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Full text of "Storia del teatro San Carlino; contributo alla storia della scena dialettale napoletana, 1738-1884"

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S.    DI    GIACOMO 


STORIA 


DEL    TEATRO 


SAN  CARLINO 

CONTRIBUTO    ALLA    STORIA 
DELLA    SCENA    DIALETTALE    NAPOLETANA 


1738-1884 


Terza  edizione 


REMO    SANDBON  —  Editore 

Libraio  della   B.   Casa 

MILANO                              PALERMO  NAPOLI 

8,  Via  Casteltidardo  7,  Via  Ucciardone  Via  Roma,  57, 

GENOVA                                 BOLOGNA  TORINO 

72,  74,  Piazza  Luccoli                 Via  Poggiale.  8  Via  dei  Mille,  14 


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Proprietà  artìstico-letteraria   dell'  Editore 
REMO  SANDRON 


Offic.  Tipo8t.  SANDRON.  —  314  —  1  —  2002 1 8. 


PARTE  PRIMA 


1738-  1800 


CAPITOLO  PRIMO. 

Fiere  e  cuccagne  del  settecento  —  L'architetto  Sanfe- 
uce  —  Miguel  Tomeo,  cavadenti  autorizzato  —  Il  Set- 
tecento a  Napoli. 


I. 


«  LETTERA  di  'Paolo  Mattia  Dona,  ad  un  Amico,  in 
Genova,  nella  quale  Egli  dà  in  breve  la  Relazione  delle 
Feste  fatte  in  Napoli,  per  lo  felice  Matrimonio  della 
MAESTÀ  di  CARLO  Re    di    Napoli,  e  di  Sicilia,    con  la 

Principessa  Maria  Amalia  di  Valburga  di  Sassonia. 

Ed  in  particolare  narra  le  bellezze  della  Fiera  fatta  dal 
signor  D.  Ferdinando  Sanf elice,  nell'  occasione  dell'  accen- 
nate Feste.  » 

BEN  giusto,  e  degno  di  un  erudito,  e  sapiente  Uomo, 
qual  siete  Voi,  Gentilissimo  Signor  mio,  è  il  desiderio, 
che  avete  di  leggere  una  distinta  narrazione  delle  magni- 
fiche Feste,  che  qui  si  son  fatte  nell'occasione  del  felicissimo 

—  i  — 

DI  GIACOMO.  -  S.   Carlino.  I 


—  2  — 

Matrimonio  delia  Maestà  di  CARLO  Re  di  Napoli  e  di 
Sicilia  con  la  R.egina  Maria  Amalia  di  Walpurga. 

M' ingegnerò  dunque,  per  quanto  mi  sarà  possibile,  di 
rappresentare  alla  vostra  mente  un'  immagine  della  gran- 
dezza e  della  magnificenza  che  in  quelle  si  ammirava.  E 
se  mi  avverrà  di  ben  narrarvele,  so  certamente  che  ancora 
voi  le  ammirarete. 

Vi  piacerà  certamente  d'immaginare  una  Città  così  grande, 
così  magnifica,  com'è  quella  di  Napoli,  risplendere  come  il 
più  chiaro  giorno  per  nove  continue  notti,  e  di  vederla 
tutt'adorna  di  ricchi  apparati,  d'archi  trionfali,  di  statue,  di 
sontuosi  altari,  quasi  di  passo  in  passo,  per  tutte  le  strade 
innalzati,  in  ognuno  de'  quali  con  ingegnosi  geroglifici,  e 
con  leggiadre  poesie  si  rappresentavano  le  eccelse  virtù  del 
loro  Glorioso  Monarca.  Ma  più  che  lo  splendore  de'  lumi, 
e  che  la  magnificenza  degli  Altari,  di  Statue  e  di  Obeli- 
schi, vi  piacerà  d'immaginare  un  innumerabile  popolo  andar 
per  le  strade  e  per  le  piazze  tutt'  allegro  e  festante,  quasi 
presago  della  felicità,  che  a  lui  devono  apportare  le  nozze 
de'  due  Regali  Sposi. 

Vi  piacerà  poi  di  vedere  un  vago  drappello  di  nobilis- 
sime Dame  sovra  magnifici  e  dorati  carri  assise,  andare  a 
tributare  alla  nuova  Regina  il  loro  ossequio,  e  con  la  rap- 
presentazione di  tutte  le  Deità,  che  i  Gentili  hanno  finto 
nel  Cielo,  ingegnosamente,  e  pomposamente  insieme  atte- 
starle il  loro  giubilo  e  il  loro  amore.  Bel  soggetto  invero 
di  una  colta  e  dotta  immaginazione,  qual'è  la  vostra,  è  la 
narrazione  che  vi  ho  fatto  di  queste  feste. 

Ma  quella,  che  certamente  vi  cagionerà  stupore,  e  in- 
vidia verso  di  noi,  che  1'  abbiamo  veduta,  sarà  una  Fiera 
ordinata,  e  fatta  dal  signor    D.    Ferdinando    Sanfelice  Ca- 


—  3  — 

valiere  del  Seggio  Napolitano,  ornato  di  tutte  le  scienze, 
ma  particolarmente  dilettante  dell'Architettura  civile,  e  della 
Pittura. 

Questa  Fiera  coronò  1'  opera  delle  Feste,  e  se  mi  lice 
dirlo,  fu  quella,  che  diede  alle  feste  tutt'il  decoro  della 
sua  grandezza,  e  tutta  la  grazia,  la  quale  ne'  Regali,  e 
magnifici  fasti  deve  risplendere.  Vi  rappresentare  dunque 
prima  il  piacere,  che  si  sentiva  nell'entrare  in  quell'ampio, 
e  magnifico  Teatro,  ov'  era  epilogata,  e  ristretta  tutta  la 
magnificenza,  l' abbondanza  di  tutte  le  cose,  le  quali  si 
ammirano  nella  nobile  e  magnifica  Città  di  Napoli. 

Non  mi  darò  briga  però  di  narrarvi  particolarmente  l'in- 
gegnosa arte,  con  la  quale  1'  accennata  nobil  Fiera  è  stata 
dal  sig.  D.  Ferdinando  pensata,  e  fabbricata,  e  ciò  a  ca- 
gion  che  questa  la  vedrete  minutamente  descritta  nel  libro, 
che  vi  trasmetto,  nel  quale  leggerete  le  nobili  poesie,  che 
i  celebri  Poeti  Napolitani  hanno  fatto  in  lode  di  questa 
superba  Fiera.  Vi  dirò  solamente,  eh'  ella  era  fabbricata 
dentro  un  ampio  sito,  di  figura  presso  che  quadrata,  il  quale 
rappresentava  alla  vista  l'immagine  del  più  vago,  e  più  son- 
tuoso Teatro,   che  possa  la  mente  immaginare. 

Avea  quel  magnifico  Teatro  la  proprietà  che  hanno  in 
loro  tutte  le  cose  con  alta  idea  pensate,  e  con  perfetta 
proporzione  fabbricate,  cioè  la  proprietà  d'ingombrare  l'im- 
maginazione per  modo  tale,  che  la  mente  non  può  tutte 
insieme  unite  immaginare,  e  discernere  le  particolari  bel- 
lezze, che  in  sì  fatti  edificj,  o  Teatri  a  parte  a  parte  si 
contengono.  Ed  in  vero,  quando  in  quel  Teatro  si  entrava, 
la  grandezza  del  luogo,  l'immenso  splendore  de'  lumi,  e  la 
vastità  e  l'unione  delle  preziose  cose  in  quello  con  mirabil 
ordine  allogate,  e  disposte,  l'immaginazione  rapita  dal  pia- 


—  4  — 

cere,  e  dallo  stupore  non  dava  luogo  alla  mente  di  ben 
discernere  li  preggi  dell'arte,  con  la  quale  erano  in  quel 
Teatro  tutte  le  cose  ben  ordinate  e  disposte. 

Ma  quello,  che  incomparabil  piacere  all'animo  arrecava, 
era  il  vedere  scintillare  in  mezzo  allo  splendore  d' un  nu- 
mero innumerabile  di  specchi,  d'indorate  cornici,  la  maestosa, 
e  lieta  effige  de'  due  Augusti  Regnanti,  e  Sposi,  i  quali 
sembrava,  che  anco  in  quelle  tele  dipinti,  con  grato,  e  be- 
nevolo animo  accogliessero  i  trasporti  di  giubilo,  che  i  loro 
fedeli,  ed  amorosi  sudditi  facevano  comparire  in  così  fausti, 
e  felici  giorni,  ne'  quali  ognuno  pensava  di  poter  ravvisare 
la  futura  felicità  delle  due  Sicilie. 

Questo,  che  vi  ho  narrato,  era  il  primo  effetto,  che  nel- 
l'animo cagionava  la  magnifica  pompa  di  quel  Teatro  ;  ma 
quando  poi  la  maraviglia,  e  lo  stupore  cominciavano  a  dar 
luogo  alla  riflessione,  e  la  mente  andava  a  parte  a  parte 
contemplando  tutte  le  particolari  bellezze,  le  quali  in  quel 
magnifico  luogo  si  ravvisavano,  la  mente  di  piacere,  e  di 
diletto  si  riempiva. 

Quelli  i  quali  di  vera  proporzione  e  di  buona  architet- 
tura hanno  idea,  ammiravano  il  perfetto  ordine  col  quale 
stavano  disposte  cento  e  più  botteghe  magnificamente  ador- 
nate, e  per  un  numero  innumerabile  di  lumi,  tutti  di  cera, 
a  guisa  del  più  chiaro  giorno  risplendenti.  Quelli  poi,  i 
quali  dell'  Ottica  ben  s' intendevano,  ammiravano  i  perfetti 
punti  di  prospettiva,  con  i  quali  il  signor  D.  Ferdinando 
aveva  saputo  rappresentar  all'occhio  un  gran  numero  d'ampie, 
e  larghe  strade,  in  mezzo  delle  quali  si  alzava  una  superba 
fontana.  Ammiravano  poi  gl'intendenti  la  vaga  disposizione 
con  la  quale  stavano  ben  ripartite  le  copiose  ed  abbondanti 
merci  d'ogni  sorte,  che  in  quella    Fiera  si  contenevano  ed 


—  5  — 

ammiravano  l' ingegnoso  modo,  col  quale  1*  immensa  copia 
de'  lumi  dava  al  magnifico  Teatro,  vago  e  nobil  splendore, 
senza  menoma  confusione  cagionare.  Alla  perfine  gì'  inten- 
denti ravvisavano  in  quella  Fiera  tutta  l'arte,  che  può  som- 
ministrare la  perfetta  scienza,  e  tutta  la  vaghezza,  che  suol 
dare  il  buon  gusto.  Ma  ciò  che  è  degna  cosa  di  conside- 
rarsi è,  che  a  tutta  questa  artificiosa  vaghezza,  che  1'  Arte 
avea  dato  alla  Fiera  contribuì  anco  Iddio  con  la  sua  grazia; 
imperocché  in  tutti  que'  giorni  nei  quali  si  celebrò  questa 
Fiera,  il  Cielo  fu  sempre  sereno,  e  i  venti  spiravano  soavi, 
e  tranquilli,  onde  entro  quella  con  compiuto  piacere  si  pas- 
seggiava. Ora  io  non  voglio,  Gentilissimo  signor  mio,  lasciar 
di  narrarvi  un  poco  partitamente  il  diletto,  che  si  sentiva 
nell'  animo,  nel  momento,  che  si  entrava  in  quel  vago,  e 
luminoso  Teatro. 

Non  così  tosto  si  poneva  il  piede  in  quel  magnifico 
Teatro,  che  l'animo  si  sentiva  preso  da  una  dolce,  e  soave 
tranquillità.  Ed  in  vero  sembrava,  che  cessati  fossero  tutti 
que'  noiosi  incommodi,  i  quali  si  assaggiano  in  tutte  quelle 
Città,  che  sono  così  grandi,  e  numerose  di  popolo,  com'è 
Napoli.  In  Napoli  ad  ogni  piccola  Festa  che  si  fa  di  Chiesa, 
di  Piazza,  o  di  Casa,  l' indiscretezza,  o  per  meglio  dire 
l' impertinenza  de'  Cocchieri  cagiona  una  così  nojosa  folla 
di  Cocchi,  che  tutt'  il  piacere  della  Festa  si  converte  in 
noja,  ed  in  timore  di  qualche  infelice  accidente.  All'  in- 
contro nell'andare  a  questa  Fiera,  questo  siffatto  incommodo 
non  si  provava,  e  ciò  perchè  il  signor  D.  Ferdinando  avea 
così  bene  a  questo  disordine  proveduto,  lasciando  tutt'  in- 
contro del  recinto  della  Fiera  un  commodo,  e  proporzionato 
spazio  per  comunicar  i  Cocchi,  che  alcun  tumulto  di  folla 
non  si  sentiva  nell'andare  alla  Fiera. 


-6  - 

Entro  la  Fiera  poi  l'animo  si  sentiva  preso  da  un  sincero, 
e  tranquillo  diletto  ;  imperciocché  in  quella  vi  si  gustava, 
come  di  un  grato,  e  piacevol  silenzio,  il  quale  però  non 
impediva  il  piacere  di  ragionar  con  ognuno  ;  e  ciò  perchè 
intanto  quella  piacevole  quiete  sembrava  silenzio,  in  quanto 
che  dentro  la  Fiera  non  si  sentiva,  come  si  sente  nella 
Città,  quel  continuo  rumor  di  Carri  e  di  Cocchi,  che  as- 
sorda l'udito,  non  vi  si  sentiva  quel  tintinar  delle  campane, 
non  que'  gridi  di  una  plebe,  la  quale  invita  i  Cittadini 
alla  compra  delle  vili  sue  merci,  non  vi  si  sentivano  le 
accese,  ed  aspre  contese  de'  litiganti,  e  non  vi  si  ascol- 
tavano le  lamentevoli  querele  de'  mendicanti  ;  alla  perfine 
in  quella  Fiera  ogni  cosa  spirava  quiete,  tranquillità  e  piacere. 

Nella  città  di  Napoli  poi,  quantunque  per  il  dilettevole 
sito,  nel  quale  è  posta,  essa  sia,  a  gran  ragione,  nomata  il 
Paradiso  d'Europa,  con  tutto  ciò  il  suo  perimetro  di  figura 
lunare  reca  qualche  incommodo  agli  abitanti,  a  cagion  che 
abitano  troppo  l'un  dall'altro  lontano,  onde  di  rado  avviene, 
che  gli  amici  si  possono  l'un  l'altro  incontrare,  senza  sofferire 
la  fatica  di  far  un  lungo  cammino  per  ritrovarsi. 

In  questa  Fiera  all'incontro,  nella  quale  si  passeggiava  per 
larghi,  e  deliziosi  stradoni,  gli  amici  s'incontravano  ad  ogni 
passo,  si  salutavano,  si  abbracciavano  e  si  ponevano  in  oblio 
tutte  le  noie  che  nella  Città  per  lo  più  spesso  si  provano. 

Passeggiavano  in  questa  Fiera  senza  nessuna  distinzione 
di  grado,  e  di  condizione  le  vaghe,  e  leggiadre  donne, 
ed  i  valorosi  giovani  da  lunge  le  andavan  seguendo,  ma 
quel  che  non  mai  si  può  lodare,  alcuni  con  occhio  insi- 
dioso le  riguardavano,  altri  poi  usando  di  lor  gentilezza, 
alle  nobili,  ed  alle  civili  donne  porgevan  la  mano  per 
appoggiarle. 


—  7   - 

La  provvidenza  poi  del  signor  D.  Ferdinando,  aiutata 
dall'amore  ch'egli  possiede  di  tutti  i  cittadini,  avea  con  sì 
mirabil  arte  unite  nelle  pompose  botteghe  di  questa  Fiera 
tutte  le  merci,  le  quali  nella  Città  si  vendono  a  parte  a 
parte,  che  ognuno  ci  trovava  a  comperare  tutte  le  cose,  che 
li  facevano  mestieri  ;  l'onesto  ed  onorato  Cittadino  ci  tro- 
vava a  comperare  le  Masserizie,  le  quali  al  prudente  Padre 
di  famiglia  son  necessarie  ;  il  fastoso  e  superbo  Signore,  il 
ricco  e  vano  Cittadino,  il  Mercante  ci  trovava  a  comperare 
preziose  gioie,  e  di  strabocchevol  prezzo  ;  il  Letterato  ci 
trovava  a  comperare  i  libri  più  rari  ;  gli  uomini  vani,  e  pom- 
posi al  fasto,  ed  al  lusso  inclinati,  ci  trovavano  a  comperare 
ricchi  drappi  d'oro  e  d'argento,  vaghe  stoffe  di  seta,  vaghi 
nastri  gentili,  e  ben  lavorate  tabacchiere,  boccette  per  riem- 
pire d'odorosi  liquori,  ci  trovavano  orologi  ben  ornati  ed 
anco  tempestati  di  gioie.  Le  donne  vane  ci  trovavano  a 
comprare  le  loro  pellegrine,  i  loro  corse,  i  loro  fisciù  e  il 
loro  numero  innumerabile  di  cuffie,  delle  quali  si  servono  per 
apparire  vaghe  e  belle  agli  occhi  degli  incauti  giovani  ;  ed  alla 
perfine  la  gente  vana  ci  trovava  tutte  le  inutili,  ed  alla  buona 
economia  delle  famiglie,  dannosissime  merci  ;  e  nello  stesso 
tempo  la  vecchiarella  ci  trovava  a  comperare  la  sua  rocca 
e  1  suo  fuso,  e  la  modesta  giovanetta  destinata  a  cucire 
ristretta  entro  le  mura  della  sua  casa,  ci  trovava  a  compe- 
rare il  suo  filo,  gli  aghi,  e  '1  ditale.  La  fantesca  ci  trovava 
a  comperare  i  suoi  panni  di  lana,  e  le  suppellettili  per  la 
cocina.  Il  contadino  e  la  forosetta  ci  trovavano  a  comperare 
i  loro  contadineschi  ornamenti,  ed  alla  perfine  così  la  gente 
grande,  come  1'  umile,  e  bassa,  così  la  gente  savia,  come 
la  vana,  ci  trovava  a  comperare  tutto  ciò,  che  loro  faceva 
di  mestieri. 


