano.
Stefano IV il grande ebbe per uso di far costrurre un monumento
religioso per ogni battaglia ch'aveva vinto. Avendo in quarant'anni
di regno vinto quaranta volte, altrettanti monumenti eresse. Per-
altro quello rammemorante la gran battaglia di Val Alba lo eresse
venti anni dopo con istraordinaria pompa in mezzo a quelle pianure.
Consiste in ima chiesa dedicata all'Arcangelo Michele , la quale
attesta oggidì una delle più grandi epoche della storia Moldava, e
sotto l'altare maggiore fece collocare le ossa di Radamante che
erano state raccolte e deposte in luogo privato. Nell'orbita dell'oc-
chio stava ancora infitta la freccia che lo aveva ucciso. Nella piazza,
nauti la chiesa, ^i fece scavare una grandissima fòssa per deporvi
le spoglie dei caduti in quel giorno per la fede di Cristo e per
la patria.
Radamantino e Fatima vissero prosperi a lungo; ogni anno, il
di anniversario di quella battaglia, deposero una corona di sempre-
vivo sulla tomba dell'uomo a cui l'uno doveva la vita, l'altra di
averla salva, entrambi la loro vera e durevole felicità.
Ida Vegbzzi-Ruscalla.
286
FRANCESCO BURLAMACCHI
(•)
PREFAZIONE
Fu saggio pensiero del Governo, presieduto dall'illustre e bene-
merito Ricasoli, quello d'innalzare una statua a Francesco Burla-
macchi, martire dell'Italia in que' tempi che l'unità e indipendenza
di essa era desiderata da pochi alti intelletti, è quasi tutti gl'Italiani
si curvavano ai regoli che malmenavano questa patria divisa e do-
minata dalla tirannide di Carlo quinto. Gli Strozzi e gli altri esuli
fiorentini vanamente tentarono di contrastare al colosso che oppri-
meva la penisola. Burlamacchr tentò di liberar la Toscana dalla
signoria di Cosimo, ed è certo che nel magnanimo disegno egli
comprendeva tutta Italia, — La vita e la morte di questo generoso
mi parvero argomento nobilissimo per la letteratura civile, alla
quale i tempi sono per buona ventura singolarmente propizii. Ne
la storia tacque il suo nome né le sue gesta. Il Benerini, negli
Annali Lucchesi, dettati con tanta eleganza di latinità, con quella
schiettezza che gli è propria ne favellò, e le sue pagine si legge-
ranno recate in italiano nelle note a questo componimento. Lo
Zeller, quai^tunque francese , nella sua bella storia d'Italia ram-
mentò il Burlaraacchi. Carlo Minutoli di Lucca ne diede fuori un'ac-
concia biografia ove non manca bontà di lingua e di concetto, e
abbondanza di notizie. Trista cosa è che comici ciurmadori abbiano
(*) Vedi la Nota in calce al presente.
FBANOESCO BURLAMACOHI 287
contaminata la veneranda sembianza del martire con alcuno di quei
drammi che sono il disonore del teatro italiano, il quale con tali
produzioni insensate, invece di risorgere, va ognor più declinando.
Io feci argomento di una novella storica i casi dell'infelice Bur-
lamacchi. Nulla alterai di quanto costituisce il fatto, che ciò mi
sarebhe sembrato profanazione, ma aggiunsi Telemenlo fantastico.
Coloro che volessero vituperarmi per aver posto nel mio lavoro un
personaggio allegorico, rimando all'Ariosto, die diede aspetto
umano alla Frode, alla Discordia, allo Sdegno. Il metro variai con-
forme parevami necessario , mentre lo sciolto è più adattato alla
descrizione e alla storia, e l'ottava più alla Leggenda. Quanto allo
stile cercai di tenermi in un termine tale che le diverse opinioni
letterarie se non venivano appagate , almeno non fossero urtate.
Come considerai debito d'onesto cittadino il propugnare que' santi
principii che sono indispensabili al bene dell'Italia , cosi reputai
obbligo d'italiano scrittore il curare più ch'io potessi la bellissima
nostra lingua. Dalle esagerazioni fui sempre lontano, credendole
di sommo pregiudizio cosi nelle lettere come in politica. Una libertà
temperata fu e sarà sempre lo scopo de' miei pensieri. So che non
vi verrà fatto carico per avere staccata una pagina dalla lugubre
storia delle cospirazioni. L'indipendenza si ottiene con grandissimi
sagrifizii. Nei tempi del servaggio, una lotta perpetua si ordisce
contro la tirannide. Quando l'indipendenza è quasi compiuta^
quando la guerra suprema della nazionalità si combatte aperta-
mente ne' campi, quando la tirannide più non esiste, allora i gene-
rosi si mostrano a fronte scoperta^ e la cospirazione è un delitto.
Credo di far cosa grata alla gioventù, narrandole la vita del Burla-
macchi , credo di non dispiacere agli uomini di lettere con argo-
mento di storia civile. Se la congrega di coloro che preferiscono le
ciance arcadiche mi sdegna, io ne godrò. Essi sono nemici d'ogni
progresso, e odiano la letteratura che sta per sorgere sotto gli au-
spizii della nazione e del Re.
288 BinSTA CONTEHPOBANEA
Ridea la primavera, e i campì e Tonde
Una feconda voluUade empia.
Esultavan d*amor grilali colli,
E dalle violate alpi e dai gioghi
Degli Apennini armonioso spirto
Si diffondea di vita e il fiammeggiante
Dell'eterea beltà sole immortale I ^
Delle vergini selve il verde opaco
Contrasta con la porpora e col puro
Candor de' fiori, una serena calma
Dolce conforta l'inesausto grembo
Della natura, e degli umani in core
Scorre un'aura d'amor, aura di festa
E l'inno cui risponde ogni remota
Plaga de' firmamenti e in Dio si posa.
In un bosco di grandi arbori denso,
Che stendono le fresche ombre perenni
Alle falde di eccelso agevol monte
Vagheggiato dai rai primi dell'alba
Stassi un italo saggio^ a cui le mura
Della libera Lucca e i suoi palagi
É spesso dolce di cambiar col vivo
Aere delle montagne. Una tranquilla.
Angusta casa fra le piante in riva
D'un torrente bianchieggia. È quella il sacro
Asilo di Francesco. Ivi solingo
Con se medesmo si raffronta, e chiuso
In quei recessi, con devoto amore
Pensa all'Italia. D'una bruna veste
Cinte ha le membra» la sua man sostiene
Il volume di Dante^ in cui s'affisa
L'infiammato pensiero. Il mite sguardo
Del sol di maggio ne rischiara il viso,
E di gioia serena e fuggitiva
La pace melanconica ne tempra.
PBANCESCO BUBLAMACCHI 289
Ratte nel meditar Tore trapassa.
Ma in mezzo alla quiete impertarbata
Della foresta e fra i profondi studi
Gli ribolle nel cor as$idua cura
Che toglie ogni dolcezza; è della patria
La forte carità che lo consola
E lo af&igge ad un tempo; è il ver che sempre
Gli compare dinanzi e lo persegue,
E la natura gli riveste a lutto ;
È il santo ver che a lui rivela Iddio,
E i disastri d'Italia Ei scorge, e grida :
€ I concetti di Dante e Machiavello
Speme non danno, ma dolore all'alma.
Oh potessi obliar, potessi il nome
Di libertade non udir più mai!
Ma fora invan che in ogni libro è scritto
Ove si renda a sapienza un culto,
E se noi fosse, lo imprimeva eterno
La potenza di Dio ne' cuori umani.
Né impero di tiranni, o l'ignoranza
Delle barbare genti, o la feroce
Ira sacerdotal può cancellarìo.
Italia è serva, a sue divine membra
Si raddoppian catene, il giogo ispano
Sovr'essa incombe, e il giogo empio di Roma.
Cosmo è sgherro di Spagna : oh come è fatta
La bella Flora che cotanto amai
Miserabile in volto e taciturna !
Nelle case superbe e per le strade
Regna il vigil sospetto e la paura.
Al calar della notte è trasportato
Chiunque alletti generosi sensi
Nelle carceri tetre. Etruria intera
É fatta schiava di genia codarda.
Ciò non puote durar: come un sol uomo
I popoli percossi insorgeranno :
Pugneranno guerrieri a mille a mille
Folti come le piante onde s'imbruna
Questa annosa foresta!... Eppur s'illude
Forse il mio spirto, e a più remote etadi
Forse è serbato il ridestar dall'urne
I sepolti, ed in man della gran donna
Ripor lo scettro— Ebben se all'opra solo
JHvista C. — 19
290 BIVI8TA OONTBMPORJLNBA.
Esser deggio il sarò... morir mi giova
Vittima di uno splendido pensiero.
Mi muove invidia il glorioso fato
Di Ferruccio trafitto in Gavinana :
Anch'io morrò di gloriosa morte.
E quando Italia le catene infranga
Fia la memoria riverita e sacra
Del mio martirio... Ah da me lungi oscuri
Presagi, e fere vision funeste...
L'incominciata tela omai si compia...
Con mente immacolata e cor securo,
Affrettiamoci all'opra... E concitato
Muove i passi veloci in riva all'acque
Dai balzi d'inaccessa erta irrompenti.
E con cupo fragor levando intomo
1 larghi sprazzi di canuta spuma,
Ei rimira nell'acque il vario scherzo
Dei colori dell'In e il tempestoso
Impeto orrendo che le spinge in ginso
Finché tacciono accolte in verde piano.
Quel fremito incessante e quel riposo
Ei rassomiglia al traboccar dell'alma
Quando la invade irrequieta forza
Di passion tremenda, e alfin prostrata
0 tocca da un gentil riso di fede
Ritoma in calma. E mentre ei va pensoso.
L'acume dello sguardo innanzi appunta
Nell'atto di chi attende una persona
La cui sembianza è il ciel per gli occhi suoi.
Per poco dileguar da quella fronte
Le nubi, e in foco si colora il viso
Mansueto del giovane. E* repente
Ode un scalpito^ e mira in bianco velo
Agitato dall'aure, e fra la densa
Ombra de' rami su destriero ardente
Bellissima una donna avvicinarsi...
S'innoltra, giunge, è dell'amato in seno.
Taccion le labbra, ma un sublime affetto
Favellano gli amplessi ed i sospiri.
Esultano gli amanti entro il sereno
Gaudio degl'immortali. — Alfin giungesti
0 mia desiderata Elena, o bella
Viatrice de' monti, o rilucente
FRANCESCO BURLAM.VCOHI 291
Deir italico suol inclita rosa !
Ogni di t'attendea, morta sembrava
A me natura senza il tuo sorrìso.
Mi fuggia la speranza : oh alfin tu giungi
Cara speme ed amor del mio pensiero !
Oh come sei leggiadra! oh come è puro
Il seren del tuo volto, oh come è fresca
L'aura del tuo respiro ! ah ch'io di nuovo
Baci le anella della bionda chioma
E de' labbri la porpora ! Tal era
L'estasi di Francesco : in lei rimira
Il suo mondo, il suo ciel, mira il presente
E il futuro ; è per esso Elena il dolce
Inno che canta con assidua voce
L'angelo della vita appresso a Dio. —
Da che te non vedea, tristezza cupa
M'ingombrava la mente... errava sola
Di loco in loco, e più non m'era grato
L'aspetto della mia città natale.
Ben io giva a pregar nella sublime
Maestosa dimora al Dio vivente
Edificata allor che il longobardo
Dente mordea l'Italia... ah la preghiera
Dai dubbi, dall'angoscia era interrotta
Perchè in te solo io vivo, e te lontano,
Sento ogni gioia dileguar com'ombra.
Posan gli amanti nel quieto asilo
In Qdati colloqui. A tarda notte
Producono le gioie, i rapimenti
D'una verace voluttà celeste.
Pura siccome la beltà sovrana
Che serena si spande in sul creato.
Tranquillo è il loro amor come la Luna
Da cui piove si doke estasi all'alma.
Non li turba giammai l'inverecondo
Piacer che è meta a se medesmo, e i sensi
Stanca ed il ben dell'intelletto offusca,
Il volgare piacer che da virtude
E da verace amor si discompagna.
E quando la virginea alba ogni plaga
Dell'orizzonte fra brillar, alacri
Pigliano la foresta e procedendo
Pel frondoso sentier, miran gli augelli
292 BIYISTA CONTBHPORANBA
Che stormendo si destano, le lepri
Che dileguano rapide dinante
Alla pesta improvvisa, e i paurosi
Conigli, e le coperte in bruno vello,
Lucidissime martore striscianti
Lungo le fratte. Oh come quel concorde
Di mille e mille creature liete
Risvegliarsi alla vita, onde s'informa
L'universo, riempie all'uom lo spirto
Di soave conforto ! Egli in cotanta
Varietà d'innumeri viventi
Vagheggia Tamistade e l'armonia
Che dal superno fonie immortalmente
Alla terra deriva ! A poco a poco
Dileguano le piante e il monte appare.
I fidi amanti sull'eccelsa cima
Giunsero. L'acre è più vivace e sgombro.
Par che l'azzurro cielo in suo splendore
S'approssimi alla terra e si congiunga
In un amplesso la natura a Dio.
In prato di minuta erba coverto,
StillaDCe ancor di mattutine gemme
^ Giunser gli amanti, e la mirabil scena
Vagheggian lungamente onde s'adorna
Quell'ampia solitudine. Del monte
Si digradano i gioghi e una distesa
Incomincia di colli e di convalK ,
E si miran paesi e casolari,
E fiumi serpeggianti in mezzo ai campi.
E più lungo le mute acque di un lago
Azzurreggiano in grembo alla pianura.
Ivi è fama sorgesse una cittade,
E che la sotterranea onda improvvisa
Palagi, templi sommergesse e torri
E le misere genti : or vincitrice
Regna, e il cupo silenzio e l'aura morta
Che intorno spira infondono ribrezzo
Nella squallida notte al passeggiero.
Scorre la vista desiosa intomo,
E del Tirreno mar nella profonda
Immensità si perde. 0 dell'Eterno
Opre divine ! ahi che da questa eccelsa
Meraviglia di luce e di grandezza
FRANCESCO BUBLàHàCCHI 293
Miseramente si disgiunge Tuonio
Delle tenebre amico e della colpa!
Ove son le virtudi^ ove il coraggio.
Ove la patria? — A questo Elena trasse
Un profondo sospiro: il bel colore
Delle guance leggiadre impallidìa
Alle parole di Francesco, e il raggio
Della felicità rapidamente
Dalla fronte pudica dileguava.
Francesco al sen la strinse : o mia diletta
Non accorarti. Ed ella: ahi troppo miro
D'un tremendo proposto e disperato
La fiera impronta nelle tue parole 1
E dunque^ egli risponde, esser la sposa
D'un codardo vorresti ? Il del ti diede
Con superna bellezza anima grande,
Plaudir tu devi ai generosi afletti
Di me che t'amo : ah si : l'Italia io posi
In cima a tutti i miei pensieri, ad essa
Sacro è il mio braccio e l'intelletto. Oh come
A questi accenti, la beltà rifalse
Dell'angelica donna : un bacio impresse
Delì'amator sul volto, e lungamente
Lo tenne stretto all'amoroso seno.
— Oh almen ch'io corra la tua sorte, e sia
Compagna ne' perigli I E quando il fido
Stuol degli amici donerai? ~ Fra l'ombre
Del solingo Castel che là rimiri.
Questa Qotte ti^arranno. A che reclini
Gli occhi e li copri eoo le J>iandìe mani?
E infrenate» le Idgrime rimiro
Fra le dita stillar? — Al reo pensiero
Di cotanti perigli e guerre e morti
Regger non. po6Sp! Tu valente e giusto.
Di giusti e di valenti avrai corona.
Ma i mille e mille a tirannia venduti
Come vincer potrete? Il ferreo scettro
Di Carlo Quinto sull'Italia incombe...
— In difficili imprese, in grandi esempli
L'alto cor si .dimostra, e della patria
Il santissimo amore* Or via : si taccia
D'ogni infausto presàgio e non ti attristi
Di prossimi perigli il fero aspetto.
294 RIVISTA CONTBMPOEANBA
Scorriamo in questo solitario monte
Un di sacro airamore. Amore è il solo
Sorriso dell'Eterno airuom che soffre.
Amore è il sacro anelilo che muove
Dal sen della natura e mai non cessa. —
E lentamente per Verboso piano
Che dal monte s'avvalla essi tacendo
"Volgono il piede. Elena intomo guarda,
E de' leggiadri augelli il vario stuolo
Che sgombri di timor cantano arcane
E divine armonie, li fior alpestri
Che olezzano sui pruni e sovra i rovi,
E il monte aprico, tutto ivi conforta
Alla semplice vita, ai puri gaudi
Dei felici mortali. Elena esclama:
Questo asilo mi sembra una ridente
Tranquilla oasi fra le angosce orrende
Di che son piene le città. Natura
Qui i suoi figli carezza e li conforta
E li prepara all'immortal letizia.
Spazia la fantasia nelle serene
Gioie degl'innocenti anni primieri.
Una fola il delitto e vani sogni
Qui rassembran la morte e la sventura. *—
Il culmine vedean d'una capanna
Fumar, quasi invitando a queto albergo
E a grata mensa. Ivi adagiarsi. Cara
Come una mammoletta verginella
Una fanciulla umil con dolce riso
Li accoglie. Appresso è il genitor canuto
Che volge i consolati occhi alla vaga
Signora al cui sì grazioso aspetto
Sembra il tugurio illuminarsi. 0 amici,
Con accento cortese ella comincia,
Vostro tetto ospitai a voi ne trasse.
0 buon vegliardo, al tuo desco ne avrai
Oggi siccome figli. — Era Francesco
Dall'ombre sorto dell'assidua cura
Pari a spirto che avvolto in fosca nube
Alfine nell'aperto aere si slanci-
Col remeggio dell'ali. — E invero il loco
Una piaggia pareva ignota al mondo,
Ignota al duolo che persegue in terra
FBANCBSOO BURLAMACX3HI 296
Ogni mortale. La donzella e il vecchio
Onorarono gli ospiti, e gnstose
Villerecce vivande apparecchiàro
E soave lièo. Dopo gli amanti
Ritornerò a goder Tauretta e il sole,
E il verde opaco delle piante, e i fiori
Che l'odorosa valle in sé racchiude.
Ma già del sol la fiammeggiante lampa
Tingeva il mar di un roseo sanguigno
Tal che la donna abbrividi, rivolse
I bei lumi languenti al suo diletto
Che s'orridea d'un mesto riso. Oh mira,
Elena disse, come cupo è il sole !
Par che voglia del mar sull'azzurrino
Specchio lasciar di sangue orrida impronta !
— In tanto strazio dell'Italia e duolo
Come non gemerà tutta la sacra
Genitrice natura? Ah qui non giunge
L'esecrato flagel di tirannia.
Ma sento il rombo, e l'onde e i, campi e il cielo
Piangon l'iniqua servitù ferale. —
Già s'annottava e la gentil fanciulla
Poggiata al braccio di colui che adora
Sen giva oltre la valle ed oltre il colle.
E scendeano a un castel che di mine
Cinto la negra fronte ergea superbo
Fra i burroni e le selve. Il ponte alzossi.
Ei del castello superar le scale
Irradiate da pallide tede.
Parca che fosse quel palagio il cupo
Albergo del silenzio e del mistero.
Penetrarono in vasta aula, ove accolto
Stava nobil consesso. Erano gravi
I volti, né parola ancor s'udia.
Come Francesco con la donna entrava
Si levaron guastanti: eran guerrieri •
Chiusi le membra nella ferrea magh'a,
E sofi in nera vesta : a tutti al fianco
Balenavano Tarme. — I Fiorentini
Esuli si vedean torbido il ciglio
Ploranti invan la libertà perduta,
E i proscritti di Siena, ove il feroce
Spirto di Carlo con orrende fraudi
296 KIVISTA CONTEMPORÀNEA
Preparava la strada all'abborrita
Medicea signoria. — V'eran romani
Fervidi petti che riporre il seggio
Anelavan d'Italia in Campidoglio,
Spezzando alla tirannide papale
Gli atroci artigli. Ai duci loro intomo
Faceano riverenti ala i soldati
In due schiere partiti. A tutti in mezzo
Cosi Francesco a favellare imprese :
AI germanico impero è omai soggetta
L'Italia. Vive la Venezia, vive
Genova ancora, ma Fiorenza é morta. '
Roma e l'altre città son monumenti,
Splendide tombe agl'itali infelici.
Pier Strozzi veglia a meditar vendette,
E in esso e in suo fratel e in tanti e tanti
Egregi spirti cui Tesiglio accora,
E in noi vive l'Italia. Ad opra grande
Noi c'apprestiamo a liberarla. A un grido
Pisa si leverà, fia nostro il grido :
Dal suo letargo sorgerà Fiorenza.
L'intera Etruria accoglierà bramosa
Di libertà il vessillo. In forte armata
L'Emilia scorreremo e le Romagne
Che farem sgombre dai tiranni. Il crudo
Paolo Farnese fia tolto dal soglio
Vacante agli occhi del figliuol di Dio.
Libera Italia comporrassi in bella
Stabile monarchia. — Questi pensieri
Son pure i vostri — a noi valor non manca.
Né invan le gesto di cotanti eroi
Ci occuparon le notti. — È gran virtude
Il sagrificio pei fratelli schiavi.
Cristo l'oppressa umanità redense
Col purissimo sangue. A noi serena
Sarà la vita, che si presto ha fine,
Adornata del lauro degli eroi.
E bellissima pur sarà la morte,
Che arrideranno a noi nell'ora estrema
Gli Angeli della patria e della fama.—
Alle parole di Francesco un plauso
Eccelso risuonò : brillar gli acciari,
E ripetean quelle vetuste mura
FRA.NCBSCO BUBLAMÀCCHI 297
D'Italia il nome. Si scoteano a tanto
Fragor i palchi oscuri e le colonne
Marmoree^ e sulle basi i simulacri
Tremar pareano de' baroni estinti.
Fu proferito dai guerrieri il giuro
Di liberar l'Italia. Indi si sciolse
Li congrega : echeggiò per la convalle
Dei destrieri Io si^alpito e il nitrito.
E al corruscar di cento faci intomo
Fiammeggiava Torror della foresta,
E i villan che scorgean dalle capanne
L'insolito splendore, immaginerò
Del castello gli antichi abitatori
Usciti dall'averno^ e de' demòni
La tregenda agitar l'aere notturno,
Come fama correa fra quelle genti
Cui Terrore offuscava e l'ignoranza. —
Sul palafreno Elena ascese unita
Al suo diletto, e fra le care braccia
Obliava le angosce e le sventure
Di che foriero l'avvem'r sentìa.
II.
Alfin ti veggio, o Piero! Io sospirai
Per lungo tempo dì mirarti » e il senno
Accór di tue parole. Infìn dai primi
Anni mi piacque più di gemme e d'oro
La dolce liberti del mio paese,
E tè sempre pensai valido capo
All'alta impresa di cacciar tiranni.
Me la morte del padre e di Fiorenza
Il tristo fato clic la gcHa appiedi
Della medicea stirpe abbominata
Rendon viepiù devoto a questa santa
Causa d'Italia. — Oh un sol desio scaldasse
Quanti son cittadini ! ed una tuba
Dall'Alpi a Scilla diffondesse il suono !
Ma quei tempi sparirò in che la voce
Magnanima di Roma e mille e mille
Guerrier chiamava sotto il suo stendardo.
Noi non abbiam che per svenarci il ferro.
998 BIVISTA CONTEMPORANBA
E grida sol per maledirne t orgoglio
Cieco e d'infame servitù le frodi
Ne fér nemici l'un deiraltro, il sangue
Degritali è venduto allo straniero.
L'ultimo asilo delle nostre sorti
È la misera Siena ! ivi tremenda
Sarà la pugna^ vincitrice altera
Bisorgerà la patria o fia sepolta I
Ne protegge la Francia, ahi ma soverchia
L'ispana possa I — E che? dunque il pensiero
Che mi ràione dentro il cor fia vano ?
Negatali non speri? e Pier s'oblia
Dell'ardimento delle sue parole?
Lo Strozzi allor prendea la mano al prode
Ingenuo Burlamacchi. Era una bella
Estiva sera, e di Venezia intenti
Guardavano i palagi e le lagune
Ove una brezza discorrea soave
Nunziando la pace e la speranza !
Oh, lo Strozzi esclamò, come lucente
E maestosa sulle sue riviere
Siede dell'Adria la signora ! io miro
Qui più sereno il c\e\, più puri gli astri.
Il feroce velen di tirannia
Non contrista quest'aure ! ancor tremendo
Rugge il leone t l'aquila gdfagua
Sbigottita si fugge ad esso innante...
Né gli amplessi dei re contaminàro
Di questa donna le virginee membra
Che trono ha in seno ai tempestosi flutti!
Oh salve, salve ancor per lunghe etadi
Bella sposa del mar ! 1 ira di Roma
Qui non insegue il peregrin che pensa!
Dormono il ferreo sonno i tuoi nemici
Entro de' paurosi antri battuti
Dal flagel delle tue libere spume!!
Perchè non corron tue gagliarde navi
ÀU'Etruria infelice, alla prostrata
Napoli, a Roma? oh se non puoi torrenti
D'armati riversar sui nostri liti,
E trarre a vita^ a liberta gli schiavi,
Sorgan le tue frementi onde, congiunte
Alle tirrene le città sommergi
mKSCBSOO BtJRLAMACCHI 299
E i popoli, e tu sola a noi rimani!
Cosi Piero favella, e generoso
Alle idee di Francesco egli consente^
Ma U loco e il tempo statuir non puote
Che cominci Fimpresa : è ancor difetto
Di pecunia e di gente, è duopo ai capi
Del veneto senato aprire il tutto ;
Fallir non può che da Venezia giunga
Qualche soccorso a Libertà. Francesco
Melanconicamente i detti accoglie
Del fiorentino eroe cui più matura
Esperienza fa veder la grande
Difficoltà dell'opra. Afirena il santo
Impeto ardente, esso gli dice : un moto
Inopportun può perderti, e saria
Il sagrificio vano. Il gran momento
Lunge non è... t'aifida, e me vedrai
Por per la dolce libertà la vita.
Era conforto ad essi il sacro aspetto
Deiraltera cittade e del senato.
E sovente scorgevano la bruna
Misteriosa gondola notturna
Che alla pena adduceva i prigionieri.
Tetro siccome TErebo, de* Dieci
Era il solenne tribunal, per tutto
Vigile come il tempo esso spiava,
E improvviso colpia come la morte.
Era della Repnbblicd la torre
Ferrea, l'invitto scudo, era la nube
Che Venezia toglieva alla sventura,
Ma che recava in sen lutto e ruina.
Stipate in porto stavailo le salde
Armate navi memori d'antichi
E novelli trionfi in sul feroce
Arabo predator che il cinquecento
Settanta ed un dalla possente Lega
Benedetta da Pio fora conquiso.
E maestoso galleggiar sull'acque
Vedeano regalmente il Bucintoro
Aspettando la bella alba foriera
Delle nozze annuali. 0 gloriosa
Venezia ! oh come ti cangiasti ! è muta
Di Libertà la squilla in sul tuo lido.
300 RIVISTA OONTEHFOEANBA
Ove pasciuto del tao sangue stassi
Meriggiando il Croato, il tuo Leone
Sparso di limo ti contempla e piange^
E seco piange il mar, la terra, e il cielo!
E tu 1^ dinta di gramaglie, immersa
In tristisfimia notte e Tallègria
Delle piazze ft^equenti e de' teatri
In gemiti è conversa. Ahi quella grande
Di magnanime geste e di possanza
Repubblica per tanti anni vissuta,
Fra le braccia spirò dì quel monarca
Che rardimento delle forti imprese
Contaminava col tuo reo mercato!
E te costrinse a servitù... abborrito
Da coloro che oppresse in su remoto
Scoglio periva! Distruggete, o genti,
^ Cui l'almo sol di civiltà risplende
Cotanto avanzo di barbarie, il crudo
Austriaco dispotismo! Alfm ti sveglia
Da' tuoi sonni, o Germania, i tuoi diritti
Riprendi, e spezza a chi t'opprime il trono!
Popol che danna a fieri oltraggi, a morte
Una misera terra e generosa.
Degno è che Dio lo asconda nell'etema
Notte d'abisso. E tu nepote al grande
Napoleon, la sua colpa cancella.
Compi la eccelsa impresa; Emanuele
All'esercito franco i suol congiunga,
E sia disgombra dall'adriache rive
La teutonica rabbia, e varcai l'Alpe !
m.
Entro la queta sua romita stanza.
In balia del dolore. Elena posa.
È smorta quell'angelica sembianza.
La voce è mesta, l'anima affannosa.
Come riso d'amore e di speranza
Il sol penetra ov'ella sta nascosa :
E a lei di luce variopinta lista
Fere gli occhi turbati e la contrista.
FBANCBSCO BUBLAHACCHI 301
Dal roseo vespro alla gioconda aurora
Sempre ella pensa all'amor suo lontano.
Or s'abbandona disperata, ed ora
Va carezzando una lusinga invano*
Spesso all'Eterno si rivolge e plora,
E par che abborra ogni consorzio umano* •
Né di Francesco altrui richiede mai, , *
Trepida sempre di perigli e guaì.
Dubita che il vivissimo desio ,
Ch'egli ha di liberar la patria terra
Sia noto a' tristi che nel petto rio
Giurerò a' generosi eterna guerra.
Gli esplorator cu; maledice Iddio,
Peste che dall'averno si disserra,
E cui propaga la medicea corte
Teme, e la presa di Francesco, e morte.
Sta raccolta in suoi funebri pensieri,
E racchiuso il dolor si fa più atroce.
Il bianco petto a' zefiri leggeri
Espone, e canta con pietosa voce
Venture di donzelle e cavalieri
Che in Terra Santa seguitar la croce.
E le religiose fantasie
La beano di dolcissime armonie.
È poggiata al verone, e della bruna
Aria il mistico velo la circonda.
E dall'azzurro ciel Tumida Lui^
Limpida bacia quella chioma bionda.
Non vede umana creatura alcuna :
Non ascolta che il suon cupo dell'onda
Che il Serchio vqlee con assiduo corso,
Sceso de' monti dal selvoso dorso :
Quando repente in grembo del giardino
Che bello si spandeva ed odoroso
Vide un guerrier che il capo lento e chino
Tenea nel cavo della palma ascoso.
Dalle pene parca d'aspro cammino
Infra l'erbe ed i fior prender riposo,
Ma non mirava il ciel né la verdura
Come spenta per lui fosse natura.
Stette alcun tempo a riguardar la bella
L'ignoto cavalier, che alGn la muta
Faccia chiusa nell'elmo alza e l'appella
302 SIYISTA CX)NTBHIK)BANBA
Col cenno della mano, e la salata.
E sospirando s'avvicina, ed ella
Un ignoto terror nella abbattuta
Anima sente, un fascino la invade,
E l'estrano a seguir si persuade.
Pensa del suo fedel sia messaggero
Che giunto nella notte, e della vita
Con gran periglio le dirà sincero
I casi di colui che Tha ferita.
Pur quell'aspetto immobile e severo
Ella riguarda pallida e smarrita.
E indugiarsi vorria, ma un senso arcano
Via la rapisce ed il contrasto è vano.
Segue la forza violenta ignota
Che la trascina, e avvolta in bianca veste
Già del giardino è nella piaggia nota,
E la volta contempla ampia celeste.
La rugiada le stilla in sulla gota,
Le luci affisa desiose e meste
Ove la cupa manda ombra il guerriero
Che ha bruna l'armatura ed il cimiero.
Raccapriccio sentiva a lui dappresso
La giovinetta ed egli in gentil modo
E con parlare placido e sommesso
L'assecurava, e le dioea : quel nodo
Che te congiuoge con eterno amplesso
A Francesco conobbi, e il cor mi rodo
Ch'e' ne voglia gettar l'anima forte
In un'impresa la cui fine è morte.
Elena trema a tai tristi parole :
E come? gli risponde, e non t'affida
Negl'Italiani la virtù che vuole?
Mente il popol non ha né cbi lo guida?
Ma dimmi ov'e il mio amore e se del sole
La desiata luce a lui sorrida.
Vive, e' risponde, e tornerà fra poco :
Ma gli sarà fatale il natio loco.
In ogni accento del guerriero è pena
Che contrista la donna innamorata.
Ahimè, ella dice : la crudel catena
Che grava Italia ognor iia raddoppiata.
Vieni» e' soggiunge : di funerea scena
Spettatrice sarai : di un'esecrata
FBANCBSCO BUBLAHACORn 203
Turba che immerge Italia in aspri gtiai
Le parole terribili udirai.
Sale aiutata dairestranea mano
Lievemente la donna in sul desUìero.
Hanno dintorno un vasto aperto piano
La bellissima donna e il cavaliero.
L'ardente corridor giunge lontano
E divora con gran foga il sentiero.
Ad essi si dileguano davante
E fiumi e campi e casolari e piante.
Ove si ratto il tuo destrier ne adduce?
Ella tremando al cavalier dicea :
Fra poco ginngerem pria che la luce
Le montagne rischiari e la vallea.
E pervennei^o alfin ove di truce
Solenne aspetto una torre sorgea
Appresso a un monaster che sovra balza
Orrida gli archi acuti al cielo innalza.
Odono per l'aperto aere il funebre
Prolungato suonar d'una campana
Che rompe mestamente le tenèbre
E l'ardua ne rintrona erta montana.
Scosso il caltor dischiude le palpebre :
Quel suon gli desta una paura arcana.
Involontario sente Elena in core
Un moto di sgomento e di terrore.
Parca che il bronzo col suo tristo accenlo
Nunzìasse a' mortali una sventura.
E piangesse d'un ultimo lamento
La ferale agonia della natura.
Era in quel suono un torbido concento
Di duolo e d'ira, e le severe mura
E la torre dell'aUo monastero
Spiravano squallor di cimitero.
Entran del tempio augusto i penetrali
Da lampade e da faci illuminati.
Dalle pareti pendon sepolcrali
Drappi, gli altari in nero son velati.
Nel coro con aperti brevìali
Sta vociando un lungo ordin di frati.
Di Domenico sono i crudi atleti
Che Intolleranza han scritto in lor decreti.
304 RIVISTA OONTEMPORANBÀ
Finir le preci, e un monaco salia
Sul pergamo, e con voce alla e sonora
I fulmini scagliava all'eresia
E a chi la patria e libertade adora.
E laudava la perfida genia
Della Spagna che i liberi martora,
E deirinfame inquisizion le dure
Carceri, i palchi^ i roghi, e le torture.
e Sia benedetto in ogni tempo il vero
Che noi vogliamo e che sostiene i troni ;
Del ciel le chiavi abbiaro noi soli e Piero :
Chi dissente da noi non si perdoni.
Dei popoli si esplori opra e pensiero:
Riconoscan da noi del cielo i doni.
Per le vie, nelle case, e dentro i tempi
Siano i nemici perseguiti e gli empi.
Scorra nella famiglia e nella scuola
Come favilla che propaga incendi,
La novella dottrina di Loiola,
E taccian le bestemmie e i libri orrendi.
Quella scienza si diffonda sola
Che fa principi e papi reverendi,
E la ragion sommette e la sbugiarda,
E delle cose il primo aspetto guarda.
Beati gl'ignoranti, ed anatèma
Agli spiriti arditi e senza freno
Che di Roma sconoscon la suprema
Àutoritade e il dominar terreno,
E morte e dannazion sovr*essi prema.
Non godano del cielo il bel sereno.
II mondo è nostro, e chi la vita ha grata
A noi curvi la fronte umiliata.
n traditor che contro i re cospira.
Benché tiranni sian, pur con accenti,
Deirinquisizione incontri l'ira.
Dal novero sia tolto de' viventi.
Chi pensa antica libertà, delira.
Delira chi vuol tor l'itale genti
Dal giogo estranio, e chi l'alma ha rubella
Al prence, al papa, e d'unità favella.
All'uom che contro noi sorge e fatica
A far quaggiù della sua patria acquisto.
Dio dalle sfere eccelse maledica.
FBÀNCB800 BXTBLAUAGCHI 305
Maledicano ì santi e Gesù Cristo ».
A tai bestemmie nella chiesa antica
Si spensero le faci, e corse un tristo
Rumore, e i frati con le voci austere
Cantaro lentamente nUserere.
La fanciulla credè come obi teme
Sempre disastri, ed altro mai non pensa
Che fosser yolte le parole estreme
Al suo diletto, e senti ambascia immensa.
Ma non muove parola, ma non geme,
E sol ricerca fra quell'ombra densa
L'uscita, allor che in mezzo all'aer vano
Sente afferrarsi da gelata mano.
Era il guerrier che la traea pe' campi
Fuor deirinfauste profanate mura.
La Luna chiusi avea gli argentei lampi,
E più la notte s'era fatta oscura.
Misero l'uomo nel cui seno avvampi
Di patria e libertà la fiamma pura !
Il guerriero sclamava : e sospiroso
Poi ripeteva : ah non avrai più sposo.
Ah tu adopra i consigli, e la preghiera
Perchè si arresti nell'impresa via !
Quell'italo valor quella sua fera *
Costanza ah tronca in sul fiorir non sìa I
Cosi dicea lo sconosciuto, ed era
La sua favella addolorata e pia.
La fanciulla che tutta st commosse
Più e più volte domandò chi fosse.
Mai di risposta e' non le fece dono
Finché son giunti del giardino appresso.
Allor si volse mansueto e prono
Alla fanciulla con soave amplesso.
Poscia le disse: il Disinganno io sono.
Disgiungerti da me non fé concesso.
Ove il pie volgerai languido e stanco,
Io ti sarò perpetuamente al fianco.
La tua A bella giovinezza lieta
Delle prime sue stelle è fatta priva.
È infelice l'amor, è senza meta
Omai la tna giornata fuggitiva.
Ma ti resta nell'alma mansueta
Quella dolcezza die dal cor deriva.
Sivista C. — 20
306 BinSTA OONTBMPOBANSA
La coscienza tua serena e para
La punta del dolor farà men dura.
Poi d'improvviso dileguò com'ombra
0 pari a tenue nebbia : ella rimase
Tutta di duolo e di spavento ingombra,
E più non lascia le paterne case :
0 se pur esce, un fitto vel ne adombra
Le belle forme che il pallore invase:
Quando ascolta che alfine il desiato
Oggetto del suo amor è a lei tornato.
Brillò di gioia, se lo strinse al seno,
E lungamente stettero abbracciati.
Francesco s'attristò perchè il baleno
Vide languir de* begli occhi turbati.
T'allegra, e' dice, or che al natio terreno
Propiz! arrideran prossimi fati.
Ella piena di fé, d'amor, di zelo,
Lo sguardo volge lagrimoso al cielo.
Ma sempre nel pensiero la funesta
Dell'ignoto l'aspetto e la parola :
Né a Francesco giammai fa manifesta
La cura che l'affligge, e a sé la invola.
E sorride, e la gioia in lui ridesta,
Che nulla quaggiù tanto ne consola
Come il sorriso della donna amata,
Unico fiore in terra sventurata.
Perchè ascondi le crude ansie del core ?
Egli le dice: oh ti conforta omai.
Credi alla patria, alla virtù, all'amore :
In gravi pene dolorasti assai.
Pensa all'istoria dell'antico onore
Di questa Italia, e rasserena i rai.
Mira di Liberta Tetereo fonte
Dischiuder l'onde sue per l'orizzonte.
Che parli? rispondea la giovinetta:
Il tuo coraggio, il patrio amor t'illude.
Vittime siamo di un'iniqua setta,
È fatale la nostra servitude.
Vano è fidarsi di una gente abietta
Che non prezza l'amor né la virtude.
Gli stessi amici ancor t'inganneranno:
Ti graverà sull'alma il disinganno.
FBANC5BSC0 BURLAMAOOHI 907
Come Testremo accento proferìa
Si fece smorta : ma a Francesco ignota
Era viltà, né mai lasciato avria
L'opra, in cui l'alma si flssava immota.
Ogni difficoltà lieve apparla
Al suo pensiero, e l'ora non remota
Che soccorrer dovea la patria schiava >
Con grandissimo amore ei vagheggiava.
Festeggiato venia nella natale
Cittade industre, e per l'eccelsa mente
E pel fervido cor prodigo sempre
Ài miseri d'aita e di pietade.
I generosi suoi gagliardi sensi
Commoveano le turbe onde fu eletto
A capo del Comune : allor fea cerna
Della milizia, e richiamava i duci
Dei montanari validi di membra
E tenaci di cor : nella memoria
A tutti ei toma la promessa i giuri
E dell'opra il solenne approssimarsi.
I suoi più cari egli trattiene a mensa
E in lunghe veglie, e della patria il genio
Con intrepida fronte e mesto sguardo
In mezzo a lor s'aggira. — I più valenti
Di Pistoia e di Siena, i Fiorentini
Esuli arditi anelavano il giorno
Della riscossa al Medici imprecando.
E per TEtruria intera a poco a poco
Si propagava la compressa fiamma,
E giungea nell'Emilia, e rinverdia
In Roma gli assopiti odii e la speme.
Contendenti a recarsi entro le avare
Mani, di una fanciulla orfana il censo
Perchò a loro di sangue era congiunta,
Duo presentarsi : di Francesco il voto
Dovea la lite giudicar: Pissini
Che il segreto sapea della congiura
Era Tun d'essi : ei con ardor fea ressa
Che data la fanciulla in sua balla,
Ministro ei fosse de' suoi pingui averi.
— L'orme sante giammai della giustizia
Non lascerò : sovra gli affetti regna^
E poggia a meta generosa ed alta
308 BinSTA CONTBMPOBANEA
Che ogni gioia mortai vince d'assai. —
Cosi dicera Burlamacchi, ed ebbe
Pissini il niego. Violento l'arse
Della vendetta l'inquieto spirto,
E a Fiorenza il condusse. — Era di sgherri
Cinto Cosmo e di colpe e di paura.
E notturne le orribili sembianze
Delle vittime sue volgeangli in tosco
Tutto il dolce che vien dalla possanza,
Pur assassinii e stragi ei replicava
Con assidua vicenda. In cor sentla
E tristezza ed orror; e sulla fronte
Livida e nel rotar del bieco sguardo
Del tiranno apparia l'anima atroce.
Dio non concesse all'uom die per delitti
Fosse felice : ei dalla mente invano
Del passato cacciar l'impronta pnèla.
Ne' banchetti, alla danza, e nelle tresche
Esso come funerea ombra lo insegue.
Gli avvelena le tazze, e il fa nei sonni
Vacillando balzar, che nelle fibre
Scorre e nel sangue immedicabil lue
L'implacato rimorso. Il traditore
Pissini accolto dell'iniquo duca
Nei recessi svelò l'ardita trama
Del magnanimo eroe. Cosmo a gran pena
Respirando, fremeva e impallidia.
Poi dopo lungo e torbido silenzio :
Forsennato, sciamò^ colui che tenta
Romane imprese. Italia omai non brama
La libertà, ma i ceppi. Esperimento
A lungo fé' che sia l'empia tregenda
Di popolar governo, ove ogni Ciompo
Sorge ed impera, ove alle Leggi è franto
L'augusto scettro, e ambizione abietta
Il seggio pone sull'altrui mine.
Corrotti a dominar popoli imbelli,
Necessaria è la forza... oh questi pochi
Che di vieti pensier nutron la mente,
Torli tosto convien come dal campo
Venenosa zizzania: è ver che inorme
D'ogni alleanza a me terror non reca
Francesco Burlamacchi : io non l'avea
FBANCESCO BURLAMACCHI 309
Nomare inteso. Sconsigliato amico
Di Piero Strozzi che giurommi morte,
Avrai la pena della tua stoltezza !
A te mio difensor e dello Stato
Degno premio darò. — Cosi dicea
Colui che strinse nelle mani il freno
Dell'intera Toscana, e di bugiardo
Splendor vesti la tirannia. — Giungea
Di Lucca ai magistrati un fero scritto
Del signor di Fiorenza. Egli svelava
Di Francesco la trama rampognando
Lor trascuranza, e la codarda e cieca
Fiducia, e la nativa inerzia, e il crasso
Delle cose di Stato animo ignaro. —
Del reo chiedeva la persona : è un empio,
Dei principi nemico e della Chiesa.
A me fia consegnato, e innanzi alFalto
Di Cesare cospetto io d'ogni colpa
Purgherò la repubblica. — Tremàro
I magistrati al favellar del duca.
Porre in ceppi Francesco, e non di Cosmo
Ma di Cesare darlo in signoria
Fu statuito. In guisa tal gli abietti
Di libertà macchiavano il vessillo,
Ipocriti gelosi a cui la patria
Era un palmo di terra, e s'avean fatto
Dio dell'argento, paurosi schiavi
D'ogni tiranno, non ardian d'Italia
II santo Home pronunciar giammai.
Non anco certo del fatai momento
Che cominciata si sarìa l'impresa.
Mentre indugiavan degli Strozzi assenti
Le risposte, i sussidi, in dolorosa
Ansia Francesco trapassava i giorni^
Trapassava le notti. A lui repente
Venne un amico : sei tradito, fuggi.
Gli disse : tutto rivelò Pissini
Di Fiorenza al tiranno : i magistrati
Arrestarti imponean per suo comando.
Può sol la fuga a te salvar la vita. —
Cor devoto all'Italia, a Libertade,
Non paventa di morte. A compier l'opra
Duopo è ch'io viva, e di fuggir m'è forzai
310 BIVISTA CONTBMPORANBA
Una città di traditori preda
E di vili e d'inrami. — Alla diletta
Fanciulla del suo cor volse il pensiero,
E in ogni fibra si senti commosso '
Dall'amor^ dall'angoscia . Elena stava
Inginocchiata a' suoi materni altari,
E quando lui mirò pallido, ansante,
Sorse trepida, e fu per venir meno,
E tutto il sangue rifiuille al core.
£ qual trista vicenda or qui ti reca?
Gli disse : io veggo nella tua sembianza
Una cruda sventura. — Esci, con tronchi
Sommessi accenti, rispondea Francesco :
Tutto è scoperto, ch*io mi tolga è forza
Di una vile repubblica agli sgherri.
La giovinetta lo guardò ; represse
La tema naturai che le agitava
Con gran tumulto la virginea mente,
Abbandonerò il tempio, e con serena
Calma la man gli strinse, e sparsa il volto
Di bellezza celeste, e i lumi ardenti
Di sovrumano intemerato amore.
Parca la Fede che con dolce riso
n martire sostenga al passo estremo.
Cosi ella parla : della tua diletta
Non dubitar : non io la tua costanza
Ammollirò: noi fuggiremo insieme.
Me nella vita avrai, me nella morte
Indivisa compagda. — Angelo mio !
Ei le risponde : ah non sia mai ch'io tragga
Nel fiero abisso della mia sventura.
Di tua soave giovinezza il raggio !
Lascia che solo io parta, e soffra io solo
Del fato ì colpi. -^ La gentil fanciulla
Gli cingea con le braccia il capo stanco,
E un bacio sulle sue labhra imprimendo,
Oh come in te, sclamava, o mio Francesco,
Trasformata mi sento! in te respiro.
In te penso ! in te vivo ! A che impedirmi
Di seguirti dovunque? Io ne morrei
Da te lontana ! Fuggirem f la notte
Noi non dovrà trovar fra queste mura :
Ella vestissi di virili panni
FEANCB8G0 BUBLAMACCHI 311
Le belle membra, e in sulla sera entrambi
A una porta giungean — passò la donna — -
Ma dal custode traditor fu chiusa
A Francesco l'uscita. — Elena vide
11 negro cavalier, che d'improvviso
Con violenta man la trasse in sella
Del suo corsier che via ratto qual lampo
Galoppa, e agli occhi vigili dispare
Delle attonite guardie. In cotal guisa
La Provvidenza l'angelo terreno
Dai crudi artigli delle umane belve
Con sollecita e pia cura involava.
Ella gridar volea, chiamar il dolce
Diletto amico, ma gemiti e grida
Un affannoso spasimar precluse,
E Francesco restò come un mortale
Dalla estrema speranza abbandonato.
Pur la forza dell'alma in lui crescea,
E intrepido sali rapidamente
Le scale del Palagio, ove a consulta
Dei Rettori del loco il gregge stava. —
Voi mi cercate per donarmi a Cosmo
0 al tiranno d'Italia. Ecco me stesso
A voi consegno. La prigion, gli strazi
Non prostreranno della mia virtude
La fortissima tempra. A me fia caro
Per la patria morir. Dal sangue mio
A mille a mille sorgeran gagliardi
Vendicatori in più felice etade
Quando diffuso fia siccome fiamma
L'odio pel vile usurpator straniero,
E della patria il generoso amore.
Il mio capo cadrà, sorrideranno
Di Cesare gli sdiiavi, e in prima voi
Autori del mio fato ; e lungamente
A lauta mensa vi godrete il tristo
Servaggio della patria e il disonore.
Da fallaci promesse io fui deluso :
Solo mi trovo nella morte. È questa
Per me una gioia che sul capo mio
Si verai l'omicida ira degli empi.
Or ben pochi ardiran pure una stilla
Darmi di pianto, e l'ossa mie macchiate
312 RIVISTA CONTBMPOBANBA
Dalla salma saran dell'assassino.
Ma la incorrotta storia ai venti, all'acque
Ripeterà il mio nome, è le commosse
Genti in udirlo brandiranno il ferro
A voi maledicendo, alla congrega
Ipocrita che regna in Vaticano,
E dell'Italia a tutti i rei tiranni. —
Fu in carcere racchiuso, e mai da quelle
Labbra né il nome degli amici suoi
Fu pronunciato e non fu detto mai
Il modo dell'impresa. Ahi lo perdea
La sua cieca fiducia in alme vili
Che lui gravàro per salvarsi. Il vulgo
Che un giorno lo plaudia converse l'inno
In vitupero. Entro le volte oscure
Di una prigione il martire sereno
Sue virtudi espiava. I Reggitori
Del Lucchese governo il consegnerò
Di Cesare al Vicario, e trasportato
Venne a Milano. Dell'Italia ognora
A vicenda peggior volgean le sorti.
Trionfavan le ree turbe di Spagna
E le alemanne, e ribadian sul collo
Delle italiche genti il duro giogo.
Chiuso al pensiero della sua grandezza
In orgiC; in feste rumorose il vulgo
Gavazzava ridendo, e s'assopìa ,
0 curvo stava nell'abietto fango
Della miseria a servitù codarda.
Ingloriosa e squallida compagna.
Ed i pochi pensanti oltre i materni
Monti per lidi inospiti e lontani
Balestrava l'esiglio, o delle cupe
Carceri racchiudean l'orride gole.
E Tirannia della Licenza a fianco
Con ferro e fuoco disertava i campi
E le case^ e versava onde di sangue.
Col zel fervente che avvalora il giusto
Nei giorni estremi della prova, il forte
Martire dell'amore e della fede
Aspettava il suo fato. A lui né il ringhio
Delle scolte selvagge e non l'insulto
De* togati carnefici, né il fiero
FBANCESCO BURLAMACCHI 313
Mentito aspetto e lo esplorar maligno
Di venduto a' tiranni empio levita
Abbattevan lo spirto. Egli godea
Nel santo orgoglio del divin pensiero
Che Io trasse in balia de sanguinosi
Ministri rei della giustizia umana.
Si succedono lenti e tristi i giorni
Sempre uniformi. Il prigionier rassembra
Navigante gettato in alto mare
Ove sol regni incresciosa calma.
Né un zefiro le cupe onde commuova.
Né l'orrida quiete del naviglio
Di procella s'allegri alla speranza.
Guarda dalle vetuste oscure sbarre
I campi, i clivi del lombardo piano,
E il bellissimo ciel che si profonda
Incoronato di ridenti stelle,
E contempla le torri ed i palagi
Onde lieta é Milan. e E tu congiunta
Con le amiche cittadi all'alemanno
Spezzasti la lorica. A mille a mille
Morser la polve gli oppressori tuoi.
E Federigo con ardente rabbia
Disperato pugnò : la lena affranta
Sparso di sangue fu gettato a terra.
Morto il disse la fama, onde gemendo
Al falso annunzio la regal consorte
Le gramaglie vesti. Tu, gran cittade.
Vendicasti le stragi e lo sterminio
Che ti disperde, e l'Attila novello
Tremò d'Italia al nome. Or giaci preda
De' successori suoi, ninno ti scuote
Dal tuo letargo, né il soffrir t'incita
A rinnovare il memorando esempio.
Tu giaci e giacerai per lunghe etadi
Irrisa allo straniero. — In questi accenti
II martire proruppe e si sottrasse
Alla vista del suol contaminato,
E si rivolse meditando a Dio.
Le lunghe veglie, ed i digiuni e il vario
De' pensieri perpetuo avvicendarsi
Assopirgli lo spirto, e un breve oblio
Di refrigerio a lui spargea le membra.
314 RIVISTA CONTBMPORÀNBA
Rapito esser gli parve entro remota
Melanconica landa ove fremea
L'ira del vento, e spaventose nubi
Ingombravano il cielo. Ivi non piante^
Non fior coprian Tinaridito suolo
Vedovo d'erbe. Gli parea con moto
Assiduo viaggiar, sicché il respiro
Dai raddoppiati aneliti era tronco.
Eppur correa correa finché ad un bivio
Giunse ove stavan di diverso aspetto
Due giganti custodi in sul sentiero.
L'un d'essi rivesUa di Cherubino
L'eteree forroei e risuonava il bianco
Velo dell'ale ai fremiti del vento.
Ma nel suo volto mansueto e caro
Era misto al gioire acerbo duolo
Che gli rigava d'affannoso pianto
Le bellissime luci. Egli recava
Palma vivente nella destra, e un divo
Raggio d'amor gli coloria la fronte.
L'altro ha voho infuocato, ampie son l'ale
Di vipistrello, e dalla bocca immonda
11 blasfema prorompe. Ei posto a guardia
È d'un giardino ove recenti rose
E gigli e gélsomin smaltano il suolo,
E d'amorose ninfe un lieto coro
A voluttade il passeggero invita.
Questo che Dio cacciò genio tremendo
Entro la lava de' profondi abissi
E de' mortali a pervertir la mente
Ognor corre la terra, al peregrino
Che incerto mira i duo sentier, s'avventa,
Per man lo piglia, e lo conduce in loco
Ove di mille fortunate gioie
S'offre la vista. Il più beato, esclama.
De' mortali sarai : Toro, le gemme,
La bellezza, l'amor, fian tuoi: soggette
Avrai le umane belve, e tremeranno
A te dinante, e ti farà corona
La pompa del poter. Lascia i pensieri
Delia patria infelice: é una chimèra
Che ti stringe in catene. Omai confessa
A chi ti opprime, die follie sognasti.
PBAN0H800 BURLAMACCHI 315
I complici rivela, e accanto ai troni
Starai seduto, e fra i più cari amici
Di Cesare e di Cosmo... Indietro, o vile
Perfido genio, rispondea France9Co:
Torna all'avemo ove piombar ti fea
II fulmine divino. Io non pavento
La scure, ma la colpa. — Allor s'appressa
L'Angelo del martirio, e dolcemente
S*accompagna a Francesco : il ciel s'oscura,
La folgor piomba, e dalle fiamme avvolto.
Ululando il demon vinto si fugge. —
Trista foriera del supremo giorno
Che al giusto splenderà, bella di tutti
I suoi fulgóri comparìa Taurora.
E come s'introdusse il primo raggio
Entro l'orride volte, all'improvviso
Quella ferale oscurità disparve.
Ed ecco, 0 dolce desiata vista !
Stargli dinante la sembianza il guardo
Della sua donna più serena e lieta
Di pria. L'alloro le cingea la bionda
Chioma scorrente in fin sul niveo collo,
E sovra il petto die fervea d'^^more.
Era rosea la guancia e dealbata
Della dolcezza di un celeste lume
Che dal volto di Dio si dipartiva.
Oltre ogni umana qualitàjeggiadro
Era il suo corpo, e procedean suoi passi
Lievi com'aura che lambisce i fiori.
Alla divina creatura innante
Egli si prostra e grida : ah sei pur dessa !
É quella, è quella la soave forma
Che pria mi fece delirar d'amore!
Oh... ma più bella sei, più sovrumana.
Dimmi... è giunto per me di libertade
II giorno, il giorno che saremo uniti
Perpetuamente? Oh parla I Ed ella : oh alfine
Ti riconforta, disse; è pien di colpe
n mondo che abbandoni, in breve assunto
Sarai nel gaudio etemo... Io ti precessi...
E Dio mi concedeva i tuoi supremi
Istanti consolar. Oh (orse in cielo,
Dicea l'amante, trasportata fosti
316 BIVISTA CX)NTEMPORANBA
Vivente ancora, o pur di te non vedo
Che l'ombra? or dimmi, e gli scendea dagli occhi
Diffuso il pianto, ove restò la vaga
Tua spoglia^ e qual sventura ahimè t'uccise?
Ella inchinava mestamente il volto
Roseo al pallido volto del suo fido :
Di un bacio etereo ne sfiorò le labbra,
Ed ei senti la tenera carezza |
E in quell'ambrosia dolce in quel profumo
Pregustò il gaudio dell'eterna vita.
Poi : SI morii, rispose quella Eletta,
Nella terra morii, ma vivo in cielo.
E mi fu dato rivestir col volto
Che tanto un di ti piacque i sacri segni
Che fan tremar la tirannia. Rimira I
Io son la Libertà : questa è la spada
Da cui salvate sorgeran le genti,
E l'empio abbatterà giogo straniero
Che opprime Italia. Il tuo sangue innocente
Raccolto in questo calice, alle sfere
Votivo salirà. — Cosi dicendo
Pose un'aureola luminosa in capo
Del suo fedele, e fiammeggiando sparve.
Venner gli sgherri : si scagliar sul giusto
Con sacrileghe mani, il truciderò.
Esultando parti l'anima grande.
Ed a quella di Lei che lo aspettava.
Con anelo desio si ricongiunse.
Pietro Raffaelli.
NOTA
Il 1546, se la fortuna non avesse fallito, sarebbe stato memorabile alla
posterità. Fedelmente narrerò la cosa come la raccolsi dai processi ; la
quale fu da Tarii variamente narrata. Francesco Burlamaccbi , d*antica
nobiltà, di alto ingegno, cupido di gloria, nel 1544 avea formato il disegno
di liberar la Toscana. Questi leggendo le storie di Plutarco, e meditando
come insigni personaggi , Timoleone , Arato , Pelopida , Filopemene ed
altri, con poche schiere, molte e grandi cose avessero effettuato , ebbe
FEANCE8C0 BURLAMACCHI 317
ambizione di tentare eguali ardimenti, parendogli egregio se liberata la
Toscana, una sola Repubblica ne avesse costituita , talché i Toscani fos-
sero sgombri di ogni guerra civile , e invitti contro gli esterni ; una tal
forma di repubblica gli antichi Etruschi aver seguitato, ed esser pervenuti
a gran gloria. Meditando come ciò potesse farsi, il seguente modo gli oc-
corse alla mente : — la cosa avrebbe avviamento scegli fosse creato pre-
fetto della milizia montanara, che non si avrebbe dato sospetto se avesse
chiamato i soldati in città sotto pretesto di riconoscerli e farne rivista.
A Mozano si sarebbero trovati 1400, egli avendo loro spediti sulla sera,
li seguirebbe. £ venuta la notte^ dopo che si fossero ristorati, li condur-
rebbe al monte S. Giuliano, comandando al capitano di Camaiore, che in
un'ora determinata venisse con sue schiere per le gole di Chiesa per con-
giungersi seco, ed ivi a* duci da lui corrotti aprirebbe l'arcano. E men-
tendo il nome del Senato, per la cui autorità e' fingerebbe di operare, sul
far della notte troverebbesi a Pisa , e la leverebbe a libertà. E non dubi-
tava che i cittadini, per odio alla servitù eccitati da quella voce, lo aiute-
rebbero. £ sperava ancora che Vincenzo Poggi, capitano della cittadella ,
si sarebbe a lui associato. Liberata Pisa, meditava di volare a Firenze per
opprimere alla sprovvista il duca: e mandate altre milizie a Pescia e a
Pistoia eccitare in diversi luoghi tumulto e crescer terrore. Era certo che
le altre città avrebbero seguito il moto, e i parenti degli esuli avrebbero
preso le armi , e i Senesi avrebbero recato soccorsi. Gli stessi Lucchesi
sarebbero stati aiutatori per non sembrare di stare oziosi in tanto incen-
dio. — Tali disegni in cui v'era molto coraggio e temerità, il Burlamacchi
aperse ad un uomo della plebe, a lui famigliare, a Cesare Benedini, pratico
nell'arte della guerra. E questi li disse ad Andrea Pissini, da lui speri-
mentato fedele. Ma il denaro , strumento d'ogni impresa , mancava. A
somministrarlo stimava opportuni gli esuli fiorentini, i quali per amor di
patria e di libertà tutto opererebbero. Stabilì d'abboccarsi con Piero e
Leone Strozzi, figli di Filippo, per l'odio che aveano contro gli oppressori
per vendicarsi della patria e del padre. Né Toccasione mancò. A Lucca
era tornato in que' di da Marsiglia Sebastiano Carletti, compagno che era
stato di Leone, cavaliere dell'ordine di Rodi, e chiamato Priore di Capua
nei condurre l'armata de' Turchi. A costui, avendolo chiamato a sé, quasi
per conoscere i paesi e le guerre ove s'era trovato , 6nalmente comunicò
il disegno, e sei procurò aiutatore presso lo Strozzi, il quale se avesse
supplito venticinque o trentamila fiorini d'oro , la cosa sarebbe fatta. Il
Carletti in breve andò a Marsiglia, e allo Strozzi espose la cosa. Il quale,
sebbene temesse dell'esito , pure per sete di vendetta e per ira contro i
Medici, lodato il disegno di Burlamacchi, impose al Carletti di rispondere,
' e confermarlo nel suo proposto, ma pria di muoversi esser d'uopo un col-
loquio. Ma lo Strozzi poco dipoi partito per l'Inghilterra, fu posta dila-
zione alla cosa. Il Burlamacchi intanto conciliavasi molti Pistoiesi, Fio-
rentini e altri. Aperse pure l'arcano ad alcuni Senesi che per le civili
discordie cacciati, stavano a Lucca esuli. Erano essi Marcello Linducci,
Gio. Battista Umidi, Lodovico Sergardi , e M. Antonio* Vecchi, i quali
erano stati principali autori del tumulto di Siena, e per comando di Ce-
sare proscritti. Burlamacchi insinuatosi nell'animo loro • dopo vari! di-
scorsi , gli aperse il proprio disegno. L'Umidi sprezzava la cosa come
piena di pericolo. Burlamacchi diceva che il solo ostacolo era Cosimo.
Il quale, poiché Firenze fosse liberata, potea compensarsi con l'alluo-
gargli ventimila scudi d'oro nel regno di Napoli. Queste cose erano ac-
818 vBIYlSTA CONTBMPOItANBA
colte come ciance, che mai oltre la lingua non ayrebbero trapassato. Il
Carletti dall'Inghilterra tornato in Lucca, il Burlamacchi sapendo che lo
Strozzi sarebbe Tenuto in Venezia , certo che il tempo era opportuno,
finse un viaggio per altro luogo, e parti per Venezia. Ivi col Priore par-
lando, esposto il suo disegno, ne riportò parole e speranze , chò ordina»
togli di perseverare neirimpresa, gli disse che venendogli il destro, non
sarebbe scarso di denaro e d'aiuti. Tornato il Burlamacchi a jLucca, poco
dipoi spedi a Venezia Cesare Benedini che annunciasse esser giunto il
tempo, e ove indugiassero, più non sarebbe opportuno, che egli alle pros-
sime calende di luglio sarebbe entrato facilmente Anziano. Frattanto due
mesi utili si perdevano, né fidava che un tanto secreto sarebbesi tenuto
a lungo nascosto. Lo Strozzi disse a&oo imaatttra la eota e per FasteaML
di Piero e per difetto di pecunia, e con tale risposta accomiatò il Bene*
èktd. Frattanto vennero le calende di luglio. £ il Burlamacchi andò a
palagio, e fu eletto Anziano e in luogo del morto Baldassarre Monteca-
tini, fu per la seconda volta creato gonfaloniere. In tal magistrato,
morti i genitori di una fanciulla ricchissima, che due fra i più prossimi
volevano alimentare in propria casa, il Burlamacchi ignaro della sventura
che di ciò gli dovea derivare, diede la sentenza contro Andrea Pissini, uno
de' competitori. Questi sdegnato per l'ingiuria, determinò di vendicarsi
col tradimento, onde andato a Fiorenza, il tutto aperse a Cosimo, da coi
liberalmente fu accolto e premiato , e ritenuto perchò non corresse peri*
colo. Il Benedini, inteso che Andrea non v'era più, e che a Firenze era
andato, ammonito dalla coscienza dell'accaduto, andò dal Burlamacchi, e
molto accusandosi per aver fidato in nn traditore, affermò che erano sco*
perti e traditi. Il Burlamacchi , attonito , stabili di fuggire ; ma il suo
grado gli ostava, tanti essendo gli osservatori. Preso dal timore impose
al Benedini di uscire sul tramonto dalla porta di s. Pietro , e aspettarlo.
S chiamato a sé un donzello, gli comandò significasse al capo che pre*
siedeva alla porta, non fosse chiusa se non fatta' la notte, e se sul far
della notte avesse visto alcuno uscire col capo coperto, non gl'impedisse
il passaggio: tal essere il comando del Principe e de' Censori, ed esser
cosa di Stato. L'Umidi fu quindi da lui avvisato a che ne fossero, e gli
mostrò una lettera in cui si attestava l'innocenza degli esuli senesi, e che
avrebbe lasciato nella sua stanza. L'Umidi temendo per sé e pei compagni,
tutto riferi al segretario Bonaventura Barili. E con esso tornato in pa-
lazzo donde Burlamacchi era partito per coprire la fuga, narrò il tutto
agli Anziani. Intanto Burlamacchi era giunto alla porta , ma come Dio
volle , poiché se fosse evaso, la città avrebbe corso grandi pericoli, Baccio,
franteso l'ordine del principe, lo riferi al prefetto in senso contrario, onde
venuto alla porta col capo coperto, fu respinto. Toltagli tale speranza,
il misero tornò a casa. £ a Pietro e Nicolò Burlamacchi, e a Lodovico che
per via se gli era accompagnato, aperse la propria calamità, fissi lo rim-
proverarono di stoltezza, perché con tal fatto la famiglia e la repubblica
avesse minato. £ poco dopo vennero messi degli Anziani ohe lo citavano
a palazzo. £gli,' domandato se fossero vere le cose che venivano raccon-
tate, tutto per ordine confessò, e in quella notte fu custodito in palagio
finché il Senato avesse provvisto. Nell'altro giorno radunatosi nella curia,
decretò fosse chiuso in una torre , e levatogli il ferro perché contro
se stesso non potesse infierire. E fu imposto al birre posto alla sua cu-
stodia, di respingere ogni cibo dai congiunti spedito, come sospetto di
veleno, ed eletti sei giudici che col pretore e con gli altri giudici faces.
FBANCBSCO BU^LAMACCHI 319
sarò il processo. Spediti ambasciatori a Cesare in Spagna, e in Milano a
Ferrante Gonzaga perchè riferissero il fatto ; destinato Gerardo Macca-
rini ad andare in Firenze per attestare al duca il lutto della città e della
famigliatane quali nulla apparteneva la colpa dell'uom temerario. Ma
Cosimo temendo che tali disposizioni dal capo della repubblica e dal pre-
fetto militare non senza grave causa fossero prese, e che tal cosa larga-
mente propagata, molto riguardasse, col mezzo di Angelo Nicolini suo
ambasciatore richiese il Burlamacchi al Senato sotto fedo che lo avrebbe
restituito sano e salvo : poiché insignito di quella dignità, e presso i suoi
difficilmente avrebbe confessato il vero. Fu risposto al Legato che Bur-
lamacchi era tenuto in catene in nome di Cesare, e senza il suo comando
a ninno potersi consegnare, ma che, onde non ci fosse sospetto di frode,
avrebbero sofferto che venisse interrogato dai suoi giudici, presso il Que-
store che avrebbe mandato, senza che alcun cittadino fosse presente. Ma
Cosimo ostinatamente il chiedeva, e i Padri intendendo che si trattava
d*indurlo, o per tormenti o con la speranza dell'impunità, ad incolpare
l'innocente repubblica, spedirono uno sopra un altro ambasciatore a Ce-
sare e suoi procuratori in Italia per allontanare la temuta infamia e pe-
ricolo. E alnne, favoriti da Granuela, ottennero che Nicolò Belloni fosse
mandato ad interrogarlo. Il quale interrogato, e acerbamente toHimito
perchò i complici pubblicasse, mai niuno nominò oltre coloro de' quali si
ò detto. £ richiesto della causa che lo aveva spinto a tale pazzia, niun'al-
tra ne arrecò tranne questa, che tolte le discordie, santamente dai popoli
si vivrebbe. Il Questore tornato a Milano, lo dimostrò reo di morte. Ma
arendo i Burlamacchi, con permesso del Senato, spedito prima a Firenze,
quindi in Milano Girolamo Luochesìni , loro parente , a pregar Cesare
perchò la morte fosse rimessa, attribuendo li fallo anzi a vanità e pazzia
che a malignità, Cesare consenti se Cosimo ratificasse : il quale con tal
condizione gli concesse la vita, cioè che fosse in suo potere guardato.
n quale beneficio, come insidioso, essendo disprezzato dal Senato e dai
gentiluomini, Francesco, per comando di Cesare, fu condotto nella rocca
di Milano, e dopo un biennio decapitato. Cosi espiò il grande ma infe-
lice tentativo , e con la sua morte la repubblica fu assoluta. Bmiuxi ,
An, Lucchesi, Lib. 15, pag. 354 fino a 364.
Per mostrare come gli Annali del Benerini siano avuti in grande stima
da letterati celebri, basti il dire che Pietro Giordani tradusse il presente
brano, e la sollevazione degli Straccioni. Nelle note al mio racconto in-
titolato Lodovico Ariosto in Garfagnana , ho tradotto dal Benerini alcune
cose importanti alla storia, ed ho tenuto lo stesso modo che tenni nel
tradurre il tratto sul Burlamacchi.
320
RASSEGNA POLITia
La Società editrice che s'impose per norma di osservare le più
delicate convenienze, vuole che nei due ultimi fascicoli deUa Uhisté
Contemporanea di quest'anno sia compiuta la stampa di quegli ar-
ticoli, di cui nei numeri precedenti già si è cominciata la pubbli-
cazione. Questa lodevole determinazione ha tolto le pagipe destinate
per la Rassegna Politica ; peraltro questa mancanza sarà meno sen-
tita ove si rifletta che nel corso di questo mese né la quistione ita-
liana, nò quella greca, o Vungarica, o la tedesca, o la polacca, o
l'americana, hanno progredito ; per lo contrario si è per ogni dove
più ingarbugliata, mentre è neccessario che facciano o l'una o l'altre
un passo per poterne prevedere lo scioglimento.
Probabilmente, almeno per alcuna di esse, nella Bassegna del
mese venturo si potrà vaticinare il modo con cui potrà distrigarsi
questa cosi intricata matassa ; in quella prenderemo le mosse dal 25
ottobre per cosi rimediare alla mancanza di essa nel numero presente.
G. Vbgbzzi-Ruscalla.
APPENDICE AL FASCICOLO DI NOVEMBRE
OSSERVAZIONI
all'articolo
LO SCARICATOIO DI CLAUDIO
del Big. L. DE LA VARENNE
inserito nel fascicolo di Ottobre della Rivista Contemporanea
AL DIRETTORE DELLA RIVISTA
La geatilezza colla quale accoglieste le reclamazioni verbali fattevi intorno all'articolo sullo Scaricatoio di Clau-
dio, Interramento del lago Fucino, pubblicato neirultìmo numero della pregievolissima Rivista, m'inanimisce a pre-
garvi d'inserire le seguenti rettificazioni necessarie a dissipare i molti errori che sono in esso e che potrebbero fuorviare
su questo proposito la pubblica opinione.
Osserverò innanzi tutto che quell'articolo non è uno studio di chi lo sottoscrisse, ma semplicemente una compila-
zione iatia senza cura, intomo alla quale nulla ridirei (abbenchè ne avrei tutti i diritti), se non avesse avuto l'autore
l'infelice idea di aggiungervi supposti particolari d'istoria contemporanea sui primordii della società di prosciugamento,
che sono immaginarii nella forma e nel fondo.
Il compilatore mi tribuisce elogi che vorrei meritarmi e mi riconosce meriti ch'io bramerei avere, e quantunque io
lo ringrazii dell'opinione troppo favorevole che mostra aver di me, non posso far a meno di far notare che attribuen-
domi ciò che non m'appartiene, non mi dà quello che mi spetta di diritto, ciò che costituisce, e che egli chiama con
cert'enfasi la parte tecnica e/i un po' arida dei lavori di cui pretende fare la descrizione.
Quella parte tecnica è copia e riproduzione letterale di due note pubblicate da lui, una nel 1853 l'altra nei
1861, e fatte con due fini affatto diversi. In quella del 1858 da lui riprodotta, non ebbe cura di sopprimere cose che
non hanno più sorta di senso in codesta riproduzione, né di correggere frasi al futuro perchè relative ad opere ancora
da farsi quando scrìssi la suddetta nota, ma interamente terminati ora ch'egli la ristampò. La giustizia e le conve-
nienze imponevano perciò al compilatore il dovere dì imitare l'esempio ch'io gli dava e ch'egli ha fedehnente copiato
come tutto il rìmanente ; Queste misure furono da noi prese e copiate sul piano tracciato nel 1835 dall'ingegnere
del Governo A fan de Rivera, o ch'avesse dichiarato spettarmi tutto il rìmanente.