-  8  — 

Quelli  poi,  i  quali  per  lo  lungo  passeggiare  si  sentivano 
incommodar  dalla  sete,  e  quelli  ancora,  i  quali  per  vizioso, 
e  dannoso  abito  di  gola  sono  accostumati  a  prendere,  senza 
aver  sete,  più  del  dovere  aggiacciate  bevande,  vi  trovavano 
un  luogo,  o  sia  Sorbetteria,  ove  si  vendevano  varie  deli- 
ziose sorbette,  e  ciccolati  freddi,  canditi,  e  cose  dolci» 
d'ogni  sorte.  Li  golosi  poi  alla  crappola  abbandonati  ci  tro- 
vavano un  luogo,  nel  quale  li  Cochi  più  periti  nella  loro 
arte  alla  salute  umana  dannosissima  li  apprestavano  esqui- 
site vivande.  E  nello  stesso  tempo  il  plebeo,  e  'I  contadino 
ci  trovava  un  luogo,  entro  del  quale  poteva  saziare  il  suo 
rozzo,  ma  sincero  appetito  con  vini,  con  le  vivande  schiette,  e 
proporzionate  alla  loro  infima  condizione  ;  ed  alla  perfine  in 
questa  Fiera  vi  si  trovavano  ristrette,  ed  unite  tutte  quelle 
cose,  che  sparse  e  diffuse,  con  non  lieve  fatica,  si  trovano 
nella  Città.  Poscia  ugualmente  ammirabile,  che  piacevole 
era  l'amore,  e  la  cordialità,  con  la  quale  entro  quel  dilet- 
tevole Teatro,  tutte  le  persone  d'ogni  grado,  e  condizione 
usavano  insieme,  poste  di  banda  tutte  quelle  vane  cerimonie, 
le  quali,  regolarmente  si  nomano  etichette,  e  per  conse- 
guenza di  questo  cordiale  costume  in  questa  Fiera  vi  si 
provava  tutt'il  piacere,  che  può  all'animo  apprestare  la  cor- 
dialità e  nello  stesso  tempo  la  pompa,  la  magnificenza,  il 
commodo,  e  la  vaghezza  insieme  unite.  Per  quello  poi,  che 
a  me  s'attiene,  vi  dirò,  Gentilissimo  Signor  mio,  che  io 
godevo  nel  contemplare  la  mirabil  arte,  con  la  quale  quel 
Teatro  era  stato  dal  signor  D.  Ferdinando  ideato,  e  fatto 
eseguire,  godevo  poi  più  di  ogn'altra  cosa  nel  pensare,  che 
di  tante  belle,  e  preziose  merci  in  quella  Fiera  unite,  io 
non  ne  avevo  alcun  bisogno  ;  e  ciò  ch'è  più  da  riputarsi, 
io  non  avevo  alcun  desio  di  possederle.    Ma  con  tutto  ciò 


_  9  — 
non  posso  intralasciar  di  dire,  che  l'apparente  magnificenza, 
lo  splendore,  e  la  ricchezza  di  quel   luogo    era    capace  di 
adombrare  l'immaginazione,  e  di  muovere  a  desio  la  mente 
di  ogni  più  astratto  e  più  severo  Filosofo. 

Ma  tutta  quella  pompa,  tutta  quella  vaghezza,  e  tutta 
quella  magnificenza  che  vi  ho  poc'anzi  descritto,  avrebbe 
sembrato  a'  Napolitani  a  guisa  di  una  notte  oscura,  se  non 
fusse  stata  dai  raggi  del  loro  sole  illuminata.  Andava  in 
que'  larghi  stradoni,  con  bell'arte  dal  signor  D.  Ferdinando 
a  questo  nobil  fine  disposti  la  Maestà  del  Re,  e  della 
Regina  sua  Sposa,  in  sontuoso  Cocchio  caminando,  seguito 
dalla  sua  numerosa  e  pomposa  Corte.  La  vista  del  loro 
Principe  rallegrava  il  cuore  di  tutto  quel  popolo,  e  dava 
intero  compimento  al  piacere,  ed  al  diletto,  che  in  quella 
sontuosa  e  non  mai  veduta  Festa  si  godeva. 

Credo  certamente,  Gentilissimo  Signor  mio,  che  la  viva 
rappresentazione,  che  vi  ho  fatto  delle  da  noi  vedute  ma- 
gnifiche Feste,  debba  muover  nel  vostro  animo  quella  nobil 
invidia  che  l' idea,  e  l' immagine  delle  cose  buone,  e  ben 
disposte  suol  muovere,  nella  mente  degli  uomini  di  buono 
e  retto  senso,  qual  voi  siete  verso  quelle  persone,  le  quali 
hanno  avuto  la  fortuna  di  vederle,  e  di  ammirarle  ;  e  per- 
ciò voglio  dirvi  ciocche  dovete  fare  per  ricompensarvi  del 
dispiacere,  che  certamente  sentirete,  di  non  aver,  le  da  me 
narrate  magnifiche  Feste,  vedute. 

La  divina  Provvidenza  la  quale  si  svolge  sempre  lieta,  e 
benigna  alle  eccelse  virtù  de'  due  Regnanti  Sposi,  darà 
ben  presto  alle  due  Sicilie  un  Principe  ereditario  ;  ed  egli 
è  allora  che  questi  popoli  trasportati  dal  giubilo  di  veder 
stabilita  nel  loro  Regno  la  successione  di  un  tanto  Prin- 
cipe,   mediteranno  e  faranno  fasti  uguali,  e  forse    maggiori 


—  io- 
di quelli,  che  hanno  fatti  nella  passata  occasione  del  ma- 
trimonio. La  mente  poi  del  signor  D.  Ferdinando,  la  qual'è 
di  vaghe  e  nobili  invenzioni  con  ampia  dovizia  ferace, 
non  mancherà  di  pensare  e  di  porre  in  opera  qualche  cosa 
ugualmente  nobile,  e  grande,  che  quella,  che  ha  pensata  in 
quella  Fiera  nella  passata  occasione,  e  Voi  allora,  come 
saggio,  che  siete,  non  tralasciarete  di  venire  in  Napoli  a 
ricompensarvi,  con  la  vista  di  quelle  magnifiche  Feste,  del 
rammarico  che  vi  cagiona  il  non  aver  veduto  quelle  che 
noi  abbiamo  con  diletto  e  con  ammirazione  goduto. 
E  vi  riverisco. 

Paolo  Mattia  Dorìa 

de'   Princìpi  d' Angli. 


II. 


Lo  scrittor  barocco  di  questa  lettera  era  un  filosofo  na- 
politano che  arricchì,  nel  decimottavo  secolo,  con  moltissime 
opere  di  matematica,  di  politica,  d'arte  di  guerra,  non  pur 
la  mèsse  scientifica  e  morale  degli  anni  in  cui  Vico  fioriva, 
quanto  la  bottega  d'  Angelo  Vocola  «  libraro  incontro  a 
Fontana  Medina  » ,  come  indica  un  raro  giornale  contem- 
poraneo (1).  I  venti  e  più  volumi  del  Dona,  a  quanto  ne 
ho  udito  dire,  contengono  assai  profonde  cose,  e  però  io 
subito  non  li  ho  letto.  Di  lui,  fra  tanto  ,  e  particolarmente 
so  questo  che  fu  oppugnatore  accesissimo  del  Locke  e  di 
quanti  mostravano  di  seguitar  nelle  libere  teorie  cartesiane 
l'autor  del  Cristianesimo  ragionevole,  scrittore,  non  foss'altro, 


(I)   Gazzetta  di  Napoli,   gennaio    1746,  num.   6. 


-  Il  — 

dotato  di  buon  senso  pratico,  d'una  piacevole  forma  quasi 
umoristica  e  d'una  popolare  dialettica,  tutte  buone  e  belle 
cose  che  il  Doria,  così  tenero  de'  segni  algebrici  come  di 
quelli  dell'interpunzione,  che  sparge  senza  risparmio  per  la 
sua  goffa  prosa,  doveva  certamente  invidiargli.  Intorno  al  1 746, 
il  nostro  filosofo  eclettico  publicò  l'ultimo  suo  scritto.  Era 
intitolato  :  Narrazione  di  un  libro  inedito  di  'Paolo  Mattia 
Doria,  fatto  a  fine  di  preservare,  e  difendere  le  numerose 
sue  opere,  da  quell'oblio,  nel  quale  tentano  di  seppellirle 
gli  suoi  Contrari  (1).  Fu  la  sua  derniere  cartouche,  poi  che, 
in  un  venerdì  del  febbraio  dello  stesso  anno,  egli  si  spense 
per  vecchio  mal  d'idropisia,  mentr'era  sul  punto  di  raggiun- 
gere, lui  beato,  la  ottantaquattresima  sua  primavera  !  Ge- 
neroso e  nobil  uomo  egli  ebbe,  si  dice,  ingegno  e  cultura 
non  comuni.  Il  solerte  Gerolamo  Flauto,  impressore  del  Real 
Palagio,  lo  chiama,  in  un  pomposo  necrologio  :  l'ingrandi- 
mento delle  scienze  d' Italia. 

Or  la  lettera  descrittiva  ch'io  pubblico  in  principio  di 
codesta  mia  cronaca  non  illustra,  come  avrete  visto ,  nes- 
suno de'  comici  dell'epoca,  non  d'alcuna  di  quelle  secon- 
darie tribù  istrioniche,  viaggianti  per  le  provincie  napoli- 
tane,  segue,  per  un  momento,  l'avventuroso  cammino  :  scritta 
nel  1738  per  dare  maggior  lustro  a  un  opuscolo  stampato 
da  Francesco  Ricciardi,  cesareo  predecessor  del  Flauto  (2), 


(  1  )  Gazzetta  di  Napoli,  gennaio,    I  746,  num.  6. 

(2)  fTjreve  ragguaglio  della  Rinomala  Fiera  che  sotto  la  direzione  di 
D.  Ferdinando  Sanf elice  Cavaliere  Napoletano  si  celebrò  nel  mese  di  lu- 
glio 1738  in  occasione  del  T^eal  -JGCarilaggio  di  Carlo  III  ecc.,  in  Napoli, 
presso  Francesco  Ricciardi,  stampatore  del    Real  Palagio,  MDCCXXXVI1I. 


—  12  — 

essa,  tuttavia,  ci  mette  sottocchi  una  geniale  pagina  del 
tempo  nel  quale  principiava  per  Napoli  un'era  novella  di 
ordine  e  di  tranquillità  e  in  cui  pur  cominciava  a  trasci- 
narsi per  le  vie  di  Partenope  il  carro  di  Tespi  del  quale 
io  sono  per  seguire  le  mosse.  Così  fortunati  dovevano  sem- 
brare gli  avvenimenti  di  quei  primordii  del  regno  di  Carlo 
da  perfin  togliere  alle  sue  meditazioni  e  alle  sue  solitarie 
ricerche  un  filosofo,  e  farlo  scendere  in  piazza,  e  incorag- 
giarlo alla  lieta,  sorridente,  minuta  descrizione  d'una  gente 
viva  e  palpitante,  d'  una  tenera  femminilità  ,  amoreggiante 
sotto  gli  occhi,  anzi,  sotto  gli  occhiali  suoi.  Cosa  per  lui 
mirabilmente  nuova  e  di  cui,  mentr'egli  lasciava  correr  la 
penna  d'oca  sulla  carta  e  s'intabaccava,  parea  che  lo  rim- 
proverassero gl'in  folio  pesanti  e  i  codici  polverosi  ,  am- 
mucchiati su'  plutei  della  silenziosa  sua  biblioteca. 

Nel  giugno  dunque  del  1738  re  Carlo  III,  che  in  quel 
torno  compiva  i  suoi  ventotto  anni,  stimando  di  non  dover 
tutta  offrire  a  Diana  cacciatrice  la  verde  primavera  della 
sua  vita,  sposava  Maria  Amalia  di  Walpurgo,  mite,  bionda 
e  non  bella  figliuola  di  quell'Augusto  HI,  elettore  di  Sas- 
sonia, che  il  destino  del  suo  popolo  meditava  davanti  a 
una  muffola  accesa,  sorvegliando  la  difficile  cottura  d'una 
porcellana  allora  uscita  dalle  sue  mani  sapienti  e  destinata, 
forse,  ad  arricchire  la  collezione  de'  bibelots  d'una  corti- 
giana francese. 

Chi,  per  avventura,  in  una  delle  sere  dolcissime  di  quel 
mese,  fosse,  per  la  via  del  mare,  arrivato  a  Napoli  e  avesse, 
ormeggiatasi  in  porto  la  nave,  contemplata  dal  ponte,  nella 
notte  serena,  la  città  vibrante  d'un  indefinibile  mormorio, 
della  confusa  voce  delle  sue  vie  popolate,  si  sarebbe  cre- 
duto nel  conspetto  d'un  di  quei  fiammeggianti  paesi  incan- 


—  13  - 

tati  che  Schariar  sultano,  socchiusi  gli  occhi,  le  dita  ina- 
nellate tra  la  nera  barba  fluente,  rincorrea,  sorridendo,  con 
la  fantasia,  mentre  dal  divano  di  seta  color  dell'eliotropio, 
bianca  bianca  e  tremante,  l'immaginosa  Scheherazade  prin- 
cipiava il  suo  ventesimo  racconto. 

La  notte  raccoglieva  in  una  sola  le  forme  dell'  immensa 
città,  disseminata  d'innumerevoli  fiammelle  irrequiete  e  sal- 
tellanti, sciorinata  alla  riva  del  mare  come  un  bruno  velo 
di  gitana  sparso  di  monetine  luccicanti.  Delle  file  di  lumi 
correvano,  si  inseguivano  da  per  tutto.  Spuntavano  improv- 
visamente dal  buio,  penetravano  le  tenebre  ,  s' arrampica- 
vano, dondolandosi,  per  un'erta,  palpitavano  in  tanti  raggi 
tremolanti  che  un  astro  d'altre  fiamme  raccolte  spandeva 
attorno  nella  lievissima  brezza.  Sull'acqua  immota,  a  quando 
a  quando,  fuggivano  bagliori  rossastri;  erano  fiaccole  rincor- 
rentisi  per  l'alto  della  riva.  E  come  ,  festosamente  ,  i  lor 
portatori  le  squassavano  parea  che  cadesse  sul  mare  che 
dormiva  una  pioggia  di  gocce  infiammate.  Gazzarra  di  lumi; 
la  luce  è  allegrezza.  Il  faro  al  Molo,  enorme  occhio  gial- 
lognolo, spalancato  tra  il  fitto  delle  alberature  che  sul  lim- 
pido cielo  eran  come  segnate  a  carbonella,  contemplava 
quetamente  lo  strano  spettacolo  che  gli  seguiva  ai  piedi, 
l'agitazione  di  tante  luci  minori.  Ma,  d'un  subito,  parteci- 
pando, col  grosso  di  un  esercito  di  fiamme,  a  codesta  bat- 
taglia data  alle  tenebre  anche  i  merli  di  Castelnuovo  sfol- 
gorarono; un  torrente  di  vivi  bagliori  incoronò  le  torri  an- 
gioine, tutti  i  finestroni  inquadrarono,  a  mano  a  mano,  l'e- 
norme lor  sagoma  rossa  sul  nero  d' inchiostro  delle  mura, 
ombre  frettolose  si  rincorsero  per  la  cresta  di  esse  ,  e  un 
razzo  ascese  rapidamente  nel  cielo,  trascinandosi  appresso  una 
coda  sfavillante. 


—  14  — 

S'era  pur  fatta  in  cielo,  dalla  parte  di  Piazza  del  Ca- 
stello, una  diffusa  luce  rosea ,  come  se  il  riverbero  d'  un 
incendio  vi  si  spandesse,  tremolante.  La  mole  angioina  ne- 
reggiava su  quel  velario  tralucente  e  vi  stampava  il  suo 
profilo  severo.  Dalla  conca  nascosta  il  cui  vivo  chiarore 
assorgeva  agli  spazii,  un  mormorio  crescente  saliva  insieme 
con  la  luce;  di  volta  in  volta  quel  romore  umano  era  su- 
perato da  quello  duna  musica  festosa,  da  squilli  di  trombe, 
limpida  e  breve  sonorità,  a  cui  l'eco,  attorno,  rispondeva, 
più  piano.  In  qua,  sul  mare,  stava  la  luna  piena,  immo- 
bile, e  il  suo  lume  era  assai  mite  e  la  volta  serena  del 
cielo  se  ne  bagnava  mollemente.  La  notte  discreta  non 
procedeva  oltre  il  castello,  l'ombre  sue  nere  vi  si  arresta- 
vano. Più  avanti  pareva  giorno. 

Tutto  questo  che  faceva  somigliar  Napoli  «fedelissima», 
come  si  amava  di  chiamarla  in  quei  tempi,  alla  favolosa 
Bagdad,  a  Samarcanda  infiammata  in  una  notte  estiva  e 
ricca  d'artifiziose  meraviglie,  era  dovuto  all'illustrissimo  D.  Fer- 
dinando Sanf elice,  cavaliere  di  seggio  napolitano,  discepolo 
del  Solimene  e  continuatore  del  Fansaga  nelle  opere  di 
architettura  e  di  scultura  decorativa.  Qualcuna  delle  sue 
biografie  con  lo  stile  gonfio  del  secolo,  gli  mette  ali  al  pen- 
siero e  la  sua  ricca  fantasia,  senza  tanti  scrupoli,  perfin  pa- 
ragona a  quella  del  divino  Michelangelo.  Qualche  altra  ri- 
corda di  lui,  compiaciuta,  la  prodigiosa  infanzia,  meraviglia 
delle  persone  di  casa,  cui  si  svelava,  di  giorno  in  giorno, 
una  novella  e  mirabile  precocità.  E  mentre  —  soggiunge  — 
che  prendeva  ancor  latte,  quando  la  nuance  lo  vedeva  pian- 
gere, per  quietarlo  o  gli  dava  un  libro  o  il  calamaio  e  la 
penna,  o  si  poneva  a  scrivere  o  disegnare  stando  con  somma 


—  15  — 

quiete  le  giornate  intere  (I).  Ma  quel  buon  tempo  antico 
se  pur  riboccava  d'esagerazioni  barocche  non  mancava  d'al- 
tra parte  della  satira  pungente.  Incarnata  in  Nicola  Capasso 
essa  sferzava,  senza  pietà,  certe  borie  di  facilmente  perve- 
nuti e  tanto  più  diventava  pericolosa  quanto  la  sua  mani- 
festazione vernacola,  piena  di  sale,  era  a  tutti  accessibile, 
popolarizzata  a  un  tempo  dalla  forma  dialettale  e  dalle  fre- 
quenti oscenità  di  cui  si  spargeva.  Così  l'architetto  Sanfe- 
lice  non  fu  pur  risparmiato,  poi  che  il  traduttore  dell'Iliade 
nella  lingua  del  Lavinaro,  invitato  da  lui  a  scrivere  qualche 
bella  cosa  per  la  lapide  da  collocare  in  fronte  a  un  nuovo 
palazzo,  ricordò  una  scala  sanfeliciana  le  cui  arditezze  d'e- 
quilibrio erano  miseramente  rovinate  dopo  tre  giorni  dalla 
costruzione,  e  a  lui  mandò  la  famosa  epigrafe  :  Levate  'a 
sotto  :  Sanfelicius  fecit,  gustatissima  corbellatura  fra  tanta 
devota  ammirazione. 

Or,  venuto  su  quell'enfant  prodige,  a  cui  l'inchiostro  era 
stato  più  dolce  del  latte,  e  con  gli  anni  suoi  cresciute  pur 
le  opere,  gli  architetti  che  aveva  condotti  Carlo  III  dalla 
Spagna  si  videro  presto  superati  dall'immaginativa  più  larga, 
dalla  forma  più  ricca  e  piacevole,  dagli  ardimenti  nuovi 
del  contemporaneo  ed  emulo  di  Vanvitelli.  Era  già  in  fama 
il  Sanfeiice  d'affrontatore  arditissimo  de'  problemi  più  gravi 
di  statica,  d'immaginoso  e  impressionante  decoratore  ,  da 
che  le  sue  concezioni  s'inspiravano  or  ad  una  lieta  poesia 
d'insieme  or  ad  un  classicismo  mitologico  la  cui  forma  pia- 


ti) BERNARDO  DE  DOMINICIS,    Vite  dei  pittori,   scultori    ed    architetti 
napolitani,  tomo  IV,  pag.  494. 


—  16  — 

cevole  andava  d'accordo  con  certe  rievocazioni  del  prin- 
cipio del  settecento,  secolo  che  usò  di  vestire  ogni  arte, 
sulla  moda  francese,  co'  panni  tolti  in  prestito  al  guarda- 
roba dell'Olimpo. 