Siffatto uso senza discernimento di documenti pnbbhcati gli uni nel 1853 gli altri nel 1861, condusse a ripetere
cose con che si reputavano esatte nel 1853, ma non riconosciute per tali nel 1862.
Diffatti nel 1853 io non conosceva il lago Fucino e l'emissario di Claudio, se non che dai lavori del commendatore
Alan di Rivera e dal piano su piccola scala che li accompagnava. Io aveva appena passato qualche giorno sulla faccia
del luogo, l'emissario era inaccessibile in quasi tutta la sua lunghezza. Di più io non mi ero proposto di fere un lavoro
né storico né tecnico, ma soltanto di riunire tutti i dati per far conoscere il più esattamente possibile la natura dei la-
vori da Carsi per procurare offerte d'intraprendere una si grand'opera. '
La Compagnia non aveva ancora intrapreso verun studio, opperò io avevo molta cura di dire da quali persone io
aveva avuto le informazioni. In allora prima di hr gli studii dissi che l'emissario aveva 5,660 metri di lunghezza ;
nel 1861 ne riconobbi 5,679 m., 56.
Se il compilatore fosse stato più chiaroveggente, non avrebbe data, come fece nel 1862, le due lunghezze nello
stesso articolo od almeno avrebbe spiegato il perchè delle discordanze. Ma ciò era cosa impossibile a lui, non sapendo
di ciò, né il perchè, né la causa. Ebbe inoltre torto marcio di ripetere che il principio dell'emissario è a oriente d*A-
vezzano, mentre è ad austro^ e l'emissario ò tutto diretto ad occidente.
Non avrebbe del pari dovuto ripetere ciò ch'io dissi allora stando ad Afan de Rivera, che i pozzi Romani erano in
numero di 32, giacché quanti seguirono queMavtri, da lungo tempo sanno ch'erano 34 per lo meno, forse 35
e anche maggiori. Nel 1853 io diceva con poca precisione che la superficie del lago era al presente di ettari
1 4, 550. Non avrei dovuto dire la superficie del lago, bensì Testensione della concessione ; cosa affatto diversa, perchè
già in quell'epoca la superficie del lago era più grande. Se non avesse testualmente copiato, scrivendo nel 1862 uà
articolo scritto assai anteriormente . dandogli un'apparenza di attualità, avrebbe dovuto sapere che la triangolazione
del lago ed il piano furono fatti colla più scrupolosa esattezza nel 1860, da cui risultò essere allora la superficie
delia conca lacustre di 15,792 e. 91 o. Questo particolare non è di poco rilievo, perché il piano e questa misura
furono i primi ad essere stabiliti in modo preciso dopo il 1835, e il lago, come sanno tutti, si ampliò durante questo
periodo di 9 m. 12.
Insomma, senza falsificare la verità, quando si conoscono seriamente i lavori del prosciugamento del Fucino, non
si può ridire nel 1862 ciò ch'io dissi nel 1853 dietro Afan de Rivera, cioè che la contrada 8d)bondava in materiali di
ogni sorta ed in operai abili in ogni maniera di lavori. Una triste esperienza dimostrò l'errore di siffatte informazioni.
La mancanza di una grande quantità di materiali utili e di esperti operai in questo genere di lavori, la gran difficoltà
di procurarsi gli uni e il difetto degli altri in quel paese quasi privo di mezzi di comunicazione, hanno singolarmente
aggravato la spesa di questa colossale intrapresa , e furono causa di molti e gravi incagli , vinti soltanto a prezzo di
penosissimi sforzi e di gravi sagrifizi pecuniarii per trarre dall'estero il personale dirigente, gli operai, gli stru-
menti, le macchine, i carri e persino le bardature dei cavalli e gli uomini per condurli e fare i trasporti.
Dopo aver copiato senza cambiar sillaba tutta la mia nota dei 1853, senza correggere uuo degli errori in cui caddi
sui lavori presenti, sulle misure e sulla valutazione delle terre, l'autore della compilazione mi abbandona per poco
onde copiare da Giorgio Sand la descrizione degli Abbruzzi, poi ritorna subito a me e termina di copiare la mìa
nota del 1853, e senz'altro, colle seguenti tre parole Per tal modo, rappicca questa nota alla mia Memoria del
186i , che ripete con altrettanta esattezza e fedeltà. In questa parte almeno le misure ed i dati sono esatti, perchè
furono i risultati dei nostri lavori. Se facciamo il riassunto dell'articolo summentovato, lo vedremo composto di 26
pagine e mezza, di cui 3 tolte a Giorgio Sand, 14 spettano a me, e- due o tre a tutti razzolate in dizionarii storici e
geografici, una pagina e mezza poi di racconti dell'inaugurazione dell'emissario sono cavate dai giornali di Napoli ; una
mezza pagina è presa dalla traduzione di Tacito fatta dal Davanzati, totale 22 pagine su 26 e li2. Restano 4 pagine e
mezza che sono di tutta. proprietà del compilatore, e queste nessuno certamente vorrà contestargliele , ma contro
queste io debbo altamente protestare perchè calunniano, però senza nominarli, uomini onorevoli, e diffamano una
Compagnia degna di tutto rispetto e beffeggiano cose rispettabili: tutto ciò sotto pretesto di dare un breve cenno ed
una pagina inedita degP intrighi delVex reame di Napoli.
Ristarò dal far osservare la sconvenienza colla quale pretende dare ra^uagli intimi sul principe di Torlonia, che i
lettori della Rivista ne avranno di subito fatta severa giustizia. Il discorso triviale ch'egli fa tenere col ministro Pe-
ruzzi non può idearsi se non da chi per educazione non può stare coi due onorevoli interlocutori. Ciò malgrado io nego
ricisamente quanto è detto in queste poche pagine intomo alla vergognosa origine che si dà alla concessione, aUa ridi-
dicola e criminosa condotta che si attribuisce ai primi amministratori della Società, e dico altamente che quanto vi
si dice del principe, del sig. di Montricher e del direttore della Compagnia le sono villane invenzioni del compilatore.
La concessione pel prosciugamento del lago Fucino fu fatta dal re Ferdinando \l. non ad alcuni stranieri per
rimeritare segreti e sinistri servigi, ma bensì ad una Società anonima napoletana rappresentata dal principe di Cam-
poreale, dal marchese Gcerale, amministratori delegati della Compagnia della quale era presidente il principe A. Tor-
lonia come principale fondatore, congiuntamente ai signori Degas padre e figlio banchieri a Napoli Pubblici atti fanno
di ciò fede. Il principe essendo uno dei fondatori della Società, è assurdo il dire che il direttore solleticò la sua
ambizione di associarsi ad opera degna dell'antica Roma, per farlo entrare in tale Società ch'egli concorse potente-
mente a formare. Prima bassi a fondare poi a dirigere ciò che si è fondato, quindi il fondatore precede il direttore,
ciò è chiaro anche ai fanciulli.
Falsissima del pari è l'asserzione della istituzione di consiglio qualunque, oltre quello di amministrazione ordinata
dalla legge per tutte le Società anonime. I consigli di direzione, i direttori del contenrioso e tutta la sequela d'impie-
gati di cui egli parla non hanno mai esistito se non nel cervello del compilatore dell'articolo. Giammai la Compa-
gnia ebbe altri impiegati salariati dalla sua amministrazione a Napoli olire ad un direttore, un contabile, un commesso,
e ad Avezzano un agente, in tutto soli quattro. Mai nessun membro del Consiglio di amministrazione ebbe stipendio
né indenoità pei giorni di presenza, malgrado l'assiduità con cui ognuno adempì agli assunti oneri. Ha quindi bassa-
mente calunniato dicendo: e Fra stipetidii, indennilà ed assegni di presenta ciascun amministratore s'era fatto un
grasso appanaggio e se ne stava in panciolle »,
In ognuno dei più minuti particolari in cui entra Tautore per far credere alla sua intiera conoscenza del lavoro,
tutto è inesatto. Cosi egli pone il seggio della Società alla sua orìgine in piazza Medina, N<» 61, mentre era al banco
dei signori Degas padre e figlio di dove fu poi trasportato dall'incaricato per procura del principe nella casa e vicino
aU'ufficio del suo corrispondente in Napoli.
Lascio al buon senso dell'universale a giudicare il valore delle ragioni date per ispiegare l'acquisto di tutte le azioni
della Compagnia dal Prìncipe, egli dice ciò essere successo perchè Ferdinando II poteva a suo capriccio togliere l<*
concessione alla Compagnia. Ove ciò fosse stato vero , lungi dal consigliare l'acquisto , avrebbe indotto a vendere
tutte le azioni per non esporre i proprìi capitali ai capricci di un sovrano.
Per ultimo, non so dove l'autore abbia pescate le cifre ch'egli assegna alle spese dell'intrapresa, alle emissioni di
azioni, alle transazioni del principe, ma dichiaro che sono tutte erronee e che questi pretesi dati storìci non hanno
ombra di venta, come non hanno quasi mai senso comune. Ora quando si scrìve per un pubblico rispettabile bisogna
saper rispettare. Debito dello scrìttore conscienzioso è di rendere ad ognuno ciò che di giustizia gli si deve. Questo
principio fu trascurato dal compilatore dell'artictlo intitolato Dello scaricatoio di Claudio.
Temendo di essere di troppo prolisso , intralascio dil raddrizzare gli errori di minor importanza ; e se ciò non
ostante queste mie rettificazioni vi parranno soverchiamente lunghe , non dovete dame carìco a me , sì all'autore
della compilazione.
Checché ne sia, signor Direttore, vi prego di aggradire i miei rìngraziamenti anticipati e i sensi della mia distin-
tissima considerazione.
Torino, 15 novembre 1862.
Vostro devotissimo Leon de Rotrou.
321
LA PENimA SLAVO-ELLENICA
STUI>II STAXISTIOI
11 principio cristiano che ormai ha trionfato nelle istituzioni
civili dell'Europa occidentale^ e che sta per attuarsi^ attraverso gli
sforzi di un dolorosissimo parto ^ nel diritto pubblico interno non
meno che nelle relazioni internazionali degli Stati che la compon-
gono, è tuttora una lettera morta per una gran parte dell'Oriente,
dove pure riportò le sue prime vittorie, e donde, circondato dal-
l'aureola della scienza e dell'arte, ha spiccato il volo per estendere
il suo dominio sull'Occidente. Ognuno intende che noi vogliamo
discorrere di quel lembo dell'Oriente che spazia da ambi i versanti
dell'Emo, ed è bagnato dal mar Nero, dal mar di Marmara, dal-
l'Egeo e dall'Adriatico. Certo l'emancipatrice forza del cristiane-
simo alleato alla civiltà ha operato anche colà meraviglie in questo
mezzo secolo, e Grecia, Serbia e Rumania risorte, e il Montenegro
indomato e indomabile ne fanno fede. Ma non è men vero che il
compito è appena a mezz'opra, e che dal petto di ben sette milioni
di Slavi e di un milione di Greci, a tacere delle minori stirpi,
scoppia ad ogni tratto un grido di dolore, che la diplomazia eu-
ropea non potrà a lungo soflbcare , e che spremuto da secolari
martiri!, anela alla riscossa deirasialica barbarie e al trionfo della
Croce e della civiltà che n'è inseparabile. Noi crediamo che l'Occi-
dente, il quale sta raddrizzando vecchie ingiustizie in casa propria,
non vi resterà a lungo sordo, e che non lascierà compiere il secolo
che ha varcato mezzo il suo corso, e lo fa ad ogni momento va-
cillare sui cardini, esponendolo ad una conflagrazione generale.
Lasciando all'avvenire la cura di sciogliere pacificamente o vio-
lentemente questo nodo gordiano della politica europea, è certo
che fra' mezzi più legittimi, tranquilli ed efficaci di affrettarne la
soluzione è quello di richiamare l'attenzione degli uomini di vaglia
degli Stati più civili, i quali professano sincero culto alla libertà,
SipUta C. - 31
322 RIVISTA CONTBMPORÀNBA
ed hanno ferma fede nella fraterna solidarietà che lega le sortì
civili ed economiche di tutti i popoli su quelle regioni infelicissime
dell'Oriente a noi contermine, nelle quali non si sa se più la na-
tura abbia largheggiato de' suoi doni , o se la gente che tuttora
sovr'esse esercita il dominio del ferro e del fuoco, abbia più fatto
per renderli inani.
Fare quanto sta nelle minime forze nostre per attrarre Tinte-
resse e la commiserazione dell'Europa civile su quella porzione
de' nostri fratelli slavi che gemono nell'oppressione al di là della
Dinara, e su quella nobilissima schiatta greca che ha con essi co-
munanza di sventure, affinità di costumi e di fisionomia morale,
procurar a tal fine di conoscere e far conoscere le condizioni eco-
nomiche e civili di queste due razze^ le quali attingono alle me-
morie delle lotte per la fede e per la nazione da oltre a quattro
secoli sostenute , la fede incrollabile in un avvenire che la loro
concordia potrà sola affrettare, crediamo debito , non sappiamo se
pili cristiano o patriotico , della nuova generazione degli Slavi di
Dalmazia, i quali non abbiano concentrato i loro affetti, e collo-
cato il loro ideale entro le muraglie cinesi della dalmata autonomia.
A sdebitarci possibilmente da quest'obbligo, ci siamo posti a
delineare questi cenni statistici sulla penisola slavo-ellenica, se-
guendo le traccie dTuh coscienzioso, paziente e completo lavoro
del barone di Reden sulla Turchia e sulla Grecia (i), il quale fu
mi
del ba
Turchia e Grecia nel loro potenziale sviluppo^ schizzo storico-statistico
barone Federico di Reden. Francoforte sul Meno, presso Carlo Teo-
doro Yòlker , 2 voi. stampati negli anni 1854 e 1856. Il barone Reden
nacque nel 1804 a Wendling-hausen, nel principato di Lippa Desmold, e
fermò la sua dimora nel regno di Annover. Elettovi deputato per la Cad-
merà de' Deputati, contribuì alla redazione della liberale costituzione del
1833 , ed entrò nel 1834 come sef^retario generale del ministero delle
finanze. Nel 1839, quando il nuovo re Ernesto Augusto rovesciò lo Sta-
tuto, egli diede la sua dimissione. Nel 1843 il ministero degli affari esteri
del re di Prussia lo chiamò a far parte della sua amministrazione. Nel
1848 fu mandato a Francoforte dalla Camera di Annover quale deputato
per rAssemblea Nazionale. Sciolta questa , egli continuò ad abitare a
Francoforte, tutto intento agli studii di statistica, ne* quali s'era acquistato
una riputazione europea. Si annoverano fra le sue opere più celebrate :
Geografia aenerale comparata del commercio e deìV industria — §tati8tica com*
parata delle grandi potenze delVEuropa — Statistica finanziaria generale e
comparata. Egli ebbe a fare diversi viaggi scientifici che ^li procurarono
il mezzo di raccogliere una scelta di documenti statistici senza para^-
gone. Queste notizie valgano ad accrescere autorità ai dati che saremo
per esporre sulTOriente. L'illustre statista mori nel 1860, se ben mi
ricordo (*).
{*) Avremmo voluto che l'autore di questarticolo avesse consaltato
l'Etno^afia della Turchia europea di Lelejan inserita nelle Geograph,
Mitthetlungen di Petermann (Gotha 1863) per essere le anagrafi raccolte da
Lelejan negli anni 1856 e 57, epperò posteriori a quelle di Reden (V-R.).
LA PBNISOLl SLAYO-BLLXNICA 233
de' più delti e diligenti cultori di statistica della Germania; ed ebbe
a sua disposizione, nel comporre Topera da noi citala, gli scritti
più accreditati e più recenti che siansi pubblicati da un secolo in
Europa suirOrìente. Ci gode poi l'animo di poterlo studiare colla
guida di uà dotto, onesto e spassionalo tedesco, poiché i dati che
ne offre, e i giadìsii che esprime sulla penisola de' Balcani, e sulle
ODBdizioiii economiche e civili delle razze che l'abitano, portano
rimproiUt di una sincerità e imparzialità rara^ ed hanno un par-
ticolare valore che le più appassionate elucubrazioni francesi e in-
glesi BOB potrebbero avere.
E ci siamo iBdotti a fare questo lavoro di carità e pazienza
(ch'altro merito noi bob vogliamo rivendicare) perchè crediamo
che, anziché mostrarci grati all'Italia per la coltara che in gran
parte le dobbiamo, col servircene per ribadire il servaggio morale
del nostro popolo^ e precludergli la via a più degno e libero avve-
nire, noi adempiremo assai meglio l'obbligo della riconoscenza
verso dì lei , adoperandoci a farle conoscere questo lembo del-
rOrieBte su cui essa ha mietuto pel passato tante glorie, ed ai cui
destini economici e civili essa non rimarrà estranea per lungo
tempo. E un altro motivo a ciò ne mosse, che con quel dolore non
scevro di compiacenza che é proprio di un necessario sacrifizio,
qui dobbiamo accennare. L'Oriente é pure la terra promessa ai
padri nostri; noi, giunti al mezzo del cammino di nostra vita^ non
possiamo che mirarla da lungi , avendo fatto troppo poco per la
nasioBè, onde meritare di arrivarvi. Ma il tempo perduto per colpa
Bostra ed altrui possiamo in parte riacquistare, additandola alla
nuova gtBerazioBe, nel cui cuore non peranco avvizzito dalle abi-
todini del servaggio , si deve fondare l'edifizio della patria rina-
sceBle> e iBsqpiaBdole che la fede> la scienza e l'amore le condur-
raBBO colà dove a aoi non fu dato che gittare alla sfuggita uno
sguardo.
Postura geografica
Lia pettisola slavo-èlle&ica abbraccia politicamente la Turchia
europea cogli Slati a lei vassalli di nome della Serbia e Rumania,
e il regno di Grecia, ed é una delle tre grandi penisole lanciate
sul MedtterruBeo, che per meravigliosa postura, fecondità di suolo,
genio e vigor naturale delle razze die l'abitano può misurarsi
colla peni^ iberica e cOH'ilalica.
Prendendo particolarmente a considerare le due grandi sezioni
politicfae in cui si divide, diremo che la Turchia europea é collo-
324 RIVISTA CONTBMPOBANBA
cala fra il 38o y^ e il 48° di latiludine, il 33o */, e 4> V2 di lon-
gitudine, e confina verso il nord e il nord-ovest da Czernowicz fino
a Cattare per una lunghezza di 315 m. g. q. coll'impero d'Austria,
verso l'ovest da Cattare fino a Prevesa per 72 miglia di costa col
mare Adriatico e Jonio, verso il sud fra i golfi d'Arta e di Volo per
23 miglia colla Grecia, e nuovamente per 145 miglia di costa col
mare Egeo, e per 43 col mar di Marmara, e finalmente verso l'est
col mar Nero per 102 miglia, e colla Russia dalle foci del Danubio
a Czernowicz per 92 miglia. Da qui si scorge che la Turchia eu-
ropea ha 362 miglia di confine marittimo e 430 di confine terrestre,
delle quali 180 di fiumi navigabili, come il Danubio, la Sa va e il
Pruth, circostanza rimarchevolissima che rende il paese accessibile
ai commerci ed alla civiltà.
La Grecia indipendente cosi come venne coartata e immiserita
dalla diplomazia europea del 1830, che volle farne unente politico
non vitale, è posta fra il 36o e il 39*» di latitudine, il 38o e il 44* di
longitudine, e confina da tre parti per una costa lunga 205 miglia
col mare Jonio , col Mediterraneo e colF Arcipelago , mentre dal
nord per 23 miglia confina colla Turchia.
« Agli occhi del geologo, osserva Cyprien Robert descrivendo
la penisola che formò soggetto de' suoi studii (1), questa regione
non presenta che un caos di montagne, le quali s'incrociano senza
direzione, senza una ordinata catena, e che per una singolare ec-
cezione invece di sollevare le loro vette nel centro del paese,
l'ergono alla frontiera presso l'Adriatico e il Danubio, sull'Arcipe-
lago. Le valli di questi monti che sboccano tutte nell'interno della
penisola , possono in questi punti diversi essere ermeticamente
chiuse all'artiglieria e alle armate straniere. I meandri agghiac-
ciati della catena albanese chiamati dagli antichi Albii 0 Albani,
donde forse le Alpi presero il loro nome, si avvallano verso il
nord-est, è seguono la Sava sino al Danubio, dove si frastagliano
in diramazioni innumerevoli che formano la Serbia e la Bulgaria
occidentale. Una di queste catene sembra che abbia raggiunto i
Carpazii al di làdell'Istro, e sbarrato un tempo presso Orsova il
Danubio, il quale spezzando queste roccie , ha formato le famose
cateratte della Porta di ferro. Queste montagne, tutte dirupate e
coronate di alte foreste, sono i Balcani, l'antico Emo. Esse deli-
neano la valle danubiana, costeggiano il mar Nero coi loro bastioni
a picco, separano la Bulgaria dalla Tracia, e attraverso questa pro-
vincia projettano fino al Bosforo e ai Dardanelli diramazioni di col-
line chiamate altra volta Dardaniche. Tutti i monti collocati al nord
(1) Les Slaves en Turquie, voi. I, p. 10-15, passim (Paris, Passard 1852).
LA PENISOLA SLAVO- ELLENICA 325
della classica penisola sono oggidì slavi , e formano la difesa più
formidabile de' popoli di questa razza ; quelli del sud rimasero
per la maggior parte greci.
La catena abbastanza regolare del Rodope^ dalle cime coperte
di nevi eterne, separa la parte greca dalla parte slava dell'impero
d'Oriente; numerose e larghe gole fendono questa catena per
modo, che straripando attraverso queste aperture , le due razze
non possono non incontrarsi. Un altopiano elevato, lungo il quale
scorre la Mariza, fiume de' Bulgari, congiunge le falde del Rodope
greco a quelle de' Balcani slavi. Le due grandi schiatte sono dun-
que senza frontiere naturali , e s'incontrano, per cosi dire, ad
ogni passo che fanno. • Ond'è che si trovano disseminati per tutta
la Grecia Slavi in qualità di agricoltori e pastori, e Greci alla lor
volta dirigono l'industria e il commercio in quasi tutte le Pro-
vincie slave >.
É osservabile che ciascuno dei principali gruppi di montagne
greco-slave ha in ogni tempo servito di propugnacolo ad una na-
zionalità, e di asilo ai vinti. Tal' è pei Greci l'Olimpo, il quale alto
6000 piedi, non è accessibile che attraverso sentieri sospesi sopra
abissi, nel fondo de' quali spumeggiano i torrenti^ ovvero stagnano
i laghi formati da' mari. In grazia ai precipizi! che lo circondano,
questo baluardo della nazionalità greca sarebbe inespugnabile ove
fosse difeso da alcune centinaia di palicari. L'Olimpo fmisce dal
lato di Macedonia con un muro a picco alto 3000 piedi che sovrasta
all'orribile gola di Platamona; dal lato opposto esso copre la valle
incantevole di Tempe, e difende la Tessaglia. Questa provincia che
si estende assai in lunghezza, ed è fecondata dal Penco, forma una
specie di circo ; sui gradi interni di questa vasta arena s'asside-
vano una volta settantacinque fiorenti città.
L'Olimpo tessalìco comunica coll'Athos attraverso il mare e le
catene dell'alta Macedonia; là è il centro militare della penisola
che domina Greci e Slavi. Chi possederà le sue vette vi troverà
sempre l'indipendenza, e potrà spesso minacciare quella degli altri.
Da questo punto sovrano, culla di Filippo e di Alessandro, si stacca
isolato il monte sacro del popolo, il Monte SanlOy l'Athos, massa
calcare di 6300 piedi, confine della Macedonia dalla parte di mare,
come n'è l'Olimpo sul continente.
L'Albania, tumultuoso caos di roccie sovraposte le une alle altre,
oppone ad ogni conquista i suoi formidabili monti Acrocerauni.
I Greco-Slavi dell'Epiro hanno per asilo l'Agrafa o il Rudo, il
quale quantunque si elevi per 8400 piedi, è pur ricoperto di ver-
gini foreste... Le catene disordinate che attraversano l'Epiro si
appoggiano in gran parte alle falde del Rudo. Una parte della
326 RIVISTA CONTBIIMRAlfSA
Livadia col suo Parnasso dalle aride ed atte citte di 22M metri
colle gole dell'Età e colle sue gloriose terroopili dipende pure
dairAgrafa.
Le tribii slave hanna andi'esse i loro campi d'asilo e le loro
montagne sacre. Per la Bulgaria è il monte Rik> e il Tisoka» Tan-
tico Scardo, che si crede alto 9600 piedi ; per la Serbia é il Riid-
nìk ; per i cristiani della Bosnia e dell'CrzegovÌBa , il terribile
Monte Negro,
La Bosnia è anch'essa una cittadella fortificata dalla natura.
L'estremità nord-ovest della penisola , l'alta Valacchtfiy come la
Transilvania, offre pure un inestricabile labirinto di gole* di cui
chi sarà padrone, purché appartei^a al paese, potrà senza peM
arrestare le più forti armate d'invasione.
Superficie e Popolasione
A. Turchia
Dobbiamo qui cominciare col chiedere scusa ai nostri lettori
se sotto il nome generico di Turchia abbracciamo non solo le Pro-
vincie immediatamente soggette alla Porta Ottomana , ma ancbe
gli Stati quasi vassalli della Serbia e della Rumania. Reden scrisse
rOpera di cui diamo un'analisi alla vigilia di quella guerra d'Orieote
della quale ci sovviene che l'illustre Vuk Stefanovic soleva dird
quando essa ferveva : € non so se gli alleati o i Russi riusciranno
vincitori nella lotta, so questo solo che i Torchi ci perderanno».
La pace di Parigi infatti che non fece, ci si permetta l'espressione,
che tagliare le unghie agli artigli dell'aquila russa (e Voltaire ebbe
a dire che non si può impedire alle unghie di crescere), col devol-
vere alle grandi potenze la tutela dei cristiani di Turchia, saMioaò
l'abdicazione morale e politica dell'impero Ottomano , mentre lo
faceva ironicamente entrare nel concerto europeo. Non tardarono
infatti d'allora i Principati Danubiani a riunirsi in uno Stato solo,
che si chiamò Rumania, e la Serbia a compiere quella rivoluiione
che coU'espulsione della dinastia dei Karagiorgevic tolse di mezzo^
le influenze straniere che ne paralizzavano il movimento nazionale
e civile. Presentemente Serbia e Rumania, poco men della Grecia,
trattano da potenza a potenza colla Sublime Porta, e le sono vas-
salli come lo era, fate conto, l'ex-reame di Napoli alla Sesta Sede
quando le presentava annualmente il di di s. Pietro la mula bianca.
LA PENISOLA SLATO- ELLENICA 327
Vedremo a suo tempo come l'adeguata conoscenza de' fatti econo-
mici e civili della Turchia, aveva fatto presagire alFillustre Reden
la crisi che a gran passi si avvicinava in Oriente, e gli aveva sugge-
rita una soluzione che non è la radicale, ma che vi si avvicina, che
in parte è compiuta, e in parte sta compiendosi giorno per giorno.
Tanto è vero che Teconomia e la statistica danno molte fiate ]a
chiave de' più astrusi problemi politici. Noi intanto, per non alte-
rare l'ordine osservato dall'autore, ci atterremo alla divisione del
lavoro da lui dataci, e alla generale denominazione di cui egli si
è servito. Queste parole gioveranno per metterci in regola coi no-
stri lettori e eolla nostra coscienza, la quale si solleva al solo pro-
nunciare un nome che richiama alla memoria il servaggio di sette
milioni de' nostri fratelli, e non ci avrebbe dato pace ove l'aves-
simo senza protesta applicata anche a quelli che fortunatamente se
ne riscossero.
Le Provincie immediatamente soggette alla Porta si compartono
in i3 luogotenenze, di cui qui presentiamo un quadro, cl^e ne in-
dica la superficie e la popolazione giusta i rilievi del 1844.
Superficie
Provincie in miglia g. q. Popolazione
I. Romelia od antica Tracia col distretto
di Costantinopoli 450 1,800,000
Il-V. Bulgaria , divisa nelle provincia di
Silistria, Widdino, Nissa e Sofia . 1839 3,000,000
VI. Salonichio, che abbraccia una parte
della Macedonia e della Tessaglia . 575 \
VII. Jannina, che abbraccia l'antico Epiro ( ^ -^ ^^
con altra parte della Tessaglia e ( ^,/uu,uuu
Macedonia 770 ;
VIII-X. Scutari , Perserius e Monastir con
altra parte della Macedonia . . . 891 1,200,000
XI. Bosnia, che comprende la Bosnia, la
Croazia turca e l'Erzegovina . . 1268 1,100,000
XII. L'Arcipelago da Saipotraki a Rodi . 561 j «^ ^^
XIII. Creta colle isole vicine .... 153 { '^'"^
Totale delle provincie immediate . 6507 10,500,000
Provincie quasi vassalle
Moldavia 736 1,400,000
Valachia 1330 2,600,000
Serbia : , . . 998 1,000,000
Totale della Turchia europea . 9571 15,500,000
328 BinSTA CONTHMPOBANBA
La Turchia europea comprende 5, 20 Vo ^^^^^ supjBrficie, e
5, 82 o/o della popolazione di tutta l'Europa. Sotto il primo rap-
porto le stanno innanzi solamente la Russia, la Svezia e Norvegia,
l'Austria, la Confederazione Germanica, la Francia e il nuovo regno
d'Italia : sotto quello della popolazione la precedono, oltre a questi
Stati, ringhilterra, la Russia e la Spagna. La proporzione fra la
popolazione e la superficie dà però alla Turchia appena il cinquan-
tesimo posto fra gli Slati d'Europa, non contandosi per media più
di 1624 abitanti sopra un miglio g. quadr. Questi rapporti non si
conservano uguali dapertutto , e per esempio nella Romelia si
numerano 4000 abit. sopra 1 Q , nella Macedonia, nella Tessaglia
e nell'Epiro 2007, nella Serbia 1002, nella Bosnia solamente 876!
É osservabile però che persino là dove la popolazione è più divisa,
essa si trova in una grande sproporzione coi mezzi di sussistenza
onde la natura ha fatto ricco questo paese.
La postura geografica , l'estensione del territorio e il numero
degli abitanti farebbero della Turchia una potenza di prim'ordine,
se non le mancassero tutte le altre naturali e morali condizioni per
divenirla, se anzi quegli elementi che sono fattori di civiltà e di
forza negli altri Stati, non rendessero impotente l'impero Ottomano
a qualunque sviluppo civile e politico. Due sono le grandi cause
della sua necessaria e sempre crescente decadenza , le condizioni
etnografiche e religiose de* popoli che lo abitano. È importante
quindi, per apprezzarle a dovere, che colla scorta dell'Ubicini, non
imparziale turcofìlo, ma intelligente cultore di questi studii, indi-
chiamo come si scomparta la popolazione della Turchia per nazio-
nalità e per religione.
I. Per naziofialilà
1. Osmani 1,100,000
2. Slavi 7,200,000
3. Rumani 4,000,000
4. Albanesi 1,500,000
5. Greci 1,000,000 (?)
6. Armeni 400,000
7. Ebrei 70,000
8. Tartari 230,000
15,500,000
LA PBMI80LA SLATO-BLLIMIOA 9t»
II. Per religione
i. Musulmani 3,800,000
2. Greci non uniti . . . 11,870,000
8. Cattolici ; 260,000
4. Ebrei 70,000
15,500,000
Queste cifre di Ubicini vogliono essere rettificate e illustrate,
perocché formano, si può dire, i termini di quel problema politico
e sociale, che si appella la questione d'Oriente.
I. Le nazionalità
La più numerosa schiatta della Turchia europea , chiamata
presto 0 tardi a dominare la penisola dalla Sava al Rodope , è
quella degli Siavi meridionali. Due rami di quest'albero giovane e
vigoroso vi si trovano i^adicati: i Bulgari e i Serbi.
I Bulgari, quantunque Ugri di origine, vennero assimilati dagli
indigeni slavi numerosissimi che soggiogarono, mercè sovratutto
rinfluenza del cristianesimo e del rito greco orientale che abbrac-
ciarono. Essi spaziano in numero di ben 4 milioni e mezzo d'ambi
i versanti dei Balcani, dalle foci del Danubio ai confìni della Grecia.
DiiTerenze di carattere e di costume distinguono il Serbo dal Bul-
garo. Il Serbo è bellicoso, previdente, risoluto, memore e tenace
delie avite tradizioni, anelante alla riscossa : il Bulgaro è pacifico,
laborioso, diligente, morìgeratissimo, appassionato cultore de'campi
e della pastorizia , e però fra tutte le razze che coabitano nella
Turchia, il più agiato ed alieno da' rivolgimenti politici. Recentis-
sime indagini che non potevano essere note a Reden, fanno cono-
scere che i Bulgari coU'aumento della pubblica ricchezza, e colla
dilTusione dell'istruzione che acquistò in questi ultimi anni vaste
proporzioni, preparano pacificamente , lentamente , ma infallibil-
mente la loro emancipazione politica. Sarebbe quindi adesso a du-
bitare quanto allora osservava il Reden, che, cioè, stanziati parte
al di qua, parte al di là dell'Emo, essi non abbiano coscienza della
loro unità nazionale, e restino indifferenti alla ricordanza di quelle
gesta del loro glorioso passato che accendono d'entusiasmo i Serbi
e i Montenegrini. É certo però che i Bulgari del nord differiscono
alquanto per costume e per dialetto da quelli del sud, i quali non
poterono restar estranei all'influenza de' Greci contermini.
9tè VrWUnx CONtBlCMBAIflA
Altro ramo degli Slavi sono i Serbi che distinguonsi in Serbi
propriamente detti, e Bosneri. Abbiamo accennato alFìndote guer-
riera de' primi, ne' quali il sentimento dell'indipendenza è predo-
minante, ed ha potuto già rivendicare in libertà sino dal 1829
quella porzione di territorio che costitnisoe il principato di Serbia,
ed occupa una vantaggiosissima posizione politica e commerciale,
e però, come o^erva Reden , forma il ponte pel quale la civiltà
penetrerà nella penisola orientale. 1 Serbi del principato son un
milione incirca; ve ne sono 500,000 dispersi per la Bosnia, Albania
e Bulgaria. A quésto ramo appartengono specialmente i Serbi che
trovanti in Austria , ed abitano col nome di Slavoni (238,000) la
Slavona, con qnello di Skekaci e Bunjevad (405,000) gran parte
della Yoivodia e del Sanato ; di Morìacchi (1), Dalmati, Ragusei e
Bocchesi (298,000), la Dalmazia. In numero di 342,000 stanziano
ne'ConCni militari, di 437,000 occupano la maggior parte del-
ristria sino all'Arsa colle isole del Quamero; 70,000 trovansi dis-
pera lungo i confini meridioBaK dallUngherìa. In Russia non ve
ne ha più di i500. Il numero totale de' Serbi ammonterete dun-
que a circa 3,101,500. I BosneH co' Croati della Graina (Groaria
(1) Il poTero Reden non ebbe la sorte di sopravivere alla grande scoperta
che Hi Morlaoohi discendenti dal Lazio !(^) Se Tigooranza delle cose
patrie nella quale siamo creBciuti non ci seryisse di scnsa, certi spropo-
siti storici ed etnografici che uscirono alla luce fra noi da quando sorse
la questione àeWannessìonc, sarebbero imperdonabili. Uno de' grandi ar-
gomenti portati in campo per avversarla fu una certa differenza di lin-
guaggio cke si Tolle trovare fra la popolazione della Dalmazia e quella
di emazia e Slavonia. Ora^ il dialetto, i costumi, la storia e le eìucuVra-
zioni de* pia dotti slavisti provano che più della metà degli abitanti di
questi ultimi due regni (in cui son compresi i Confini militari) sono Serbi
né più né meno de* Morìacchi, de' Ragusei e de* Bocchesi ; mentre i Croati
trovansi in parte della Croazia civile non solo» ma sono disseminati lungo
i! litorale dalmate sino al Primorige di Macarsca, ed occupano quasi tutte
le nostre isole. C così che si vide il curioso spettacolo che gli autonomi
della Dalmazia al di qua della Karenta, non volevano unirsi a' Croati,
mentre questa parte della provincia pur ne aveva, e ne ha; e invece tutti
i Bocchesi e i Ragusei che sono puro sangue serbo , e che soli potevano
essere tentati farlo valere, e andare superbi, sovratutto i secondi, di ben
altra autonomia della nostra , si sono dichiarati unanimi (se tolgasi la
hoirghesia di Ragusa) per l'annessione alla Croazia. Quanto poi ai Latino-
Morlacchi (scusate per carità, lettori, questa cacofonia) non ci resta altro
& dire se non che pur troppo un oceano di erudizione non vale una goc-
ciolina di buon senso.
(*) Questa voluta discendenza derivò dall'essersi in antichi documenti
dato ai Zinzari o Macedo-rumani l'appellati vo di Mauro-vlaki, cioè Va-
tacchi neri. Vedasi Lelejan. Ethnoqr. der Europ, Turkei. Gotha 1869 ,
p. ». (V-R)
LA. fmiioij^ njLTo^nuiaoA sn
turca) e cegli abitanti deU'En^oviM (Dalmazia torca) in avmero
di 360,000, aacendoM ad 1,450,000. La diCGeraua dì r^Opasm a
di diritti fra i domnatorì e i vinti di queata regione ha fatto dèfla
Bosnia una delle più turbolenti provincie della Tardiia ewopea.
Al momento ebe acriviamo , TEnegovina ccì suo Vukalofic é in
armi, ed unita al Montenegro combatte e vince gli Ottomani , e
tiene in scacco qoeirOmer-Paacià die dopo aver rinnegato la ftde
e la patria , doveva trovare in Dalmazia chi gli (aceaae il panagi*
rico 1 Nella Bosnia stessa, gli Slavi, che abjorata la fède jdifisero
col nemico le spoglie della nazione, si avvicinano ai poveri nya,
incominciano a deporre gli odii religiosi e civili die lì tenevano
divisi, e si apparecchiano alla lotta contro Toppressore comune.
Se si aggiungaiM) i 490,000 Montenegrini che da quattro secoli
combattono contro i Turchi, e che furono gli antichi e fedeli aUeati
di Venezia, comunque da questa tahrolta abbandonati, nelle guene
sostenute contro il nemico della cristianità, e i 430,000 Zagorj, si
può calcolare che gli Siavi abitanti nella Turchia europea ascen-
dono a 7,700,000, e però superano di mezzo milione il numero
indicato da l^Hani.
I Rumeni sono in numero di 4,300,000 nella Turchia, ove ai
calcolino anche i Ihcedo-Rumani che sono in numero di 350,000,
e che akri annovera fra i Slavi. Oltreché in Middavia (1,350,000)
e Valacchia (3,480,000) , si trovano sparsi nella Bulgaria, nella
Tessaglia, nell'Albania^ nelFEpiro e in altre parti della Turdiìa in
numero di 120,000. Se si tiene calcolo dei Ruroani dell'Austria
che in nomerò di 2,650^000 sono disseminati nella Transilvania,
Ungheria, Voivodia, Banato, Bocovina e Confini militari, e di quelli
delfai Russia che in numero di 408,000 stanziano nella B^ssa-
rabia (1), latta questa schiatta si può dire che ascenda a 7,460,000
(1) Dopo la pace di Parijndel 1856, parte della Bessarabia ooa uaa
popolazione di presso a 190,OD0 abitanti fu separata daHa Russia, ed unita
alla Romania (*j.
(*) Ecco come si può calcolare la Nazione Rumana :
Principati uniti 4,010,000
la Russia —aecondo VEtn^grafia di D. Brckert
(Pietrob. 1861) 770,000
In Turchia, Daco e Macedo-rumani .... 350,000
Kell'Àustria, giusta la statistica ufficiale del B.
C»6rnig , . 2,4aè/m
Nella Serbia, secondo Lelejan ...... 401,000
In Grecia, giusta TAyer 40,000
7,71^,00» (▼•«*
332 BIVISTA OONTBMPOBANBA
anime. Reden opina che per le condizioni naturali favorevolissime
del suolo che occupa^ e per l'indole vivacissima e geniale de' suoi
abitanti, questa razza sarebbe destinata ad esercitare una grande
influenza sull'Oriente se fosse attiva/ vigorosa e morigerata. Ma
queste qualità, a parere dell'autore, mancano ai Rumani. Gli av-
venimenti succeduti nella Rumania dopo la pace di Parigi infirme-
rebbero però quest'opinione , avendo essi provato che i Rumani
non ismentiscono il sangue latino che loro corre per le vene , e
che mostrano, se anche a un grado minore, la maturità politica e
il senno civile della schiatta consorella.
. Gli Albanesi si divìdono in due rami principali, i Toski dell'Al-
bania meridionale e i Gheghi della centrale e nordica, che si dif-
ferenziano pel dialetto che parlano^ e si detestano talmente, che la
Porta Ottomana sa adoperare gli uni contro gli altri. Questo popolo
da una parte non occupa che il territorio che prende il suo nome,
dall'altra stanzia in mezzo a popoli a lei estranei. Gli Albanesi si
trovano in tutta la regione posta fra la Morata e la Toblica, for-
mante la Serbia turca , e più che altrove hanno stanza nel regno
di Grecia. Formano in numero di 200,000, la quinta parte della
sua popolazione, e la maggioranza di questa nella Beozia, nell'At-
tica, nella Megaride, nell'Argolìde, e in molte delle sue isole. Nella
Turchia europea sono in numero di 1,600,000. Non si può sor-
passare che in Austria se ne trovano 2500 presso Zara e ne' Confini
militari , e ben 86,000 nel Napoletano dove emigrano sino dal
1460 (1).
Gli Armeni, in numero di 150,000, sono dediti per Io più al
commercio, ed occupano le città.
Dei 125,000 Israeliti , 37,000 abitano Costantinopoli, 6000 la
Tessaglia, 62,000 la Moldavia, ecc.
Lo spirito di partito ha esagerato il numero dei Greci della
Turchia europea, confondendoli con tutti quelli che professano la
religione greco-orientale. Reden non vuole seguire alla cieca Tubi-
cini, ma dall'analisi della popolazione delle singole provincie della
Turchia quale fu rilevata in scritti speciali, deduce e ritiene che il
loro numero si possa stabilire a 1,050,000, di cui 285,000 nelle
isole, 265,000 nella Tessaglia, 320,000 nella Romelia e a Costan-
tinopoli, 180,000 nelle rimanenti provincie.
Le notizie ufficiali fanno ascendere il numero degli Osmani a
1,100,000. E tuttavia Reden ritiene ch'esso sia esagerato, e non
superi 1,055,000, di cui 270,000 nella capitale, 210,000 nella Ro-
(1) Non a 86,000, sibbeae asceadono neiritalia meridionale a 122,000,
secondo la statistica data dal Morelli (Napoli 1859) ; nell'Austria 2000,
secondo Czòrnig; in Russia, giusta il Latham, 1,300. (V-R)
LA PENISOLA 3LAT0-BLLBNI0A 333
raelia, 375,000 nella Bulgaria, fra' quali molti Bulgari rinnegati,
150,000 nelle provincie di Salonicchio e Jannina, e 50,000 altrove.
Ed ecco lo specchio che Reden presenta della popolazione della
Turchia, divisa per schiatte, rettificando quello di Ubicini.
i. Slavi-.
Per cento
a) Bulgai
i . . 4,500,000
27,97
b) Serbi .
. . 1,500,000
9,32
e) Bosnesi . . 1,450,000
9,02
<Ó Altri rami . 250,000
1,58
7,700,000
47,89
3. Rumani
. . 4,300,000
26,74
3. Albanesi
. . 1,600,000
9,94
4. Osmani . ,
. . 1,055,000
6,55
5. Greci , .
. . . 1,050,000
6,53
6. Armeni .
. . . 150,000
0,9S
7. Ebrei
. . . 125,000
0,78
8. Zingani . .
. . 80,000
0,49
9. Tatari .
. . 25,000
0,15
To
tale . 16,085,000 (1)
100,00
Se anche i singoli dati di questo prospetto possono essere ine-
satti, le proporzioni che vi si osservano sono certe, e suggeriscono
alcune importanti conseguenze.
Fra i popoli che abitano la Turchia europea, i Bulgari e i Ru-
mani sono ì più numerosi^ formando gli uni e gli altri un quarto
della popolazione totale. Che se si abbracciano tutti gli Slavi, questi
(1) Secondo Kolb, Handbuch der Vergleichenden StatisUk. Lipsia 1B69.
p. 382, queste cifre dovrebbero essere :
Slavi
6,200.000
Rumani
4.000,000
Albanesi .
1.500,000
Osmani
2.100,000
Greci
1,000,000
Armeni
400.000
Ebrei
70.000
Zingani
240,000
Tauri
. , 44,000
È però evidente che si attribuì un numero eccessivo agli Osmani. Ve-
dasi Lelejan (op. cit.). (Y^B.)
SM vmnA ommcPOftJLiaiA
soli le oofititaìscMo U metà, e coi Ruintm tre quarti , mentre gii
A)bAfi6SÌ rìwtrano col 10 V« , gli Osmaiii e i Greci sepànatamefite
con 6 1/2 V<»- E tuttavia, osserva raotore, questi ultimi, quali ante-
sigaani della Chiesa Onenlale esercitano una preponderante in-
fluenza sui destini della penisola, e sono alla testa dei movimenti
politici che la sconvolgono.
II. Beligiatie
L'Ubicini / che nella seconda edizione della sua opera sulla
Turchia accrebbe di un miUone la popolazione di razza turca, per
esser fedele al preconcetto diviaamento di giustificare in qualche
modo la signoria degli Osmani, riduce gli 11,370,000 professanti
la religione greco-orìenlile della prima edizione a sdii 10,000,000
nella secoiJa> e fa salire i Kaomettani da 3,800,000 a 4,550,000.
Beden dopo accurati studti giunge a diversi risultati, e dà il vero
suo posto a ciascuna deHe cmifessioni religiose detta penisola.
I dati piò precisi e sicori risguardano i Cattolici. Di 915,000
che si trovano in tutto l^impero Ottomano fra Latini (650,000),
Greci uniti (35,000), Armeni uniti (75,000) , Sirj e Caldei uniti
(35,000) e Maroniti (140,000), 650,000 vivono nella Turchia eu-
ropea cosi divisi ;
Costantinopoli 60,000
Albania del aord con 7 vescovati
e 103 parrocchie .... 96,000
Ersegovina 43,000
Arcipelago , . 110,000
Altre Provincie 843^000
Intuito . . 650,000
I fedeli delia Chiesa Oriaitale ammontano a ben 11,080,000.
Alla religione Maomettana appartengono: i Turchi, quelli fra gli
indigeni che subito dopo la conquista degli Osmanidi per sottrarsi
al servaggio e alla spogliazione abjurarono la fede de' padri , e
finalmente i piccoli recenti gruppi di rinnegati. Essi ammontano in
tutto a 3,970,000, de'quali, 1,055,000 Osmani, 3,915,000 di altre
razze. È interessante in proposito il seguente quadro che ne offre
Reden , adesso sovratulto che i Maomettani i qual non apparten-
gono alla razza dominante cominciano ad avvicinarsi ai Crìsiiani*
hx ftaiìBOLA. auvo-BLunucA
aa»
Prorinoie
1. Costantinopoli . .
2. La restante Romelia
3. Bulgaria
4* Albania
5. Salonicchio e
6. Bosnia
7. Isole .
Jannina
Maomettani
Osmani
Di a)tr« razze
Totali
270,000
205,000
475,000
210,000
260»000
470,000
375,000
920,000
1,295,000
—
850,000
850,000
150,000
390,000
640,000
50,000
( 170,000
120,000
220»000
120»000
Totale . . 1,055,060 2,915,000 8,970,000
ovvero 26,24 7^ ow, 73,76 •/,
Questi dati potrebbero avere un capitale valore ove tn giorno
avvenisse cbe i Maomettani indigeni facessero causa comune coi
cristiani* La questione d'Oriente forse allora scioglierebbesi senza
grandi scosse inteme e senza immani catastrofi.
I Maomettani sono i padroni assoluti del paese , signori della
vita e delle sostanze de'raja. Ad essi i pubblici incarichi senza i
pubblici pesi, ad essi privilegii e lavori neiresercizio del traffico e
dell'industria. La pacificazione civile de' vincitori e dei vinti» de'
seguaci di Maometto e di Cristo che si voleva garantire col trattato
di Parigi, è rimasta una lettera morta, la quale, ove si volesse se*
riamente attuare, porterebbe l'immediato scioglimento dell'impero
Ottomano , provocando da prima l'opposizione armata (come se
n'ebbero prove recenti) dei Musulmani, poscia una generale solle-
vazione de' Cristiani. L'impero Ottomano ò, per la base stessa su
cui posa, condannato ad essere tale qual'è^ ovvero (se tenta rifor-
marsi radicalmente) a non essere. D Corano infatti arma il discen-
dente de' CaliflB del potere religioso e civile per la soggezione as-
soluta di tutti coloro che non lo abbracciano. La teocrazia trova
colà la sua più alta personificazione, e non può, pel fondamento
religioso cbe le serve di base, chiamare alla partecipazione de' di-
ritti civili chi non è musulmano. Vi si tollerano le altre religioni,
ma la suprema podestà sulle persone e sulle cose non può appar-
tenere che ai soli veri credenti, ai seguaci di Maometto.
Come signore del paese, il Maomettano abita perle più la città.
Esso è incapace di una continuata e forte ginnastica dello spirito,
e insuscettibile delle bellezze e de' vantaggi deirintellettuale col-
tura. E d'altra parte vive ancora delle memorie dd9e famose gesta
BinSTA OONTBMPOHANBA
de' padri, e ritiene, illuso com'è dalla supremazia ch'esercita^ che
il passato sia presente , per cui ha un esagerato sentimento di
se medesimo che cade nel ridicolo. Esso associa all'orgoglio una
gran dose di simulazione sviluppata per forza del despotisme.
Gl'istinti e i costumi orientali e la licenza santificata dal Corano lo
hanno dem<^ralizzato, ed hanno scavato un abisso fra esso e i Cri-
stiani, e reso impossibile qualunque avvicinamento, qualunque
parallelo sviluppo di essi. Questi contraposti non possono essere
tolti dalle buone qualità del Maomettano, quali sono l'ospitalità,
lo spirito d'equità, il rispetto delle virtù sociali, la gratitudine e
la compassione, e quella pronta rassegnazione alla volontà divina
che lo rende capace di qualsivoglia sacrifizio. Egli è per questo che,
sebbene egli abborra qualunque mortificazione del corpo, tuttavia
sostiene con pertinacia gli stenti più difficili tostochè i precetti
della sua fede e la cupidigia di lucro ve lo animano.
Le confessioni religiose della Turchia Europea si scompartono,
dietro le diligenti ricerche di Reden, come segue :
1. Chiesa orientale .
2. Maomettani . .
3. Chiesa cattolica .
4. Israeliti ....
5. Zingani ....
6. Altre conressioni .
11,080,000
3,970,000
650,000
125,000
80,000
180,000
(1)
Per cento
>
»
>
68,86
24,69
4,05
0,79
0,49
1,12
Totale . .
16,085,000
100,00
Due terzi dunque di tutti gli abitanti della Turchia europea
appartengono alla Chiesa orientale, e un quarto solo alla religione
di Maometto.
Non vi sono dati precisi per conoscere il movimento della po-
polazione nella Turchia. Un fatto solo è eerto, che i Cristiani sono
in aumento, comunque questo non possa essere rilevante pel triste
slato intellettuale, economico e politico in cui la razza dominante
li tiene. Ma questa alla sua volta è in continuo decrescimento.
Mentre sino alla fine del secolo xvii essa lanciava eserciti di Otto-
(l) Secondo Kolb (op. cit.) le cifre sarebbero :
(V-R)
Greci-Orientali
10.000.000
Maomettani
4,550,000
Cattolici .
640,000
Israeliti .
70,000
LA nNlSOLA 8Li.yO-BLLRNICA 337
mani sulle conlrade civili dell'Europa , e ne riempiva , dopo le
colossali battaglie sostenute colla Cristianità , i vuoti con mirabile
rapidità, Tesercito attuale di Abdul-Aziz non giunge a quei 200,000
uomini che il granvisir Kara-Mustafà condusse nel 168S sotto. le
mura di Vienna. Che scegli anche riuscisse con improbi sforzi a
formarne uno cosi numeroso, potrebbe rifarlo dopo una sconfitta?
Nessuno tampoco lo sogna.
Prova indubbia della decrescenza degli Ottomani è la diminu-
zione della popolazione turca nelle città in cui sogliono abitare,
p. e., Brussa, che aveva 100,000 abitanti, non ne ha adesso che
50,000 ; Erzerum vide i suoi 100,000 abitanti ridotti a 45,000 ;
Cesarea, che al tempo dell'impero d'Oriente ne avea 400,000, ora
ne conta 25,000 ; Antiochia che ne aveva 600,000^ ora ne numera
6,000; Jannina vide ridotti i suoi 40,000 che aveva sotto Ali Pascià
a 5,000; Prevesa che nel 1820 aveva 8,000 abitanti, ora ne ha
3,000; Arta che nel 1814 aveva 15,000, ora ne ha 5,000; Scutari
che nel 1831 ne contava 40,000, adesso non ne ha più di 18,000.
Cosi le leggi della natura si fanno ministre della Provvidenza,
e minano resistenza stessa di coloro che sull'opposizione altrui
fondano il loro impero.
Due fonti principali dell'aumento di popolazione dei Maomet-
tani si sono esaurite, l'acquisto di schiavi stranieri (specialmente
di prigionieri di guerra e di Circassi), e la conversione all'isla-
mismo diminuita d'assai e pressoché cessata. Cause gravissime del
decrescimento de' Turchi sono la demoralizzazione^ la poligamia,
quantunque minore di ciò che si crede, l'abuso di bagni a vapore,
il d^eneramento fisico della razza e la conseguente accresciuta
mortalità sovratutto ne' bambini, la barbarie del regime e l'abban-
dono del pubblico benessere, per cui Tagricoltura , il commercio,
l'industria e i mezzi di comunicazione si trovano in pessima con-
dizione, l'infelice stato sanitario e igienico del paese, e finalmente,
almeno per lo passato, la peste, la quale comunque sparita da al-
cuni anni, a parere di Reden, non è ancora spenta.
A 'completare questo quadro cosi poco attraente, é interessante
quanto non ha guari il professore dell'Università di Oxford, Goldwin
Smith, scriveva nel Daily News sull'insanabile decadimento della
razza turca a conferma dell'opinione di Reden ed a confutazione
di quella di lord Palmerston , che per iscusare in qualche modo
l'appoggio dato al recente prestito del governo ottomano in Inghil-
terra, esprimeva la ferma speranza nella rigenerazione della Tur-
chia. ( Se noi avessimo veduto un solo cadavere di questa natura,
scriveva il prof. Smith, forse potremmo scambiare la contrazione
postuma de' muscoli col ritomo della vita. La malattia delle finanze
338 RIVISTA CONTEMPORANEA
non è la radice del male. La radice del male è riposta in un'ab-
biella immoralità ch'esclude qualunque spirito di mortificazione e
di sacrifizio, qualunque sforzo necessario pel rinascimento di una
nazione. I Turchi non sono una nazione, ma un'orda degenerata,
guasta fino alle midolla, e moribonda. Le orde de' Franchi e de'
Goti sarebbero forse nello stesso modo deperite, se una migliore
religione non avesse combattuto la loro libidine^ e piantato in essi
il germe della vita nazionale p . Lord Palmerston dice che « la ri-
forma delle finanze è la base della forza di una nazione». Io mi
permetterò di osservare che la riforma della giustizia di cui vi ha
necessità in Turchia, non lo sia meno. Senonchè condizione del-
l'una e dell'altra è la nazionale moralità, e questa manca affatto,
né vi è pur speranza che alligni. Un turco farà discreti sforzi, anzi
commetterà i più gravi delitti onde procurarsi danaro pe' suoi pia-
ceri, ma non muoverà un dito per pagare i suoi debiti, e mollo
meno quelli dello Stato. Un turco povero ha bensì le negative virtù
dell'indigenza, ma ove lo s'innalzi al potere, diventa vittima della
più grossolana voluttà, e per conseguenza della corruzione, né altro
miglior fine si propone nella sua vita politica.
Lord Palmerston ha senza dubbio uno scopo diplomatico
« l'equilibrio europeo » davanti agli occhi. Io dal mio canto con-
fesso che né coH'aiuto della storia né con quello della geografia
arrivo a indovinare come l'esistenza di una mera impotenza possa
giovare alla conservazione dell'equilibrio europeo. La popolazione
della Turchia non è, come dice lord Palmerston, una • razza misla • .
Essa consta di due distinti e nemici elementi, i conquistatori che
sono per sparire e le schiatte vinte, la cui nazionalità fu salvata
da rovina mercè la religione. Né ho il più lontano motivo da rite-
nere, che per l'ingerenza da noi presa nelle condizioni finanziarie
della Turchia, l'odio religioso, come dice Palmerston, si ammansi,
e finisca col cessare affatto. Santa Sofia era una volta chiesa cri-
stiana, ed ora è moschea turca. Essa è destinata di nuòvo e presto
a ridivenire tempio cristiano. Per molti motivi io devo combattere
una politica che sarebbe cagione onde uno Stato cristiano come
l'Inghilterra provi dolore anziché gioia per un simile mutamento».
B. Grecia indipendente
Questo Slato componesi di una parlo continentale che si estende
al disotto di una linea tracciata fra i golfi di Volo ed Aria (Attica,
Megaride, Etoha, Acarnania, Beozia) sino allo stretto di Corinto;
della penisola di Morea (Laconia, Messenia, Acaja, Elide, Argolide,
LA VENISOLA SLAVO-ELLBNICA 339
Arcadia); deirisola di Eubea, delle Sporadi, delle Cicladi e d*Idra.
La sua superficie abbraccia solamente 895,88 ra. g. q. , e forma
appena il 4/2 per O/O di quella dell'Europa, e 2/3 della grandezza
della Baviera. Essa si divide, dal 1845, in 10 nomarchie (circoli)
e 49 eparchie (distretti).
La popolazione della Grecia, all'epoca della fondazione del reame
(7 marzo 1832) conslava, secondo Thiersch, 829,985 abitanti, se-
condo Urquharth 867,000. Questa cifra sembra tropp'alta, perchè
l'anagrafe del 1835 la portava a 674,185 abitanti, quella del 1840
ancor più esatta, a 856,470. La popolazione degli anni 1844, 1850,
1852 appare la seguente :
1844 1850 1852 i})
930,300 995,866 1,002,112
L'emigrazione cagionata dalla poca fecondità del suolo di alcune
Provincie, e l'assenza all'estero di molti Greci ritardano l'aumento
della popolazione, la quale nell'anno 1852 non contava per media
pili di 1119 abitanti sopra un miglio g. q., ed occupa sotto questo
aspetto appena il 53^ posto in Europa. Ove lat5recia avesse la den-
sità della popolazione della Prussia, essa dovrebbe avere 2,970,000
abitanti. —Solamente quattro città hanno più di 10,000 abitanti.
Atene con circa 32,000, Idra, Ermopoli e Patrasso nell'Acaja; 85
contano da 2000 a 10,000.
La quasi totalità della popolazione professa la religione greca
orientale. Vi sono 24,000 cattolici nelle isole e piazze di commer-
cio eon un arcivescovo e tre vescovi, 1000 Maomettani, dì cui la
maggior parte nell'Eubea (Negroponte), e qualche centinaio di pro-
testanti ed ebrei nelle piazze commerciali.
Due razze del tutto distinte abitano la Grecia. La diversità della
statura, dell'aria del viso, de' costumi e della lingua che non ha
niente di comune col greco antico e moderno, fanno conoscere a
colpo d'occhio gli Albanesi come stranieri. Emigrati nel xrv e xv
secolo dall'Illirio e dall'Epiro, essi occuparono la più gran parte
dell'Attica^ della Beozia, di Corinto^ le coste vicine del Peloponneso
e qualche parte dell'interno della penisola , e più tardi le isole
dldra, Spezia e parte di quelle di Andros e Negroponte. Comun-
que avessero i caratteri di una razza del tutto distinta , e formas-
(1) La statistica del 1856 dà 1,067,216 anime. — I cattolici, giusta il
Kolb (3ediz.), sono 30,000. — Per nazionalità novera 700,000 greci pro-
prii, 280,000 Albanesi, 20 a 30,000 Armeni (credo abbia voluto dire Ru-
mani), e 500 Israeliti. (V-R)
340 RIVISTA. CONTBMPORANBA
sero la quinta parte della popolazione , e potessero quindi pesare
sui destini della Grecia, essi non pensarono mai alzare altare con-
tro altare, né congiurare coi nemici del paese pel servaggio morale
e civile di una patria , della quale divennero cittadini dopo avere
commisto il proprio sangue col sangue greco nella guerra decen-
nale dell'indipendenza. Per quanto questo giovine Stato sia laceralo
da partili, è certo ormai che questi due popoli si guardano come
fratelli e figli di una medesima patria, e che tulli gli Albanesi par-
lano, oltre alla propria, la lingua greca, e che ormai anche le lor
donne, quasi tutte, conoscono ambo gl'idiomi. Reden sostiene in
opposizione alla credenza di molti, che gli Albanesi sono indefessi
agricoltori e lavoratori, e che piuttosto peccano, a suo parere,
d'indiflerentismo ed ostinazione, e sono superati da' Greci in ope-
rosità ed abilità.
n nostro autore non vuole agitare la questione se i Greci mo-
derni sieno i discendenti di Milziade e di Temistocle , e di coloro
che fondarono l'impero d'Oriente, ovvero se, come altri vuole, de-
rivino dai coloni dell'Anatolia e parlino una lingua che è una bar-
bara trasformazione del greco antico. Non si può però negare,
lasciando intatta la questione, una perfetta corrispondenza di doni
naturali fra' Greci antichi e moderni, sia ch'essa derivi dall'identità
del suolo, del clima o del linguaggio, questo puntello , come dice
Reden , d'ogni intellettuale e morale sviluppo, o da quelle poche
goccie di sangue greco antico che si trovano ancora nella presente
generazione, e che con magica forza penetrano la massa del san-
gue straniero. Questa corrispondenza si trova senza fallo in quella
mirabile facoltà di discorrere propria della patria di Demostene e
di Eschine, e posseduta spesso anche dai Greci più incolti e mollo
più dagli istrutti. Questo dono che i Greci chiamano dono della
lingua consiste nel trovar sempre la parola acconcia e nello spar-
gere sul discorso, mediante un' aggradevole intonazione, luce ed
ombre. Non vi ha dubbio che tutti i meridionali dal più al meno
la posseggono, ma nessuno in modo cosi perfetto e mirabile come
i. Greci.
Da un'oppressione senza esempio nelle storie, e che presente-
mente pesa sugli Slavi e sui Greci della Turchia europea, i popoli
ohe abitano la Grecia indipendente si sono sollevali a Stalo libero.
Non è quindi da meravigliarsi se si veggano tuttora le traccio di
quella demoralizzazione, che è una necessaria conseguenza del
despotismo e della tirannide. Se la rapina, la frode e il mendacio,
queste infauste armi di cui i Greci si servirono altre volte per
combattere chi li opprimeva, non sono ancora spariti dopo conse-
guita l'indipendenza, si può egli dire per ciò che abbiano guastato
LA PENISOLA SLAVO-BLLBNICA 341
nelle radici il carattere nazionale greco, come alcuni sostengono?
Reden risponde risolutamente che iiOy e dice che se l'istruzione
nulla può sopra una natura pervertila, e se invece è dimostrato
che dall'epoca del risorgimento della Grecia, la moralità, il rispetto
alla legge , l'onestà hanno progredito, si deve conchiudere che
quelle reliquie di un triste passato non sono passate in natura.
Quest'opinione si fonda sulla certezza che nella Grecia sono diffuse
virtù civili e private che non potrebbero coesistere con una demo-
ralizzazione radicata o generale, e che anzi sono capaci ad estir-
pare poco a poco i tristi effetti di spaventevoli calamità. Se un
egoismo senza cuore sì fosse insignorito degli animi, quei vizii dai
quali singoli soltanto, come in ogni paese sono attaccati, sarebbero
insanabili. Ma quando vediamo da' Greci praticate le più belle virtù
familiari, e il candore del costume, la fedeltà coniugale, l'ospitalità
tenuti in onore^ quando ricordiamo quei prodigii di eroismo pale»
sali nella guerra dell'indipendenza che hanno rinnovato le gloriose
lotte di Maratona, di Salamina e delle Termopile, dobbiamo dire
che un popolo, il quale conserva cosi profondo il cullo della fami-
glia e della patria, non solo non è guasto, ma è capace di qualun-
que grandezza morale e civile. Purtroppo avviene che quando il
despotismo col suo braccio di ferro e colle arti più abbiette del mal
governo ha cercato di uccidere fisicamente e moralmente un popolo,
per ultimo oltraggio cerca di diffamarlo, onde non possa più ri-
sollevarsi nella coscienza di se medesimo e nell'estimazione delle
genti civili. Ma anche questo attentato alla vita morale delle na-
zioni fallisce, e viene il tempo in cui esse subitamente e mera-
vigliosamente affermano la propria esistenza, e rivendicano la
propria fama.
Questo quadro che abbiamo delineato de'Greci moderni, mentre
pone in rilievo le virtù e i difetti della loro indole, contraddice da
una parte alle accuse lanciate ad essi da certi dotti che a volo d'uc-
cello hanno visitato la Grecia, e si son querelati di non aver po-
tuto ritrovare la loro antica Eliade, e smentisce le calunnie che
lo spirito di partito spargeva a loro carico, e che trovavano ali-
mento sino dalla fondazione del regno nei palazzi degli amba-
sciatori delle potenze protettrici. Non è lontano il tempo in cui
si dipingeva a tetri colori l'amministrazione interna della Grecia,
perchè un principe russo potesse salirne il trono , mentre l' In-
ghilterra ad impedire che ciò avvenisse, maltrattava il piccolo
reame più duramente delle isole Jonie da lei protette (1). Se le
(I) Lo avere i Greci prescelto per suffragio universale a loro Re il prin-
cipe Alfredo d'Inghilterra in luogo del detronizzato Ottone il Bavaro,
prova che l'Inghilterra non bistrattò quel reame. (V-R)
342 BIVISTA CONTEMFOBANBA
polenze protellrici, conchiude quest'oneslo e illustre (edesco, aves-
sero fatto la Grecia tanto grande da essere Capace di un regolare
sviluppo^ e da non avere bisogno della loro struggilrice tutela ,
allora i trentanni che scorsero dalla fondazione del reame avreb-
bero potuto servire di giusta base a un sicuro giudizio sull'avve-
nire del popolo greco.
Se ci fosse dato di passare in rassegna le condizioni economiche
della Grecia, mostreremmo ch'essa, ad onta degli angusti confini
del suo territorio, della scarsezza della popolazione e degli intrighi
della diplomazia ha fatto relativamente maggiori progressi del
Belgio, e ci persuaderemmo che la Grecia e la Serbia, posta al-
l'altro estremo della penisola, sono le due leve del risorgimento
deirOriente europeo.
Aw. Costantino Vojnovic.
343
PENSIERI
SUL ROMANZO INTIMO ITALIANO
DOPO MANZONI ^>
Fede e Bellezza^ racconto di Niccolò Tommaseo. Egli è uno
studio psicologico , il quale appartiene al genere del Werther e dello
Jacopo OrtiSy avvegnaché, come l'autore medesimo dichiara, sotto
nomi supposti vi si descrivono le vicende di due amanti misteriosi.
Il Tommaseo nell' ordire il suo racconto non si lasciò guidare a rigor
di logica, ma procedette innanzi a sbalzi, con volo direi quasi ca-
priccioso e lirico. Lungi dal seguire le ordinate e progressive fasi
di un racconto, egli pasta indifferentemente da un oggetto all'altro;
ora narra, ora disserta, ora descrive; non usa verun artificio per
nascondere il fine a cui mira ; ha spirito, eleganza, sentimento, ma
non la volontà necessaria per isfuggire gli accidenti del cammino
che lo distornano dalla meta; in sostanza il Tommaseo in codesto
suo pregievolissimo scritto arieggia piuttosto il moralista od il
poeta, che il romanziere. Ma sotto il suo punto di vista, quanta sa-
pienza, quanta bellezza ha egli saputo includere in sì picciol volume!
Da ogni pagina, da ogni linea, per così dire, trapela Tindole ardita
e delicata del pensatore, del patriota, dell'esule ispiratosi a reli-
gione pura, a filosofia vera e profonda, a4 immaginazione vivissima,
ad affetti alti ed intensi, e perchè si tratta di uno tra' più eleganti
scrittori del nostro tempo, e di tal componimento, m cui, più che il
soggetto della narrazione, deve ammirarsi lo stile e la lingua, credo
sia pregio dell'opera citarne all'opportunità qualche brano, nel men-
tre che ne andrò facendo l'analisi.
Il libro si divide in quattro parti. Nella prima l'italiana Maria
imbattutasi in Bretagna con Giovanni, pur esso italiano, gli racconta
(*) Vedi il fascicolo di Aprile.
344 BIVISTA CONTBMPOBANEA
la propria vita per simpatia nata in fra loro. Ciò avviene lung^ le rive
deirOdet, mentre l'uno e l'altra discendono insieme quel fiume. Il
modo di descrivere è succoso, a brevi tratti, incisivi, parlanti ; il
metodo è raro, le idee poetiche e vive, lo stile e la lingua eletti.
Ecco in qual modo egli comincia la sua narrazione.
e Scendevamo il fiume. Le rive ora accostate, ora ritraendosi in
« seni ameni, ora lasciando all'acque quiete ampio letto, mostravano
< qui l'ombre rade e là più fitte, qui l'erboso declivio, là il poggio
«sassoso, segnato di sentieretti che s'inerpicano lenti per l'erta.
« L'erbette, che facevano sdrucciolevoli gli scogli dappiede, col verde
« vivo avvivavano il luccicare dei fiori sopra tremolanti ; sotto il
« cielo placido e fosco gli alberi parevano spandere più rigogliosa
« la vita. Montava il flusso marino ; e scossa ad ora ad ora da un
« buffo di vento gocciolava la pioggia : sotto la pioggia vogavano
« in silenzio pescatori, uomini e donne, a cercare nell'alto il vitto
< alla povera famiglinola. Era di giugno, ma rigido il tempo : se
< non che una modesta pace, una delizia raccolta spirava nell'aria,
«simile alla malinconia di timida giovinezza. Il canto lontano del
« gallo chiamava a destarsi la campagna dormente : e molti uccelli
« con le vispe voci facevano alla primavera restia dolce invito. Maria
«guardava alle nubi, alle acque dell' Odet, a Giovanni; egli sotto
«le nebbie della Bretagna pensava all'Italia. Sbarcarono a dritta ; e
«lasciato ire il barchetto a Benodet, si raccolsero in una casuccia
«abbandonata, e misero fuori un desinarin(^di verdura, ova, frutte;
< e il sedile ch'era lor mensa e la terra sparsero di fiori bianchi, gialli,
« celesti, colti sui massi sporgenti. Finito, sedettero sull'orlo dell'ac-
«qua, che il cielo era un po' serenato >. Maria è la vittima di un
fallo, è la donna errante, e la sua vita che comprende una serie di
strani casi, di speranze e delusioni, di amori, di tradimenti, di sven-
ture, la si legge con piacere, curiosità e compassione ad un tempo.
Orfana a sedici anni, per la morte del padre veterano delle guerra
napoleoniche, fu costretta partire di Pisa, onde ricoverarsi presso
una zia in Corsica. Passando di Bastia ella usci sola per vedere dal
poggio alla Croce il cimitero, ove sepolti suo padre e sua madre.
Tenere immagini ! « Salii l'erta ansando. La luna dava sul colle de-
« solato, sulle tombe rade, sulle umili croci. Cercai col pensiero sot-
« terra, tra' cadaveri ignoti, le due spoglie care ; mi parve di ritro-
«varie; e inginocchiata pregai. Bitta in piedi, guardai la marina
« spumante, la città queta, il cielo sereno ; diedi un ultimo sguardo
«al poggio della morte; e scesi, ora incespicando ne' cardi, ora
q: sdrucciolando a passi spessi pèrla rapida china».
Poco dopo capitata in Ajaccio certa Blandin, vedova di un cugino
del padre di Maria, coLpretesto di rafSnarne l'educazione conduce
PBN8IBBI SUL ROMANZO INTIMO trALIAKO 945
•eco la gioTinetta a Parigi, ma, perdutissima donna ch'ella era,
per gittarla inTece nel &ngo della corruzione parigina.
B qui, dopo il bel quadretto casalingo, in cui si descrivono alla
partenza di Maria le amorose cure della buona zia di Aiaccio, ti
YÌen sott'occbìo l'orrìbile dipintura della donna traviata. Com'ella
deplora la sua triste situazione! eli disonore!.... Questo mi dice-
€ vano gli sguardi, il silenzio della gente. L'anima nessuno la vede;
< e con che sentimenti nobilitassi il mio stato, con che dolori lo
e espiassi, nessuno sapeva: ma ch'era mantenuta, lo vedevano tutti.