Le  feste  pel  matrimonio  di  Carlo  III  privarono,  è  vero, 
di  qualche  mezzo  milione  le  casse  di  D.  Giovanni  Bran- 
caccio, sopraintendente  delle  Reali  Rendite,  ma  non  pro- 
vocarono le  proteste  economistiche,  che  assai  più  tardi,  in 
Francia,  dovevano  mettere  in  circolazione  il  famoso  pam- 
phlet attribuito  a  Rousseau,  il  quale  ammoniva  essere  in- 
degno di  Luigi  fBien-jlimé  sciupar  venti  milioni  in  onore 
di  Maria  Antonietta  e  del  delfino  che  si  sposavano  (1). 
In  quel  tempo,  rifinita  e  mormorante,  la  Francia  principiava 
già  a  minacciare  i  suoi  governanti  pel  retaggio  della  mo- 
rale e  material  povertà  ch'erano  sulla  via  di  lasciarle  ;  il 
popolo  affamato  udiva  parlare  troppo  spesso  del  'Parc-aux- 
Cerfs  e  del  castello  di  Bellevue  perchè  non  gli  venisse 
voglia  d'irrompere  in  quel  turpe  serraglio,  o  di  sfasciar  le 
serre  di  fine  porcellana  di  Sassonia  che,  nel  rigido  verno, 
la  signora  du  Poisson,  ribattezzata  Marchesa  di  Pompadour, 
offriva,  in  quell'altra  sua  residenza,  all'  amorosa  meraviglia 
di  Luigi  XV.  La  rivoluzione  fu  preparata  dalla  fame  e 
dall'ingiustizia;  ma  il  triste  periodo  che  i  parigini  attraver- 
savano dal  principio  del  secolo  della  de  Mailly,  della  Cha- 
teauroux,  della  d'Etioles,  procedeva  in  senso  inverso  pei 
buoni  partenopei. 


(I)  Idée  singulière  d'un  bon  citoyen  concemanl  les  fètes  publiques  que 
l'on  se  propose  de  donner  à  Paris  el  a  la  cour,  à  l'occasion  du  marìage 
de  JXC.   le  dauphin,   Paris,    1770. 


—  17  — 

Eian  costoro,  finalmente,  liberati  dal  vario  e  disastroso 
governo  vicereale  per  l'intervento  d'un  principe  il  cui  primo 
pensiero  era  stato  quello  di  dar  sistema  di  monarchia  pro- 
spera e  salda  ad  uno  Stato  che,  per  quasi  due  secoli  e 
mezzo,  era  rimasto  in  mano  di  viceré  forestieri,  i  quali  non 
usavano  delle  scarse  feluche,  abbandonate  nel  nostro  golfo, 
se  non  per  mandare  altrove  il  denaro  di  Napoli.  La  pre- 
senza di  Carlo  III,  che  portava  con  se  la  pace,  de'  criterii 
di  grande  saggezza,  una  corte  ricca  e  il  desiderio  di  gio- 
vare e  di  essere  amato,  valse  ben  presto  a  far  dimenticare 
ai  napolitani  i  disastri  recenti.  Le  feste  che  gli  si  fecero, 
com'egli  entrò  in  Napoli  nel  giugno  del  1 734,  furono  ma- 
gnifiche e  spontanee;  l'eco  ne  rimase  lungamente,  rievocan- 
done la  ricchezza  allegra  e  feconda.  Più  tardi,  in  Francia, 
Lemoine  e  Boucher,  che  dalla  sottile  fantasia  delle  favorite 
di  Luigi  XV  ricecevano  il  programma  di  un  nuovo  sogno, 
vi  architettavan  sopra  immaginose  residenze  di  fate,  nidi 
profumati  popolati  d'amorini  e  di  ninfe.  Qui  l'architetto  na- 
politano don  Nicola  Tagliacozzi  Canale,  li  precedeva  nella 
stessa  elezione  mitologica;  ma  pigliando  partito  dall'entrata 
di  Carlo,  per  darsi  alla  ricostruzione  del  giardino  ipotetico 
dove  Egle  ed  Aretusa  lasciarono  maturare  i  pomi  per  Er- 
cole, democratizzava  la  sua  concezione  e  l'adattava,  sapien- 
temente, ai  desiderii  del  popolo.  La  sua  famosa  Cuccagna 
delli  Orti  Esperidi,  occupante  per  cinque  giorni  tutto  lo 
sterrato  spazioso  davanti  Palazzo  Reale  ,  fu  per  1'  allegra 
gente  napolitana  un  singoiare  avvenimento  pantagruelico,  per 
la  gran  copia  di  esquisiti  commestibili  di  cui  era  abbonde- 
volmente  fornita,  come  di  pane,  formaggio,  salami,  polli, 
si  dimestici  che  selvaggi  e  la  dovigia  di  pili  e  pili    agnelli, 

Di  GIACOMO.  -  5.   Carlino.  2 


vacche  e  vitelli  vivi  (1),  senza  contare  le  due  fontane  che, 
ognuna  per  tre  mascheroni,  davano  spiritosi  ed  esquisiti  vini. 
Nel  luglio  continuarono  le  feste  popolari;  Castelnuovo  s'in- 
coronò di  fuochi  d'artifizio,  spenti  sul  più  bello  ,  da  una 
pioggia  dirotta  che  rovinò  le  molte  curiose  donne  di  bassa 
condizione,  colà  in  buona  parte  concorse  in  farsetto  per  lo 
gran  calore  dell'estiva  stagione  (2),  e  la  piazza  stessa  del 
Castello,  per  graziosa  concessione  di  Carlo  III,  si  ripopolò 
dei  ciarlatani  che  v'eran  fioriti  a'  tempi  di  straccioneria 
degli  ultimi  viceré  don  Luigi  conte  di  Harrach  e  don 
Giulio  Visconti.  Assieme  a'  gesuiti,  che  scendevano  a  pre- 
dicare in  piazza  traendosi  appresso  la  folla  in  processione, 
a'  guattarellari  che  piantavano  il  lor  teatrino  portatile  sotto 
un  tiglio  e  raccoglievano  altra  gente  attorno  a  quel  castel- 
letto di  pupi,  o  guarattelle,  come  oggi,  per  una  delle  sue 
frequenti  metatesi,  li  ribattezza  il  popolo,  assieme  a  quel- 
l'impresari da  casotto  de'  quali  il  Bartoli,  nelle  sue  Notizie 
istoriche  de'  comici  italiani,  sdegna  di  parlare  e  che  chiama, 
con  infinito  disprezzo,  castelleggianti,  i  così  detti  ciaravoli 
intrattenevano  i  curiosi  con  esporre  alla  lor  meraviglia  sci- 
mie  ammaestrate  o  serpenti.  Gli  sciocchi  abboccavano  al- 
l'amo, e  il  ciaravolo  gabellava  loro  per  contraveleno  certa 
porcheria  composta  di  rancida  conserva  di  ginepro.  Un   di 


(1)  Tfelazione  della  Cuccagna  eretta  avanti  il  Real  Palazzo  il  dì  16 
del  corrente  mese  di  maggio  1 734  in  occasione  di  festeggiare  V  ingresso 
fatto  in  questa  città  di  ZACapoli  della  Maestà  del  Re  Carlo  nostro  Sovrano, 
in   Napoli,  stamperia  di  Francesco  Ricciardi,    1734. 

(2)  GIUSEPPE  SENATORE,  Giornale  storico  di  quanto  avvenne  nei  due 
Reami  di  Napoli  e  di  Sicilia  l'anno  1734  e  1735  ecc.,  in  Napoli, 
MDCCXL1I. 


—  19  — 

questi  ciarlatani,  spagnuolo  d'origine,  si  chiamava  Miguel 
Tomeo.  La  sua  baracca,  sempre  affollata,  era  un  emporio 
di  liquidi  multicolori  di  cui  la  rara  varietà  si  adattava,  co- 
me don  Miguel  affermava  ne'  suoi  sproloquio  a  ogni  sorta 
di  malattia  dentaria.  Un  cartello  enorme  si  dondolava  a  un 
angolo  della  baracca  e,  tra  due  giganteschi  molari,  la  scritta 
diceva  : 

MIGUEL  TOMEO 

INVENTOR  DEL  MILAGROSO 

ESPECIFICO 

PARA  LA  ROBUSTEZ  Y  BLANCOR 

DE  LOS  DIENTES 

SIN   EL  USO  DE  ALGUN  HIERRO 

ESPERIMENTADO  POR  EL  GLORIOSO 

MONARCA  FELIPE 

REY  DE  LA  ESPANA 


SENORES  !  OJO  A 
LOS  BOLSILLOS! 

In  appresso,  nei  documenti  teatrali  d'un  fosso  ove  si  rap- 
presentava commedia  d'arte  fin  dal  1720,  ritroveremo  il 
cavadenti  mutato  in  impresario.  Il  milagroso  especifico  non 
avendo,  a  quanto  pare,  sortito  effetto,  don  Miguel  Tomeo 
s'era  dato  alle  emozioni,  più  nobili,  del  palcoscenico,  suc- 
cedendo, nel  1 740,  all'impresario  del  fosso  su  nominato, 
per  continuarne  l'avventurosa  gestione  fino  al  1 762  ,  anno 
in  cui  lasciò  le  redini  del  governo  al  primogenito  Tom- 
maso, detto  //  moretto,  essendo  egli  passato,  come  si  dice, 


—  20  — 

a  miglior  vita  (1).  Fin  al  1770  il  fosso,  o  cantina,  rimase 
sotto  la  chiesa  di  S.  Giacomo  degli  Spagnuoli.  Ma  in 
quell'anno  l'Uditor  dell'Esercito  Nicola  Pirelli  tanto  seppe 
dire  e  scrivere  da  ottenere  dal  re  il  dispaccio  che  sfrat- 
tava la  compagnia  delti  istreoni  da  quel  luogo  quasi  sacro 
per  l'immediata  vicinanza  della  chiesa.  Il  secondo  periodo 
del  San  Carlino  principia  da  quello  sgombero  frettoloso, 
durante  il  quale  Tommaso  Tomeo  pensò  d'adattare  a  teatro 
quattro  delle  botteghe  d'un  suo  fabbricato,  nella  medesima 
piazza  del  Castello,  e  ribattezzar  con  quel  nome,  tolto  in 
prestito  a  una  famosa  baracca  smessa  prima  del  suo  fosso, 
quest'altra  cantina  dalla  quale  è  poi  tante  volte  salita  a  ri- 
veder le  stelle  tutta  una  generazione  partenopea. 

III. 

Fabbricando,  dunque,  in  piazza  del  Castello  l'architetto 
Sanfelice  lasciò  fuori  del  chiuso  del  teatro  San  Carlo  una 
finta  muraglia  alta  venti  palmi,  dipinta  all'esterno  così  da 
rappresentare  le  salde  e  brune  mura  d'una  città.  Quattro 
enormi  statue  di  legno,  rivestite  di  tela  incerata  e  poi  do- 
rate, stavano  ai  quattro  angoli,  raffigurando  le  quattro  parti 
del  mondo  «  con  puttini  che  tenevano  gli  Geroglifici ,  »  e 
una  strada,  larga  trenta  palmi,  correva  intorno,  pel  passag- 
gio della  gente  e  delle  carrozze.  Delle  due  porte,  quella 
a  mezzogiorno  era  larga  trenta  ed  alta  settanta  palmi;  quat- 
tro colonne  scannellate,  con  capitelli  d' ordine  composito, 
accompagnavano  l'arco,  sul  cui  frontespizio,  arricchito  delle 


(I)  Documenti  teatrali  del   1700,  Jlrchivio  di  Stato,  Fascio  XIV. 


—  21  — 

statue  immani  dell'Abbondanza  e  della  Clemenza,  era  lo 
stemma  reale,  tra  due  fasci  di  palme.  Più  in  su  delle  ninfe 
procaci  presentavano  doni  ad  Ercole  che  aveva  ucciso  il 
drago  davanti  agli  Orti  Esperidi,  e  Diana,  sulla  faccia  in- 
terna dell'arco,  era  dipinta  nell'atto  d'innamorarsi  d'Endi- 
mione,  allusione  al  re  cacciatore  e  alla  regina,  i  cui  nomi 
si  leggevano  nella  seguente  iscrizione  di  Biagio  Troise, 
cattedratico  dell'Università  : 

DIANAM  ENDYMIONIS  SPECIE  CAPTAM  DESCENDISSE  DE  COELO 

FABULA  EST 

VERE  AMALFA  VENATRIX  AD  CAROLUM  SUUM  VENATOREM 

REUCTA  GERMANIA  CUCURR1T. 

Sulla  porta  a  settentrione  erano  i  ritratti  di  Carlo  e  di 
Maria  Amalia,  tra  gigli,  sirene  ed  amorini  ;  a  due  cuori 
infiammati  ogni  Cupido  paffutello  mirava  con  frecce  d'oro. 
Il  nero  cavallo  di  Napoli,  dietro  I*  arco ,  s' impennava  di 
contro  al  cavallo  bianco  di  Sassonia  e  per  le  colonne,  ve- 
nate d'azzurro,  scendevano,  fin  quasi  a  toccar  terra,  pan- 
neggiamenti disseminati  di  gigli.  Una  grande  fontana  occu- 
pava la  piazza  fra  le  due  porte  :  era  decorata  delle  im- 
prese di  tutte  le  dodici  provincie  del  Regno  e  di  statue 
rappresentanti  l'Ebro,  il  Sebeto,  la  Vistola  e  1'  Arati.  Le 
quattro  stagioni  erano  pretesto  per  altre  quattro  fontane  si- 
tuate agli  angoli  della  piazza,  e  centoventotto  baracche, 
coverte  di  tela  bianca  e  turchina  ,  raccoglievano  quanto 
dalle  lor  botteghe,  spogliate  per  la  magnifica  occasione, 
avessero  potuto  trasportare  in  questa  piccola  e  improvvisata 
città  i  negozianti  di  tutta  Napoli,  sollecitati  da  don  Tiberio 
di  Fiore,  Eletto  dal  Re  a  mastro  della  Fiera. 


—  22  — 

Le  iscrizioni  sul  fronte  delle  baracche  furono  dettate  così 
dal  Troise  come  dal  giudice  don  Giuseppe  Aurelio  di 
Gennaro.  Apollo  sovrastava  alla  baracca  degl'  Istromenti 
musicali,  Ebe  a  quella  dei  Sorbettieri,  Venere  all'altra 
delle  Galanterie  delle  donne.  I  "Oentagliari  si  gloriavan  d'Eolo 
e  della  scritta  : 

AEOLUS  HIBERNI3  IN  MENSIBUS  IMPERAT  AURIS 
QUAS  PLACIDE  ESTIVI  PICTA  FLABELLA  MOVENT 

i  Droghieri  avevano  Esculapio,  Nettuno  i  Corollari,  Giove 
gli  Scoppettieri  e  gli  Spadari  Marte.  La  baracca  de'  Li- 
brari era,  infine,  sotto  la  protezione  di  Saturno. 

Or  io  vorrei,  per  virtù  nuova,  socchiusi  gli  occhi,  seguire 
in  tutto  il  loro  peripatetico  aggirarsi  per  quelle  vie  lumi- 
nose gl'imparruccati  all'ultima  moda,  le  dame  agitanti  ven- 
taglietti  istoriati,  gli  abati,  i  cadetti,  i  paggi  e  i  «volanti», 
una  ricca  lettiga  che  passa,  una  bella  bionda  che  ride, 
una  coppia  di  vecchi  che  si  scambiano,  dalle  tabacchiere 
d'argento,  la  «  Siviglia  »  odorosa.  Socchiuder  gli  occhi  e 
rievocar,  lentamente,  tutto  questo  settecento  incipriato,  e 
dargli  moto  e  parola,  e  dar  suono  a  ogni  cosa  :  profumo  al 
vapor  lieve  che  sale  da  tazze  di  cioccolatte  nella  baracca 
de'  Repostieri,  voce  e  sospiro  a  un  quartetto  di  violini  che 
prova,  nella  bottega  degl' Istromenti  musicali,  un  minuetto 
suggestivo,  chiacchierio  sommesso  allo  zampillo  d'una  fontana, 
discreta  ombra  di  cespugli  e  di  fronde  al  bacio  furtivo  di 
caldi  innamorati.  Vorrei  che  fosse,  nella  mite  sera  d'estate, 
nuovo  e  meraviglioso  il  contrasto  della  luce  con  la  tenebra, 
abbagliante  quell'incendio  di  ceri,  in  cui  tutta  la  vivace  e 
galante  scena  umana  si  coloriva  d'un  colore  di  rosa.  Poi 
che  nessun  tempo  più  rifugge,  come  questo   tempo    gentile 


—  23  — 

e  ricco,  dall'arida  e  metodica  erudizione  che  seppellisce  sotto 
la  mole  de'  suoi  gravi  cataloghi  la  musica,  la  poesia,  l'a- 
more, tutto  il  ricordo  palpitante  d'un  secolo. 

Proviamoci  a  coglierne    qualche    episodio  colorito  e  co- 
mune. 


IV. 


L'alba  appare.  Una  pallida  luce  penetra  nelle  camere 
silenziose  ove  ancora  è  la  notte.  A  poco  a  poco  quel  chia- 
ror  freddo,  lievemente  violaceo,  conquista  ogni  angolo.  Svela 
gli  specchi  alle  pareti  consparse  di  fiori,  rameggiate  d'un 
tenero  verde  che  il  tempo  ha  più  scolorito,  arricchite,  qua 
e  là,  da  mensolette  dorate  sopra  le  quali,  in  porcellana  di 
Sassonia,  Europa  s'abbandona  al  toro  che  la  rapisce ,  o 
Giunone,  pettinata  a  trionfo,  un  neo  sulla  guancia,  acca- 
rezza il  pavone.  Muore  la  fiammella  d'una  lampada,  riflessa 
in  un  altro  specchio  appannato,  laggiù,  in  fondo,  in  una 
cameretta  piena  d'ombre,  ove  qualcosa  che  pare  una  donna 
s'agita  e  biancheggia.  A  mano  a  mano  piglia  rilievo  in 
quella  mezza  oscurità  la  figura  femminile  che  prima  era  im- 
precisa; poi,  come  il  lume  del  giorno  ha  tutta  conquistata 
la  stanzuccia,  ecco  la  morbida  linea  d'un'anca  che  si  di- 
segna e  il  principio  d'una  gamba  tornita  che  spunta  da  una 
sottana.  Curva  sulla  seggiola,  ove  ha  poggiato  un  piede, 
la  servetta  mattiniera  infila  le  scarpette  puntute  e  due  o  tre 
volte  ne  rifa  il  fiocco  pretenzioso.  Poi  cava  da  un  fodero 
del  canterano  il  grembiale  odoroso  di  spiganardo  e  lo  attacca 
alla  vita,  si  cinge  il  collo  con  un  nastrino  di  seta  azzurra 
che    rannoda    sulla    nuca    lasciandone  cadere  i  capi  tra  le 


—  24  — 

spalle,  incornicia  i  capelli  neri  con  una  candida  cuffietta  a 
nastri  e  merlettini,  si  mira  allo  specchio,  vi  si  rimira,  e  in- 
fine va  ad  aprir  la  finestra. 

Ora  è  giorno  chiaro.  Salgono  dalla  via,  che  principia  a 
popolarsi,  romori  di  cose  e  di  persone  :  un  carro  passa  con 
sordo  rotolio,  qualcuno  fischia  e  una  finestra  s'apre  sbatac- 
chiando a  quella  chiamata,  la  quaglia  d'un  sorbettiere  canta, 
a  riprese,  dalla  sua  gabbia  circondata  da'  mazzi  di  sorbe 
che  incorniciano  il  balconcello  ancor  chiuso.  Le  botteghe 
si  vanno  aprendo  man  mano,  e  a  un  tratto  squilla,  alta  e 
gioconda,  la  voce  d'un  «  luciano  »  che  arriva  con  le  sue 
umide  bombole  e  grida  : 

—  Ohe,  bona  acqua  zurfegna  !  Ca  mo'  l'aggio  pigliata, 
acqua  ferrata  ! 

La  servetta,  un  boccale  in  mano,  inafna  i  vasi  di  ortensie 
e  di  garofani,  e  s' indugia  nella  bisogna  per  respirare  a 
pieni  polmoni  l'aria  fresca  che  circola  ;  il  vento  lieve  della 
mattina  le  si  caccia  sotto  la  cuffia  e  le  scompiglia  i  riccioli 
in  fronte.  Ella  ha  un  nasino  che  guarda  in  su,  due  piccoli 
occhi  neri  che  guardano  un  po'  da  per  tutto,  una  bocca  che 
ride.  Quando  non  ride  canta,  e  ciò  segue  più  spesso  ;  quando 
non  canta  sparla,  e  questo  accade  sempre.  Servetta  ?  Alla 
larga.  Sentitela  in  questo  brano  cerloniano  ;  sono  in  iscena 
lei,  che  si  chiama  Olivetta,  il  barone  Don  Tiberio  Pelac- 
chia e  il  paggio  di  casa  (1). 

Bar.  —Olive? 

Oli\>.  —  Oh,  buongiorno  a  bosta  accellenza. 


(1)  CERLONE,   Aladino,   o  l'Abate   Tacconila. 


—  25  — 

Bar.  —  (Ecco  ccà  chella  ca  dice  bene  de  tutte  e  ne  fa  cade 
na  montagna  a  la  vota). 

Oliv.  —  Non  mme  responnite,   ne  signò  ?  State  fratuso  ? 

Bar-   —  Bonnì. 

Oliv.  —  Uh!  Che  cosa  liscia  e  froscia  !  Bonnì. 

Bar.    —  Bonnì,  core  mio. 

Oliv.  —  Jatevenne  ;  chillo  core  mio  sciué  sciuè,  senza  darence 
forza,  che  serve  ? 

Bar.   —  Bonnì,  aruculella  mia  pe  bevere. 

Oliv.  —  Oh  :  Mo  nc'avite  date  forza  ;  chella  parola  moscia  è 
comme  non  fosse. 

Bar.  —  Che  fa  donna  Irene  ? 

Oliv.  —  Mo  s'è  susuta  ;  sta  a  la  toletta  ;  vo'  la  ceccolata. 

Bar.  —  Paggio,  paggio  !  Fuss'  acciso  a  te  e  a  chi  te  tene  pe 
paggio  ! 

Pag.  —  Eccomi,  eccellenza. 

Bar.  —  Oggi  te  mmerco. 

Pag.  —  Io  stava  di  là. 

Bar.    —  La  ceccolata  a  donna  Irene. 

Pag.  —  Si  sta  facendo  ;  or  ora  sarà  servita. 

Bar.  —  Che  te  ne  pare,  Olivetta  mia,  de  donna  Irene  ?  E  una 
donnina  aggarbata  ? 

Oliv. — Che  bonissima  figlia!   E  una  pasta  de  mele. 

Bar.  — Bella,  unica  figlia,  eretica  universale 

Oliv.  —  Lassammo  sta  la  dote  ;  è  bona  figlia,  aggarbata,  signo- 
rile ;  è  onesta  quasi  quanto  a  me  ;  è  lo  vero  ca  quanno 
sferra  pare  na  furia,   na  ngroia,   na  ciantella 

Bar.  —  Olive  !  E  mmedeca  chiano  a  mmalora  ! 

Oliv.  —  Marame  !   Io  dico  bene  ! 

Bar.  —  Accommienze  bene  e  fenisce  ca  vuò  scannaturate. 

Oliv.  —  Aria  netta  non  ha  paura  de  tronola.  Donna  Irene  è 
na  bonissima  figlia,  savia,  virtuosa,  comprita  ;  accossì  non 
fosse  superba  e  linguacciuta  ! 


-  26  — 

Bar.  —Olive? 

Olio.  —  lo  dico  bene. 

Bar.   —  E  ne  faie  cade  no  palazzo. 

Olio.  —  Dico  la  verità  :  de  vostr'  accellenza  pecche  non  dico 
niente?  Ca  site  la  stessa  bontà 

Bar.  — Oh,  nigro  me!... 

Olio.  —  Aggraziato... 

Bar.  -  Olive?... 

Olio. — Non  avite  appaura  ;  amor  uso... 

Bar.  —  Olive,   franche  li  franche... 

O/rv.  —  Non  dubitate  ;  site  vezzusiello,  amabile,  comprito  ;  ac- 
cuss'i  non  fusseve  no  poco  puorco  e  caulicchione,  scusa- 
teme  sa. 

Bar.   —  Tiene  no  gammautte  pe  lengua... 

Olio.  —  Ched'è  ?  Manco  bene  pozzo  dicere  de  vuie  ?  Che 
mmalora,  mme  volite  fa  schiatta  ?  Lo  ghianco  non  po'  ar- 
reventà  nigro  e  l'uoglio  non  pò  ire  a  funno...  Site  sguaz- 
zone... 

Bar.   —  Obbricato... 

Olio. — Site  affabele... 

Bar.  — Statte  bona... 

Olio. — Signore  de  natura... 

Bar.  —  Mille  grazie. 

Olio.  —  Chello  ched'è  ;  è  lo  vero  ca  sferrate  qua  bota  e  parite 
na  bestia  feroce,  no  quicquero  de  Caivano,  n'  uorco  sar- 
vateco  ;  ma  che  s'ha  da  fa?  Ama  l'omino  co  lo  vizio  sujo. 

Bar.   —  Tu  che  mmalora  ce  tiene  mmocca  ? 

Olio.  —  Na  bona  lengua. 

Bar.  —  No  buono  cancaro  ! 

Olio.  —  Marame  !   Io  dico  bene  ! 

Bar.  —  Fuss'  acciso  tale  bene  !  In  atto  d'  accarezza  a  uno  le 
chiave  na  scannaturata  ncanna  ! 

Olio.  -  Io  ? 


-  27  — 

Bar.  —  Tu  ! 

Oliv. — Scappa  quacche  parola  non  bolenno... 

Bar.  — A  me  pure  me  scappano  quacche  bota,  ma  per  onestà 
le  faccio  morì  nfoce  o  le  faccio  trasì  da  do'  so  asciute. 

Oliv.  —  Non  ve  pigliate  collera,  ca  lo  Cielo  ve  pozza  dà  chel- 
l' allegrezza  ca  cchiù  desederate. 

Bar.  —  E  sarria  de  vede  don  Luigino  mio.  Ave'  no  figlio  de 
vint'anne... 

Olic.  —  Guappo,  bello,  gentile... 

Bar.   — Mo  lo  dico  io... 

Oli)}.  —  Non  dubitate,  de  lo  bene  non  se  pò  dì  male  ;  figlio 
d'oro,  figlio  nobele,  figlio  saputo...  accossì  non  fosse  di- 
scolo, malandrino  e  vagabunno... 

Bar.  —  Nzomma  non  e'  è  remmedio  ?  Te  vuo'  fa  asci  sempre 
vierme  da  vocca  ? 

Oliv.  —  E  ca  tn'  accedite  ?  So  ausata  a  dì  sempre  bene  de  lo 
prossemo  mio. 

Bar.  —  Vattenne,  core  mio. 

Oli)).  —  Aspetto  la  ceccolata. 

Bar.  —  Te  la  faccio  porta  da  lo  Paggio. 

Oliv.  —  Vogliatelo  bene  a  lo  paggio  ca  è  peccerillo  e  nasce 
bene  ;   manoncello  è  no  poco,   mpertinente  e  mpesillo... 

Bar.   —  Lo  Paggio  ? 

Oliv.  —  Gnorsì.   Facite  ordina  pò  la  zuppa  a  lo  cuoco. 

Bar.  —  Siente,  siè,  aje  che  dì  niente  a  lo  cuoco  nuosto  ? 

Oli».  —  E  che  buò  dì  ?  Avite  no  cuoco  morale  e  puntuale  ; 
è  lo  vero  ca  se  tozza  ncopp'a  la  spesa,  ve  dà  a  mangiare 
cierte  bote  carne  de  pecora  pe  bitella  e  muchio  pe  pesce 
spata  ;  ma  vi,  arrobba  co  garbo,  co  docezza,  co  polezia... 

Bar.  —  E  lo  repostiero  ? 

Oliv.  —  Bonissimo  figlio  ;  pratteco,  vertoluso  e  diligente,  basta 
dì  ca  ce  fa  vevere  quacche  vota  dmto  a  le  boccette  vino 
de  quatto  pe  bino  de  Borgogna  e  bruodo  de  fave  pe  cafè 
de  Levante. 


—  28  — 

Bar.  —  (Io  voglio  vede  si  ne  sarva  nisciuno).   E  lo  cocchiere? 
Oliv.  —  E  n'agnolillo,  tenitelo  caro,    è    cchiù    la    biada    ca    se 

tozza  isso  ca  chella  ca  dà  a  li  povere  cavalle. 
Bar.  —  Lo  volante  ? 
Olio.  —  Buono  figlio,  è  naquila  ;  sorvegliante  e  pratteco  a  fa  lo 

rucche  rucche  ;  quanto  primmo  sarrà  dichiarato  Conte. 
Bar.   —  La  criata? 
Oliv.  —  Bonissema  femmena,  onesta,  puntuale,  scrupolosa  ;  e  si 

arrobba  lardo,  còtene,  vino  e  farina  lo  fa  p'addefrescà  qua 

povero  settapanelle  ncappato  suio. 
Bar.  —  Nzomma,  tutta  la  corte  mia  ? 
Oliv.  —  Tutte  bonissema  gente. 
Bar.  —  Che  bona  lengua  ! 
Oliv.  —  Chella  che  d'  è  ;    statene  contento,  ca  so  na  matta  de 

ladre,  puorce  e  malandrine. 
Bar.  —  Tanto  obbricato.  E  io  che  li  tengo  ? 
Oliv.  —  Siete  l'idea  della  bontà  ;   comm'è  la  terra  è  lo  Gover- 
natore. 
Bar.  —  E  puozz'essere  accisa  a  te  e  chi  te  tene  ! 
Olio.  —  E  site  vuie  ! 
Bar.  —  E  songh'io  ! 
Pag.  —  Ecco  la  cioccolata. 
Bar.  —  Sagliela  ncoppa. 
Oliv.  —  Viene,   ninno  mio.   Che  buono  figlio  eh'  è    sto    paggio 

(guarda  li  sacche  !).     Signò,    compatite    se    v'aggio    nzalla- 

nuto. 
Bar.  —  Vuò  pazzia  ?  Bona  lengua  mia,  m'aje  onorato  a  me  e 

a  tutta  la  corte  mia.  E  de  te  non  aje  ditto  niente? 
Oliv.  —  E  de  me  che  se  può  dicere  ?  So  bella  figliola,  onesta  e 

puntuale... 
Bar.  —  Secoteia  ca  dice  buono. 
Oliv.  —  Pratteca  a  porta  na  mmasciatella,  guardigna  a  festeggia 

la  notte,    lesta    a  dì  na  papocchia  e  apprettativa  ca  voglio 

essere  accisa. 


—  29  — 

Bar.  —  E  puozze  sta  bona  !  Quanno  non  se  sarva  mane*  essa 
aggio  tuorto.  Che  bona  lengua  !  Che  bona  lengua  !  Cotta, 
cotta  ! 


V. 


Or  ecco  Olivetta  in  cucina.  Il  sole  è  già  sul  focolare  ; 
abbasso,  in  un  vasto  cortile,  ove  un  gran  fico  verdeggia, 
de'  fabbricanti  di  carrozze  han  già  principiato  a  lavorare. 
I  martelli  picchiano  su'  ferrei  cerchi  delle  ruote,  allora  u- 
sciti  dalle  fornaci,  le  incudini  tintinnano,  una  lima  intacca 
una  sbarra  e  stride.  Sulle  tettoie,  che  proteggono  dal  sole 
e  dalla .  pioggia  gli  artefici,  passeggiano  gatti  in  amore  ;  un 
grosso  gatto  contemplativo  se  ne  sta  immobile  sul  parapetto 
d'una  terrazza.  Nella  officina  operosa  affacciano  le  cucine  di 
tutte  le  case  circostanti,  le  sale  da  pranzo,  le  piccole  e  nude 
camere  della  servitù.  Mentre  Olivetta  accende  il  fuoco  pel 
cioccolatte,  Peppariello,  «  volante  »  del  cavalier  di  rimpetto, 
spazzola  gli  abiti  del  padrone  e  canticchia  un'  arietta  in 
voga  : 

Tiritàppete,  e  statte  contenta, 

e  non  te  pigliare  malincuma  ! 
Tiritòmmola,  e  pane  grattato, 

e  mietteme  a  lietto  ca  sto  malato  !...  (1) 

Più  in  su  un  altro  «  volante  » ,  più  aristocratico,  esce  al 
balcone  e  appende  alla  balaustra  la  sua  ricca    livrea     «  al- 


(l)  Federico,  La  zita,  1731,  Atto  I   se.  6.a. 


—  30  - 

lasagnata  »,  de'  pantaloncini  di  seta  azzurra,  un  paio  di  calze 
color  carne,  un  panciotto  verde,  sparso  di  fiori  giallognoli. 
Accanto,  a  una  finestra  tutta  fiori  e  frasche,  appare  la  ser- 
vetta d'una  contessa  vedova,  in  casa  della  quale  si  fa  mu- 
sica tutti  i  giorni  ;  e  appunto  il  merlo  plagiario,  al  quale  la 
servetta  offre  un  pezzetto  di  zucchero,  va  ripetendo  all'aria 
della  mattina  la  frase  allegra  che  1'  «  Abate  »,  ogni  giorno, 
canta  alla  spinetta  della  vedovella  : 

Cara,  ti  voglio  bene  ! 
Idolo  mio,  ti  adoro  !... 

E,  di  dentro,  la  stridula  voce  del  pappagallo  favorito 
grida,  sul  falsetto  della  padrona  :  «  Buon  giorno,  Abate  ! 
Buongiorno,  Abate  !  »  mentre  un  nugolo  di  polvere  bianca 
vien  fuori  dalla  finestra  e  piove  sulle  foglie  de'  geranii  e 
su'  gelsomini  ;  la  servetta  vuota  lo  scatolo  della  cipria,  soffia 
sul  piumino,  dispone,  sapientemente,  tutta  !a  varia  gerarchia 
delle  moschette  nella  rotonda  tabacchiera  miniata,  ravvolge 
a  una  bacchettina  d'  avorio  i  riccioli  posticci  de'  quali  si 
spargerà  fra  poco  la  candida  nuca  della  padrona  e  pe'  ca- 
pelli di  lei,  morbidi  e  copiosi,  lava  in  un'acqua  profumata 
i  pettini  di  tartaruga  ambrata. 

L'orologio  a  sole  segna  le  otto  ore  :  di  qua  Olivetta  ha 
preparato  le  chicchere  nel  vassoio  e  intanto,  sul  ritmo  ca- 
denzato d'  un  martello  che  picchia  giù  in  cortile,  va  frul- 
lando il  cioccolatte  odoroso,  e  allarga  le  nari  al  vapor  grato 
che  sale  dalla  caffettiera.  La  voce  fresca  di  Peppariello, 
che  or  è  tutto  occupato  a  lustrar  le  scarpe  e  ad  attaccarvi 
le  fibbie,  allegramente  ricomincia,  rimpetto  : 


—  31  - 

Amice,  non  credite  a  le  zetelle 

quanno  ve  fanno  squase  e  li  verrizze, 

ca  songo  tutte  quante  trottatelle 

e  pe  ve  scortecà  fanno  ferrizze  !...  (1) 

E  l'altro  «  volante  »  che  anche  lui,  dal  balcone  di  sopra, 
sbircia  Olivetta  incorniciata  da  un  finestrino,  s'  affaccia  a 
tempo,  con  in  mano  una  parrucca.  E  le  due  voci  maschili 
intonano  assieme  il  ritornello  : 

Co  lo  bello  e  bello  palio, 

co  lo  ndànda  e  ndandera  ndà, 
la  falanca  si  nn'è  sedonta. 

non  cammina,  carcioffolà  !...  (2) 

Improvvisamente,  come  d'intesa,  due  o  tre  campanelli  tin- 
tinnano. Subito  il  canto  cessa  ;  i  servi  scompaiono,  accor- 
rono alle  camere  dei  padroni.  Delle  vocette  di  bimbi  che 
si  svegliano,  de'  piccoli  gridi  infantili  arrivano  al  cortile  ove 
ancor  batte,  in  cadenza,  il  martello.  Poi  non  suona  altro 
romore  in  fuori  di  quello  confuso,  ondeggiante,  della  via 
già  piena  di  gente  e  di  sole.  Ecco  un'altra  scampanellata. 
Un'occhiata  all'orologio.  Buon  Dio,  nove  ore  !  Olivetta  sol- 
eva il  vassoio  colmo  e  porta  il  cioccolatte  ai  padroni. 


(1)  CERLONE,   Le  trame  per  amore,  Voi.  XXI. 

(2)  Ibid.  pag.   6. 


—  32  — 


VI. 


Nella  vasta  camera  da  letto  dal  soffitto  eh'  è  un  cielo 
azzurrino  macchiato  di  rosee  nubi  leggere,  la  luce  del  giorno, 
mitigata  da  tendine  pur  d'  un  chiaro  azzurro,  è  dolce  ed 
uguale.  Dalla  parte  del  balcone,  di  cui  il  marito  della  si- 
gnora ha  chiusi  gli  scuri  pesanti,  scivolano  teneri  riflessi  su 
per  le  colonne  di  bronzo  dorato  d'un  ricco  letto  a  baldac- 
chino, le  cui  larghe  spalliere  sono  percorse  da  comitive  di 
grassocci  puttini  che  reggon  serti  di  rose  o,  abbracciati,  si 
baciucchiano  sulle  gote  paffutelle.  Appiè  del  letto  il  «  sofà  » 
di  seta  color  arancio  raccoglie  le  vesti  della  bella  dama, 
eh'  è  tornata  tardi  dal  teatro  e  le  ha,  spogliandosene  tutta 
assonnata,  buttate  lì,  alla  rinfusa.  Sulla  toeletta  sono  pure 
sparsi  in  disordine  i  gioielli,  tra  le  delicate  spazzoline  pe'  denti 
tra  le  guaine  degli  spilli  e  il  vasetto  della  pasta  di  man- 
dorle. Un  giornale  francese  è  spiegazzato  su  d'una  seggiola, 
una  scarpettina  di  raso  bianco  è  sul  giornale  e  due  giar- 
rettiere spuntano  dalla  scarpettina.  II  finissimo  velo  che, 
incrociato  sapientemente  sul  petto,  ne  lasciò  non  vedere  ma 
ben  intravedere  il  «  candido  tesoro  »  —  il  che  fu  peggio  — 
caduto  sul  tappeto  di  Smirne  è  una  nuvoletta  che  palpita 
al  soffio  più  lieve.  Un  odor  tenue,  impreciso,  aleggia  in- 
torno ;  le  vesti,  il  velo,  la  cuffia  «  a  nastri  prodigiosi  »  ora 
spandono  nel  tepido  ambiente  il  profumo  che  portarono  a 
teatro.  Di  tra  le  spioventi  cortine  del  letto  un  bianchissimo 
braccio  pende  fuori  ;  la  mano  breve  e  nervosa  tormenta  le 
lenzuola,  le  rosee  dita,  di  tratto  in  tratto,  v'  affondano. 
Effetto  d'un  sogno  che  ancor  dura,  o  dispetto  perchè  troppo 


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ime      -  ■- 


.Le   venombre  del  giardino   favoriscono  i  colloquii 


—  33  — 

presto    esso  è  finito  ?   Ecco,  la  signora  apre  gli  occhi,  si  leva 
a  seder  sul  ietto 

e  dei  labbri   formando  un  picciol  arco, 
dolce  a  vedersi,  tacita  sbadiglia. 