« n mondo è cosi ; i più corrotti scusano certe cose in generale e
e per sé ; nel fatto, e in altri, le dannano con freddezza spietata. Egli
e verso di me di giorno in giorno men tenero ; qualche lite per baz-
f zecole stiracchiata fino a stuccare ; qualche bottata di nobile, tnddà
€ e acuta. Io lo lasciavo fare chiusa in silenzio tra rassegnato, su-
€ perbo, tìmido, e disperato. Mi struggeva sola in pensieri senza la-
€ grimo ». La Maria era stata venduta dalla Blandin ad un principe
russo, il quale ben presto l'abbandonò. La disperazione di una donna
deserta ed oppressa non potrebbe essere meglio descritta.
e Àf^na ebbe chiusa la porta, caddi sopra una peggìolà come
e tramortita. Quanto cosi rimanessi, non so. Scossa a un tratto, presi
« una ooroncina, memoria di mia madre : i cento franchi che la mia
€ povera zia d'Àiaccio mi aveva messi insieme al partire ; e cosi in
« capelli, uscii lungo Senna. Uscii senza pensiero di morte. Chi ha
e forza d'uccidersi, è segno che soffre meno, perchò il gran dolore
€ tronca la volontà. Non conoscevo nessuno a chi confidarmi. Fosse
« stata aperta una chiesa, o il giardino! Il primo pensiero fu prò-
€ strarmi a pregare ; poi gettarmi sotto un albero delle Tuillerie, ed
« abbracciare la terra, e gridare il pianto senza parola. Giunsi al
« Ponte reale, e mi posi sugli scalini, la fronte sulle ginocchia, i
e capelli sugli occhi ; sopra&tta, più che disperata, non poteva fis-
€ sare il pensiero nello stato mio ; quel che io sentissi, non rammento :
e ma veggo ancora la notte tranquilla e cupa, la luna simile a nu-
€ vola pallida , le stelle dubbie , ritirate nel fondo. Stavo come in
f letargo».
Muore frattanto la Blandin nel carcere dei debitori a Clicby, e
Maria si rifugia per lavorare presso Rosa, giovine operaia lucchese.
Se non che vedendo come questa ingelosisce del suo damo, ella per
prudenza è costretta allontanarsi. Sono scene piene di verità e di
cuore. La morte dell'iniqua Blandin è dipinta al vivo con pochi
tocchi.
e Di via di Sèvre in via Clicby camminammo noi due poverette, mal
e coperte ; e l'acqua diaccia spruzzata dal vento c'inzuppava di sopra,
e la mota da' piedi. Arrivammo intiriszitei tossicando, al letto di lei
34ft BIVISTA CONTBMPOBANBA
ceche moriva. Quanto mutata dairaucor vispa donna d*un mese fa!
« L'alito sibilante, rotta la voce e dura, le occhiaie azzurre sul giallo,
« le grinze intorno fitte e schifose più che di vecchia ; gli occhi er-
«ranti. Sole le braccia, belle tuttavia, facevano più spaventosa la
e morte. Sprofondata in sé quell'anima pareva non sentire le cose
« di fuori, e pur si protendeva a quelle, e cercava brancolando la
«vita. Mi disse: addio per sempre. Maria. Vi ringrazio; domando
« perdono. Pigliate esempio. Pregate per me che non lascio nessuno
i( al mondo.;... Dio mio! — Si contorse, si distese, e spirò n. — Quindi
Maria trovandosi affatto sola, dopo molto girovagare, dopo molte
lusinghe di amori e di amicizie, disillusa, schifita, col mezzo dì un
buon prete vien posta fra le suore di carità di Lione. — Più tardi
inviata da queir ecclesiastico presso la famiglia di lui a Quimper in
Bretagna, quivi ella trovò accoglienza di cuore, e lavoro.
~7 La seconda parte del racconto del Tommaseo contiene la vita
di Giovanni, la quale è descritta in un giornale, dove questi aveva
segnato, come asserisce egli stesso, a sbalzi dal 28'' al 35^ anno del-
Tetà sua, molti proprii casi, impressioni e pensieri in tempi e luoghi
diversi, e sopra diversi oggetti. Vi è in quel quaderno gran copia
di alti concetti filosofici e religiosi, vi è largamente impresso T amore
della patria, lo studio del cuore umano, e delle razze europee ; vi è
infine una poesia elevata e vergine, che si rivela ad ogni pagina
con- immagini vive, nuove, e con frasi concettose, rapide, profonda-
mente espressive. I^ vita di Giovanni consiste in viaggi da lui fatti
in Italia e in Francia, in fine dei quali conobbe Maria, a cui diede
il suo giornale perchè lo leggesse.
Cosi l'autore, a luogo di fare una nuova minuziosa narrazione,
adopera questo ingegnoso, quantunque non peregrino mezzo, per dare,
con qualche varietà, contezza delle avventure del nuovo amante di
Maria. Come sono belle le meditazioni poetiche, e le descrizioni !
, « Le bellezze sono nell'anima del riguardante, messevi e commos-
«sevi da Dio; le cose di fuori non fanno che destare l'armonia del-
« l'interno strumento. La natura men bella ti rimanda, ti riconduce
« alla bellissima che già contemplasti, o nella quale, non sentita, pò-
« sasti come fanciullo dormente tra' fiori. E allora un'acqua torba
« che sotto cielo nebbioso non renda il verde fitto della sponda, una
«riviera acclive ed ignuda, un' isoletta alberata tutta, una proda
« qua e là ingiardinata, dove nella Loira si guardi la rosa del Gange;
«allora lo scorrere tacito de'battelli sulle meste acque, e gli alberi
« delle barche che alla vista si confondono con que' della riva, o pa-
« jono crescere sul medesimo suolo, e le case sparse che dalla spiaggia
«vanno salendo il dolce pendio; allora un uomo che seduto su un
«ponte legga o guati quasi stupido l'acqua che infaticabile va; al-
PENSIERI STL BOMÀNZO INTIMO ITALIANO 347
« lora un lume che nejla notte trapeli dalle finestre mal commesse
«di lontana casupola e poi dispaia; un raggio di sole che vincaia
« nube, e distingua d'ombre vive e di luce la terra, e saluti la cara-
«pagna assorgente a quel cenno, com'esule fuggitivo saluta la
«donna amata e amorosa; allora una scossa di pioggia, e il rusi-
«gnolo.che suJl'umide foglie canta un poco e poi tace; ogni atto,
«ogni ammiccare a te della santa natura, ti riferiscono di vitali
«saette d'amore l'anima consenziente ]>. —
E quanto nuove ed intime le riflessioni sulla donna 1 «Rao-
« colgo nella memoria le donne che pensai con affetto. Sotto a quei
« visi arridenti, come sotto maschera fine ma opaca, altri vi si na-
« scondono (gli aspetti deir anime) assecchiti, contratti, grondanti di
«pianto. Oh! chi potesse in un punto vedere quant*arie, e quante
«cere, e quante fisionomie fece aspetto di donna dalla pubertà al-
«Fagonia! Varietà tremenda, tremenda unità. Lieta schiera a ve-
« derla ! Candide nel pallore, candide nel rossore, pallide nel bruno
« bramoso; ardite fattezze o tenere; gracili o forti, alte o poche della
«persona; di città, di campagna; sull'erta, sul pendio della vita;
«da' suoi spregiate o dilette; beate di povertà monda o afflitte di
«gn^ve ricchezza; in Dio raccolte, di lui non curanti; significanti
« l'amore con lode lontana , con lunghi sguardi , con brevi parole,
« con dimestichezza procace. Non lunga schiera, e pur troppa ! E già
« 1 nomi delle più mi fuggirono: e i visi riflessi, quasi in acqua com-
« mossa, tremolano nel pensiero, e l'un nell'altro si confondono: e
« da quell'ondeggiare contraffittti per poco si ricompongono più gen-
«tili che main.
Da codesto scambio di confidenza nacque un mutuo affetto tra
Giovanni e Maria che li condusse al matrimonio, ed è in eiò la ma-
teria della terza parte del libro, nella quale è 'da osservare una pro-
fonda analisi del cuore umano. Cosi la quarta parte abbraccia la vita
coniugale dei due amanti, fino alla morte di Maria, che mancò per
tisi. Dopo la magnìfica descrizione del duello tra Giovanni ed un
francese, che aveva in sua presenza insultato l'Italia, bisogna ammi-
rare in quest'ultima parte dell'opera il quadro della malattia e della
morte di Maria, che è quanto di più toccante e vero possa immagi-
narsi, e sforza il lettore al pianto. Basterebbe questa sola descrizione
per assicurare al Tommaseo la fama di valentissimo scrittore e filo-
sofo. — In conclusione il racconto Fede e Bellezza, sebbene succinto
e povero di grandi e svariati intrecci, non può non essere caro ài
lettori, specialmente istruiti, i quali dovranno mai sempre accordargli
il pregio inestimabile di uno stile puro ed elevato, il naturale e ragio-
nato svolgimento delle passioni, una certa novità di forma, ed un sor-
prendente artificio nell' esporre le soavi e sublimi idee, di cui è pieno.
348 BITISTA 00NTBMP0BAN1EA
Non avevo appena gettate sulla carta queste mie osservarioni
sull'opera del Tommaseo, quando mi pervennero i racconti del gio-
vine veneto Ippolito Nievo, svegliatissìmo ingegno ahi groppo imma-
turamente e crudelmente rapito airitalia nel più bel verde degli anni
suoi, dappoiché dopo avere strenuamente combattuto nelle file di
Garibaldi, spari nel 1861 fra le deplorate vittime del piroscafo VEr*
cole ingoiato dal mare mentre salpava dalle coste di Sicilia. Bgli ci
ha lasciato II Conte Pecoraio, Angelo di bontà, e Le Avventure del
barone di Nicaetro, oltre alcune novellette.
Nel Conte Pecoraio il Nievo descrive le vicende di una giovinetta
contadina del Friuli Maria di Torlano, figlia del così detto Conte
Pecoraio, perchè povero pastore di pecore, sebbene legato in paren-
tela col conte feudatario di quel castello. La storia di Maria di
Torlano ha molta analogia con quella dell'Angiola Maria di Garcano;
però vi è questa diversità, che nella Maria friulana abbiam lo
sconcio di una seduzione con tutte le sue conseguenze non troppo
indicate pe' libri che debbono porsi anche in mani di costumate fan*
ciuUe. — Codesta giovine friulana era amata schiettamente dal buon
contadino Natale Romano, ma partito questi per l'esercito, ella restò
vittima del conte Tulio di Torlano, sfrenato e malvagio figlio della
feudataria. Convinta che il suo seduttore l'abbandonava a fine di
sposarsi con una ricca damina, ella s'involò dalla casa patema per
nascondere gli effetti del suo disonore, e andò ramingando qua e là,
finché divenuta madre ebbe modo di allogarsi col suo bambino in
qualità di serva presso la doviziosa famiglia Del Campo a Bereguardo.
Dopo alquanti giorni giunse all'improvviso il fidanzato della giovine
padrona Emilia Del Campo, e qual non fu Tangoeciosa sorpresa della
infelice Maria scorgendo in lui non altri che il conte Tulio di Tor-
lano ! Quadro importante, uno dei migliori e dei meglio toccati del
romanzo. L'iniquo conte Tulio, intimorito che la presenza di Maria
in casa Del Campo possa guastare il suo matrimonio con Emilia, si
appigb'a ad orribil mezzo per allontanare la infelice giovinetta. Egli
è forse per riescire nell'in&me progetto, quando arriva colà Santo»
il padre di Maria, il cosi detto Conte Pecoraio, che è sulle traccio del
seduttore di sua figlia per vendicarsi alfine di lui. Il vilissimo Tulio
sen fugge. Santo inseguendolo il trova nel di appresso moribondo
per febbre acuta di cervello, che nello spavento gli è sopragiunta »
ed in poche ore lo trae a morte. La Maria, fuggita anch'essa col
bambino all'arrivo del padre irritato, vien sorpresa per via dalla neve
e dal freddo, e si rifugia in una cappella sulla via, dove le muore
il figliuolbio fra le braccia. La è una rara pagina di dolore, di pietà,
di tenerezza , e merita bene, che io qui la citi come saggio di eie*
vate scrivere.
PBMSIBIII SUL BOMANZO INTIMO ITALIANO 349
t Si partì dunque il mattino dopo, lesta lesta/ parendole quasi
d'essere a casa, non badando al cielo gelido e bianchiccio, donde
si staccavano a quando a quando granelli di pioggia ghiacciata.
Avera fotto cinque miglia dal casolare, oye aveva passato la notte,
quando saltò addosso al Luigino un febbrone così improvviso e
ga^iardo, che quel suo corpicciuolo sobbalzava fira le braccia della
madre; e costei si guardò intomo, a vedere d*onde potesse sperare
soccorso, ma pertutto era uno spazio interminabile di pascoli lu-
centi di brina; e solo lontano lontano, e sulle prime colline sor-
gevano alcuni caseggiati. Sedette allora smarrita affatto sopra un
mucchio di ghiaia con quel bambino in grembo ad aspettare la
morte, e la sembrava dire con quello stanco atteggiamento : — Io
ho fiitto quanto ho potuto, o buon Dio! provveder oltre tocca a
voi. — Le nubi intanto si sdoglievano in larghe falde di neve, che
vivano giù lente lente senza sibilo di vento o mugghio di bu-
fera; e la Maria infetti non se ne accorse, finché qualdie fiocco
essendone volato sul viso al bambino, levati essa gli sguardi vi-
trei nel cielo, li smarrì per quell'infinito turbinio di candidi wfàc-
chi. La neve fioccava da un quarto d'ora; ond'ella levandosi, tutta
bianca le vestimenta, con quel bimbo sfrato paurosamente con-
tro il seno, in atto di stupore ed afihnno, presso quel monticello di
ghiaia simile al tumulo di un giustiziato, off!riva la vera immagine
della disperazione. Tutto ad un tratto parve scendere il soffio di
Dio in quella statua; le rigide membra si sciolsero, e si mise ad
una corsa sfrenata; finché adocchiata sul ciglio della strada una
cappella, quali ve n'hanno per qué' stradali deserti, a ricovero dei
passeggieri, scese ad accovacciarsi in un angolo, proteggendo della
persona il bambino contro il freddo e il nevischio. Ma quella
creaturina traeva a stento il respiro; invano sua madre le porse
il petto già quasi inaridito ! Indarno la scaldò del suo fiato, la co-
pri de'suoi baci, la inondò delle sue lagrime I Indarno pregò Iddio
e la Madonna che si togliessero lei, di tanto peccatrice, e salvas-
sero il figliuol suo! Oià le membra tenerelle parevano sciogliersi
come la cera, e le Iabl»ra appassivano come foglie di rosa colte
dalla brina, e gli Dcchì sì socchiudevano, quasi beati di aprirsi di
dentro a una luce più bella ; e la Maria , sperando che cosi lene-
mente si addormentasse, lo cullava sulle ginocchia; mentre l'anima
di lui tornava al grembo di Dio così pura come quando n'era uscita.
Bestando dal ninnare al vederlo cosi quieto, voleva essa stringergli
meglio una pezzuola intomo al collo; e nel por mano a ciò sfio-
ratagli la bocca la sentì fredda come la neve. Quel freddo le corse
al cuore, alla povera madre!.... e già prima che la sua mano fosse
giunta a interrogare il petto del bimbo, stramazzò sul pavimento,
stringendo quel corpo inanimato fra le braccia»,
368 BIV18TA CONTEMPOBANBA
AUa. perfine, cessati i guai, rappattumata col genitore, ella torna
alla casa paterna, ed isposandosi al Natale giunge a gustare la fe-
lioità domestica. Nel capitolo 28**, in cui Natale Romano, reduce
dall'esercito, incontra Maria nella cappella quasi esanime nell'atto
che il di lei bambino è morto, e la conforta, e non solo non le rim-
provera il fallo, ma ne attribuisce a se stesso la colpa per essersi
da lei allontanato, si racchiude tanta potenza d'affetti, da poter de-
stare la più profonda commozione.
Non manca in questo lavoro del Nievo qualche stramberia nel-
l'intreccio, qualche capitolo nojoso, molta ricercatezza nello stile tal-
volta soverchiamente leccato, ma in genere vi è un fine morale e
retto, molta verità, e soprattutto molto cuore, perlocchè, tutto ben
considerata, merita di essere definito un bel racconto.
— LAngth di bontà è un quadro di costumi veneziani del secolo
passato. Il vecchio inquisitore Permiani vuol provvedere alla sua
successione, e si sposa alla leggiadra giovine Morosina figlia del
podestà Alvise Yaliner. Mirando il vegliardo freddamente al suo fine,
permette, anzi favorisce apertamente e segretamente i convegni fra
la sua sposa e il primitivo di lei amante, il giovine cavalier Celio
Temi. È un esempio assai sfacciato della corruzione di quei tempi,
ma la curiosità vi è in sommo grado, sono piacevoli i dialoghi, belle
le descrizioni, ed elevati i concetti. La virtù di Morosina impedisce
che quella immoral tresca si compia. Frattanto Celio si reca presso
Asolo, e prende parte ad una ribellione contro la Repubblica ; i ri-
belli sono arrestati, d'ordine degl'inquisitori, a meno del cavalier
Temi (le parzialità, il protezionismo fu il vizio di tutti i luoghi e
di tutti i tempi), lasciato andar via libero per segreta istruzione del
Formiani, il quale tenta ancora una volta di farlo unire con Moro-
sina. I due giovani, benché innamorati, virtuosamente si dividono,
donde la mente del vecchio si eleva a più degno progetto, e venuto
a morte, lascia a Morosina la sua eredità, ch'ella poi, dopo sei mesi
di lutto, divide con Celio sposandolo, e vivendo "con lui felicemente.
Il finale è preveduto, molto comune e freddo, e si rassomiglia a
quello di molte vecchie fovole* Il Nievo ha voluto darci nel Forrnhini
il carattere rifonttante del più spudorato dei mariti, e per evitare un
intreccio troppo indecente ha dovuto ideare in Morosina un angelo
di bontà inverosimile, e quasi impossibile. Nullameno la figura po-
litica e sociale ddr inquisitore è ben disegnata, e quella di Morosina
spicca mirabilmente lucida fra tante fosche o ridicole ombre che
l'attorniano. Nell'insieme questo romanzo mi sembra inferiore al-
l'altro del Conte Pecoraio. —
Le Avventure del barone di Mcastro costituiscono una novella,
0 racconto fontastìco, che ha qualche rapporto coi viaggi di Ro-
PBKSIBRI SUL BOMANZO INTIMO ITALIANO 38(1
binson Crosuè , ma con questa differenza , che liobinson viaggiò
per pura curiosità, ed il barone di Nicastro per un fine altamente
filosofico, quale era quello di cercare la virtù, ovvero la concordia
della virtù colla felicità, la trina armonia diaiettica di Pitagora. Fatto
il giro dei due mondi , dopo infinite e strane sventure in tutti i
punti conosciuti e presso tutti i popoli del globo, il barone di Nicastro
toma al suo castello in Sardegna, e stabilisce il principio, frutto delle
sue lunghe esperienze - Pesar poco, pensar nulla. — Questo racconto
è più nuovo e più originale di tanti altri. Prescindendo dalle esa-
gerate finzioni di alcuni fatti che hanno dell'ariostesco, vi è grande
abbondanza di giuste riflessioni filosofiche, di osservazioni analitiche,
e di spiritosi frizzi rapporto alla società ; vi è un attento studio dei
costumi di tutti i popoli, ed in pochi e rapidi cenni l'immagine della
multiforme e disseminata razza umana. La curiosità poi vi è grande,
e si legge con piacere dal princìpio alla fine. Il dialogo del barone
col dotto francese è vivissimo, e porge un'idea piuttosto esatta della
moderna società di Francia. Non vi mancano, secondo il solito me-
todo del Nievo, buoni principii fondamentali, e lungi dal seminarvi
i principii sovversivi, di cui sono soventi infarciti alcuni moderni
componimenti, l'autore vi ha intromesso le basi del vero e della mo-
ralità, e quando il barone prima di morire si convince, che la sor-
gente delle infinite contraddizioni, delle infinite miserie nostre non
è altro che il dualismo fra l'anima e il corpo, egli non trova un
termine conciliatore, una quiete finale, che nel pensiero dL Dio ! —
Le belle doti di mente e di cuore, ed il retto giudizio del Nievo
brillano similmente nelle sue tre novellette.
La corsa di prova. Comincia con una pittoresca descrizione del
lago di Grarda; narra poi la semplicissima istoria di due giovani
sposi bresciani, che per aver lasciato la loro tranquilla dimora di
Gargt»no sul detto lago, per fare il giro dell'Europa, corsero rischio
di perdere labro folieìtà, di odiarsi, e dividersi. Tornati a- Gtirgntno,
furono di nuovo tranquilli e beati, dietro il principio propugnato
dall'autore, che Vuomo fa il luogo ^ e U luogo fa Vuomo, - Siegue La
pazza del Sagrino. La descrizione del lago Segrino, con cui si apre
la noT^a, è tanto più notevole per la sua originalità, perchò a di^
fetenza di quelle, che in più scritti si leggono, del lago di Garda,
del lago Maggiore o di Oomò, tutti luoghi. di delizia, ci fa conoscere
un lago solitario, mesto, silenzioso, non favorito dalia natura, il
raoooiito poi è pienissimo d'interesse. La povera Celeste, giovino-
contadina pazsa, eommove sino alle lagrime. La scena in cui si di-
vide volonterosa dal cadavere di sua madre, è ideata con grande
ingegno, e maestrevolmente sviluppata ; quelle, alle quali dà luogo
la di lei ingeouità, fra Camilia, GKuliana, e Leonardo, sono mirabili-*
3S2 RIVISTA CONTBMPOEANBA
Iti coDclusione questo raccontino è un vero modello d'ifpirazio&e, di
poesia, di novità, di affetti. ~ In ultimo, La viola di San Boitimìo è
moralissima, si legge col più vivo interesse e non la cede in pregio
alle altre. Se la morte, ed ahi quanto deplorabile ed inattesa I non
rapiva si presto il Nievo, l'Italia dopo oodesti saggi poteva e doveva
molto aspettarsi da lui.
eletto Arrighi pubblicò nel 1857 — Qli ultimi cariandoli, e più
recentemente — la seapiglialura e il 6 fetbraio. — I detti due ro-
manzi contemporanei racchiudono in alto grado il segreto di farsi
leggere avidamente. Se negli scritti del Nievo prevale forse Tarte
di descrivere e la forza di muovere gli aflfetti, in questi dell' Arrighi
è maggiore rartificio d'intrecciare con sorpresa e diletto, vi è più
sviluppata la parte comica ed il frizzo, più profonda ed accurata la
fettura delle scene intime della società moderna. Il titolo W ultimi
eorianioU non va inteso materialmente , ma simbolicamente, perchè
l'Arrighi ha voluto alludere in quel racconto ai primi tentativi ddk
grande rivoluzione italiana del 1847 , la quale innalzando le menti
a pih alte cose, doveva per omseguenza produrre, secondo lui, l'abo-
lizione di certi futili passatempi, dei quali si erano beati per tanti
areftdici anm i tranquilli e buont^nponi nostri antenati. Difitti qual'è
il nodo del romanzo? Ismene ama gelosamente Paolo suo marito;
una lettera anonima indirizzatale dalla Barbattola (che ha qpedali
motivi di astio verso Paolo) viene a spargere nel suo cuore il ve-
leno del sospetto, die il suo sposo ami un'altra donna. Per fktalità
Costanzo di Gastebanto di lei cugino la conferma nella crudele idea
partecipandole un supposto intrigo di Paoto con donna amata da lui.
Ne deriva, die Ismene cade inferma, e spinta dalla gdosia weone
sola di notte alla casa della pretesa rivale; ma affranta dal dolore
e raccolta sul suolo semiviva, non appena tra^>ortata nel suo appar*
tamento, abortisce e muore. Ora la creduta rivaie di Ismmie era Ida
Piertini, bella e giovine vedova, ma seria ed onesta, e Pado freqoMi-
tava soltanto la casa Piertini perchè vi era il convegno di una se-
greta società politica, di cui egli faceva parte. La morte d'Ismene
non è che il preludio di altrettante sventure, mentre Paolo, Castel-
santo, ed altri molti debbono fuggire da Milano per la discoperta
congiura; da ultimo l'autore ci annunzia freddamente, che dopo
qualche tempo Costanzo sposò Ida, e che Paolo si ritirò in campagna.
È una chiusa che lasda l'animo rattristato, e per giustificarla con-
viene app\into supporre, che l'Arrighi abbia vduto dare al finale
del suo racconto una tinta cupa, che meglio potesse imprimere nd-
l'animo del lettore non tanto i gravi effetti della vendetta e ddla
calunnia, quanto le dolorose conseguenze ddla persecuzione politica
e della oppressione straniera* — Non taceremo che leggendo codesto
PBNSIBBX BVL BOMANZO INTIMO ITALIANO » 353
TomBxao focemmo ii^lcbe pota. -^ La descrisiond della società ari-
stocratica in caaa Cellarovìgo (€ap. 7) ci sembrò troppo sminuzzata
e lansfuida, come il pottegolezs&o di dònne popolane (Cap. 10) presso
la Sarbattola alquanto noioso, forse perchè troppo protratto. I^a to-
letta di GaateUanto, cbe deve recarsi al veglione (Cap. 14) *è descritta
con tali dettigli che vanno sino alla leggièrezza, e nel veglione
stesso (Cap. 15) vi è tj^oppa profusione di spirito, che non sempre
è spirito-, ma talvolta diventa saccenteria. Infine ci parve poco ve-
rosioaile, pho Castelsaoto, non appena spirata la misera Ismene, la
caca c^gina, ai recasse al caffè, là dove precisamente se ne stavano
radunati alcuni suoi scapati amici a smaltire la c$na del saòtato
grasso a /uria di sif ari e di ptmck. L'uomo il più leggero della terra
potrebbe «ppena giunger» a tanto, e Gastelsainto non apparisce di
tal imip«;a in tutto il jra^oonto. È d*uopo concludere, che l'autore lo
figùnge jcolà soltanto perchè aveva bisogno di lui appunto in quel
ln^o, onda oompire Tideato gruppo, il quale, ommesso l'incidente
inverosimile, desta interesse. B per verità se il romorìo festose di
quei giovinastri ixritit sulle prime le menti dei lettori commosse dalla
tn^ica ùtua»one d'Ismene, lo ai giudica dapoi un bel chiaro scuro
per l'efietto. Similmente Caatelsanto, se giungendo al Ietto d'Ismene
moribonda ^ lascia in penosa perplessità, allorché aj^are fra gli
ebri amici colla fintale novella della di lei morte, ci colpisce profon-
damente. <^ Ma queste lievi mende sono ben piccola cosa a riscontro
delle molte bellezze, per cui il libro dell'Arrighi andò meritamente
lodiKto. Noi ci limiteremo a indicare le più appariscenti. Gli amori
di Caatelswto, e la gelosa passione d'Ismene per suo marito sono
desodtti mi inrimi sei capitoli con spirito ed urte non comune; la
nameione dell'antico amorazzo di Paolo con la Cocchina (Cap. 17)
è intereeaante, briosa, e spirante verità ; la visita di Castelsanto alla
Tarai (Cap* 18), in cui resta deluso ne' suoi progetti gjSlanti, è de-
soritts con vivacità, oon •cognizione perfetta di costumi intimi ed
anche con novità; altrettanto dicasi della graziosissima scenetta fra
Castelsanto, e la vispa Oiulia (Cap. 19) ; infine non potrebbe essere
meglio dipiata, né più riboccante di afietto la scena tra Ismene e
suo marito (Cap. 3G), in cui questi si sforza a persuaderla doUa saa
innocenza, »à più rtraziante k successiva (C^. 24), nella quale
Ismene è stUl'usoire di vita. Codesti due ultimi brani sono i mi-
gliori e qnasi gli unici per attestare che all'Ànrighi non manca ,
quando voglia usaarpe, anche la facoltà di eccitare le più delicate
fibre del cuore. •
Il suo «leeoado romanzo, ovvero Za seapiffliatura e U6 féblnUoy
è anch'esso importante e non la eede punto al primo. Potrebbe
notarsi a prisM aspetto, che l'autore nel tessere l'orditura di
RiiH9ta a - Ì23
354 ' RIVISTA GOMTBMPORÀiaSA
questo secondo romanzo ha in certo modo copiato se stesso, imi-
tando quella del primo, ovvero degli Ultim Cariandoli. Anche qui
vi è la setta, é i conciliaboli, e le orgie dei giovani congiurati; an-
che qui vi sono due sposi infelici, colla differenza che, se nel primo
romanzo è vittima la moglie, che si crede tradita dal marito, nel
secondo lo è il marino, perchè si convince di essere tradito dalla
moglie ; anche qui con leggiere varianti vi è un elegante amasio in
Emilio, una giovinetta perduta nella Gigia, un uomo onesto nel
Bartelloni, come là vi era un Castelsanto, una Giulia, un Piertini;
se là, morta la giovine sposa, il galante Castelsanto si sposa alla
Tarni, cagione innocente del disastro, qui, spento lo scapigliato, la
giovine ne adotta il figlio, innocente effetto delle di lui sfrenatezze;
in quello tutti i mali derivano dalla calunnia della Barbattola, in
questo dalla calunnia della contessa Cristina; una mal riuscita
congiura politica conchiude il primo, un'altra simile conchiude
il secondo. Tutto ciò potrebbe insinuare qualche dubbio sul grado
di potenza immaginativa dell'autore. Non di meno TÀrrighi ha
saputo imitarsi cosi liberamente e adoprare di nuovo così bene il
suo brio, sensibilità ed arte descrittiva, che colla copia^seppe forse
superare Toriginale. E qui cade in acconcio accennare con poche
parole la favola del secondo romanzo. — Noemi, donna ardente
e bellissima, disposata ad Emanuele Dal Poggio, uomo grave e
freddo, parlatore di politica, cedette alle istigazioni di un amante,
Emilio Dignani, giovine di generosa indole, non addetto alla Sea-
pigliatwra^ ossia a quella casta o classe, che Fautore definisce:
vero pandemonio del secolo, personificazione della folUa che stajkuni
dei manicomiiy serbatoio del disordine ^ délVimpretidenza^ delio spirilo
di rivolta e di opposizione a tutti gli ordini staMliti. U Dal Poggio
per lungo tempo corre la sorte comune a molti mariti, ossia non si
accorge di nulla ; è indamo che il vecchio Firmiani, nonno di Noemi,
avvedutosi dell'intrigo, tenta d'illuminarlo; infine entrato in sospetto,
si rivolge alla contessa Cristina Firmiani, cognata di Noemi, per
averne notizie, e colei, cattiva di cuore, avida di perdere Noemi per
la segreta mira di conseguire la eredità del Firmiani, gli palesa mi-
steriosamente la sua opinione, che Noemi lo tradisca amando un
altro. Avvampa allora nel cuore del marito la più violenta gelosia.
Noemi irritata dalle ingiurie, atterrita dalle di lui minaccio, fugge
di casa Dal Poggio, e si ricovera presso Emilio Dignani. E già i due
amanti si decidono a fuggire insieme di Milano, e il dottore Bar-
telloni, benevolo tutore di E&ilio, tenta invano di dar loro i neces-
sarii consigli, perchè rinunzino al riprovevole progetto, quando giunge
sul luogo il furente Dal Poggio, e provoca, e sfida il seduttore di
sua moglie. Una tragica scena è inevitabile, imminente. Il Bartel-
PRNSIBBI SUL ROMANZO INTIMO ITALIANO 355
Ioni, vedendo perduta ogni speranza, e spezzato ogni freno, svela
allora ad entrambi un gravissimo segreto. Emanuele Dal Poggio è
padre di Emilio. Questi è il frutto di un fallo di gioventù, che Dal
Poggio aveva abbandonato, e di cui il dottore Bartelloni aveva preso
cura. Stupore, angoscia, disperazione in tutti. Mentre Dal Poggio
dispare dolentissimo da quella casa, Emilio, inorridito di vedersi a
un tratto divenuto amante della moglie di suo padre, nell'udire un
romore d^armi ed un rintocco di campane, che indica lo scoppio
della rivoluzione dei suoi amici scapigliati contro i tedeschi (era il
6 febbraio 1863) quasi forsennato dà di piglio allearmi, accorre sulla
piazza, e muore combattendo. Due anni dopo Noemi sempre mesta,
ma rassegnata, è riunita col marito, e si apprende che hanno d'ac-
cordo adottato un bambino, figlio naturale, che Emilio Dignani aveva
avuto da una sua amante scapiffliatay la Gigia.
Sotto Faspetto della convenienza morale questo romanzo non si
raccomanda di molto ai lettori, poiché, come vedremo, non vi manca
una moglie sfrontatamente adultera, nò una fanciulla disonorata, nò
an giovinastro rotto a tutti gli eccessi, abbenchè elegante, e come
suol dirsi, t» guanti gialii. Quello che è peggio, non vi ha fra tanti
viziosi caràtteri un tipo migliore che indichi ai lettori Tuomo, o la
donna onesta ed imitabile, se vogliasi escludere il dottore Bartelloni,
che apparisce solo in principio ed in fine, o il vecchio Firmiani, che
privando afiatto della sua eredità la misera Noemi, appare in ultimo
o cattivo od imbecille. Àggiung^i, che il mezzo termine adottato
dall'autore per concludere il romanzo, il perno principale dell' in-
treccio finale, ovvero il segreto che l'adultero è figlio del marito
ofiéso, nulla ha di nuovo, e molto si assomiglia allo sviluppo del
dramma -* La sutmaMee d'arpa — del Chiossone, che si rappresenta
in Italia sin da molti anni prima che fosse pubblicata la ScapigHa-
tura. Per vuotare poi fino all'ultima gocciola il vaso della nostra
critica, non taceremo, che la lingua adoperata dall'Arrighi è buona
in genere, ma non è sempre la migliore, notandosi qua e là dei
gaUicismi, e qualche modo improprio, e non ammesso dai migliori
filologi, cominciando dalla parola Scapigliatura^ la quale non crediamo
prettamente italiana, com'egli giudica, ma solo inventata dall'autore
per arbitrio e comodo suo. — Non è per ciò men vero, che la lettura
di questo romanzo, come già accennammo, non ispiri il massimo in-
teresse risvegliando la curiosità, esilarando, commovendo. È molto
comico e drammatico il dialogo (Gap. 6), nel quale il vecchio Fir-
miani palesa i suoi timori a Dal Poggio sulla temuta segreta passione
di Noemi ; bello e nuovo il quadro dell'orgia dei Scapigliati (Gap. 7) ;
benissimo trattata la scena (Gap. 9), in cui la contessa Cristina
con suprema malizia insinua nell'animo di Dal Poggio il sospetto
356 RIVISTA CONTBMPOBANBA
contro la moglie di lui ; e con arte somma è lumeggiato l'altro im*
portantissimo colloquio tra Noemi e suo marito (Gap. 10), nel quale
costui già pieno di gelosia, di sospetti, e d'ira srela il suo convìBci-
mento, ch'ella sia amante d*altr'uomo. Da quel punto «ino al fine il
libro non si legge, ma si divora, tanto ti tocca, ti esalta, -t ti agita
la conclusione del romanzo già sopra indicata. È quindi giusto con-
cludere, che l'Arrighi pe' buoni elementi, di cui s'informano i suoi
scritti, dev'esser posto nel novero dei più stimabili autori viventi del
romanzo intimo.
Eccoci ora al Novelliere oontefnporamo del signor Vittorio Bersezio.
Fra i precetti a noi lasciati da Orazio, il gran poeta filosofo di Ve-
nosa, ognun sa esservi quello, che nella poesia (quindi anche neUe
opere di amena letteratura) colui possa dirai eccellente, il quale
sappia mescolare l'utile al piacevole. Ed Orazio in questo, come in
tutti i suoi dettati, coglieva perfettamente nel segno. Un libro di
amena lettura, che alle materie dilettevoli non oongiunga quidohe
cosa di serio e d^istruttivo, fiicilmente riesce futile; cosi quello in
cui sia scarso il soUetioo della curiosità e del diletto, ed invece so*
vrabbondante il corredo delle riflessioni e degli insegnamenti, finiacs
col non farsi leggere, o coU'annoiare. Si dirà, che è difficile atte*
nersi al precetto oraziano, e saper collegare insieme qftéH'uiUey e
quel piaoevohy senza oltrepassare i confini, quos uUvé cUraqw nefuU
consistere netum!
Cotesto ognun lo sa, e lo affermiamo anche noi« quindi ninna
meraviglia, che la più parte degli scrittori trasmodino dall'una, o
dall'altra banda. Il signor Bersezio in dò a parer nostro è da lodarsi,
che mentre non pochi romanzieri deviano dal precetto di Orazio per
prendere a preferenza il sentiero dei diletto, egli dandoci una ooUe-
zione di Novelle, ne ha deviato per gittarsi piuttosto in quelk) dell' k-
tUe. — Le sue NoteUe sono in tre volumi. Nel primo tratta d!fXlLamof$^
nel secondo della fanngHay nel terzo della patria. Ci manca il tempo
e lo spazio per seguire l'autcnre nelle singt>le parti di cotesto Novel-
liere, che comprende tanti soggetti, e tipi, e vicende svariatissiiBe.
Diremo solo, ohe nel primo volume, trattando dfSVamon, egli lo
presenta sotto diversi aspetti, e nelle diverse fasi, chs suole peroor-
rere a beneficio o a danno deUa mìsera unmmjtà; quindi offre ^
esempii dell'amor verOy dell'astore di tanttà^ dell'amore tfojpessto, del-
l'amore materiale, dell'amore dtMWtteressate ed onestò. Nat secoado
volume narrando in genere i casi della famiglia, vi descrive l'iafimzia
dell'uomo, la mcMrte del padre, la sventura di un ^io menteoa^,
le prime passioni delle fanciulle, le amicizie di University, durevoli
se cogli eguali, caduche se cogli uomini di più alta nfi8(»ta; ladowHt
bigotta per lo più trista moglie ; il giuoeo, lo sflirzo, lo scialacquo
pbnSibbi sul bomanzo intimo italiano 357
tmke a lagrime infinite nelle famiglie ; gli effetti dei precipitati giu-
diaii sulle persone; infine il vantaggio e la deliaia del beneficare,
ed il perioolo di voler discostarsi, ed elevarsi di troppo sulla propria
condinone. Gol terzo vcdume egli delinea la vita politica italiana dei
nostri tempi dal 1821 al 1849, e quindi ti pone sottocchi dapprima
i giani politici, oziosi ed inutili se ricchi , demagoghi e sovversivi
se poveri, governativi, conservatori, apostati, se ammessi agl'im-
pieghi, ai &vori, alle onorifioenj^; poscia i veri patriotti e le con-
giure, e sotto la maschera di patriotti i traditori e le spie; la no-
bHtà piemontese co' suoi principii favorevoli all'Italia, purché seguendo
il re loro; i preti gesui tanti grettamente clericali, donde immensi
mali alla società; il giovine liberale avvinto d'amore, che si disgiunge
dall'amata donna per servire alla patria ; la vendetta da lungo de-
siderata, che nel nome d'Italia non si compie : e da ultimo gli eroismi
in difésa dell'Italia medesima nel 1849, e le sventure della battaglia
di Novara, che la8CÌar<mo profondamente impressa negl'Italiani l'ansia
della riscossa. — Chi potrebbe negare che codesti temi non siano
magnifici? ohe non siano utilissimi? Noi non viviamo più negli ozii
tranquilli dei tempi di Messer Boccaccio, ma sibbene in un'epoca di
rivolgimento, in cui si vuole rigenerare .e ricostituire col senno e
coUa spada la gran patria italiana. Noi abbiamo duopo di libri, che
tendano a migliorare gli uomini, piuttosto che a sollazzarli. Sotto
questo rapporto il Novelliere del signor Bersezio dev'essere ovunque
il bene accolto. Vi hanno in esso giudiziosamente, ed in copia svi-
luppati tutti i buoni principii, e gli esempii, che possono formare
l'uomo dabbene, il buon cittadino, il patriota, il prode soldato, del
pari che la donzella gentile, la moglie onesta, la donna benefica e
magnanima. Ma se la parte utUe non vi manca di certo, può dirsi
altrettanto della parte dUettevolel Non niegheremo che nei tre grossi
volumi siavi alcuna pagina piacevole, alcuni episodii piccanti, alcune
scene affettuose. Basti citare le novelle 3« e 5a del volume primo, in
cui si espone la tresca di Romualdo con donna maritata, e le sue
penose conseguenze, ed in cui si novera come egli avendo seguito
Marcella a Parigi, verificata la di lei perfidia, si batte in duello con
un lord inglese, quindi toma in Italia, dove trova il padre moribondo;
così la novella 3» del 3*» volume, nella quale si descrivono le virtù
cittadine, e le sciagure private della famiglia romana Tiburzio, vit-
tima di eflbrate persecuzioni pel suo patriotismo; e similmente la
novella 8» del medesimo 3** volume sulle dolorose vicende della bat-
taglia di Novara. — Cotesti, e varii altri brani sono scritti con ve-
rità e con bell'artificio, dimodoché si leggono attentamente. Convien
dire l'opposto del Novelliere nel suo complesso. Il diletto non vi sta
in proporzione colla utilità. — Quali le cause? Per essere veritieri.
358 BIYISTÀ 00MTB1CP(HUNBA
e senza pretendere di fiirla da giudici, o di volere imporre in modo
alcnno il nostro spassionato parere, diremo, che ci pare di raTrisarle
nella poca importanza di alcune materie, fra le tante che vi sono
insieme ammassate; nello stile prolisso, e talvolta manierato sino a
rendere pesante la lettura ; nella lingua ineguale, e spesso ricercata,
è fuori d*u8o; nello sfoggio di brio, e di frizzi, che non sono sempre
di buona lega; nelFabuso del sentenziare in più luo^i pedantesco
così, da trasmutare le novelle in sefmoni ; e sopratutto nel metodo
(falso pe' romanzi) di esporre pochi fatti con troj^ parole, poco in-
treccio con troppe digressioni. ~ Tuttavia, riassumendo la nostra
prima idea, ripetiamo, che per la parte più seria e più paziente dei
lettori, la quale sia specialmente intenta alla utilità del libro che
ha fra le mani, il Novelliere del Bersezio sarà da preferirsi a molte
altre opere. -^ Devesi poi notare, che il medesimo autore, oltre il
Novelliere^ ha pubblicato altresì un romanzo intitolato GitUi e CecUia
molto pregievole per Tunità di concetto, intreccio, chiarezza di espo-
sizione , affetti e caratteri , colle quali doti si procaccia un'atten-
zione crescente sino all'ultima pagina. Il conte Cioni, l'uomo onesto,
è ben disegnato; Alfredo, giovine poetico e sventurato, innamimt;
Cecilia e Gina, vittime, sono soavi e pietose ; Vanardi, il buon amico,
è un bel modello ; né si potrebbe meglio descrivere il genio del male,
di quello che il Bersezio ha fatto dipingendo l'uomo egoista, il ma-
rito tiranno, Orsacchio. Persino l'episodio del fedel cane Coaau ispira
un certo interesse. Chi ha scritto 6fina e CeeiUa ci ha provato, che
conosce anche l'arte di piacere, e muovere gli affetti, quando voglia
rinunziare alla rigorosa e difficile imitazione del Boccaccio, e di altri
più antichi scrittori, i quali hanno una stoffa bellissima, ma non
pe' vestiti del nostro tempo. —
L'orribile sacrifizio del celibato, e le sofferenze del chiostro, a
cui un barbaro costume e la crudeltà di genitori superstiziosi o
egoisti, specialmente fra' nobili, condannava anche nel decorso se-
colo tante infelici donzelle e miserandi giovani, onde colla sventura,
di questi si assicurasse la fortuna dei primogeniti nella ereditaria
opulenza delle aristocratiche femiglie, porsero al signor Giuseppe
Boterò il subbietto di un racconto, non importante per mole, ma si
certo per vaghezza d'intreccio, quadri affettuosi, ed insegnamenti
filosofici di somma utilità. Cotesto racconto s'intitola Diifmm. Yi
troviamo pennelleggiati al vivo due frati domenicani IHdpmui 0
JuliuSy e due monache Orsoline Suor Crocifissa e suor Ddoretta.
L'autore dopo aver narrato i primi amori di quei giovani, e le
atroci sevizie, per le quali furono separati, e costretti a vestire di-
speratamente ed in freschissima età gli abiti claustrali, svela la in-
felicità loro nella penosa vita, a cui contro i dettami di natura, e
PBNSIBBI SUL BOUANZO INTIMO ITALIANO 359
cootro le tendenze del cuore erano stati condannati, e da ultimo ri-
ferisce come Julius dopo avere assistito, nella sua qualità di sacer-
dote, alla morte della propria amante suor Doloretta, penetrato da
tanto infortunio acconsentisse a fovorire la fuga di Didymus insieme
con Suor Crocifissa, giovine ed eletta coppia di alti sensi e di non
comuni virtù, che dopo molti anni di forzata separazione e di pro-
fonda solitudine, non aveva potuto cessare di amarsi. La fuga loro
dai chiostri fu altresì protetta dagli avvenimenti, poiché a quei giorni
reoercito della repubblica francese aveva già invaso una parte del-
l'alta Italia, dove i due fuggitivi trovarono scampo. Tornati in
meizo alla società furono felici. — Il Boterò nel suo 2*" capitolo de-
scrive molto bene lo stato nostro sociale nella fine del passato secolo;
i nobili per lo più prepotenti e viziosi; la classe media costumata
ed cerosa tenuta in non cale e schiava ; è uno schizzo pieno di ve-
rità. — - La cerimonia della professione di Maria nel giorno in cui
veste l'abito di S. Orsola, sebbene non si tratti di cose nuove, è ri-
ferita in modo da ispirare una mesta tenerezza. — Il gruppetto di
fandglia, ossia la felicità coniugale in casa del povero sarto, è un
bel contrapposto coU'angosciosa condizione dei giovani claustrali, e
l'autore introducendolo opportunamente nel capitolo l"" ottiene un
bett'efTetto. — La morte di Suor Doloretta è compassionevole. Il
veemente risvegliarsi della passione di Didymus, allorché ascolta
dalla chiesa la voce di Maria, ossia di Suor Crocifissa, che canta
nelle esequie deiramica defunta, stringe il cuore di pietà. Nel con-
ciliri>olo dei frati domenicani, in cui si decide la morte di Didymus,
perchè filosofo liberale, e creduto nemico dell'Ordine, vi è l'arte di
un'abile narratore.
Ci si dirà : fra i pregi che andate indicando nel Didymus, non
avete notato difetti ? — Si, qualche osservazione in contrario ci oc-
corse di fSftrìa, e non la passeremo sotto silenzio. — Se Didymus e
Maria sin dalla fanciullezza erano' trattati nelle case loro quasi col
Tig(ae del convento (Cap. 3), perchè si conduceva poi Didymus al
teatro f perchè lo si menava al contatto coU'avvenente Maria? perchè
madri cosi severe ed accorte, anzi pronte a far di quei miseri due
vittime, li lasciavan soli a colloquio senza badare a quel che facessero ?
Vi ha in tutto ciò della contradizione. Ma l'autore aveva bisogno che
s'innamorassero, per poter dettare la loro istoria, e pare che non sapesse
trovare altro mezzo ! — Didymus e Julius trovansi insieme nell'istesso
convento» Maria ed Imilda nel monistero medesimo ! Tutto ciò è comodo
per agevolare Tautore nello sviluppo dell'intreccio, ma è a discapito
della verisimiglianza. — Mentre Suor Crocifissa fugge dal convento
con Didymus, è egli probabile che Suor Virginia scelga proprio quel
punto per presentarsele, peggio poi che si abbandoni a tutta quella
360 RIVISTA coirraMPOBAimA
patetica apostrofe, in tm mometito codi critico? PtlggM i ^6 aMAli
dal conrento, è egli possibile cbe non appeM Nberì e sievri iM^hi
città di Stradella, acconsentano di ballare in pubblico T o non è co-
desta una leggerezza imperdonabile, ebe li diigrada, e ehe discorda
dì troppo dai loro scrii e gravissimi antecedenti? — B rignardo allo
stile, vi è talvolta del romantico, che non intuona eolla naturaheza
deirinsieme, ed uscendo dal vero, dà nel HHoo, massime alla pag.
137 del Gap. 8*. Suor Doloi^tta moribonda, dopo avefe inconffnefato
un dialogo col sacerdote in queste semplici parole — Padre, io fcrò
la mia confessione a voi — passa poco dopo ad un volo pindarico
— € Accanto a me (in Cielo) vi sarà colui che solo amai, ed egli
«ed io loderemo TEterno, e colla mia mano nella sua, menando
«danza celeste, osanneremo l'amorosa canzone». -*• Behedunqu«f?
La monaca morendo diviene poetessii ? — Esfla delira — - ci dice
l'autore. — Sta bene. Ma nel modo i^sso che i éo^ni ékUa nette
furono definiti immagini del di gnaffe e corrótte il delirio no* è
che la confusa ripetizione dei nostri atti e parole, o la espresirtone
delle nostre idee del tempo precedente al delirio medesimo. D6v«va
dunque Suor Crocifissa tenere morendo il semplice linguaggio della
monaca che muore disperata per amore, benché rassegnata in Dio,
ma non /iveva d'uopo, anzi non doveva esprimersi, e non poteva,
collo stile di Saffo, o con quello della Sposa dei Sacri Cantici.— Ooel
perchè adoperare quei nomi Didymns e JtUins? Non potendo supporre
che in un romanzo italiano il signor Boterò abbia voluto strana-
mente introdurre due nomi latini, nomi di lingua morta, dobWaimo
ritenere ch'esso li abbia posti a quel modo per veezo fhmeeee. Ha
non abbiamo i nostri nomi italiani? E fino a quando vorremo per-
durare nella strana mania di gallicizzare in tutto e per tutto? —
Che il Romanticismo di alcuni moderni scrittori mirasse diret-
tamente ad esagerare le passioni, ed a Ailsarne i caratteri, i colori,
e gli affetti, cel sapevamo. Ma ove ne fosse in noi rimasto alcun
dubbio, il signor Carlo Oioda si è dato cura di dissiparlo, ponendoci
sott'occhio il suo romanzo Z^ dne tite. Allorché un romanziere varca
i confini del vero, ed anche quelli del verosimile e del possibile,
non può a meno di scendere nel fantastico, nel bernesco, i nel Mso.
Egli distrugge colle sue mani stesse la parte pregievole che può
essere nella sua tela. Ci seguano, di grazia, i lettori nella disamina
di questo racconto. — Tittorio di Borgo, ufliziale reduce daH^armata
di Napoleone I, tornato in Piemonte capita in una ^sta di balte nel
1817 a Nizza. Vi s'innamora egli forse? Si, signori, è ben intesio.
E come? e di chi? Udite. Una signora inglese, Riccarda Bracino,
aveva perduto nel ballo una preziosa collana. Di Borgo avendola ito-
vata sul pavimento, andò a restituirla a Mad. Erskine, presente il
PENSIERI 9CL nOWkVtO INTIUO ITALIANO 3S1
g»t«niiitbfd ^Iki oMày ed ra quell'incontfo, perohò m«lto beUa^mi
la daitìa^ eg^lì se m turàghì* — Nulla di pid probabili. Ma per cid
solo, ebe ttad. Enkiiie lo guardò, e gli disse - Oh gratie 1 gnwief
— il Di Borgo fìi preso da tal péSibm$ Mmtm^m, ei$ il #ii»i^ 0U
béMité a n^f^rfU U peéio^ t nen péiè e<mpf9ni9rt àUnma eom déUa
eomermtioM ehi #ra <a«of?i<MiMi tra hi ^U get9maii^e!
Tanto e si rapido incendio d'amore in un baleno, e nel petto di
un veterano dell'eseretto mq^leonico, non sembra possibile ; ma^ lo
aflferma il signor Oioda, e bisogna chinare il capo. — Parlando in
merito di quel suo primo incontro colla Erskine , il Di Bor^o dice
più tardi : -^ Fin da ginUa volta rmrvi ne^Hsay u ella a»$$H e$^tdo
iMiVQ JH ìm altra ^nor^/-^ Uccidere per gelosia una donna con^
scinta poche ore innan^Bì, senza avere su di lei alcun diritto t
^ VhA. Br^hie, a cui Di Borgo reoossi a £sr visita Tindimaai
della dtonsa , la si trova e&% gU océhi belati da fma tofrtma. Che
pfiriosB lagrima in donna uscita allora da una festa di ballo ! -^ ft
curìoeo, ohe volendo Tautore lasciar soli a colloqui<x il Di Borgo e
la Srskine, fk partire di colà la zia Mad. Stanley col semptiee pre-
testo, che qaella tifoora nonp&Uta mai $tar fermi i« waa itamu pik^
di&i mimti. ^ Che sia comoda ! — B che dire del signore Di Borgo,
il quato tffoiratoa) appena solo per la prima volta con Riccarda , le
dice senM complimenti : — Se»lo unajhra neeessUà di sapere di tàeUa
(oRanaydi^ri, idla vita vostraf ^ La necessitala di sapere i iMti
degli altri, è una bella originalità. — Siecarda s'inquieta sulle
prime di qoeirarditezza (ed era naturale, massime nel carattere
serio ingleee) ma poi, per essere conseguente a se stessa» dice a Vittorio
ogni eesei. — Al secondo colloquio Riccarda Brskine riceve il Di
Borgo in una camera appartata, da solo a s^, per narrargli la
propria vita, ma questi non ha la paztenza di attendere il racconto,
e senza complimenti, al solito, figUa tra le mafd il oofi» ddla bdh
doma^ eie htéia i eafeUi, che prima di e&ntire ma eteria di dciori
ìojfM di piantai — Quel soldato è assai tenero, e flurile idle lagrime !
— Si crederà che madama se ne adonti. Nossignori, essa non se ne
accorge, ed un pochino distratta, chiede solo a Vittorio la spiega-
zione ài una vera freddura: -^ t Credete Vittorio, che oHro larpre-
€ sevte vita, un*idtra ve n'abbia, dove rivivono' gli spiriti? IHHmà :
« due anime, che si sono amate quaggiù, poesono incontmrsii rico-
( noseersi in quell'altro mondo? rivivere insieme? Non ¥ ho cvedato
e io; se mi avessi potuto fermare in mente, che tutto non ha. ter«-
€ mine netta tomba, mi sarei uccisa per correre dietro a uno spirito
e ademto, che qui non trovo più I » — * Interpellanze abbastanaa ina-
spettate, che dovettero certamente istupidire rinnamorato guerriero.
L'autore non ci dice che cosa Vittorio rispondesse, e diffittti dovete
3ttl BIVI8TA OONTBMMftAHBA
tiOTarti alquanto imlNrogliato. — Non deve qui passarsi sotto sileuio,
che i personaggi del signor Oioda con molta &eilità parlano di
MoeUwi o di M€€Ìd$rH. Riccarda racconta da prima di avere perdu-
tamente amato Alfredo Lumsden, morto già da qualche tempov B
come anche quell'amante inglese fosse ultra-sentimentale, ce lo prora
una sua frase a Riccarda : Taorei otpetMo uh secolo in gmocekh per
veierHm mhuto. - Bagatelle! — Dipoi nei Gap. 13 e 14 è un con-
tmuo farla/re H morte. Riccarda vuole assolutamente tornare in In*
ghilterraji^ wiorire iuUa tomba HAlfiredo^ e Vittorio protesta che la
seguirà fin là, perchè non vmol sopraffvwerù di un giorno y di wCora....
V'è sempre da tremare per quelle care esistense, fintantoché Ric-
carda non ci tranquillizsa dando deHe spiegazioni, e fiu^ndo le sue
proteste. Ella vuole, ohe le riprovi, che le ri ekiarisea, che morendo
rivivrà con Alfredo, ed allora soltanto ingoierà una tuona dou t oppio
che Urne a heUa poeta nel àuo astueeioì Non potendo mai darsi che
alcuno ckimieca la signora Erskfne di quello che avviene nell'altro
mondo, ne segue che dopo tante parole essa non si ucciderà mai.
— Ahi che baiel — Ma ciò non è tutto. Vittorio coglie un mo-
mento opportuno, e parla alfine a Riccarda dell'amore che sente per
lei. Dopo gli antecedenti ò da supporre ch'egli sarà corrisposto. No;
Riccarda invece s'irrita por la eempUce e naturaUeeima ragione^ che
essa ha il progetto di far ritomo in Inghilterra^ e stare tante ore sul
sepolcro di ÀUfredo, eh* egli per pietà la richiami a sèi Ma in forza
del principio, che nil violontum durabile, alla perfine la dama va
calmandosi, rinuncia ai suoi progetti di morte, e per premiare la
costanza di Vittorio, gli dice, che vivrà, e non lo abbandonerà mai. In-
dovini il lettore per qual ragione ! I^srehè Udilri defunto amante Al-
fredo Immsdon, che amava singolarmente i giovani, nàl vorrebbe! -^ Oh
l'ingegnoso meaoo termine per dare alla sentimentale eroina la hk-
colta di abbandonarsi ad un nuovo amante, dopo la morte del primol
Ed ecco la lotta d'amore (Gap. 15) divenire da quel momento più
violenta. Ora è Riccarda che sembra vacillare, e ci minaccia una ca-
duta ; il sentimentalismo ò per^cedere alla creta. Che farà l'inna-
morato Vittorio in quella tentazione ? Egli che fin dalla prima vi-
sita afferrava, e baciava con tanto impeto la bella testa della signora
ErsUne, non dovrà, logicamente parlando, fiume qualcheduna delle
grosse, ora che la vaga donna si abbandona a lui, e dopoché (sia
detto qui per incidente) gli ha di già regalato un bacio nello scen-
dere una scaletta a chiocciola, nel casino del Piano di Latte? V'in-
gannate, n Di Borgo per un incomprensibile slancio di virtù giunge
a frenarsi colla severità di un'anacoreta ; egli cessa di vedere in Ric-
carda la sua amante, ed invece incomincia in quel punto a chia-
marla col titolo dijlglia! Volete sapere il perché egli operi eoirt?
PBNSmi 80t tOlCAHVO INTIMO ITÀLIAKO S6»
Yel dice Tautore. P«r rispetto di Alfredo Lumaden!... del soo rivato
già mortol... Ah ! queata la è un tantino più madornale delle altM.
— Ma non seguiremo l'autore in tutto il eorso di questa romaatioa
iliade di amori esagerati, di virtù incredibili, di affanni, di malattie,
di srenture di ogni specie. Noi ammettiamo nel signor Oioda ìm
certo studio del cuore, una intuizione delle passioni, e troviamo nel
suo libro qualche interessante scena drammatica, una certa abilità
nell'intreeciare, e nel descrivere, specialmente nel Gap. 4^, aUoichè
Di Borgo narra la nuMrte dei proprii genitori, la sua vita militare, il
suo ritorno in Piemonte dopo la caduta di Napoleone L La lotta della
virtù coil'amore in Riccarda , è dipoi esposta in più capitai con
vivi tocchi da produrre non infrequenti commozioni. Peccato die
cotesti pregi siano adombrati daireccessivo romanticismo delle idee
e delle frasi, dalle inverisimiglianie dei fatti, dalle contraddisieni
nei caratteri, e dalla lingua trasparente di stento, e non seetra di
asprezze e di improprietà ! Come è mestieri aggiungere, fct essere
al tutto veritieri, che uno scopo morale nel libro del signor Gioda
non ci sembra né ben definito, né raggiunto. —
La diss(4utezsa (tema d'altronde assai arduo) doveva aneh'essa
ispirare la fantasia di im altro romanziere. H primo §mmt$ diB$rta è
il titolo prqiosto dal signor Torquato Giordana ad un suo racconto di
scene contemporanee, colle quali pretende esporre ed attaccare questo
vizio. Dirò innanzi tutto, che se vi è romanzo che si l^ga con pre-
mura crescente, continua, egli è questo del signor Giordana. Per
tacere della buona lingua, dello stile piano, dell'arte non comune di
narrare con naturalezza, vivacità di parole e vigoria d'immagini, mi
piaoe notare a preferenza la fecondità dell'invenzione, che permette
all'autore di trascurare le minuzie del racconto, alle quali sarebbe
già preparato il lettore, per condurlo con incantevole rapidità in si-
tuazioni inattese, sorprendenti, e quasi sempre di ottimo eflbtto, a
tale che un intreccio assai ricco di avvenimenti vi è sviluppato in
soli dieci capitoli. — Bello è lo scopo che l'autore dice di essersi pre-
fisso ; svelare la corruzione dei costumi, imprecare alle infiunie so-
ciali ; ma prima di venire ad alcuna discussione, diamo un breve
cenno del soggetto, per vedere sino a qual punto Fautore lo abbia
raggiunto. — Giuliano, povero studente, ama perdutamente Berta,
la figlia di Bibiana, portinaia di un casamento in Torino. Bd anche
Berta è presa del giovine. Berta giovinetta di sedici anni, di rara
bellezza, ancc^ra onesta ed inclinata al bene. Ma la perversa Bibiana
d'accordo con Giacomo suo marito, venduto segretamente Tenore
della figliuola al dissoluto e ricchissimo conte Palli, mena la ragatfa
nel di lui palazzo, ed ivi l'abbandona ! Già il conte gongola per la
certezza di facile vittoria, e già si appresta a porre Berta nel novero
364 inn«f A coirmcPomÀKiiA
àMe tatté0 sue viiiime, quando la fcnciulta, avrisando in qnri mo-
laeflto il perielio in coi fu tratta, spinta da natnnUe ribrezso, da
un^ftiiaiKò di orgoglio, da un avanzo di virtù, gli resiste col pugnale
atta^ mano. Palli sopraffatto dalla fierezza di lei, la rimanda libera e
p«va, dicendole : Andate, se vi troverete in bisogno di aiuto, prefe-
rileaii ad altri, ritornate qua; alle nove di sera vi sarà aperto. - Sono
in buoni capitoli , massime il terzo, nel quale vi ò un intaresse
sHaordinario e superbi tocchi, che deetano l'attenzione, e la curio-
sità fai su|nremo grado. Assai migliore, perchè altamente morale,
si è^il capitolo seguente, ovvero il quarto. Berta, sottrattasi al Pàlli,
non tortta presso i suoi genitori, perchè conscia di esseme stata
viloienlé ceduta per denaro, gli abborrisce ; abbandonata a se sola,
* sen va a zonso tutta notte ed il giorno segpuente per Torino, onde
procacciarsi un ricovero, un pane onorato ; non trova che la derisione,
l*indMterensa, il vizio e la prostituzione. Disperata, senza asilo, in
prèda atta fame, si ricorda fatalmente delle ultime parole del eonte
PalU, ed esclama :•— La strada dell'onore mi è chiusa?.... Ebbene,
percorrerò quella del vizio. -- B eo^ dicendo batte alta segreta porta
•d«l palazM) di quel corrotto Epulone, e diventa la sua druda.
^ Nella nuova condizione, in mezzo al profumo della licenziosa
sua vita. Berta cangia istinti e natura. Gli uomini la oppressero ed
essa ruol vendicarsi degli uomini. Abbastanza cel provano i suoi
fMti* Quando il misero Giuliano, sempre spinto da una deplorabile
passione, gitmge ad introdursi nella società del conte Palli, ella lo
SM^coglie freddamente, e più tardi, per liberarsi della sua presenza,
e quasi per deriderlo, gli chiede come straordinaria prova d'amore,
che vada in Asia, nell'Indie, a cercare per lei una pianta mera-
vigliosa, quasi irreperìbile, la Stimkopea tigriM! E Giuliano parte.
II conte Palli pose a' di lei piedi la sua ricchezza, ed essa ne fa
sperpero, costringendolo a pr(rfbndere in breve tempo tre milioni
di lire. Berta giunge segretamente a scoprire, che i suoi genitori,
iniqua gente, hanno ucciso e derubato il procuratore Morano, ed
essa per isfogare l'odio che nutre contro di loro, li denunzia al
fisco con lettera ch'eUa medesima gitta in posta di nottetempo. ~
Toma Giuliano dalle Indie recando la Stanhopea iigrina^ ed essa in-
vasata da un momentaneo capriccio nel rivederio, si divide brusca-
mente dal conte Palli, e si dà in braccio a Giuliano. — Era appena
trascorsa quella notte, che Giuliano destatosi non trova più Berta
presso di sé. La volubile femmina era partita, lasciando i suoi saluti
all'amante. II cieco giovine se ne dispera, ed è per uccidersi, quando
]^r eSbtto di un aneurisma, che da lungo tempo il minacciava,
muore. Un mese dopo Berta in degante legno da posta partiva per
Parigi al fianco di un nuovo amasio, un nobile giovinetto, ma ricco
PBN8IEBI SUL ROIIiJ«ZO II4TUI0 ITALIANO MS
ed imbeeille. Per compreudere .fino a qual punto era giunta la oor^
ruuooe di B^rta, e si era indurito il suo cuore, basta gettare io
sguardo sulle ultime linee del romanzo, che qui trascriviamo.
— f Che cosa legge quella gente ? — domandò la lionessa (Berta)
e ohe partiva per Parigi , additando un crocchio rivolto ad una
€ caatonata.
«Ghel Non sapete? — rispose Tavvocato «^ É la sentensa che
e condanua ai lavori forcati a vita gli assassini del procuratore
t Morano.
-^ e Afa ! — fece la lionessa — La giustizia è stata troppo ind^*
e gente. Davvero essi meritavano il patibolo ! » --
Noi non conveniamo col signor Qiordima in pareoohie cose. Nella
prefazione egli si vanta che narrando i iatti sooisli ha isi^herata la
bandiera del realUmo, Ma codesto pretto rsaUsmo fu adottate fin qui
dai più e dai migliori t Se gli amori dì Giulietta t Bomeo, di l4iura
e Petrarca, o di Jacopo Ortis, sembrano fitutastichorìe al «v^M>r
Giordana, forse che le tresche della sua Berta e dd suo PalU, lU
Gap. 3^ non parranno aUa massima parte dei lettori una acopcenst
La passione e i sacrifizii di Giuliano una caricatura? La e&enatft h-
scivia di Berta nel darsi a Giuliano, cosi minutamente e ^pudomt^-
m^te descritta al Cap. 9, un bozzetto disegnato per passatempo
delie prostitute di un lupanare? L'odio di Berta pe*suei geiMtQri«
spirito a quell'estremità, una orribile inverosimigUan^? No, il fit^
^tto redisMo non lo si può ammettere nei b'uimi roman»^ wm^ «i
esclude 4aironesto conversare, perchè vi baimo eccessi aociali, dei
quali non solo è conveniente, ma è necessario tacere, per mdte n^
gi<mi, fra le quali non' è ultima la piviUà. N(m si P0f0a mai JM^
nàPatto il uccidere iproprii jtgli^ lo ha scritto Orazio parlando 4ella
tragedia, ed a certi precetti dei grandi maestri» con buona ptiee dc^
sig. Giordana, bisogna £ar di beiretta ; chi gli tiene in non cele, ^t»
ne diàcosta 4k \xoppo,oàio irremissibilmeiite i^eli'esagtrato, nel feaw>^
Descriv^e i viaii troppo al vivo, e massime questo della seostumataiMt
che ai ammanta di cosi procaci fcnrme e di così seducenti colori, non k
coTMggerli, ma insinuarli in eerto modo, e diffonderli. Lft tuipe vìt^ di
Berta ci par troppo lusingbev^, almeno materialmente^ e pi^ ài una
donna fimMt col desiderare d'imitarla. ^€osl vtm posaiame lodfw» ai
tveviamo credibile quell'inaudito eccesso d'odio attribuito a Berta vterso
i pcoprii genitori, sino ad inyiare ella stessa senza necessità l'aopuaa
dei loro gravissimi delitti, che doveva condurli a morte, e si»o a fre-
mere di dispetto perchè non furono giuatiziati. I <3ipeci antifchi UM
punivano il parricidio, perchè lo credevano imposeibiU, Qual^i^ermia
di concetto fra gli antichi Giteci e il nostro autore ! Berta anela 4i
uoeideM il i)adre e la m^d^e, peichè la spinsero in una vm in<MM,
36C BIYI8TA CX}KTBMPORANBÀ
nella quale ella tripudia e gavazza ad oltranza ! Berta poteva nutrire
avversione ed anche odio verso i ribaldi genitori, ma almeno dentro
certi lìmiti, e senza abbandonarsi ad eccessi contro natura, non po-
tendo afflitto obbliare, che una parte della colpa era pur sua, quando
deliberatamente ella stessa tornò a battere alla porta del ricco sedut-
tore! -* Infine l'aneurisma per far morire Giuliano a tempo e luogo
qpportimo, è un mezzo tròppo comune, trito e ritrito, che ha pure
il donerito di far prevedere il finale del racconto. — Ma checché si
voglia dire in contrario, questo romanzo è assai pregievole per tutto
oi4 che sopra dicemmo, ed anche non convenendo con Fautore in
certi dettagli e chiaro-scuri troppo forti, ammettiamo che dall'insieme
n'emerge il gran fine di segnalare la corruzione del costume, e ad-
ditarne in qualche modo i rimedii. Il Gap. 4* è prezioso per chi ben
comprenda, e vi mediti sopra ; in esso sta tutta la moralità del libro.--
FrMcOla la Fioraiay nuovo racconto del signor Enrico Montazio
uscito testò alla luce, si aggira intomo ad un episodio della vita di
Gioacchino Bossini. Al dire di qualche biografo, una giovine x>opo-
lana di Napoli s'innamorò del celebre maestro siffiittamente, che
ossia disperasse di esseme corrisposta, ossia fosse da lui abbandonata,
m<Nrì, anzi» come altri pretendono, si uccise. Vero, o falso, o esage-
rato il caso, esso porse un bel soggetto al signor Montazio per darci
un quadretto di Rossini ancor giovine, nel 1815, nell'atto che fra i
suoi trionfi e i suoi traviamenti, e nella foga delle passioni prende più
ardimentoso le mosse della sua splendida carriera musicale. Vi si
vede il figlio del popolo, che ama il popolo, donde emana; vi si
vede il giovine galante fregiato di tutti i doni della natura, quindi
proclive ai capricci, alle intemperanze, ed irresistibile conquistatore
di femminei cuori ; similmente vi si vede il genio creatore d^immortali
melodie, per le quali tutto il mondo civilizzato ò costretto a pagargli
largo tributo dj stima e di ammirazione ; infine vi sono comicamente
esposte le grettezze tiranniche esercitate su Rossini, e sugli altri ar-
tisti dallo straricco, ed allora onnipotente impresario Barbaja, non
che gli amori di entrambi colla Colbrand, avvenente e pregiata can-
tatrice, che volte in ultimo le spalle all'esoso impresario, divenne poi
consorte del grande maestro. Mala figura più spiccata e più originale
del racconto , si é quella della popolana di Napoli , Francilla ! Oh
come vi attrae, vi seduce, vi commuove quel tipo di natura vergine,
quel cuore schietto, ardente, quell'anima tutta assorta in un'estasi
d'amore, che deve condurre la giovinetta al sepolcro ! In un racconto
assai breve l'autore trovò modo d'introdurre molte situazioni impor-
tanti, onde porre in luce un carattere che ha del nuovo, e renderlo
appariscente e simpatico. -- À dir vero, le qualità e le abitudini di
Bossini sono descritte con tanta sincerità, che è quasi soverchia,
PBNSIBBI SUL BOIUNZO INTIHO ITALIANO 367
poiché, non trattandosi di Bcrìverne l'esatta biografia, o la vita, il
rispetto per questo grand'uomo poteva forse consigliare rommissione
di alcune circostanze, che pongono troppo in vista la sua parte di
creta, e ciò per quella grande ragione già sopra accennata, che ncMi
tutto quello che può esser vero deve anche intromettersi nei romanzi,
0 nei drammi. Né tacerò, che alcuni dettagli sul Loizzarone Torquato
0 sul cane di Francilla mi parvero alquanto prolisssi e leggieri, ed
alcuiH motti sui rapporti intimi di Rossini colla Golbrand forse im
pò* triviali ed arditi. Tuttavia la ProMeiUa è tal lavoro letterario,
che per la sua impronta di novità , e pe' varii pregii rimarchevoli,
fra i quali primeggia la lingua pura e fluida sino quasi all'antitesi
della ricercatezza» non può non riescire bene accetto, e induce a presa-
gire, sempre meglio di godeste distinto autore. —
Leggemmo altresì varie novelle di autori diversi, delle quali,
quantunque piccole di volume, ò ben giusto che si fìuxia particolare
menzione. — Tre di esse sono di Felice Bomani, ed hanno titolo:
Il ponte dei JldanzaUj frammento di uà viaggio sentimentale ndla
Liguria; Vk miUro^ episodio di un'istoria fiorentina ; Vmmk^tOr-
ìumo. L'autore dei celebri melodrammi ci appalesa anche nelle no*
velie la sua viva immaginazione, la sua potenza nel muovere gli
affetti, e sopra tutto la sua lingua pura, e quello stile semplice,
chiaro, colorante, che richiama alla buona scuda, ed invita molti
guastamestieri ed imbarbariti prosatori odierni ad attingervi il bello,
come si attinge l'argentea linfa alla limpida sorgete della moii-
tagna. *- Un'altra venne pubblicata dal milanese Luigi Dossena, ^
titolo — H preffiuiim del duello — nella quale l'autore ha voluto ad*
dimostrare l'immoralità, l'inconcludenza, ed i gravi danni di co-
desto abuso sociale, facendo seguire al racconto àlcu$ii ri/lessi morali
di notisie storiche sìd duello , che racchiudono una erudiziene ed
un'importanza assai notabile. Anzi convien dire, che i riflesssi mo-
rali nel libriccino del Dossena hanno la parte e il merito principale, e
volentieri ne faremmo un'analisi, che sarebbe filosoficamente utilis-
sima, se non si trattasse di materia estranea all'argomento, di cui
dobbiamo occuparci. Ci limiteremo quindi a lodare nella novella del
Dossena l'ordine e la vivacità della tessitura, le pagine commoventi,
non che la grande opportunità del tema. ~ In fine la novella Dio
ti ffuardiy della signora Rosina Muzio-Salvo da Palermo, ci parve
degna di considerazione. Sono scene siciliane precedenti l'ultima ri-
voluzione colà compiutasi contro il governo borbonico. Ma il tema
politico vi è frapposto per incidente. Il vero tema della novella è
prettamente sociale; vi hanno casi e frizzi comici, del pari che pas-
sioni vive, e molto cuore; i principii morali e filosofici sono eccel-
lenti; insomma è uno di quei libercoli dettati per correggere, non
BITI0TA OONTEIITOEÀMBA
per corjTMDpere, tendenti m formara al bene, a soUazBtre con ^msk,
«d m eommovere soavemente. Sarebbe un lavoro sulla via àdVo^imOj
se la diBtinta autrice ttciliana ei fosse gxiardata un po' meg^lio daOa
lingoa e stile loeale , ossia dal fraseggiare piuttosto proprio degli
abitatori dd mezBOgiorno d*Italia. Tacendo di alcune locuziom «n?o^
noe, e di alcuni modi e parole viete o non accettabili j noterò sol-
tanto <per dovere di critioo imparziale, che tanto più riaaoe grava
rispetto al gentil sesso) il metodo dall'autrice adottato di prepone
troppo sovenée, ed in modo tutto poetico, l'aggettivo al sostantivo^
Za lietm MUzza, 2a fiìUeggianie fameMltL, U tomiUie kigmrie^ Vom-
ffdiea eoMtesiéf e cento altri gruppetti lirici di codesto genere sono
qua e li a piene mani cosparsi ; al Gap. 6"* trovanai aeoomati in pocàe
linee gli t^umfcati casolariy il grmUe HiaòUtdo ca00mm(ó, U {m^
ammUmum eaw^^ la eaiemU fcMmay VùUefra éàlaJ Ma questi nei
rimpeito ai pregii stanno nello aoritèo dalla signora Muaio-fialf\ro carne
usa a ariMtfi Ia sua novella eocita (Mstan temente la curiosità, ac-
lista fima ptogredendo e oommovo ia ultimo.