Due  parole  di  lei,  mentr'  ella   si  veste    nel    corsello    tra 
letto  e   <  canapè  ».  Come  si  chiama?  Mettiamo:  Violante. 
Ha  trentanni,  è  nobile,  è  piacevole,  canta,  balla  deliziosa- 
mente il  menuetto,  dice  di  adorare  la  musica,  si  lascia  ado- 
rare socchiudendo  gli  occhi  a*    complicati    madrigali,     pro- 
tegge la  letteratura  e  legge  Mille  e  una  notte,  il  libro  me- 
raviglioso che  Galland  recentemente  ha  publicato  in  Francia. 
Ha  casa  ben  messa,  cuoco  francese,  governante  toscana  ;  al 
cembalo  è  un  portento,    nella    conversazione    un    tesoro  di 
grazia...  e  di  malignità.  Completa  come  donna,  neppur  uno 
le  manca  dei  requisiti    mondani  per  esser  pure  la  vera  si- 
gnora del  tempo.   Don    Marzio  e  Lindoro,   il  maldicente  e 
il  cicisbeo,  trovano  sempre  il  loro  posto  nel  suo  salone  barocco: 
l'Abate,  più  assiduo  e  più    pratico,   è  ammesso  all'intimità 
di  tutte  le  altre  stanze  ;   conosce,  specie,  la  via  della  cucina 
e  dell'indispensabile  Apicio  parigino  è  diventato,  dal  primo 
giorno,  svisceratissimo  amico. 

Le  amiche  della  signora  dicono  di  lei  roba  da  chiodi  : 
ma  che  baci  in  punta  di  labbri,  che  lunghi  sguardi  ammi- 
rativi, che  sorrisi,  che  lodi  esagerate  e  paradossali  a  una 
nuova  acconciatura,  alle  pastorellerie  ch'ella  stessa,  pittrice 
mancata,  ha  voluto  acquerellare  sul  ventaglio  a  stecche  d'a- 
vorio, a'  suoi  versi  in  risposta  a  un  sonetto,  a  quel  ritaglio 
di  canzone  di  jommelli  mormorato,  dopo  tante  preghiere, 
alia  spinetta  !   E  lei,  dolce  a  un  tempo  e  crudele,  languida 

DI  GIACOMO.  -  S.  Carlino.  3 


—  34  — 
spesso,  intenta  mai,  pettegola  sempre,  non  sa,  non  può  viver 
sola  ;  ha  bisogno,  lei,  non  certo  cattiva,  ma  bislacca  e  an- 
noiata, di  vedersi  sciorinati  davanti  i  prodotti  varii  di  quel 
mondo  che  ha  del  buono  e  del  pazzo,  una  vacuità  pre- 
tenziosa e  lo  spolvero  d'una  miseria  dorata.  D'altra  parte, 
che  fare  ?  Si  sbadiglia  così  spesso  e  facilmente  !  In  man- 
canza del  ragionamento,  fatica  improba  per  le  menti  leg- 
gere, non  è  stato  inventato  in  Francia  quel  persiflage,  così 
comodo  e  piacevole,  che  già  alimenta  tutte  le  conversazioni 
galliche  ?  E  Napoli,  che  ha  sempre  avuto  la  smania  imi- 
tativa, s'è  presto  impadronita  di  quel  facile  mezzo  di  passa- 
tempo ;  1'  Olimpo  francese,  il  quale  ha  piantato  succursali 
un  po'  da  per  tutto,  ha  trovato  propizio  luogo  anche  qui, 
e  però  anche  qui  tutte  le  smancerie,  le  leggerezze,  le  vo- 
lubilità d'oltre  Alpi,  battezzate  dall'indiscutibile  appella- 
tivo di  bon  ton. 

Un  essere  anfibio  che  non  manca  mai  a  codeste  futili 
manifestazioni  di  pervertimenti  dello  spirito  è  V  Abate,  per- 
sonaggio necessario  a  tutte  le  commedie  del  tempo.  Abate 
così  per  dire  ;  titolo  ed  abito,  ma  niente  abbazia,  niente 
chiesa,  niente  breviario  :  quel  de  Voisenon,  che  lo  leggeva 
ancora  per  addormentarsi,  avea  l'uso  di  segnarne  le  pagine 
con  alcune  canzonette  canailles.  Un  albo,  celebre  non  meno 
per  la  sua  Manon  Lescaut,  il  Prèvost,  quando  fu  nominato 
elemosiniere  del  principe  di  Condè,  si  sentì  ammonire  : 
«  Caro  Abate,  sappiate  ch'io  non  ascolto  messa  » .  E  lui  di 
rimando  :  «  Sappiate,  principe,  ch'io  non  ne  dico  mai  » .  Tali 
questi  parassiti  che  pigliavano  i  loro  ordini  in  salone.  Ce 
n'era  uno  tra  gli  altri,  il  Chiari,  la  cui  svenevole  produzione 
letteraria  ammorbava  ogni  casa  partenopea.  Uno  scompiscia- 
tore  di  carta  —  come  lo  chiama  Giusti  —  ma  indispensabile  ai 


—  35  — 

circoli  romantici,  ove  la  padrona  di  casa  consigliava  agl'in- 
tervenuti zelanti  :  La  Viniziana  di  Spirito,  La  Turca  in 
Cimento  o  sieno  le  avventure  di  Zelmira,  U  uomo  di  un 
altro  mondo  o  sia  ^XCemorie  di  un  Solitario  senza  nome, 
romanzi  papaverici  del  preferito  autore,  in  vendita  presso 
quel  famoso  libraio  Vinaccia  al  passetto  del  Sacro  Regio 
Consiglio  e  annunziati  dal  giornale  di  Vincenzo  Flauto, 
stampatore  «nel  vicolo  dirimpetto  l'Ospidaletto  » ,  con  l'ec- 
citante postilla  :  Ottimi  per  chi  vorrò  divertirsi  nell'imminente 
villeggiatura  (1). 

Francesco  Cerlone,  a  cui  non  si  può  negare  la  gran  pia- 
cevolezza e  T  abbondante  vena  comica,  in  una  delle  sue 
migliori  commedie  (2)  mette  in  rilievo  l'insopportabile  vizio 
dell'  Abate  Taccarella,  che  parlava  di  tutti,  a  proposito  o 
a  sproposito,  rovesciando  addosso  alle  sue  vittime  frettolosi 
sproloquii,  rimpolpati  di  proverbii  e  di  citazioni,  sciapiti,  ridi- 
coli e  scombussolati.  Tra  le  molte  definizioni  dell'  Abate, 
che  per  Cerlone  è  quasi  sempre  o  Cosentino  o  Catanzarese, 
è  pur  una  che  varrebbe  quasi  a  dimostrare  come  questi 
rurali  capitati,  dalla  provincia,  tra  le  meraviglie  di  Napoli 
vi  finissero  sempre  per  rimettervi  pur  di  saccoccia  : 

Statte  zitto,   non  dì  male 
De  l'Abate,  maro  te  ! 
Non  ncè  luogo,   non  nc'è  casa 
Ca  n' Abate  non  ce  sta. 


(1)  Gazzetta  di  Napoli,   8  settembre    1769. 

(2)  CERLONE,  jl  ladino,  o  l'jlbbate   Taccarella. 


—  36  — 

So  l'Abate  confidente. 

So  galante,  so  servente. 

Si  lo  patre  dal  paese 

Lo  pò  buono  refostà. 
Quanno  manca  lo  soccurzo 

Le  signore  so  sbotate. 

So  l'Abate  maltrattate. 

Hanno  mille  canetà. 

E  pe  grolla  dell'Abate 

Chesto  ditto  resta  ccà.   (I) 

Abate  o  Pacchesicco  :  nella  stessa  commedia  Carlandrea, 
celebre  oste  a  Marechiaro,  passando  con  fra  mani  i  piatti, 
annunzia  a  un   «  volante  »  : 

...  Tengo  de  Pacchesicche 

na  tavolata  ncoppa  che  na  risa... 

Ma  perchè  Pacchesicco  ?  Sull  origine  della  seconda  cu- 
riosa denominazione  trovo  questa  nota  nel  vocabolario  del 
Galiani,  stampato  nel    1  789  : 

«  PACCHE  SECCHE.  —  Chiamansi  così  le  mele  spaccate 
per  mezzo,  e  disseccate  a!  sole  o  al  forno,  e  questi  sono 
cibi  dei  poveri  della  Calabria.  Da  anni  in  qua  questa  voce 
pacche  secche  è  divenuta  parola  di  ingiuria  e  dinota  un 
Abate,  od  uno  studente  misero  e  mal  in  arnese.  L'origine 
merita  essere  narrata,  altrimenti  se  ne  perderà  la  memoria. 
Nel    1753  nella  vigilia  di    Natale    due    studenti    Calabresi 


(1)   CERLONE,   L'osteria   di  Marechiaro,    Atto   II.   Scena  VII. 


—  37  — 

andarono  alla  Posta  a  cercar  lettere  delle  loro  famiglie. 
Uno  di  essi  aveva  detto  al  suo  amico  che  aspettava  da 
suo  padre  un  copioso  regalo  di  mele  secche,  fichi  secchi, 
passi,  ecc.,  che  con  nome  generico  chiamansi  dai  Calabresi 
Sfocamenti  ;  e  con  questo,  giacché  eran  ridotti  senza  quat- 
trini, speravano  sfamarsi  in  quei  giorni  solenni,  in  cui  so- 
gliono mandarsi  simili  regali.  Trovò  infatti  una  lettera  lo 
studente,  che  chiamavasi  D.  Nicola,  l'aperse,  la  lesse,  ma 
invece  di  trovarvi  l'annunzio  del  regalo,  lesse  un'acre  e  mi- 
nacciosa riprensione  che  gli  facea  suo  padre  per  le  nuove 
di  sua  cattiva  condotta,  e  poca  applicazione,  che  gli  erano 
pervenute. 

«  Il  compagno  che  stavagli  discosto  stando  gran  folla  di 
coloro,  che  prendevano  le  lettere,  e  non  poteva  scorgere 
il  turbamento  del  viso  di  lui,  stimò  dimandargli  ad  alta 
voce  ed  in  linguaggio  pretto  purissimo  Calabrese  :  Sì  don 
Nicò,  son  binuti  li  pacchi  sicchi  ?  Il  povero  don  Nicola, 
ch'era  fuor  di  se  per  la  collera,  malgrado  1'  amicizia  ,  gli 
risponde  subito  :  So  binuti  li  corna  de  mammeta  !  Scop  - 
piano  a  ridere  gli  astanti;  ed  i  ragazzi,  i  quali  aveano  in- 
teso questo  strano  dialogo,  cominciarono  ad  andar  dietro  a 
questi  due  infelici  studenti  ed  a  ripetere  :  Sì  don  Nicò, 
so  binuti  li  pacchi  sicchi  ?  Gli  abati  s'infuriano  :  i  ragazzi 
crescono  in  numero,  ed  in  procacità.  Segue  barruffa ,  bat- 
titure, sassate  e  per  più  giorni,  anzi  per  mesi,  un  andar 
dietro  a  qualunque  Abate  incontravano,  ed  a  chiamarlo  or 
don  Nicola  or  'Pacche  secche.  » 

E  vero  ,  fra  tanto  ,  quel  che  afferma  il  Galiani  ?  Nella 
famosa  Cantata  de  Zeza,  la  cui  caratteristica  ed  originale 
musica  è  ancor  nella  memoria  di  tutti  i  napolitani,    Pulci- 


—  38  — 

nella,  padre  della  ragazza  insidiata  appunto  da    un    Abate 
calabrese,  dopo  averlo  bastonato  gli  grida  appresso  : 

Mò  te  ne  sì  foiuto, 
'Pacchesicco  frustato  ! 

Ma  Zeza  non  può  essere  posteriore  al  1 753.  Non  an- 
teriore certo  al  seicento,  la  canzone  dovette  apparire  sul 
principio  del  secolo  decimottavo.  Zeza,  non  saprei  dire  se 
vezzeggiativo  o  peggiorativo  di  Lucrezia  —  allora  anche 
'Tjolla  e  l^opa  eran  nomi  !  —  è  stata,  fors'anche  prima  di 
Colombina,  innamorata  di  Pulcinella.  Nella  preziosa  opera 
del  Callot  (1)  una  delle  coppie  che  ballano  si  compone 
giusto  di  cPolicencllo  e  della  Signora  Lucretia  ,  e  quelle 
stampe  rimontano  al  principio  del  seicento.  Or  del  Ga- 
liani,  abate  anche  lui,  son  risaputi  i  tratti  di  spirito  e  il 
gusto  che  spesso  si  prese  d'inventar  di  sana  pianta  ed  an- 
che di  contraffar  le  cose  altrui  (2).  Dunque  ,  questa  del 
Pacchesicco  tra  l'altre. 

Abate  gentiluomo,  abate  poeta,  traduttore,  o  giornalista, 
o  medico,  o  filosofo;  ce  n'eran  d'ogni  qualità.  La  loro  de- 
cadenza principiò  sin  dallo  scorcio  del  secolo  passato  ;  fino 
a  quel  punto  essi  avevano  gabbato  in  vano  modo  la  gente, 
adesso  tutti  li  pigliavano  in  giro.  Naturalissimo  ;  i  primi, 
assoluto  prodotto  indigeno,  erano  spiritosi,  puliti,  servizie- 
voli e  perversi,  avevano  infine  tutte  le    virtù,    tutti    i    vizii 


(  I  )  CALLOT,  Balli  di  Sfsssania.  Collezione  dei  tipi  della  Commedia 
italiana.   Museo  Nazionale  di   Napoli. 

(2)  Confronta:  'Don  Onofrio  Qaleota,  poeta  e  filosofo  napoletano,  di 
B.  CROCE.  —  Trani,   Edit.  V.   Vecchi,  ecc.,    1890. 


—  39  — 

cittadini  per  sapersi  maneggiare  e  piacere;  questi  altri ,  in- 
vece, arrivati  dai  loro  villaggi  con  in  testa  le  più  dolci  il- 
lusioni, nuovi  affatto  al  cinismo  e  alla  cortigianeria,  se  le 
vedevano  a  mano  a  mano  sfrondare  dalla  lor  medesima  in- 
genuità. Così,  dopo  aver  tentato  invano  di  penetrare  nelle 
case  nobili,  si  consolavano  con  qualche  «  cantarina  »  del 
teatro  Nuovo  o  del  Fiorentini  e  scambio  di  recarsi  alla 
Università  scaldavan  panche  al  concerto  in  palcoscenico. 
In  quell'epoca  le  donne  prodighe  che  oggi  si  chiamano  co- 
cottes  il  buon  popolo  napoletano  le  chiamava  carnente.  Passo 
sull'etimologia.  Queste  signore  con  una  cena  alla  trattoria 
di  Manzillo  a  Mergellina,  con  due  o  tre  passatelle  al  giuoco 
della  musciarella  o  del  ventuno,  cominciato  come  per  ri- 
dere e  terminato  con  un  disastro,  portavano  via  all'abatino, 
in  poche  ore,  tutta  la  sua  mesata.  Ed  ecco  davanti  la  porta 
dell'Università  non  più  il  venditore  di  fascicoli  educativi 
del  cattedradico  Giuseppe  Pasquale  Cirillo,  ma  Frasconia, 
Rosa  Percuoco,  Capodevacca,  Sabellona  e  Pezz'all'uocchie, 
famose  mpignatrici  del  tempo.  Poveri  abatini  ridotti,  a'  dieci 
del  mese,  con  un  sol  prevetariello  (1)  in  saccoccia!  O 
tornavano,  dopo  poco,  ai  lor  monti,  al  loro  Crati  limpido 
e  tranquillo,  o,  invecchiati  nella  capitale,  ottenevano  ,  per 
grazia,  tabaccosi  e  stanchi,  di  far  lezione  di  latino  ai  fi- 
gliuoli de'  nobili  e  di  accompagnarli  al  passeggio. 

In  principio  del  secol  nostro  la  pianta  dava  ancor  qualche 
fiore.  Il  petit-maìtre,  che  precedette  gVincroyahles  del  Di- 
rettorio e  poi  tutta  una  filza  varia  di  cocodès ,  tornava  in 
vigore  per  qualche  momento  e  additava  col    ricercato    ap- 


(I)   CXConeta   equivalente   a  quattro  grana. 


—  40  — 
peilativo,  l'ultimo,  forse,    degli  abati.  Si  sa;  ogni  epoca  ha 
sentito  il  bisogno  di  designar  con  un  vocabolo  nuovo  i  pro- 
dotti favoriti  della  sua  moda.  Or,    mentre    pare    che    tanti 
multipli  sostantivi  sieno,  in  fondo,   de'    sinonimi,    chi    badi 
troverà  che  le  persone  cui  si  riferiscono  a  mano    a    mano, 
e  le  abitudini  loro  e  il  lor  valore  nella  società    son    sepa- 
rati da  sfumature  delle  quali  ognuna  dà  carattere    a    une- 
poca.  Tra  l'antico  Abate  del  principio  del  settecento,  que?lo 
più  rustico  della  seconda  metà  dello  stesso  secolo  e  il  *Pac- 
chesicco  scolare  e    il    petit-maìtre    affettato    che    scivolò    in 
punta  di  piedi  e  con  molti  inchini  sul  palcoscenico  del  San 
Carlino  al    1810,  son  passaggi  di  un    secolo    e    mezzo    di 
civiltà.   L'Abate  de'  tempi  nostri  è  il  *Don  Nicola    carne- 
valesco;  le  stesse  falde  nere,  lo  stesso  tricorno,  gli  occhiali, 
i  pantaloncini  corti,   le  scarpe  a  fibbia  e  quella  tal  parlan- 
tina taccarelliana,  commista  di  oscenità  e  di  apostrofi  grot- 
tesche. Ma  le  sue  infilzate    d'  assonanze    sferzano  ,    d'  altra 
parte,  il  mal   governo  e  additano  le  cause  della  miseria  po- 
polare, miseria  di  pane  e  di  spirito.  Un  tempo  egli  fu  cor- 
tigiano, ora  è  figlio  del  popolo  e  libero.   In  questa    carica- 
tura peripatetica  voi  troverete  il  carattere   di    certi    disegni 
malinconici  e  buffoneschi  deH'Hogarth. 


VII. 


Donna  Violante  s'è  vestita,  o  meglio  s'è  fatta  vestir  dalla 
cameriera.  Per  un  po',  tra  la  sponda  del  letto  e  le  cortine, 
s'è  intravista  un' ancor  rosea  nudità,  rabbrividente  al  solle- 
tico de*  lembi  ondeggianti  del  padiglione  :  un  pie'  minu- 
scolo, tre  volte  o  quattro,  è  stato  ribelle  a  una  babbuccia 
ricascata  sul  tappeto,  un  piccolo  grido  di  dolore  è   suonato 


—  41  — 
quando  Olivetta,  nel  serrar  la  giarrettiera,  ha,  sbadatamente, 
pizzicato  la  carne  di  sotto.  Scena  di  petit  lever  nella  calda 
armonia  della  stanza,  delizioso  soggetto  per  Solimene  o  per 
Bonito,  elemento  d'una  pittura  di  Fragonard  o  di  Baudouin, 
quadrettino  di  quelli  davanti  a'  quali  Diderot  s'indignava, 
sorprendendovi  in  ammirazione  lunghissima  vecchi  incorreg- 
gibili «  bequille  en  main  ,  dos  vouté  ,  lunettes  sur  le 
nez  » . 

Or,  seduta  al  sofà,  con  da  presso  un  deschetto  di  lacca 
cinese  sul  quale,  dalla  tazza  di  porcellana,  fumiga  il  cioc- 
colatte,  ella  sospira,  meditando  la  grave  bisogna  a  cui  do- 
vrà piegarsi  per  sorbirlo.  11  manto  pacifico  s'è  già  allonta- 
nato, portando  via  nella  vicina  stanza  da  studio  la  sua  chic- 
chera, per  centellinare  con  comodo.  Drappeggiato  in  una 
lunga  veste  da  camera  di  quella  stoffa  che  si  chiamava 
«  ardichella  » ,  con  la  testa  coverta  sino  alla  fronte  da  un 
fazzoletto  colorato  di  cui  le  cocche  del  nodo  divergono  a 
dietro,  in  ridicola  maniera,  sull'occipite,  siede  alla  scrivania, 
si  dispone  d'avanti  la  tazza,  la  tabacchiera  piena  d'  ottima 
«  vana  »  e  il  calamaio;  prova  una  penna  d'oca  e,  frugando, 
tra  un  sorso  e  l'altro,  nei  foderi,  vi  pesca  le  carte  dei  suoi 
provventi  colonici. 

Le  persiane  abbassate  non  lascian  penetrare  se  non  una 
luce  discreta;  il  cananno  canticchia  sottovoce  in  una  gab- 
biola  a  pagoda,  e  la  signora,  aspettando  Figaro,  consulta  la 
posta.  Ecco  le  lettere  de'  suoi  cascanti  lontani  e  vicini, 
ecco  quelle  delle  amiche  di  Napoli  e  di  Parigi,  ecco  il 
recente  volumino  d'un  letterato  di  moda  e  i  due  «  tomi  » 
del  Sopha  di  Crébillon,  che  le  spedisce  di  Francia  un  ca- 
detto in  permesso.  Ella,  sbadatamente,  dà  un'  occhiata  a 
tutto,  s'indugia  con  maggior  compiacenza  sulle  epistole  pet- 


—  42  — 

tegole  che  s'affrettano  a  comunicarle  l'ultimo  piccolo  scan- 
dalo, e,  di  tratto  in  tratto,  sbadiglia. 

All'improvviso  la  non  toscana  Olivetta  annunzia  : 

—  'SftCunzu   Vane  Ilo. 

E  il  famoso  parrucchiere  con  bottega  al  X)ico  teatro 
Nuovo,  il  Nestore  degli  architetti  della  pettinatura,  l'inven- 
tore del  mezzo  torrione  irresistibile  e  delle  «  pilucche  di 
capelli,  naturali,  che  durano  per  sei  in  sette  anni,  e  si  pos- 
sono portare  sei  mesi  senza  pettinare  »  (1),  monsieur  Ja- 
cques Venel,  fornisore  dei  teatri.  S'inchina  due  volte  sotto 
la  porta  e  vi  rimane,  immobile,  aspettando. 

—  Avanti,  caro  Venel.  Son  bella  e  pronta.  Che  mi  dite 
di  bello?  Novità? 

—  Rien  de  nouveau,  madame.  Il  fait  bien  chaud  ! 
La  signora  si  fa  vento  con  un  giornaletto. 

—  E  gli  affari  ? 

—  Oh,  pas  mal.  Fino  a  quando  rimarranno  aperti  i  teatri 
il  lavoro  non  mancherà.  Vi  porto  i  saluti  rispettosi  del  ca- 
valier  don  Eugenio. 

Ella,  già  seduta  alla  toeletta,  si  volta    premurosamente. 

—  Ah  !  Don  Eugenio  !   Era  a  teatro  ? 

—  Al  Nuovo,  ieri  sera,  in  palchetto.    'CVès  élégant. 

—  Con  la  baronessa  ? 

—  ^HCais....   madame.... 

—  Dite  pure  :   mi  diverte.   Con  la  baronessa  ? 

—  Mi  pare  di  sì. 

Segue  un  silenzio.  La  signora  si  morde  Je  labbra.  Un 
pettine  cade  mentre  lei  lo  porge  al  parrucchiere. 


(I)    Gazzetta  di  Napoli,  8   marzo    1762. 


—  43  — 

—  Mi  chiamò  apposta  —  soggiunge  monsieur  Venel,  rac- 
cattandolo —  per  incaricarmi  dei  suoi  doveri. 

—  Ottimo  giovane  !  Come  compito,  poveretto  !  E  voi 
frisate  sempre  donna  Isabella  ? 

—  Madame  la  baronne  ? 

—  Oh,  baronessa  così  per  dire!  Il  titolo  l'ha  comprato! 
Bella  nobiltà  !  Tutto  quel  che  posseggono  è  un  mulino  a 
Nola  e  sei  vacche  a  Portici  ! 

—  biadarne  la  baronne  non  si  serve   più  di  me. 

—  Come,  come?  V'ha  lasciato?  E  per  chi,  se  è  lecito? 

—  Non  so  precisamente.  Ma  ho  incontrato  ieri  la  came- 
riera e  m'ha  detto  che  la  signora  è  già  scontenta  del  nuovo 
parrucchiere. 

—  Ben  le  sta.   E  a  voi  deve  nulla  ? 

—  Entre-nous,  madame,  dodici  ducati  e  mezzo.  Ma  non 
vorrei.... 

—  Vi  pare  ?  Sono  discretissima,  non  dubitate.  Era  na- 
turale. Se  il  marito  non  le  passa  più  neppur  la  mesata  di 
lacci  e  spilli  /  Siete  pronto  ? 

—  Ai  vostri  ordini. 

Olivetta,  sollevando  la  portiera  : 

—  Il  signor  Abate. 

—  Oh,  Abate  carissimo  !   A  tempo. 

—  Impareggiabile  signora  contessa  !...  Caro  Venel. 

—  Sapete  che  accade  al  povero  Venel  ? 

—  Son  curiorissimo  di  saperlo  —  e  l'Abate  trascina  un 
seggiolino  presso  alla  toeletta. 

—  Donna  Isabella  lo  licenzia.... 

—  Oh,  oh! 

—  Peggio.  E  gli  rimane  debitrice  di  dodici  ducati  e 
mezzo  ! 


—  44  — 

—  Che  orrore  ! 

—  Avete  preso  il  cioccolatte  ? 

—  Non  ancora,  gentilissima  signora  contessa.  Oh,  a  pro- 
posito di  cioccolatte  !  La  signora  Isabella,  col  pretesto  che 
le  rovina  lo  stomaco.... 

—  L'ha  smesso  !  ? 

—  L'ha  smesso. 

—  Siamo  agli  sgoccioli.  Che  vi  dicevo,  Venel  ? 

—  Vous  aviez  raison,  madame. 

—  Cipria. 

—  Servo  subito. 

Sulla  toeletta,  da  un  grosso  scatolo  coperto  di  pizzo  ve- 
neziano, il  parrucchiere  cava ,  man  mano ,  gì  ingredienti 
della  bellezza.  C'è  là  dentro  tutto  un  arsenale  per  l' espu- 
gnazione de'  cuori  ;  la  tazza  del  calodontino  dell*  epoca, 
amabile  dentifricio  profumato,  il  vasetto  di  pasta  di  man 
dorle,  lo  scatolino  de'  nei,  quel  della  cipria  ,  1'  altro  dei 
gioielli,  un  altro  per  le  pastiglie  di  menta,  i  cerottini  al 
bergamotto,  la  spazzoletta,  il  cinabro  per  le  labbra,  il  sa- 
pone roseo,  una  bacinetta  di  porcellana,  uno  specchietto  a 
mano,  lo  scatolo  sottile  de'  guanti,  perfin  la  minuscola  «  bugia  » 
d'argento  cesellato,  che  regge  un  cero  ideale,  color  crema. 
Venel  sparge  di  cipria  l'opera  delle  sue  mani  sapienti 
L'abate  si  scosta;  eppur  la  cipria  ,  che  aleggia  in  nugol 
impercettibili,  gli  va  addosso  sulla  «  tampanella  »  e  gli  s 
mescola  al  cioccolatte.  Dalla  porta  aperta  dello  studio  s 
vede  il  marito  della  signora,  tutto  ancora  occupato  alle  sue 
addizioni. 

—  Scostatevi,  abate  —  sorride  lei  —  la  mia  polvere  v'in- 
vecchia. 

—  Che  dite  ?  Son  io  che  ve  la  rubo  ! 


—  45  — 

—  Spazzolatevi.... 

—  Non  sarà  mai  !  Mi  onora  troppo,  contessa.  Felice 
polvere,  che  parte  dalla  vostra  amabilissima  persona  !  Con- 
cedetemi di  serbarla. 

—  Siete  un  adulatore. 

—  La  verità  prima  della  vita.  Delizioso  questo  ciocco- 
latte. 

—  E  che  mi  narrate  di  nuovo  ?  Venel,  un  neo,  qui, 
presso  l'occhio....  Che  ne  dite,  Abate,  cambio  posto  alle 
moschette  ?  Una  passionnée  o  una   reveuse  ? 

—  Io  direi  tutte  e  due;  caratteri  della  vostra  beltà,  amante 
e  sognatrice. 

—  Venel,  tutte  e  due.  No,  no....  questa  più  in  qua, 
proprio  sulla  tempia....  benissimo. 

Venel,  dopo  averle  tolto  di  su  le  spalle  il  gran  tova- 
gliuolo che  scuote  e  ripiega,  s'inchina. 

—  La  signora  è  servita. 

Ed  ella,  mirandosi  ed  ammirandosi  allo  specchio  : 

—  Addio,  Venel.  Oggi  siete  stato  prodigioso  !  I  miei 
complimenti.  Dunque,  Abate,  novità  ?  Qui  qui,  Chérie  ! 

La  cagnetta  spagnuola  le  scodinzola  allegramente  intorno. 
Ella,  carezzandola,  si  sdraia  sul  sofà.  L'Abate  siede  rim- 
petto;  la  cagnetta  le   salta  in  grembo. 

—  Mi  avete  portato  i  versi  ? 

—  Vengo  adesso  dallo  stampatore.  Fra  tre  giorni  la 
prima  copia  del  libro  ai  vostri  piedi. 

—  Sempre  quello  stesso  titolo  ? 

—  Sempre.  Castalia  e  Ciparisso.  La  ninfa  mutata  in 
fonte,  il  favorito  di  Apollo  convertito  in  cipresso. 

—  Castalia  ?... 

—  E  Ciparisso.  Alla  fonte  ho  bevuto  per  i  miei  deboli 


—  46  — 

versi.  Ho  preferito  il    cipresso  pel  carattere  sentimentale   e 
malinconico  di  essi  e  per 

—  Vi  collocherò  molte  copie.  Ho  tante  amiche  !  Della 
signora  Isabella  non  garentisco;  è  una  lettrice  del  Cuoco 
sapiente 

Olivetta,  annunziando  : 

—  Il  cavaliere  don  Eugenio. 

—  Oh,  favorisca  il  cavaliere!  Giusto  si  parlava  di  qual- 
che persona  che  vi  sta  molto  a  cuore,  signor  cavaliere. 

Il  cicisbeo,  senza  abbandonar  la  mano  che  ha  baciata  : 

—  Nuovi  martini  ? 

—  Teatro,  palchetti,  sospiri....  Di  bene  in  meglio  !  Ad... 
ad...  Come  si  dice  in  latino,  Abate  ? 

L'Abate,  con  voce  strozzata  : 

—  Jìd  major  a,  ad  major  a  !...  Gustavo  uno  dei  vostri 
squisitissimi  biscotti... 

—  Olivetta,  biscotti  all'Abate.  Beveteci  un  sorso  di  Ali- 
cante. Caro  cavaliere,  voi  dimagrite  e  il  mondo  parla... 

—  Vi  giuro... 

—  E  per  chi,  poi  ?  Non  vi  pare  che  la  vostra  fiamma 
abbia  le  braccia  troppo  grosse  ? 

—  Ma  vi  giuro... 

—  La  bocca  troppo  larga  ?  E  quel  modo  di  camminare  ? 
Gesù  !  Caro  mio,  l'incesso  delle  signore  di  nascita  si  scorge 
un  miglio  lontano  ! 

L'Abate,  rosicchiando  il  quarto  biscotto  : 

—  £t  gravi  incessu  patuit  Dea.  E  Virgilio,  caro  cavaliere. 

—  Ecco.  Lo  dice  anche  Virgilio.  E  vi  pare  che  donna 
Isabella,  la  quale  ha  i  suoi  quarant'anni  suonati 

—  Oh,  no  !  E  troppo,  quarant'anni... 

—  Mettiamo  trentacinque,  mettiamo  trenta... 


—  47  — 

Olivetta,  ricomparendo  : 

—  La  signora  baronessa  di  Chiaraselva. 

—  Oh,  Isabella  !  Core  mio  !  Bellezza  mia  !  Benvenuta, 
carissima...  Olivetta,  sedie...  O  vogliamo  passare  in  salone? 
Gioia  mia,  come  state  bene  !  Un  portento  ! 

—  E  voi  !  Un  amore  !  Ho  sentito  che  c'era  musica.... 

—  Riparte  per  Bologna  un  amico  di  mio  marito,  nipote 
del  conte  Zambeccari.  Un  po'  di  musica  per  onorarlo. 
Ve  lo  presenterò  ;  un  perfetto  cavaliere.  Forse  avremo 
la  Bernasconi  e  Pacchiarotti.  E  voi  sempre  la  prima 
arrivata  !  Sempre  la  più  fida  amica  !...  Come  siete  ben 
pettinata  !  Un  bacio,  Sabella  mia  !...  Passiamo  in  salone, 
tesoro  ! 

S'abbracciano  e  baciano.  L'Abate  e  il  cavaliere  si  guar- 
dano, sorridendo.  Un  romor  di  voci  arriva  fra  tanto  dal 
salone  che  a  poco  a  poco  va  raccogliendo  i  suonatori,  le 
altre  amiche,  gli  altri  amici  della  padrona  di  casa,  il  mae- 
stro di  ballo,  il  nipote  del  conte  Zambeccari,  de'  vecchi 
viveurs  tabaccosi,  galantissimi  ancora,  dei  pedanti  arcigni, 
un  altro  poeta  e,  all'ultimo,  accolto  da  applausi,  il  maestro 
di  cappella  Giacomo  Insanguine,  con  sotto  l'ascella  il  rondò: 
Ricordati  ben  mio!  della  sua  ultima  opera:  Arianna  e 
^eseo  e,  al  braccio,  la  «  cantarina  »  Bernasconi,  che  dovrà 
essere  Arianna  nel  prossimo  inverno,  al  San  Carlo.  Riverenze 
da  ogni  parte,  maestro  di  casa  e  sorbetti  in  giro,  frasi  me- 
late o  pepate  in  ogni  crocchio,  ventaglietti  che  s'agitano 
continuamente  e  svolazzan  qua  e  là  come  tante  enormi 
farfalle  variopinte,  che  nascondono,  spiegati  sul  volto,  un 
sorriso  o  una  frase,  che  picchiano  ,  rinserrati ,  sopra  una 
mano  che  s'avanza  troppo  oltre.  Girano,  a  ogni  intermezzo 
del   concerto,  tabacchiere  ornate  di  ritratti    miniati,    scatole 


—  48  — 

d' origliela  (I)  piene  di  buon  «  puliero  »  leggerissimo,  adot- 
tato per  rendei  meno  frequente  lo  starnuto,  piccole  fiale  di 
odori,  pezzuole  ricamate  con  un  Cupido  all'iniziale,  canzo- 
nette recenti,  poesie  degli  autori  presenti,  che  fan  le  viste 
d'arrossire  e  rimpiccinirsi.  Appunto  la  padrona  di  casa  ne 
va  leggendo  una  dell'Abate,  fresca  fresca  : 

La  damina  all'ombra  bruna 
move  il  piede  ed  alle  piante 
quasi  dir  vorria  che  amante, 
che  d'amor  penando  va... 

Ella,  gettandosi  addietro,  sospira  :  Deliziosa  !  E  tutti  ri- 
petono :  Deliziosa  !  Deliziosa  !  Gli  anglomani  e  1  gallomani, 
in  gruppo,  discutono  fervidamente,  la  Bernasconi ,  impiedi 
presso  alla  spinetta,  consulta  i  suoi  pentagrammi  al  leggìo, 
rinsanguine  batte  col  medio  sul  mi  di  tono  e  il  lamento 
dei  violini  a  poco  a  poco  vi  si  accorda;  il  nipote  di  Zam- 
beccari  allungato  su  d'uno  sgabello  vi  si  bilica,  una  mano 
inanellata  sul  pomo  del  bastone,  l'altra  sulla  spalliera  della 
poltroncina  ove  siede  la  padrona  di  casa.  Di  sottecchi, 
mentre  par  che  ognuno  badi  ad  altro,  a  sorbir  limonata,  a 
discutere,  ad  ammirar  gli  arazzi  di  Bonito  alle  pareti,  a 
giuocare  a  domino,  tutti  sorvegliano  e  comentano  questa  no- 
vella jlirlation  della  sensibilissima  donna  Violante.  Il  marito 
gentil  queto  sorride  e  va  da  questo  a  quello  ed  offre  «  Si- 
viglia »  e  domanda  a  un  fido  amico,  sottovoce,  notizie  d'una 
cantarina  »    del   Fiorentini.    Arriva    sempre    qualche    altro 


(  I  )  Radice  che  prese   nome  dal   paese  dal  quale   venne.   Se  ne    fabbrica- 
vano  tabacchiere.  —  Vedi   PARINI  :   77  Giorno. 


—  49  — 

azzimato  giovanotto  del  buon  gusto,  saluta  in  giro  con  due 
o  tre  inchini  cumulativi  e  va  poi,  sorridendo,  in  punta  di 
piedi  —  poi  che  la  Bernasconi  ha  principiato  a  cantare  — 
a  deporre  sui  tepidi  avorii  della  padrona  di  casa  un  rispet- 
tosissimo bacio.... 

Adesso  le  penombre  del  giardino  favoriscono  i  colloquii 
ottenuti  in  salone.  Eccoli  impegnati  presso  alla  grotticella 
arcadica  incorniciata  di  capelvenere  e  di  campanule,  attorno 
alla  fontana  di  cui  il  tranquillo  specchio  dell'acqua  si  sparge 
di  foglie  cadute,  nel  fitto  d'un  boschetto  artificiale,  d'avanti 
a  un  muricciuolo  vestito  di  amaranti  e  di  geranii.  Anche 
la  padrona  di  casa  ha  sentito  bisogno  di  pigliar  fresco  ; 
servita  di  braccio  dall'ospite  forestiero  gli  ha  raccontato,  per 
via,  molte  novellette  amene  sul  conto  di  tutti  gl'intervenuti 
e  due  volte,  su  per  la  scala  di  marmo,  com'ella  inciampava, 
l' ospite  l' ha  sorretta.  Ora  chissà  mai  che  si  dicono  al 
conspetto  dell'erme  bianche  sorridenti  tra  l'ombre  !  Ella  tal- 
volta, lo  ascolta  in  silenzio,  gli  occhi  vaganti,  distratta.  E, 
pensosa  e  muta,  come  l'Abate  ha  scritto  nella  sua   poesia, 

tremolare  osserva  appena, 

non  stormir  le  fronde  al  vento... 

E  seccata,  è  stanca,  è  nervosa,  ha  sonno  ?  Cos'ha  ?  Dopo 
tutto  chi  più  felice  di  lei  ?  Un  buon  pranzo  sarà  pronto 
fra  poco,  poi  la  carrozza  la  porterà  alla  passeggiata  a  Pog- 
gioreale  o  a  Chiaia,  poi  troverà  delle  amiche  e  degli  altri 
adoratori  in  qualche  baracca  alla  Fiera  ove  scenderà  per 
gustare  un  sorbetto,  nuovi  cicisbei  1'  aspetteranno  al  Nuovo 
o  al  Fiorentini,  si  cenerà  a  Posilipo  e,  infine,  sarà  accom- 
pagnata fin  alla  porta  di  casa  da  tutti  quei  giovanotti  che 
saliranno  le  sue  scale  canticchiando,  e  le  rischiareranno  con 

DI  GIACOMO.  -  5.    Carlino.  4 


—  50- 
ìe  torce  a  vento    tolte  di  mano  ai  volanti.  Dunque  che  ha  ? 
Quale  fastidio  ìa  opprime  ? 