Ghiiidei6mo la jivùrta aoalìtiea colgeseme del JìhiO0 nel mmto^
ttttov# a drasenta lavare del noatro a buon drièto oelebraio romanaàare,
signor fMsacoaoe Domemco Guerrasai. Sarà come dare ai convitati
ìADa rana ctìaietÉuna o un bicchiere di prelibato liquore in fiae ée)
desJuajra. Noia già lebe ùi altri roiaanzi o racconti non restasse a
partere, dan^ichè vi saMbbero quelli della signora Pereoto (dei q^iali
nuaiì otiima fiama), qndU della sigaora Oodogno-Gerstrembraadt,
dei aigttaci Baaaisa, Smiliani-Giadici, Tarese, Uda, llastriani, Do-
natOf Ohisknaeiti, Ranieri, Paysio ed altri. Ma i limiti impostici per
qoesto arÉioolo Piritico non ci danno lo spazio necessario, né le opere
daiiaeMBODati aerittori ci sono aoacor giunte, sebbene le afebiamo in
più Inoghi ricercate e commesse, di modo die ponendo ìfine per ora
al noaim ragicmamento, ci riserbiamo di trattare di eaae in altro
artìoalo addisionide, se potrà av«r luogo.
U Buco nel nmroy secondo che ci dice il signor Ouerraai, è una
atoria. Bifiitti si pretende, ohe nel vecdiio OraiPta egli abUa deli-
neato se stesso, nel Marcello un suo nipote, e nella BHta una vec-
chia e biaeoa fimtesca dalla medesima sua casa. Oheochè ne sia,
storia o remanao, gli è un libro di moUo merito, e quanto a lingua
e etile, è vm vero gioiello italiano. Ne diremo tuttavia liberamente
tutto ciò ohe il debole nostro intendimento ci detta. ~ Avvi innanai
tutto 'un yroìofo^ nel quale raut(Hre finge un dialogo tra Ff$fàH960 e
Dpmmm, Il primo chiede all'altro il manoscritto di questa storia
per pubblicarlo a benefìzio dei poveri, al che Domenico acconsente,
e con ciò si oflPre il destro di da^crivere il banco deUo studio di Do-
mapioo colle sue oaotere e soaffaletti, e con tutte le carte cheow-
PENSlBRI SUL ROMANZO INTIMO ITALIANO S69
tenevano divise per materie. Dalla quale descrizione si pongono in
luce con beirartificio i pensieri dell'autore, e gli studii e tendenze
sue sulle scienze e le lettere. Dico delVautorey avvegnaché è ben fa-
cile comprendere, che il Guerrazzi anche in questo caso ha fatto
quello che gli avviene di far sovente, ovvero ha parlato di sé,
facendo trasparir^ la sua vita letteraria» scientifica, politica. Suc-
cede al prologo il racconto, che brevemente sporremo. — Il vecchio
Orazio, uomo agiato e dedito agli studii, di umore e di abitu-
dini alquanto strambe, una specie di burbero benefico, venutagli
in uggia la condotta di un suo scapato nipote, Marcello, che
aveva raccolto bimbo in casa sua dopo la morte del padre, lo co-
stringe a separarsi da lui, dopo avergli dato del denaro, perché
sen vada con Dio in cerca di fortuna in Australia. Marcello (ab-
bastanza matto, ma non cattivo) si reca a Milano, ed ivi sciupato
il denaro dello zio, quando s'avvede non essergli rimaste che poche
nionete d'oro, comincia a far giudizio, e si rinchiude in una piccola
cameruccia o soffitta. Avvenne che allogatosi nel suo bugigattolo, il
giovine nell'atto di estrarre ud chiodo dal fondo di un armadio ri-
cavato nello spessore del muro, fece per caso un buco tra le commes-
sure dei mattoni, ampio così da poter distinguere gli oggetti nella
camera attigua, e udire i coUoquii delle persone che vi abitavano.
Tre individui più notabili frequentavano in quella camera. Roberto
pittore giai^nte in letto per etisia , Isabella sua moglie, e Felice
amico loro. Senza andare per le lunghe, ed a parte i dettagli, Ro-
berto morì , Felice fu congedato da Isabella, perchè se lo stimava,
npn lo amava, ed Isabella divenuta vedova promise l'amor suo a Mar-
cello, purché si facesser le nozze loro col consenso dello zio Orazio. —
Dopo ciò Marcello, divenuto tutt'altr'uomo, corre allo zio per averne
il perdono ed il favore. Lo zio, che all'udire il racconto dì quella
strana avventura, teme sempre di qualche nuova sventatezza del
nipote, rinchiude Marcello nel suo appartamento, e sen va a dirit-
tura a Milano per conoscere Isabella. Colà il vegliardo si convince
delle buone qualità della giovine vedova, ed approva il matrimonio
dì lei con suo nipote, ma perchè Isabella non accetterebbe, se non a
condizione che Omobono suo padre dia il proprio consenso, l'ottimo
zio Orazio si abbocca pure coU'Omobono per codesto effetto. L'Omo-
bono é un riccone, ma gretto, ed irritatissimo cóntro la figliuola pel
suo precedente matrimonio col pittore Roberto, da lei fatto contro il
paterno volere. Egli cinicamente accoglie le proposte di Orazio, e
solo acconsente alle nozze a condizioni degne di un uomo snaturato
espilc^cio.Ma due anni dopo, avendo Isabella dato alla luce un figlio,
e volendo che se ne dia parte a suo padre, questi commosso e con-
tento, accorre nel dì del battesimo, e si fa tutta una famiglia oltre-
UMita (7.-24
370 RIVISTA CONTBMPORANBA
modo felice. — Prima di concludere sul merito di questo racconto,
noi non possiamo a meno, ancorché ammiratori, di farvi sopra qual-
che osservazione, per adempiere all'obbligo assunto, obbligo, o peso,
che tanto più ameremmo toglierci dalle spalle ogni qual volta si
tratti di parlare dei più distinti autori, e specialmente del signor
Guerrazzi, il quale ci dice apertamente, a pag. 61, per bocca del
signor Orazio, cìu mai soffre i critici cattiti o buoni, benetoli o ma*
ligni che sieno! Noi farem qui notò all'illustre autore, che siam ben
lun^i dalla saccenteria per mestiere o dalla presunzione d'insegnare
altrui^ ma che abbiamo nel tempo stesso il convincimento, che spetti
a ciascuno il diritto di far uso del suo senso comune, e de' suoi
studii per esaminare le opere altrui ; che si possa dar giudizio di
un'opera qualunque, senza l'obbligo di fame una simile, o migliore ;
che infine il disprezzo illimitato per qualsiasi critica, ci sembra esso
medesimo una eccessiva presunzione, la quale può solo essere scu-
sabile nei cervelli alqxianto bizzarri e strani, come quello che Fau-
tore attribuisce al signor Orazio. — Entriamo dunque nell' arringo,
e diamo dapprima uno sguardo al complesso dell'opera. — Vi è im-
portanza ed utilità nel soggetto? L'importanza è mediocre, poiché
comprende soltanto i brevi casi famigliari di pochi individui. L'uti-
lità non vi manca, mentre in mezzo a certe opinioni per lo meno
esagerate, e tra alcune massime pericolose, se pure ammissibili, vi
sono in genere insinuate e commendate eziandio talune virtù dome-
stiche e cittadine, taluni buoni principii sociali, e specialmente gli
affetti e i legami della famiglia. — Avvi intreccio? Sì, ma sottile,
semplicissimo ; gli scarsi fatti sono avvolti da lunghe digressioni, e
molte parole. —Ma quali parole! —sento dirmi. —Convenuto. Lin-
gua purissima, stile incantevole, frizzi profusi ed elevati. Però noi
siamo qui ora per discutere del soggetto e del suo svolgimento. In-
tendendovi bene addentro gli occhi della mente, ci appare bensì
molta luce dorata; ma è poi tutt'oro quello che luce? — Taceremo
delle personali allusioni, o piuttosto del panegirico non molto ve-
lato, che l'autore fa di se stesso nel prologpo e nei capitoli successivi.
Tocchiamo piuttosto dei principii fllosofico-politico-sociali ch'egli ci
espone.
Si è già detto, ed è noto, che il Guerrazzi suole attribuire ai
suoi personaggi le proprie idee politiche, e quelle da' suoi libri,
quasi dalla bigoncia, ostinatamente e ricisamente inculcare per av-
ventate che siano. Non v'ha per esso tolleranza di sorta, e ce ne
offre in questo romanzo più di un esempio. Comincio dal notare, che
i moderati in politica sono l'oggetto dei suoi mordaci e continui
sarcasmi. Se i principii moderati sono un delitto appo luì, intende
forse predicarci la dottrina degli estremi? Non basta. Egli mette in
PBNSnmi SUL ROMANZO INTIMO ITALIANO 371
bocca del suo Orazio una strana scoperta, che i poli della civiltà ,
almeno per ora^ sono il gesuUa ed U gendarme^ quegli figurato nel
gatto, questi nel cane. Rapporto al gesuita v'è da fare una riserva dal
lato della scienza, che forma pure tanta parte della civiltà ; ma pel
gendarme, che rappresenta la legge e l'ordine, e che sotto questo
0 qualsiasi altro nome dovrà pure esservi sempre presso qualunque
governo, the non sia anarchico, noi non troviamo il bandolo di un
. bel motto in questa sentenza sua. Il signor Orazio non vede al so-
lito le cose che da un lato ; il gendarme non è per lui che lo sgherro
del dispotismo. Ma non rammenta egli che anche per ora vi sono
grandi Stati, nei quali il potere sacerdotale è infrenato, e la onesta
libertà predominante ? 0 vorrebbe egli forse farci credere che sarà per
essere più fiorente ed estesa la civiltà in quel giorno, in cui i poli della
medesima si cambiassero a senso di certe aspirazioni estreme, ed al
gesuita gatto succedesse Vateo simboleggiato in talpa, ed al gen-
darme cane il demagogoy sinonimo di lupo o iena? — Andiamo in-
nanzi — Che cosa intende, di grazia, quel benedetto signor Orazio
a pagine 57 e seguenti co' suoi prolungati e sarcastici sproloquii
contro il iistetna deUe prigioni f Ammette egli le prigioni o no? Se
si, perchè ne avversa le istituzioni, e sembra deriderne i regolamenti
vìgenti pel vestiario e vitto dei 46tenuti ; o le discipline per miglio-
rarli moralmente? Le opinioni umanitarie e filantropiche del sig. Orazio
sono abbastanza singolari !— E non si direbbe che arda in lui un odio
di partito, e che una specie di parossismo politico lo trasporti, a con-
siderare quell'altra sua fTBBe;che cerio non era stato per lui, se ali* ora
che faceva^ Vienna e Roma non si trovavano ridotte in cenere ? — I
Viennesi ed i Romani non saranno, v'è da credere, molto grati al
sig. Guerrazzi di questa furibonda aspirazione posta in bocca al suo
Orazio, la quale tanto meno doveva attendersi da un autore eminente,
che non ha certamente mestieri, come Erostrato, di farsi campione
e propugnatore di cotanta distruzione, per tramandare il suo nome
ai posteri.
— Che diremo delle sue opinioni sui giornali?... Convien credere
che ne abbia avuto de' fastidii ben scrii ; altrimenti si sarebbe forse
astenuto dal darne la seguente definizione, che quantunque orato-
riamente bella ed eloquente, ci sembra eccentrica anzi che no.
« Dio volendo punire la razzaccia umana, rovesciò sulla terra i gior-
« nalì ; se n'eccettui taluno, ma raro, tutti gli altri detta l'ignoranza,
«la presunzione scrive, la fame compone, la calimnia ne rivede le
« bozze, l'ambizione stende l'inchiostro su le pagine, la cupidità
€ stringe il torchio, la infamia vende». Il giornalista, secondo lui,
i il sicario dei tempi civili! Sarebbe mai anche codesto un terzo ;>o^,
dopo il gesnitay ed il gendarme f
372 BIVISTA CONTEMPORANEA
— Sie8:ue un opinamento politico, ed è il giudizio dell'autore
sulla parte presa dagritaliani nella guerra di Crimea, lo che prova
quanto già dicemmo, che le divagazioni, gli extra formam del Buco
nel muro sono assai frequenti ed illimitati. Egli disapprova altamente
quella nostra partecipazione alla guerra d'Oriente, e si pone a dirit-
tura in contraddizione a quanto ne hanno detto tutti gli uomini po-
sitivi d'Europa, i quali in quella lega del Piemonte colle potenze
occidentali ravvisarono una bellissima evoluzione politica per pro-
cacciare all'Italia il seggio che ora tiene nel consiglio delle grandi
nazioni. — Se i giornalisti sono bistrattati, ne andranno almeno il-
lesi gli stampatori ! Oh no, che ce n'ò anche per essi, e d'avanzo ! —
Niente meno che lo stampatore, a giudizio di Marcello, (Gap. é"")
« merita guaterò volte o seiy aibhorrimenti piò, del tira/nnol impeicioeehè
< mentre questi è padrone del corpo soltanto, quegli, vilissimo schiavo,
< si affatica a imbestialire le anime ». E come? e Col pubblicare opere
« di tutti i generi, per V avidità d'intascare moneta. Con la medesima
« coscienza, o piuttosto con la stessa sfrontatezza, l'editore ti stam-
« perà l'Aretino e S. Tommaso, la Imitazione di Cristo e le Novelle
« dell'abate Casti, l'Avviso dello Stato d'Assedio, bandito dai Te-
«deschi sulla Lombardia, una Sentenza del Consiglio di guerra,
« un'Invito Sacro, un Sonetto per ballerina ; in una parola, prima
« ti stampano le opere che servono come d'introduzione al delitto, e
«poi per riscontro, ti stampano il Codice Penale, che lo punisce».
Gli stampatori adunque non dovrebbero pubblicare che alcune specie
di opere (forse quelle che sono in grazia di Marcello) ed allora
soltanto diverrebbero fiori di galantuomini ! Resterebbe a sapersi se
furono lodevoli, o rei, quando stamparono certe pagine del signor
Guerrazzi ! -^ Ma non merita la pena d'insistere su ciò, perchè l'au-
tore ci potrebbe dire, che Marcello è uno scapataccio, il quale quando
parla dà sovente in bazzecole.
Proseguiamo pertanto. — Eccoti un'ultima e più fiwa filippica
contro i preti, e questa era d'aspettarsela. — Chi non può esser tac-
ciato di soverchia tenerezza pel clericume , a cui deve una lunga
persecuzione, la perdita delle sostanze, e l'esilio dalla patria, gode
almeno il diritto di essere creduto imparziale, se apertamente parla
in siffatto argomento. Diciamo adunque, che il dialogo tra Marcello e
il parroco, il quale mercanteggia vilmente su tutte le operazioni del
suo ministero, in occasione del trasporto del cadavere di Alberto, è di
calzante effetto e contiene certamente circostanze in più incontri ver-
gognosamente avveratesi, ma sosteniamo pure, che quello slancio anti-
clericale, introdotto a quel modo nel racconto, ci sembra eccessivo ed
ingiusto. Tutti i parrochi sono forse altrettali di quello, in cui s'imbattè
Marcello? E se no, perchè ideare, e porre innanzi un cosi brutto
PBNSIBKI SUL ROMANZO INTIMO ITALIANO 373
tipo, non come eccezione, ma come esempio, infamando in tal guisa
tutta la classe? Egli è un'eccesso, da cui nulla può guadagnare il
morale dei più, ed una vera ingiustizia, come se di qualche soldato
briaco, insubordinato, e vile, si volesse farne un modello per deni-
grare tutto un esercito. Manzoni nel parroco Don Abbondio ha de-
scritto un buon prete, e Vittor Hugo nel vescovo Myriel ci ha dato un
eroe. Dal rapido esame generale del Buco nel muroj passando alle sin-
gole parti di esso racconto resta ad ammirare il molto bello che vi è
diffuso. Caratteri singolari, e maestrevolmente descritti vi campeg-
giano, principalmente quello del filosofo stravagante, ma pur benefico
ed amoroso, Orazio, indi l'altro del vivace e sensibile Marcello, e quelli
della buona e casalinga Betta , dell'aspro ed avido Omobono, della
dolce e virtuosa Isabella. — Non potrebbero essere disegnati con più
verità i quadri domestici, né con più bei colori dipinti i riscontri co-
mici, piccanti, affettuosi tra lo zio Orazio, ed il nipote Marcello, tra
Orazio e la vecchia fantesca. Dicasi altrettanto delle scene sociali.
Felice, rivale di Marcello nell'amore d'Isabella (Cap. 6^), che cono-
scendo di non essere amato , cede il campo e si ritira , mediante
una spiritosa e comica lettera; Isabella e Marcello che ingenuamente
amoreggiano di qua e di là dal buco nel muro; Omobono che ri-
fiuta duramente ad Orazio la mano di sua figlia, e poi l'accorda,
purché senza dote, non sono gruppi e dialoghi ricchi di originalità,
di brio, di grazia e di effetto? — Fra i brani filosofico-politico -morali
ve n'ha due splendidissimi di acume e novità. Il primo al Cap. 4*,
in cui l'autore immagina e descrive con peregrini pensieri la vita
e miracoli del romanzo. Il secondo al Cap. 5**, nel quale con idea
originalissima finge che Marcello, non avendo più in tasca che otto
marenghi, ciascuno di epoca diversa, cioè un Napoleone I, un
Luigi XVIII, un Carlo X, un Luigi Filippo, una Repubblica, un
Carlo Alberto, un Vittorio Emanuele, un Napoleone III, si dà a con-
templarli, e nella sua meditazione cava da quelle monete quasi dei
responsi; con siffatto spiritoso mezzo l'autore giunge a definire in
brevi parole, e con storica verità, e sagace accorgimento le vicende
di quei regnanti e di quell'epoche. — Quanto alla commozione degli
affetti, ci pareva poco adoperata dall'autore mentre leggevamo il
suo racconto, ma egli gradevolmente ci sorprese all'S" Capitolo,
ch'é l'ultimo. Cogliendo il destro del felice mutamento di Omobono,
il quale perdona, ed accorre presso la figliuola Isabella, nell'ora
del battesimo del neonato nipote, cui vuole imposto il proprio nome,
l'egregio scrittore porge una conclusione scritta con tanto magistero
d'arte e riboccante d'incidenti ed affetti cosi dolci, che non si può
leggerla senza palpito.
— Quale il riassunto di tutto ciò? Se il racconto del sig. Guer
374 BinSTA OONTBICPOBANBA
razzi può andar soggetto a qualche censura, (ove in ciò non per
mala volontà, ma per solo errore di buon giudicio non ci fossimo
male apposti,) egli è ricco di pregi non comuni, e sopratutto, amiamo
ripeterlo, di quella lingua eletta, e di quel forbito stile, che nella
loro magia, (come avviene di osservare anche in molti scrittori del
miglior secolo) giungono in certo qual modo a rendere non solo
piacevoli le idee comuni e le frivole narrazioni, ma anche tollera-
bili gli strani concetti, e perfino i sofismi e gli assurdi, nel modo
istesso'che una veste elegante ed un velo con vago artificio disposto,
ci fanno spesso parere aggraziata la persona e leggiadro il volto
di donna, che non sia né bella, nò fiorente. —
Cosi compiuto il ragionamento, ovvero esame critico, che ci era-
vamo proposto sui varii scrittori nostrali di romanzi contemporanei,
ed in cui ponemmo quella maggiore indipendenza e schiettezza, che
per noi si poteva, senza scompagnarla dalla più rigorosa imparzia-
lità e debita moderazione, ne sorge la confortante certezza che l'I-
talia, sempre feconda di eletti cultori in tutti i rami dello scibile,
può anche annoverare varii ingegnai, i quali dedicatisi al romanzo
intimo, fecero g^ià bella prova di sé. Nullameno è pur duopo con-
venire, non volendo illuderci, che se varii han tentato lodevolmente
il difficile arringo, ninno per anco seppe creare in codesto genere
un romanzo, che racchiuda tutte le grandi qualità volute^ non dirò
per superare, ma per emulare quanto Alessandro Manzoni seppe fare
nel genere isterico. Il signor Giulio Carcano, e qualchedun altro di
quelli che citammo, sono giunti, a dir vero, fin presso alla meta,
e negli scritti loro v'è moltissimo da ammirare, ben poco a ridire.
Ma considerando in genere, troviamo in alcuno lusso di erudizione
e di filosofia, e persino di politica, ma povertà di favola e d'intreccio;
in altro vedi brillare il genere descrittivo, e l'arte d* intrecciare, ma
ti par futile e sconveniente il soggetto : qui un'eccesso di romanti-
cismo nelle passioni, là una sterilità di affetti; quando una somma
tendenza alla satira, senza troppa cura della morale e dell' utile, quando
il paradosso di farsi immorali per giovare alla moralità ; dove la
lingua è pura, ed egregio lo stile, discopri talvolta idee eccentriche
o casi inverosimili e strani, o misero intreccio, o fredde passioni ;
dove poi la invenzione sarebbe fervida, gli affetti bene sviluppati,
le avventure importanti, ti offenderà forse la lingua non eletta, e
talvolta disadorna, per non dire di peggio, oppure lo stile improprio,
* perchè nel bel mezzo delle locuzioni e dialoghi famigliari, udrai le
frasi di un perfetto lirismo. — Che dovremo concludere? Che il già
fatto ci è arra dell'avvenire. Al compiersi della nostra unità nazio-
nale, nella quale abbiamo pienissima fede, dovrà succedere tal calma
negli spiriti, che permetta agli scrittori italiani di darsi tranquilla-
PBNSIBBI SUL ROMANZO INTIMO ITALIANO 375
mente agli studii letterari!, e noi speriamo che da questa terra di
vivi sorgerà una mente eletta per descrivere senza idee preconcette,
senza odii, senza secondi fini, la nostra società vivente qual ella è
ili oggi, come Manzoni seppe mostrarla nel suo più splendido e più
vero passato. Infrattanto né lo spettacolo del movimento nazionale,
né la tempesta delle passioni politiche, né il rumore delle armi che
dalle Alpi ai due mari si apprestano, debbono trattenere le penne
di coloro, che sono posti in condizione di dedicarsi alla letteratura.
Pensino gli scrittori, che anche da questo lato si può far onore al-
l'arte, ed arrecare insieme immenso giovamento alla causa pubblica.
— Le opere letterarie esercitano una potente influenza sulla società
civile, e se é bello allietare, commovere, ammonire gli uomini cogli
esempii dei gentili costumi, dei generosi propositi, e delle prave a-
zioni , santa impresa é pur quella di risuscitare le virtù, se spente
fossero, o di avvalorarle, se languenti. A ciò contribuisce in modo
ineffabile il buon romanzo intimo, perocché esso scorre nelle mani
dei più, ed in tutte le classi.
Luiai Dasti.
376
DEGLI ISTITUTI TECNICI
E PARTICOLARMENTR
DELLA SEZIONE AGRICOLA NEI MEDESIMI
LETTERA AL COMMENDATORE KOTTA
Prefello della città e provincia di Reggio nell' Emilia, e Senatore del Regno
Onorevole Signore
Tn cerlain enseoible de notions théorìques
et praliques dolvent faire la base de Tensei-
gnemeol agricole.
La base de TenseigDement est la pralique
mais la pralique intelligente, éclairée par des
notions d'une théorie sinopie et positive.
Lffotir,
Reggio 3 novembre 1862
È un bisogno nato col mio cuore quello di mostrarmi grato rive-
rentemente a coloro che mi furono cortesi e benigni, e mi trovo con-
tento di me medesimo allorquando mi si permette attestare pubbli-
camente tali sentimenti. Ogniqualvolta ebbi l'onore d'incontrarmi
colla S. V. ebbi la. compiacenza di sentire dalle di lei parole appro-
vate le mie povere fatiche rapporto ai desideri! che ho manifestato
per il miglioramento della Pubblica Istruzione ; e quantunque sia
certo, che gli incoraggiamenti de' quali mi fu benevola la S. V. par-
tano più dalla bontà del di lei cuore, che dal merito che possono
avere per sé quelle cosucce, non ho sentito meno la gratitudine per
ciò; e a farle conoscere quanto mi fossero grati i di lei sentimenti,
mi prendo la libertà di offerirle questo nuovo lavoro. Ed il faccio
con tanto più di coraggio, in quanto che vo pensando che la S. V.
chiamata dalla fiducia del Re a reggere questa eletta parte della
nazione, e destinata eziandio a presiedere alle cose della Istruzione
pubblica della Provincia, coll'autorità di cui meritamente gode,
DBCJLI ISTITUTI TBONICI 377
potrà, giudicando sane le mie idèe, farle prevalere presso chi può,
che sostenute dalla di lei efficace ed autorevole parola prenderanno
certamente un peso che non hanno espresse da me.
Il Governo Provvisorio del Dittatore Farini, quasi a compenso
delle scuole Universitarie che abolivansi in questa città, decretava
un Istituto Agrario. Accaduta l'annessione felicemente; le cose an-
daron per le lunghe, ed oggi soltanto è data la ferma speranza di
veder attuato quanto fu in altri tempi stabilito. Senonchè uniformando
ristituto a quelli che erano già comandati dalla Legge Casati, sembra
vogliasi trascurare la parte Agronomica. A me pare questa risolu-
zione non molto giusta, e non ho difficoltà a farne pubbliche le ra-
gioni che in tal parere mi conducono. Voglia la S. V. Ili» aver la
bontà di ponderarle, e vegga se io m'inganno, o sono nel vero.
Il Decreto Regio che trasferiva dalla dipendenza del Ministero
del Pubblico Insegnamento a quello di Agricoltura gl'Istituti Tec-
nici, trovò, eziandio nel Parlamento, molti che lo criticarono acer-
bamente. Per me, uso a giudicar delle cose le quali non siano intrin-
secamente cattive, dai loro buoni o tristi effetti, non mi allarmai,
anzi vi feci plauso, quando in ispecie vidi alla Direzione ammini-
strativa degli stessi, uomini, quaU il cav. Serra ed il prof. Paniz-
zardi, che dall'attività loro mi riprometteva un gran bene. Né le
previsioni liete furono deluse : alcuni Istituti Tecnici da lungo tempo
decretati, e che non ebbero la forza di sbucciare fino a tanto che
rimasero fra le mani di queglino che presiedeano al pubblico inse-
gnamento, ebbero vita e favore immediatamente, e maggiori inco-
raggiamenti va ad assumere l'Istruzione Tecnica superiore, adesso
che altri diciotto stabilimenti congeneri stanno per attuarsi.
Lascio perciò il carico di criticare* il Decreto, e di esaminare se
stia uelle rigorose deduzioni logiche che trar si possono dalla Legge,
a coloro che vorriano cangiare le conseguenze delle leggi stesse in
una passiva obbedienza eguale al moto che una ruota dentata può
imprimere ad una leva, e porgo i miei rallegramenti a tutti coloro
che coadiuvano in tale bisogna il Ministro di Agricoltura e Com-
mercio, per le cure prodigate ultimamente a svegliare l'attività di
questi studii. Ogni uomo onesto farà plauso, son certo, con me
alle cure che per la tecnica istruzione prodiga il Pepoli, e la di
lui memoria passerà per questo cara e venerata alle generazioni
future.
Soltanto pare a me che fino ad ora, e il dissi dapprima, la parte
dell'Istruzione Tecnica che si riferisce all'Arte Agricola, sia curata
ben poco. Se debbo credere a qualche giornale, mentre si curano le
sezioni fisico-matematica o commerciale, si è nel pensiero di soppri-
mere le altre due. Quanto alla sezione Chimica convengo che forse
378 BIVISTA. OONTBMPOBANBA
Oggi è prematura, e con qualche modificazione potrebbesi fondere
colla commerciale, ma non trovo giusto il concetto della soppressione
della sezione agronomica. La ragione più forte che se ne adduce sa-
rebbe la totale mancanza di concorrenti a questa sezione negl'Isti-
tuti collocati in città secondarie.
È vizio della nostra età che il numero, la statistica malintesa
tenti sempre di uccidere ogni idea generosa, né posso persuadermi
che gli Italiani, i quali di fiorente non hanno che l'industria agri-
cola, poco si curino d'addottrinarsi nelle scienze che conducono ad
una pratica razionale della medesima. La mancanza totale di alunni
io l'attribuisco piuttosto ad altra cagione, che deduco dalle condi-
zioni peculiari delle nostre Provincie, ed al mal ordinamento della
sezione Agronomica negl'Istituti. Che io sia nella ragione, cercherò
di provarlo.
In ogni ordinamento di un ramo d'istruzione bisogna conside-
rare se i mezzi indicati siano valevoU logicamente a conseguire un
fine determinato. Se questi non vi corrispondono, necessariamente
ben pochi vorranno ricorrere ai medesimi. E che io sia nel vero me
ne persuado se considero la costituzione della società qual è nelle
nostre Provincie.
I capi di famiglia i quali si propongano l'istruzione de' loro di*
pendenti pel solo ed unico scopo che li vogliono istruiti, si possono
contar sulle dita. E questo non nasce già dalla corta loro veduta,
ma dalla condizione sociale in cui versano, che le famiglie le quali
non sentano il bisogno di aggiungere alle private loro risorse quelle
che vi aggiunge l'Istruzione non sono numerose. Da ciò la neces-
sità che gli alunni uscenti da un qualunque Istituto scientifico siano
in posizione di esercitare un'arte liberale, vadano muniti d'un di-
ploma, che valga a collocarli in condizione di poter aspirare quando
che sia ad un impiego pubblico o privato, od a prestare l'opera loro
nelle molteplici necessità, create dall'esercizio delle arti industriali
od agricole, e posseggano un grado accademico nella società.
La sezione Agronomica qual è costituita attualmente, non rag-
giunge questo scopo. Tutto al più può darci dei fattori od agenti
di campagna. Ebbene di questi, per la molta divisione cui è ridotta
la proprietà, non se ne abbisog^^a che di piccolo numero, e la mag-
gior parte dei grossi possidenti, classe poco numerosa, se è costretta
dalla necessità ad invocare aiuto, si contentt che la persona di con-
fidenza eletta sappia i primi elementi del conteggio, e segnare a pie
di una scritta, in modo abbastanza informe, il proprio nome, l^li
sono ingenuamente le condizioni presenti della società nostra, e sarà
ben difficile il cambiarle all'attuale generazione. Io vidi a capo di
una delle aziende d'uno stabilimento de' più ricchi e meglio condotti
DJMHJ ISTITUTI TECNICI 879
nella Penisola (il Collegio Alberoni) tre o quattro agenti secondarii,
che sotto la direzione di un frate lazzarista onestissimo ed avveduto,
regolavano la loro amministrazione coll'aiuto della memoria, e di
alcuni pezzetti di legno, da essi chiamati tessere^ sui quali notavano,
facendo un segno convenzionale, il dare e Tavere d'ogni lavoratore
di terra, il latte della fabbrica de* formaggi, ed altre cose, e a dir
vero senza gravissimi inconvenienti. Almeno e principali e dipen-
denti se ne chiamavano contenti. La spesa del mantenimento di tali
agenti era minima, e pagata quasi totalmente con oggetti in natura.
Ora si provi taluno a persuadere costoro di eleggere un fattore che
siasi fatto miope per la troppa lettura di libri, che abbia consunti
i più bei giorni della propria vita sui panchi delle scuole, e diman-
disi per questo un compenso equo, rapporto alle fatiche incontrate
pel fine di giungere al posto che vorrebbe occupare. Senza tante
cerimonie si sentirà rispondere che la cosa cammina bene come va,
che non si amano innovazioni pericolose, e che fra queste la meno
attingibile sarebbe di aumentare la spesa per stipendiare un agente
che al termine poi sarebbe meno d'ogni altro adatto a compiere il
proprio mandato. Questi son fatti, onorevole sig. Prefetto ; son fatti,
contro cui si vorrebbe inutilmente lottare. La ragione rimarrebbe
sempre dal lato del più forte, e l'inerzia che opporrebbe a tutte le
premure sarebbe un'insormontabile ostacolo ad ogni desiderio di
riforma. Arrogisi che i giovani educati nelle città, difficilmente si
inducono ad abbandonarle, se non è la tnde ntadafameSj per girsene
ad abitar le campagne, tanto più se colà non eserciteranno che la
umile professione di sorvegliante ai lavori campestri, cosa che loro
non può produrre almeno dapprincipio, che disgusti e disinganni,
per trovarsi esposti ad una lotta continua con i contadini, rifiutantisi
mai sempre a gagliardemente cooperare chiunque voglia introdurre
la minima miglioria, e ripaganti cogli scherni, se un tentativo o
per intemperie od altro motivo indipendente dalla volontà umana va
a male, nò risparmianti nemmeno le insolenze, se diasi il caso che
nella rendita abbiano qualche interesse.
Descrivendo con tutta la possibile ingenuità le condizioni sociali
delle nostre Provincie, almeno osservate dal punto di vista che mi
permette Tesperienza oramai di quasi due lustri, intendo di far ca-
pace la S. V. e chi mi leggerà, del perchè non si trovino concor-
renti alla sezione Agronomica di un Istituto. La gioventù non vi
si applica, perchè non vede in essa un'avvenire, per quanto umile
Io desideri ; ecco quanto, e questo perchè le scienze alle quali debbe
applicarsi in tal corso scolastico, non sono abbastanza esplicate, da
valere a formare degli uomini, che possano rivolgersi ad altro par-
tito, qualora manchi un modo di occuparsi in rurali aziende.
380 RIVISTA OONTBMPOBANBA
E la V. S. converrà con me quando prenda in esame i ministe-
riali programmi, e vegga di quali cognizioni incomplete sia fatto
adomo colui che segua il corso determinato nella sezione Agricola
dai Regolamenti.
Un po' di letteratura mista alla geografia e storia, con un pro-
gramma cotanto mal definito, che delle seconde dovendosi occupare
rinsegnante unitamente alla prima, e soltanto un'ora per giorno,
dovrà dare nozioni affatto incomplete ; tanto più , che. la parte sto-
rica prende tale estensione d% lasciare assoluto il dubbio che nes-
suno possa esaurirla con qualche profitto. I programmi poi della
fisica e delle altre scienze naturali sono essi pure assai difettosi,
giacché per la fisica generale non si ha che appena un cenno di
tutto quello che si riferisce alla teorica delle macchine, od ai dettami
della Idraulica ; per la Chimica si è troppo esteso, che difficilmente
le teoriche recenti sulla costituzione molecolare degli alcooli mono-
atomici e poliatomici, importeranno gran fatto all'agronomo, il quale
preferirà son certo più che la conoscenza degli omologhi del Gerar-
dih, 0 de' radicali del Liebig, quella delle proposizioni fondamentali
della parte geologica, botanica e zoologica, che meglio si attagliano
a condurlo nel ponderare i rapporti che queste ultime scienze hanno
colla costituzione dei terreni , le piante che crescono in essi, e gli
animali, che sono la base fondamentale d'ogni sistema di Agricoltura
razionale.
E mentre lo scolare è costretto a tramandare alla memoria una
lunga serie di nomi chimici, non si mette poi in istato di conoscere
adequatamente gli elementi dell'Agrimensura; giacché è vero bensì
che ad essa si serbò un cantuccio nell'ultimo semestre del corso, ma
non so in qual maniera potrà essere insegnata a lui che non possiede
gli elementi della geometria solida, e della trigonometria, i quali non
trovo nei programmi per le scuole tecniche, eppur mi sembrano fuor
di dubbio indispensabili.
Ammesso adunque che i programmi dell'insegnamento, e la di-
stribuzione delle materie siano fatti con poco di ragionevolezza, nasce
il desiderio di far ricerca del modo con cui si possono introdurre le
riforme giudicate indispensabili. È quello che ora mi accingo di fare
sottomettendo all'illuminata di lei mente le idee mìe, e questo con
quella libertà di pensiero che la S. V. sa essere abituale in me, e
che le riesce tanto gradita.
E prima di tutto a che servir debbono gl'Istituti tecnici? È la
domanda che viene naturalmente innanzi ad ogni altra. A questo
mi pare si possa rispondere colla legge alla mano: — Sono stabi-
limenti che si destinano a coadiuvare l'Agricoltura e l'Industria. —
Tali sono le parole della legge, che mi sembrano a dir vero suffl-
DEGLI ISTITUTI TECNICI 381
cìentemente elastiche, ma dalle quali tuttavia credo non andar lungi
dal vero se li definisco — Stabilimenti nei quali si addottrinano i
giovani, dimostrando quanto Io sviluppo delle scienze applicate pos-
sano coadiuvarci per far progredire l'Agricoltura e l'Industria, e
mettano la presente generazione nella condizione di esercitarle con-
venientemente.
Partendo da tale premessa io verrò succintamente esaminando :
P Quali siano le scuole da istituirsi, e se bastano quelle che
vengono indicate dal Regt)lamento.
2"" Di quali materiali debbono essere ricche le scuole suddette.
3"" Quali miglioramenti potranno introdursi con tale istituzione
nell'arte agricola, e se basterà essa a farvelo penetrare, ed a m^m-
tenervele.
Se si volesse ottenere della gioventù che poi si dedicasse unica-
mente all'esercizio dell'arte di coltivare i campi, dal più al meno le
cattedre volute dal Regolamento basterebbero fino ad un eerto punto:
forse vi s'insegna troppo, e poco, ma come dissi, il creare la razza
di puri agricoltori è difficile fra noi. In tal caso poi assai meglio
ragionato troverei il piano degli studii seguito nelle scuole cultu-
rali fhmcesi di Grand- Juan, della Sulsaje e di Orignon, ed in quella
che su tal modello comandavasi dal Toscano Governo Provvisorio
nei contomi di Firenze da quell'ottimo e valente Agronomo, di lei
collega nel Senato, marchese Cosimo Ridolfi. Ma le prime scuole
ci creano de' capi operai, de' fattori ecc., e per questo oltre al lavoro
mentale, aggiungono eziandio il manuale; la scuola toscana è orga-
nizzata al solo fine di prestare ai molti, che in quella civilissima
città convengono , le cognizioni fondamentali dell'agricoltura , ed
amano di seguire dei corsi liberi, e di perfezionare le cognizioni da
essi acquisite nelle scuole secondarie, senza verun bisogno di pren-
dere gradi accademici.
Esse adunque si allontanano dallo scopo che dovrebbe avere un
Istituto Tecnico per corrispondere ai Ueogni locali delle Provincie. (Re-
golamento 19 settembre 1860, art. 15). Tuttavia non sarà fuor di
luogo il notare come le scuole culturali francesi siano organizzate
per formarcene un'idea abbastanza adequata. Prendo quale esempio
quella di Grignon, come la più lodata. Noi vi troviamo dapprima
una scuola di agricoltura generale, in cui dopo aver trattato della
maniera di ridurre il terreno da incolto a coltivabile, aiutandosi del!e
concimazioni e dei lavori, si passa a descrivere la coltura delle piante
speciali. Questa Cattedra è la base dell'Istituto. Col nome di scuola
del Genio Agricola viene una seconda, nella quale l'Insegnante dà
i precetti della meccanica e della costruzione delle macchine, poi
della geometria descrittiva e della geodesia. Quindi gli alunni sotto
382 RITI8TA CONTBlfPOBANBA
la direzione di un nuovo professore apprendono la Chimica Agraria
unita alla Generale, alla Fisica meteorologica, ed a quella parte
della Geologia che si connette strettamente alVIndustria dei campi.
V ha eziandio un'insegnamento di zootecnia, ed uno di botanica
generale, col primo de' quali si danno anche le norme mediche ed
igieniche per la cura del bestiame, e nella seconda si insegnano i
precetti per la coltivazione delle piante di alto fusto, da boschi e da
pometo. Finalmente un'ultimo insegnante dà ivi lezione di Economia
pubblica e di legislazione, nei suoi rapporti coli' Agronomia. Tale è
in compendio il corso che i giovani addetti alla scuola di Orignon
seguono per tre anni, e de' cui fhitti ignoro se la Francia abbia
grandemente da lodarsene.
Quello che fa per noi si è che la logica facilmente ci dimostra
essere assai meglio intesa la distribuzione e la qualità delle materie
scientifiche, nelle quali in Francia si vogliono istruiti coloro che
amano dedicarsi all'esercizio dell'Agronomia, giacché uscendo da tali
scuole, sapranno almeno ad un bisogno applicare la scienza appresa
nella scuola, o alla livellazione di un terreno, od a prestare oppor-
tunamente un rimedio, se qualche disgraziato accidente fosse occorso
al bestiame in un podere. E questo mio pensiero viene poi piena-
mente confermato dalla circostanza, nella mia opinione di grandis-
simo peso, che unita alla teoria va ognora in quelle scuole congiunta
la pratica, e gli alunni congregati in convitto, lungi dal rumore
delle popolose città, e nella quiete de' campi, si esercitano, occor-
rendo, anche manualmente sui poderi uniti alla scuola, in quelle
pratiche, il conoscer le quali è più essenziale.
Gli alunni dell'Istituto Tecnico, voluto come la legge Casati co-
manda, usciranno inverniciati, ed eziandio se vuoisi profondi abba-
stanza nelle cog^^izioni de' fenomeni fisici dell'elettricità e del ma-
gnetismo, potranno schiarirvi la teorica delle ammoniache copulate
dell'Hoffmann e del Wurtz, ma Dio ne guardi dal chieder loro l'a-
nalisi di un terreno, dal cercare un consiglio in caso di timpanitide,
dal dimandare la loro direzione per livellare un terreno. 0 non lo
sapranno o sapendolo teoricamente, saranno altrettanti pulcini nella
stoppa quando si tratterà di mettere in pratica gl'insegnamenti im-
parati nelle scuole.
Aggiunga un altro inconveniente. La debolezza umana che farà
credere all'alunno uscito dall'Istituto, e novizzo nell'arte agricola,
di saperne e£Eettivamente più d'oggi vecchio pratico, lo indurrà a
trattar i contadini d'alto in basso, o con quel tuono mezzo compas-
sionevole e mezzo sprezzante, che eccita sempre in cattivo senso
l'amor proprio d'ogni benché rozzo individuo, che se ne vendicherà,
ripagandolo a misura di carbone, colla disobbedienza, col rifiutarsi
DBéLI ISTITUTI TBCNICI 383
a mettere in pratica ogni di lui suggrerimento, e gittandogli dietro
le spalle lo spregio ed il ridicolo. Guai poi se Talunno uscisse dal
ceto campagnuolo ; sarebbe una calamità ; perchè uno de' casi che
io cito, basterebbe a togliere la volontà d*istruire i proprii figli ad
ogni flttabile e ad ogni fattore che bramasse i suoi discendenti
istruiti, affinchè pell*avvenire seguitassero nell'esercizio dell'arte
paterna.
Per tutte queste ragioni a me pare doversi in altra maniera re-
golare il compito degli alunni. E primieramente veggo la necessità
di prolungare gli anni di corso, e da due ridurlo a tre. Cosi opera-
rono i Milanesi, e molto lodevolmente. In secondo luogo è necessario
farli accudire a studii sommamente applicativi. Per questo devonsi
evitare tutte le verità astratte la cui enunciazione non si riconosca
assolutamente indispensabile, e concretare con esempii ogni dettame
di scienza.
Qiundi il professore di meccanica, ad esempio, nelle dimostrazioni
vorrei che si valesse, per quanto è permesso, dei numeri a prefe-
renza delle cifre algebriche, e quelli di fisica e chimica non si in-
golfìassero nelle teoriche, ma limitassero i loro sforzi a dimostrare
con chiarezza e precisione quanto la teorica e la pratica vadano con-
giunte, e come la spieg^ione de* fenomeni e la loro riduzione a
leggìi generali, non appaghi soltanto una lodevole curiosità, ma
sia strada a migliorare le pratiche antiche, e ad introdurne delle
nuove che aumentino la produzione, diminuendo in egual proporzione
le spese.
Certo sarà questa una grave difficoltà per gli insegnanti, i quali
molte volte saranno perciò costretti ad allungarsi in operazioni arit-
metiche complicatissime, mentre pochi segni algebrici sarebbero ba-
stanti, e dovran ricorrere a circonlocuzioni lunghissime, che non
presentando nitida Tidea principale, può distrarne gli uditori, e ren-
dere alquanto oscura e slegata la pertrattazìone ; ma se negli
apprendisti vi sarà amore e sete della scienza , essi che pur ne
avranno sentito il bisogno, accompagneranno colla loro assiduità e
diligenza gli incessanti sforzi del loro maestro, e termineranno col
rendersi fiunigliari le verità scientifiche, le quali dapprima riuscivano
maggiormente astruse.
Opporranno alcuni alla massima che qui professo, la necessità
di troppo allungarsi in dettagli, cosicché non rimarrà tempo suffi-
ciente per esaurire i ministeriali programmi. Ebbene sia. Per me
che sono dell'assoluto parere esser il meglio sapere poco, ma bene,
che divido col conte di Cavour Tedio per la mezza scienza, preferirò
sempre i giovani ammaestrati ne' principii generali della scienza, e
nelle più prossimo applicazioni di questa , a coloro i quali come
384 RIVISTA CONTEMPORANEA
farfalle delibarono una moltitudine di fiori senza saperne trarre un
succo nutritivo. Dai primi usciranno gli scienziati, che faranno poca
pompa del loro sapere, ma chiamati ad insegnare, o ad esercitare
una scienza risponderanno equamente alla confidenza che pone in
loro la nazione; dai secondi avremo de' buoni a tener lieta una bri-
gata, ad abbagliare gì* ignoranti, ma dai quali né la patria, nò la
famiglia trarre saprà utile alcuno.
E questo metodo, che a me apparisce il solo conveniente neirin-
segnamento delle scienze tecnologiche, molte volte giunge ad inna-
morare la gioventù di una scienza, quand'anche nel cominciare ne
frequentino la scuola con svogliatezza, persuasi che alla fin fine non
riesca loro di giovamento. Il mio pensiero fu confermato non ha
guari dall'esperienza in un'occasione che capitò a me medesimo. Mi
permetta la S. V. Ili» che io lo esponga, a conferma della sentenza
poc'anzi accennata.
Il Municipio di Forlì presentendo nel 1861 che per quell'anno
scolastico non si sarebbe aperto l'Istituto tecnico, né volendo che la
gioventù studiosa la quale avea cominciato il corso filosofico nella
città si assentasse, per obbedire ai reclami dei genitori desiderosi di
non allontanare i proprii figli in età troppo tenera, determinò di
conservare per quell'annata scolastica il corso filosofico, e mi officiò
affinchè dessi colà alcune lezioni di fisica. Accettai l'incombenza, ma
sui primi momenti mi trovai ben imbarazzato, che degli alunni ben
pochi aveano studiate le matematiche elementari, e se taluno ne
avea frequentata la scuola, non era da sperare ne avesse approfittato,
per la ragione che in quell'anno di trambusti era quasi impossibile
lo esigere dagli studenti un po' di attenzione. Erano dunque quasi
affatto digiuni delle cognizioni scientifiche, che pure aiutano Fin-
segnante a compendiare in poche parole le proprie lezioni. Trovatomi
in questa condizione, mi rimanevano da eleggere due strade: 0
spiegare le cose alla meglio, e seguitar dritto il mio cammino, di-
cendo in cuor mio l'adagio qui potest capere capiate o prendere la
via assai più lunga ma sicura di arrivare al risultato, che avrebbero
capito qualche cosa, colla scorta del metodo indicato più sopra. Fui
veramente fortunato nell'avere giovani studiosissimi e di grande ca-
pacità, fra i quali ne ricorderò sempre con amore due, Antonio
Fratti ed Olindo Umiltà, che ora nell'Università Bolognese fan
mostra di diligenza e d'ingegno non comune: ma per ognuno il
linguaggio algebrico era quasi scrittura araba. Mi risolsi perciò
di seguitare il metodo così concretato. Esposta la legge generale,
discendeva a mo' di esempio ad un caso speciale, e lo traduceva in
numeri aritmetici, ed allorquando il calcolo era steso sulla tavola,
mostrava come sostituendo ai segni numerici il significato genera-
DBOLI ISTITUTI TECNICI 385
lissimo degli algebrici, si riuscisse alle forinole che vcDivano sugge-
rite dagli autori.
Ricordo che il primo giorno in cui presi ad insegnare in tale
maniera, yidi sul volto de' miei uditori dispiegarsi dapprima un senso
di sorpresa, e dirò anche di gratitudine per me, che si tradusse poi
in ringraziamenti al termine della lezione. Fra gli altri uno che non
avea voluto mai persuadersi del perchè, a lui, che intendea percor-
rere la carriera giurìdica, si insegnassero le matematiche, venne a
dirmi che in quell'ora sola era giunto a comprenderne l'utilità.
Detto del metodo, veggiamo qual debba essere il fine dì tali studii.
Credo fermamente che sia bene creare della Sezione agronomica
una scuola per i periti geometri, che sappiano all'occorrenza rilevare
un piano, delineare una mappa, e supplire in molti casi alla mancanza
di ingegneri laureati/nelle transazioni fra i privati, nelle stime dei
fondi rurali, ed anche nelle operazioni catastali di second'ordine,
allorquando il Governo porrà mano alla creazione grandiosa e pur
necessaria del gran libro fondiario. Cosi molte e molte famiglie di
fortune ristrette potranno educare i loro figli tenendoseli presso, né
dovranno incontrare sacrifizii, che talvolta le dissestano per sempre,
ed oltre a ciò molti e molti si daranno all'esercizio dell'arte agricola,
0 curando i proprii poderi, o gli altrui in qualità di fittabili o di
agenti per grandi tenute, od anche potranno aspirare agli impieghi
di verificatori dei pesi e misure, o ad altri secondarii del Governo,
0 delle società private nelle cure delle ferrovie.
Accennato al metodo da seguirsi nell'insegnamento, e che a me
pare il migliore, ed al fine che si deve proporre, ne consegue natu-
ralmente che debbansi necessariamente cangiare d'assai i programmi,
ed in parte anche l'insegnamento cui vuoisi applicata la gioventù.
Trovo giustissima l'idea di volere che l'alunno di qualsiasi isti-
tuto applichi qualche ora allo studio della letteratura, che il saper
bene la propria lingua e lo esprimersi con chiarezza, precisione e di-
sinvoltura, debbe esigersi da chiunque non restringe le proprie co-
gnizioni al non essere inalfabeta; e mi sembra ottimo lo studio della
fisica e della chimica, come pure della storia naturale, ma non lodo
affatto la distribuzione delle materie, e non mi piace che l'alunno
uscente dalle scuole tecniche e preparantesi allo studio della geodesia
trovisi digiuno affatto degli elementi di geometria solida, e di trigo-^
nometria, e della architettura pratica. Pare anzi a me necessario an--
cora lo studio degli elementi di pubblica economia, e della contabilità,
nò sarei malcontento che di tanto in tanto il professore esercitasse
i giovani in qualche studio etnografico sui dialetti italiani, la loro ori-
gine, ed i loro ra{qporti più o meno vicini colla lingua madre. Eccole
pertanto, Illustre Signore, in compendio quali sarebbero le scienze
jmna e. -25
386 RIVISTA CONTBMPOBANBA
che proporrei di studiare ai Giovani che si dedicassero alla sezione
agronomica negli Istituti.
Classe dbllb Scibnzb positive.
V Matematica elementare della Geometria solida e della Trigono-
metria e loro applicazioni più speciali alla misura dei volumi e
delle distanze.
2*» Geodesia, Perizia ed Architettura rurale, preceduti dagli Elementi
della Geometria descrittiva — Meccanica ed Idraulica agricole.
3*» Fisica speciale destinata a dar un'idea dei fenomeni de' corpi im-
ponderabili, e loro applicazioni alle arti industriali ed agricole,
non che dei loro effetti meteorici e quindi delle indagini di cli-
matologia per norma da istituire osservazioni meteorologiche.
4** Botanica generale e speciale, che &ccia conoscere l'organismo
fondamentale delle piante utili o nocive in agricoltura, e le va-
rietà introdottevi nella coltivazione. Norme per la coltivazione
delle piante arboree da frutto, e da innesto. Selvicoltura.
5** Zootecnia generale, che dia una cognizione dell'organismo interno
ed esterno dell'animale, e dell'anatomia e fisiologia degli ani-
mali domestici. Studii comparativi che mettano sott'occhio allo
studente le diverse razze degli animali domestici, o dei quali si
desidera l'acclimazione, e dei metodi che condussero i più ce-
lebri zootecnisti a creare le razze.
6"* Chimica generale inorganica ed organica, alla quale si premet-
teranno alcuni cenni di Geologia pratica, pei quali si possa dalla
giacitura dei terreni dedurne, senza andar lungi dal vero, gli
elementi ed i materiali che compongono le terre aratorie.
Classb delle Scienze razionali.
7*» Principii di letteratura italiana e regole dell'arte del comporre;
Studii comparativi sui dialetti dei popoli italiani, loro origine
ed avvicinamento maggiore o minore alla lingua madre.
8" Storia comparata dei popoli, del loro sviluppo morale ed intel-
lettuale, della loro preponderanza nella civiltà a norma del pro-
gresso delle arti agrarie, e della loro decadenza al decadere di
queste.
9*» Contabilità ed Economia delle coltivazioni, e studii comparativi
per raccogliere gli elementi onde istituire i calcoli necessarii a
dimostrare nella rendita T utilità delle varie coltivazioni.
10° Economia pubblica ne' suoi rapporti coli' Agricoltura e Legisla-
zione rurale: Studii sulle leggi dei popoli antichi e moderni in
DEGLI ISTITUTI TECNICI 387
quel che riguardano l'arte di coltivare i campi, non che dei rap-
porti che corrono fra il proprietario ed il colono, i contratti in
uso nel paese, e loro razionalità.
Faranno le meraviglie taluni che nel novero delle cattedre da
istituirsi non siasi compresa quella dell'agricoltura generale o di
Agronomia. Se però ci faremo a riflettere che in generale i corsi di
agricoltura che si hanno alla stampa, cominciano con un trattatello
di chimica agraria unito ad alcune nozioni di geologia e di mecca-
nica, per venir poi a parlare della coltivazione delle piante speciali
e terminare con alcuni cenni di zootecnia, e di albericoltura, dovremo
convenire che tale scuola più che utile riuscirebbe di danno. Nel.
fatto il corso di agricoltura generale fatto da un professore in vasto
programma finirebbe col mettere assai facilmente, almeno per alcune
vedute, ammettiamole pur secondarie fin che vogliasi, in contraddi-
zione rinsegnante coi proprii colleghi, ed allora confusione nella
mente degli allievi ed utilità nessuna nella scuola. D'altra parte il
progredire del complesso delle scienze sono tali eziandio per tutto
ciò che avvi di applicazione all'arte agronomica, che per aver chia-
rezza e precisione nell'insegnamento sta bene le materie poc'anzi
citate siano il più delle volte sviluppate nella loro interezza. Arrogi
che lo stesso programma steso dal Ministero per questa parte di in-
segnamento viene a darmi perfettamente ragione. Basta recarselo
fra le mani per convincersene. Il primo capitolo è tutto quanto ri-
ducibile a chimica agraria, né trovasi trattatello di questa che non
accenni necessariamente alle proprietà generali fisico-chimiche dei
terreni, alla loro formazione, ecc. e ciò si vede dal classico Ubro del
Boussingault a tutti i di lui compendiatori. Dicasi così in gran parte
per le materie del secondo capitolo fino al paragrafo 22. Da questo
punto vi entra la meccanica e l'idraulica, e se tolgasi il primo ca-
pitolo della seconda sezione che è tutto appartenente alla botanica,
la parte meteorologica e climatologica toccherebbe alla fisica ed alla
geografia.
Il botanico potrebbe trattare tutte le materie indicate dai capi-
toli 2 e 3 della seconda sezione, ed il zootecnista la rimanente unita-
mente al chimico ed alFiusegnante la contabilità.
Questo insegnamento medesimo non è d'altronde stimato gran
cosa da chi stendeva il regolamento, che obbliga gli alunni i quali
frequentano la sezione agronomica ad un solo anno di corso ; mentre
chi stendeva i programmi divise le materie in due. Qui dunque o
avvi contraddizione, o non si è stimato gran fatto utile la cosa. La
prima ipotesi non è supponibile in chi dirigeva allora l'istruzione, è
da ritenersi vera la seconda.
Rapporto al materiale scientifico di cui dovrebbero andar ricche
388 RIVISTA CONTBMPORANBA
le scuole suaccennate, sarebbe necessariamente molteplicce, e per
questo importerebbe non piccola spesa : se non che incontrandola a
gradi si eviterebbe ogni aggravio alla provincia. Di più si danno
certe categorie di dispendii, che fatte potrebbero riuscire di profitto
alla scuola medesima. Pongasi il caso che la scuola di meccanica
acquisti una trebbiatrice mossa da animali. Si sa che la spesa ascende
presso a poco a 2500 franchi. Ma se questa macchina nella stagione
opportuna si mettesse a disposizione degli agricoltori, che in quei
momenti vengono pressati dai lavori, e ciò a fronte di un equo in-
dennizzo , ben presto si vedrebbe rientrare il capitale , e potrebbe
rendersi anche di profitto alla scuola in maniera da prestarsi coi
proventi a far incetta di altre macchine meno dispendiose. Dite cosi
de' spandifieno, de' rastrelli Howard, delle mietitrici, falciatrici e di
altre macchine consimili, finora poco o nulla conoBciute nelle Pro-
vincie dell'Emilia, ma che dovranno introdursi ad economia di tempo
e di braccia, e se vuoisi che TÀgricoltura nostrale vada a collocarsi
al pari di quella delle altre nazioni, che pur non furono favorite da
cotanta dolcezza di clima e fecondità di terreno. Ma come dissi, la
provincia non dovrebbe far acquisto di tali macchine altro che gra*
datamente, sempre conservandone la proprietà. Quello che pel mo-
mento interessa si è che il Grabinetto di meccanica vada provvisto dei
modelli meglio adattati a dimostrare praticamente quanto siano ve-
ridici i principii fondamentali della scienza in ordine alla costru-
zione delle macchine inservienti all'agricoltura, e dei motori che vi
si applicano. Per quanto possa il caso essere una buona guida in al*
cune circostanze, e nelle mani di un osservatore oculato nelle scoperte,
giammai nessun perfezionamento razionale sarà introdotto nelle mac-
chine, se il perfezionatore non sìa condotto dalla assoluta cognizione
de' principii scientifici ; ed è per questa ragione che come insisto
nel chiedere che il cattedratico elimini tutto quello che avvi di tra-
scendentale e di astruso nelle lezioni, altrettanto desidero che sì
sforzi di dimostrare come la teoria consuoni colla pratica, ed istilli
nella gioventù quello spirito osservatore, e quel principio di analisi
per cui ogni perfezionamento non è che la deduzione strettamente
logica ed essenziale dei dati generali sui quali stanno le fondamenta
della scienza. Io vo altresì persuaso che possano riuscire di qualche
utilità i modelli in piccola scala delle macchine semplici, sulle quali
basano le cognizioni della meccanica, ma altrettanto giudico inutili
anzi dannosi que' giocattoli da ragazzi che chiamansi modellini, se
trattasi di utensili agricoli che vogliono essere giudicati praticamente
utili, e de' quali vorrebbesi tentare l'applicazione nella provincia; e
ciò per la ragione che non avvi terreno che non ricerchi negli uten-
sili suddetti qualche modificazione più o meno importante a renderli
DMLI ISTITUTI TECNICI 389
gioTevoli non solo ma servibili. Così io vidi talvolta lodatissimo nei
giornali qualche aratro od erpice che poi applicato nel terreno non
corrispose né alle lodi, né all'aspettativa, e a confermare quanto si
disse, citerò un fatto avvenuto sotto i miei occhi.
Fu da un abilissimo meccanico introdotto pochi anni sono nel-
l'Agro Piacentino l'aratro belgico. Benché per tutte le ragioni pre-
feribile all'aratro che usasi colà comunemente, ed anche alle piede
reggiane che cominciano a penetrarvi (intendiamo bene, per l'Agro
di Piacenza) dopo alcuni tentativi fu abbandonato, che gli agronomi
l'accusavano di avere troppo corto il versante. Bastò tuttavia una
piccola appendice allo stesso versante per renderlo superiore non
solo come dissi all'aratro comune di quel paese, ma per l'economia
di tempo e forza di trazione alle piode istesse.
Il Gabinetto di fisica andrebbe fornito di modelli adatti a dimo-
strare quanto le arti progredissero coll'applicare le modificazioni su-
bite dai corpi mediante gli imponderabili, e di strumenti meteoro-
logici ad istituire osservazioni precise, affinché nascesse negli alunni
la volontà di applicarsi alle osservazioni di questa pairte cotanto in-
teressante per Tagricoltura.
Se i Gabinetti di fisica e di meccanica sono da desiderarsi ricchi
di apparati, non meno lo dovrà essere il Laboratorio chimico. La
scienza chimica applicata all'agricoltura é sempre quasi nello stato
d'infanzia, perchè l'applicazione della medesima presenta astrusissimi
ed ardui problemi, e le teoriche le più stiipatee seducenti, meglio che
sui fotti ben definiti, basano sopra ipotesi immaginose sostenute da
esperimenti intrapresi fra le pareti di un laboratorio, e quindi non
proporzionate all'uopo. Ne viene la necessità da questo di prestare al
cattedratico tutti i mezzi che si stimano opportuni, non solo ad istruire
i discenti, ina ancora per ricercarne, nei momenti non occupati dal-
l'insegnamento, la soluzione de' problemi accennati.
Così sarebbe desiderabile di veder copioso il Gabinetto di zootec-
nia, specialmente perchè potesse mettere sott'occhio all'apprendista
i tipi delle diverse razze, che vennero create dai più celebrati cul-
tori degli animali utili all'agricoltura, cosicché alla voce dell'inse-
gnante che chiarisca gli sforzi fatti dal Bakewel e dagli altri zootec-
nisti possa aggiungersi la dimostrazione sensibile degli ottenuti
effètti. Il raccogliere per conseguenza i tipi diversi delle razze, e
produrli in iscale adattate a pienamente far conoscere come l'arte
possa supplire e correggere la natura, è assolutamente indispensa-
bile, cosicché si vegga ad esempio per la razza suina, come dal ci-
gnale inquieto e pericoloso delle foreste, uno studiò attento abbia
condotto fino alla produzione del quietissimo maiale anglo-cinese
tanto dissimile dal suo tipo primitivo per carattere e per lo sviluppo
nei sistemi osseo, adiposo e muscolare.
390 RIVISTA* C0NTBM1K)RANKA
Alla scuola di botanica dovrebbe essere addetto, oltre ad un er-
bario che dimostrasse, coi caratteri i più pronunziati, le differenze
che passano fra le diverse piante coltivate e quelle degli stessi ge-
neri che sono cresciute in istato selvagg^io, anche un orto sul fare
di quelli di Bologna e di Pavia, nel quale in tante aiuole separate si
coltivassero annualmente le varietà delle piante da semi e da forag-
gio più utili all'Agricoltura, per esercitare Focchio del giovane nella
distinzione dei caratteri specifici ; e per la economia delle coltivazioni
un podere, la sorveglianza del quale si affidasse air insegnante la con-
tabilità, ma in cui dovrebbesi dietro preventivi concerti presi con
qualunque altro professore, attuarsi ed istituirsi esperimenti sia che
questi venissero fatti d'accordo fra due o più insegnanti della sezione,
sia operati individualmente.
Sono ben lungi dal supporre che nascano giammai contestazioni
ed antipatie fra gli insegnanti , ma se accadrà, il più delle volte
se ne dovrà la cagione principale alla speciale circostanza che l'uno
senza accorgersene invade il campo scientifico dell'altro, tanto in
alcuni punti le scienze si combaciano Tuna coll'altra. Tuttavia ad
evitare tale inconveniente credo buona cosa che trattandosi dell'am-
ministrazione del podere destinato a servire di norma per istruire la
generalità degli studenti , debba rimanere fra le mani , e sotto la
responsabilità di un solo , e che il più adattato sarebbe sempre
quello che detta la scienza della contabilità.
Che se altro professore intenda d'intraprendere esperimenti a scio-
gliere qualche problema di chimica o di zootecnia o delle altre materie
che esigono un vasto campo, potrà designare all'uopo un appezza-
mento di terra , od un animale su cui intendesse esperimentare , e
su di esso chiamarsi assoluto padrone. Il direttore del podere in
questo caso dovrebbe prestare l'opera propria colla assidua sorve-
glianza onde impedire che la incuria, o la malizia, od altro sgraziato
incidente mandi a male il tentativo, come pure sarebbe obbligato
a concedere tutti que' mezzi che il podere può pre3entare al fine di
arrivare allo scopo che lo sperimentatore si prefigge ; e siccome ogni
esperimento viene giudicato di utile riuscita se colui che lo imma-
gina e lo intraprende vi trova il tornaconto , così dovrebbe il pro-
fessore di contabilità coi dati prestati da chi esperimenta, tenere una
esatta e severa nota della spesa e del guadagno.
Quali siano i pochi materiali che occorrono per Tinsegnamento
delle scienze razionali non è difficile il definirlo. Ma tale stabilimento
- sarà poi felicissimo nell'esito come si vorrebbe da chi si sobbarca a
tale spesa? Potrà elevare in pochi anni l'industria agricola nos|;rana
al livello che toccarono le altre nazioni, e la Inglese in particolare,
che sebbene sotto un cielo nebbioso continuamente, ed un clima tri-
DMLI ISTITUTI TECNICI 391
stissimo ci supera non di meno nella produzione di due degli ele-
menti della più alta importanza per la nutrizione delVuomo, vale a
dire la carne ed il latte, ed oggidì non ci è molto lontana nella pro-
duzione del frumento?
Debbo candidamente confessarlo; le condizioni nelle quali son
posti gli abitatori delle campagne, pei governi dispotici che fino ad
ora ci hanno oppresso, per la grande influenza che su di èssi ebbero
finora i parrochi, i quali per la massima parte dimentichi del loro
sublime ministero, esercitavano talvolta anche pulitamente il mestiere
di comissarii politici, fecero nascere nel cuor de* contadini la massima
che il proprietario od il fittaiolo a vece di essere per loro un confi-
dente ed un amico, ed un uomo che cercasse di raggiungere con
loro utile ancora, lo scopo a cui aspiravano di migliorare la propria
condizione, fosse al contrario un dichiarato nemico. Di qui la con-
tinua e manifesta diffidenza in ogni cosa, in tutti i miglioramenti che
si bramasse di introdurre, e que*non lievi indizii di mal umore, non
abbastanza celati nel fatto dei politici cangiamenti ; il che nasce non
già dalFamore di questo più che di quel Governo, o di questa più
che di quella dinastia, ma bensì dal timore che la loro condizione
peggiori, e finalmente quella resistenza di inerzia nel mettere in
opera tutto ciò che li allontana dalle consuetudini antiche.
À me sembra che la necessità più urgente in cui si trovano le
Provincie per migliorare l'agricoltura, sia di educare convenevol-
mente il contadino ; questa razza forte e vergine ancora, che ci dà
il sudore della fronte a mantenerci gli ozii della città, e sacrifica la
maggior parte del sangue a preservarci da straniere prepotenze. Fino
ad oggi fu questa una classe ben poco dai legislatori considerata,
eziandio da coloro che di istituzioni caritatevoli e filantropiche esclu-
.sivamente si occuparono, benché ne abbia più d'ogni altra il diritto.
Noi veggiamo pel popolo delle città e delle grosse borgate, Governi
e Società spendere pensieri ed oro in opere benefiche; pel figlio
dell'operaio urbano asili d'infanzia, ricovero se orfano, ed altre cento
svariate istituzioni. Nulla di tutto ciò pel popolo della campagna.
Non opere benefiche, pochissime scuole ; ma ad esso un Governo pre -
vidente e provvidente un giorno o l'altro dovrà pensare, nella cer-
tezza che troverà in lui quel sentimento di gratitudine, che è il più
nobile istinto di un cuor vergine. Scuole ed asili anche nelle par-
rocchie rurali saranno certamente un gran bene, e se il maestro
avrà qualche cognizione d'agricoltura appresa nelle scuole normali,
e potrà tradurre nella pratica sotto gli occhi degli allievi in piccolo
fondo a lui destinato dal municipio, o ragionandone qualora si in-
contri in poderi ben tenuti, nelle passeggiate campestri fatte di con-
serva ai proprii allievi, riuscirà certamente di utilità incontestabile.
392 BinSTA CONTBMPORÀNBA
Ma tali rimedii a fronte di quanto venga suggerito nelle famiglie
da pregiudizii inveterati avranno sempre il valore che hanno in me-
dicina i medicamenti amministrati a dosi omeopatiche. Il (Governo e
le Amministrazioni provinciali e municipali dovrebbero pensare ad
educare una generazione di contadini forti e muniti della pratica
contro i pregiudizii e le poco valevoli norme. Ma sì chiederà dove
trovarli, e trovati aggraveremo provincie e municipi! di ingentissime
spese? Questo io noi chieggo. Ma domando bensì che le Ammini-
strazioni rivolgano le cure e le attenzioni ad una frazione della popo-
lazione, che fino ad ora per essere abbandonata crudelmente dal suo
primo nascere in balia della sorte, è necessariamente adottata dal
pubblico, che la tutela nei primi anni dell'età sua e dalla quale
pur troppo finora non trasse che risultati il più delle volte tristissimi.
Intendo i trovatelli. Io non ho mai potuto pensare a questa spregiata
parte della popolazione, che porta sopra se stessa il tremendo ca-
stigo di un delitto che non ha commesso, senza sentirmi profonda-
mente commovere. Ora se questi esseri infelici, invece dì essere la-
sciati in abbandono alla loro sorte, commettendone Teducazione della
prima età a qualche famiglia colonica, che il fa allettata dal solo fine
di un principio di lucro, per ripararli poi nell'avvenire in luoghi
chiusi, malsani o poco aerati della città, e farli'apprendere un qual-
che mestiere in opificii pubblici, dove talora più che l'arte appren-
dono rimmoralità, fossero raccolti in uno stabilimento apposito, in
prossimità al podere diretto dal professore di contabilità, e su di esso
si assuefacessero sotto l'oculata e caritatevole cura di un probo di-
rettore ai lavori campestri, coadiuvando ed assistendo i professori
negli esperimenti che credessero opportuno di tentare, dopo tre lustri
o poco più, la provincia comincierebbe a numerare non pochi con-
tadini probi, illuminati e capaci per Tistrxizione ricevuta di reggere
l'azienda, e ben condurre un podere. Che se fra essi taluno si mo-
strasse a preferenza degli altri svegUato di ingegno, il coltivarlo
più assiduamente non sarebbe difficile, come sarebbe facile prestar
lavoro ad alcuni di tali infelici non favoriti dalla natura della
robustezza necessaria ai lavori campestri, fondando un opificio da
fabbricarvi macchine ed utensili agricoli sotto la direzione del pro-
fessore di meccanica.
Nò tali stabilimenti sarebbero di spesa ingente e le provincie
potrebbero sobbarcarvisi, se si rifletterà che in Italia non si conta
città 0 grossa borgata dove un'anima sensibile non abbia lasciato
qualche ricordo di sé compartendo alcuna porzione della propria so-
stanza a profitto degli infelici de' quali discorriamo, se penseremo
che non annoverasi opera pia o congregazione di carità che nel pro-
prio preventivo annuale non stabilisca qualche somma pel manteni-
DMLI iSTlTtJTI TBCNIOI 993
mento degli orbati de' genitori, o non sostenga la spesa di uno sta-
bilimento apposito col nome di Casa della Provvidenza od Orfano-
trofio: e non credo che sarebbe tradire le pie- intenzioni dei testatori,
se un podere dei molti usufruttati dai nostri ospizii si destinasse ad
accogliere questi infelici, per educarli alle operazioni campestri, e
renderli uomini laboriosi, saggi lavoratori, tenendoli piuttosto iso-
lati dalla società corrotta e corruttrice, per distruggere in loro quel
mal germe che il più delle volte è impresso nella loro stessa orga-
nizzazione in causa della loro propria origine? E quand'anche le
Amministrazioni dovessero subire qualche sacrificio nel primo im-
pianto degli stabilimenti che propongo, non si darebbero denari
meglio spesi e più fruttiferi, e contro questa imposta speciale non
avrebbe cuore chi reclamasse. Se sotto i governi dispotici i muni-
cipii ingolfaronsi nei debiti per erigere teatri e festeggiare sovrani,
che erano in uggia alla popolazione, non potranno d'ora innanzi
municipii e provincie sacrificare qualche cosa per migliorare la con-
dizione di esseri che fino ad ora furono considerati quale un rifiuto
della società, e non meritano che compassione. U Governo e le am-
ministrazioni b^ vi pensino, e si persuadano che non avrassi miglio-
ria radicate in Agricoltura, se Tedocazione concessa al proprietario
non scenderà fonte benefica eziandio sul contadino.
B la S. y. che il Governo elesse a rinverdire nella nostra Pro-
vincia le memorie tanto care del sempre compianto Pietro di Santa
Rosa, e che recò fra noi nuovamente quell'alito di gentilezza e di
virtù, nella cui atmosfera si ritemprarono sempre i cuori ben fotti,
ben sa quanto possa trarsi di utile da una buona vobntà. E la se-
vera Torino, di lei patria, ci fu in questo esempio solenne, che la
piccola Colonia Agricola, fondata dallo zelante D. Cocchi a Moncucco,
potrebbe per noi essere veramente un tipo. Ed Ella potrebbe colla
autorità del grado e colla fermezza de' propositi insistere presso le
pubbliche amministrazioni che ne dipendono, per iniziare un'opera i
cui efietti muìderebbero benedetto alla posterità la di lei memoria.
M'abbia frattanto la S. V. fra coloro che più altamente le pro-
fessano i sentimenti di ossequio, co' quali ho il piacere di firmarmi
Della S. V. m.««
D&ootisHmo servo
Pbof. Antonio Sblmi.
394
DELLA EPIGRAFIA
(*)
PENSIERI
XI.
Un principio di questa sorle dovrebbe prestar la misura e l'ap-
poggio ai fabbricatori di vocabolarii e all'autorità delle lingue.
Ciascuna lingua è un sistema meccanico d'incarnare un sistema
d'idee, e come elleno s'ingenerano per virtù d'analisi e per via
d'emanazione, cosi dovrebbe succedere delle lingue, le quali se
nascono dal fecondante usarle che fa il popolo, son dai dotti e dai
filologi allevate e compiute. Luigi Muzzi si avvisò di tali verità il
primo, 0 il primo almeno le bandi a documento degli implacabili
Achilli della Grammatica, e dopo lui col fatto e col precetto le ribadì
Vincenzo Gioberti, maestro solennissimo del bel parlare. Giuseppe
Giusti che dell'italiano idioma fu il più abile maneggiatore, rideva
dei cruscanti e d'ogni generazione di puristi, che fanno comanda-
mento al retto scrivere l'idolatria della Crusca e il trecento. È una
fissazione quella che induce ad impedire l'accrescimento delle
lingue, e obbliga a sobbarcarsi allo sragionevole magistero dei di-
zionarii e degli scrittori che sono canonizzati per classici. I padri
della lingua avendola conceputa e partorita, meritano ossequio e
deferenza. Ma le lingue, come gli uomini, nascono fanciulle, e in-
grandiscono dipoi per intrinseco augumento e per l'alleva tura della
nutrice e dei parenti. Chi educa un fanciullo, purché non ispenga
in esso lui i sentimenti d'uomo, ossia non ne deformi la natura,
colui è padre non diversamente di chi lo generò dapprincipio. La
fissazione scempia, che notammo, collima colle idee scientifiche e
(*) Vedi i Fascicoli di Settembre ed Ottobre.
DBLLA BPiaBAFIA 395
scolastiche delle infelici età discorse; idee che produssero lo scadi-
mento delle lettere e d'ogni civiltà. I lavori filologici elucubrali fin
pressoché a noi, se ne eccettui Vico, son su per giù trastulli da
bimbi, e certiGcati d'una tortura da cui uomini eziandio ingegnosi
eran premuti ed avviliti. La radice della parola è la vera sostanza
delle lingue, e l'espressione dell'idea complessa. Ma le idee perchè
raramente son semplici, e qifasi mai determinate o assolute per loro
natura, cosi quasi tutte le radici sono acconce a sviluppi e a mo-
dificazioni relative. Una radice è capace di spighire e menar mille
vocàboli, serbando l'unità del gambale e l'indole propria, e sva-
riandosi nelle rama, cioè a dire pigliando parole che sienle uguali
nel fondo loro, ma di0erenti pelle terminazioni o pegli accidenti,
che corrispondono affatto a quelle modificazioni ond'è suscettibile
una idea, che per modificarsi non cangia peraltro cera e sostanza.
Quando le inflessioni d'una parola hanno il carattere della lingua che
si parla, non son mai troppe né temerariamente introdotte. Se è il
contrario, se cioè non è vero questo, come salvano Petrarca e Boc-
caccio che per cosiffatto artifizio non per altro ampliarono a dismi-
sura la lingua di Matteo Spinello e di Giulio? Non è più consentaneo
a ragione questo metodo che lo accattare da altre lingue sien pure
affini 0 cognate, sia pure la greca? Dalla quale si fanno piuttosto
lalrocinii e rapine che non furti, spezialmente per le sintesi filolo-
giche, quasiché l'italiana vi si niegasse. Sembra dimenticato che la
lingua italica è un ritorno del latino al greco doriese, e che la stessa
virtù sintetica che giganteggia nel greco, e sopratutto nella purità
dorica, informa il genio del linguaggio italiano. La lingua italica
latineggia di parole, ma l'indole è puramente greca, o indubbia-
mente più greca che romana. Roma s'impinguò dell'atticismo, e
dello spirito progressivo ionico, e si allontanò da se medesima o
dal proprio carattere. Lo quale mantenne il dorico dialetto che in-
fluì tanto sull'italiano non pure perchè sorse in luoghi dove esso pri-
meggiava, ma perchè germinò dal popolo che parlando non seguita
il progresso dei scrittori, ma sta fermo e serba alle lingue l'abito
natio. 11 trecento infatti, sebbene ricco di latinismi e di parole pres-
soché latine, è quanto a sintassi o testura greco, e la semplicità,
ond'è mirabile, è greca semplicità, cosi discosta cosi impropria al-
l'idioma del Lazio. Il 500 abbandonato il grecizzare, latineggiò; onde
tanto è intollerabile lo scritto di quell'epoca, quanto è piacevole e
incantevole quel del trecento. Regola per coniar voci, è la conserva-
zione della radice e la inflessione paesana. La prima tien fi^sa l'unità
0 purezza filologica e iosieme rappresenta l'unità dell'idea che in-
carna, la seconda le successive modificazioni di questa e le varietà
derivative dei linguaggi viventi. Sostengono taluni che sinonimi
396 BinSTA GONTBICPOEANBÀ
non si danno, e ben si appongono» ragionando di veii>i, di aggettivi
e di sostantivi dipendenti da diverse radicali ancorché di senso con-
generi. Ma non quadra asserir Taltrettanlo dei vocaboli estratti da
una radice istessa e disuguali solamente nella cadenza^ siccome se
ne incontrano parecchi che son veri e proprii sinonimi. Anzi tanto é
vero che si danno, che in ciò sta appunto la copia e la dovizia d'una
lingua e il lusso di lei. La ricchezza ^delle lingue in questo è ri-
posta, nello abbondar cioè di voci oltra il bisognevole ad enunciare
le idee, perocché dato che una lingua abbia parole corrispondenti
alle idee, e vuoi anco alle modificazioni, sìen pur lievi, di esse ;
quella potrà esimersi dalla taccia di povera, ma non guadagnarsi
il cognome di ricca. Non pertanto non sarebbe da menar buona
Tof^nione contraria, che in fatto di lingua siavi licenza o potestà
sciolta, e chei vocabolarii e l'usanza non contino autorità. Conviene
lasciar intatta questa autorità, ma darne loro la giusta porzione. L'ab-
biano nel nettare la lingua dalle voci impure o dalle terminanti stra-
namente, a guisa di forasliere, ma non se Tarroghino (ino al punto
di vietare, a cagion d'esempio, che usando stabilezza per istabilità
non possa usarsi amabilezza per amabilità^ solo perché il vocabo-
lario non la registra, e cosi vai discorrendo. Le frasi non le parole
richieggono il suggello dell'uso. La frase è un ingrediente del-
l'organismo della lingua, e la tessitura d'una lingua essendo il por-
tato di molti secoli e di molti adiutori, non può commettersi all'ar-
bitrio d'un solo 0 di pochi, né accettarsi per cittadina senza la
sanzione del lungo domicilio e della universale approvazione.
xn.
Quando fu impiegata la lingua fonetica sulle tombe non isfuggì
a coloro che se ne avvalevano d'adoperarla tale quale senza dismet-
tere d'esser nazionale, fosse disforme della consueta nei parlari dei
vivi, che l'arte o l'attrito sempre raffina e polisce ; e fosse cioè
semplice e nuda, non recando seco né colorato acquisito né tornitura
del tempo, né dolcezza di leggiadria ; brevemente fosse una veste
augusta e antica di idee, comecché moderne e contempornee.
Laonde tutti gli epigrafisti scrissero secondo il poter loro in lingua
concisa, nuda ed arcaica (e l'arcaismo é forma semplice e piana),
benché gli arcaismi e la prisca aridità fossero stati supplantati da
freschi modi racconciati con più armoniche inflessioni o men duri
periodi, mano a mano che avevano colla civiltà progredito le let-
tere e le scienze. La lingua anticata era destinata ad esprimere
l'immobilità o il lato fermo della nazione, la natura e l'indole della
DELLA BPIOSAFIA 397
società che non cangia tempre, per assaissimo che le modifichi ;
e veniva cosi a significare quell'idea che solevasi leggere insieme
alle altre sulle urne degli elogiati, cioè l'idea incommutabile eterna
che spira dalle sepolture, rasente a quella di tempo e di permuta-
mento. E ciò cosi si predilesse^ che Roma quando si fece greca e
tutto modellò a seconda dei greci disegni, comunque si permettesse
di augumentare la propria lingua con ospitare gran parte delle
greche voci, non pertanto nell'epigrafia amò piuttosto di scarseg-
giare col povero idioma di Varrone, d'Accio e d'Ennio, che non lus-
sureggiare con Cicerone. Il lusso filologico dei tempi cesarei era
il culmine del progresso almeno apparente del linguaggio latino, e
l'ultimo indizio dell'avanzarsi e del dilungarsi da se medesimo e
dal genio primitivo. Non sarebbe stato dunque conveniente adope-
rare quei modi, che non avrebbero davvero riflettuto l'idea di fer-
mezza, che studiavansi d'imprimere coU'amminicolo della lingua
sopra i sepolcri. Ben è vero peraltro che questo canone Ai talora
offeso, 0 almanco non scrupolosamente guardato, sia perchè non
tutti seppero accarnare la vera natura dell'epigrafia, sia perchè la
lingua arrotondi ta dalla greca levigatura, aveva ormai sbanditi quei
vecchi parlari dei popoli pastori, sia anco perchè tra la lingua plau-
tina e terenziana e quella di Cicerone non era divergenza sostan-
ziale 0 cosi ben designata, da poter con giusto mezzo l'una scegliere,
recisamente o l'altra risparmiare. Ma all'offesa di tali canoni, quando
avveniva, era supplemento quella spezie di ortografia che era stata
tolta a contraddistinguere le epigrafiche scritture, e della quale il
Rambelli ci offerse interpretazioni curiosissime. La punteggiatura
di ciascuna parola, fin anco dì ciascuna sillaba, non fu casualmente
introdotta, come non a caso fu ogni punteggiamento talvolta abo-
lito. La prima specie esibendo le parole quasi l'una dall'altra disgre-
gate, rifletteva l'idea d'oltretempo, che di per sé sussiste e quasi in
se medesimo perfetto riposa. La seconda col dar le parole cosi
congegnate quasi fossero una sola, ostentava quel continuo, quel-
l'interminato che è immagine adeguata dell'eterno. Parimente le
lettere maiuscole prestavano alle minuscole e corsive, sendochè
queste dovettero essere posteriormente inventate, o direm meglio
ridotte per affinamenti e politure dalle prime.
XIII.
Cosi l'antichità maneggiò l'Epigrafia. Cosi fin quasi a noi, certo
fino a Morcelli e ad Amati, fu copiata l'antichità scimiottandola anzi-
ché imitarla, conciossiachè pochissimi si addessero delle ragioni che
ispiravano il fatto loro. Prova massima di ciò è l'uso stempiato o
308 RIVISTA CONTEMPOBANBA
Tabuso della lingua latina, e la persuasione che essa sola fosse ac-
concia sia allo stile epigrafico, sia alla rappresentazione adeguata
delle idee che nell'epigrafìa si contengono. Uso od abuso che de-
formò la natura epigrafica, e privò ad un tempo lo lettere italiche
d'una delle sue possibili composizioni, e che fu un portato di quel
predominio ecclesiastico o curialesco, che tutta invase e tutta con-
taminò cosi la vita del pensiero come quella delle azioni, cosi le
lettere come le scienze; che insieme alla lingua dilatava Tinfluenza,
e colla lingua le idee che alla lingua erano allegate. Per lo che
ridotto il cattolicismo pressoché un monopolio pitagorico o iranico
0 castale, a costui nome tutto si assoggettava e tutto usucapivasi.
Quando però si fece luce fu riconosciuto il debito di corredare l'ita-
liana letteratura dell'Epigrafia, come oggi lo ha conosciuto la
Francia, perchè i popoli e le nazioni non hanno, per essere civili e
compiute, da accettar mai nulla dagli altri, o vivere in qualsiasi cosa
sotto l'altrui balia.
Perticari, Giordani, Niccolini, Mamiani e pochi più studiarono
in questo nobilissimo intento, ma nissuno riuscr più felice e più
grande di Luigi Muzzi, padre e facilmente principe di quest'italica
bellezza. Ei fu sopra qualunque, anzi l'unico, perchè il primo che
provò non soltanto potere l'itala favella tener vece della latina e
greca, ma per ogni rispetto soverchiarla, che che ne abbia detto
in contrario qualche francese, disgraziato giudice di cose italiane,
0 qualche disperato latinista che pensando colle idee di Romolo e
di Numa ed anco con quelle più fresche di Commodo e di Valente,
vorrebbe che ragionassimo con quo' loro slessi idiomi. Mostrò il
chiariss. prof. Muzzi, che in volgare potevano, non che esprimersi,
scolpirsi i sensi religiosi, gli afletti, le severe e sempiterne idee al
pari che colla latina, col guadagno della espressione dei sentimenti
civili odierni, necessità imperiosa dei tempi nostri , e d'un popolo
che si riconosce, e vuol vendicata la propria indipendenza con una
filosofia perspicace e sicura. Delle epigrafi Muzziane nulla manca
a dichiararle originali e belle. No ha delle sublimi, e son tutte le
eroiche che ei dettò : raramente incontri le elegiache difettar del
bello, e nella espressione di questo tanto precorre il resto degli epi-
grafisti^ quanto la pittura avanza la scoKura, o quanto un abbozzo
soprasta a un quadro fornito. Un pregio di Muzzi, che a senno mie
soperchia ogni altro, perchè lo manifesta adoratore della scienza
civile e di quelle idee che l'epoca e li sforzi di tanti secoli avevano
cumulati, fu quello d'esordire la sua carriera gloriosa nel ISO^,
epoca in cui gli uomini dotti e di gran cuore congiuravano nella
splendida impresa di imparare a Napoleone quanto aspettasse Italia
da lui e quanto nulla mancassele per esser nazione. Al che si ag-
DBLLA BPI0BAFIA
giunge eziandio un altro merito per coloro che non pesassero questo,
che piccolo non è: quello cioè d'aver posto un inciampo, non pure
insiem cogli altri, ma da solo, se allo imminente pericolo in cui
versava la lingua nostrale d'infranciosarsi, pericolo al quale nulla
vai meglio opporre che il tornire e perfezionare la propria lettera-
tura. Finché i popoli possiedon pura una lingua, o intera una let-
teratura, non corron risico di perdere almeno idealmente la nazio-
nalità, rischio che corrono facile quando la lingua si corrompe, o
la letteratura rimane stazionaria o accetta elemosine dal di fuora.
Ricorreva per un nuovo tentatore dell'epigrafla italiana la me-
desima necessità che in Roma, Fuso vale a dire della lingua anti-
quata e dantesca, poco confacendosi al carattere dell'epigraGa la
lingua volgare moderna, che è la somma del lavorio filologico dei
secoli precorsi. Non v'era modello da seguitare, non avendo ninno
0 pochissimi scritto epigrafi per lo innanzi, e rarissimamente com-
mendevoli, sia per l'espressione elegante sia pel gentile pensiero.
Ma l'arcaismo manca nella lingua nostrale, o è bene ristretto, che
da Dante a noi difficilmente trovi arcaismi, e quelli che chiamansi
tali dai grammatici sono, a sottilmente osservare, mostri e sconcia-
ture dì parole latine o barbariche, che transitarono dal latino nel-
l'italiano parlare, ma che a quei di non avevano assunta la rotondità
toscana, o non l'assunsero giammai più, perchè decisamente fora-
stìere e ritrose al farsi paesane, ebbero fra noi alloggio, non stanza.
E che sia cosi si rileva apertamente col prendere in esame gli scrit-
tori volgari da Giulio d'Alcamo e Folcacchiero a Dante , o meglio
ancora dallo studiare quei meravigliosi saggi di C. Troya sulla tras-
formazione della latina lingua in italiana. L'arcaismo della lingua
italiana consiste nell'indole non nella parola. La parola latina guasta
e malamente inflessa andò col tempo ad assumere la forma odierna
e la risuonanza che oggi ha, cosicché non potrebbe nominarsi
prettamente italiana, come non latina, una parola che cassata la in-
flessione latina non avesse per anco indossata l'italica, ferma e per-
manente. Lo spazio invero, le modificazioni che tramezzano i due
estremi dal primo imbastardire del latino al deciso stanziarsi dello
italiano sono transizioni, graduali piegature, e sviluppi continui, e
forme versatili, che non hanno determinato carattere. L'indole poi
della lingua nostrale è latinogreca, o meglio doriese, come la ve-
tusta latina, e da Dante in poi essa doriese indole per molteplici
cause è andata sminuendo, non mica cessando, specialmente in
Sicilia e in Toscana, provincie d'ingegno greco e di similissimi par-
lari. Di quel modo che il progresso ci ha dilungati dall'antichissima
Roma 0 dal Romano popolo, cosi la lingua nostra si è grado grado
distaccata, ed è oggi men greca di quello fosse quattro o cinque
400 BIVISTA OONTBHPORÀKBA
secoli indietro. Lo che è ben ordinario, e si spiega col riflettere
alla incessabile instabilità delle nazioni e dei tein{)Ì9 e come nel
seicento minacciò di farsi spagnuola, nel primo periodo di questo
secolo d'infrancesarsi, non è fuori del possibile che attinga tal grado
d'autonomia da scader poscia e figliare morendo con altro lin-
guaggio ; perchè quanto più nna lingua si discosta dalla madre e
si sforza di sussistere a sé, e senza parenti, tanto più facilmente e
più presto decade. Altro è serbare le native cognazioni, altro som-
mettersi ad un altro e tome a prestanza. Le cognazioni oltre a non
esser mai aliene ad una lingua come ad un popolo, songli anzi di
fulcro e di sostegno, specialmente se elleno discendano per diretta
linea e stieno in relazione di filiazione. Le parentele non mozzano
l'autonomia, e collegando i popoli e le lettere, giovano con vicen-
devoli aiuti e colla trasmissione delle avite e vantaggiosissime tra-
dizioni. Mentre la sommissione e raccatto troncano i nervi e le
forze» e adagio adagio spengono de) tutto la vita che è raccolta e
consunta da ehi soprasta, o par lo meno Tautonomia prima inde-
bolendosi e rimpicciolendosi, poi si disfa e si cangia in dipendenza.
La distanza dal latinismo all'italianismo, si faccia grazia a esse due
voci, sta nell'idee che son espresse dalla frase, e nella freschezza
e modernità di questo a rimpetto della decrepita sterilità del primo.
Una lingua viva è in progresso continuo, rappresentando un po-
polo che non istà fermo mai, ed o scade o s'avanza. L'apice della
lingua trae seco il perìcolo di regresso, non mica perchè lo sia
invero, ma perchè esso apice è falsato o riposto in ciò che non è
tale. Poniamo che si slimi la lingua italiana formata in maniera
come opinano i Cruscanti. In tal caso per difetto di perfettibilità
ella rista, e siccome gli uomini camminano, essa si strana e imbar-
barisce. La nazionalità d'un popolo non è la perfezione, ma la con-
dizione nella quale solo ei può perfezionarsi. Il popolo d'Italia non
è punto incivile, ma lo deve a conati erculei di pochi, e non può
confrontarsi colle genti che arrivarono da lunga mano alla loro nazio-
nalità. La civiltà nostra ha molto da fare relativamente a lingua,
segnatamente il generalizzarla, abolendo i dialetti che non sono
italiani, o son troppo sformati e dilungati dalla madre. Certamente
io credo che se la nazionalità venisse meno, o non fosse raggiunta,
appena in Toscana o in Sicilia rimarrebbe italiano idioma, e nelle
altre provincie non tardi germoglierebbero a mo' di lingue i dia-
letti ormai sostituiti alla lingua e aventi lor proprìi caratteri e lor
dizionarii.
DHLLA BPIQBAFIA 401
XIV.
La parte nobile ed acquisita, comunque si fosse^ della lingua si
voleva dalla nascente epigrafia scrupolosamente evitare, non tanto
in vista che lo assentarsi dalla greca e doriese la rendeva manco
acconcia alla perspicua brevità richiesta, ma perchè imprimeva
all'epigrafia l'idea dell'oggi e della variazione che bello è fuggire.
La lingua latina allorché s'ingrandì, e diciam noi, s'arricchì e si fé'
maestosa, soprappose all'elemento dorico l'ionio progredito, ossia
Tattico ; attico ohe non so se con iscapito o con guadagno gli scrit-
tori hanno accolto anche nell'italiano^ ma che a giudizio mio non
accolse Dante, non Machiavello, e nemmeno Leopardi, o certo po-
chissimo.
Accorto Luigi Muzzi rinverti al pretto italiano dei secoli d'oro^
dai quali per lo più, anzi sempre si cava la parola e la frase, e
quel periodare semplice e robusto che ha del pittoresco : fece capi-
tale di ciascuna parola posteriore che, parce detortaj scendesse dal
latino, e affatto ne risentisse, riportando sia quanto al dettato, sia
quanto alla trasposizione dei vocaboli, sia quanto all'euritmia, l'epi-
grafe al genio vergine grecolatino, di sorte che leggendo le compo-
sizioni di lui (stupendo conoscimento della natura delle lingue e
squisita abilità creativa e sintetica) tu senti di leggere un italiano
che non è d'oggi, od un latino che non è stato parlato mai, una
poesia che non è fantastica ed una prosa che in venustà e grazie
pareggia la più delicata poesia. Coniò eziandio delle voci che fu-
rongli non so quanto discretamente rimproverate. Parlo almen delle
più, le quali sapendo di latino nella radice, e pretendendo il carat-
tere greco che è il pedale della lingua italica, come di tutte di fa-
miglia ellenica, e ritenendo delia forma pura e schietta italiana, sin-
tetizzano splendidamente l'italo col latino, l'espressione del moto
collo stare, del tempo e varietà sue coll'uniformità sempiternale.
Perlochè lo stile muzziano è vegeto e fresco, ma insieme arcaico ed
antiquato o classico, perchè ha il vantaggio eia maestria di accop-
piare in sé il genio dorico e la forma italiana. Era peraltro impos-
sibile ricondurre tutto all'antico, e lo schifar sempre le forme mo-
dernamente adottate e le voci di acquisto recente ; lo che sarebbe
stato in fme uno stiracchiare soperchio, uno esagerare, concios-
siachè la tinta d'antichità si rivela anche, e più che dalle parole, dal
loro posto, dall'iperbato e dal complessivo dettato. Il prof. Muzzi
per ombreggiare all'antica anche il più moderno, ha saggiamente
raccolta la vecchia e bandita ortografia togliendo alle iscrizioni
quella esteriore vernice e acconciatura che ti rammenta il secolo
JìivUta C.-26
402 RIVISTA CONTBMPOEANBA
del Bembo ed un'epoca fissa (epoca invero antinazionale), mentre
nella elegiaca Tepoche, per quanto remote, debbono sempre celarsi
e non apparire all'occhio e alla riflessione dei leggitori. Ecco cosi
l'epigrafia italica enunciare magistralmente la civiltà o l'avanza-
mento societario^ la rimanenza dei defunti in società a cui si son
resi invisibili, il carattere nazionale e odierno del morto, mentre
l'averla ravvicinata al latino la recinge di religiosità e di quegli ele-
menti onde l'invariabilità e l'eternità risaltano: e come sentiamo
nelle epigrafi muzziane palpabilmente consertato in uno l'idea dì
tempo e d'eterno, di presenza e d'assenza, d'individuo e di società,
ne inferiamo per conseguenza che lo autore ha travasato in sé il
sapere della antichità, e ci ha regalato d'un nuovo genere di can-
zone, presentandocelo nello stesso suo nascimento sviluppato ed
adulto. Né, sebbene Contrucci lo agguagli nell'Epica, ei si mostrò
ignaro delle differenze che questa cernono dall'elegiaca : che anzi
elleno sono cosi pronunziate che anche in questo genere fu sommo,
e forse per intendimento delle ragioni occulte di tal genere di epi-
grafare, di gran lunga sorpassa il Gontrucci, che spinto dal virile e
ardito ingegno si levò in grandissima fama, ma non sempre die
saggio di aver accarnato l'essenza del suo splendidissimo comporre.
Essi due però, qualunque distanza di grado li separi, ci porsero
compiuto il duplice esemplare dell'epigrafìa, rivelandone non già
l'arte^ ma la sapienza che le va congiunta, e furono i primi, e se
non saranno gl'insuperabili, saranno massimi sempre. Arte l'epi-
grafia suol cognominarsi, ma io la direi mal nota scienza, troppo
negletta o trascurata da coloro che l'hanno per un trastullo o per
una vanagloria di famiglia o di popoli. Difficilissimo componimento,
che può sembrar lieve o piano solo quando non si riflette che è
obbligazione di chi scrive o di chi inventa specialmente d'operare
di guisa che a nulla difetti ragione, e che tutto si connetta o si
riporti alla scienza generale e alle leggi rettrici l'universo. Di
ciascuna cosa quaggiù esiste un tipo, uno schema che idealmente
le risponde nella increata mente, ove di tutto sta la cagione e il
motivo. Se è vero che il genere epico, perchè un solo ed unico ele-
mento lo costituisce è più facile dell'elegiaco, non è però tal soma
sotto cui l'omero che se ne carca debba sentirsi aggravato, e in
questo come nell'altro comporre il non fallire a glorioso porto è tal
risultaraento da meritare i plausi e l'ossequio serbato e divoto alle
anime eccelse e agli ingegni peregrini.
Francesco Dinl
403
ALCUNI mn SOPRA MODENA E LA SUA STORU
Modena era, per testimonianza di Polibio, colonia romana al tempo
deUa seoonda guerra punica, e per la descrizione che quegli diede
della strada per cui Annibale scese in Toscana, argomentasi fosse
a un dipresso quale ora è. Floro disse Modena città félicUima^ e
Pomponio Mela ^/^«ja ^pulenti$simay e Cicerone florentissima e grande
per ispkndore efedeltày e ornamento e baluardo dell'impero. Fedele
ai Romani e alla repubblica, fu più volte riparo ai duci loro, fino al
memorando assedio di Decimo Bruto nell'anno 710 di Roma, e alla
battaglia in cui morirono i consoli Fezio e Pausa ; onde il suo nome
fu associato da Tacito a quelli di Farsaglia, di Filippi e di Perugia
siccome dol&fUi di pubbliche ucnJUte. Ed il nostro Dante
Che Modena Perugia fé' dolente.
Plinio accenna di noi l'industria della creta e della plastica ;
Strabene, Columella, Varrone e Marziale quella della lana. Sotto
Traiano non solo era Modena salita a grado di municipio reggentesi
da sé, e con proprie l^gi, ma ivi risiedeva il pretore della Gallia
Cisalpina, come si ha dalle tavole Velleiati. Pochi anni or sono fu*
rono tolti i ruderi di un ponte romano sulla Secchia, presso Rubiera
e gli scavi recenti sotto Modena stessa han messo in luce un'antico
foro adomo di monumenti.
Nel quarto secolo Modena e la vicina Reggio decadute erano sì,
che sant'Ambrogio le paragonava a cadaveri: e in questo secolo
fu vescovo Oenoiniano, di cui pochissimo si conosce di certo ; ma la
costante tradizione il fa uomo del popolo, e tutte le virtù e molti
miracoli gli attribuisce, onde a protettore lo ascrissero i Modenesi,
e in Venezia ebbe splendido culto. Sofferse Modena sotto i Barbari
le vicende comuni a tutte queste parti d'Italia, e di più ebbe 'a sof-
frire per traboccar di negletti torrenti, per crescere di paludi e
stagni tal diluvio d'acqua, che i fuggitivi abitatori l'abbandonarono
e tentarono rifabbricarla in più elevata posizione a quattro miglia
404 RIVISTA CONTBHPORANBA
verso occidente, e il villaggio serba ancora il nome di CUtancva.
Ma come accade dell'opera d'uomini che non abbia nelle naturali
condizioni un'appoggio, non durò quello, e Modena fu nell'antico
luogo bentosto ricostruita, né forse mai al tutto deserta.
Sant'Anselmo, fratello di Astolfo re de' Longobardi, fondava, sulla
metà del secolo viii nell'agro modenese la ricchissima badia di No-
nantola che il Tiraboschi illustrò con eruditissima storia all'uso dei
suoi tempi in cui davasi importanza ai monacali privilegi, pe' quali
turbato erasi il seno della Chiesa, e malmenati come greggie i po-
poli. La chiesa arcipretale ed ora vescovile di Carpi (ora città) essa
pure nell'agro modenese fu dallo stesso Astolfo fondata. Argomen-
tasi da alcuni diplomi che il modenese Capitolo de' canonici risalga
al 780, e prima del concilio d'Aquisgrana, da cui ebbero origine
per la più parte i capitoli. È per antichi diplomi insigne l'archivio
capitolare, ma chi li legge? chi vi cerca fior d'erudizione? Spe-
riamo tempi migliori, e già alcuni ingegni il lasciano presagire.
Appartennero Modena e Reggio alla celebre contessa Matilde, e
il suo castello di Canossa nelle colline reggiane vide nel 1077 Ar-
rigo IV imperadore umiliarsi davanti al severo Gregorio VII, e la
troppo breve pace che a quella soverchia umiliazione tenea dietro.
Sotto quella celebre donna intrapresero i Modenesi nel 1099 la fiib-
brica della loro cattedrale, che nel 1106 fu. condotta a termine, e
la parte quadrata della elegante sua torre, detta gMrlandina^ perchè
la guglia piramidale ettagona con due balaustrate o ghirlande (da
cui il suo nome) fu opera del 1319. E il duomo e la torre vennero
costrutti cogli avanzi marmorei di Modena romana, perlocchò v'è
di marmi abbondante dovizia. L'ornarono i migliori scultori e pit-
tori di que* rozzi tempi, e nel suo esterno vennero scolpite le misure
modenesi che il sig. Malavasi nella sua metrologia rilevò regolate
sulla decempeda romana. Alla costruzione del duomo concorse l'in-
tera diocesi che assai si estendeva nel territorio che ora è di Bologna
e di Ferrara. Era confine di Bologna il torrente Samoggia, e talora
Modena si estese anche al di là.
Dalla parte che Modena prese alle guerre tra le città lombarde
scorgesi com'ella si reggesse a città sin dal x secolo. Si trova che
nella guerra tra Arrigo e Gregorio VII Modena e Reggio tennero
per l'impero contro Matilde, che pure era contessa di questi paesi:
ciò dimostra come queste città avessero allora un'ordinamento ba-
stante a poter muovere le masse e condurle a forte azione. Allorché
nel 996 fabbricossi il monastero di S. Pietro, il vescovo dichiarò di
farlo coU'assenso del capitolo, dei militi e del popolo. Non è per-
tanto meraviglia se nel 1136 leggasi in una pace nos poptUns Muti-
nensis iuramus poptUo iaumiensi etc.
CENNI SOPBA MODENA E LA SUA STOBIA 405
I privilegi dati ali* abbazia di Nonantola posero in conflitto nel
1131 e negli anni successivi i Modenesi coi Nonantolani, i quali,
come più deboli, strinsero coi Bolognesi a gravi patti un'alleanza,
che fu principio alle lunghe lotte e agli odii municipali tra Bologna
e Modena. Cosi i privilegi e il deviare dalla via regolare furono ca-
gione allora, come fu e sarà sempre, di mali gravissimi, eppure non
si cessa mai di domandare ed accordar privilegii, e gli scrittori lo-
dano e incensano! I papi scomunicarono i Modenesi, e tolsero
loro persino la diocesi, mentre accanitamente si guerreggiavano le
due città, aiutando Parma i Modenesi, e Reggio combattendoli.
Nonantola fu distrutta, ma le armi spirituali gettavano allora
troppo di peso nelln bilancia, e i Modenesi dovettero segnare una
pace umiliante.
Modena prese parte nel 1167 alla lega lombarda, trattata segre-
tamente sin dal 1164; e a lei si strinsero in alleanza, e prima e poi
molti capitani del Frignano le giuravano fedeltà. Anche le po-
tenti &miglie de' Pii, de' Pichi ed altre provegnenti dallo stesso
stipite di Manfredo erano cittadini di Modena, e a lei giuravano
fede, e i sogg^etti loro a lei pagavano le prestazioni consuete. Han-
nosi i lodi del 1205 e del 1255 che le aggiudicano il Frignano, e
quelli del 1207 e 1255 che le danno il dominio di Carpi, e del 1261
che le confermano quello di Nonantola, hannosi i giuramenti e gli
atti di vassallaggio.
Intervennero per Modena alla pace di Costanza il giudice Arlotto
e Raniero Boccabadati.
Gli scrittori nemici della libertà e dell'Italia vomitarono in ogni
tempo mille declamazioni contro quel patto meonorando che consa-
crando la libertà, fu iniziamento al terzo luminoso periodo della storia
d'Italia esagerando i danni di quella che dicono sbrigliata democrazia.
Le città italiane scosso il giogo straniero feudale, si ricomposero
presso a poco com'erano sotto Boma antica, ma loro mancò l'ege-
monia nazionale della città autocratica, che il tedesco imperatore
non curava di tenerle concordi sotto un giusto impero, ma di ta-
glieggiarle contento, attizzava le gare, le rivalità e le ire per in-
debolirle colle scambievoli forze e dominarle di nuovo ; né meglio
sapevano i papi adoperare l'evangelico ministero, ma essi pure le
civili parti col favore accendevano per acquistarne possanza, e tener
fronte non meno al laicato popolare che all'imperiale, alle immunità
resistenti. Per questa mancanza di centro egemonico le città italiane
• rimasero troppo accessibili agli odii di parte, alle gare municipali ;
ma non pertanto quell'epoca fu sì gloriosa e si fortunata per l'Italia
che ella si vide in brev'ora cresciuta grandemente di popolazione,
di ricchezza , di coltura , di civiltà , sollevata al grado di grande
406 BnriSTÀ contbmpobanba
potenza, fatta luce e splendore delle altre nasioni ; e da quell'epoca
cominciò il suo moderno primato, che durò sino a che il serraggio
e la corruzione portatati da Carlo V spense ogni libertà, ogni gran-
dezza, ogni orrevole sentimento.
Dopo la pace di Costanza, Modena fu retta or da Consotiy or da
Podestà. Fu dessa in ogni tempo data agli studii, e sin dal 796 Gi«>
sone, vescovo, concedendo una chiesa areipretale, ingiunge at par-
roco dì essere diligente in eleriek M^ffteffandiSy in stthóh kàteniatt
pueris edwandi9. Da queerto^ per sentimento del TirabosiAI ,. ebbe
origine l'usanza che tra canonici deHe -cattedrali fesse uno-eui- spet-
tasse tener scuola, e che t\x detto orit9^hola$Ueu9j'onL fpmnàHay orei
magister sekolarumy e poscia per contrattone -imiywwto e j>er eotsru'»
zione majuscola. Ciò essendo pei chierici, ed avendo 4%aperatore
Lotario comandato che i Modenesi, i Reggiani, i Parmigiani, i Pia-
centini andassero a studio a Cremona, i Modenesi pensarcelo dì aprire
pubblico studio, e pare che fin dalla metà del secolo xii vi profes-
sasse il giureconsulto Ruggiero da Benevento. Certo è che n^ 1189
venne loro fatto di staccar da Bologna, e alla propria scuola condurre
il giureconsulto Fillio, e il Tirabosehi ebbe a, éìre che dopa BoloffM
non v'ehbe oiUà in Italia in cui cominciMse sì prontamente ajtorire la
ffiurisprudenza come a Modena. Pochi anni dopo aperse studio anche
Reggio, e queste due città sorelle ebbero, ne' secoli xiii e xiv flori-
dissime università, e il Tirabosehi enumerò i professori del paese e
stranieri che vi fiorirono in copia. Illanguidirono esse dipoi, e più
di tutto perchè gli Estensi fattine signori, vollero ^ocacciar fama
e concorso air università di Ferrara col vietare ai soggetti ogni altro
studio. Questo danno dunque debbono i Modenesi ed i Reggiani agli
Estensi. Anche sotto questi conservò Modena professori dMstituta
civile, d'arte notarile e di logica.
Fu Modena sempre nemica alle ecclesiastiche immunità, e nel
secolo XII i Modenesi ebbero dispute cogli ecclesiastici per certe loro
leggi, e gli arbitri diedero loro causa vinta, aggiudicando al vescovo
una indennità. Ma Innocenzo III in un breve diretto all'arcivescovo
dì Ravenna dolevasi nel 1204 che la chiesa modenese fosse, come
egli diceva, oppressa dai laici, che tolta fosse l'ecclesiastica giuris-
dizione, che i cherici fossero tratti al foro laico, che il podestà si
arrogasse di regolare il suono delle campane e imporre multe ai
contrawantori. In oggi ciò si pratica dappertutto; ma allora fu
grande energia de' Modenesi sostener tali diritti ; e sebbene doves-
sero cedere alle scomuniche, revocando gli statuti, li rinnovarono
però nel 1219 sotto Onorio III, e nel 1279 sotto Nicolò III, e più
volte ancora, perchè i Modenesi non si acquetarono, ma a quelle im-
munità resistettero che allora s'imponevano colle armi spirituali ai
CENNI SOPBA HODBNÀ B LA SUA STORIA 407
principati più potenti. Prova questa che Tenergia di un popolo
conscio dei proprii diritti, supera sempre quella di un uomo anche
potentissimo.
Noi leggiamo ancora, neiristromento del 1836, con cui Modena,
come vedremo, rìtomò in oblj^ediensa degli Estensi, stipularsi la
reintegrazione di tutti i cittadini ne' beni cimfìscati dalla inquisizione,
la quale sin d'allora arricchivasi, chiamando eretici tutti coloro che
alle temporali cupidigie del. clero resistevano. È certo ancora che
le soverchie immunità, lungi dal giovare alle chiese, obbligarono
vescovi e papi a concedere ai laici certi diritti di nomina, istituzioni,
investiture, awocazie, legazioni, commende che molto più danno le
arrecarono.
Nel 1288, per sedare le domestiche discordie, i Modenesi elessero
a patti in loro principe Obizzo da Este, marchese signor di Ferrara,
che sin dal 19^ i Ferraresi avevano eletto Azze da Este in loro
governatore e reggitore. Erano, suol dirsi, tempi d'ig^noranza, ma
pure glltaliani aveano conservato Videa del principato civile e proce-
dente da elezione de' popoli, non da investiture feudali. Tale fu quello
degli Estensi ; fatto importantissimo da non perdere giammai di vista
per non rimanere ingannati dalle investiture che poi presero o per
necessità o per politica, e di cui abusarono in appresso per calpe-
stare i patti fermati coi popoli. Né pur tacerò che le città d'Italia,
gelose de' baroni, cercarono sempre di -tenerli legati e soggetti. Per-
sino il marchese Aldobrandino da Este dovè, dopo aspra lotta e
distruzione di un suo castello, prendere, nel 1213, la cittadinanza
di Padova, e giurarle obbedienza {Antichità d'Esté). Nel 1289 fu
proclamato signore di Modena il marchese Obizzo, e nel 1290 il fu
di Reggio. Dante lo colloca fra' tiranni, altri il loda
Ma le lodi degli scrittori, odiatori de' popolari governi, sono rime
obbligate per ogni uomo che acquisti signoria, né possono tener
fronte alla severa ma imparziale ira del grande cittadino. Morto
Obizzo, i Ferraresi, i Modenesi, i Reggiani, elessero nel 1293, a
signor loro, governatore e reggitore Azze, primogenito di lui, locchè
conferma il principato popolare ed elettivo degli Estensi (vedine i
Documenti presso Muratori).
La dedizione agli Estensi non salvò Modena dalle guerre, anzi
glie ne procacciò di novelle, in cui essa non aveva interesse, per le
aspre contese de' successori di quello. Notar debbo qui intanto un
fatto che tradisce il pensiero di molti Italiani fin di que' tempi : per
eccitare nemici al marchese Azzo da Este, nel 1305, spargevasi che
egli, col re di Napoli, divisassero spartir l'Italia in due vasti reami.
Vero 0 felso che Azzo questo pensiero nudrisse, la fama che ne corse
è prova che il desiderio della maggiore unione possibile mai si spense
408 BIVISTÀ CONTBBfPOKÀNKA
negritaliani. Nel 26 gennaio 1306 i Modenesi si rivoltarono, cac-
ciando Azzo, e Tanno appresso li imitarono i Reggiani al grido
muoiano i nobili, viviamo una volta in pace; e per vero dire erano i nobili
a quei tempi primi autori di civili discordie. Che tiranno fosse Azzo,
lo dicono gli atti di quella cacciata, che il comune di Modena con-
serva, nò signor buono sarebbe stato cacciato così. Applaudirono le
città vicine, e specialmente Parma, -antica e fedele alleata de' Mo-
denesi, e li incoraggi va il legato papale. Uno scrittore, cortigiano
degli Austro-Estensi, notò con orrore questo t?afi^(?/i0i^^^<? de'Mode-
nesi d'essere V origine e il principio di tutte le sommosse. Diessi sin
d'allora l'esempio della stoltezza più e più volte ripetuta anche in
tempi a noi vicini, di dissipare un tempo prezioso in feste e fiBUMsie
e ciarpe, in vane demolizioni, in accatastate leggi, in ordinamenti
effimeri che Jllati, come dice Dante, in ottobre non giungono a mezzo
novembre. Giurarono al solito di non voler più alcun signore. Fecero
plebisciti : oltre al podestà e al capitano, elessero altri quattro podestà
straordinarii, e a sei frati commisero eleggere 40, perchè eleggessero
un consiglio di 400 popolani ; poi un altro di 800, in cui quei di 400
ed altrettanti nobili o popolani, poi uno di 1600, in cui quegli 800.
Elessero poi 40 sapienti per amministrare il comune, e 16 difensori
del popolo, e 8 mercanti che avvisassero alla sicurezza delle strade.
I Reggiani vietarono ai feudatarii di rendere giustizia, e man-
darono giudici in giro per le castella. Fecersi ancora buoni ordini
civili, e il generale consiglio di Modena aggiudicò un'indennità ai
mercanti, cui Azzo avea nel ferrarese sequestrato le barche e merci.
Cosi allora si riconobbe un principio che si lega a quello di spro-
porzione per utilità pubblica, e che anche nell'attuale civiltà molt^'
contrastano. Si decretò ancora Taprimento di uno studio generale
delle scienze tutte a Modena (1306) e a Reggio quello di leggi ed
altre scienze (1313). Nel 1315 vedesi per altro mandata da Reggio
un'ambasciata a Bologna, perchè i giovani Reggiani fossero ammessi
a quell'università.
Ma se il principio popolare non mori mai in Italia, non mancò
chi accogliesse fino d'allora il pernicioso sistema di riguardare gli
Stati quasi private proprietà di cui disporre. 11 marchese Azzo volle
disporre di Modena e Reggio, lasciandole in dono allo suocero suo
Carlo II di Napoli, il quale però ben conoscendo (dicono gli storici)
l'invalidità di tal donazione, non die' pur cenno di averne contezza.
Le civili discordie, mala semenza d'Italia, rinate pel rivaleggiare
delle nobili famiglie, fecero che i Modenesi si dassero nel 1312 a
Passerino Bonacolsi, o Bonacorsi o Bonacossi, vicario imperiale di
Mantova, che li tiranneggiò (tranne due anni di dominazione di
Francesco Pico) fino al 1328, in che fu ucciso, e cosi si vide anche
OBNNI SOPRA MODENA E LA SUA STORIA ^9
allora i popoli troppo vaghi di libertà, cadere in peggior tipannia,
che temperato desio di potere ne' principi, moderato desio di libertà
ne' popoli, sono la][miglior garanzìa di durevole governo. Passerino
sui figli di Pico, e i Modenesi su quelli di Passerino rinnovarono
l'atooce supplizio di Ugolino della Gherardesca. In questo tempo
accadde la battaglia di Zappolino contro i Bolognesi, di cui fu epi-
sodio il rapimento della secchia, cantato dal Tassoni.
I Modenesi si rivolsero al papa, e poscia allo straniero. Tristi
consigli! Quello nulla fece per loro, e Lodovico il Bavaro mandò
suoi Tedeschi, con pazze allegrìe accolti dai Modenesi, e con ogni
fatta di amorevolezze alloggiati, ben presto cangiò la scena. Rapine,
estorsioni, vessazioni d'ogni fatta, e si crudeli, che la descrizione
non può leggersi appo i cronisti, senza orrore. Giunsero persino ad
imporre ai Modenesi un vescovo empio e scismatico; per lo cheJ[)en
presto rimasero disingannati quegl'infelici, che a domestiche piaghe
estranei rimedi! cercavano. Le principali famiglie, colle intestine
loro discordie, agevolarono agli Estensi la via di ricuperare il do-
minio, consegnando loro per tradigione le castella : e i Modenesi
dopo lunga resistenza, e invano cercati aiuti, dovettero sottomettersi
e accogliere plaudenti Obizzo II, e Nicolò I. Tal fu l'entusiasmo che
al solito i piaggiatori decantarono.
II papa intanto metteva i Modenesi sotto l'interdetto, o ne li
scioglieva secondochè si attaccavano alla sua temporale dominazione,
o se ne staccavano, come prima colle scomuniche e coi processi di
eresia avevano due volte tentato Clemente V e Giovanni XXII d'im-
padronirsi di Ferrara (Muratori, Antichità estensi^ tom. ii, cap. 3
e 4). Dal che si vede sempre più il deplorabile abuso delle armi
spirituali per fini temporah e per usurpazioni, e il grave errore dei
processi^dell'inquisizione e delle confische e pene temporali per cause
di eresia,' che hanno tanto funestato il mondo e disertato floride Pro-
vincie. Parlando di quelli il Muratori esce in queste parole : e Si la-
€ guano tutti gli storici di que' tempi della mala fede, della frode,
€ dell'avarizia, delle crudeltà ed altri iniqui portamenti de' pastori
« della Chiesa, cioè de' ministri oltramontani inviati dai papi a go-
€ vernare le città ecclesiastiche, o per dir meglio a conquistar quelle
€ che non erano di diritto pontificio, e a mettere sossopra tutta l'Italia,
€ impiegando in tali guerre il patrimonio di Cristo e le annate e le
e decime, destinate certo ad usi migliori ;i. Da quel tempo in poi
Modena stette sotto gli Estensi, fuorché per breve tempo, che da
Giulio II papa fu usurpata, né da Leon X restituita.
Anche Parma, col consenso de' signori e del popolo, diedesi «gU
Estensi, ma tale unione, che sarebbe stata per l'Italia si vantag-
giosa, fu ognora attraversata dai papi, spinti dal nepotismo e dall'a-
more del temporale dominio. "
410 BIYISTA CONTBICPOBANBA
Al principio del secolo xv e ebbe l'Italia (è costretto a confessarlo
uno scrittoro assai retrivo , il Baraldi , che scrisse una storiella di
Modena per T almanacco di corte) il vantaggio a ragione valutato
« tanto dal Denina, cT essere afaito libera da daminainone straniera^ e
« l'altro non minore d'essere stata a que' di la sola fra le provSncie
€ europee in cui fiorissero le arti e le lettere, e si formasse una mi-
te lizia nazionale e si spiegassero forze militari superiori a quante dar
« poteva a quei giorni la Francia e l'Inghilterra». Locchè fu effetto
per Io appunto dello slancio e della potenza^ motrice che nei due
secoli antecedenti svolse la libertà nei suoi stessi traviamenti. Bio-
come poi io mi proposi di dare piuttosto una idea del pubblico di-
ritto ohe dominò questi paesi, che di vicende d'altra fotta, io debbo
notare che sebbene gli Estensi fossero stati chiamati a reggere que-
ste Provincie per evitare i mali delle guerre tra competitori, tutta-
via ad ogni apertura di successione i popoli di Ferrara, Modena e
Reggio, ed anche alcune comunità inferiori, costumavano eleggere
il successore in proprio signore, per conservare la memoria e natura
del principato civile elettivo e non feudale. Per lo che noi vediamo le
successioni estensi non sempre aver seguito esattamente il principio
ereditario. Cosi alla morte di Nicolò III, a preferenza di Ercole e
Sigismondo, figli legittimi di lui, successe, nel 1441, Leonello na-
turale, e a Leonello, anziché il figlio Nicolò, successe nel 1450 il
fratello Berso, figlio naturale anch'esso di Nicolò III ; e nel 1353 ad
Obiazo III successe Aldobrandino naturale, come più tardi ancora
Cesare figlio di Alfonso, bastardo. E non solo di queste elezioni
fanno menzione gli storici, ma ne esistono i documenti, di cui alcuni
riportò il Muratori. Veggansi, oltre le elezioni di Azze, di ObizzoIII
e di Nicolò I, quella di Obizzo II, di Nicolò III, di Leonello, di
Borse, di Ercole I, di Alfonso I, di Ercole II e di Cesare. Del sud-
detto Nicolò IQ il dÌE»e pur l'Ariosto :
Ve' Nicolò che tenero fanciullo
Il popol crea signor della sua terra.
Per conseguenza, sebbene per astuta politica in cui furono maestri
gli Estensi poetisi mediatori abituali fra principi e potenti, e princi-
palmente tra la Chiesa e l'Impero, pretendenti entrambi alla uni-
versale dominazione, riuscissero, se non ad ingrandirsi molto, certo
a conservar signoria, non avendo il coraggio che hanno solamente
i popoli per resistere tanto alla violenza d'armi prepotenti quanto
all'abuso delle scomuniche, prendessero investiture dal papa per Fer-
rara e dall'imperatore per Modena e Reggio, non di meno furono
essi veri principi indipendenti e supremi, e i diritti di sovi^nità dai
loro popoli non da altri potenti riconoscendo non potevano andar
OBNNI SOMA MODBNA B €.A SUA STOBIA 411
0O9g«dtti ft^ oadueitàr e a pe&e di feUo&ia fe^idale. Notano il MBratori
ed il TiraboBchi cho giammai Ferrara fu soggetta al papa, e se nei se-
colo xiy gli Betensi doverono prenderne investitura, ciò fu per ria-
verla da ingiusta occupazione militare. Dobbiamo avvertire infine efae
in qm* primi secoli di dedisione gli eletti signori operavano come ora
direbbesi oostHusìonalmente, conoiossiaehò non solo si guardassero
bene ^all'offendere le giurate franchigie, ma le leg^e facessero in
u&ikme e^col concorso del popolo e comuni delle città. Cosi vediamo
tiui^i-fet<^ da, Azze d*Este lìel Ì295> per Ferrara, Modena e Reggio
col jViscoiili) capitaiio di Milano e ool popolo e comune di Milano,
ci^a- Scotti, capitano di Piacenza e col popolo e comune di Pia-
ceiiM^e con idt^ comuni; e nel 1297 una pace ed comune^ di
Gaffa vea»e fermata dal mandatario di Azeo e dai sindaci deputati
dai Comuni di Ferrara, Modena e Raggio; e infine, nel 1299 un'altra
fu in eguale maniera conchiusa col marchese di Monferrato, i co-
omni di Pavia, C^mona, Bergamo, Novara, ecc. ; e nel 1348 con
L«M^ino Visconti e Mastino della Scala. Costumavano ancora allor-
quando un principe potente chiedeva il passaggio alle sue truppe per
gli Stati di un minore, pattuire la più compiuta indennità, alleanza
ed appoggio, oome vedesi nello strcmiento del 1347 tra Obizzo III
con Lodovico re d'Ungheria. E nella lega formata dal Visconti di
Milano col Malatesta di Brescia, e col Fondolo di Cremona nel 1408
centro Ottobono Teizi, leggesi pattuito che ogni conquisti sit et esse
deieat sine ewoeptione iUms domim^ ecs iicfUs oollegatìs, em se subiicere
et detre telnerU, Niccolò ricuperò Reggio e a lui si diede la Gar-
&gnana (1429). Notevole dhritto de' popoli !
Fu Nicolò III da Este uomo dato alle libidini, e a lui amareg-
giarono la vita i rimorsi e il troppo tardo pentimento della crudele
uccisione del figlio Ugo e della moglie Parisina Malatesta, che Byron
in dolenti versi cantava.
Dejdorava già Dante il lusso che fino dai tempi suoi traboccava,
ma crebbe poscia a dismisura per la gara delle corti che i signorotti
o inrincipi apersero. Magnifica era veramente quella degli Estensi,
e forse alla politica loro giovò, ma il lusso troppo si diffuse, e Leo-
nello intese porvi riparo nel 1447 con leggi suntuarie, con cui vietò
alle dolane la Itmga coda degli àbUi, e a quelle del contado l'uso della
seta, delle perle e degli ornamenti d'oro e d'argento ; e vietò pure
di spendere nel vestiario e corredo più di un terzo della dote. Altra
ne fece Berso nel 1451 per reprimere Tuso de' tabarri di seta e dei
panni tinti in grana^ ossia in rosso e paonazzo. Borse era uno di
que' prìncipi ohe vogliono imporre l'ordine colla strana violenza del
comando : sarebbe stato un buon Califiò, ma non voleva impacci di
giuridiche forme a quella sua peggio che sommaria giustìzia. Laonde
412 BinSTÀ GOMTBIfPORANBA
ebbe lode da coloro i quali amimo il bagliore di un governo in cui
tutto è il principe e norma da legge alcuna non prende fuor che da
se stesso e da una certa giustizia, che tutta risiede in lui, operando
a guisa di intuizione ; cieca quindi, e spesso ingiusta in sostanza,
sempre nella forma. Fu lode più meritata quella di inesorabile se-
verità nel punire i cortigiani e ministri che opprimevano il popolo,
e lo assoggettare se stesso nelle liti civili ai tribunali e l'istituire
un consiglio di giustizia. Ai 18 maggio 1452 Borse ebbe dall'impe-
ratore titolo di duca di Modena e Reggio e dal papa, ai 14 tarile
1471 ebbe quello di duca di Ferrara. I Pii signori di Carpi congiu-
rarono contro Berso, e cercarono di trar nell'accordo Ercole, fratello
del duca, ma costui s'infinse, e con male arti li trasse in inganno, e
poichò ebbe tutto, scoperto, arrestò i congiurati e lì dio in mano al
fratello che spietatamente punì gli accusati, sebbene non poca nebbia
vi fosse nella prova del fatto, e se non finta, esagerata di certo fosse
la congiura. Se lode meritò in Ercole l'aver serbato fede al fratello,
non la meritò certo il tradir quelli che in lui avevano fidato. Borso
come Leonello e Nicolò lasciarono fama distinta per larghezze ai let-
terati e per raccolta di manoscritti, per la munificenza dello edificare
e per quella splendidezza che dava allora risalto ai principi.
Alla metà del secolo kiv appartenne quel Tomaso da Modena,
pittore, che fondò la scuola tedesca e in quello e ne' due seguenti
secoli qui sfiorirono parecchi distinti pittori, e più ancora si res^o
chiari i Modenesi nella tarsia e negli intagli in legno; in ciò pri-
meggiarono i Lendinara ; e nella plastica al secolo xv il Mazzoni, e
al XVI il Begarelli. Il Lanzi nella sua storia pittorica pariandó della
sua scuola modenese, epoca ii, cosi si esprime : e Ninna città di Lom-
€ bardia conobbe più presto di Modena lo stile di Rafihello, ninna
€ città d'Italia o ne divenne più vaga, o ne produsse in maggior
«numero bravi imitatori». Serafino Serafini nel 1386 fece un qua-
dro che, in occasione d'essere trasportato, fu giudicato dipinto ad
olio (TiRABOSCHi, Storia delia letteratura, voi. vi, pag. 2), ed essendo
stato al dire del Lanzi (ivi, Scuola trentina, epoca I), praticato a
Vienna consimile esperimento sopra im quadro del sunnominato To-
maso da Modena, contemporaneo del Serafini, pare se ne possa argo-
mentiure che i Modenesi esercitassero la pittura ad olio prima che
Antonello da Messina ne spargesse in Italia la invenzione. Nò solo
Modena gloriavasi per le arti belle, delle quali anche dopò la dila-
pidazione di Francesco II che vendè i quadri dell'inimitabile Allegri
rimangono splendide prove nella gallerìa nostra ed altrove, perchè
per testimonianza del Yidriani e non oravi arte che qui non si eser-
< citasse : 300 telai da seta ed altrettanti da panno che lavoravano
e di continuo: molti poveri per trafficare ricchi divenivano ».
CBNNI SOPRA MODENA B LA SUA STORIA 413
A Borao succede Ercole I e diede esempio poco imitato, poiché
avendo Nicolò figlio di Leonello tentato con una sedizione togliergli
il trono, lui solo condannò del capo, agli altri partigiani tutti perdo-
nando. Al qual proposito racconta il Muratori, che istigandolo i cor-
tigiani, e specialmente il processante (che di tali iene vi è sempre
dovizia) a condannar lunga mano di persone, delle quali gli porgea
la lista ; il duca, che presso al fuoco stava, prese tranquillamente la
carta, e verameiUe costoro so» degni di castigo (disse) voglio darlo ben
rigoroso, e sarà qnello del fuoco, e in ciò dire gettò la carta al fuoco,
soggiungendo: non sono ora ben castigati? non me ne parlate pie dun-
que. A hiì diede Giberto Pio, in cambio d'alcune castella, la metà del
principato di Carpi, e Alberto Pio, mal soffrendo compagno si potente,
ne divenne implacabile nemico, e fini col perdere il principato nel 1525.
B così, dice il Muratori, uomo di niuna fede cangiò piil volte mantello,
ma con sua totale rovina infine, e così sia sempre. Cominciò cosi a ritor-
narsi il ducato di Modena a' suoi naturali confinì, riprendendo ciò di
coi investiture senza ragione come senza diritto dai papi o dagli
imperatori concesse, aveanlo privato, imperocché vedemmo già Carpi
aggiudicata ai Modenesi nel 1217 e 1256 con lodi d'arbitri. Del qual
costume d'arbitraggio nelle questioni politiche, fa pur d'uopo dar
cenno, siccome uno dei migliori ritrovati del medio evo per impedire
le guerre e per mettere pure in mezzo alla violenza della politica
barbarica un poco di giustizia. Compromettevasi per solito i giure-
consulti 0 magistrati o principi stimati per la giustizia loro e per
l'intelligenza.
Ad Ercole I, nel 1505, succede Alfonso I, marito di quella Lucrezia
Borgia di cui tante infamie e tante lodi risonarono. Certamente ad
accrescere l'odio ai Borgia, ad ingrandirne agli occhi del mondo le
turpezze ed i misfatti che comuni ebbero a tutti quanti i principi e
potenti d'allora, e a velare gli alti spirrti che almeno all'unità d'Italia
tendeano, e che ottennero il suffragio di Machiavello , contribuì il
congiungersi in uno scopo i nemici del papato, i partigiani degli
spodestati signorotti e lo stesso formidabile e non molto migliore
Giulio n. Così papisti e antipapisti, uomini austeri e uomini corrotti,
scrittori e letterati d'ogni fotta si scatenarono contro costoro.
Di malincuore e restio sposossi Alfonso a Lucrezia, ma questa
celebre donna in Casa d'Bste diportossi da saggia e cortese princi-
pessa e morì amata dal popolo, come narra il sempre grande Mu-
ratori. Del quale riportar voglio il giudizio su Giulio U perchè tocca
le più importanti quistioni. Premesso che Giulio violato aveva i
giuramenti della lega di Cambray, ei prosegue : <( Ma Giulio II noi\la
« mirava sì per minuto. Chiunque non è afifotto forestiero nella storia,
« non ha bisogno d'imparare da me, che questo pontefice, benché il
414 BinSTA OONTBMPOBàNBA
« fecesse la fortuna bassamente nascere in una villa del territorio
€ di Savona, pure a lui contribuì un animo g^rande e non inferiore
« a quello do' maggiori monarchi. Impetuoso ne' suoi a£Eètti, impla-
« cabile ne' suoi odii, infaticabile nelle sue imprese, per lo più altra
< legge, altro limite non conosceva alle risoluzioni sue che il prò*
« prio volere. Di genio bellicoso, pareva formato per essere piuttosto
«generale d' un'armata che pastore della Chiesa universale di Dio,
« la cui vera gloria è riposta non già nel conquisto di beni e Stati
« temporali, ma si bene in quello dell'anime, e in cui discredito fia^
€ cilmente toma qualùnque guerra ^ intrapresa non dalla necessità
« della difesa della fede e de'proprii Stati, ma dall'inquieta ambizione ».
E poscia € a' di 9 d'agosto d'esso anno 1510 fulminò la scomunica
« contro di lui (Alfonso d'Este), dichiarò lui decaduto, e scomunicato
« chiunque gli porgesse aiuto, con tutta Taltra serie di quelle ma*
< ledizioni e pene spirituali e temporali e parole pregnanti che inven-
< tate contro i più perversi eretici, passarono poi in uso anche per
« sostenere i fini politici centra de' cattolici >. Due fratelli di Alfonso
cospirarono contro di lui, nò senza ragione, come di recoite mostrò
il sig. Antonio Cappelli nella prefazione alla da lui pubblicata let-
tera dell'artista, ma diverso dal padre salvò una durissima vita ai
fratelli, sterminò i complici, e fu vero anche qui che
Perir denno i plebei furfanti oscuri
Perchè i furfanti illustri sian sicuri.
Giulio II con inganno, occupò Modena, e Leone X non ostante
le promesse di restituirla all'Estense, comproUa dall'imperatore per
quarantamila ducati, quanti ne fruttava ogni anno, divisando non
restituirla mai più. Vi prepose il celebre storico Guicciardini, del
quale tanta fu la perversità del cuore quanta la eccellenza dello in-
gegno. Leone colla sua vita licenziosa, spensierata, ambiziosa, non
indegna de'Borgia, spianava la via alle eresie di Lutero, di Calvino
e di Zuinglio ; e le vedea nascere e non le curava, non d'altro sol-
lecito che d'ingrandire i Medici suoi.
Furono codeste usurpazioni avvertimento ai principi quanto er-
rassero allorché le legittime dedizioni e il civile principato e i patti
co' popoli cangiarono in feudali investiture, che gli imperatori e papi
per oro e per argento vendevano e comperavano. Alfonso seppe pro-
fittare della lotta fra Carlo V e Clemente VII per ricuperare i suoi
Stati, ed ebbe prima Reggio, poi Modena nel 1527. Lodalo il Mura-
tori, che moffnanimQ com'era perdonò Mio il passato ; ma in verità e*
pare che qui il sommo storico prodighi, contro il suo costume, im-
meritata lode. Con quale apparenza di giustizia avrebbe potuto Al-
fonso punire ne' Modenesi un sopruso che fu opera solo deirimpera-
CESm 80PRA MODBNA B LA. SUA STOBIA 415
tore e del papa? Lode più vera fu *ad Alfonso il non aver voluto mai
impor nuove gravezze, né fra le stesse angustie di lunghissime guerre
lasciar che mai fosse ai professori ritardato lo stipendio, e Tessere
stato popolare ed amante di conversar coi popolani lungi dal fasto
della corte. Fu eccellente nelle artiglierie ch'egli stesso fabbricava
e dirigeva, e non buono ma pur migliore che il fratello Ippolito cardi-
nale, noto mecenate dell'Ariosto, il quale mondano, superbo, guerriero,
politico più assai che letterato e prete (benché molti e molti vescovadi
avesse) mori poco amato dal popofó. Alfonso fece dell'Ariosto un gover-
natore della Garfagnana. Ora uscirono in luce per cura del nostro dili-
gente ed erudito Antonio Cappelli interessanti lettere che di là seri*
veva al duca il non men buono govemator che poeta. Narrasi ancora
di Alfonso che alleato essendo de' Francesi e chiamato a soccorrerli
contro gli Spagnuoli, che erano loro addosso, dicesse: lasciate: già
san tutti nemici noitrii Dura parola ma di recondito senso politico.
Ercole II, figlio di Alfonso, per forti^car Modena spianò con grave
danno gli ampii sobborghi, per lo che doverono emigrar non poche
famiglie, fra le quali quelle de' Reni, onde in Bologna usci poscia il
famoso Guido, pittore. Né a ristorar la perdita bastò l'avervi poscia
aggiunto quel tratto che cerranuova o addizione erculea pur nomasi.
A quante città fa danno la mania delle fortezze!.... Fu gloria a
Modena allora lo aver vescovo il cardinal Morene, che poi presiedè al
Concilio di Trento. L'aver fondato il seminario e due collegi! d'orfani ;
e le cure datesi per alleviar la fame del 1539 gli procacciò il titolo di
padre della patria. Il saggio Morene con prudente formola seppe so-
pire i sospetti di tendenze luterane che eransi formati sull'accademia
che avea fondata il Grillenzone. L'accademia fu sciolta, ma nessuno
perseguitato. Ma l'umano e prudente contegno del Morone e del suo
successore Egidio Foscherari, benefico e pio esso pure, mossero gli
sdegni del feroce Paolo IV dei Carafa, sognator di roghi e di man-
naie, sicché il presidente del Concilio tridentino si vide ristretto in
Castel Sant'Angelo. Fortuna volle che poco lungamente vivesse colui,
ma non si poco che non finisse di perdere la Chiesa d'Inghilterra col
tracotante metro che tenne con Elisabetta, trattandola di sua vas-
salla e di bastarda, e intimandole scendere dal trono. Anche allora
l'amor del dominio fece si larga piaga nel seno della Chiesa. Ercole
Estense proibì i duelli, e gli die lode il BartoU de' favori onde colmò
il nascente istituto di Lojola, e d'avere arrestato Calvino, che presso
la duchessa Renata di Francia erasi introdotto. Evase Calvino e la
duchessa fu rimandata in Francia dove mori settatrice di quel
novatore.
Succede ad Ercole Alfonso II, alla corte del quale fu cosi infelice
il Tasso. Abbenchè il Muratori cerchi pur di scusarlo, non può a
416 nnriSTA oontbhpobakba
meno di confessare che fu costui uomo capriccioso, bizzarro^ punti*
glioso, smanioso di preminenza, prodigo ad aggravio de' soggetti e
pieno di mille altre colpe, perlocchè, non amato, preparò al suo suc-
cessore la perdita di Ferrara. Nuove e diligenti ricerche non permet-
tono di afifermare gli amori del Tasso colla sorella di quel principe :
nulla si trovò negli archivii che li accennasse.
Alfonso II lasciò morendo il trono a Cesare suo cugino, nato da un
Alfonso bastardo legittimato di Alfonso I. Ciò fu pretesto alla pre
potente ambizione degli Aldobrandini, Clemente Vili e nipoti suoi
per impadronirsi di Ferrara.
Violenza aperta delle armi, terror di scomunica, tradimenti del
inganni d*ogni fatta furono i mezzi che gli Aldobrandlui adoperarono
per impadronirsi di quella città , su cui altro diritto non avevano i
papi fuorché del censo, che per sottrarsi alla prepotenza avcvan dovuto
promettere gli Estensi. Gli portarono via anche Comacchio ed altri
feudi imperiali e una immensa quantità di beni. Cesare, d'animo
pusillo e pacifico, cui la g^elòsia d'Alfonso aveva sempre tenuto lungi
dal governo, privo d'appoggio, privo dei denari, ohe mal prodigato
aveva Alfonso, mal preparato a codesta rapina, non volle, o non
seppe, 0 non potò difendersi, e si rivolse alle vie dell'agnello col
lupo. Invocava la costituzione di san Gregorio Magno, inserita nel
decreto di Graziano. 8i papa cum aliquo causam habet^ non débet ipse
estejudex et rem oeenpare sed arUtros eligere. Pregava e scongiurava
il povero Cesare perchè il papa destinasse egli stesso un giudica
imparziale, ma il papa voleva occupare, usurpare, non esaminare.
Vane tutto le rimostranze del suo ambasciatore, che come molesto
insetto il papa discacciava. La Camera apostolica resa giudice e parto,
invocando la massima che il fisco non litiga a mani vuoto ed altre-
tali che certi vilissimi giurisperiti somministrarono alla avidità dei
potonti, si tonno in possesso della roba altrui, né mai restituì , ed
empio ed immeritovole della porpora si dichiarò il Muratori, che un
secolo e mezzo dopo le forti ragioni degli Estensi adduceva. Adope-
rossi violenza ad impedir tostimonianze, si espilarono gli archivii, e
il preso colla forza seguito a godersi in pace, troppo essendo fÌEU^ile
che chi è e potente e possessore della roba altrui, si rida delle ragioni
e doglianze altrui scompagnate dalla potenza > {Muratori),
Fu ad altro tempo riservato l'esame del diritto, e questo tempo
non venne mai, non ostante le proteste di Cesare e de' suoi succes-
sori. Alla Chiesa rimase il possesso, e Cesare dovè segnare a' 12 gen-
naio 1598 la Convenzione Faentina^ colla quale quasi legittimava
l'usurpazione; e la diplomazia, che sempre applaude ai fortunati,
plaudl.
Per edificazione di chi pur sempre vagheggia le scomuniche ad
CBNNI SOPRA MODENA E LA SUA STORIA 417
appoggio di temporale dominazione, aggiungerò che al povero Ce-
sare, il quale almeno poteva credere di essere duca di Ferrara, il
papa lanciò contro tutte le scomuniche e le maledizioni del cielo, lo
privò di tutte quante le città, terre e beni allodiali, che tenesse da
qualche chiesa, estese le scomuniche e gli anatemi non solo ai suoi
aderenti, ma pure a chi non lo avesse perseguitato, dichiarandoli
in/amiyjncapaci di successioni, contratti, onori ed ujfflcii; minacciò la
scomunica all'imperatore, a tutti i re e principi, comandò che egli
fosse assalito e perseguitato; diede licenza di torgli a mano salva
tutti i heni mobili, immobili, ecc., in qualunque luogo del mondo, con-
cesse le città e terre a lui ubbidienti in preda al saccheggio, decretò
che i fautori di Cesare divenissero schiavi di chi li prendesse, e ai per-
secutori diede la benedizione apostolica^ indulgenza plenaria e remis-
sione de' peccati II !... Ma cessiamo, e deploriamo si strano abuso del
più sacro de' poteri, e limitiamoci a dir che mentono coloro i quali
fan merito ai papi della abolita servitù, se i papi si facevan lecito di
autorizzarla e comandarla solennemente al cadere del secolo xti.