Ahimè  !  Come  molte  sue  pari  di  questo  suo  tempo  folle 
ed  inane  in  cui  si  sospira  e  si  parla  a  vuoto,  ella,  po- 
verina, non  ama,  non  ama,  non  ama... 


AL   CASTELLO   DI   LIVERI. 


CAPITOLO  SECONDO. 

Commedie  e  commedianti  di  corte  —  Il  marchese  di  Liveri  — 
Giambattista  Lorenzi  —  La  virtuosa  canaglia  cesarea. 

I. 

1  RA  le  moltissime  apologie  di  Carlo  III  trovo  una,  per 
avventura,  delia  quale  un  paragrafo  dà  conto  de*  criterii 
del  Bien  Aimé  di  Napoli  intorno  ai  publici   teatri  (1). 

«  Volea  il  Re  Carlo  III  —  dice  quel  brano  che  vi  fos- 
sero pubblici  ed  onesti  teatri,  acciò  la  gente  vi  andasse  a 
divertirsi  ;  per  il  fine  che  essendo  così  occupata  la  gente 
non  era  soggetta  ai  cattivi  suggerimenti  dell'ozio  ;  anzi  ci- 
tava Egli  sempre  la  massima  di  un  vecchio  Governatore 
spagnuolo  che  quando  sapea  esservi  delle  commedie  in 
città  stava  spensierato  e  contento,  non  temendo  allora  disor- 
dine alcuno.  » 


(l)  Francesco  d'Onofrio,  Elogio  di  Carlo  III,  Napoli,  MDCCLXXVI. 

-  51   - 


—  52  — 

Il  buon  re,  qui  n'avit  point  de  Ut  dans  son  apparttment, 
tant  il  était  exact  a  coucher  dans  celai  de  la  teine  (1), 
addimostrava,  in  sul  principio  della  sua  venuta  a  Napoli, 
un  sacro  orrore  per  qualunque  cosa  puzzasse  di  palcoscenico. 
S'egli  emulava  Annibale  in  fortezza  e  Cesare  nel  consiglio, 
nella  virtù  somigliava  a  Scipione.  Era  sua  favorita  occupazione 
la  caccia,  e  in  codesta  tendenza  cinegetica  imitava  il  suo 
real  collega  Luigi  XV  ;  ma  se  quest'  ultimo  nelle  sue  pe- 
regrinazioni venatorie  era  seguito,  Ettore  biondo,  da  tutte 
quelle  ardenti  Pantasilee  che  furono  la  giovanetta  Clermont, 
la  contessa  di  Tolosa  e  la  Charolais,  re  Carlo  amava  di 
trovarsi  solo  a  Procida  o  a  Bovino,  ove  insidiava  fagiani 
e  snidava  cinghiali.  Fu  appunto  in  una  di  queste  solitarie 
partite  di  caccia  ch'egli,  attraversando  nel  febbraio,  ad  A- 
riano,  un  ruscello  gonfiato  dalle  pioggie,  rischiò  d'  annegare 
assieme  al  conduttore  del  suo  galesse  (2).  Dalle  sue  fre- 
quenti escursioni  tornava,  dunque,  stanco  a  Palazzo  ;  ascol- 
tava Tanucci,  inzuppava  anche  lui  qualche  biscotto  nel  vino 
delle  Canarie  che  la  contessa  di  Charny,  la  zoppetta,  ser- 
viva, in  ginocchio,  alla  regina  e,  dopo  avere,  con  molto 
fervore,  recitato  le  sue  preghiere,  se  ne  andava  tranquilla- 
mente a  letto  per  levarsi  all'alba. 

Fra  tanto  erano  arrivati  da  Parma  quadri,  arazzi  e  tappez- 
zerie per  la  Reggia  (3);  da  Venezia  specchi  enormi,  in  cui 
spesso  una  galante  scena  di  dame  e  di  cavalieri  si  rifletteva, 


(1)  CHARLES  DE  BROSSE  —  L'Italie  il  \)  a  cent  ans,    1836,   Paris. 

(2)  BECCATINI  —  Storia     del    regno     di    Carlo  III    di    Borbone,    Ve- 
nezia, MDCCVC. 

(3)  SENATORE  —  Giornale  storico,    cit. 


—  53  — 

in  fuga,  al  lume  abbagliante  dei  ceri;  dalla  Sassonia  vasi, 
e  porcellane  mirabili,  emulate  forse,  non  certo  superate  in 
appresso  dalle  nostre  maioliche  di  Capodimonte.  La  Reggia 
era  diventata,  come  dice  una  poesiola  del  tempo  «  1*  anti- 
cammera  de  lo  Paradiso  »  ma  gli  angeli  in  guardinfante  e 
i  serafini  in  parrucca  e  spadino  si  seccavano  maledetta- 
mente delle  vuote  e  languenti  conversazioni  serali,  in  cui, 
per  rispetto  alla  malinconica  e  moralissima  Maria  Amalia, 
non  si  poteva  nemmanco  dir  male  della  gente. 

A  poco  a  poco  le  stesse  arti  che  il  re  incoraggiava,  gli 
artisti  che  gli  arricchivano  la  casa,  la  maggior  frequenza 
della  nobiltà,  piegata  finalmente  a'  desiderii  di  lui  che  la 
sopportava  sciocca  ma  non  la  permetteva  sopraffattrice,  il 
grido  trionfale  che  arrivava  di  Francia,  ove  la  ricchezza 
della  Corte  e  la  sua  vita  mitologica  profumavano  tutta  l'epoca, 
avvicinarono  Carlo  III  alla  mondanità  dalla  quale  prima 
egli  era  così  filosoficamente  rifuggito.  I  prodotti  inventivi 
del  movimento  francese  che,  nell'ombra  malsana  degli  ap- 
partamenti reali,  si  rivestiva  d'un  carattere  asiatico  e  aveva 
un'indole  assolutamente  orientale,  giunsero  pur  qui,  d'oltr'Alpi, 
a  più  oneste  mura,  ma  vi  furono  presso  adottati.  Il  bosco  di 
Portici  ebbe  le  stesse  tavole  da  pranzo  che  a  Versailles 
sparivano  e  ricomparivano  attraverso  il  pavimento,  quelle 
servantes  e  officieuses  inventate  dal  meccanico  Loriot.  Vi 
furono  balli  a  Corte,  trattenimenti  musicali,  feste  ricchissime 
nel  teatro  di  San  Carlo.  E  il  teatrino  di  Palazzo,  rifatto  sul 
gusto  barocco  dell'epoca,  si  preparò  ad  accogliere  poeta  e 
compagnia  novelli. 

La  scelta  del  poeta  —  così  allora  si  chiamava  anche  il 
commediografo  —  cadde,  per  caso,  su  Domenico  Luigi  Ba- 
rone, marchese  di  Liveri.  Dico  per  caso  poi  che  Carlo  III, 


—  54  — 

occupato  in  faccende  più  gravi,  si  curava  assai  poco  delle 
manifestazioni  letterarie  che  infioravano  i  primi  anni  del 
suo  regno,  Ce  roi  —  scrive  un  suo  poco  tenero  biografo  — 
que  l'on  a  représenté  comme  le  protecteur  des  lettres  était 
d'une  excessive  ignorance  (1).  Questa  asserzione,  d'altra 
parte,  può  pur  essere  gratuita,  o  almeno  esagerata,  visto 
che  la  persona  che  la  esprimeva  era  un  di  quei  forestieri 
commessi  viaggiatori  della  critica  per  progetto. 


II. 


Domenico  Luigi  Barone,  dei  signori  di  Liveri,  nel  1 703 
era  tra  i  convittori  del  Collegio  dei  Nobili  e  recitava  da 
^ilade  in  un  dramma  tragico  intitolato  Clitennestra  (2). 
Nel  1 733,  ammogliato,  padre  di  molti  figli,  povero,  ridotto 
a  starsene  per  necessità  in  un  suo  mezzo  diroccato  palazzo 
a  Nola,  dove  possedeva  pochi  jugeri  di  terreno,  memore 
della  Clitennestra  che  lo  aveva  svelato  dalle  oneste  tavole 
d'un  palcoscenico  di  collegio,  scriveva  commedie  e  le  fa- 
ceva rappresentare  nel  teatrino  di  casa. 

Ho  sottocchi  una  di  codeste  commedie,  e  appunto  quella 
Contessa  (3)  che  levò  tanto  romore  e  venne  tante  volte 
replicata.  Il  ritratto  di  Carlo  III,  un  buon  rame,  è  all'anti- 


(1)  G.  ORLOFF  —  Mémoires  hìstoriques,  politiques  et  lilteraires  sur  le 
royaume  de  Naples,    Paris,    1819. 

(2)  B.  CROCE  —  /  teatri  di  Napoli,  Archivio  storico  per  le  Provincie 
Napoletane,  anno  XV,  Fase.  II,  p.   332. 

(3)  La  Contessa,  commedia  di  Domenico  Barone,  baron  di  Liveri,  de- 
dicata alla  Sacra  Maestà  di  Carlo  IH  Borbone,  Napoli.  Nella  Stamperia  di 
Felice  Mosca,    MDCCXXXV. 


—  55  — 

porta  del  libro  ;  seguono  la  prefazione  dello  stesso  Liveri 
e  due  lettere  ammirative,  scritte,  la  prima,  da  Paolo  Mattia 
Doria,  l'altra  dal  Conte  Arrigo  Brinzi,  pisano.  La  prefazione 
principia  col  seguente  salamelecco  : 

«  Tutto  ripieno  d' un  umile  paventoso  veneramento,  e 
niente  nullameno  scompagnato  d'un'animosa  e  tragrande  si- 
curezza, prostrato  ai  piedi  della  Real  Maestà  Vostra  mi 
presento.  In  veggendomi  alla  presenza  di  Voi,  mio  subli- 
missimo  Monarca,  mi  sorprende  un  riverente  timore  ;  e  quella 
naturai  benignità  che  all'altissimo  Vostro  grado  va  sì  bene 
annestata,  mirabile  ardimento  mi  porge.  » 

Cortigiano.  Ed  era  proprio  costui  quegli  che  affermava 
di  volersi  proporre,  per  via  dell'arte  sua,  povera,  melensa, 
priva  di  spirito  e  di  verità,  la  satira  de'  costumi  del  tempo  ! 
Servo  egli  stesso,  quale  nobile  orgoglio  avrebbe  potuto  pren- 
dere a  esempio  per  contrapporlo  all'avvilimento  d'un  de'  suoi 
personaggi  ?  Io  non  so  concepire  un  artista  «  riprofondato  » 
ogni  momento  a'  piedi  d'un  re,  con  un  copione  tra  le  braccia 
conserte  ;  la  sua  produzione  nata  schiava  ed  enfatica  non 
potrà  essere,  come  nel  caso  di  questa  del  Liveri,  se  non 
1*  infingimento  più  manifesto  d' uno  spirito  depresso.  Le 
commedie  del  Liveri,  che  ebbero  nel  «  Rea!  Teatrino  » 
tanto  successo,  sono  scritte  da  tale  che  ignorando  la  lingua 
se  ne  voleva  finger  padrone  ;  il  contenuto  meschino  fa  il 
paio  con  la  povertà  della  forma.  E  su  per  un  canovaccio 
romanzesco  sono  artificiosi  colpi  teatrali,  situazioni  inaspet- 
tate ,  intrighi  puerili.  Sforzate  e  scorrette  metatesi,  modi 
di  dire  gonfi  e  bestiali,  parole  o  vuote  di  senso  o  ado- 
perate senza  conoscenza  del  loro  valore,  un'andatura  grave, 
noiosa,  stentata  :  ecco  i  bei  meriti  di  quel  drammaturgo 
cesareo.  E  fra  tanto  che  coro  di  lodi  e  quanta   gente  am- 


—  56  — 

mirata  per  far  piacere  al  protettore  di  così  goffo  pasticciere  ! 
La  Contessa  fu,  come  il  Liveri  medesimo  dice  in  quella 
sua  mostruosa  prefazione,  suo  «  secondo  parto  »  Ahimè,  quali 
figli  !  E  venne  rappresentata  a  Nola,  della  quale  il  Liveri 
«  avventuroso  patrizio  esser  si  vanta  » ,  come  seguita  a  dire 
egli  stesso.  La  nobiltà  nolana,  e  quella  di  Napoli  che  si 
recava  lì  a  villeggiare,  volendo  ammazzare  il  tempo  la  sera, 
affollavano  il  teatrino  domestico  ove  il  Liveri  faceva  recitare 
quelle  pappolate  da'  suoi  vassalli.  L'aria  di  campagna  ras- 
soda il  sangue,  rimette  a  posto  i  nervi  e  fa  benevoli  anche 
i  più  incontentabili  ;  la  Contessa  fu  gabellata  per  un  capo- 
lavoro e  Carlo  III,  passando  per  Nola,  vi  si  fermò  per 
udirla.  La  fortuna  di  Domenico  Barone  principiò  da  quella 
sera,  e  la  Contessa,  pur  essendo  secondo  parto  di  lui,  fu, 
per  l'intervento  del  re  alla  recita,  battezzata  per  la  prima 
dai  torchi  del  Mosca.  Il  Napoli  Signorelli  (1)  che  afferma 
essere  state  stampate  le  commedie  liveriane  «dal  1741 
al    1 750  in  circa  »   si  sbaglia,  mi  pare,  di  sei  anni. 


III. 


Ecco    dunque    il    Liveri  commediografo    di   Corte  e  la 

Contessa  al  Real    Teatrino  di  Napoli.  I  personaggi    della 

commedia,  che  si  compone  della  bellezza  di  cinque  lunghi 
atti,  sono  i  seguenti  : 

Contessa  Eufrasia  Castrucci  in  Casa  Gigli,  sordastra. 
Berenice  Gigli,  sua  figliuola. 


(1  )  NAPOLI  SIGNORELLI  —  Vicende  della  coltura,  ecc.,  Tomo  V,  pag.  1  52, 
Edizione  del    1785. 


—  57  — 

Tarquinio  Gigli,  suo  figliuolo  sciocco. 

Conte  don  Zefronio  Buonfati,  napolitano  suo  secondo  marito. 

Dorotea  Castrucci,   nipote  della  Contessa. 

Messer  Cruenzio,  maggiordomo  di  casa  la  Contessa. 

Giannetta,  cameriera  di  casa  la  medema. 

Ercolino,   Paggio  di  casa  la  medema. 

Marchese  Ridolfo  Orlandini,  Fiorentino. 

Conte  Sigismondo  Spileti,   Fiorentino. 

Duca  Emanuele  Quiriggi,  Lucchese. 

Beltrano,  suo  cameriere. 

Alfonsina  Fronsini,   nobile  giovane  Sarzanese. 

Bargello. 

Paggio,  cameriere,  servitore  di  casa  la  Contessa. 

Soldati  e  ladri  che  non   parlano. 

La  scena  della  commedia  è  Lucca,  parte  piazza,  parte  casa 
della  Contessa. 

La  tela  è  delle  più  faticose,  non  perchè  l'equivoco  si  mol- 
tiplichi pel  naturale  avvicendarsi  degli  svariati  avvenimenti, 
ma  proprio  perchè  lo  scrittore,  allungandolo  con  faticosi 
espedienti,  ha  maledettamente  aggravato  il  suo  brodetto  in- 
digesto. 

Quel  Ridolfo,  cavaliere  fiorentino,  ha  ammazzato,  non  si 
sa  come,  un  altro  signore,  e  l'amico  di  lui  Sigismondo  gli 
ha,  per  quanto  appare,  tenuto  mano  nella  bisogna.  Fuggono 
a  Lucca,  ove  Berenice,  innamorata  di  Ridolfo,  lo  aspetta 
per,  finalmente,  sposarlo.  Ma  Ridolfo,  che  non  sa  o  non 
vuole  confessarle  d'  aver  ucciso  per  mala  sorte  giusto  un 
cugino  di  lei,  cerca  di  infinocchiarla  pel  momento  e  di  per- 
suaderla ad  aspettare  ancora  un  po',  per  aggiustare,  fra 
tanto,  come  si  può  meglio,  la  faccenda  dello  sciagurato 
duello.    Berenice,    insospettita    dell'  indugio,    immagina  che 


—  58  — 

Ridolfo  suo  voglia    addirittura    abbandonarla    per    un'  altra 
donna,  e  principia  a  smaniare. 

La  scena    seguente,    con    cui    comincia  la  commedia,  è 
saggio  della  maniera  liveriana. 

IV. 

«  Piazza  di  notte. 

Ridolfo  con  cappa,  e  Berenice    su    d' un    Verone,    sotto    del 

quale  una  porta  fatta  a  cancello,   che  introduce  al  giardino  dì 

casa. 

Rid.  —  E  non  rispondi?  Che  di'  tu?  Ti  contenti?  (Entrasene 
Berenice  senza  rispondere)  Ed  ove  vai  ?  Berenice,  ove 
vai  ?  Fermati  eh'  io  qui  spiro  !  Oh,  Dio,  muojo  !  Odimi, 
trattienti.  Non  parto  nò,  te  lo  giuro.  Ascoltami  un  altro 
momento  solo.  Che  farà  ?  Oh,  me  confuso  !  (Ode  spingere 
il  cancello)  Chi  sarà  a  quell'uscio  ?  Che  fo  io  ?  Chi  sarà  ? 

Ber.  —  Son  io,  inumano,  sconoscente  ;  fermati  !  (Forza  l'uscio 
da  dentro). 

Rid.  —  Mi  fermo  sì  ;  che  far  vuoi  ? 

Ber.  —  Spingi  quest'uscio. 

Rid.  —  A  che  ?  O  dove  mi  veggio  ! 

Ber.   —  Spingilo,  dico,  o  che  l'infrango  con  le  mie  tempie. 

l^id.  —  O  morte.  Piano,  che  ci  sarà  chi  n'ode. 

Ber.  —  Per  questo  il  so.  Ridolfo,  o  che  lo  spingi  o  ch'io  qui 
boccheggio  l'anima. 

T^id.  —  Lo  spingo  sì,  fermati. 

3er-  —  Presto. 

Rid.  —  O  disperato  che  sono.  (Dando  un  urlone  al  cancello, 
lo  apre). 

{Ber.  —  (Fuori)  Disperata  sono  io,  Ridolfo.  Parti  ,  va ,  eh'  io 
non  ti  fermo,  no.  Sappi  per  sicuro,  crudele,  che  qui  non 
resto.  Servami  questo  ('Prendendosi  il  mantello  di  Ridolfo, 
se  lo  addossa)  per  aver  davanti  gli  occhi    di    continuo    la 


-  59  — 

tua  conoscenza  (Si  prende  ancora  il  cappello  del  mede- 
simo, e  poneselo)  perchè  ti  cancelli  da  questo  cuore,  per- 
chè più  non  t'abbiano  a  mirare  gli  occhi  miei.  Addio. 

Rid.  —  (trattenendola)  Che  di'  tu  ?  Ove  vai  ?  Dio  soccorri. 
Conosci  chi  se',  Berenice.  Levami  prima  la  vita. 

£Ber.  —  Lasciami,   o  che  farnetica  divengo  !  » 


V. 