Ferrara che sperò mitra e cappelli (come spiritosamente disse il
Tassoni), trovò vuote di eCTetto le papali promesse, e si spopolò e di-
venne qual la veggiamo. Il papa, appena padrone, atterrò ben quat-
tromila case, e chiese, e monasteri, e palagi, e ville, e portò via i
quadri, e in quella vece le impose sul collo quella cittadella minac-
ciosa, la quale costò poi a Ferrara tante ambascio e dolori. Intanto
serva questo fette di risposta agli adulatori de' papi, che tutte le pro-
vincie loro non vennero di spontaneo dono e di legittimo acquisto.
< Oltre di che ( aggiunge il buon Muratori ) , i medesimi sommi
«pontefici ai quali pure ha conferito il cielo tanti privilegii pel
«governo spirituale della Chiesa dì Dio, e per la conservazione
« della vera dottrina del Vangelo , non hanno mai creduto e per-
« mettono bene ch'altri noi creda, d'avere eziandio come uomini
« e come principi temporali esenzione dalle cupidità umane , dalle
« passioni e» dagli errori in ciò che riguarda l'uso e maneggio delle
«cose terrene e il governo delle signorie mondane E non man-
« careno allora, anzi neppure sono mancate a' di nostri persone divote,
« le quali o han creduto, o hanno voluto far credere che intervenisse la
« mano miracolosa di Dio a quel trionfo della Camera apostolica, quasi
« che il divino Salvator nostro avesse dato alcun segno di premura
« per i regni del mondo, e noi non avessimo chiaro il concorso degli
« accidenti e mezzi umani co' quali fu spogliata la Casa d'Este del
«possesso della città >. Pretesto dello spoglio era che Alfonso, padre
di Cesare, fosse figlio naturale di Alfonso I e di Laura Eustochia,
vedovo quello, nubile questa, e lo fu difatto; ma legittimato pel
matrimonio seguito del duca con lei di bassi natali bensì, ma di beltà
mpista (7.-27
418 RIVISTA CONTBMPOBANBA
e virtù fornita. E provato fu (come può largamente vedersi presso il
Muratori), che Alfonso duca sposò questa sua amante, la quale per
insin che visse fu riconosciuta e trattata dal marito, e dopo lui dal
figliastro, da tutti i principi di Casa d^Este e d'altre, dai ministri e
pubblici uffiziali, da tutto il popolo come vera moglie e vedova del
duca ; principessa e duchessa vedova Estense, ebbe funerali e sepol-
tura ducale, i suoi figli furono per legittimi riconosciuti dal padre,
dai firatelli, da tutti. Oltre a ciò nell'investitura che Alessandro VI
papa diede di Ferrara agli Estensi, comprendevansi anche gli ille-
gittimi. Se non che furono gli Estensi puniti di avere abbandonato
il diritto che loro derivava dal popolo per seguir quello delle investi-
ture. L'imperatore Ferdinando II e altri suoi successori pronuncia-
rono a favor degli Estensi, ma la Santa Sede fece orecchie da
mercante.
Modena intanto guadagnò per la venuta di Cesare e si popolò di
famiglie ferraresi rimaste a quello fedeli, si arricchì del suo archivio,
del suo museo e della sua biblioteca; ma nocque questo trasporto
della sede ducale perchè introdusse in Modena i costumi aristocratici
comprimendone le franchigie e i popolari istituti. Fu assassinato
Marco Pio signor di Sassuolo ed altre castella, uomo malvagio e tor-
bido, e il duca saggiamente seppe resistere alle sollecitazioni del papa
che pur voleva infeudati altri di quella famiglia. Cosi i pontefici, che
in altri tempi avevano perorato la causa de' popoli contro i potenti, ora
peroravano pe' feudi!.... Il duca dovè, per l'interposizione di Carlo
Emanuele di Savoia, redimere con 215 mila scudi romani la lite mos-
sagli dai Pii al tribunale imperiale. Nuova conseguenza dell'adulterato
diritto pubblico italiano, che i principi nostri aveva resi vassalli del-
l'Impero. Qui noterò che a Modena fin dalla metà del secolo xvi era
stata istituita una milizia di quartiere, detta d^caporioni^ la quale
occupava il primo luogo nelle truppe, e tranne il nome, equivaleva
alla guardia nazionale de' giorni nostri. Codesta milizia cittadina du-
rava ancora sui primi del secolo xviii e aveva 2000 uomioi armati di
moschetti e di picche.
Sotto il duca Cesare furono aperti in Modena, secondo l'uso dei
tempi, parecchi monasteri, e nel 1612 si cominciò una congregazione
di preti secolari detti di San Carlo, e nel 1626 fu aperto da essa il
collegio de' nobili, salito poi a molta rinomanza e ora pur sussistente.
Disse di Cesare (morto nel 1628) il Muratori, che e in benignità e in
« amorevolezza non ebbe pari, non aggravò mai di nuove imposte i
€ suoi sudditi, e nelle opere di pietà andava innanzi agli altri ». Suc-
cessegli Alfonso III, che fu poi cappuccino. Fu dato alle lettere e pro-
motore di studii, ma di una indomabile iracondia, e nelle concepite
vendette irremovibile, e come dice il Litta, il suo sguardo atterriva^ il
CBNNI SOPIU MODENA B LA SUA STORIA 419
SUO cuore i^n perdonata mai. Egli voleva essere temuto, e lo era, e
non amato, e poco frutto ottenevano le dolci insinuazioni della moglie
Isabella di Savoia. Codest' anima, trambasciata, non poteva trovare
pace, altro che nel chiostro, e mortagli la moglie, novello Carlo V,
si fé' cappuccino zelantissimo, predicando penitenza. I principi però,
ancorché cappuccini, son sempre diversi dagli altri. Passò per No-
nantola, piccolo paese poco lungi da Modena, Alfonso, ossia il Padre
Giambattista, com*ei nomavasi, e fu alloggiato dal capitan di ragione.
Ora questi diede al Comune un conto di spesa, per due giorni, di
venti zecchini, che al di d'oggi- certamente sarebbero, avuto riguardo
alla proporzione del danaro colle derrate, ben più di 2000 franchi,
e potè anche in lui vedersi ciò che ne* potenti resi claustrali quasi
sempre si vide: i superiori imporre loro precisamente ciò che essi
desiderano.
Francesco I succede al padre nel 1629 in età di soli anni 19. Nel
1630 Modena fu assistita dalla peste, e il Comune aperse tre lazza-
retti, due in città ed uno fuori. Al l'» di novembre fece voto e 13
giorni dopo, cadendo la festa di Sant'Omobono, cessò il flagello,
perlocchè Modena assunse quel santo a comprotettore, e pochi anni
appresso, con disegno del Oallaverna, costrusse la chiesa detta per-
ciò votiva. Sotto Francesco I si intraprese, sopra disegno del romano
Avvanzini, il grandioso ducale palazzo di Modena, e quello di Sas-
suolo, e la cittadella. La Spagna e l'imperatore avevano privo il
principe di Correggio del suo principato, e per 230 mila fiorini d'oro
il venderono al duca Francesco, poiché lo spogliato principe non va-
leva a sborsar tanto. Francesco fu che imprigionò gli ebrei nel
ghetto: cosa contro alla politica e all'umanità, che meglio è neg&r
ricetto che darlo a condizione di servaggio, e l'oppressione avvilì,
intristì e inimicò gli israeliti. A Francesco si dà lode di spiriti elevati
e pe' quali emular voleva i più potenti sovrani ; difetto e non pregio
fu codesto, e negli Estensi non infrequente. Più vera lode ei me-
ritò per l'amore alla giustizia e per l'ascoltar che faceva anche per
le vie i richiami del popolo, che assai se ne contentava. Racconta il
Muratori com'egli fosse solito dire a chi nel biasimava « questo esser
€ l'obbligo principale del principe, che siccome il buon servitore non
« ha óra alcuna determinata, in cui non sia tenuto a servire il suo
e padrone che lo paga, cosi del pari niun principe ha ora in cui
< non sia obbligato ad ascoltar il suo popolo e ad amministrargli
< giustizia, poiché principalmente per questo uffizio é salariato dal
«popolo, che gli paga i tributi. Ma sopratutto si osservò sempre
« un'incredibile premura e attenzione di questo principe perchè
€ ì grandi non soperchiassero i piccoli, né i suoi cortigiani infe-
€ risserò aggravio alcuno a chicchessia, e fu sentito dire più fiate
420 RIVISTA OONTBMPORANBA
«avere appunto la divina provvidenza posto sul trono ì principi
«afl^chè la loro autorità e possanza contrappesasse la disùgua-
« glianza de' sudditi, col non permettere che la forza e ricchezza degli
« uni recasse oltraggio a danno alla debolezza e povertà degli altri ».
Nel che è buona massima di governo per un principe asaduto, ma
scorgesi esser state affatto dimenticate le popolari franchigie che i
Modenesi si riserbarono, dandosi agli Estensi.
Alla corte di Francesco T vissero tre chiari poeti, il Tassoni, il
Testi e il Oraziani: che il primo ne fosse contento non pare dallo
spiritoso epigramma ch'ei pose intorno al proprio ritratto, facendosi
dipingere con un fico in mano.
* Dextera cur ficum quaeris mea gestet inanem ?
Longi operis merces haec fuit : aula dodit.
Ei fu del resto profondo e libero pensatore non meno in politica
che in letteratura ed in filosofia. Alle sciagure del Testi , seb-
bene di soverchia ambizione e d*imprudenza si voglia desso accagio-
nare , contribuì più di tutto la tortuosa politica del duca. Sperasi
veder messa in luce quella storia dolorosa di due nostri eruditi e
di documenti fiancheggiata. Lo servì giovane il gran Montecuc-
coli. Francesco I morì nel 14 ottobre 1657 , e gli succedeva Al-
fonso lY, marito alla Martinoazi, nipote al celebre cardinale Ma-
zarino, donna che il Muratori chiama superiore al suo sesso, e che
pel breve regno del dappoco marito resse lo Stato. Alfonso crebbe
la galleria , che oramai divenne una delle più famose d'Italia , e
allargò la città nell'addizione Erculea, e aveva pur divisato d'ac-
crescerla a levante. Laura, rimasta reggente morto il marito, si die
ad opere di pace, fabbricò chiese e monasteri, perlocchò ebbe da
Clemente X il titolo di specchio deUe principesse devote. Lasciò arrobur
milizie per Francia, ed ella stessa arrolò un reggimento per YeneziA,
represse l'autorità e prepotenza dei feudatari], e continuò e condusse
quasi a termine il palazzo ducale, e diede, ordini per Tinquilinalo
degli Ebrei.
. Maritò la figlia al duca di Yorck poi Giacomo II Stuardo, che
seguendo zelatori imprudenti, e malgrado gli avvertimenti dd papa
istesso, volle a forza ristabilire in Inghilterra la religione cattoli<m,
perlocchè ne perdo il trono, e nocque a quella stessa religione che
favorir voleva. Ritornata dall'Inghilterra, dove aveva condotta la
figlia. Laura trovò che il figliuolo suo, Francesco II di 14 anni, erasi
dichiarato maggiorenne e assunto il governo senza voler più saperne
della madre, e i perpetui lodatori degli Estensi lodano Laura e lo-
dano Francesco che Tesautorò. Francesco II morì nel 1694, e fu lo-
dato dai soliti panegiristi per le grandi spese fatte in cantanti e suo-
CENNI SOPHA MODENA B LA SUA STORIA 421
natori, e decorazioni, e seene di teatro; e son quelli che più contro ^
il teatro declamano. Modesta, ma più sincera lode che la grandiosità
e magnificenza, e la mania guerresca, e i raggiri di tortuosa politica
meritò Francesco II per amore alla giustìzia, per odio alFadula-
zione, per vietar le servilità dei ministri, e più ancora per la fonda-
zione, o a meglio dire la restaurazione dell'università modenese,
la fondazione di un'accademia, Tordinamento della biblioteca e del
museo d'antichità. Morì senza figli nel 1694, e gli succede Io zio
cardinale Rinaldo, il quale rinunciò alla porpora.
Ebbe egli i^ suoi Stati invasi dalle truppe nella guerra della suc-
cessione di Spagna e in quella di Polonia. Le truppe fi^ncesi, spa-
gnuole, tedesche a g^ra lacerarono, dissanguarono, tormentarono
questi paesi, peggiori di tutti, gli Spagnuoli. Riebbe infine gli Stati.
Legnosi nel Muratori la capitolazione colla quale nel luglio 1734 en-
trarono in Modena, e le larghe promesse e il magro adempimento.
Fu ancor ritentata la quistione di Comacchio, ma Roma seppe spender
sì bene e maneggriare, che riebbe il possesso; del diritto sarebbesi
parlato poi. E venne vero ancor qui il detto dell'antico Gio. Vil-
lani, p$eUo che i chierici prendono, tardi san rendere. Molto non andò
che Roma dovè sentir la legge della forza.
Àlli 26 ottobre 1737 morì Rinaldo, buon principe senzesser grande
in cosa alcuna. Seppe spendendo riunire al suo ducato quello di Mi-
randola, che l'impero confiscò ai Fichi, e la contea di Novellara che
fu tolta ai Gonzaga.
Il regno di Rinaldo fu illustrato dall'avere avuto a bibliotecario
e precettore de' figli il celebre Muratori, il quale solo basterebbe ad
onorare una nazione ed un secolo. Egli mori regnando Francesco III
nel 1760 ai 23 gennaio ; meritamente chiamato pndre della storia,
lasciò monumenti innumerevoli di profonda erudizione nel diritto
pubblico e privato, negli studii ecclesiastici, nella letteratura, nella
filosofia : fu benefattore vero dell'umanità, della patria e degli Estensi,
de' quali illustrò il nome, difese i diritti. Alcuna volta coprì le colpe,
e più grandi o men piccoli lasciò apparissero.
A Rinaldo succedette Francesco III guerriero, magnifico, la cui ,
ambizione soverchia e la prodigalità fece molto male, come la muni-
ficenza fece moltissimo bene a Modena ed allo Stato, e quindi la sua
memoria, i suoi istituti durano ancora e può essere chiamato il nuovo
fondatore, il legislatore di Modena, il più grande de' suoi principi,
dal quale è a dire alcuna cosa di più. Ora rivolgendoci addietro per
dare uno sguardo al rapido cenno che abbiamo dato, noi diremo che
nella storia di Casa d'Este si trova largamente prodigato l'incenso;
ma queste lodi ridur si vogliono a giusta misura. Se gli Estensi
non vennero annoverati tra i peggiori, porsero tributo anch'essi ai
422 RIVISTA CONTBHFORANBA
vizii de' tempi, e furono simulatori, crudeli, ambiziosi, rapaci, sco-
stumati. Seppero essi coprire i loro vizii cogli astuti maneggi, colla
magnificenza e generosità verso i letterati, e colla devozione del fab-
bricar chiese e conventi, che l'aristocratica avarizia si incaricava di
riempiere con isforzate vocazioni. Le quali doti procacciarono loro
panegiristi in gran copia. E TÀriosto che di quelli fu uno, protestò
contro le stesse sue lodi allorché disse:
Non fu si santo e si pietoso Augusto
Come la tuba di Virgilio suona:
E sol l'avere in poesia buon gusto
L^ proscrizione iniqua gli perdona.
La quale magnificenza di feste, doni e viaggi è mezzo potente di
corruzione doppiamente dannoso ai sudditi, perchè in ultimo si paga
da loro e serve a schiacciare la libertà sotto apparenze che impon-
gono alle masse ignoranti od irriflessive. E come uno scrittore dicea
parlando della corte di Roma a quel tempo istesso : t Un lusso sfre-
t nato, continue depredazioni, prodigalità senza limite, feste, diver-
«timenti, piaceri sempre varii, sempre più dispendiosi e mille altre
« cause di questa natura mettono e perpetuano il disonore nelle fi-
c nanze degli Stati più ricchi t.
Noi lodiamo Francesco III, il quale impiegò in solidi ed utili edi-
ficii quel danaro che i magnìfici suoi antecessori impiegavano in
feste, la smania delle quali fu cagione ed effetto ad un tempo dello
spegnersi della libertà, ed arrestò Io slancio che aveva preso il fab-
bricare nobili edifizii ed abbellir la città. Sotto Francesco III Modena
cominciò a detergere l'indicibile luridezza.
Francesco III ebbe in moglie Carlotta Aglare d'Orleans figlia
al celebre reggente, donna da ogni più austera ed operosa vita
disavvezza ; e poco dopo il suo avvenimento al trono , la catte-
dra di San Pietro onorossi dell'immortale Lambertini. Francesco
aveva, giovine ancora, militato nelle truppe imperiali, e quando la
guerra della successione d'Austria venne di nuovo a funestare questi
paesi, parteggiò per Francia e Spagna e per Carlo VII, ed ebbe anche
il pomposo titolo di generalissimo del re di Spagna in Italia. Tenne
la parte che parea più potente, ma non sempre è destino che i più
potenti vincer debbano. Nel Modenese fu data la importante battaglia
di Camposanto sul Panaro. Per sette anni gli Austriaci e i Piemon-
tesi alleati tennero lo Stato di Modena, e il Muratori li loda di mi-
litar discrezione e di moderato e giusto governo civile mercè il go-
vernatore conte Cristiani e il luogotenente conte Amor di Scria.
Nel 1749 Francesco III ricuperò del tutto il ducato, ma legò, affatto
all'Austria se stesso e le sorti sue e dello Stato. L'unico figlio suo
CBNNI SOraA MODENA B LA SUA STORIA 423
Ercole Rinaldo aveva sposata Maria Teresa Cybo, erede dei duchi
di Massa e Carrara. Nacquero da questo maritaggio nel 1750 una
figlia Maria Beatrice Ricciarda, e nel 1753 un figlio, che dopo sei
mesi morì (e naturai cosa non parve). Francesco fu tratto nello stesso
anno 1753 ad un trattato in cui veniva egli creato governatore ge-
nerale della Lombardia per Timperatrìce Maria Teresa, e per l'ultimo
figlio di lei ancora bambino, a cui sarebbesi data, e il fu a suo
tempo (nel 1771), in isposa Maria Beatrice, perchè l'eredità degli
Estensi passasse in Casa di Lorena. Ma lasciamo i fatti che ne se-
guirono per dir del regno di Francesco III che fu pel tempo suo sag-
gio e audace legislatore. Pose egli e norme e freno ai feudatari!, al-
l'arricchimento delle chiese colle leggi sulle manimorte. Ampliò e
quasi fondò di nuovo l'università, le edificò palagio, le diede stu-
pendo regolamento, riunì in una sola amministrazione le opere pie
(divisamente che allora parve ottimo e noi fu) costrusse spedali ,e
ricoveri grandiosi e magnifici, raddrizzò e allargò le principali vie
della città, coperse canali e cloache, condusse magnifica strada dal
confine mantovano al toscano, ove da Leopoldo I con disegno dello
Ximens fu proseguita, e mille altre cose egli fece, le quali palesa-
rono l'animo suo veramente elevato, e grande accortezza nello sce-
gliere gli uomini cui affidare gli importanti negozii. Chiaro si rese
il suo nome anche pel codice che promulgò nel 1771, nel quale
raccolse, perfezionandole, le leggi fatte prima da lui e alcune dei
suoi antecessori e tutte le materie degli Statuti rinnovò e messe nel
Codice, che uniformemente sancì per tutto il ducato. Ma le troppe
guerre e il vivere lontano dal suo paese e la prodigalità conseguente
lasciarono troppo funesto dono, il pubblico fallimento. Ai 22 aprile
1780 morì in Varese più che ottuag^enario, cieco, diviso dal figlio e
di abitazione e di animo, specialmente dopo il matrimonio di Maria
Beatrice. Se al largo pensare avesse unito lo spirito pacifico ed eco-
nomo del figlio e il saggio limite dell'ambizione, Francesco III avrebbe
resi felici gli Stati suoi, e preso tra' principi suoi contemporanei
tal posto da non essere sì facilmente superato.
Ercole III, uomo di mediocre ingegno, avido del danaro, di spirito
ristretto e non creatore, buono però, pacifico, amante del paese, non
&8to80, popolare quanto esser lo possa assoluto signore, desideroso di
giustizia (abbenchè nelle cose che toccavano l'erario suo, di parecchie
esorbitanze si macchiasse) , munifico verso i pubblici stabilimenti ,
sapendo egli dividere il frutto di sua parsimonia (lodevole in un
regnante allora solo , che a pubblico bene è rivolta ) tra lo accu-
mular tesori per sé e il fare opere utili al pubblico. Questa sua
avarizia era odiosa al popolo, senonchò fu scusa in parte a lui la
prodigalità eccessiva del padre e la previsione degli eventi che si
424 RIVISTA CONTBHPORANBA
maturavano in Eureka. Narrasi che sin dal 1781 egli dicesse ad un
francese, parlando di quel reame : é imposnbUe che quisio regno sui'
iuta ancor lungo tempo : esso è alla vigilia d'wna gran crisi ^ io la ri--
tengo immanchevole : ella sarà fwusta^ e ne attendo una totale dis-
soluzione.
Ercole che aveva preveduto per tempo la morte del padre, e odiato
com'era da* cortigiani e ministri di quello, meglio ne aveva conosciuti
i difetti, li riformò, scacciando coloro che troppo avevano sec(Hidate le
dilapidazioni, o abusato del potere, o eccitate le disunioni della fami-
glia. Li perseguitò fors*anco troppo aspramente , e oltrepassò giu-
stizia. Conservò gli altri, e fece nomine per lo più eccellenti. Lesole
milizie si ridussero a vane comparse, ma fornite però di copiosissime
artiglierie, avanzo in parte di quel suo avo Alfonso che n era stato Tin-
ventore ed artefice. Ampliò gli spedali, destinando luogo pei pazzi e per
gli esposti, uni all'università scuole zooiatriche, eresse raccademia
di belle arti, istituì il collegio di Correggio che agli Scolopii affidò,
costrusse ponti magnifici sul Panaro, sulla Secchia e sul Crostolo,
diminuì le imposte, donò debiti alle Comuni. Perlocchè poscia, al
venir de' Francesi, Ercole III fu dagli uni compianto come (ìadre di
famiglia, dagli altri detestato come despota, avaro e spregevole. Im-
perocché , chi di un vivere pacifico e sicuro , e di moderato dispo-
tismo, e di tributi non gravi, e retta amministrazione, e buone leggi
(per quanto i tempi consentivano) , e buoni tribunali , e istruzione
eccellente, e del veder frenata la prepotenza de' feudatarii e la cu-
pidigia del clero, accontentavasi, e non mirava più innanzi al mutar
de' tempi , meglio non poteva bramare. E si odiava da quelli nei
Francesi lo straniero invasore, il distruttore violento e temerario di
ogni patrio istituto. Odiavano gli altri i privilegii , l'aristocrazia ,
il sistema stazionario, il triviale libertinaggio, e più ancora che
dal duca odiavansi i liberi e generosi ingegni dai boriosi cortigiani
al popolo infensissimi e ciechi alle esigenze de' tempi. Costoro per-
seguitavano di carceri e vessazioni la cittadinanza svegliata ed ar-
dente, e colle stolte persecuzioni vieppiù accendevano gli animi, che
la persecuzione fece sempre dei martiri, non delle conversioni.
Immedesimato essendo colla casa d'Austria pel matrimonio e trat-
tato del 1753, il partito attaccato agli Estensi, i liberali di quel tempo,
si videro nel fatale dilemma tante volte rinnovatosi in Italia di sce-
gliere fra straniero e straniero ; i fervidi innovatori, paventando l'in-
dole cupa , gelata , tenace della politica austriaca , si gettarono in
braccio a quello straniero che in mezzo ai suoi delirii mostravasi
loro progressivo e generoso.
Rinacque cosi la divisione di parte tedesca e francese che da se-
coli tormentava l'Italia, e più corrotta ancor dell'antica corruzione
CBNNI dOPBA MODBNA B LA SUA STORIA 426
eran pur dette parti ghibellina e guelfa. Poiché furono divisi in
queste due parti ambe straniere , lo spirito nazionale rimase sopito
e quasi distrutto, e ne venne che i Francesi e Tedeschi a gara prò-
varonsi a infranciosarle ed intedescarle. Qual fosse poi il contegno
de' Francesi in Italia, quale la fedeltà alle promesse, quale la gene-
rosità e il disinteresse, la storia severa noi può tacere, e bisognerà
convenire che i vantaggi a questi paesi vennero non per altrui dono,
ma per indole e virtù del popolo, e per necessità de' tempi. Nò quei
vantaggi stessi poterono godere se non quando Napoleone reggendo
con fermo scettro e gli uni e gli altri, pose un freno alle estorsioni
e alle prepotenze de' generali e commissari i.
Invano aveva sperato Ercole III di redimersi a danaro, la previ-
denza gli era venuta meno, lusingandosi di poter pure scongiurare
i tempi. -Egli dovè partire nel 1796, lasciando una reggenza che fece
le sdite prove di stolto governo e rabbia impotente. Si ritrasse il
duca a Venezia , e poscia a Treviso , dove mori nel 1803 pur rim-
piangendo la sua patria che egli amava , e da cui sarebbe stato
amato di più se meno tesori avesse portato seco e meno spavalderie
avessero fatto le sue imbelli milizie, e meno prepotenze la sua reggenza.
Qui breve digressione mi sia permessa.
Le fugaci e mal sicure signorie che sul cader del medio-evo stra-
ziavano r Italia, contrastata pur sempre, né mai tranquilla, parte
spegneronsi nel secolo xvi, e parte venivano irrevocabilmente poste
sul collo agli Italiani dalla smodata possanza di Carlo Y imperatore,
nome infausto alla misera Italia, nome che suona travolgimento di
ogni pubblico giure d'Europa, e che tramutò ogni civil reggimento
in orientai dispotismo. Fortunata Inghilterra che potè evitarne l'alito
mortifero! Volgevano due secoli, e la mano di Dio sembrava alle-
viarsi su questo sventurato paese ad una ad una spegnendo quelle
famiglie, che rinnegati i patti pe' quali erano salite al trono, e forti
d'imperiali o di papali investiture, ingentilite nell'esterno costume,
ma scinte d'ogni freno, calpestavano ogni dì più la libertà, le fran-
chigie e i diritti de' popoli. In Modena, Francesco III d'Este, am-
bizioso, imprudente, scialacquatore, ma splendido, fece opere gran-
diose ed utili, rovinò lo Stato, volle forse il bene, ma non pati freno
al volere, e d'ogni cosa a suo senno dispose.
L'astuta Maria Teresa seppe valersi deiranimo debole del duca»
che borioso del titolo di generalUsimo^ tenuto aveva nella guerra di
successione le parti de' gallispani, e minacciandolo di decadenza quasi
fellone (poiché i principi Estensi , come gli altri eransi d'imperiali
investiture rafforzati per isciogliersi meglio dai patti coi popoli ) e
benigna ad un tempo, e arrendevole mostrandosi , Io ridusse a sue
voglie.
426 HinSTA CONTBlfPOftAMBÀ
Beatrice, fìg'Iia ancor bambina di Ercole Rinaldo, erede ed ultimo
rampollo della cadente stirpe, sposata sarebbesi airultimo figlio del-
l'altera imperatrice : e per lei il duca di Modena avrebbe governato
la Lombardia, che essa agli ereditarii suoi Stati aggiunto aveva. B
questo fu palese. Ma segreto e più fatale fu il patto che, se maschio
erede Ercole non lasciasse, il retaggio e lo Stato degli Estensi pas-
sassero ai Lorenesi, che di Beatrice sarebbero nati. Cosi fu attra-
versato il pensiero patriotico di sposare un giorno quella principessa
al Borbone di Parma, e diminuire pur d*uno gli strazii d'Italia. Ck)ntro
il paterno divisamente lottò Ercole invano, che l'imperioso vecchio
vendè la sua stirpe e lo Stato, come venduto aveva ì preziosi quadri.
Sostenuto per breve tempo in fortezza, dovè Ercole prestare un as-
senso, che per forma voleasi, e n'ebbe fonte inesauribile di sventure
e l'animo per tutta la vita amareggiato. Mai femmina in casa d'Este
regnato aveva, né avrebbel potuto, perchè la forma di elezione che
prima aveva dato il trono ad ogni vacanza per forma ripeteasi, e
trono elettivo a donna non dassi. Ben avevano regnato gli spuri!
e talora preferiti a'iegittimi, siccome Berso e Leonello ad Ercole I.
Ad Ercole Rinaldo nacque un figliuolo, ma dopo tre mesi mori ; si
disse, ad arte dalla nutrice, sotto pretesto di riscaldarlo, scottato, e si
dubitò di austriaco maneggio, ed Ercole il credeva, e ne concepì tale
avversione, che mai, esule ancora, volle veder Vienna, nò alla figlia
riunirsi. Semi di discordia gettaronsi tra Ercole e Maria Teresa Cybo,
duchessa di Massa e Carrara, sicché il diviso talamo riescisse infe-
condo ; ma ciò pur non bastava a chi voleva in casa Lorena stabilir
quando che fosse la successione degli Estensi.
Licenzioso come gli avi suoi, aveva forse Ercole III qua e là
qualche spurio, ignoti però, appena li additava la malvagità di mor-
moratrici brigate ; e se pur di alcuno gli austriaci dubitarono, non ne
ebbero ombra, perchè non riconosciuti dal padre. Ma uno vi era, figlio
alla Chiara Marini, che il duca apertamente riconosceva per suo, ed il
cognome d'Este gli permetteva, e gli infeudava Scandiano. Colla
Chiara Marini tanto convisse il duca, che esule, prima di morire, spo-
soUa. Nel fior della gioventù, precipitato da una scala, moriva il maif-
chese di Scandiano, e con lui spegneasi ogni speranza dello sventu-
rato padre, il quale tanto presentia la sciagura, che al primo presen-
targlisi l'annunziatore, noi lasciò aprir bocca, esclamando: ho inteso,
ho inteso, Scandiano è morto!
Quel trattato però che trasferiva la successione d'Este in casa
d'Austria Lorena fu accuratamente celato, né la diplomazia il conobbe,
non che l'approvasse. Accortamente ne sospettò il sardo ambasciatore
in corte di Vienna, e giunse ad averne copia, che giace ne' diploma-
tici, archivii di Torino. Mai fu esso chiamato ad esame, e quasi per
CBXKI dOraA MODENA E LA SUA STORIA 427
confusa tradizione, e per la negligenza tanto frequente fra i diploma-
tici, senza quistiope e senza esame, e non per antico, ma per nuovo di-
ritto, passò il trono di Modena in Francesco IV, figlio di Beatrice d'Este
e di Fernando d'Austria Lorena, allorché nel 1814 e 1815 si divi-
sero le spoglie dell'impero napoleonico. I nuovi principi furono detti
legittimi senza che alcuno esaminasse a qual legge una tale legit-
timità si appoggiasse. Si disse ripristino dello Stato antico, e fu
mutamento d*ogni antico ordine, soppressione d'ogni franchigia,
distruzione d'ogni libertà. In ciò solo coerente a se stesso, che le
voci de' popoli ascoltate non fossero: di que' popoli che eccitati si
erano ad insorgere per ricuperare nazione e libertà.
Ma torno al rapido cenno che ho dovuto interrompere.
Modena fece, con Reggio e con le Romagne, parte della Repub-
blica Cispadana, poi della Cisalpina, e d'allora in poi la sua storia
si confonde con quella di Lombardia. Quando nel 1799 gli Austriaci
sorretti dai Russi occuparono queste provincie, e vi posero una reg-
genza in nome dell'Imperatore, e gli atti pubblici in nome suo fà-
ceansi, e le carte col suo stemma segnavansi, e chiaro si vide che
nò al papa, né al duca le avrebbero restituite, se pur le avessero
potuto tenere ; ma la reggenza imperiale incarcerava, processava,
esigliava, mandava a confino i patrioti, i quali, se pur si avessero
voluti riguardar come colpevoli, non le sarebbero stati mai contro
l'Austria, a ^ui non furono sudditi giammai. Troppo chiaro era
dunque che non idea di giustizia qualsiasi, ma spirito di universale
dominazione e di persecuzione contro ogni uomo che a nazionale
indipendenza e a libertà avesse aspirato, moveva l'Austria, e che
que'suoi satelliti che sotto di lei e per lei tiranneggiavano il loro
paese, speravano spegner nel sangue i generosi spiriti. Inutili e
stolte crudeltà, che nel sangue può spegnersi una congiura di pochi
avidi di regno, ma non si spengono le convinzioni e la ineluttabile
forza del tempo. La incorreggibile aristocrazia feudale rialzava la
testa e insolentiva sul popolo.
Oli Aiistriaci annullavano ogni legge, ogni ordinanza, ogni ven-
dita, ogni atto fatto da' Francesi e dalla Cisalpina, non ostante il
trattato di Campoformìo, che la conquista di quelli, e la costituzione
di questa aveva riconosciuto. Li annullava in nome della legittimità,
parala vaga, indeterminata, che pare dir molto, e dice si poco, che
ricusa di camminar col tempo, e non vuol attendere, che dal vecchio
e dal nuovo piglia ciò che le giova, scinde i patti e i contratti, e
tiene soltanto ciò che fa per lei, e nel 1799 chiamava legittimo il
governo Austriaco in Lombardia, perchè la possedeva prima del 1796,
e in Venezia perchè l'aveva avuta da quei Francesi che chiamava
usurpatori.
BIVISTA OONTBlCPOBANBi.
Queir annullamento ingiusto e impolitico rese necessario e giusto
quello che i Francesi, ritornati nel 1800 pronunciarono degli atti
austriaci. La stessa legge di giustizia lega tutti i governi, e guai
a chi se ne scosta. La legittimità è quistione quasi sempre ardua
tra imperante e imperato , ma quanto all'effetto degli atti di go-
verno non può esercitare influenza alcuna. L'uno si appoggia ad
investitura e trattati ed elezioni popolari antiche, l'altro a più re-
centi trattati, a più recenti voti popolari, e la sorte delle armi più
spesso che quella della ragione decide questi piati. Giustizia vuole
che si rispettino gli atti de' governi che in fatto regnarono, e Éa ri-
parare le ingiustizie come si può meglio, senza offendere i quesiti
di alcuno: gli annullamenti sono distruzioni, e saggiamente <^>e-
rerà quel governo che nel momento della vittoria farti come se di
lì a poco dovesse perdere. Cosi per vero dire operarono quasi sempre
i governi liberali, ma i pretesi legittimisti non seppero neppur per
prudenza imitarli.
Ma nel 14 giugno 1800 la spada di Bonaparte vendicava a Ma-
rengo l'onta delle sconfitte francesi.
La fama con una celerità che allora pareva inconcepibile precorse
come un fulmine. I popoli si riscossero, si schiusero le carceri, cadde
la mannaia di mano al carnefice, gli oppressi respirarono, gli spo-
gliati possessori riebbero i beni loro. Il trattato di Luneville, stipu-
lato ai 9 febbraio e pubblicato agli 11 marzo 1801, riconobbe ed
ampliò la Cisalpina, che poi nel 1802, ai 26 gennaio, prese ne* co-
mizii di Lione il nome di Repubblica Italiana.
L'aristocrazia si lagnò della tassa d'opinione impostale dopo il
1799, ma giustizia e verità dicono che fu quella una riparazione ben
modica ai tanti mali che essi arrecarono in quell'anno fatale, mal
rimeritando la moderazione de' patrioti nel primo triennio. Dives
injuste egit et fremete dice l'Ecclesiastico. Quando i generali e i com-
missarii francesi imponevano taglie di guerra, chi osava affrontarne
l'ira? non già la timida aristocrazia che rannicchiata blandiva i po-
tenti, ma i patrioti più caldi e sinceri. Vero è anche che il 1799
vide molti deporre a' piedi dell'aquila bicipite il mal simulato pa-
triotismo de' tre scorsi anni, e si fecero zelanti accusatori e testi-
monii centra i loro benefattori. Invano cercarono nell'ottocento ri-
»
prendere la maschera; ma anche allora la generosità del popolo
sprezzandoli li dimenticò.
Fu detto allora, e si potè poi più volte ripetere:
£ tal si fa mantello
D'amor di patria onde poggiar sublime
In corrotta repubblica, che pria
Era devoto all'acquila, e gli artigli
Le aguzzava maligno.
CBNNI SOPBA MODENA E LA SUA STOBTA 429
La repubblica italiana ebbe novella forma nel 1803, e a presidente
Bonaparte, e nel 1804 tramutossi nel regno d*Italia, sotto cui Mo-
dena fu capo al dipartimento del Panaro. La vicina Bologna le tolse
non poco territorio per allargarsi contro ragione. Di quel tempo
non altro può dirsi che Modena specialmente riguardi, se non che
vi fiori la celebre scuola iel genio e d'artiglieria, fondatavi nel primo
triennio repubblicano dal generale Salimbeni veronese, con eccellenti
professori, ed ottime discipline, sì che Tesserne stato allievo, fu in
tutta Europa giudicato prova sufficiente di capacità : che Modenesi
0 Reggiani ed allievi dell'università Modenese furono cinque mi-
nistri e senatori ed altri grandi ufficiali del regno; che fra le corti
regie ebbe quella di Modena, e di Modenesi composta, vanto di su-
premazia per dottrina e fortissimo petto; che ne' pubblici uffizii gli
impiegati Modenesi sovrastavano per capacità e zelo operoso; che
infine tanto era il numero degli uffiziali nostri neir esercito, che allo
sciogliersi del regno ben di gran lunga superava la proporzione con
quello degli abitanti.
Svegliatezza d'ingegno, fortezza d'animo, amor degli studii e del
meditare, spirito riflessivo ed ordinato, e vivere temperato e solerte,
operosità e forte sentimento del dovere, son doti comuni fra noi,
sicché possiamo sperare di non venire ultimi in alcun tempo al con-
sorzio della nazione italiana.
L. BOSBLLINI.
430
m ALCDm TRATTI E DELL'INTERO EPISORIO
DELLA
FRANCESCA DA RIMIMI
Al 8i|. c«T. PIETRO rRATICILLI, Aceadenie» della Crnsca
L*amore sìngolarisaimo che poneste a dar fuori per le stampe
del Barbèra una compiuta edizione delle Opere dell' Alighieri, e le
cure diligenti a raccogliere le memorie, le quali rimasero di lui, a
compilarne la vita, vi meritarono la riconoscenza di tutti coloro i
quali attendono agli studi! danteschi. Io poi, oltre questa cagione,
vi ho in particolare affetto per le cortesie delle quali mi foste largo
nella mia dimora in Firenze, e perciò volli indirizzarvi questo mio
discorso. Accoglietelo colla vostra consueta benevolenza e non di-
menticatevi di me.
Torino, 12 dicembre 1862.
Frai^gbsoo Sblmi.
I.
Per chi attende con amore allo studio della Commedia Dantesca,
è raro e difficile che non gli succeda d'incontrare qualche passo, la
cui interpretazione non gli paia mal presa od insufficiente : ed è cosa
da maravigliare che ciò avvenga dopo cinque secoli di cure assidue,
diligenti e sagaci adoperatevi intomo da uomini forniti di molta
dottrina e di fino acume. Da ciò nasce quasi supposizione che nel
Poeta divino siano tali caligini qua e là da mettere a tortura per-
petua chiunque vi si tormenta a dissiparle, cohie fu di certi oracoli
antichi, dei quali il senso od ambiguo ovvero intralciato con sommo
EPISODIO DBLLA FRAK0B8CA DÀ BIMIKI 431
artificio, impedì che mai foBsero fntesi per diritto, cosi da non la*
sciare il dubbio neiranimo. Taluno non si peritò di affermare, che
Dante, per se medesimo, talvolta sia fosco e ravviluppato ; ma io non
vorrei che quest'ingiuria fosse stata mai pronunziata, né avesse più
a sorgere a biasimo di lui , il quale se in certi passi sembra pec-
care di oscurità, talcosa può affermarsi derivare da cause non sue ;
0 da errore di lezione nel testo ; o da mancanza di cognizioni baste-
voli in chi vi si travaglia; o da malagevolezza di spaziare tanto
vastamente quanto egli fece; o dalle altezze dell* argomento ; od an-
che da troppa vaghezza di sottilizzarvi intomo a trarne chiosa ar-
guta e nuova. Che anzi fu Dante scrittore perspicuo e sicuro , e
possedette in grado ragguardevole quella dote preziosa dell'ingegno
perfetto, che è di temperarsi nei limiti del possibile, né tentare per
audacia soverchia ciò che va al disopra del vero ardimento e muta
Tatto eroico in impresa temeraria. Imperocché pei rischi a cui si
pone l'intelletto, avvenga il somigliante delle prove a cui si cimenta
la persona ; stanno prefissi ad ambedue le cose certi segni al di là
dei quali non si può; né bastano per un lato agilità e gagliardia
ed esperienza di braccio, come per l'altro non vale forza ed impeto
di fantasia co* voli suoi, né limpidità di mente colle sue speculazioni.
Lo sconfinato , T indefinito possiede un'attrattiva singolare sulle
volontà umane che le muove a diletto, e le invita e costringe a sé
e le aggira nelle vertigini ; onde s'ingenera quel desiderio irrequieto
di avveilture, e quella curiosità invincibile, per cui si tentano fatti
formidabili e da sgomentare i cuori meno paurosi. E vi accresce al-
lettamento la gloria che suole alle volte derivare dall'impresa , sia
di trionfo quando la fortuna asseconda, sia della palma di martirio
quando la vita, la libertà ed i comodi tutti ne vanno sacrificati. Ma
altro é chi fortemente si dispone ad opera che niun argomento dice
insuperabile per quanto si dimostri di grave pericolo ; altro chi si
getta disennatamente nell'abisso, e pretende dagli angeli del cielo
che discendano a salvarlo nella rovina premeditata. Dante, sapientis-
simo e di pieno conoscimento di quanto potessero le forze sue, al
certo maravigliose, non mai si avanzò tanto addentro nelle difficoltà
più ardue, da cadérne smarrito: adoprò la lingua come strumento
docile, fino a che gli corrispondesse, pigliandone accortamente la
parte comune e nota acciò fosse meglio compreso; e quando gli
tornò uopo ne andò sviscerando i germi reconditi , rendendoli ad
esplicazione immediata. Perciò seppe dire cose ineffabili per altri
senza incespicare , e spinse la virtù espressiva della parola a toc-
care i limiti estremi, oltre dei quali volendo tentare, sta l'inarriva-
bile ; memore che la potenza di significare é vinta sempre dalla fa-
coltà di comprendere, e lo spirito vede e si specchia in immagini
432 BIVISTA CONTEMPOKANBA
le quali né voce, né nota musicale, né colore di pennello o intaglio*
di scultore potranno agguagliare, né forse rappresentare giammai.
Qualora poi giunse ad uno di quei tratti da andarne perduti, e che
paiono inescogitabili o da non potersi poi rammentare , lo mirò di
fronte per quanto lo concedesse vigore d'intelletto , indi si raccolse
e confessò il proprio difetto a tradurlo in forma sensibile, come nel
principio del Paradiso in quei versi di stupenda sagacia che dicono :
Nel ciel, che più della sua luce prende
Fu' io e vidi cose che ridire
Né sa né può qual di lassù discende.
Perché appressando sé al suo desire,
Nostro intelletto si profonda tanto,
Che retro la memoria non può ire (!)•
Trasumanar, significar per verba (2)
Non si porria
Che poi Dante non intricatosi fra le maggiori difficoltà, e con-
servata l'equa misura , dettasse chiaramente i concetti suoi , non é
da porre in dubbio, dacché lo confermano le tradizioni che narrano
la gente minuta de' tempi suoi, averlo appreso e ripeterlo cantando,
e si può eziandio dimostrare ai giorni nostri^ colla lettura di quegli
squarci i quali senza bisogno di erudizione storica e coltura nelle
dottrine scientifiche si capiscono con prontezza dall'universale. Chi
è mai tra gli uomini di mediocre apertura di mente e di cognizione
discreta sugli avvenimenti, sulle idee e gli studii d'allora, che ponen-
dosi a leggere con attenzione le tre cantiche, non giunga a rendersene
inteso da capo a fondo. Il quale effetto mancherebbe qualora il poeta
trasvolando oltre le nuvole nel concepire e nell'esprimere , si fosse
perduto nell'interminabile; poiché qualora avesse ciò fatto, egli me-
desimo sarebbe proceduto per le incertezze, né varrebbe interprete
ad illuminare il buio che non fu schiarito nemmanco dall'autore.
Ed oh quanto é prezioso quel retto discernimento, donde ha tar-
pato le ali la troppa audacia, il quale derivando da un giudizio squi-
(1) Paradiso, Canto I, v. 4 e seg.
(2) Id. y. 70 e seg. Anche il Petrarca, a suo modo, confessò Timperizia
deirespressione a fronte deirimmagine. Nel sonetto « Quand'io v*odo
parlar si dolcemente » , disse tMa il soverchio piacer che s'attraversa
A la mia lingua, qual dentro ella siede, Di mostrarlo in palese ardir non
ave» (ardire, cioè possanza, siccome commenta il Castelvetro). Nella
canzone «Se il pensier che mi strugge», scrisse: «Aver dentro a lui
(il core) parme Un, che Madonna sempre Dipinge e di lei parla. A voler
poi ritrarla, Per me non basta •
EPISODIO DBLLA FBANCBSOA DA RIMINI 433
sito, rende di eccellente bontà Topera che compone, che perciò esce
dall'artefice si tratteggiata e condotta stupendamente in ogni suo
particolare, a rilievi tanto spiccati e puliti, che la bellezza e il garbo
del lavoro tocca al sublime, e si fa terribile per chiunque pretenda
d'imitarla. E così ristrettasi Tinvenzione nel giro del possibile , se
ne acquista sommo valore di perfezione , compensando col mirabile
del magistero quel poco d'impeto e di rapimento che ne andò per-
duto ; cosi colui il quale vi sì affaticò, poiché padroneggiava a pieno
arbitrio la forma, potè accomodarla come gì' iva più a genio, né sfor-
zarvisi, né violentare la natura, né mendicare sussidii. Laonde nac-
que spontanea, ben complessionata, armonica, virile; simile a cosa
viva, finita leggiadramente secondo che doveva rappresentare ; non
antica né moderna , sibbene di tutti i tempi ; né di una gente più
che di altra, ma dell'intera fitimiglia umana.
Comunemente i forti non si avventurano a poggiarer altissimo se
non al punto che loro consenta il patere di cui hanno coscienza ;
ma qualora vi si abbandonino ne vengono più ghiribizzosi, e scon-
ciati e stravaganti dei minori, quantunque non senza alcuna pere-
grinità talvolta, in quanto le loro bizzarrie hanno del gigantesco e
dello straordinario ; mentre i deboli pretendendo di agguagliarli, né
potendo, e per solito ju^ovandovisi alla disperata, riescono a continui
capitomboli ed a stramberie grottesche da eccitare le risa omeriche
degli spettatori. Ed è raro che si avveggano poi del fallo, e non
vogliano mostrare in pompa le loro cadute, quasi avessero raggiunto
le più remote stelle, e si riputano riformatori ed inventori, e scam-
biano le capestrerie e i lazzi per lampi e brio d'ingegno singolaris-
simo. Le idee ed i concetti che si appellano originali, quando siano
nuovi ed ingeniti davvero, traboccano dall'intelletto gravido, a modo
de' canali e delle inondazioni dalla ricca fiumana, o le scintille dalla
fiamma che vampeggia crepitando ; e vana fatica tornerebbe quella di
cavare acque correnti da un fossatello che muoia in povertà di poz-
zanghera, 0 pretendere che la cenere caldiccia sfavillasse vivamente.
E credo che sia buona maniera per riconoscere le false fantasticag-
gini di certi scrittori , quella di saggiarli dopo assuefattisi a qual-
che canto delk Commedia ; essendo qualità dei cibi danteschi non
solo di gradire più d'ogni altro ai palati sani, e conservarli a retto
sapore , ma ragiono eziandio a ricondurre i gusti a sanità , per
inestimabile e rarissima virtù che traggono dal proprio autore.
Quello che andai ragionando poco addietro della chiara signifi-
cazione in Dante, va inteso principalmente rispetto al senso letterario,
non ignorando in qual ginepraio si vada intricando chi abbia ad
avvolgersi per messo agli altri intendimenti più occulti , i quali il
Poeta vi collocò sotto velame, a seguire l'usanza ed a conseguire uno
JiMita (7.-28
434 RIVISTA CONTBMPOBANBA
scopo SUO. In allora nascono e moltiplicano le opposizioni ed i pa-
reri circa a spiegarli nel vero, e non pare mai che si abbiano da
accordare gli opinanti, raro tornando il caso nel quale i contrarii
convengano in una sentenza, e la questione sia deliberata. Ma Far-
gemente che ora ci occupa essendo storico e di sentimento , non
importa che vi si abbia a tormentare per iscoprime il concetto ar-
cano, e può offerirci mezzo bellissimo di studiare una delle qualità
più notabili dell* Alighieri , che è quella di usare i vocaboli nella
giusta stima e secondo T indole genuina, e qualora girati a traslato,
ciò sempre con appropriazione adattatissima. E dii voglia prendersi
il diletto di conoscere da sé, come e quanto egli osservasse tal re-
gola, purché raffreni Tanima che non sia levata dalla poesia stu-
penda a contemplazione del solo pensiero, e disamini il divino poema
parola per parola, frase per frase, vedrà qual insolita maraviglia
di arte intellettuale gli si apra alla vista attonita; non una voce
la quale esca dalla sua ragione naturale ; tra le adoperate, fatta la
cerna delle più opportune; nemmanco neir usarle dimentichi tutti i
costumi, per cosi dire , e gli atteggiamenti a cui si piegano , ed i
significati parziali che possono assumere nelle varie cose cui valgono
a nominare ; onde ciascuna vi sta simile a diamante incastrato che
brilla dalle moltissime faccette secondo rinvesta la luce e si miri;
sicché la virtù del discorso non manca in lui di un minimo al debito
suo, e vi apparisce in tutta pienezza di maestria.
Imperciocché l'ingegno multiforme e comprensivo del poeta si
palesa e splende dal semplice uso dei vocaboli, dove raccoglie e ram-
memora i varii sensi, allorché gli scioglie in quel modo onde ab-
bracciò l'infinito nella Commedia; per la qual cosa se ne ingenera
un valore nuovo ai vocaboli stessi che si allargano a più vasta espres-
sione, e svegliano nella mente più idee ad un punto, le quali es-
sendo pur convenienti tra di loro, perché una sola parola può ma-
nifestarle, e nonpertanto varie, danno si curiosa e leggiadra impressione
dalle conformità e differenze commiste, da sembrare prodigiosamente
avvivate ed abbellite. Laonde considerando l'Alighieri per questo
verso, succede non diversamente da quello che avvenga al filosofo
indagatore, allorquando coU'occhio armato di lente, o speculando nel
firmamento, o scrutando negli esseri più esig^, scopre si nello spazio
infinito che nel più tenue animalcolo quanta e quale sia la divinità
della creazione ; e ne rimane stupefatto e smarrito , non sapendo
ben giudicare se più meritino la mole sterminata delle sfere e le lon-
tananze ininmiaginabili che la esilità non comprensibile dei minori
eorpiociuoli.
À chiarimento e sostegno di quello che andai affermando si vedrà
quali gagliarde prove ne risulteranno dalla breve disamina a cui
EPISODIO DELLA FBANCBSCA DA BIMINI 435
mi accinsi intorno ad alcuna parte deirepisodio immortale detto della
Francesca da Rmini.
II.
Un discorso sull*episodio della Francesca da Bimini , nel quale
se ne ragioni di qualche tratto in particolare, ed anche di tutto
rargomento , potrà sembrare mosso da presunzione soverchia delle
proprie forze ; essendo che molti attesero felicemente a spandervi so-
pra la luce necessaria di commenti e di esposizione, tra cui a causa
di preminenza è da ricordare T ingegno valoroso di Ugo Foscolo.
Il qual nome basterebbe a sgomentare i maggiori di me ; né io
certamente ne rimango tanto baldanzoso, che non senta il grave
paragone, e la mia piccolezza. Nondimeno , poiché si dà licenza al
poverello industrioso di spigolare sul campo mietuto, a raccattarvi
uno smilzo manipolo, così prego sia conceduto a nie, di andar dietro
a raccogliere qualche grano sfuggito dalla falce del ricco mietitore.
Ciò avvertito a mia scusa, fistcciamoci al quinto canto della prima
cantica della Commedia.
Il Poeta arrivò col suo Duca nel secondo cerchio dei dannati;
ivi sono i peccatori carnali ; ivi tra i diversi scorge i due che si ac-
compagnano in etemo nei tormenti, e pare li riconosca e se ne com-
muove, e li chiama, ed eglino rispondono desiosi all'amorevole grido.
Francesca ( non appena gli giungono a vicinanza di voce ) gli si
fa a parlare, e per debito di cortesia e di sentimento a significargli
la riconoscenza dell'affetto loro dimostrato, e così incomincia :
0 animai grazioso e benigno !
E siccome questo è il principio ddlo stupendo colloquio, il quale
va succedendo, così fermiamoci ad esaminarlo, per essere appunto
uno dei luoghi in cui, sembrami, occorra il bisogno di chiosa: non
avendo i commentatori, per ciò che sappia, consideratovi abbastanza
affine di ritrarne il vero intento per alcune parti.
Chiunque abbia letto il modo onde la donna sventurata s'indirizza
a Dante, non può non avere o creduto o dubitato che nel secolo xiv
si usasse animale indifferentemente in iscambio d'uomo^ tanto nel lin-
guaggio comune e cittadinesco, quanto pur anco nell'eletto e cor-
tigiano. Dico nel cortigiano, essendo colei che interloquisce , di
schiatta nobilissima, figliuola di signore regnante, e volgendosi al-
TAlighieri, pur nobile e superbo, e da non sostenere nò sostanza nò
ombra d'ingiuria. Poi è da riflettere che essa vuol rispondere gra-
tamente a gradita persona, e pagare di animo commosso la me-
moria benevola ed affettuosa dell'ospite di suo padre \ ella gentilis-
436 BIVISTÀ CONTBHPOBANBA
sima^ cui dovette infinitamente compiacere, come di mezzo alla con*
danna ed alle pene del luogo infernale, si trovasse, cosa mai sperabile,
chi non si vergognasse di ravvisarne le sembianze, e mandarle segno
palese di commiserazione, e quegli essere uomo non volgare nò di
umile ossequio , sibbene un famoso per Italia tutta , e di si altera
dimestichezza da ricevere la famigliarità dei grandi da uguale ad
uguale. Con tali e simili condizioni avrebbe potuto usare verso di
lui appellativi i quali fossero meno che di alto e tenero rispetto?
Laonde giustamente parrebbe da sospettare, che ammaU sia da collo*
carsi tra i vocaboli i quali patirono invecchiando tale contraffioione,
da mutare all'opposto; di guisa che in addietro se non valsero in
offesa né in dispregio, poscia peggiorassero, da non potersi ripe-
tere a qualcuno senza eccitare ira o risentimento. Laonde sarebbe
avvenuto di esso oome fu di triffoniey di nuunaiiiro e di molte altre
voci, buona mano delle quali si può trovare in una piacevole e dotta
operetta del Manno, da pareochi anni dirulgatissinia (1).
Per conseguenza, vuoisi a primil^ indagine fare la ricerca, se i
commentatori antichi intendessero ohe fosse usata con valore non
ispregiativo , ed in appresso qualora ciò non giovasse, investigare
se gli scrittori oontemporanei od anteriori o posteriori di poco a
Dante Tadoprassero in maniera da mostrare, che fosse vooe corrente
col significato attribuitole nel caso del quale ora si disserta.
Il Buti, al detto luogo espone come segue: e 0 animai yrwioio
« e ìmigno : parla a Dante uno di quelli due wpmià che furono cfaia-
K mati da lui , dicendo lui essere animale graziato , però (2) senza
« grazia non era che elli andasse così vedendo le pene dei dannati ;
€ e lenigno dice intanto che mostrò inverso loro benignità » (3).
Jacopo della Lana : e qui dimanda l'altore di due anime che vede.
e Per modo di risposta e' dicieno quelle anime a Dante, chiamandolo
e granoso e benigno i (4).
L'Anonimo si restringe a dichiarare cosi : animale^ intendi rezìo-
naie» mortale (5). Benvenuto da Imola, Guiniforto de' Bargigi, i Cam-
menti cogniti volgarmente coi nomi di Pietro Alighieri e di Boe*
oaodo, le Ciiòee attribuite al medesimo Boccaccio (6) non fumo palese
che la singolarità di quell'appellativo abbia attirata ratteo^ione di
coloro che scrisaero, e il somigliante poeao repUoare di attrì poatil-
lalm ed illustraiori che esaminai a tale effetto in pareodii oodioi.
(1) La Fortuna delle parole, pubblicata in più edizioni.
(2) perocohè.
(8) Buti, Commento Ma Commèéia di Dante Alighieri. Pisa, Ntalri 1858,
voi. l\ p«g, 166.
(4) Cod, Magliai), l 50.
(5) Commento, detto rottimo, voi I, pag. 75. Pisa, Nistri.
(6) Vedi qaeste diverse opere già date a stampa.
EPISODIO DELLA FBAN0B8CA DÀ RIMINI 437
Né i commentatori seguenti, dal seeolo decimosesto al presente,
credettero ohe meritasse speciale attenzione al di là della intei^re-
tasione invalsa. Il Vellutello scriTe : t Mostra il Poeta che giunte
€ queste due ombre a luì, Tuna di quelle si cominciasse a parlare
€ chiamandolo Mfimale, perchè va col corpo animato e sensitiTO , e
€ non solamente anima come erano tutte le altre di quello inferno » (1).
Bd il Landino disse : e animale , perche lo vedeva col corpo e col-
€ l'anima, perciocché animale è corpo animato » (2).
Pompeo Venturi : e afdmtJsy non anima sòia, ma corpo animato
« pieno di grasia e di benignità » (3). E il Lombardi, nella ediaione
della Minervay ripubblicata dal Passigli : e tuiimaU per uomo ; 11 gè-
€ nere per la specie; quello che diversificava Dante dalla parlante
« Francesca dell'anima spogliata » (4).
Foscolo, nel Discorso sulla Commedia di Dante (5) nel luogo dove
sMntratttene de* casi di Francesca, con arte mirabile di critica, non
tocca di quell'appellativo ; il Biagioli e Brunone Bianchi si tengono alla
solita maniera d'intenderlo (6), e Tommaseo nell'ultima edizione del
suo Commento (7) si contenta di citare quel passo del Volgare eh-
fuio : SensihiUs anima et corpus e^ animai; ed una definizione di Ari-
stotile: Vuomo è animale civile; nonché un tratto della S^mma di
S. Tommaso: e nell'uomo è la natura sensibile, dalla quale egli ò
€ detto anmaley e la ragionevole, dalla quale uomo %^
Insomma, raccogliendo le osservazioni dei più autorevoli esposi-
tori del poema, può òonchiudersi, che nessuno di loro abbia ravvi-
sato mai nitto nel detto di Francesca a Dante, tranne che l'uso
naturale di un vocabolo , il cui significato in bocca di lei avrebbe
^uivalso a quello di vivente ; nò mostrarono di temere che da tal modo
risultasse punto nò mancanza di riverenza in chi lo adoperò, nò
ragione di offesa in chi l'ebbe ricevuto.
La qual concordia di non riconoscere nel nome di animale dato
(1) Commento della Divina Commedia, Venezia 1543.
(S) Dante, con l'Jesposizione di Cristoforo Landino. Venezia, Marchiò
Sessa e Fratelli, 1564.
(3) La Commedia di Dante Alighieri, con una dichiarazione del senso
letterale. Venezia 1739, presso Giovanbattista Pasquali.
(4) Dante, La Divina Commedia, Firenze, David Passigli editore, 1838.
(5) Prose letterarie di Ugo Foscolo^ voi. 3». Firenze, Felice Le Mou-
nier, 1850.
(6) La Divina Commedia di Dante Alighieri, col Commento del Biagioli.
Milano per Giovanni Silvestri, 1820, voi. 1. — La Commedia di Dante Ali-
ghieri fiorentino, nuovamente riveduta nel testo e dichiarata da Brunone
Bianchi. Firenze, Felice Le Mounier, 1854.
(7) Commedia di Dante Alighieri, con ragionamenti e note di Niccolò
Tommaseo. Milano, per Giuseppe Rejna, 1854.
438 RITISTA CONTBMPOBÀNBA
ad un uomo, il sentimento dello spregio, se può essere scusata negli
antichi, supponendo in vero che in allora corresse abitualmente con
quel dato valore ; cosa da cercare ; non sembra abbiasi da reputare
per i due secoli più vicini a noi, de* quali sappiamo meglio le con-
suetudini, e di cui siamo prossimi continuatori. Dico solo degli ul-
timi due secoli, dacché nel cinquecento sussistettero certi sigpiificati
di vocaboli che poscia avrebbero avuto aspetto di irriverenti ed inur-
bani, tra i quali vuo' accennare l'esempio di carnale e di carnalmente
adoperati per amorevole ed amorevolmente in senso puro morale (1);
d'onde potrebbesi confortare la congettura, che eziandio animale si
fosse usato con più degno intendimento del consueto.
III.
Per tre supposti può dubitarsi che Dante abbia poeto in bocca di
Francesca l'appellativo di animale ^ rivolto a lui medesimo: o qual
parola del discorso comune, o per bisogno del verso , sforzando in
certa maniera la natura stessa del vocabolo ; ovvero per un fine suo
particolare , sottinteso , che importa indagare e scoprire acciò sia
reso manifesto all'intelligenza dei più.
Vediamo se tenga il primo supposto. Affine di certificarsi se per
avventura in (j[uel secolo fosse o no famigliare che si chiamasse ani-
male l'uomo, tanto nell'eloquio solenne quanto nel favellare dime-
stico, era da fare raccolta di passi ed esempii dagli scrittori contem-
poranei a lui, 0 di poco presso, che ne porgessero qualche autorità
ovvero lo provassero chiaro. Perciò tornava muovere dai dugen-
tisti per salire a tutto il trecento , ed anche al secolo successivo, e'
cosi tra avanti e dopo comprendere un periodo della lingua, le
cui maniere possano credersi nelle abituali al sommo poeta, in ispe-
cie esaminare le opere dettate nel volgare che in allora correva ,
poiché nel caso onde si ragiona, intercedendo il conversare tra per-
sone amiche, con aflètti di pietà e dolore, dove la semplicità e l'ab-
bandono dell'animo danno colore al colloquio, non vi si addirebbe né
la frase lambiccata né qualunque soverchia singolarità di voci e di
modi che togliesse efficacia e naturalezza. E Dante fu per genio e
per arte troppo avvisato alla convenienza delle parti da non trasgre-
dire le severe e delicate discipline del gusto ; tantoché la forma male
si accomodasse al pensiero, e il tutto prendesse qualità dal disac-
cordo. Avendo da parecchi anni fermata la mia attenzione circa al-
l'argomento di cui ora parlo , e conservatolo presente nella me-
(1) Benvenuto Cellini, Vita, ediz. Le Monnier, pag. 59, e pag. 519.
Ivi pure (pag. 17) trovasi lasciviisimo per dolcissimo j molto dilettevole , che
ora giudicherebbesi non conveniente.
EPISODIO DELLA FBANCB9CA DA BIMINI 439
moria, ebbi avvertenza nelle letture che feci dei nostri migliori
antichi, di vigilare se per avventura mi capitasse qualche tratto che
mi venisse in acconcio, e ne tenni nota diligente, non intralasciando .
neppure quei casi i quali io giudicassi giovare per indiretto.
Prevengo un contrasto, che facilmente mi si potrebbe a£facciare,
cioè che l'Alighieri avendo rifiutato il volgare suo fiorentino, e com-
postosi un eloquio proprio, misto dalle diverse parti d'Italia, si coniò
vocaboli di particolare creazione, e ne voltò de' consueti a nuovo
intendimento, si da apparire mutati e specialissimi, e perciò potergli
spettare in proprio l'uso di animale nel senso mentovato. Alla quale
obbiezione ardisco di opporre un diniego, poichò non dubito di as-
severare, che il sommo poeta scrisse in vera favella toscana le can-
tiche sue, e nella più pura, e con maniere talvolta quasi di verna-
colo; e che, fatta eccezione della potenza sua meravigliosa di pa-
droneggiare lo strumento del linguaggio, non usci tuttavolta della
cerchia di quello che era di costume, e neppure ne' suoi modi nuovi,
da ciò che n'importassero l'indole e gli atteggiamenti, e si contenne
per conseguenza entro i limiti dell'agevole da intendersi.
La quale mia affermazione se parrà grave a chi di raro si trat-
tenne sui libri del buon tempo , non sarà reputata di soverchia
loggeressa da coloro che n'hanno maggiore cognizione; anzi mi
conforto a dire, che qualora taluno si piacesse di postillare la Divina
Commedia dal lato filologico, con esempi cavati dagli autori dei tre
primi secoli, vi riuscirebbe pienamente, e dimostrerebbe come il vo-
cabolario ed il frasario dantesco, meno certi tratti, non frequenti,
peculiarissimi a lui solo, ma che non mancano nemmeno di analogie
nelle scritture de' coetanei suoi, starebbero per intero racchiusi nel
linguaggio di allora, e più spesso nel fiorentino.
Nò senza tale comunanza di voci e maniere tra Dante e la loquela
popolare sarebbe mai avvenuto che fossero passati a cognizione del
volgo certi squarci delle poesie di lui, ed egli resosi famoso tra le
moltitudini, come fu in sua vita ; nò ai raccoglitori di poesie spon-
tanee delle plebi campagnuole de' nostri di, le quali conservano di
più le antiche forme del dire, sarebbe occorso che avessero a riscon-
trarvi vocaboli e locuzioni conformi a quelle che a lui discesero dalla
penna (1).
Laonde par giusto che bene mi apponessi quando mi volsi a ras-
sicurarmi dai vecchi classici, se animale inteso per uomo, in buon
senso, abbia appartenuto all'uso ; poiché non torna probabile, qualora
ciò fosse stato, che non si avesse da incontrarsi in qualche caso di
(1) Canti Popolari Toscani , raccolti da G. Tigri. Firenze , Barbèra e
Bianchi, 1859. — Canti Popolari, raccoUi e illustrati da N. Tommaseo.
Venezia, Tasso, 1841-42.
440 BIVISTA C0NTBMP0BAJ9BA.
trovarlo cosi adoperato. Né standomi soddisfatto e tranquillo aUe
mie diligenze, a cagione di non avere potuto leggere ed esaminare
tutte le scritture degli aurei secoli, parte per le angustie di tempo
e di altri studii, parte per la mancanza di parecchie stampe rare e
costose ; nondimeno a mia quiete e contento mi spinsi ad attingere
a tale sorgente, che fosse la più ricca d'Italia per esempi di lingua
cioè ai Compilatori del nuovo Vocabolario della Crusca^ cui non fa
difetto la dovizia, possedendo amplissima raccolta degli spogli proprii
e dei loro predecessori. E furono eì cortesi, che vi cercarono dentro
per me, e me ne fecero copia generosa, e lasciarono ch'io pure,
stando in Fiorenza, v'investigassi a piacere; delle quali compiacense
imitabili, loro rendo grazie quanto so e posso.
Coi mezzi che mentovai non mi venne concesso di spigolare una
citazione sola, d'onde apparisse che tra i contemporanei di Dante si
avesse mai chiamato animale l'uomo in essere di ragionevolexaa,
saggio, temperato, cospicuo per alcuna qualità d'intelletto e di co-
stume ; arrogi, neppure il semplice di vita, l'umile di nascita» l'in-
dotto, il meschinello a cui non si avessero da opporre sconoesse di
corpo, o turpitudini dell'animo, da parere dissomigliante troppo dalla
condizione umana; e qualora se ne valsero ad appellativo fu in
ischemo, a motteggio, a determinare natura ed abito animalesco,
non diverso da quanto al presente sia in corso.
A dinotare complessione mostruosa per grandezza di corporatura,
unitamente a certa spaventevole selvatichezza di passioni , Dante
medesimo se ne giovò, nel canto XXXI verso 60 déiV Inferno^
ove designò i giganti, de' quali fece conoscere di che fattezze se li
fosse immaginati, poiché li confronta con elefanti e balene, a cui li
mette sopra, e loro attribuisce un fiero grido come di tuono, e lo-
quela confusa e barbara, ed altri particolari somiglianti. A Gerione
la sozza immagine della froda, dà titolo d'animale (1) ; ed egualmente
all'uomo nel primo della sua formazione, allorché nel seno della madre
non per anco ricevette l'inspirazione dell'angelica farfalla; ed allo
stesso quando nella sua finitezza egli terreno animale e mente grossa
vuole argomentare agli altissimi misteri divini, e giudicarne con la
veduta corta di una spanna (2).
Altri scrittori l'applicarono non diversamente a significare uomini
di forme sproporzionate, o d'istinti brutali, o di mente ottusa, o sucidi
e trascuratissimi del loro corpo e delle convenienze socievoli ; o con
portamenti più di brutalità che di creatura ragionevole ; o dediti ad
impeto d'ira, ed a vizii di gola e di lussuria. Per conseguenza il Bemi
(1) Inferno y Canto xvii, v. 80.
(2) Purgatorio t Canto xxv, v. 61 ; Paradiso ^ Canto xix, r. 85.
EPISODIO DBLLA FBANCBSCA DA BIMINI 441
nominò ammalane Grandonk) perchè di membra più smisurate che
non comporti la p.er8ona umana , e di forse corrispondenti (1) ; e
Lasca, anmak domestico, quel Falananna, il quale nulla mai potè
apprendere al di sopra dell*età infantiU (2).
Borni medesimo, volendo denotare in complesso gl'ignoranti ed i
corti d'intelletto, che nulla capiscono de' reconditi significati deposti
nei poemi d'Omero, disse : e altro intender volea, Per quel che fuor di-
€ mostra alle brigate, Alle brigate goffe, agli animali. Che con la vista
€ non passan gli occhiali (3) >. Alle quali citazioni & ottimo commento
la seguente nota al Malmantile : e dicendosi ad uu uomo : tu sei un
t animale, intendiamo: tu sei una bestia, un'irragionevole (4)».
Ed eziandio secondo quest'ordine d'idee il Cavalca paragonò il
monaco di mal animo al bene altrui e nemico di fatica, a un diavolo
anzi ad un animale volito di abito religioso (5) ; il Bartoli qualificò
di Undiiiimi ammalij i bonzi ghiottoni, so^i, mentitori, falsi ed in-
fingardi (6}; e coloro che si dilungano da Dio furono, nella VUa dei
Santi Padri, dichiarati peggiori dei bruii animali (7); mentre ivi pure,
nel caso di un monaco traviato, innamoratosi della sorella, e infocata
dell'ardore illecito e vituperevole, si venne a conchiudere di luì che
cera diventalo simile a un animale senza ragione, e in tutto di-
€ monticato di ogni divino conoscimento (8)». Ed in effetto non m^lio
potrebbesi chiamare colui che^ abbandonata la via aspra, ma diritta
e sicura mostratagli da ragione, per assecondare il lenocinio dell'i-
stinto animalesco, si rompe ad ogni sorta di turpitudini.
Troviamo non diversamente nei Frutti di lingua del Cavalca
esser sentenziato che: e l'uomo animale e brutale non comprende
le cose di Dio » (9) la qual frase uomo animale, tolta da San Paolo
ha riscontro nel Beato Giovanni dalle Celle, dove scrive : e leviamo
l'amore di questo vano mondo, alla stalla assomigliato, nella quale
stanno gli animali uomini^ i quali nascono nello sterco del peccato (10)».
(1) Gher. Suppl.- in Animalonei Berni Ori. In. 2, 54. Or queiranima-
lon che s*era mosso, Vien per lo campo ed una fana mena , Che pare
il fiume e '1 mare quand'è grosso.
(2) Le Cene, pag. 70. Firenze, Felice Monnier, ISS".
(3) Ori. In. 25, 5 (Spogli della Crusca).
(4) Spogli della Crusca.
(5) Cavale. Specch. de* Pece. 296 (Edi z. Silvestri).
(6) Spogli della Crusca (Bart. Cina. 2, 62. • Avvegnaché, come più volle
abbiamo detto, siano (i bonzi) laidissimi animali »,
(7) Vite dei SS, PP. voi. V, pag. 151.
(8) Ivi.
(9) Cav. Frult. Ling. (Ediz. Silv.) 66.
(10) Lettere, Ediz. di Roma, p. 111. — Guittone d'Arezzo nelle sue rime,
pone l'uomo sconoscente di Dio, al disotto degli animali : w Perchè non
pur tra gli animali è Tuomo Che misconosce Iddio » (I. 18 , Rime
Ciardetti. Firenze 1821).
442 BITISTA OONTBMPOEANBA
Potremmo continuare a mettere insieme altre citazioni da accu-
mulare alle precedenti, senza che però ne uscisse, una signiàcazione
diversa da quelle che si raccolsero fino ad ora ; per cui ci pare da
conchiudeme, che tal vocabolo non fosse moneta mai spesa per
quella nobil valuta onde sembra la contasse il poeta.
Forse può chiedersi se per caso non accennò ad un qualcosa
dell'uso mentovato, il modo contenuto nel passo al quale elu-
demmo di sopra (1), di chiamare animale bruto Tessere animale privo
di ragione ; essendoché l'aggiunto apposto ad animale pare fosse ivi
collocato a differenza délV animale umano , al quale sospetto darebbe
aggravio la consuetudine in cui fu Santa Caterina da Siena di
valersi della frase medesima nell'intento medesimo , e fecero so-
migliantemente altri scrittori. Ma è da considerare che in questi casi
l'aggiunto di bruto accoppiato ad animale sta piuttosto a rinforzo
che a necessità; interviene per colorire al vivo l'espressione, e sug-
gellarla più a profondo nella mente del lettore ; non diverso di fem-
mina che trovasi con superfluità, a guisa di addiettivo, accompag^to
di/aneiulla nella leggenda di S. Eufrosina (2), ma che ben conside-
rando non fii posto ad avventura, né rimansi ozioso. In effètto con-
tinuandosi la leggenda si viene a conoscere in appresso, l'autore
dovendo narrare della sua eroina, come mutasse l'abito donnesco in
tonaca di monaco, e vivesse nel monastero in sembianza di maschio,
volle fino dal principio notarne più certamente il sesso, acciò chi
leggesse, non avesselo poscia a dimenticare.
Per quanto spetta al modo , che si ha spesse volte di uomo
animale j guardandovi con attenzione, tosto apparisce che si volle
appropriare ad un caso particolare, cioè all'uomo che si abbandona
a vivere disciolto, conservando tuttavia un certo lume di conosci-
mento e di osservanza secondo ragione : onde gli ascetici se ne valsero
comunemente a designare il poco curante delle cose di spirito, e che
non levandosi a sublimità di amore, procede nelle opere sue non
ferventemente. < Carnale è l'uomo freddo senza calore di carità ; ani-
male è l'uomo tiepido, perciocché parendogli aver lasciato il mondo
e la frigidità del peccato, e facendosi a credere che questo a lui basti,
non si sollecita di migliorare^ né di diventare ben fervente (3) ».
(1) Vite dei SS, PP. voi. V, p. 151. Ecco il passo cui si allude: t Oh
come sono poveri, e miseri, e sbanditi, e bisognosi di ogni bene coloro
che si dipartono da DioI Molto sono peggiori che bruti animali coloro da'
quali Iddio s'è partito.... »
{2) Vite de' SS. PP,, voi. VI. Vita di S. Eufrosina, pag. 231 (Milano. Sil-
vestri, ìBQOj. f Ed appresso a certo tempo la donna ebbe partorito e fatto
una fanciulla femmina i .
(3) Qay. Dis. Spir. (Ediz. Silvestri), pag. 7.
EPISODIO DBLLA PBÀNCBSGA DA BIKINI 443
A contrapposto dell'uomo animaUj e dell'uomo animale bruto^ gli
antichi usarono la frase di uomo rarionale^ ed anche secondo l'asce-
tica quella àì^uomo spirituale; cosi Ouittone di Arezzo: e E voi,
mercè, gioioso Siate di voi com' l'uomo razionale (1)>; Cavalca nei
Frutti della lingua : e l'uomo animale non pensa le cose di Dio, ma
gli paiono stoltizia ; ma lo spirituale giudica e discerne ogni cosa (2)».
Nello stesso concetto, si ha cuore razionale e virtù razionaUy come in
Guittone : e Razionai core. Amar non dea più né men cosa alcuna,
Che di quant'ella ò buona (3)>. e Ed a regno eternale hanno ordi-
nati, Solo per odiar peccati, E per virtudi amar razionali t (4).
Che l'uomo, nella contemplazione di so, e nella considerazione degli
oggetti esterni, non si avesse a reputare al di sopra di tutti, compreso
quelli a lui meno difformi, è cosa che repugnerebbe alla coscienza
del suo valore, infinitamente più grande, ed alla superbia ingenita
onde trascese perfino a deificarsi; nelle tradizioni più antiche, e che
meno patirono di alterazioni, tra cui prima la mosaica, egli s'intitola
re del creato, e pretende che il suo piccolo pianeta, perchè vi abita
sia centro deiruniverso. Di conseguente sdegnò sempre di uguagliarsi
ai bruti, e vi discese soltanto o condottovi da metafisiche erronee e
trascendenti troppo al sottile, o per amore disordinato di sensualità
0 timore di giustizie future contro le colpe sue : e fermo in quello
sdegno santissimo, non accondiscese mai, in tesi generale, di acco*
munarsi per via di nome con quei viventi, insieme ai quali condi-
vide la sola sensività.
È vero che si chiamò : < animale civile, animale provvido, man-
sueto, ingegnoso, sagace, dotato di ragione e di consiglio >, ma con-
cluse di essere « nobilissimo sopra tutti gli altri animali, e nei confin
posto tra le cose ftvine e le terrene (5) >.
Per ciò sollevatosi ad altezza mirabile al dissopra dei bruti, diede
a conoscere come non concedesse altra partecipazione di sé coi me-
desimi, se non per avere in somigliante la scorza estema ossia la
corporalità organica. Conseguentemente tutti gli scrittori, i quali
citammo, allorquando diedero nome di animale ad alcun uomo, lo
fecero a manifestare di averne giudicato in oltraggio della condizione
sua naturale di ragionevole, se non fu a motteggio e sollazzo, op-
pure se non avvenne che glielo attribuissero per singolare acconsen-
timento ad un'immagine o concetto del discorso, quale sull'esempio
che segue della Vita di e. Girolamo, dove si narra che il Santo, com-
(1) Ediz. Silv., pag. 90.
(2) Pag. 90.
(3) Rime 1, p. 24.
(4) Rime 11, p. 5.
(5) Alessandro Piccolomini, Della Istituzione morale^ libri xii, L. l,c. 1.
444 BIVISTA OOMTSMPOBAKBÀ
piuta che ebbe... <la penitenza per tempo dì quattro anni, andosaeno
alla città di Betlem, nel quale luogo, siccome sévio mimmìe offerse
sé a dimorare alla mangiatoia del Signore (1) ».
Evidentemente animale ivi è vocabolo posto in memoria e simili-
tudine degli animali ohe scaldavano col fiato il Salvatore bambino,
e per accomodar una delle parti alla condizione del tutto, trattandosi
di stalla e di mangiatoia, luogo ed arnese ad uso proprio degli ani-
mali domestici.
Quando poi accadde di parlare di animali con atti e portamenti
superiori alla qualità di loro, e da sembrare guidati da lume d'intel^
letto, in allora piacque di mostrarli quasi dotati di ragione. Nella
leggenda di S. Francesco raccontandosi di un agnello, che quel
Santo amorosissimo si aveva allevato e nutricato in Boma, e nel
partire lasciatolo in guardia ad una buona femmina di colà, aggiun-
gesi che : « quando ella andava alla chiesa, e Tagnello andava con
lei come fosse animale ragionevole e ammaestrato nelle cose spiri*
tuali (2) ».
Similmente, narrandosi di uccelli, che il Santo salutò siccome
fossero state persone: « e gli uccelli stettono fermi, e comtnciaro ad
e ascoltare, e volgersi verso lui, e quelli che erano in su gli arbo-
e scelli si inchinavano lo capo, e tutti stavano ad ascoltare come
« se avessono a9W0 intendimento di ragione. E *1 beato Francesco disse
« loro : Fratelli miei, lodate Iddio che vi creò e dicendo lui queste
e parole, gli uccelli vi stavano attesi mirabilmente, e stendevano i
€ colli, e aprivano le |die, e* becchi verso di lui, eiecome aveaero in-
« tendmento di quello ch'ei dieta (3) ».
Dunque il vocabolo animale^ per quanto s'investigasse e si rmei-
molasse di esempii, non risulta avere significato %ella consuetudine
comune, che la creatura animata ed irrazionale ; e quando fu appli-
cato all'uomo, gli si accostò un aggiunto, che determinasse trattarsi
in allora dell* essere dotato di ragione ; e le bestie stesse dimostranti
segni d'intelletto quasi umano, furono assomigliate con figura di
"esaltamento fino all'uomo. E ciò doveva succedere, posto che si
movesse dal principio, essere da chiamarsi animalità l'animajEtone
semplice, non illustrata da una luce più splendida ; e l'uomo fosse
da considerare più che fornito della vita sensitiva. Conformemeflite
a ciò veggiamo le voci che derivano da wmo , quando si volsero
a modo di traslato dal senso primitivo, furono portate a signi-
ficati propri! della condizione migliore dell'essere ragionevole; per-
ciò umano pigliarsi in valore di benevolo, cortese, nf abile, man-
(1) Vita di S. Girolamo, nel voi. v delle Vite dei SS. PP. p. 3. ediz. cit.
(2) Vita dis, Francesco nelle Vite ss. PP., voi. VI, pag. 66.
(3) Ivi, pag, 93.
EPISODIO DBIXA FBANOBdCA DA RIMINI 445
iUiU, empéU$wmvole (1); i^Uoy Uggiairo (2); umanità usata per
h9fidày H0n tmore, mitizza y eomnUsercmoHe , ed anche potenzialità
d'uomo (3); umaHament& tener luogo dì gentilwmtey ragionevolmente ,
com pietà, con afe4i0, ecc. (4). Dante nella Commedia estese anche di
più il significato di umano, tanto ad innalzarlo a maggiore dignità,
quanto a più scemargliela di quello che altri facessero ; traducendo
il Tidit ei virgo et saturnia regna di Virgilio, con dire : e torna giu<
stilla e primo tempo umano » volle intendere tempo heato di pace,
di puri costumi e di retta ragione ; e altrove pregando alla Vergine
nel Paradiso che vincesse con sua guardia i mavimenii umani, riferisce
ad umano piuttosto le passioni che le virtù, a similitudine degli asce-
tieiy i quali presero di frequente umano e mondano per contrapposto
di spirituale e sinonimo di vizioso secondo la sensualità di natura.
Da ciò sembrami, rimanere oramai ridotto a forma di buon argo-
mento, non essere corso in lingua l'uso del vocabolo animale a chia*
mare un uomo, tranne dei casi particolari in cui s'intese di alluderne
a qualche difetto, o menomargli pregio, inchinandolo cioè verso il
bruto, dalla supremazia sua di ragionevole ; per cui se Dante fece
contro la maniera generale, indueendo Francesca ad indirizzargli il
discorso, cominciando da queir appellativo, non potè ìndurvisi (non
trovandosi altra cagione) che da un suo specialissimo sentimento.
Che fosaevi cospetto da necessità di metro, non è a pensare;
nepfmre stimolatovi da huxo/te di singolarità, o da una tal quale biz-
zarria; ccmciossiachò sia palese a chiunque l'abbia in qualche pratica
non avere ghiribisaatO) e quando vi ha l'apparenza, ciò avvenire da
un motivo suo nascosto, il quale si svela se vi si cerchi per entro
colla diligenza voluta, e con perspicacia sufficiente. Dante adunque
non potè collocare 8o&ì stranamente quel vocabolo nel luogo in cui
lo pose^ fuori di ogni consuetudine, senza uno scopo da conseguire:
che forse a lui era chiaro abbastanza acciò lo reputasse indovinato
dai lettori, e che nondimeno restò sconosciuto ai più, o per avere av-
vertitovi alla leggiera, o per non avere seguito acutamente il poeta
(1) DizioDario del Tramater alla voce Umano,
(^ « Così fu preso (da amore) quell'Achille forte, Lanciloiio Tristano,
Isotta umana». • Aveva già, secondo 'i ver saputo, Della gran rotta, e di
sua figlia umana » (Novella del Gerbino in ottava rima, pag. 16 e 33. Bologna
presso Gaetano Romagnoli 1862). — a Ov'è Tombra gentil del viso umano »
(Petrarca nel sonetto • Ov*è la fronte che un picciol cenno) ».
(3) Vocabolario del Tramater.
(4) Vocaholarii del Tramater, del Manuzzi, ecc. Il Gellini usa umana-
mente in una supplica, in significato di calorosamente, con umili e vive
istanze: «Imperò io lo pregai (il re Francesco di Francia) tanto umana-
mente, che con sua buona grazia venni in Italia t. Vita^ ediz. Le Mou-
nier» pag. 553.
446 RIVISTA CONTBHPOBAKBA
nel cammino delle idee in cui egli si prefisse d'introdorli. Né deve
arrecare meraviglia che possa ciò essere accaduto, intercedendo tra
gU altissimi intelletti ed i mezzani tale e tanta differenza, da proce-
dere gli uni troppo rapidi e sicuri nelle vie asjNre e difficili, sic-
ché gli altri per ricalcarne i vestigii abbiano uopo di faticare alla
lunga, e valersi di tutto lo sforzo della loro virtù affine di sa-
lire alcuna volta alla vista dell'ampio orizzonte d'onde quelli spa-
ziarono, né possano di leggieri coglierli nei finissimi particolari delle
opere loro, con un atto solo di comprensione, ma siano costretti di
considerarli a tratto a tratto ; e in tal fatica avvenga che più cose
passino inavvisate. Laonde non faccia maraviglia se eziandio nel caso
presente sia corso inavvertito il reale e profondo signiUcato del con-
cetto dantesco , il quale io m'ingegnerò di mettere in chiaro, per
quanto mi valga l'amore al più grande degl'Italiani.
IV.
Non avendosi raggranellato testimonianza veruna, dalla quale deb-
basi arguire che l'appellativo di anin^ale fosse mai usato dimestica-
mente in iscambio d'uomo, e venendosi a conchiudere che Dante se
ne abbia giovato ad un intendimento suo peculiare, è pregio del-
l'opera indagare la ragione latente d'onde fu condotto a valersene,
tentando di svelarla e dedurla dal pensiero generale che in lui ebbe
a predominare quando concepì e dettò l'intero canto, e dai 8^;ni e
dimostrazioni di esso pensiero, qua e là apparenti. Per conseguenza
ci conviene ricondurci al luogo in cui avvenne l'incontro, e consi-
derarvi tutto attorno per minuto.
Dante col suo duca esce dal limbo, lasciando le ombre dei
grandi personaggi ai quali il cielo restò chiuso per difetto della
vera credenza, e viene nel cerchio secondo dell'infèrno, dove i lussu-
riosi ricevono pena del loro peccato. Ode molto piuito, ^itra in loco
muto di ogni luce ; ivi è mugghio simile a mare in fierissima tem-
pesta, e il mugghio è della bufera che seco rapina interminabilmente
ed assiduamente i dannati, e molesta, e percuote, e traggeli sino
alla ruina, giunti alla quale prorompono in istrida, in lamenti, in
piagnere, in bestemmie. Sono in larga schiera e piena, come gli
stornelli nel tempo freddo, e di mezzo a quel turbinare e ravvolgersi
per ogni lato, parte ne vede muovere verso di lui in lunga riga,
e guaiendo, alla maniera che fanno le gru, le quali sì distendono
per l'aere e cantano i proprii lai. Dal maestro ha notizie di più ombre
che gli passano dinnanzi alla vista; tutte di peccatori carnali, de'più
famosi per gloria e de' più stemperati per vizio, non perdonandosi né
EPISODIO DBLIA 1F1UKCB!ICA DA RIKINI 447
a grandezza dell'imperio tenuto, né a prodezza, né a beltà celebra-
ti88ima di persona.
Dai commentatori antichi si ritrae come egli non abbia collocato
una sola immagine nel quadro lugubre e miserando, la quale non
soddisfacesse ad uno scopo particolare della mente sua, e non con-
suoni coll*intendimento più capitale, che è di dipingere a colori e di-
segno perfettamente appropriati al soggetto, la prigione etema, in
cui si punisce chi durante la vita terrena si disfrenò con le libidini,
e Ed è da notare, scrive il Buti, che le pene che Tautore adatta a
€ quelli deir inferno, sono litteralmente secondo convenienza del pec<
€ cato, allegoricamente si devono intendere di quelli del mondo > (1).
Ivi sono le tenebre a significare, siccome commenta il suddetto, che
i lussuriosi sono nel mondo come in luogo senza luce e perchè hanno
€ cecità di mente ; e questa è la pena che [finge essere a loro per
e convenienza ; chi è stato cieco nel mondo, degna cosa è che sia in
€ cecità nell'inferno » (2).
Il mare in tempesta e la bufera che li travolge ed arrota insieme,
furono finti e a noi dare ad intendere che l'animo dell'uomo lussu-
< rioso nella presente vita sempre è agitato e combattuto da diversi
€ affetti, li quali non lo lasciano mai riposare » (3).
Vi si ricorda il mare, dacché come in esso < s'incontrano pericoli,
€ naufragi], danni, disastri... così nel lussurioso s'incontrano spendii,
< scandali, risse, strazii, incendii > (4) ; il mare cioè in tempesta, com-
battuto da venti contrari! : e imperocché ivi son venti contrarìi che
€ cagionano l'infortunio, e del pari nel lussurioso le contrwe passioni,
€ speranza, timore, allegrezza, mestizia, fan guerra tra loro e gli
«straziano Tanimo» (5).
Nella mina, a cui quei dannati giungendo danno in istrìda, com-
pianto e lamento, « é inteso il precipitare nei vizii e nei perìcoli che
Il fanno i lussuriosi per cagione del loro peccato : e nel suono doloroso
« in cui prorompono, vuoisi alludere ai lagni e al gridare per le cru-
€ deità e i tradimenti dell'amata (6) ; ed ancora é un contrapposto
€ del chiasso sollazzevole che fecero quando hanno cantato e composto
« sonetti e canzoni d'amore > (7).
Furono immaginati nel vento dell'aere che li trasportasse a rapina,
(1) Buti, Commento, voi. 1, p. 157. Pisa, Nistri 1858.
(2) Buti, ih.y pag. 157.
(3) Commento di Guinifredo de'Bargigi. p. 113.
(4) Benvenuto da Imola, Commento tradotto dall'avv. Giovanni Tambu-
rini. Tom. I, p. 148. Imola, Galanti 1855.
(5) Ih. .
(6) Benvenuto da Imola.
(7) Buti.
448 RIVISTA OONTBMPORANEA
allo scopo di dimostrare «la loro incostanza e volubilità... la debo-
lezza e fragilezza » (1) ; e si paragonò il modo in cui stenderasi la
loro turba aDa piena e larga schiera onde stanno gli stornelli, non
solo per dare somiglianza di quella singolare disposizione, la quale
pigliano i detti uccelli in via di peregrinare a paese più caldo, quanto
eziandio perchè essendo «lussuriosissimi e lievi, simili agli
amanti» (2), meglio si confacevano alla similitudine.
Susseguentemente trovi nominati i gru imperciocché siano ugual-
mente «molto lussuriosi » (3); onde più innanzi il poeta li trae di
nuovo a comparazione nel canto xxvi del Pbrgtttorio, in cui si parla
eziandio di peccatori carnali. E accennò che facevano i loro M, si
lamentavano cioè in suono non diverso da quel cantare dolente e
malinconico che è de' canti per grande sventura di amore, o perla
morte di persona diletta (4).
Vengono poi le colombe, animali di Venere, miti, teneri, simbolo
deirìnnocenza se vogliasi, ma nondimeno consacrati alla Dea degli
amorì e tenuti inchinevoli a lascivia perchè spesseggiano tra di loro
i baci e Tolentieri si congiungono (6).
In appresso quando si passa ai personaggi i quali sfilano dinnanzi
al poeta, e sono riconosciuti e rammemorati, vi si annoverano bensì
uomini e donne, ma prima è nominata una donna, e come impera-
drice ò posta a capo della c<»npagia, poscia di altre due si occupa
il discorso, con qualche particolare ; mentre degli uomini ^[»pena si
tocca, 0 si fiEi citazione dei semplici nómi ; finalmente la quarta che
si presenta, Francesca, sola interloquisce con Dante, e nurragli f
casi che le occorsero, e il termine crudele ; ma il compagno di lei si
tace sempre, non altro mostrandosi che per seguitarkt coi BtmfAwì e
col pianto; La quale prevalenza delle donne nella distribusione della
scena, chiamate ad attrici, coneedendoii ai masdii non altro che una
parte poco ragguardevole, quasi direi di comparsa, evidentemente è
in risguardo alla debolesza maggiore del sesso gentile, ed a quel
trasporto più impetuoso (mie la femmina si abbandona, sprezaumdo
peincoli ed abbattendo ostacoli, (^iqualvolta Famore abbiala in sua
padronanza e le arda nel sangue e le innebrii il cervello.
(1) Buti.
iì) Benvenuto. Commento^ voi. I» p. 150. Ottimo commento, voi. I, p.75.
(3) OUimo Commento, voi I, pag. 75.
(4) « £ a quel punto lo re Artus (quando seppe la morte di Tristano)
fece uno lai cordoglioso, il quale fu appellato pianto reale. E quello la-
mento fu a modo di sermone ; e facealo cantare ogni buon mattino... •
Morte di Tristano e della reina Isotta, Parigi, La Combe, 1854.
(5) Benvenuto, Commento y voi I» p. 158. — Ottimo Commentò, voi, 1,
pag. 75.
BPISOCIO PBLLA FBANCBSOà DA BIKINI 449
CiasouQA oo9a nel Hmta meutoyato trovasi, se non erro, ordinata
a ooDsuonare in vero e continuo accordo, da rispondere costante-
mente secondo Tintento che predomina e le raccoglie ed accomuna
insieme ; si direbbero orientate tutte e diriszate ad un punto, sioeome
par siano le particole de* corpi quando una qualche virtù potente a
sé le attiri e faocia volgere; uè ciò parrà immaginato e supposto da
mia propria fantasia, diK^^hè mi andai giovando di continuo dei com-
mentatori più vicini all'età del Poeta, e più istrutti delle dottrine e
maniere in allora prevalenti a comporre le opere dell'ingegno.
Posto che Dante si fosse prefisso od abbia osservato un dato modo
di condurre per continua forma di allegorie e di allusioni il suo
racconto , sino all'ingresso nel cerchio , non sarebbe da dubitare
che tosto piuti allorchò giunge a Francesca; per conseguente ciò
che ^pravviene deve procedere in concordia col premesso, laonde
da (xmsideraisi non diversamente. La infelice rimitìese, ueoisa per
a4^1terio, caduta peveiò nel baratro dove si puniscono i simiglianti a
lei, indivisa dal suo innamorato, peccatore con essa, circondata da
anime macchiate di sensualità , non può non avere attintovi del lin-
guaggio il quale più sembfa coniarsi alle persone colà e^idannate e
allo stato loro ; in ispecie in sul principio deve cadere a farne uso,
allorquando non riprese per memoria rinfrescata i consueti modi che
tenne nella vita serena. Cosi appunto suole accadere di chiunque fre-
quenti ima data qualità di gente, che ne piglia senz'avvedersene le
foggio di portamento e del discorso, da cui si ravvede e recede
quando accadagli di ritrovarsi tra coloro io mesvo a cui fu allevato e
durò molti aoni- E che Dante la fiieesse scivolare per un tratto nelle
s4n|coÌQlo, torna flaoile da supporre, avendo più volte proceduto poi
v(^89P di mattare in bocca di parecchi de' suoi personaggi frasi e voci
acconcie alla natura o stato loro, come fece parlare Pluto e Bifeo ar-
zigogoli inintelhgibili, diede bestemmie a Vanni Pucci, lombardismi
a Virgilio mantovano, atti di furore a Filippo Argenti. In conformità
di (questa regola intesa ad accrescere più evid^nia ed efficacia alla
lUM^rasione, Francesca al primo avvicinarsi al Poeta e nelle primissiiM
parole dovette cominciare con vocabdo adatto alla condizione sua
presente, e perciò incespicare a salutarlo col nome di animale in cam-
bio d'uema ; essendoché paia naturale che tra i dannati di quel oerehio
fosse sbandito o disavvezzo il nobile vocabolo che significa difforeaza
e maggiorità della creatura ragionevole sulla brutale, né degno che
ivi si pronunciasse dalle labbra di chi aveva in vita propria me^
nato i giorni piuttosto col contegno animalesco che umano. Ma non
appena desse uscì nello sconcio appellativo, subito dovette accorgersi
di avere errato, perché meno colpevole de' compagni e perciò, rimasta
meno smemorata della sua alta condizione precedente, ebbe subito a
jUpUta (7. - i29
450 RIVISTA CONTEMPORANEA
ricordarsi degli antichi modi cortesi e provvedere con rapidità a rac-
comodare il fallo commesso, soccorrendosi femminilmente di epiteti
laudativi, i quali succedessero a raddolcire, scusare, interpretare il
brutto appellativo : sicché se ben vi ponderi sopra, tra il motto primo e
i due aggiunti passa tale differenza, come da un atto villano seguito
immediatamente da alcune cortesie squisitissime: nel primo è la
donna disonesta, abituata tra disonestissimi ; negli altri è la gentil
sig^nora, nata ed allevata signorilmente che ripiglia l'antico favellare.
Adunque stando a queste induzioni , animale ivi non sosterrebbe
senso corrente e semplice di uomo ; bensì assumerebbe quello di «omo
dèdito e immerso in lussurie ^ e si atterrebbe ad uno dei significati mo«
rali che notammo essergli stati attribuiti.
Facilmente Dante deve eziandio avere jnteso di racchiudere in
quell'ingiuria un segreto rimprovero rivolto a se medesimo come ri-
cordo di essere egli stato invescato nelle panie amorose, né conservata
tale fede alla pudica memoria della sua Beatrice , tanto che dessa
ne ebbe poi a rimproverarlo incontrandolo in altro luogo e si me-
ritò una cocente fiammata in quel grado del purgatorio in cui i
dediti a lussuria riceveano castigo del loro peccato (1).
V.
La diceria protratta sino a questo punto a dichiarare il vero signi-
ficato di un vocabolo solo, potrà parere ^verchia e poco utile, qualora
non si consideri come vi fossero contenuti due fini ; quello che é più
palese e diretto, e formò argomento del discorso, ed un altro meno
apparente, ma di non lieve importanza, vogUo dire lo scopo di cogliere
occasione a iiuovamente eccitare gli Italiani che osservino con quali
mirabili diligenze di arte abbia proceduto il nostro maggiore poeta
ne* particolari della grand-opera sua, e ne ricevano esempio da imi-
tare, lasciando di seguire l'andazzo, che é di trascurare la maestria
della forma col pretesto di meglio attendere alla sostanza. Dico pre-
testo, dacché guardandovi addentro é mala scusa di non affitticarsi
allo studio paziente della lingua, affine d'impadronirsene e giovarsene
destramente all'uopo. Il quale funesto errore, oh di quanto strazio
toma ad una primavera novella delle nostre lettere assiderate ! Impe-
rocché se mai popolo al mondo abbia uopo di curare la espressione
del concetto, questo é il nostro, che fantastico, amoroso, impetuoso
e con certa maturità di giudizio associatavi, varia per mille modi i
(1] VOttimo ComnientOf esponendo il verso « Pietà mi vinse, ecc.» scrive:
«Nota qui, lettore, che il detto autore (Dante) fu molto in questo amore
invescato %.
EPISODIO DBLLA FRANCBSCA DA BIKINI 451
pensieri e le immagini, le vede e combina in atteggiamenti svariatisi
simi, gode di veleggiare per ampio, e folleggia e punge quando gli
aggnrada, e spesso sbozza a tratti, e sfuma più che designare e co-
lorire; laonde, in tale moltiplicità e diversità d'oggetti guai se la
parola non gli succeda rapida ed appropriata, e sia costretto a strop-
piare il pensiero, od a significarlo a mezzo. In allora nascono le scrit-
ture mal fatte e di gusto alterato, nella guisa che il mostro dall'em-
brione in difetto; e il lettore quand'anche fosse di senso guasto,
in breve se ne accorge, non potendosi tanto occultare la discordia
tra l'idea intema ed il raffiguramento esteriore che non ne nasca
impressione molesta, acerba, e però assai poco accettevole.
La consuetudine di allegorizzare e dei significati molteplici, re-
putata nei secoli di Dante sottilità e forza di mente, soccorse senza
fallo a rendere attentissima e delicatissima la cura delle parti, sicché
si lavorasse con amore geloso alle minutezze, dovendo ciascuna ren-
dere una e talvolta più impressioni in un tempo. Ma non è a du-
bitarsi che dato un altro secolo ed altre inclinazioni, quell'intelletto
perspicacissimo e severissimo non vi avrebbe attenuto di meno, vo-
lendo così le qualità dell'alto ingegno.
Non amerei, qui si avesse a sospettare essere io dell'avviso che
Dante fosse proceduto colla minuziosaggine di un'rettorico pedante,
accomodando e lisciando ogni peluzzo pel suo verso, quasi lento mi-
niaturista 0 ricamatore ; che anzi fu in parecchi incontri sprezzante
ed arru&to, sempre poi gigantesco. A togliere gli equivoci aggiungo,
che se stette sollecito a provvedere all'assetto preciso ed armonico
delle cose, lo fece secondo gli convenne a bene, quando uno squisi-
tissimo sapore del bello glielo suggerì, guardando alhi perfezione dei
particolari ; non unicamente acciò si conferisse alle bellezze di mera
vistosità, quanto più alFoggetto che rispondendosi con giusta e sin-
gdare concordia l'apparenza colla sostanza, accrescesse nel lavoro
virtù di commuovere maravigliosamente gli animi, ed efficacia di
vita reale nel giro delle idealità.
Notai in addietro che il componimento del canto quinto dell*In.
femo è come un quadro dentro al quale compaiono i diversi perso-
naggi, e ciascheduno in situazione adatta ; e che ivi le donne cam-
peggiano, conforme all'opinione essere la natura di loro più debole
di tempera, e rendersi più dissolute dal punto in cui svestirono il
paludamento della pudicizia. Delle quattro che vi si nominano, Semi-
ramide precede, perchè la più antica e la più eccellente che dire si
possa (1), e prima di dignità, essendo stata imperatrice (2) ; prima
(1) Guiniforto de'Bargigi, p. 114.
(3) Benvenuto da Imola , tom. I, pag. 152.
4fi3 RIVISTA C0I«ITPMP09A^EA
in ly99uria, di^Qob^ fi^mo^i^simft in tale peqi^atp, e di spiriti virili
oltre ogni altra fammixia, avepdo r^gn^to poas^ntemepte, e combat*
tuto , e soggiogato re e popoli , e sostenuto <K»9tuini di uomo oltre
la forza del proprio sesso.
Dopo colei si appresenta bidone di mioor grado in ma^ti^ ed in
iscQstumateva , non essendo stata che regina e lornicato col solo
Enea, ma pure di animo maschio, come fondatrice di cittl^, e gover*
natrice, e forte al proprio eecidio quando si conobbe abbwd(mata.
Elena si oflfre tersa, femmisf^ più che donna, qu^le ^menp ce la
delinea Omero, moglie di regolo non di grande re, ^edevol^ airi^Uetti^-
mento di un bel giovane avventuriero, ed «^miQi^ di i»oUe voluttà
senz'altro segno di eosoienaa propria, obe vane quevel^ mvUobri*
Poscia succede Francesca, oh quanto meno CQlp«v(d« e piìì degM
di commiaeriizione delle precedenti! Deae» twto ftltent di inìmo
quanto leggiadriasima di corpo, data per ingmno e viotoo^a a
Lanciotto (1), o innamorata già di Paolo o poacU divenutala) dp^
vette sostenere di fiere battaglie a oonaervare fedeltà alio sowcio
marito ed a non dilettarsi del gentile e prode cognato I B ee poscia
cedette alle dolcezze inefifabili di quella seduiirae, chi oserebbe dath
condanna di morte?
Povera 4onna! Iddio sa quali tturribili angoocie del cuora, quali
soavità di allettamento ebbe centro alla sua coetAUia » rcttitin*e; la
qual fiofltansa probabilmente male ricevuta daH'educasione, eaaendo
in allora ooioltissimi i costumi nelle corti, poco potè aiutarla; di fiitto
si ppoJessavano a vanto di cavalleria gli amori non legittimi, ed i
remarsi più diffusi ne traevano come di argomento abituale (8).
Talune afiermò che Daata introducesse Tepisodio di Franetioa
per ragione di animo grato verso dell'amico ed ospite suo, quasi a
cancellare colla pietà del racconto rin&mia dell'aocaduto. Se queato
fu Tintendimento del poeta, di mostrare più la aventura che il pae^
cato, a gratificarsi il suo Ouido, eerto toccò alla mira; ma io ne
dubito, stante che, qualora ciò gli fosse piaciuto avrebbeb potuto
assai meglio, tenendo per Francesca modo simigliante a quello che
feét per Picearda e Cunina, in ispecie per costèi, la quale, sebbene
fosse detta di gentilissimi ed umanissimi costumi, nondimeno nel
lascive amore fu quasi senza frena (3). For«e la figliuola del polon-
tano non meritava assai più di essere perdonata ed assunta al cielo
di Venere, che non la sorella deirefferato Eazelino?
(lì Balbq, Vita di Dante, lib. I, cap. 6.
(2) 8oQO Botissimi ì romanzi che in allora correvano letti nelle oorti,
venutici dalla Francia e dalla Provenza. I più famosi di LanciloUo de Lago,
di Tristano ed Isotta, della Tavola Rotonda, erano dettati in inodo da parere
Tanto e gentilezza far mancamento dalle nobili dame alla fedeltà coniugale.
(3) Velutello. Commento a Dante,
EPISODIO DBLLA FftANCBSCA DA BIGINI 453
Potìrebbesi dppòtre ch« k morte repetitiiia, non aocompagrnata
dai Bégùi di péntitùetìtO) Btottò a i-eputaria tra i dannati, e perciò,
sedotàdo le cfedènEe ricevute comunetndtìte, noti era da incontrare in
altro luogo ohe in quello dove fu descritta. A queéta òousiderafcione
si può ritipondere che Dante usò procedere a suo talento, superahdo
le opinioni rolgari, siccome operò in efltetto verso 1o svevo Manfredi
impenitente e scomunicato, che fecelo libero dalla g'iustiìia eterna,
e iiilvo lo collocò nel purgatorio. *
A mio avvilo Dante non ebbe propositi determinati e studiati, al-
lorquando uscì coir immortale episodio, ma vi fu tratto insuperabil-
mente da uno di quei moti spontanei e vigorosi dell'animo, quand'è
della tempera divina che fu il suo. Ed egli assecondò a quel moto,
non guardando se conveniente od a persone od a aito, e ben féoe :
Imperocché gli spiriti magni abbiano leggi proprie, da non dovere
ubbidire alla regola comune, né tonerai vincolati da strettoie di oerte
ostervtneO) avendo uopo di esplicarsi e spasiare a diletto loro, quando
ciò poesa giovare a nuova manifestasione del vero e del bello.
Dante posto nel cerchio in cui si puniscono i carnali, fuggevole
che rioordaeee Francesca) conosciutala per fama prossima e dolorosa,
e dovette ocdorrergli in memoria il malaugurato matrimonio, l'astu-
zia e l'inganno onde fu condotto, il dispetto od il tormento di cuore
della fanciulla : fbrs'anco seppe a minuto altri particolari, tanto da
sentirsi tocco di maggior ccmipasBione verso la sagrificata, e di più
sdegno contro la tirannia d'imporre marito alle fanciulle secondo il
beneplacito paterno, e non di lasciarlo alla scelta delle loro proprie
inelinazioni, restringendosi alla tutela necessaria d'illuminarle e bene
addrinarle. Beatrice sua era pure stata congiunta a Simone de' Bardi
dal padre di lei, il quale non sembra si curasse mai che il giovane
Aligìiieri avessela in amore. Arguirebbesi nondimeno che Dante, in
suo pensiero, per quanto spettava al caso di Francesca, se pure s'im^
pietosi} non volesse tuttavolta perdonarla compiutamente al cospetto
del mondo per cagione dell'adulterio e deirinoesto, acciò i nemici
maligni non gì' imputassero di soverchia condiseefidenaa verso la
colpa, l'indulgere compiutamente alld misera, come poco rispettoso
verso Iti santità del coniugio, proflinata tra parenti strétti. Comunque
sia, egli fece opera maravigliosa di compatimento e di eseusasione,
allorché prese a ricreare colla sua ft^ntasìa l'avvenimento tristo, ed a
raflSlgurarlo nel poema, dove campeggia con tale meitiittfl) che il let-
tore In rimirarlo ne trae affetto da perdonare ai delinquenti e di ri-
voltarsi in biasimo della sentenza che li punì incomparabilmente sopra
il Mìo, La quale sproporzione tra la colpa e il oadtigo inflitto della
porditione perpetua, si rende più grave e contro l'equità nella tra*-
gédià. Che Silvio bellico cavò dalla narratione dantesca. I^oiché Tatto
454 BinSTA CONTBMPORAKBA
di mutare la forma del racconto a rappresentazione drammatica im-
porta, che si chiamino a parlare i principali personaggi dell'accaduto,
il quale si dee riprodurre per mezzo del dialogo e non altrimenti;
e con ciò toma necessario di specificarne le circostanze varie e le
fortune diverse, come se in allora andasse sviluppandosi ; non trala-
sciare grimprevisti che agiscono a tardarne il processo o cambiarne
l'avviamento; svegliare ed avvivare il cozzo degli affetti, e condurvi
dentro quella maniera di fato implacabile ed invincibile, che si mesce
pur sempre ai casi umani e fa precipitare alla catastrofe ; laonde cia-
scuna parte n'acquista di rilievo e di evidenza , e così risaltano più
appariscenti le discordanze e più chiari i difetti. Il tragedo moderno,
seguitando con fedeltà nel fondamentale l'epico antico, non potè che
mostrare Francesca e Paolo presi ambedue di amore non lecito, ma
non caduti ancora, in lotta pur sempre a superare l'incentivo o la
forza che li spinge alla colpa, finché un accidente dà l'ultimo tocco
alle virtù indebolite e stanche, da rompersi il freno ; poi subito dopo,
colti dal marito offeso, ed uccisi barbaramente, in agonia spirano
confessandosi più rei di quello che fossero in effetto e dannandosi
da sé ad una punizione di gravità infinita. Tale sconvenienza dalle
premesse alla conchiiisione , commessa dal Pellico, uomo d'indole
mitissima,«e disposto molto più a dolcezze che a troppa severità, si
manifesta più estrinseca a lui e ricevuta da altri, che non come sua,
e adottata senza accorgersi dello sconcio. Ed in effetto, avutala cosi
da Dante, egli inavvedutamente la rese più esplicita e repugnante;
ciò voleva la natura del suo componimento ; e non osò o pensò di
raccomodarla, forse per riverenza alla maestà del primo autore ; non
considerando tuttavia che l'Alighieri già vi aveva corretto, con uno
di quei tratti prodigiosi di arte , che sono di peculiare pertinenza ai
sommi , poiché mentre introdusse il commiserevole episodio in sito
non adatto , seppe nondimeno toccarne si le varie parti da scom-
parire dalla vista l'orrido del cerchio infernale, e far trapasso dalla
disperazione all'affanno, dalle strida ai gemiti, dalle bestemmie alla
preghiera e per tal modo rapire l'attenzione del lettore da non ram-
memorare né avvedersi in qual luogo fosse collocata la scena.
T'immagina di peregrinare per aspri e selvatichi monti; con
iscoscendimenti da più lati, e rumori cupi di frane e scroscii di tor-
renti, e urla di fiere, e nuvoloni tempestosi sul capo; in mezzo a
quello spavento di natura, ti si fanno incontro all'impensata una
bellissima fanciulla ed un suo giovine compagno, ambidue a&ticati ,
languenti, squallidi, addoloratissimi,ma nella mestizia ineffabile degli
aspetti, innamorati ancora l'uno dell'altro con quell'ardore che nei
tempi beati, anzi più fieramente: strettisi in abbraccio affettuoais-
Simo che li dice indivisibili nelle angoscie e nella prossima morte,
EPISODIO DBLLA FBANCB8CA OA RIMINI 456
procedono ricambiandoBi le. anime con rari sospiri, e taciti confes-
sano cogli sguardi che fu comune la cagione delle loro sventure, ma
non per* ciò se ne rammaricano, e pensano se abbiano beatitudine
alcuna, quella consistere in essere sventurati di proprio ed insieme,
ed in perpetuo, né desideran altra felicità che di partecipare ugual-
mente della miseria comune. Cosi la commozione che proverebbesi
dalla loro vista farebbe succedere in te la pietà al terrore, le lagrime
della compassione al raccapriccio dello spavento circostante, e finché
fossi atteso in rimirarli dimenticheresti tutto ciò che prima ti metteva
i brividi nel sangue e che non cessò mai di sussisterti intomo. Cosi
avviene della descrizione di Francesca e di Paolo nel Canto quinto
della Commedia.
VI.
A ritrovare la causa per la quale Dante si condusse alia con-
traddizione di condannare in sito di pena e di disonore coloro ai quali
egli in cuor suo perdonava ed assolveva, come apparisce dal contesto
intero dell'episodio, giova rinfrescare .memoria di certe credenze e
superstizioni che in allora correvano comuni in cose di Fede, e dalle
quali neppure si sottrassero gli spiriti più illustri e più addottrinati.
La teologia aveva definito che qualsivoglia infrazione del sesto
precetto del decalogo, fosse con opera od eziandio con semplice pen-
siero, qualorasla volontà acconsentisse liberamente, si avesse a tenere
peccato gravissimo, non concedendosi parvità di materia a scusare
la colpa. Chiunque macchiatone mortalmente neiranima, e colto
dalla morte, senza pentimento, erasi da reputare perduto in perpetuo,
dacché misericordia non invocata, non avrebbelo potuto soccorrere,
e la giustizia divina implacabilmente lo avrebbe sentenziato tra i
presciti. La ragione della severissima morale teologica, da parere
crudele in troj^i casi, nasceva da più motivi: dalla necessità che
leggi di austerezza massima fossero stabilite nell'ordine divino
a tutela dell'arca santa della famiglia che è fondamento essen-
ziale della umana compagnia; dall'urgenza di rinnovare ad onesto
costume le dissennate libidini, e bestiali, delle genti pagane nei secoli
primi del cristianesimo; dalla considerazione di nostra natura che
proclivissima alle voluttà sensuali, ha uopo, affine di contenersi, che
alla virtù combattente dia soccorso il timore di una punizione terri-
bilissima, qualora abbia a cedere ed abbandonarsi ai primi lenocinli
del vizio allettatore. Poi che in questo argomento come negli altri
la teologia pigliò tempera dalla età immita in fatto di giustizia,
e dalle consuetudini barbariche che successero, essa conformandovisi,
procedette con certa ferocia e soverchia rigidità: imaginò me*
466 BITISTÀ CONTBHPOBANBA
niete di martirìi oltremondani non diversi per étforatectia da qtielli
si usavano contro i rei quaggiù, e procedette oon reputare alla ne-
mesi divina quella implacata, perversa e spavetitevole sete e di stmaii
odi vendette che dai tribunali e dai tiranni della terra si adoperatftUo
contro il delinquento. Impei^occhè quando un delitto commésso o di
latrocinio, o di ribellione, e di semplice irriverenza iù oppositiotie
ai provvedimenti od al volere del principe o della potestà sUprétna,
comunque ne fosse la origine ^ portava ohe si guastassero, ta-
gliando a membri i condannati, si arrotassero, si attanagliassero,
si iliarchiasBero e lacerassero con ferri arroventati, si squartassero Vivi
vivi , si facessero spasimare di lunghi doIoh>sissimi tormenti , loro
sovvenendo a protrarre la vita acciò sofferissino più spietatamente ;
che non avevasi poi dalle immaginazioni popolari a credere di peggip
de' patimenti inflitti a misura infiiiita, da un Dio sdegnato e verso
i suoi reprobi non mitigabile? E qui mi sia concesso di manife-
stare quale sentimento io tenga in fatto dei gastighi divini come
furono supposti dal medio evo iti poi. Ho per fermo ed incoticusso
che le dottrine di asperità oscurissime e terrifiche, sorte in tempi an-
tichi dag^i interpreti delle tradizioni cHstiane, e predicate a sgotnento
deiruomo pi^varicatore, contrastino in modo assoluto alla pietà ce^
leste, e la o£fendano e la facciano sdegnata ; dacché non saprei per-
suadermi che il Creatore noti abbia a trovale cotnpatimento per la-
sua creatura razionale, allorquando gli si presenta al giudizio, tife-
mante e vergognata, brutta del fango raccolto nel pellegrinaggio del
mondo , che è tutto pericolosissimo di pantani , né voglia salvarla
quando che sia. Io non ardisco d'imporre all'animo repugnante che
accetti a domma, non essere mai sperabile dal prescito il ritomo atte
delizie perpetue od almeno un qualche allenimento onde gli si feccia
tollerabile l'esistenza immortale. Pensando così non varrebbe tanto
quanto affermare Iddio meno commiserevole dell'uomo? Farsi la ra-
gione etema contraria di quella che fu infusa nella creatura? AV'-
verrà egli che un popolo incivilendosi divenga quasi più rétnoto
dal celeste esemplare? E chieggo questo appunto, dacché mentre le
discipline teologiche ci rappresentano immutabilmente la fiera terri-
bilità dell'Eterno Signore, tale da incutere la più crudele pauftì Che
si possa imaginare , le civili procedono a mitigare vieppiù i Hgori
delle leggi : levarono le torture ed i supplizii barbari d'inasf^ifnento,
addolcirono le carceri, attemperarono le condaiine a norma dei casi,
accettando quelle attenuazioni che l'equità consiglia, e già tornerò
proclamando che si abolisca la pena estrema.
La prima prova a certificare reale e non fittizio l'incivilimento di
un popolo consiste appunto nell'eflfetto che il legislatore provvegga
a proporrionare la puniziotìe al delitto, in tóodo umano> acciò le sof-
EPISODIO DALLA FRANCB8CA DA BIMINI 457
tet%ù2é iffipoite Bibno cèmpoHabiii dalle foi*ze di natura, il condan-
nato tròTÌ durante l'afflizione cui soggiace una via di fesipiscen^a,
si Innamori del ritorno al bene, e con ciò si rinnuovi moralmente,
si penta e contristisi del fililo conimesSo.
È ufi p<^olò quanto più si dimestica e aggentilisce tanto più si
raggiunge ai perfettissimo modello, verso cui accostandosi sf (k il
pragtDSSo veh) e dal quale allontanandosi e svariando è regredire e
tomaie in selvatichetaa. NA Tuomo per quanto rammorbidito, im-
piacevolìto , divenuto misericorde, potrà mai vantarsi di vincere la
bonti suprema in sentimenti di compassione e perdono. B qual gente
cbe dicssi civile erigerebbe tribunale che dichiarasse etema la dan-
natioiÉe ad un peccatore, fosse Caino o Giuda, qualora Iddio le de^
legasse il tristo ufficio con pieno arbitrio di sentenziare o per il tem-
poraneo 0 per r indefinito t Io so che il cuore umano raccapriccia
at pensiero ehe un'anima dopo la prova di questa vita, abbia a sop-
portare nell'altra una Continuità di tormenti i quali non abbiano
mai fine. E il nostro amoroso Padre comune giudicherà egli infles^
sibilo per quello che il nostro cuore non saprebbe pronunciare? In
noi più viscere di carità che in lui? Non è questa una bestemmia
peggiore di ogni altra, dacché oltraggia alla benignità infinita? Se
taluno mi vorrà ai5(Susare di errore, e se veramente io falli, confido
che colui, il quale avrà a scrutarmi un di alla scoperta, dinnanzi alla
maestà sua, non vorrà rendermi in colpa se lo reputai troppo inchi-
nevole a misericordia. 6. Bonaventura citando S. Bernardo nelle'
C0nto M9ÌUuioni (1) in cui prepara lo spirito divoto a contemplare
il mistero della incarnazione, immagina in paradiso gli angioli si fos-
sero ragunati a supplicare di pietà per l'umana generazione, la Oiu-
stiaia e la Misericordia, levatesi a contendere al cospetto di Dio
Padre, se si dovesse o mantenere il decreto di esclusione dal cielo
contri l'uomo prevaricato, ovvero indulgere e cancellarlo. Delle due,
la Misericordia questo ottenne che il Verbo proferisse se medesimo
al sagrificio) acciò si fosse compiaciuto alle implorazioni di lei, né
però si maiaKASse ai diritti della eontraddicente. Laonde quella, a stretto
conto, ne usci vittoriosa, ed io ne piglio gran conforto, e mi tengo
in esempio que' due Santi amorevolissimi, e con essi giuro nella pre-
valenza della bontà suU'austereiza, e nego certe durezze teologiche ;
non dubitando, che se fossi nato un secolo poi, non sarei per avere
più bisogno di queste ed altrettali riflessioni, dacché i tempi nuovi
come fecero abolire le immanità dei supplizii nella giustizia nostra,
così avranno operato in allora a far diminuire la credenza in una
ingordigia insaziabile dell'abisso.
(l) Le Cento meditazioni di S. Bonaventura, toI ì^ p. 113 e seg. Roma,
1847, Tip. della Società Edit. Romana.
458 RIVISTA CONTBHPOBANBA
Allo spirito umano quando giudicò nella piena chiarezsa delia
rettitudine nativa, repugnò in ogni tempo T irredimibilità dell*anima
colpevole nella vita futura; onde Tantichissima gente degli Arii
concepiva il mito dell' iddio Indistira, scendente airinfemo, e colà
per le sue virtù fatto liberatore dei miseri, tormentati in quel ba-
ratro profondo. Le religioni del paganesimo non considerarono tra
i perduti che i grandi scellerati ; coloro cioè in cui i delitti di sangue,
di rapina, di vituperio oltrepassassero il credibile, e perciò costrin-
gessero la mente inorridita a non riconoscerli degni giammai della
placida dimora negli elisi. Il cristianesimo, nel modo in cui fu esposto,
abbondò nel determinare le cagioni per le quali Tuomo va disperato
per sempre ; per cui nacque convincimento che fosse venuto troppo
facile a smarrirsi tra i reprovati e troppo disagevole salire a beatitu-
dine fra gli eletti. Né bastando i pericoli naturali, nei quali s'in-
ciampa ad ogni pie sospinto, e che sono motivo di peccato mortale, la
disciplina ecclesiastica vi aggiunse di proprio gli anatemi; tanto
che se ne compose il crudo e terribile adagio , che i pochi si sal-
vano, i molti si dannano.
Deh non sìa giammai che oppongasi al Sommo Fattore dilezione
e compiacenza di una dottrina si paurosa, divulgata in nome suo ;
il quale, vado certo, che sentenziando le anime la smentisce di
continuo.
L'eccesso di un'opinione o di una pratica siccome contrapponesi
a diritta ragione, così fa nascere un qualche correttivo che opera di
continuo a ridurla secondo il giusto. Perciò non ti maravigliare che
l'uomo mansuefatto dall'Evangelio andasse mostrando di tempo in
tempo, ed in maniere diverse, quanto e come non gli si accomodasse
di buon grado, e gli paresse da racconciare ; per conseguenza vexme
inventando stràni e curiosi modi di rifiutare o deludere la legge im-
postagli, e imaginò sotterfugii diversi, tra grossi e sottili, che gli das-
sero via di uscire incolume dalla giustizia soverchia minacciatagli
in nome del cielo. Da questo derivò la fiaba della grazia concessa da
Dio a S. Gregorio Papa, di liberargli dalla prigione infernale Traiano
imperadore, perdonandogli la falsa religione in benemerenza ddla
pia sollecitudine onde aveva reso giustizia ad una povera femmi-
nella (1) ; e vennero di là eziandio miracoli e pratiche bizzarre e so-
(1) Di questa favola non solo si parla nelle leggende che si hanno di
S. Gregorio, ma trovasene cenno, come di cosa notevolissima, in molte
antiche cronache. La prima delle Cronichette antiche raccolte dal Manni,
in quel sommario die dà di storia universale, avanti di parlare degli avve-
nimenti del suo tempo, cosi ne recita: «Santo Ghirigoro veggendo tante
buone operazioni quante Toniano aveva fatte, increbbegli ch'ei fosse in
ninferno: pregò Iddio per lui, che egli il trasse di ninferno e miselo in
Ì>aradiso,' e questo avvenne per fare ragione e dirittura a ogni persona »
Ediz. del Silvestri, pag. 167).
BPISODIO DBLLA FBANCBSCA DA BIKINI 459
perchiative, colle quali parrebbe che s'intendesse di proposito a bef-
farsi od a frodare Tonniscienza divina, mentre s'ingannava di fatto
la coscienza universale. Ricorderemo a modo di esempio e con brevità
le devozioni alla Vergine od a qualche santo dei più famosi, costi-
tuite dalla recita di un certo numero di preghiere, ovvero da certi
digiuni in giorni determinati, e voti di visitare reliquie e santuarii
celebri; le quali devozioni osservate scrupolosamente dovevano ar-
recare sicurezza della salvazione, od offerirne il mezzo opportuno,
come quello che non si potesse morire senza aversi confessato, o che
all'atto della morte scendessero a consolar l'agonia ed a fugare il
maligno, gli spiriti celesti invocati con fedeltà durante la vita. Sono
singolarissimi tra i molti , il miracolo spacciato di quei divoti di
Maria, cui fu mozzo il capo, e questi ebbe a vivere più tempo staccato
dal corpo, in loco salvatico, finché si abbattesse chi raccoltolo , lo
portasse ad un confessore e fosse assolto (1) ; e l'altro di un abate
lussurioso, il quale fattosi obbligo di non toccare donna di nome
Maria, in riverenza della Madre di Dio, ebbe forza una volta di aste-
nersi, per tale rispetto, dall'opera di peccato, e ne spirò l'anima
improvvisamente, e in premio volò tra i beati, e fu palesato santo
da notabili prodigii al suo sepolcro (2).
Dante non partecipò a queste volgarità di errori, quantunque
abbia avuto in comune a' suoi contemporanei il sentimento che
nella credenza pratica si dovesse temperare il rigore eccessivo delle
allegazioni teologiche in ordine a salvezza : laonde vediamo che ac-
colse la favola di Traiano, e collocò Catone al Purgatorio, e suppose
di Stazio che fosse divenuto cristiano occultamente, come prima di
lui altri avevano supposto di Seneca, e poco mancò di Virgilio. Gui-
dato dal pensiero medesimo di mitezza, ovvero come ora chiamereb-
besi, di tolleranza, ammise il Saladino alle quietudini del limbo in
compagnia dei pagani più illustri, perchè era stato grande tra i Sa-
racini ; avvegnaché in allora corresse odio mortale tra gli adoratori
di Cristo e di Maometto, e dovesse considerarsi o profanazione o te-
merità, levare un'anima maomettana dalle fauci di Lucifero, affine
di consolarla in luogo di tranquillità non dolorosa. E partendo dalla
(1) Nel libro I Miracoli della Madonna (Urbino, ì^f>ò), si leggono due mi-
racoli, uno a pag. 51 e l'altro a pag. 54, in ciascuno dei quali si narra di
una testa di uòmo mozzata e rimasta viva lungo tempo, fino a che si fosse
confessata, e ciò per opera della Vergine.
(2) Posseggo copia aella narrazione di questo miracolo (1) contenuto
ndl Cod. I deirUaiversitaria di Bologna, fornitami dalla conosciuta cor-
tesia del cav. Zambrini. Incomincia cosi: «Trovasi che fue uno abate il
quale era uno grande amico di Dio, ed era questo abate un grande lussu-
rioso ». Lo Zambrini vi ha aggiunto di sua mano la noterella seguente:
« Disse assai meglio il Boccaccio a quest*uopo nella nov. viii, gior. iii.
« In una badia fu fatto abate un monaco il quale in ogni cosa era santis-
simo, fuorché nelle opere delle femoùne »«
400 EIYISTA OONtBMPOftANBA
detta ragione egli, a mio avviso^ raddolcì pure ódrabilmetite la aorte
di Franoedca e di Paolo Detratto stesso in cui raffiguratali tua i
dannati.
Toccammo in addietro perchè il poeta fbsse probabilmente in-
dotto a non usare maggiore larghezza di perdono verso quegli in-
felici cognati ; ma dal punto in cui lì scontra nel quinto cerbio ,
Tanimo suo se ne risente, e con moto tacito ma efficacissimo travolge
tutta quanta la disposizione del primo concetto. Suseita Dante nel*
r Inferno i due spiriti, e là dentro li confina a martirio indefinito, ée
non che l'aspetto di loro lo punge al cuore e par gli chiegga se vera-
mente meritassero di essere sbalestrati fin giù in queir abisso. Vince
la pietà di una sventura gravissima che pagò largamente il fidlo ,
vince la considerazione di un supplizio che esce dalla ragionevolejtza ;
e d'allora in poi il poeta non padroneggia più la fantasia propria,
ma queita rimane preoccupata dal nuovo tentimeuto. In eflbttò se
bene vi si considera, apparirà in piena evidenza il mutamento avve-
nuto nell'animo di lui : seguita ad invocare in comparazione uccelli
d'indole data agli amori, ma sono le colombe, simbolo di placidità
e di candore ; il vento tace, il mugghio del mare in tempesta non si
ode più, la scena infernale si dilegua dagli occhi, passarono slttore
le schiere de' carnali, e restano da soli il poeta, il suo duca, e i due
chiamati con grido afiéttiMso. Il colloquio che vi si tiene comincia
da un vocabolo che peranco si conforma al sito, ma immediatamente
il linguaggio si corregge e diviene gentile, passionato, dolce, pio,
supplichevole: così che dall' un lato si parla e si piange e sospira,
mentre dall'altro gli affietti si commuovono fino allo smarrimento
dei sensi. Non siamo più in loco d'inferno, quantunque neppure in
regione di paradiso, ma o di nuovo nel limbo o in qualche altro globo
terrestre che li accolse congiunti, dove dimoraUo insieme, amandosi
in perpetuo, e perciò non disperati, non diserti di ogni consolazione,
commiserati con isguardo benigno della clemenza divina (1).
VII.
Uno de' passi che sono più forti da ben intendere ai commentatori
è quello del verso « mentre che il vento come fa. si tace >, dacché
come nota il Benvenuto da Imola: « sembra che Dante si contrad-
<c dica... avendo detto superiormente che era impossibile la quiete a
€ quegli spìriti, ed ora li mette quasi in riposo ; ma la paura serve a
€ crescere maggiormente il tormento, se non altro col confronto del
< senso » (2).
(1) Vedi Foscolo. Discorso sul lesto ecc. della Commedia di Dantt^ § CLII
e CLIII. — Ginguené, Hist. liti, d'Ital. Cap. Ili, Sez. 2.
(2) Benvenuto, Commento^ voi. I, p. 159.
EPISODIO DSI^A P9AN0BS0A DA RIMINI 401
•AJ Buti non iafuggi eziandio la contraddizione e per questo chiosa:
€ qui, dice, li iaa. Pare che si contrarii a se medesimo. A- che si può
« rispondere ; cioè che quel vento mai non resta per rispetto di tutti
€ quelli dmiinati, ma per rispetto di questi due bene restava, perchè
€ avevano licenza di parlare con Dante , e però molti testi hanno
( ci tac$^ cioè, a noi due > (1).
I^ interpretazioni che traemmo dai due mentovati commenti, Tuno
e Taltro autorevolissimi tra gli antichi, tentate dai loro autori a con-
ciliare il contrasto dei significati quali risultano dal riscontro tra il
verso citato e la precedente descrizione della bufera infernale, paiono
e sono di tale insufficienza che mostrano palese, come né il Buti né
il Benvenuto riuscissero a comprendere in qual modo il poeta avesse
fatto trapasso si repentino da contraddire a se medesimo, dimenticando
ciò che poc'anzi aveva descritto. Ma il modo col quale noi propo-
nevamo or ora che abbiasi ad intendere l'episodio a norma dell'animo
mutato nel poeta, toglie, da quanto sembrami, la difficoltà, e rischiara
I9 parti oscure , e scusa Dante di non essersi avveduto della stor-
tura, od aeoorgendosene di non avervi riparato con qualche raddol-
cimento.
Un secondo passo diede inciampo ai commentatori non meno del-
rantecodente , voglio dire , il verso, « B paiono si al vento essere
leggieri >. Il Buti lo intende nella maniera seguente: e questo è per
e convenienza di quello che è detto di sopra, che sono menati dal
e vento in giro ; e questi più che gli altri, e perciò dice più di co-
« storo che degli altri, perocché doveano aver più fermezza nel mondo,
« perchè furono* cognati... E però per conveniente pena mostra che
t siano più girati e menati dal vento > (2). Il Benvenuto non fu più
felice espositore t cosi (erano) trasportati dalla bufera o vento di
« lussuria, ovvero sembravano tanto innamorati, giacché l'amore è
« lieve e quindi si figura alato » (3).
Che ne pensarono il Vellutello ed il Landino? Il primo aflbrma:
« che parevano essere si leggieri al vento, perchè di tanto era stato
« grave il peccato loro, essendo cognati j> (4) ; ed il secondo : e erano
« più tirati dal vento, cioè avevano maggior pena, la quale meri«
« tavano per essere cognati ed in grande stat'j».
È manifesto ohe di queste esposizioni nessuna fu ben pensata,
né appare accomodata e persuasiva, non potendo riconoscere vere
quelle conformi del Buti , Landino e Yelluiello , che la maggiore
leggerezza al vento significasse più toro^ento alle due anime com-
pagne, dacché sia noto come fossero meno aggravate di colpa rispetto
(1) Buli, Commento, voJ. I, p. 167.
di Buti, Commento, voi, I, p. 165
s
Benvenuto, Commento, voi. 1, p. 157
(4) Commento^ Canto V. Venezia 1544.
462 RIVISTA CONTEMPORANEA
agli altri Dominati in precedenza nel Canto; laonde non sarebbe
stato giusto che patissero più tormento. Così, neppure il Benvenuto
mostra di avere colto nel segno, quando accenna al dubbio che
Dante li avesse descritti più leggieri perchè innamorati tanto, e
perchè l'amore sia cosa lieve.
Il Commento attribuito al Boccaccio porta una chioserella che
si adatta più acconciamente , od arreca senso di maggiore soddisfa-
zione: poiché postillando che quell'essere più leggieri voglia dire
« con minor fatica volanti » (1) fa conoscere che si abbia da spiegare
il passo secondo Tintento del poeta, di averli immaginati non tanto
fieramente turbinati dal vento, né percossi ed arrotati insieme sic-
come degli altri, ma in patimento meno intollerabile.
Una piuma portata dall'aere agitato, svolazza qua e I^, e s*innalza
per qualunque sottigliezza di fiato; ma quando incontra e ferisce
in ostacoli non è per rimbalzarne del colpo violento, scompaginarsi
e frangersi ; anzi o vi si depone sopra o vi lambisce e sfugge con-
tinuando secondo la spinta che riceve. Adunque Tessere leggieri al
vento ò da opinare che esprima mitezza di supplizio, e accenni eziandio
al peccato di lordura minore onde procedono meno grevi; e fbrse
anco allude al fatto naturale, che galeggino quasi e sorvolino sce-
verati e lontani dagli altri consorti, i quali con più imbratto e più
carico, sono tenuti insieme come le schiere degli stornelli e delle
gru, e travolti in tempo poco disforme a percuotersi ed urtarsi tra
di loro; ed eziandio quel leggieri può yhÌQxe fuggevoli al vento, rice-
vendo per forza di costrutto un tal significato.
Ma quantunque crediamo per fermo che la spiegazione data dal
Commento attribuito al Boccaccio, sia da reputarsi la meglio inter-
pretativa del pensiero dantesco, e le si possa attenere, non è tutta-
volta da tacersi , non sembrare improbabile che il poeta volesse
esprimere col passo mentovato, non i due spiriti fossero più leggieri
al vento, sibbene il vento tornasse leggiero al loro tormento. Non
rare volte si trova nelle scritture del buon tempo, e più facilmente
ne' più antichi e genuini che l'autore, dacché incominciò un discorso,
che si riferisce ad una data cosa, dopo, continuando , si attiene al
primo indirizzo della mente, e conserva a reggere il discorso la cosa
medesima , quantunque per ordine logico dovrebbe concederne il go-
verno ad altra succedente. Egli stando in quel suo pensiero, acco-
moda a sua voglia, e vi piega ad obbedienza i vocaboli diversi per
quanto male vi si prestino, ^ ne nasca confusione. L'Autore nell'atto
in cui opera il travolgimento costringe con singolare arditezza ad es-
sere paziente quello che sarebbe agente, e chi legge è in necessità di
correggere nel suo intemo la lezione ed interpretarla a dovere. Altra
(l) Voi. 11, p. 44. Firenze. Futicelli.
EPISODIO DBLLA FRANCRSCA DA B1M1NI 463
volta vedesi il caso singolare, che lo scrittore dacché pose in principio
della proposizione l'oggetto, yì accorda il verbo che segue, quantunque
avesse a renderlo accomodato col soggetto, collocatogli meccanicamente
dopo. Ne succede un curioso magistero di periodo ed una certa bizzar-
ria del significato, che talvolta piace e solletica quando per avventura
lo sforzo non toma eccessivo e non apporta soverchia caligine ; T in-
telletto non se ne offende; rimane sorpreso in sui primordii e dubi-
toso come abbia da intendere; poscia afferrato il bandolo lo seguita
con pronta comparazione, e si gode della capestreria leggiadra. Queste
stravolture non si compiono sempre senza uso di maniere ellittiche :
se ne hanno abbreviamenti del discorso, scorei, e parchezze di vo-
caboli , perchè lo scrittore medesimo sentendosi impigliato, guarda
come uscirne al più presto da quel disagio, e tornare all'andamento
naturale (1).
in concorduiza di questa maniera osservata dagli antichi, io so-
spetto che Dante, dacché sUmaginò di scorgere i due cognati e prese
vaghezza di seco loro intrattenersi, tutta raccolse la mente propria
su di essi, e tanto ve la fermò che, incominciatone a parlare, li
conserva d'allora in poi siccome soggetto principalissimo delVat-
tenzione.
Per conseguente loro subordina ciò che poscia gli è suggerito
dalla fantasia, e vi dispone in sequela le idee successive e gli ele-
menti dell'orazione, nulla badando alle parti che ciascuna voce
avrebbe da fungere secondo l'ordine delle idee. Avendo detto
Poeta ! Volentieri
Parlerai a que' due ch'insieme vanno;
(1) Potrei recare una lunga segueuza ài esempii a conforto di quanto
dissi, ma discrezione vuole che mi restrìnga a pochi e calzanti. Nel Mt-
/lowe dt^arco Po/o (voi 2«,pag. 357, Venezia, Alvisopoli, 1827), narrandosi
del modo con cui si facevano le poste nei luoghi settentrionali, di-
cesi che si usano tregghie o slitte dai corrieri, i In su (;juesta trogghia
«pongono un cuoio d'orso, e vannovi suso colali messaggi, e questa treg'
ve ghia mena sei di questi cani, e questi cani sanno ben la via e vanno infino
«all'altra posta». Ivi il verbo menare è accordato all'oggetto iregghia,
perchè fu anteposto nell'ordine meccanico della scrittura, mentre dovrebbe
esserlo col soggetto che tosto succede.
Nella prima delle Cronichette antiche (Silvestri, pag. 31) narrasi delle tre
parole scritte da mano ignota sulla parete nel convito di Baldassare o
continuasi: «Le quali iscritture tessono il Re Baldassare, e non le intese,
e tremò forte e fu sì grande il tremore che l'uno ginocchio percosse coi-
rai tro ».
Nella Vita di Benvenuto Cellini, in quel capitolo che compose in prigione
e indirizzò a Lucca 3Iartini, leggesi il verso seguente-: «Ogni uom che
è dato in cura al pover gregge ». È manifesto cfie devesi intendere —
Ogni uomo a cui è dato in cura il povero gregge ; ma Tautore affine di
mantenere che nel caso retto, costrusse di maniera che cura venne all'at-
tivo e stette per curare.
464 BIVISTA OONTPIfPORANEA
E paion sì q1 vento esser leggieri ,
inversameate di quanto in suo pensiero volle esprimere, cioè ai quali
il vento pareva essere si leggieri.
Chi considera airingegno fortissimo dell'Alighieri, allc^ tenacità
onde la virtù di un sovrano intelletto si appiglia ad una ooaa che
gli torna in predile^one, e come impadronito che ne aia, la signo-
reggi a suo beneplacito , e la pieghi , atteggi e configuri secondo
gli aggrada, e affine di adomarla od esplicarla le sottomet^ tutto
ciò che le si aggiunge o riferisce, combattendo e vincendo le ri-
trosìe delle consuetudini e le ripugnanze dell'ordine più comni^e e
naturale; chi pensa qual fos^e potente, superbo, e sovcrjhiutorc Tin*
comparabile poeta, non curante degli ostacoli ; non avrh difficoltà a
consentire nel mio sospetto, od almeno, qualora avvisi che ivi non
sia da cercarsi un caso d'invertimento discorsivo, giudicherà né
troppo arguta, né temerarif^ la fatta congettura.
Vili.
A chiudere la presente dissertazione forse non isconviene che si
tocchi par alcun tratto di quella magnifica sequenza di sentimenti
delicatissimi per i quali Dante seppe ivi intessere e sviluppare la storia
psicologìQa dell'amore, ed io mi ci proverò. Intendo di quell'amore,
in cui la parte del senso disposandosi arcanamente e temperatamento
coll'ideale, e compenetrandosi in uno, n'ingenera un certo spirito
vivace e pietoso di voluttà fra terreno e celeste, che non apparte-
nendo né airangelico né alla pretta animalità, direbbesi proprio
conveniente della natura umana, e tanto la occupa e predomina, che
pare ne svelga ogni altro affetto, allorquando si esalta ed innalza
ne' cieli sublimi della poesia, né lascia che abbiasi da trattare di cosa
che non sia di esso. Da ciò venne probabilmente che l'eroico non
fiorì nella poetica nostra spontanea, siccome avvenne negli altri po-
poli di origine comune con noi e d'indole poco disforme, e fu sop-
piantato dal genio della lirica amorosa, e da quel singolarissimo
genere di poema che è Tepopea dantesca, la quale é tutta nuova e
specifica, dove l'amore della donna fu indiato, vestendo le sembianze
della scienza sacra.
Dal più rozzo dei nostri antichi cantori in rima volgare fino ai
più moderni, fino a' satirici st^jssi, Parini e Giusti, Tamore ebbe il
più alto e gentile culto poetico che presso altra gente ricevesse
giammai. Non citerò esempi , che sarebbe trasabbondanza ; chi non
crede leggpa nei nostri canzonieri da Folcacchiero, da Pier delle Vigne,
da Guittone, giù discendendo al compiuto trecento^ ed al quattro^
»I80DI0 DBLLA FBAMCESCA DA BIMIKI 466
cento intero con Giusto de' Conti e Poliziano, e al cinquecento nei
(^trarchisti, e arrivi al secolo presente, e si fermi alla stupendissima
canzone del cigno di Pescia, i Sospiri delV anima. E pigli a* suoi com-
pegni, i Canti Popolari Toscani, e le Poesie Siciliane del Meli, e certe
ghiottomie in versi del dialetto veneto, e insomma Tinesauribile
parnaso uscito dalla vena delle popolazioni italiane, o nativo ed
agreste, o studiato ed aulico, ed avrà un inno perpetuo in più metri,
in più suoni , con mille svarianze modulato da una musa soltanto,
quella del canto amoroso. E dico amoroso e non erotico, dacchò questo
più debbasi intendere dei Greci antichi, quantunque d'ineffabile de-
licatezza; quello sia più proprio e singolare all'Italia; l'uno si accom-
pagni meglio del flauto sonato da Pane o della cetra da Apollo;
e il nostro si piaccia di ben diverso strumento, cioè si goda di quella
dolcissima arpa eolica imaginata a rendere melodie divine dal fiato
dei venti gentili dell'aere, rispondente perciò al tocco di spiriti ce-
lesti piucchè ad argomento umano.
I Greci simboleggiarono la loro Venere ingenerata o da schiuma
o da conchiglia marina; figliuola a Giove, e veleggiante, subito
nata, sui flutti o su margarita verso l'isola di Cipro: ma la Ve-
nere italica qualora si avesse a raffigurare nel suo nascimento per
un modo allegorico dovremmo immaginarcela, se non erro , simile
ad un picciol nuvolo leggiadro, che al primo apparire del sole in
primavera , si spicchi dalle acque di una fonte limpida in mezzo a
verdissimo prato : biancheggia e si leva condensato di sottil vapore;
è composto dalla fragranza delle erbe e delle corolle odorifere e di
quelle altre delizie di natura, che sono il canto degli uccelli, la fre-
schezza dell'aere, la serenità \lel cielo. E mentre s'innalza % ondeggia
e cresce al soffio piacevole della brezza mattutina, va ricevendo i nuovi
raggi del giorno, e se ne inargenta, se ne indora, se ne invermiglia,
leggiero, trasparente, tremulo, sfumato, gentilissimo. Frattanto, nu-
trendosi e ricevendo sostanza dalle varie soavità che lo circondano ,
piglia forma più determinata, ed è di creatura piena di ogni venustà
e grazia, vaga e dilettosa, non meno eterea e diafana ed impalpa*-
bile dei fantasimi che fanno lieti i sogni dell'innocenza.
Per queste qualità dell'amore in noi, non ti sorprenda, o lettor
mio se Beatrice rappresenti l'idealità suprema della donna amata, e
se Francesca, l'amante che accondiscese agli allettamenti del senso,
è pur nondimeno di tale bellezza sovrana , e di tanta pietà che il
solo Dolce trovò il simigliante nella sua Maddalena e solo potrebbe
ritrarla : tu affissandola non ti avvedi punto che proceda ignuda del
santo velo della castità muliebre, dacché il suo parlare pudico, e il
pianto tacito e contegnoso del compagno ti tolgono ogni sospetto e
memoria di cosa impura.
muta e. - 30
466 RIVISTA CONTBMPOBAKBA
E l*amore dì Francesca non ha indole d'imaginario né di roman-
zesco, ma trae radice e vigore dall'intimo midollo del vero ; perciò
in nulla ci apparisce strano , avendo piena conformità colFessere
nostro, e naturalmente ci si va rivelando siccome un'armonia intera
di idee, contenute dentro di noi, e reseci manifeste dalla improvvisa
luce che le illustra.
Chi nella sua vita amò al primo dischiudersi della giovinezza, e
fu di amore innocente, unico, intenso, e ricreò dentro di sé la sua
fanciulla, donandole i maggiori pregi di forme e di animo a cui valga
la virtù umana, e provò l'effetto nuovo, prepotente dello sguardo di
lei, restandone ammaliato da una dolcezza nelle fibre che é infinita,
e col cuore in sussulti, il respiro in affanno, il sangue tra il gelo e
le fiamme ; chi rammemora di essere caduto quasi smarrito della pre-
senza di lei come avvenne dell'Alighieri, può rendersi un chiaro con-
cetto che sia l'amore nella tempera italiana, non corrotta, non isver-
gognata precocemente, ma genuina, sincera, candida, quale sorti
generosa e complessionata dal ceppo originale. Perciò egli potrà farmi
ragione se abbia affermato per eccesso di onore alla poesia di Dante,
0 per essermi di troppo avvivato nella contemplazione ammirativa del-
l'episodio. Coloro poi ai quali nel segreto più riposto dell'anima non
si svegliarono certe melodie ineffabih che sono primizia delle .voci
d'amore, e ignorano quale ebbrezza soavissima se ne spanda, hanno
nondimeno un mezzo di capacitarsi di che forza siano gli affetti del cuore
sull'essere nostro: cerchino le storie dei nostri insigni e ne piglie-
ranno argomento. Imperocché non solo poeti ed artisti e uomini di
spada amarono perdutamente le donne che loro parvero meritevoli della
propria predilezione ; ma sempre trassero a trasfigurarle idealmente
in creature celestiali, e ne fecero delizia dei loro vagheggiamenti.
L'Alighieri, Cino, Petrarca, Boccaccio stesso, Michelangiolo, il Tasso
tra i più noti ; il primo e il penultimo più sublimemente, come eglino
solo ne avevano la potenza : né i Santi furono da meno , al modo
loro, convertendo le imagini di amore umano in angioli e maestà di
paradiso, tanto feroci a rintuzzare qualsivoglia illecebra loro esalasse
dal sangue, fino alle torture più crudeli, quanto più maravigliosi a
racconsolarsi in quelle delizie di fantasie figurate, bellissime, lumi-
nose, festanti, che si credevano vedere e seco conversare in colloqui i
beati. Caterina da Siena, giovinetta vedeasi dinanzi per imaginativa
aspetti di giovani leggiadri, i quali sorridendole la invitavano ai casti
piaceri di onesto matrimonio; dessa se ne difese come da tentazione
del nemico, e le allontanò; poscia quelli, deposto l'abito profano, e
vestitisi dell'empireo, le tornarono alla mente in sembianza di Cristo
Bedentore, e la empierono di gioie e di dolcezze divine, le suscitarono
nell'interno vampe di amore cocentissimo da spasimarne, le impres-
EPISODIO DELLA FRANCESCA DA RIMIMI 467
sere le stimmate, si che dalla dolcezza ardente, più volte ebbe a scri-
vere che ne moriva (1). Cosi non era stato meno di Benedetto di
Norcia, e di Francesco di Assisi ; cosi fu poscia di Francesco di Paola,
bragia di carità, dalle cui dita immaginarono, che uscissero scintille
di fuoco ad accendere la lampada dinanzi al Sagramento; e l'uguale
si replichi di Caterina di Bologna, di Maddalena de* Pazzi, di Filippo
Neri, e del Calasanzio.
Ma per venire a fine del ragionamento farò una considerazione
ultima suir episodio di Francesca; e noterò che mentre all'apparire di
lei sulla scena svanisce dui riguardante il colore d'inferno, e il campo
si difosca e si fa l'alba, e si sta come sorpresi dalla dolcezza dei versi
in cui ella, la poveretta, dice della gran forza d*amore ; inopinatamente
si passa ad una imprecazione si terribile che vi ripiomba nel più
oscuro e nel più maledetto degli abissi. Imperocché Francesca, dopo
avere pronunciato parole di afifetti teneri, delicatissimi, da fame am-
mutolita la bufera e diradata la caligine, prorompe a vaticinare
improvvisamente contro il marito omicida, che ne vengono i brividi,
e si sente come quel crudele non iscamperà del supplizio preparatogli.
Egli scenderà in Caina, frammezzo ai traditori. E cosi il discorso quando
meno si prevede, rinchiude due voluttà in mezzo ai tormenti etemi :
quella delle passate dolcezze ravvivate nella narrazione, e Taltra della
vendetta sicura e spaventevole contro l'oppressore. Voluttà d'amore,
voluttà di vendetta sono le massime nel sentimento dell'italiano.
E qui mi molesta un dubbio che non so rintuzzare: forse non
avrei io speso fino ad ora le mie fatiche piuttosto a scombuiare che
a rischiarare il pensiero di Dante ! Forse non mi si addirebbe quella
sentenza del Cellini : « io dico e credo che questi commentatori gli
facciano dir cose, le quali egli mai non abbia, non che pensato, ma
sognate ! > (2) Se ciò se ne giudicasse per mala mia Ventura ,
€ Vagliami il grande amore >
a rendermi perdonato presso i discreti.
(1) Vedi in più luoghi la Vita di S. Caterina da Siena, scritta dal Beato
Raimondo. Ne estraggo questi brevi tratti : « Vengano Quelli (i demonii)
« colle loro detestabili turme^ e procurano di circondarla d'ogni parte...
I E prima cominciano... non solo con illusioni e fantasie in sogno, ma
• con aperte visioni, le quali, assumendo eglino corpi aerei, le facevano
« vedere e udire, ed in molte maniere le rappresentavano... Prendono, come
« dissi, corpi d*aere, e moltiplicate le fantastiche immagini in grandissima
a moltitudine quasi compatendo e consigliando, dicevano primieramente:
e Perchè o tapinella ti affliggi tanto tu in vano?... Vivi come l'altre donne,
« prendi marito, e genera figliuoli, ecc. » (Parte !• cap. 11«).
(2) Racconti di Benvenuto Cellini, seconda edizione. Venezia 1829, tip. di
Alvisopoli 1829, pag. 46.
468
nwm DI STATO CONTRO GIULIO VACHERÒ
IN GENOVA 1628
Nel tomo III delle appendici alla prima serie dell'Archivio Sto-
rico Italiano fu stampata la congiura di Giulio Cesare Vacherò contro
la Repubblica di Genova del 1628 descritta da Gian Rafaele della Torre
che ni il direttore del processo, o come oggi si direbbe , il giudice
processante. Il Bixio che la propose e diede all'Archivio non vide il
processo allora nascosto, e non potè commentare come avrebbe forse
potuto quella narrazione spirante odio al Vacherò sicuramente me-
ritato, ma per avventura più che se da altri fosse stata scritta, che
dal criminalista, che ne preparò la condanna. Ora quel processo è
agli occhi di chiunque il voglia leggere. AcquistoUo autografo dal
notaio Giacomo Grita il prete Giuseppe Olivieri , un dieci anni fa
per la Biblioteca civica di Genova di cui ò custode ; io l'ho esaminato,
anzi l'ho letto, e m'infuse tale orrore nell'animo che non mi si è
dileguato più. Nel secolo XVII erano feroci le inquisizioni per atten-
tati alla religione, ma non si crederebbe mai • quanto feroci siano
state per attentati alla politica. Non so quanto di vero cavassero quei
tormenti, sebbene a Compiano Giulio, che fu poi uno dei condannati
per quella congiura, si gridasse fieramente torturam nonJkUsie aAm-
vewtwn prò ew^quendis mendaciis, $ed prò domanda pervicacia reontm
in oecuUandatn veritatcm; ben so che sotto i tormenti la novella cer-
cata non venne, ma fuggirono le vite.
Un grandissimo spavento si era impadronito di tutti que' Padri e
del Doge più ancora, che le vite loro minacciate e gli averi sem-
brano in procinto di sperdersi col dominio della Repubblica, possesso
dei denarosi, tanto più che il Duca di Savoia sosteneva rinfocolando
il malcontento dei dominati per mettere le mani sullo scettro del Giano
ligure e non risparmiava nò lusinghe, né titoli, né promesse, né
denaro per giungere al fine del suo coQcetto ; tanto la collera aveva
velati gii occhi di aue' signori, che ornai erano risoluti di non ri-
sparmiare nessuno cne avesse dato pure un dubbio di fodeltà, onde
bastò che un nome uscisse da una qualunque bocca, perchè chi lo
portava si arrestasse, si esaminasse, poi si collasae per conoscere se
manteneva il deposto, indi si facesse giurare di tacere e del richiesto
e del risposto negl'impenetrabili del tribunale. Il codice o gli Statuti
risparmiavano gli spettabili, o dottori, o in altro modo insigniti di
PBOCBSSO DI STATO OONTBO GIULIO VACHBBO 4M
riverenza nella Reoubblìca ; ma allora parve in pericolo lo Stato, e
senza il decreto del Caveat^ s'intese che èàlMfpopuli suprema tea eito,
e sebbene il popolo non vi avesse a far nulla, si procedette, come
se non ci fosse altro rimedio. Centocinquantatre persone furono esa-
minate fra testimonii ed accusati, e si cominciò da giovanetti maschi
e femmine dai 13 ai 17 anni, domestici del Vacherò, e si discese a
persone d'ogni età e d'ogni condizione, dal mercordì 12 aprile 1628
sulla sera, al 20 luglio 1629, e la tragedia fini colla condanna di di-
ciotto a morte, colla morte di due sotto i tormenti, collo strazio di
altri molti, e con varie condanne, a confini, ad esigli, a galere e a
carceri, e ad esigenze di cautele in sigurtà di denari , le quali non
erano accettate, se non date dai nobili e fidissimi al Governo. Quando
il Casoni scrisse di questa congiura ne' suoi Annali, dovette avere
avuto fra mano questo processo, sul quale il Della Torre fece la re-
lazione che Bixio poi diede a stampare, come ho detto ; quindi, come
del Casoni già avvertii, nella Nuova serie delV Archivio storico, non
compiuta che una raccolta di memorie, non era il benemerito da '
rimproverarsi di plagio sul Torre; è questo dico perchè questo pro-
cesso andò alla Biblioteca per la istessa vìa, per la quale vi andarono
le Memorie del Casoni.
La prima carta del manoscritto ha questa scrittura del notaio del
criminale :
e Ad maiorem Dei gloriam Anno Sai. ooiooxxvni pridie idus
aprilis.
e Detecta per cap. Irém Franciscum Rodinum Dianensem muni-
cipem qua debuit fide ac virtute Ser.™<^ Duci conspiratione perditorum
hominum in statum serenissime Reipub. civium omnium libertatis
excidium iuxta seriem narrationis quam ipse fecit folio octodecimo
confect» per vani spiritus ligurem Io Ant. Ansaldum, perque elati
animi ex non modicis divitiis genuensem inquilinum. lulium Cesarem
Vacherium suppello oriundum ignobili in subali)ini8 pedemontibus
loco iisque aliisque eorum affectis et satellitibus in tam vesano pra-
voque Consilio obstetricante ex ingenito in Remp. odio Cafolo Ema-
nuelli, insubri» Duce de quo poetico spiritu bene hariolatus Ve-
nusinus de iamblico videtur, novisque rebus infidelis allobrox Ser. "*>
CoUegia sub auspiciis serenissimi, tunc Ioannis Luce Chiavari viri
ad gloriam et reipub. sospitatum nati, Deo servatori relato adscri-
ptaque ut par est benefìcio mandaverunt iuxta legum pnescriptum,
instrui infradescriptum processum ad rei veritatem seriamque digno-
scendam: fontesque atrocis immanisque consilii detegendos evincendos
et prò modo noxe poenis debitis plectendos : quo exemplo esteri in
poeterum siqui illius modi efferati in innoouam patriam voluntatis
oriretur, quod Deus avertat, absterreantur.
« Perfectus est processus, Deo dante, tertìp decimo cai. sextilis
div» Margherita sacro anno sai. mdcxxix.
« Uì.^^* Lue» Pallavicino et Angustino De Mari adsistentibus
commìssariis quo munus obiere et IIl."^ tunc lac. Balbi, Io. Bapt.
Lercams, Mag."" Raphaeli de Turri ipsum contexente et ad finem
optimum dirigente )i.
L, S- della Biblioteca.
Iaoobus Bbita Notarius.
470 BnnSTA contempobakba
Quelli ì commissarii, ma le stanchezze vinsero le ansietà, e si
mutarono le assistenze con Girolamo Dinegro, Tommaso Chiavariy
■Opicio Spinola, Girolamo Adorno e un Bonifazio di cui ho perduto •
il nome, tanto pietoso da lasciare che Tommaso Chiavari assistesse
a una tortura che da diciannove ore durava (sabato 10 giugno 1629),
per andare, come il processo nota, ad ascoltare la messa. Continua
il manoscritto:
< Quo qui scelesti ruitis? aut cur dextris
Àptan'tur enses conditi?
An ut secundum vota hsec hostis sua
Urbs deperiret dextera ?
Neque hic lupis mos, nec fuit leonibus
Unquam nisi in dispar feris
Furor ne cecus an rapit vis acrior ?
An culpa ? responsum date.
Tacent : et ora pallor albus inficit
Mentesque perculsse stupentii.
Segue una carta d'indice alle maggiori deposizioni, pot tre altre,
di cui due d'indice del processo per tutti gli esaminati, indi, una
co^ nomi de' condannati, e i giorni, e i modi, e i luoghi delle esecu-
zioni delle sentenze, per quei nove che non ebbero amica fortuna
d'evadere, tra i quali il Vacherò, che erasene andato sino a Recco
e cercava il confine Piacentino, poi tirato dal suo fato, tornò a Ge-
nova ove fu arrestato, e Giulio Compiano con Bartolomeo Grandino
che non osarono fidarsi al mare, e si lasciarono prendere, accovacciati
in S. Pier d'arena. Degfi evasi il più odiato fu l'Ansaldo, ambascia-
tore di Savoia al Papa, e contro lui nella sentenza contumaciale di
morte fu fatto questo speciale decreto : e Si quis dictum Ioan. Anton.
. Ansaldum occiderit vel vivum tradiderit in Curise potestate is pre-
mium duplicatum habeat ab eo quod a dicto statuto conceditur ita
ut qui eum occiderit seu vivum tradiderit ut supra si ipse ex pari
vel inferiori delieto exul esset non solum liberationem consequatur,
sed alium etiam de sequali delieto exulem nominari posait, qui sic
nominatus ipso iure et facto iiberatus omnino et restitutus patriae
censeaturcum resti tutione etiam bonorum confìscatorum, qu» tamen
de facto in fiscum tunc temporis non fuissent illata ii. Se non era
esule, o l'esule non accettava di tornare, poteva due condannati libe-
rare, e la dichiarazione fatta italiana dal cancelliere Zaccaria Yadomo
(che nelle stanchezze del Grita supplì all'officio di notaio nel processo)
ru mandata ad affiggersi per Italia. Era si tristo l'Ansaldo, e non si •
temeva di riaprir la patria a un altro che gli fosse pari nel delitto,
e anzi doveva essere peggiore, poiché il ricompro dell'aere suo far
doveva con un tradimento. A iale immoralità spingeva l'infuocata
ira di Stato.
Quell'Ansaldo era stato il mezzano di tutta la faccenda fra il Duca
e il, Principe di Savoia e i congiurati, aveva tirato a Torino il Va-
cherò, ed essendo stato a casa di lui a Genova aveva fatto regalare
la moglie. Aveva il Vacherò tentato di lasciarsi svenir di fame, poi
di sostener tormenti, e non confessare, fu dai commissarii rimprove-
rato di vigliaccheria, e sulle prime negò, poi convinto e confuso,
PBOCBSSO DI STATO CONTRO GlOLIO VACHERÒ 471
contò molto più che non si sapeva, fra cui: che T Ansaldo vantava
d'avere in città 200 artigjiani a sua disposizione (g«nte che al Va-
cherò non piaceva), che il Duca da Prà a Varazze avrebbe condotto
fra quattro a cinquemila fanti, e seicento cavalli, per tener freno
alla plebe che non tumultuasse ; che Giulio de' Fornjari accennò che
bisognava andare alla testa e alludeva al palazzo Ducale ove stavano
a guardia da 200 a 300 soldati. Ad informarsi gli animi si leggeva
di sera Machiavello , dove parla di congiure pericolose , che vuol
dire ch'era gente con qualche lettera; ma Vacherò si addormentava,
si dovevano portare sotto le scale del Palazzo dieci barili di polvere
e distruggere il Consiglio ; e un altro esaminato disse, che il fuoco
sarebbe stato dato da una macchina a modo d'orologio. Non era dei
Governanti che si dolevano, ma della impertinente nobiltà giovane,
cui i governanti lasciavano la briglia sul collo, e pare che da essa
la moglie del Vacherò in lettiga fosse stata offesa, ond'egli giurasse
vendetta e di ciò, e del volere che i non nobili si sberrettassero pas-
sando loro innanzi chi di loro non era. Quella macchina da Giuliano
de' Fomari era creduta invenzione d'Ansaldo venuta da Torino, ma
un'altra macchina a foggia d'armadio era stata costruita con più
ripiani di canne d'archibugio immaginata da Giambattista Benigassi
colla quale nel mezzano piccolo di casa di Girolamo Dinegro che ri-
spondeva sulla loggia de' Banchi, ove per loro affari i nobili si adu-
navano sempre, si sarebbe in un solo colpo sparato centra di essi, e
ristrumento era stato provato a Torino, dov'era riuscito con grande
fracasso. Vacherò invece riferì che si voleva sparare in contrada della
croce in occasione di processione a cui andavano i gentiluomini, ma
che fu ritenuto per rispetto del Sacramento. A Torino il Vacherò fu
dando ad intendere a Genova a chi andava in un luogo, e a chi
all'altro; vide due volte il Duca. Una volta v'andò in carrozza ma-
scherato a una festa di corte, e vi stette 14 ore ; l'altra la successiva
mattina nella quale il Duca riaffermò al Vacherò ciò che Ansaldo
gli aveva esposto, e gli soggiunse che bisognava risolversi e far prestò.
Chiese il Duca se a^ Genova fossero trattati male, e il Vacherò si
dolse dei giovani, come ho detto. Fate presto, rispondeva il Duca;
sì, continuava Vacherò, io sono il padre di queste cose, le quali se
S resto non si eseguiscono, si discoprono. E in udir della macchina
isapprovò : non conviene scherzar coi santi ; ma se presto non fate
sarete tutti sudditi di Spagna.
In questa deposizione una cosa uscì, per la quale può aversi segno
del^merito reale della relazione che si stampò del Della Torre. Giu-
liano de' Pomari aveva lettere dal Duca, ed Ercole de' Fomari adoc-
chiava a Palazzo, e com'ebbe notizia d'alterchi in consiglio per im-
posizione d'una tassa, l'avvertì ai congiurati, quale occasione favo-
revole di fer ammazzare Raffaele Della Torre, che aveva parlato in
favore della posta. Se l'incitamento ferì a vuoto, fu perchè Va-
cherò non permise che si offendesse chi lui aveva servito bene da
avvocato.
Domandato il Vacherò se disposto era a sostenere nei tormenti
quella deposizione, rispose : e Sono pronto a sostenere ogni cosa, e
f se non vi è notizia che prima di adesso si sia trattato di simil pratica,
e glielo dico io, ed il mezzano di essa era un fratello di Giangiacomo
< Bnffo, il quale andava e veniva da Torino, e trattava con ilÓuca
472 RIVISTA OONTBMPOEANHA
« e principe Vittorio, ma, o che quei principi si avvedessero che lui
€ trattava con bugie e doppiezze per cavare denari^ o per qualsivoglia
€ altra cagione, fu posto in prigione a Torino ove mprse >. Fu messo
alla corda, e tenutovi per tre misererei svenpe. Furono ordinati fo-
menti dagl'illustrissimi, poiché il medico il diceva svenuto per troppa
debolezza delFfnedia. Rinvenuto, si riattacca alla fune, e « sic ligatus
editis signis angoris et doloris vehementis cum persistisset per unum
miserere et mox esset elevandus presente etiam phisico, illustrissimi
mandaverunt interrogari an confirmet ea quse ipse deposuerat. R.
voce languida: confermo tutto i^. Fu sciolto.
Ma in quel confermo tutto er^ eziandio che lo spettabile Francesco
Martignone doveva essere informatissimo d'ogni cosa, perch'egli fu
che lo condusse dall'Ansaldo, e perciò negando il Martignone eziandio
in faccia al Vacherò fu messo alla tortura, e perchè continuava a
negare, lo quassarono più volte un'ora e più, poi mandato co' ceppi
in carcere, dove il di appresso, 9 giugno 1628 gli mandarono il me-
dico Orazio Torre, che riportò avergli trovato il polso alterato, la
lingua alquanto bianca, e perciò per allora non se gli poteva dare
tormento nessuno se grave. Si ordinò al medico: facesse tutto il
possibile per la cura, bisognando la verità da quella bocca. Questo
il venerdì 9 giugno. La dimane fu ripresentato al curiale, e continuò
a negare. Si attaccò alla fune. Darò in succinto il più notevole di
quel martirio ora per ora.
Ora prima. Soròeso : Ohimè che il mio cuore se ne va — et con-
torquebatur et diceoat — Ohimè -- et mussitabat. — Alle interroga-
zioni non rispondeva, poi — io muoio, ho la febbre, ohimè il mio
cuore. — Stette un quarto e mezzo, fu smesso, poi ritorturato — Pò-
situs ad tormentum vigilie. — Tremava, si lamentava, gli fu dato un
confetto e un uovo fresco, e gridava : — Non è sveglia, ma corda,
ohimè mi sento mancare il cuore — interrogato, sempre rispondeva:
— Io non so niente, questa è corda, è insopportabile ; misericordia !
non mi fate morire a questa maniera.
Ora seconda. Se le hanno inventate queste cose. Vorrei che mi
desse sveglia che questa è corda, non posso far il passo.
Ora terza. Eguali lamenti ed eguali domande. Gli si porgono
sorsi d'acqua di cedro. — Sanno la mia vita, non ho mai pensato a
queste cose; l'Ansaldo non l'ho veduto. Ho la febbre io; ho patito
tanto con manette e traverse. — Il medico Torre che finita l'ora primft
era uscito, ritorna chiamato in mancanza d'altri, e il vede ip tremiti.
Ora quarta. Il medico non s'intende di questi tremiti. Viene il
chirurfi^o Falcone, il quale trova alterazione de' polsi delle tempie,
cessa il tremore. — ■ Si può continuar la tortura senza pericolo aella
vita. È notevole, che due già erano morti, e ne diremo.
Ora quinta. Resta il Falcone e si continua ; si muta al banco il
notaio. Si presenta un uovo al paziente ; ei chiede da bere. Gli danno
l'uovo a sorbire e vino diluito. Chiede perchè non gli empirono ì\ gotto
(il bicchiere), e gli porgono un cedro. Egli ripete: da bere, e cessi lo
strazio : — la verità l'ho detta, Ansaldo non l'ho veduto.
Ora tetta. Gli si dà acqua e vino ; ma ancora vuol bere che il cuor
'li scoppia — ancora. Gli porgono un altro cedro, e lo rigetta. — Ho
a febbre, non ho complessione da sopportar questi tormenti, ho sempre
atteso alle lettere;
fj
PROCESSO DI STATO OONTBO GIULIO VACHERÒ ^73
Ora setiima. — Io non pc«8o più; datemi da bere. — Sottovoce ri-
prese più volte : da bere ; e si raccomanda a Dio.
Dalla settima alla duodecima ora lamenti , sete e porgimento
d'acqua, qualche spicchio di cedro, qualche uovo. Finalmente do-
manda confessore se ha da morir ivi ; e sempre si angoscia che il suo
cuor se ne va. Il medico Torre visita il paziente : ~ non c*ò febbre, e
si può torturare.
Si risolveva alla tredicesima ora perchè soddisfi a pressioni di na-
tura, ma si ripone al tormento. — Io non ho mai sentito parlar di con-
giure e non ho mai parlato di congiure. — Poi disperato : -r Io mi
refaro a quelli che mi hanno accusato ch'io fossi presente ai suoi
ragionamenti di quei che mi hanno accusato. — Che bisogna ch*io
dica quello che non ho fatto, e confermo tutto quello che hanno detto
quelli che mi hanno accusato, cioè che Pomari e Vacherò dicono che
io era presente quando dicevano che erano soddisfatti male della Re-
pubblica, per conto delle sberrettate, e mi reiero a quello che hanno
detto, e mi levino da questo tormento. Dicevano di volere andare a
Banchi a vendicarse. Io dico che io non so di congiura alcuna. —
Deinde et se diwit: scrivete che ho parlato coli' Ansaldo, e che mi
refero a tutto quello che sono stato accusato, che cosa vogliono da
me, e mi vogliano levar da questo tormento, che io ho detto quanto
posso e quanto so. V. S. vuol ch'io dica che io ci ho parlato ; se non
è vero, corpo del mondo, che cosa vogliono, se mi refero a quelli
che mi hanno accusato!
Ora quindicesima, — Io non ho fatto altri ragionamenti coir An-
saldo e cosi confermo. -> Chiesto del colloquio fìra lui e l'Ansaldo :
Ha trattato di vendicarsi delle ingiurie ricevute a Banchi e S. Siro
e del modo di liberarsi della Repubblica.
Ora sedicesima. Non per questo fu tolto dal martore ; gli fu dato
a bere.
Ora diciasettesima. Mi levino dal tormento perchè è il tormento che
mi fa parlare, mi faccino levare.
Ora diciottesima. — Io mi disreno, non posso più. — U chirurgo
lo visita : lofio gueret aliquaiUulum suffuse rubere. — Comincia a sudar
la fronte. Con grande voce: Ohimè il cuore mi vien meno..
Ora diciannovesima. Toma a dir che il tormento gli fa dir quel
che non sa; si lamenta del ventre, del cuore, del capo e trema. Do-
manda da bere, e gli si nega se non confessa.
Ora ventesima. Sudori al capo; toma a chieder da bere, e di nuovo
gli si nega. Ne richiede al sig. Tommaso Chiavari, e ne ha.
Dall'ora ventunesima alla fine della ventitreesima continuo lamento,
e sete che si fa più e più incomportabile. Il Falcone stette tutta la
notte presente ; alla fine a 20 minuti dopo la ventesima terza ora di
tormento trova che le forze non sono ragionevoli, e fa pronostico dì
qualche pericolo. — Et cum dissolveretur et brachia coaptarentur,
nullam vocem, aliumve doloris argumentum prceter quam oris rictum
edidit, et sic mansit per quadrantis plus minus intervallum. — Q4i
si presenta il confessore, ma egli lo allontana coi cenni. Dopo un'ora
e mezzo di fomenti apprestatigli sul luogo dal medico e dal chirurgo
riha i sensi.
Il giorno 13 fu trovato con maggior febbre che il dì innanzi. Non
può torturarsi. Nel di 14 ricondotto al banco, protesta di n(m voler
474 EITISTA CONTBMPOBANKA
essere convinto, per ciò che disse sotto il tormento. Quel che disse
seppelo in pri^one. Ratifica tutto quello che disse, fuor quello di che
lo accusarono Fomari e Vacherò, e nega ciò che disse nel tormento
dalle ore 13 alle 15 inclusive : fu rimesso in carcere, e vi stette sino
al 14 di febbraio 1629, in cui fu condannato a 30 anni di relegazione
in Corsica, e restar poi bandito dal dominio Genovese, e non uscì di
stretta che data fideiussione di ottomila scudi d'argento.
Non fu solamente Gian Francesco Rodino che svelasse la con-
giura, ma anche il genero suo Francesco Bertora capitano ; il quale
per via di un Nicolò Marcone era stato dal Vacherò e poi tornatovi
invitato da lui. Bertora aveva lasciato il suo in Piemonte e venuto a
servir Genova; ma delusa delle grandi speranze. Vacherò gli comunicò
un di che voleva consolare il duca di Savoia di una galera che aveva
perduta, e Bertora accennando la venuta d'una de' Cattanei la diceva
subito prendibile, non intese la metafora, ma Vacherò gliela chiarì:
Carlo Doria e molti altri gentiluomini erano assenti ; sé aver séguito,
bisognava ammazzare i nobili tutti dappertutto, aprir carceri e ma-
gazzini; perciò macellatori si chiudereobero da lui Vacherò e da
Fomari, e in Palazzo s'insinuerebbero con armi coperte. Vacherò
oltre 150 bravi contava su 50 di Polcevera ; mostrò patente di colon-
nello savoiardo a cento scudi il mese sottoscritta Curio Emanuele^ e
un'altra aveala data a un Sartorio. Diede al Bertora cento scudi per
trovarsi 25 uomini, ed ei li trovò. Egli Bertora e lo scuocerò suo
Rodino avrebbero ad assalir le porte del Palazzo intanto che Vacherò
e un Rufo si sarebbero messi a Banchi aspettando Zignago medico
e chirurgo co* suoi ottanta, Fomari e Consigliere (altro mandato dal
Duca) assalterebbero i Collegii, e il dì essere doveva o il mercordi
0 il giovedì di Passione. Il principe Vittorio doveva giungere con
1500 cavalli a Varazze, il prmcipe Tommaso con 3000 fanti e 500
cavalli : Vacherò e Fomari fra pistole, pistoni, archibusi avevano più
di 200 bocche da fuoco e sei barili di polvere ; Zignago pistole e da
70 od 80 petti di ferro. Si otterrebbe libertà o si farebbe il Duca re
di Liguria. II Rodino andò col Bertora dal Vacherò, udì confermarsi
il disposto; cento persone in quattro squadre armate di pistole corte
s'impossesserebbero della porta del cortile del Palazzo, uccidendo i
tedeschi di guàrdia e chiunque opponesse difesa su per le scale e il
colonnello che sta alla porta del magazzino, fingendo dargli una let-
tera ; n[iassacrare i Collegii, gittarli dalla finestra, prendere l'arme-
ria, gridar San Giorgio e Popolo e libertà^ annientare i nobili a Ban-
chi. Il resto come depose Bertora. Stupito andò pel Doge e si condusse
come narrò poi il Della Torre.
Non si hanno indizii forti che la moglie di Vacherò sapesse ciò
che macchinava il marito ; i famigliari giovanissimi non furono con-
cordi coi famigliari adulti, nelle deposizioni di essi stessi e della
signora. Un ragazzo di quattordici anni depose che né Vacherò né
la moglie osservavano la quaresima, e quella mattina dell'arresto
non v'era pesci; la cuoca invece giurò che altro cuciniere non era
che essa in casa, e che la signora Tum faceva la quaresima intera» ma
oggi la fece cVera giorni santi. La Ippolita figliuola del Capitano
Reba, moglie del Vacherò, dichiarò che a pranzo aveva capponi,
torte dolci e pasticci. Anche nelle disposizioni delle parti della casa
non sono molto concordi, né la moglie lascia credere che il marito
P11OCBS0O DI STATO CONTRO OltTLIO VACHBBO 476
in nulla si confidasse in lei. Lo suocero ignorava della congiura,
ma insospettitosi di qualche cosa, e saputo che il Vacherò era stato
a Torino, sebbene il neg^asse, fortemente l'ammonì. I signori della
Repubblica il conoscevano fedele e savio, ma pur l'arrestarono e se
il rilasciarono di curia fu per confinarlo in casa poi nel convento del
Carmine, e dopo tre dì liberato, ma con sigurtà d'altrui. Allora
molti altri corsero a denunciare e il Rufo tra essi a prendere l'im-
J munita e a notificare i nascondigli di Vacherò per le armi. Il Reba
ù riesaminato in luglio il dì 14, e il 9 di agosto si discusse se si
doveva dargli la corda, come proponeva il Doge, o che si difendesse
come proponeva altri, o che desse altra cauzione a ricomparire toties
quoiies. Il primo partito non fu approvato ; le due votazioni succes-
sive andarono vuote. Fu il 6 settembre definito che ne dicessero due
giuristi col Della Torre; e fu definito che si torturasse se resistesse
alle asserzioni di un Grandino. Per buona ventura l'accusatore no-
minò un androne segreto in casa di Reba, e nella costui casa non
erano androni segreti, uno era ma-esposto. Tuttavia al povero Reba
si minacciò il tormento. — Son qua, rispose; ma avvisò di essere
assetUUoy aver due volte avuto il mal francese, patir di paralisi,
né valersi del braccio -sinistro; ciò dire per non lasciar la vita nei
tormenti : del resto facciano loro. Lo legavano e intanto l'interro-
gavano della verità, ed egli rispondeva d'averla detta; onde si
cessò il legare, lo rivestirono e lo riposero in carcere; non passato
di nuovo il partito di dar sigurtà, per comparire toiiee q%otie$ posto il
dì 7 ottobre, passò poi il 17 in cui fu rilasciato mediante sigurtà
data di diecimila scudi.
Le figlie e le mogli furono tenute contro i padri e mariti ; nes-
suna fuor dell'Ippolita si condusse meglio per non danneggiare
alcuno ; potè contentarsi di prestar sigurtà di quattromila scudi che
le fecero Lazaro Ansaldo e Francesco Saporiti e ritirarsi nel Carmine.
Molto male furono trattate le serve e i servitori che parevano simu-
lare ignoranza di ciò che in casa de' loro padroni accadeva.
Così Angelo Atanasi da Scio di 45 anni d'età e da 9 mesi domestico
al Vacherò e alla sua signora, spenditor di casa fu posto due volte
alla tortura. La prima volta si voleva sapere chi il Vacherò avesse
ospitato in casa propria. Il chirurgo lo trovò rilasciato alla parte
destra, gli pose il braghi ere dicendo ; si può con sicurezza venir al
tormento della corda o altro senza pericolo. Non valsero proteste, scon-
giuri, gridori, invocazioni della Vergine ; gli si misero le tavolette
ai piedi. Strepitava e malediceva, domandava a Dio vendetta; gli si
applicarono le traverse, poi legami di sedici libbre di ferro ai piedi, e
proclamava di nulla sapere ; e il processante lo rimproverava di per-
tinacia e lo faceva levare in altOv Stette un'ora lassù in quel modo
raccomandandosi l'anima, e Luca Pallavicino era presente; più volte
si scosse, null'altro disse, e calato fu rincarcerato il 17 aprile 1628.
Dopo tre fillomi è ritornato al tribunale, ode le deposizioni della Pa-
drona, della serva, del Rufo e d'altri, e nega. Riposto alla tortura
sclamava ch'era rotto, guasto, aperto che gli cadevano le intestina ;
si raccomandava alla Vergine di Loreto, a S. Bernardo, a S. Elena
gloriosa, ma non contentava il giudice. Dopo un quarto d'ora il chi-
rurgo gli stringe il braghiere, e il birro lo mette al tormento delle
vifUie. Nuovi Lai ! nuovo refrigerio di un quarto d'ora, e rimesso al
^6 RIVISTA OOKTBKPOEÀNBA
tormento domandaya a Gesù Cristo aiuto p&r quéUi poveri stracci di
flglimoli ; era padre di tre maschi e di una femmina. Alternò silenzio
e lamenti e finì per dolersi di calunnie della cameriera, e dire che
l'ospitato parlava lombardo, e altre cose, ma al giudice non bastava.
Passò nel tormento la seeondaj la terzay la quarta ora, la quinta^ la
sesia ; si cambiarono d'assistenza il notaio, il consultore, il commis-
sario e nulla usci d'altro che si chiedeva di certe armi che Vacherò
aveva nascosto in casa di un camallo (fÌEuschino), senza che il camaUo
ne sapesse. Il tormento lo pose in sete ; chiese ed ebbe a bere ; nella
settima ora ebbe un po' di vino diluito, un po' di confetto^ un po'
di pane intriso di vino ; nell'ora ottava dolevasi che il vino Y aveva
ammazzato^ richiede acqua che non si dà, gli si danno in vece ime
ciliegie \ finalmente nell'ora nona il chirurgo gli dà acqua; ne chiede
ancora, gliene porgono aliquantulum, poi nuovo vino, e cosi fra acqua
e vino, e pane intriso nel vino passarono tutte le ore dalla nana
alla quattordicesima inclusive , sempre protestando che null'altro
sapeva, che la verità l'aveva detta, ch'era straziato, morto, tradito.
NeUa quindicesima diede la testa nel muro, ma non fu male e parve
poi ammutito per quella e per la successiva. Accusò male al ventre,
e due ore passarono mute, e mvC altra fra lamenti dogliosi ; poi due
altre ore di silenzio cupo; indi nella ventiduesima ora domanda di
essere mandato in galera.
kXCora ventesima terza fu sciolto per necessità di natura. Chiese
un confessore, e gli fu dato a bocca un uovo cui sputò fuori. Dopo
un quarto d'ora riposto al tormento: il cuor mi scoppia gridava,
chiamatemi un confessore. — Poi bevuta acqua supplicò di essere
slegato che confesserà; slegato depose che in mezzano del Vacherò
era il Femari, messo a sedere su una* sedia manifestò il nome del
facchino ed era l'ora ventesima quarta e continuava contando di tut-
t' altro che di ciò che i commissarii, che in quel lungo strazio si erano
mutati più volte, volevano sapere, onde fu riposto al tormento delle
vigilie. Dopo mezz'ora chiesto e avuto vino e pane intrìso di vino
schiccherò una filza di nomi ; insomma andò cercando quello ch'egli
0 non sapeva o non voleva dire, e coloro volevano che dicesse. Fi-
nalmente fu sciolto, radduttato nelle braccia e rimesso in prigione.
Sabato mattina 22 d'aprile il chirurgo Falcone viene al banco e dice :
€ Hier mattina, conforme l'ordine di VV. SS. lU.me, io visitai
Angelo Atanasi, che aveva avuto il tormento e gli trovai il polso con
buona forte (?) e perchè si lamentava essere alcuni giorni che non
aveva avuto benefizio di natura nell'evacuazione di corpo, subito per
ordine di VV. SS. Ill.me li feci porre un serviziale, quale fece assai
presto opera e mi partii non avendo altro sospetto di lui, che d'aver
veduta 1 evacuazione biliosa, la quale argomentai nascesse dal troppo
bere e d'aver lo stomaco per ciò disordinato; li ordinai un fomento sto-
macale di vino e di altre composizioni, quale per ordinario in casi si-
mili è solito di essere di giovamento. Ho poi questa mattina di (ardine di
VV. SS. Ill.me veduto il cadavere di detto Angelo che ho rìconosciuto
benissimo essere ristesse, né posso congetturar altra ragione di caso
così inaspettato, eccetto che le dette disopra, eccetto se per il tor-
mento fossero state offese le parti principali. Questo è certo che
quando lo vidi non vi era da temere queste cose e phe in detto ca-
davere non vedo alcun segno di veleno.
PB0CB8S0 DI STATO OONTBO OIULIO VACHBRO 477
Aggiunse il famiglio della carcere : < Hier mattina nell'esamina-
torio, dopo messo dal barbiere il serviziale, lo coricò sopra due stra-
ponte e dandogli qualche cosa per giunta come gli fu detto >. A de-
sinare gli si diede una scodella di fldereti (capellini) ; mangiò solo
due cucchiai o poco più e partito il carceriere li vomitò. Stette tutto
il di con buon animo e forte, e prese dal famiglio i garetti (spicchi)
che gli porgeva di citrone (cedrone) e le cerase secche. La sera a due
ore prese due uova e due Rotteti d% vinoy poi chiese acqua che quel
vino gli àbbrucda^a il cuore. Non avrebbe poi fatto altro che bere.
Verso le ore sei il famiglio s'accorse che il carcerato cambiava di oo«
lore e d'occhio. Atanasi domandò il confessore e il famiglio data
una picchiata alla porta avvisonne il carceriere ; ma mentre il con-
fessore veniva F infelice spirò, ed è quel cadavere, aggiunge, che ora
giace neU'esaminatorio.
Chi portava ì carteggi da Torino a Genova e viceversa pare che
fosse un Ballarini y egli diceva essere venuto a Genova ma per com-
prar cavalli. Lo collarone il 16 d'aprile 1628 e forte lo quassarono,
e il Falcone assicurò che poteva tollerare qualsivoglia tormento, onde
gli misero le tavolette ai piedi qua pedes ad invieem dis^tmgwUur^ ma
nulla per allora poterne cavare che pianto, scongiuri, lai e gridi alti,
e protesta ch'era andato per comprar cavalli. Dopo trentasette minuti
fu calato e ricarcerato. Dopo undici giorni, il meroordì 26 ainrile ri-*
compare e confessa che per Pra, e Varazze, e Nizza della Paglia andò
a Torino, e aveva tre cavalli. Aveva veduto Vacherò e Ansaldo e
col Vacherò era venuto a Genova, e continuò a dar notizie di viaggi,
ma negò di aver portato lettere e tortiò sul commercio cavallino. Fu
messo alla colla ;> elevato si fece calare promettendo la verità, ma per^
che non disse quello che si voleva, fu riattaccato e rialzato. — Di
che venisti a fare? —Non posso parlare e tacere, la verità, l'ho detta.
Non parendo che la fune giovasse, fu posto alle vigilie ^ visitato
dal chirurgo Falcone, che lo dice sano. Il paziente nega, prega,
geme, confessa di una lettera portata e tutto in un tratto con g^rande
voce implora misericordia, confessione, un prete. Il lasciano dire, e
chiede a bere, gliene porgono ed ei non beve, fece come un atto di
sputare e non potè, die un tremito e protestò di aver detta la verità.
Così finì la 'prvma ora. Gli si domanda che conteneva la lettera, ed
egli tremando pronunciava sotto voce le parole Jesus, Jesus^ dava se-
gni negativi col capo e taceva. In quel tormento e in quel silenzio
stette altre quattro ore ; vedendolo patire gli offrirono a ristorarlo un
confetto, ma egli non l'accettò; continuo sotto voce lam^itavasi e
tratto tratto: Gesù la verità l'ho detta. Chiesto nella sesta ora un po'
d'acqua gli offerirono edulio con tuccaro^ o confetto ; che cosa fosse
quella sostanza non è detto dallo scrivano, ma il paziente saggiatolo
il respinse da sé, lo sputò e risputò dicendolo tossico. Si rinnovava il
conforto dei condannati giudei ? — Mi si apre lo stomaco, sclamava,
la venta l'ho detta, aspettava l'armata per Veltri. Son morto.
Fra la ottava^ la nona, la decima ora non fu che un lamento e do-
mandar prete e confessione e dire che non ne poteva più, Si mandò
per prete e per chirurgo ed egli mussitabat assidue: confessione.
Venuto il chirurgo, il Ballarino pronunciò : mi sento il cuor man-
care. Venuto il prete, si pose il paziente in una sedia e parve sve-
nire, fu asperso d'acqua, e rinvenne; ma il chirùrefo opmò che si
poteva rimettere al tormento. Così finì l'ora undedma*
478 . RIVISTA CONTBHPOBANBÀ
AW undecima, — Vuoi due uova ? — Ne prese una , sciolta un
po' la corda, e un poco bevve ; poi ristretto e di nuovo interrogato :
Che volete che io aica, io non ne posso più.
Alla dodicesima : Chiede a bere, si duole del tormento che gli si
dà ; se avesse ammazzato alla strada, diceva, non tanto gli si darebbe,
in Barberia non si fanno: Tutto quello che ho veduto e saputo l'ho
detto.
All'ora tredicesima riceve una ciliegia inzuccherata e da bere,
ma si inumidì appena le labbra e gridò sempre misericordia. Alla
fine della quattordicesima e al corso della quindicesima rivisato dal
chirurgo, e abbeverato; abbeverato alla sedicesima e datagli altra
ciliegia confetta; alla diciaseltesima parve assopito e non rispose;
alla diciottesima e alla dicianovesima ardendo di sete elbc più volte
a bere. In tanto digiuno e in tanto tormento fra la vcnteHma ora e
la ventunesima tornò a chiedere da bere, e il chirurgo gliene negò,
gli concedette un'altra ciliegia e un po' d'acqua alla ventiduesima^
trenta minuti dopo la quale il povero uomo fu deposto « sai vis et
reservatis juribus fisci quibus per predicta deposi tiene non intendit
aliquo modo preiudicare et cum reservatione facultatis procedendi
centra constìtutum et alia juris remedia ecc. t fatto acconciare fu
rimesso in carcere. Inutile dire che in quella crudeltà si mutarono
più volte i commissarii, e gli scrivani.
Il 2 di maggio presentossi al banco Francesco Ravano carceriere
e dà avviso che il Ballarino il quale la sera innanzi era stato visitato
dal magnifico (a Genova per accennare a medici tuttora nella plebe
si usa il vocabolo di magnifico : si5 magnifico, signor medico) Orazio
Torre, e aveva avuto il brodetto ed era stato lasciato senza sospetto,
era morto. Fu chiamato il Falcone, e si volle sapere della cura dopo
il tormento e della causa della morte; quasi che dopo il caso del-
l'Atanasi non la potessero vedere essi stessi quei crudi. — Il Fal-
cone più duro di loro rispose: « Secondo l'ordine di VV. SS. lUu-
€ strissime ho visitato ogni giorno d"" Ballarino, fattogli le unzioni
€ al petto e tronco e braccia che si accostumano, ed anco ordinatogli
« il vitto conforme si richiedeva, e mi meraviglio del caso seguito,
€ andava sempre migliorando con diminuzione di febbre , perciò io
€ non posso sapere precisamente da che sia nato questo accidente.
€ Conviene però dire che sii stata offesa qualche parte principale in-
€ tema: e se VV. SS. IH. lo comanderanno ne farò volontien Tespe-
« rienza coli' aprirlo ». Non fu dato altro ordine. Dopo questa seconda
prova d'assassinio i Commissarii mutarono di chirurgo? No; avevano
bisogno di crudeli ed egli focevaper loro. Rallentarono i tormenti?
accorciarono almeno il tempo del tormentare? No, gli Statuti davano
I)roibizione di oltrepassare il continuo di 24 ore, e vollero osservar
0 Statuto ma non perdere un minuto del loro feroce diritto e se ne
vide nella tortura del Martinone che pur era di classe distinta, e nel
1625 era stato capitano de' serenissimi collegi, il quale se non 9»gui
Atanasi e Ballarino dovette ringraziarne la meno faticata natura e
il suo fisico più sano e meglio nutrito, ma stette assai male. Nessuno
oltre questi tre fu si lungamente tormentato, ma aspramente tutti,
e non brevemente quasi tutti, onde sa Dio quello che di vero depo-
sero. Poiché il mejg^lio de^li indizii, e molte spontanee deposizioni
avevano costretto i più rei a confessare. Non si poteva risparmiare
MtOOBSSO DI STATO CONTBO GIULIO VACHBRO 479
tanto strazio? QuegFìmpauriti non erano saziabili che dalla vendetta,
che li aveva impietrati. Appena si commossero, ma dopo lunghi scon-
giuri di Giulio Cesare Vacherò e dopo che fece confessione di tutto
il suo operato e compromesso molti, e concedettero che anziché im-
piccato fosse decapitato , come avvenne in aula palata rotalis prima
junU ad gallicinum expoHiis subinde ad auroram cadaveribui in olitorio
foro.
Chi entra per quella porta nominata di Vacca della terza cinta
della città anno 1155, ad occidente, posta verso Borgo di Prò e cam-
mina ad oriente per via del Campo alla piazza di Fossatello, a mezzo di
Quella via, a sinistra vede una piazzettina ornata di una pubblica fontana
di tempo moderno, e un poco indietro fra Tedifizio della fontana e la
casa che guarda col suo fianco ad occidente un pilastro coiriscrizione :
Mii Casaris Vacherii — Perdiiissimi Aominis, infami memoria — Qui
cwn inrempuMicamconspirasset — obtruncato capile ^ publieatis ionie —
diruptague domo, debitas poenas — luit — anno salutis mdcxxvui.
Carlo Girolamo Botta nella sua SCoria d'Italia in continuazione a
quella di Guicciardini professa di avere la relazione del Torre e fa
una coloratissima dipintura della congiura, più che il Torre non fece,
chi guidò i forestieri per Genova e citò il Botta; qualche cosa ag-
giunse di proprio ; reputo che per mettere le cose dove le lesse il Torre,
bisogni rifuggirsi a questo processo da cui il Torre ebbe il fondamento
della narrazione.
Un birro insospettito degli arresti a fare e per nome Erminio,
dicono, avvisò il Vacherò che prese la fuga, ma il processo nella depo-
sizione di Bertora dice lo Spezino bargello avverti il consifi^liere (che
era ito col Bertora a Palazzo) di aver le sue carte in regola e stesse
avvertito perchè certamente si doveva fare qualche gran cattura,
perchè a lui era stato dato ordine che non si dovesse partir di palazzo
con tutti i suoi birri. Dal processo s'intende perchè Vacherò fug-
gendo voltasse a Becco. Ivi era una sorella di Cfompiano ohe lui ac-
compagnava; la quale ebbe tre scudi e fornì pane, ova, pesci salati,
ed olive ad essi che si erano ritirati verso il monte, e la mattina
pane, vino, uova, carciofi e cedri: la sera chi voleva andar verso
Torriglia e chi verso Genova; la mala notte li spinse a Genova. Nel
processo è che Giangiacomo Ru£fo non era salvo per la impunità
procurata dal padre suo che diede il Vacherò in mano ai birri, ma
per palesar che faceva tutto quello che sapeva e perfino i nascondigli
della casa che da poco tempo il Vacherò aveva fatti costruire. DeUa
morte dell' Atanasi quasi sotto il tormento nulla disse il Botta, né del
bando contro il Marti^none,' né della miseranda fine di Ballerino ,
né della decapitazione del Grandino e di Giambattista Bianchi, e nella
fuga di Giannantonio Bianchi non mette il Bianchi Annibale né i
Savignoni anch'eglino dannati nel capo in contumacia, né che l'Ata-
nasi fu condannato, sebbene morto, il 27 di maggio 1628 nella con-
fisca, de' beni, e i maschi de' condannati banditi dallo Stato, né delle
minori condanne di un Chiappe a 40 mesi di galera, di un dragò
alla relegazione per due anni in Corsica, e con sigurtà di dugento
scudi per l'obbedienza; di Ambrogio Melia relegato per un anno
alla Spezia, dell' Assereto relegato in vita al presidio di Bonifazio.
Rodino e Bertora non uscirono di Palazzo che il 2 di giugno, morto
il Vacherò.
480 WVISTA COKTBMPORANBA
Oiovò agli appetitosi di congiura questa vendetta? Nob ostante
che si creassero vigili gl'inquisitori di Stato, altri o tristi o dementi
furono e con fine infelice. Lo Stato non mutò, ben perdette le forze,
e se ne accorse allora che la città fu bombardata da Luigi XIV che
la prese sicura alla sprovvista, e vide il proprio doge inchinarsi nella
reggia di quel re ; se ne accorse poco più di un secolo dapoi alloca
che sfinita cadde come tutte le vecchie libertà d'Italia. Farebbe un
libro utile chi scrivesse di tutte le congiure genovesi, le cagioni vere,
e le pretese, e i mezzi usati, e i fini a cui erano dirette, e a quali for-
tune ite. Poco è di stampato della repubblica popolare e molto del-
Taristocratica, ma resta ancora nelle Biblioteche sufficiente materiale
all'uopo. Testé il chiaro Agostino Olivieri, bibliotecario diligentissimo
dell* Università di Genova, dopo aver dato in luce un catalog-o illu-
strato delle carte storiche di quello stabilimento (Genova, Sordimtiti
1855) diede fuori la Congiura di Gian Luigi Fiesco descritta da Lo-
renzo Capelloni annotandola e corredandola di Documenti, narrazione
di grandissimo valore per le notizie peregrine e da molte altre che
conosciamo differente, di dettato buono per istile e per ling^ua (Ge-
nova, Beuf editore, Sordimuti 1858) , e ora sta pubblicando un vo-
lume e delle Discordie civili dei Genovesi nell'anno 1575 descritte dal
Doge Giambattista Lereari, a rendere ben chiare e intelligibili le
quali, fece alla narrazione seguire le lettere di Matteo Senarega e un
capitolo di questo ambasciatore all'uffizio della guerra, certi parti-
colari di Odescalchi in Senato, con un discorso sulle condizioni politiche
della Repubblica dell'ambasciatore Sauli e la risposta che gli fece
Leonardo Loroellino in favore della nobiltà nuova; poiché quegli,
spagnolesco, stava per la vecchia ; quella risposta, che può con assai
fiducia di non essere reputato in fallo, portar lonanzi per bell'esempio
di eloquenza politica o parlamentare, meriterebbe di girare per le
città che amano gli studii della dialettica nelle trattazioni della pub-
blica utilità ; al cui merito non si elevava la proposta del Sauli, né
la pia risposta si eleva che ha voluto fare al Lomellino. Altre cose
aggiunse sul soggetto istesso : un sommario del Decreto del re di
Spagna, 19 dicembre 1575 per l'annullamento degli assensi fatti dal
14 novembre 1560, onde si scossero le fortune usuraie de' Genovesi ;
alcune lettere al prefato Senarega a Roma ; una di Ottaviano Cat-
taneo a Marco Merello per consigliare l'osservanza degli Statuti del
1528; una di Oberto Foglietta, l'isterico illustre, al cardinal Morene
scritta per ordine della Repubblica non ostante le memorie date dal
Senarega; una di Giannandrea Doria al Sauli per dichiarare la sua
opinione che il Governo deve essere nella concordia de' partiti e che
un solo di essi non possa stare in seggio e ma chi voglia attendere
€ alla vera salute della patria convengti aver principalmente di mira
€ a che alcun cittadino, sia di che ordine si voglia^ non possa essere
€ escluso dal Governo, e specialmente quando si tratta di persone
« principali per nobiltà, per ricchezze e per virtù ». Con questa in-
tenzione de8id(?rava gli onori ai nobili di S. Luca e la loro parte di
attivo nel governo ; il che fa grande riputazione a quell'egregio cit-
tadino, contro il quale scrittori di partito lanciarono accuse non cer-
tamente gravi, certamente non presumibili. L'edizione non è ancora
finita, sebbene incominciata l'anno 1857 dal libraio Garbarino coi tipi
di Belgrano in S, Pier d'Arena; prima che si compia spero che pub-
BROCBSSO DI STATO CONTRO CHULIO VACHERÒ 481
blichi le statistiche lasciate dallo stesso Senarega, e che, come erano
tutte queste cose date dall'Olivieri, sono inedite.
Questa è nobile suppellettile al lavoro che mi parrebbe degno si
assumesse da alcuno per illustrare certe inclinazioni di spiriti in certi
luoghi e indagarne filosoficamente le ragioni. Delle quali quanto
della bella fioritura del dire a cui prestavano occasione, tanto non
assunse cura il Botta che pure Tavrebbe potuto, né avanti lui, o
dopo lui chi scrisse delle istorie della Repubblica, quasiché gli umori
di quel popolo fossero come gli umori di un popolo qualunque, e sono
anzi diversi molto e forse da originarie cagioni continuamente mossi,
singolare fenomeno in tutta la costiera italica dei due mari, non re-
g^ribile da che s'interpose governo che avesse facoltà dai cittadini,
erto non fiacile compito sarebbe per riuscire perchè i partiti politici
cuoprirono della calunnia il vero de' contrarli per esaltare la pro-
pria virtù e togliere la fede agli avversi , ma a chi diligentemente
cerchi nelle biblioteche pubbliche e nelle private e negli archivii
(che ora per ventura) dalla Città e dal Governo si vogliono ordi-
nandi, può essere lungo, ma riuscibile ad ottimo fine. Auguro che
qualche liberale e attivo intelletto questo pensiero faccia suo, e ponga
risblutem^btè in ktto & benefitio di 'òoloro che credono che la salute
degli Stati resta nelTa cogmzibnò della storia delle loro composizioni.
Luciano Scababblli.
&t^a C. - 31
482
RASSEGNA POLITICA
€ Une grande decéption, le cruel anéantissement d'illusions pré
sompteuses voila qud sera le trait saillant du 1862 dans les annales
de 1 histoire contemporaine >. Queste grayi ed assennatissime parole
scrisse nelF ultimo fascicolo dell'ottima Revue Contewforcme di Parigi
l'egregio pubblicista magiaro signor Hom, e noi vogliamo ripeterle
perchè troviamo aver esso grandemente ragione.
Pensò ritalia poter aver la sua naturale metropoli Roma: questo
desiderio spinse Garibaldi ed i suoi ad un intempestivo conato che il
Ministero itoliano fu costretto a reprimere, e per questo doloroso fetto
n'ebbe in guiderdone dalla Francia l'elezione a Ministro degli affari
esteri di quell'Impero del sig. Drouin de Lhuys avverso all'unità ita-
liana e devoto alla dominazione temporale dei Papi, e poscia, per sopras-
sello fìi rovesciato da quegli stessi che più biasimavano la temeraria
impresa di Graribaldi ; la sinistra che gli rimproverava di non andare
a Boma ora che s'insediò un gabinetto che meglio talenta all'antica
maggioranza, non solo non rinnova i rimproveri ma si tace e gli
raccomanda per strenna del capo d'anno di non zittire. Cosi si spegne
il 1862 evanescendo tutte le speranze concepite allo spirare del 1861.
L'unità italiana è posta in dubbio. 11 signor di La Ouerronière,
il portavoce imperiale, assunse di rimettere in campo il sistema fede-
rativo; il si|n:ìor di Prudhon gli si è fotte ausiliario. Il principe
Murat ricomincia le sue mene nel Napoletano e la coorte dei clericali
seconda Quest'impresa dissolvente; il Papa promette di nuovo isti-
tuzioni liberali !1 L'unità e l'integrità d'Italia, sospirata da secoli
al cui conseguimento si offersero ecatombi di martiri é messa in forse
pel venturo 1863.
Montenegro, Erzegovina e Serbia paesi slavo-cristiani , vassalli o
soggetti della Sublime Porta, sperarono di rompere le catene che
gli aggiogava all'islamita tataro despota. Una lotta sproporzionata
il primo sostenne, ma alla perfine ha dovuto soccombere, e la Serbia,
che aveva preteso lo sgombro della cittadella di Belgrado dal presidio
ottomano, ha dovuto chinare il capo ed assogettarsene alla conti-
nuazione. Anche per que' miseri cristiani le illusioni concepite du-
RASSB0NA POLITICA 483
rante il primo semestre di quest'anno svanirono ed il primo del 1863
li trova soggetti tuttora alla scimitarra del Sultano, più poveri, più
agitati e più infelici.
La Turchia, malgrado abbia soggiogato i suoi sudditi ribelli in
Europa e nell'Asia, li scorge sempre all'agiato di propizia occa-
sione per insorgere di nuovo. Gli ulemi incitano i credenti in Mao-
metto contro il Sultano perchè non ostile ai kafiri, cioè agrinfedeli.
La debolezza intellettuale che affligge il Sultano, mentre concorre ad
accrescere il dissesto finanziario di q[uel morente impero, lascia modo
agl'intriganti di porre a soqquadro il Seraj.
L'Ungheria cne credeva potersi svincolare dall'Austria fedifraga,
che con una resistenza passiva ma costante credeva di aver costretto il
Governo viennese di venire a patti e restituirle la sua autonomia, la
sua millenaria costituzione, non vide realizzarsi veruna delle sue spe-
ranze. È sempre nello stato precario ed incerto in cui era al primo
di gennaio loo2, né ai discendenti dei guerrieri di Arpad è dato di
nutrir fiducia che ciò conseguiranno nell'anno imminente.
La Polonia peli' avvenimento al trono imperiale di uno Czar di
cuore mi^animo e di gran rettitudine aveva sperato la riparazione
delle ingiustizie commesse a suo danno dallo Czar Nicolò I. — Illu-
sione! — Impazienti e coraggiosi come sono i i>olacchi|, tentarono
costringere il loro sovrano a restituirgli la loro indipendenza dalla
Bussia. Il knut, le fucilazioni e le deportazioni in Siberia loro ^rovò
che se l'Imperatore ed il suo luogotenente generale in Polonia, il
gran Duca Costantino desiderano amicarsi i polacchi, il partito te-
desco continua pur sempre a dirigere a posta sua il governo, ado-
perandosi non pure a mantenere ma ad accrescere l'ira e l'odio tra
quelle due nazioni slave.
La grande e dottissima nazione tedesca che nella sua nazionale
associazione aveva espressa la recisa sua volontà di costituire una
Germania forte é compatta cosi da poter dettare e non ricever leggi
dalle potenze straniere; che aveva &tto assegno sul Be di Prussia
per ciò ; che crcKÌeva poter rivendicare lo Slesvig, costringere l'elet-
tore d'Assia a ridonare al suo popolo l'antico Statuto; che racco-
glieva somme per fornire una squadra navale, vede col 1862 dile-
guarsi tutte le promesse feitte dai patrioti in Coburgo, in Berlino ed
a Francoforte. — Il Be di Prussia, non ha pretermesso occasione di
far sapere ai suoi sudditi che riconosce dovere la sua corona a Dio
e non a loro. Quello di Assia continua a negare ai suoi popoli l'an-
tico Statuto. La Baviera si è &tta campione del papismo e 1 Austria,
avversando le mene della Prussia continua ad avere la presidenza
della Dieta di Francoforte e con astuzie diplomatiche impedisce
l'adozione dagli Stati del ZoUverem del trattato firanco-prussiano. —
Di riforme di unità e di libertà per la Germania non rimarrà traccia
fìiorchò nei numerosi discorsi e negl'innumeri opuscoli dati fuori
dalle tipografie tedesche.
I Bussi credettero che il 1862 avrebbe sciolte le questioni dell'abo-
lizione del servaggio, smessa la coscrizione militare, aboliti i privilegi!
di casta , sancita la tolleranza religiosa. Decezione ! Questi problemi
rimasero per la Bussia insoluti ed anzi, stante le perturbazioni che
cagionò la decretata abolizione del servaggio, si resero alcune classi
tumultuose, altre cospiratrici, il che scorgendo gl'indomiti Circassi
484 RIVISTA CONTBMPOBANBA
tornarono h guerreggiare contro quell'immane potenza i]\eUe lyipro
gole del Caucaso. — La Russia ortodossa credeva estèndere la sua
religiosa influenza nella Grecia, Bulgaria ed Armenia ove da ìnolti
anni profuse danaro per erigervi, o ristaurarvi le basi^c^e, ojrai vede
la Grecia darsi in braccio ali* Inghilterra protestante e a migliaia
Bulgari ed Armeni tornare all'unione colla Chiesa latina.
La Grecia togliendo ad Ottone lo scettro e 1^ corona ellenica so^ò
di potere non solo annettersi le altre provincie greche, che con imnro-
vido consiglio le grandi potenze lasciarono al Turco, ma di ritare
l'impero di Bisanzio. Illusione I Potranno unire le isole Ionie che l'In-
ghilterra con atto di non mai abbastanza lodato disinteresse, è parata
a cederle, ma non sapranno comporsi a libertà ordinata. I partiti
colà sono più l'uno contro l'altro inviperiti di ciò che Io siano nella
nostra Italia. Lo spreco del pubblico danaro, l'ostracisipcio. idle più
chiare intelligenze, il non sapere chi eleggere a monarca, ovvero
se non debbano stabilire la Repubblica, tutto ciò fa si che l'anno
1863 si presenta ai greci \>en più ottenebrato e più rischioso di ciò
che non sii stato il volgente lo62.
Né si creda che la Francia abbia per lo opposto visto riuscire
ogni cosa. La guerra della Cina non toccò ancora al suo tera^ine ;
quella della Cocincina pare finita ma temesi ^ssa riardere. Nel
Messico la Francia miete gloria ma al prezzo di molti milioni e di
molte vittime della febbre gialla, e senza conseguire influenza;
anzi avendo per essa inimicato contro di sé una gran parte della
nazione spagnuola come i recenti dibattimenti alle Cortes di Madrid
ne fanno fede. Lo avere disertato la causa dell'unità italiana per
farsi campione del potere temporale del Papa e di una confe4^r^ione
di non so quanti piccoli Stati d'Italia nocque alle relazioni tra i
due paesi, raffreddò quel sentimento di gratitudine e di simpatia che
Italia ebbe sempre per la Francia e, rendendone men certa f'filleanza
in future contingenze, le toglie quella preponderanza ch'avrebbe avuto.
Oltrecciò il non prevedibile vicino termine della lotta civile che
arde ne^li Stati Uniti americani, non lascia presagire quando potrà
cessare la miseria in cui sono caduti i distretti manifie^tturieri del-
l'Impero francese. Il malcontento si fa via nelle masse popolari; i
nemici della stirpe Napoleonica soflSano discordi^; rammentalo le
perdute libertà che i Borboni avevano largite, le cresciute imposte,
il potere concesso ai preti, il sagrificio delle libertà gallicane e lo
ravvicinarsi ai principi despoti per allontanarsi dai costituzionali.
La Danimarca non ha vista la questione dello Slesyig-Holstein
fare uu passo nel decorso di quest'anno. La Svizzera perdura come
prima, e nel Cantone di Ginevra come in quello di Basilea ^jam-
pagna la costituente rigettò la nuova costituzione che si er^ pro-
posta. Il Belgio, che si era rallegrato della ripristinatft s^ute
del suo illuminato sovrano, al finire dell'anno lo vede di nuoyo in-
fermo, e la sua grave età ne rende incerta la guari^iou^. Inoltre,
malgrado gli sforzi costanti del partito liberale, i clericali dominano
sempre nel paese e v'impediscono quel progresso che avrebbe i^eso
il popolo belga il più illuminato d'Europa. La Spagne^ s'inol^r% nel
1863 più sospettosa che mai dei Napoleonidi, temendo le ^len^ li-
berali che favoreggiano la dinastia dì Braganza e non capace, fpal-
grado le condanne alla galera di chi legge la Bibbia , di n*^^re
BAS8B0VA POLITIGA 486
r efltoiisio9^e ^ pr^t^tf^tisKuo neUi^ p^^tri^ 4i s^n Domenico, q di
sani'Igpaziq.
Il For^g^Uo, cui il fìu^it^ggip del suq gioYane i^o^raaq am uiu^
figUa del ^ gldc^^tuomo, dava ^pe^pza ayce^b^ &tio pitAfi nella
vita liberarsi vede illuso da un ministero che spreq^ il ten^pp nel dis-
sepelliro Verdine equestre di S. Qiacomq che dist^ìbuiscei a pjene
mi^ni, ^a che Teletta^ dei cittadini ricusa. Il mitìiateso YÌywa e le
presagite r^iSo^imie pel 1862 so|io ita in fui[no.
Vlngt^iltefca, oltre rindescrivibile miseria da cui sonoafflitti i^can-
tii^a di cnila i li^vpj^atori in cotone per difetto di malteria pnmtt» ò
funestata nella siessa sua grandissima metropoli da bande di «traggo*
latori che nella se^ft corrono per le vie onde impadronirai di danaro
e gioie. Cqlqro che gridano cotanto sul brigantaggio nell'It^a me-
ridionale dovebbero meditigre un cotal po' s\i queste masnade di &>-
saa^ni non in località remote e cainpes^ sibbene nel enpre della
capitale di un regno dove da secoli la stampa ^ V^^ e yige. uno
Statuto costituzionale.
Questa grande Potenza durante Tanno che muqre non b^^ potuto
stringere legami di sincera amicizia colla Francia; anzi se ne staccò
nell'impresa del Messico; non ottenne che dessa sgombrasse Roma
dove sta più signora che protettrice; dove impera più dispoticamente
che non dessa nelle isole ionie : non ha potuto puntellare la Turchia
in modo da assicurarle ancora almeno un decennio di vita in Europa ;
non pervenne a sbarrare la via alla Russia di future ampliazioni di
territorio verso le Indie , né di far abortire il progetto dell'apertura
dell'istmo di Suez. Anzi ha dovuto vedere la Francia fondare un em-
P^rio nel mar Bosso, ove sta per erigervi un'altra Aden, una seconda
erim per toglierle il monopolio di quella navigazione e scorge nelle
Colonie australiche destarsi quello stesso spirito d'indipendenza della
madre patria che ne staccò i coloni nell'America settentrionale un
secolo la. Ma vi ha di più : nelle Indie di Quando a quando si mani-
festano alcuni sintomi che provano come lo spirito di ribellione sii
domato bensì, ma non ispento.
Tal è pei sommi capi l'eredità che il 1862 lascia in Europa al
suo successore.
Ora prendo commiato dai pochi ma benevoli lettori che io mi ebbi
ed ai quali riferisco le più schiette grazie della parzialità pon cui
accolsero i meschini miei conati per gradir loro (1). La benemerita
ed operosa società delVUnione tipogrìmco-editrice di questa Riviita
ch'ebbe a sottostare a grave perdita in quest'anno , causa l'esiguo
numero dei soscrittori, sospettando, e con ragione, ciò doversi forse
alla oscurità del mio nome, che aveva rattenuto il più delle nostre
celebrità dallo aderire all'invito di collaborarvi, pregò caldamente ed
ottenne che quel potente intelletto del commendatore La-Farina, ve-
. nuto in tanta rinomanza conie forbito scrittore, storico esimio, pro-
fondo pubblicista ed oratore eloquentissimo, accondiscendesse ad es-
serne il direttore, ed il fatto provò essersi bene apposta, giacché
{\) Fra questi sono i redattori dei Journal de Marchienne nel Belgio,
peli onore fattomi nel N^ del 14 co.rrente di riferire parte della mia ul-
ti oia Rassegna.
486 BITISTA GONTBlCPOBAiniA
non tosto ciò saputo Teletta delle nostre celebrità scientifiche e let-
terarie fu subitamente sollecita a proferire di dare articoli ; il perchè
la Rivista è per acquistare stragrande sviluppo e bontà cosi da
rivaleggiare e fors'anco soverchiare le meguo accreditate Riviste
francesi ed inglesi.
Io prego impertanto coloro che per benevoglienza verso di me si
erano associati alla Rivista di rinnovare la loro soscrizione, potendo
assicurarli che nei numeri venturi troveranno copia e varietà di am-
maestramenti in o^ì ramo dello scibile, vestiti delle più belle forme
di quella venustissima lingua italiana che nelle mie rozze mani ò
strumento rauco e disaccordo.
Cessando dallo scrivere verbo in questa Rivista di cui fui assiduo
collaboratore per ben nove anni , continuo peraltro a far voti acciò
il pubblico favore mantenga prospero questo riputatissimo organo
delle lettere e delle scienze italiane, sebbene i tempi volgano poco
favorevoli agli studii.
Torino, 26 dicembre 1862.
G. Yboezzi-Rusoalla.
Luigi Pomba Gerente.
487
INDICE
DRLLR lATEIlE CONTENUTE NBL VOLUME XXXI
Ottobre
<2>
Canzoni popolari del Piemonte, di CostanUno Nigra . . . Pag, 3
Osservazioni sul Beccaria e il Diritto penale, di C. Cantò, e salle
due scuole degli Spiritualisti e degli Utili tarii, di Ani, SoUmani » 34
Studii Storici e Amministrativi. — Dello stato degli Ordini e delle
Leggi di Toscana nel 1849, con lettera a Gaspara Finali, di
Enrico Pani Rossi t 59
Lo Scaricatoio di Claudio. — Interramento del lago di Fucino, di
Luigi de la Varenne » 95
DeirEpigrafia, di Francesco Dini » 122
Porti e die strato dell'Antica Liguria, di Emanuele Celesia . . » 139
Rassegna politica, di G. Vegezzi-Ruscalla t 153
Novembre
Colonia piemontese in Calabria. — Studio etnografico, di G. Vegezzi-
Ruscalla Pag, 161
Porti e Vie strato dell'Antica Liguria (II), di Emanuele Celesia . » 194
Studii Storici e Amministrativi. — Dello stato degli Ordini e delle
Leggi di Toscana nel 1849, con lettera a Gaspàrb Finali (II),
di Enrico Pani Rossi » 213
Baba-Dokia — Racconto, di Ida Vegexxi-Ruscalla » 251
Francesco Burlamacchi — Poesia , di Pietro Raffaelli .... » 286
Rassegna politica, di G. Vegexzi-Ruscàlla » 320
Appendice. — Ossenrazioni all'articolo : Lo Scaricatoio di Claudio ,
del Big. I. de la Yarenne , di Leon de Rotrou.
élse IKBICB
Dicembre
La penisola Slavo-Ellenica. — Studii statistici , di CotUmUno Voj-
novic Pag. 329
Pensieri sul Romanzo intimo italiano dopo Manzoni (II), di Luigi
DasU • 343
Begli Istituti Tecnici, e particolarmente della Sezione A(;ricola nei
medesimi , di Antonio Selmi § 376
DeirEpigrafia (III), di Francesco Dini ........... 394
Alcuni cenni sopra Modena e la sua storia, di Lodovico Boscìh'ni « i03
Di alcuni tratti e dell'intero episodio della Francesca da Rimini, di
Fr. Selmi » 430
^Processo di Stato contro Giulio Vacherò in GenoTa 1628 , di Luciano
Scarabelli • 468
Rassegna politica, di G. Vegexxi-Ruscalla j> 4b2
N. B. X pag. 316-319 occorre più volte fienerini ; leggtoi Beverini.
4
i9jm
* •
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