Per  fortuna  capita  a  tempo  Dorotea  che  cerca  di  met- 
ter pace.  Meno  nervosa,  più  assennata  della  cugina ,  ella 
chiede  a  Ridolfo  perchè  voglia  così  d'  un  subito  mutare 
avviso  e  allontanarsi.  Ridolfo,  che  non  ne  può  più,  narra 
il  fatto  dell'omicidio.  Berenice  esclama  :  Dio,  che  sento  ! 
E  subito  grandi  frasi  retoriche  per  farsi  perdonare  dal  caro 
oggetto  del  suo  cuore.  Intanto  come  si  farà  ?  Berenice  lon- 
tana da  Ridolfo  morrebbe;  Ridolfo  senza  Berenice  si  spe- 
gnerebbe.... Ecco,  Dorotea  ha  un'idea!  A  casa  la  madre 
di  Berenice  v'è  bisogno  d'un  maestro  di  ballo;  il  Conte  è 
sciocco,  la  Contessa  è  sorda;  a  meraviglia  :  il  cavaliere  Ri- 
dolfo sarà  il  professore  di  minuetto.  E  Sigismondo  ?  Pas- 
serà per  servo  di  lui. 

Or  come  Ridolfo  e  Sigismondo,  trattenendosi,  fuggiaschi 
dopo  il  delitto,  in  un  paesello  toscano,  s'erano  nascosti  per 
un  pezzetto  in  casa  d'un  tale  che  aveva  una  bella  figliuola, 
costei,  che  è  quella  Alfonsina  Fronsini,  Sarzanese,  inna- 
morata a  morte  di  Sigismondo,  capita  anch' ella  a  Lucca, 
sotto  maschili  spoglie.  Notate  :  Sigismondo,  ingannando  la 
buona  fede  dell'Alfonsina,  le  ha  detto  d'esser  Ridolfo.  Di 
qui  una  quantità  d'equivoci,  specie  in  casa  della  Contessa, 
ove  l'Alfonsina  si    presenta    ed    è    accolta.    Equivoci    che 


—  60  - 

oggi,  presentati  in  forma  comica  dal  più  comune  de'  fab- 
bricanti di  pochades,  otterrebbero  un  sicuro  successo  di  ri- 
sate. Liveri  li  aggrava,  invece,  di  serietà,  li  appesantisce 
con  l'introduzione  tragica  di  nuovi  lagrimanti  e,  per  quattro 
atti  che  seguono  al  primo,  li  mantiene  continuamente  alla 
stessa  insopportabile  temperatura. 

Che  dire  del  tipo  del  Conte  Buonfati ,  il  buffo  napole- 
tano ?  Parola  d'onore,  fa  recere.  Di  quel  Cruenzio,  mag- 
giordomo di  casa  Buonfati,  Cerlone  ha  fatto  un  personag- 
gio ridevolissimo  che  più  sopra  ho  pur  citato:  Y Abate  Tac- 
carella.  Ma  quanta  maggiore  freschezza  e  che  genialità  più 
sincera  nella  imitazione  cerloniana  ! 

La  Contessa  termina,  infine,  con  quattro  matrimoni!  ;  al 
quinto  atto  si  viene  a  sapere  che  Ridolfo  è  stato  graziato; 
tutti  sposano,  perfino  le  serve,  e  felicissima  notte.  Il  Napoli 
Signorelli,  che  pare  tenerissimo  della  produzione  del  Liveri, 
gli  osserva,  meno  male,  lo  stento  della  lingua,  poco  cri- 
stiana. L'autore  della  Storia  Critica  de'  teatri  è  longanime. 
Ecco  come  scrive  il  Liveri  :  «  Tarquinio  eh'  è  il  cucco 
della  mamma  si  affievolisce  il  cervello  in  pensar  modo  d'e- 
redi averne  e  trovar  non  potendo  fra  più  di  mille  donna 
da  porli  avanti  mente  ha  posto  alla  signora  Dorotea  ni- 
pote ».  Capite  un  po'?  E  questa  è  letteratura!  E  indo- 
vinate come  riprese  i  sensi  la  svenuta  Berenice  ?  «  Al  fre- 
quentarseli alle  narici  un  distillato  spiritoso.  »  E  piangeva, 
sapete  perchè  ?  Dorotea  lo  dice  :  «  Piagne  perchè  vedesi 
la  donna  più  stramazzata  che  nacque  ».  E  la  rimprovera 
così:  «Berenice,  Berenice!  Sei  capitosa  quanto!  E  m'ad- 
dogli !  »  —  per  dirle  che  è  testarda  e  l'addolora. 

Or  chi  recitava  quelle  sciempiaggini  ?  Da  una  lettera 
dello  stesso  Liveri  cavo  il  documento  che  segue. 


61   - 


VI. 

Nota  degli  Attori  così  antichi,  come  nuovi,  che  entrano  nella 
rappresentazione  della  ventura  commedia  detta  il  GlANFE- 
CONDO  e  del  mensuale  sussidio  da  darsi  ai  medesimi. 

Francesco  Mundo,  che  nella  Commedia  della  Con- 
tessa facea  la  parte  di  Sigismondo,  in  questa  fa  da 
'Primo  Innamorato,  1  soliti Due.         10 

Francesco  Addamo,  che  nella  passata  facea  da  Na- 
poletano e  deve  farlo  nella  ventura,  i  soliti  »         10 

Casimiro  Bisesto,  che  nella  passata  fece  la  Dorotea, 
nella  ventura  fa  da  Secondo  Innamorato,  i  soliti  .      »  9 

Pasquale  Manno,  che  nella  passata  facea  la  Gian- 
netta, in  questa  fa  da  Servo  accorto,   i  soliti    .      .      »  8.50 

Domenico  Macchia,  che  nella  passata  fecel'  Jllfonzina, 
in  questa  fa  da  Donna  semplice,  i  soliti     ...»  6.42 

Francesco  Vicidomini,  che  nella  passata  facea  la 
Berenice,  in  questa  fa  da  Prima  Donna,  i  soliti .     »  4.70 

Antonio  Spada,  che  nella  passata  facea  la  parte  di 
Cruenzio,  in  questa  fa  quella  di  Vecchio  Cortegiano, 
i  soliti »  6 

Felice  Perla,  che  nella  passata  fece  il  Duca  Ema- 
nuele, in  questa  fa  da  Altro  Cortegiano,  i  soliti  .      »  2.50 

Giuseppe  de  Martino ,  che  nella  passata  fece  la 
Contessa,  in  questa  fa  da  altra  Zitella  antica,  i  soliti.    »  3 

Antonio  Azarboni,  che  nella  passata  fece  [Ercolino, 
in  questa  fa  da  altro  Paggiotto,   i  soliti ....      »  3 

Domenico  Vaccaro,  per  la  solita  mercede  vitalizia.»  6 

A  Giuseppe  Luciano,  che  nella  passata  fece  da 
Bargello  e  nella  nuova  bisogna  per  altre  occorrenze.»  2 

Niccolò  Marotti,   suggeritore.      .......  5 

Che  in  tutto  fanno  Ducati »         75.90 


—  62  — 

Il  Gianfeccndo  fu  rappresentato  nell'  agosto  del  1 749. 
Questo  che  segue  è  un  brano  della  lunghissima  nota  delle 
spese  che  si  fecero  pel  Governatore,  nel  1 742. 


VII. 


«  Per  colla  diserrila,  colori  e  Pennelli  per  dipin- 
gere le  scene Due.     15.1,16 

Per  due  figure  di  Cartapista  servite  per  fingere  le 
persone  morte  nella  Commedia »     10 

Per  togliere  le  macchie  agli  abiti  degli  attori  nella 
replica  della  Commedia »       3 

Per  fattura,  imbiancatura  e  orlettina  mancante  alle 
scuffie  delle  due  donne  attrici »       6,1,5 

Per  para  160  guanti  serviti  per  l'attori  nella  Rap- 
presentazione o  replica »     20 

Pagati  a  monsù  Claudio  Belmonte  per  accomodare 
le  teste  e  i  volti  alle  donne  attrici  nella  prima  e  se- 
conda rappresentazione »     47 

Pagati  a  Biase  Romito  per  appaldo  di  tutte  le  pi- 
Iucche  dell'attori  e  comparse  nobili »     10 

Per  compra  di  cantata  4,42  sevo  a  due.  15  il  can- 
taro consumato  per  l'illuminazione  del  teatro    .      .      »     66,1,10 

Per  affitto  di  Galessi  serviti  per  condurre  8  degli 
attori  da  Napoli  e  luoghi  convicini  in  Napoli  »       4,2 

Passati  al  pasticciere  Domenico  Rotolo  per  vitto  de' 
suddetti  8  attori  dalli  26  luglio  1741  a  tutto  maggio 
1742  a  grana   12  per  ciascuno  il  giorno.      ...»  32ó,2 

Per  vino,  oglio  ed  altro  bisognevole  per  li  sudetti 
attori  per  il  tempo  come  sopra »     68,4,19 

Per  affitto  di  letti  per  li  sudetti  8  attori  forestieri  da 
giugno  1741  a  maggio  1742  a  carlini  12  al  mese  per 
ogni  letto »     55,1 


—  63  — 

Per  affitto  di  un  appartamento  della  casa  di  don  Giu- 
seppe Attanasio  alla  strada  Fiorentini  per  abitazione 
delli  suddetti  8  attori  per  l'annata  a  tutto  4  maggio  '42, 
spese  per  oglio,  candele  di  sevo,  bombace  e  teanelle 
di  sevo  per  l'illuminazione  dei  concerti  in  casa  di  esso 
barone  e  nel  Teatro  dalli  27  giugno  1741  per  de- 
cembre  1742 »  153,9 

Spese  per  medico  e  medicamenti  per  alcuni  attori 
ammalati »       9,1,5 

Pagati  al  pittore  Paolo  Saracino  per  sua  andata  a 
Liveri  per  diriggere  il  modello  del  Teatrino  portato 
poi  in  Napoli »     16 

Per  ventagli  4  per  le  donne »       1,1 

Per  rotolo  1/g  bombace  per  li  stuppini  alle  teanelle 
ed  oglio  cera  e  sevo »       4,2,6 

A  Niccolò  Casa  per  caffè  e  thè  con  zucchero  dato 
alli  Attori »       4,2,6 

Al  maestro  di  ballo  Gennaro  d'Imbimbo  per  con- 
certare per  mesi  tre  la  contradanza  »....»     12 


Vili. 


Le  commedie  del  Liveri  rappresentate  al  «  Real  Tea- 
trino »  furono  La  Contessa,  Il  Governadore,  L' Abate,  II 
Corsale,  Il  Qianfecondo,  L'Errico,  La  Claudia,  Il  Cava- 
liere, Qli  Studenti  e  //  Solitario.  In  ognuna  di  esse  era  il 
buffo  napoletano,  tipo  d'ignorante,  poltrone  quasi  sempre,  a 
cui  Domenico  Vaccaro  conferiva  la  comicità  e  lo  spirito 
che  il  Liveri  non  aveva  saputo  dargli.  Il  Vaccaro  ammalò 
gravemente  nel  1  742,  e  Liveri  perdette  il  migliore  dei  suoi 
commedianti.  Al    quale,    però,    fu    assegnato    dal    re,    che 


—  64  — 

ne  ricordava  l'irresistibile  buffoneria,  un  vitalizio  di  sei  du- 
cati al  mese  (1). 

Un  nostro  adagio  ammonisce  come  tutto  quel  che  luce 
non  sia  sempre  oro;  dovrebbe  immaginarsi,  per  lo  meno, 
che  il  Liveri,  al  rezzo  della  protezione  cesarea  diventato 
ricchissimo,  restituisse  all'antico  onore  aristocratico  la  sua  bi- 
cocca ove,  come  nel  Castello  della  miseria  di  quel  Sico- 
gnac  di  Teofilo  Gauthier,  non  rimanevano  se  non  un  gatto 
spelato  accanto  al  camino  e  un  magro  cavallo  nella  scu- 
deria. Nulla  di  tutto  questo;  il  povero  Liveri  visse  e  morì 
nelle  più  grandi  strettezze,  non  ricavando  dall'  opera  sua 
che  appena  una  dozzina  di  ducati  al  mese.  La  passione 
che  vi  metteva  lo  sviò  dal  guadagno,  il  desiderio  d'ottener 
sempre  un  apparato  scenico  grandioso  lo  cacciò  in  dispendii 
de'  quali  l'erario  del  re  si  rifiutò  di  ripagarlo;  per  ia  Contessa 
ci  rimise  —  com'egli  stesso  afferma  in  una  delle  tante  sue 
suppliche  —  perfin  di  saccoccia:  i  suoi  comici  glie  la  sma- 
grivano peggio,  ed  egli  «  doveva  piatire  per  esser  pagato.  » 
Mala  sorte  in  tutto  ;  andate  a  credere  all'  apparenze  !  E 
come,  lui  morto,  morirono  presto  le  sue  commedie  !  Nes- 
suna ch'io  sappia  gli  è  sopravvissuta  di  qualche  anno;  nate 
mostruose  in  tale  maniera  da  spaventare  la  verità  che  le 
aspettava  accanto  al  letto  e  farla  scappare  con  le  mani 
sugli  occhi,  esse  non  potettero  pigliar  mai  radice  nel  po- 
polo, abituato  alla  naturalezza  e  al  brio  della  commedia 
dell'arte.  Talvolta,  ripassando  i  documenti  che  riguardano 
la  compagnia  del  San  Carlino,  m'è  avvenuto  d'abbattermi 
in  qualche  riapparizione  d'una  commedia  liveriana.    Ma    è 


(1)  Archivio  di  Slato  —  Documenti  teatrali  del   1 700  —  Fascio  XII. 


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—  65  — 

stato  quando  alcuni  comici  domandavano  di  uscire  da  Na- 
poli, nell'estate,  per  trascinare  in  provincia  que'  ferri  vecchi 
d'un  onesto  repertorio,  i  quali  sembrava  che  dovessero  far 
più  romore  in  campagna. 

Morto  dunque  il  povero  Li  veri  alla  commedia  premedi- 
tata fu  sostituita,  nel  Teatrino  di  Corte,  quella  a  soggetto. 
Cominciava  a  sorgere  quel  luminoso  astro  dell'opera  buffa 
napoletana  che  fu  Giambattista  Lorenzi;  altra  vena,  altri  in- 
tendimenti e  una  vera  e  sincera  piacevolezza.  E  le  cose  erano 
andate  nel  modo  che  segue. 

Il  catedratico  Giuseppe  Pasquale  Cirillo,  detto  il  De- 
mostene del  Foro  partenopeo,  tra  un'arringa  e  l'altra  me- 
nava a  mente  la  parte  di  Covieìlo,  servo  raggiratore,  che 
rappresentava  poi  nel  teatrino  domestico  di  don  Carlo  Ca- 
rafa,  duca  di  Maddaloni,  ove  pur  recitavano  il  duca  stesso 
e  il  Lorenzi,  allora  giovanottmo,  da  innamorati.  Il  Cirillo, 
il  Lorenzi  e  un  altro  di  quei  filodrammatici,  chiamato  Giu- 
seppe Bisceglia,  manipolavano  i  soggetti;  Pietro  Napoli  Si- 
gnorelli  —  quegli  che  in  appresso  portò  co'  suoi  libri  tanto 
contributo  storico  alle  vicende  della  coltura  del  secolo  e  a 
quelle  dei  teatri,  mancato  commediografo  anche  lui  —  e 
Francesco  Antonio  Castiglia  recitavano  da  donzelle.  Nicola 
Curcio  faceva  da  servetta,  Giovan  Paolo  de  Dominicis  prima 
e  poi  Gennaro  Salerno  eran  vecchi  scrii,  Gaetano  Giordano 
sostituiva  talvolta  il  Cirillo  nella  parte  del  servo  furbo. 
Cinque  parti  buffe  erano  affidate  a  Cristofaro  Rossi,  Pa- 
scariello,  Nicola  Buonocore,  Marco  Macchietta,  Francesco 
Villani,  Petit-maìtre  affettato,  Francesco  Bauci  Jlhate  ffi- 
tontese,  Giuseppe  Bisceglia,  Vecchia  caricata.  Donne  niente; 
le  rappresentazioni  avevano  una  spiccata  indole  misogina  : 
proibite  le  donne  in  palcoscenico ,  erano  gli  uomini  che  si 

DI  GIACOMO.  -  S.   Carlino.  5 


—  66  — 

femminizzavano.  D'altra  parte  quanta  maggiore  difficoltà  in 
codesta  finzione  di  sesso  !  L'arte  ne  doveva  sembrare  mira- 
bile davvero,  quando  la  finzione  riescisse  a  far  davvero  di- 
menticare la  donna. 

La  compagnia,  rinvigorita  da'  commedianti  del  Liveri, 
s'aggirò  per  parecchie  case  private,  capitando  anche  in 
quella  del  Principe  di  Sansevero,  Raimondo  di  Sangro, 
ch'era,  a  quei  tempi,  il  protettore  più  strenuo  delle  scienze 
e  delle  arti  :  bizzarro  Mecenate,  che  or  dipingeva,  ora  scol- 
piva, ora  verseggiava  in  varie  lingue,  or  chiuso  nella  sua 
misteriosa  officina,  somigliante  a  quella  di  don  Claudio  Frollo, 
chiedeva  ai  suoi  crogiuoli,  da'  quali  salivano  azzurrognole 
spire  di  vapori  attossicanti,  la  soluzione  d'un  difficile  pro- 
blema di  chimica.  Parecchie  volte  fu  Io  stesso  principe 
che  pescò  i  soggetti  o,  conoscitor  grande  com'  era  delle 
lingue,  tradusse  dall'inglese  e  dal  francese  commedie  fino 
a  quel  tempo  sconosciute  a  Napoli,  come  il  tamburo, 
dell'A.disson  ,  che  poi  voltò  in  francese  il  Destouches  ,  e 
il  'Pregiudizio  alla  moda  di  De  La  Caussée.  A  mano  a 
mano,  lavorando  su  quelle  traduzioni,  inventando  più  spesso, 
il  Lorenzi  che  poteva  far  da  se,  smise  il  repertorio  del 
Cirillo,  di  cui  L' Jlmicizia,  il  Salasso,  Il  Saturno,  Il  Me- 
tafisico, I  Malocchi  (1)  ed  altre  gravi  produzioni  si  addor- 
mentarono per  non  risvegliarsi  mai  più.  Breve,  passato  da 
casa  Maddaloni  in  casa  Sangro,  Giambattista  Lorenzi,  ac- 
cademico Filomate,  tra'  Costanti  Eulisto,  tra  gli  Jlrcadi 
Alcesindo  Misiaco,  s'udì  un  bel  giorno  chiamare  alla  Reg- 


(1)  NAPOLI  SIGNORELLI— Storia  Critica  c'ei  Teatri,  voi.  X,  pag.  24  e  25. 


—  67  — 

già,  e  qui,  cominciandovi  da  comico,  finì  soggettista  e  con- 
certatore. 

L'erme  del  parco  di  Caserta  videro  nell'autunno,  ogni 
anno,  una  turba  festevole  passare  lor  davanti  su  per  la 
folta  erba  verdeggiante;  l'Apollo  di  guardia  alla  cascata  si 
sentì  poco  rispettosamente  apostrofare  in  vernacolo,  e  le 
placide  fontane  accolsero  sui  loro  parapetti  coppie  di  finti 
amanti  che  ripetevano,  tra  finte  lagrime  e  finti  sospiri,  una 
palpitantissima  scena  di  gelosia.  Erano  i  comici  lorenziani 
arrivati  da  Napoli  per  «  il  Real  piacere  »  dei  Borboni  in 
villeggiatura.  Ed  ora,  su  quella  vasta  scena  di  verde  umido 
e  lucente,  essi  cantavano,  declamavano,  pizzicavan  la  chi- 
tarra francese  e,  sull'erba  molle,  attorno  a  una  bianca  ama- 
driade,  concertavano  una  contradanza  tutta  inchini  e  sciappè. 
E  Pane,  di  fra  gli  alberi  sfrondati,  rideva,  e  tutto  il  parco 
applaudiva,  con  eco  sonora  e  gioconda. 

A  Caserta  furon  dati  //  {Bugiardo  e  L'Inganno  fortu- 
nato; Goldoni  fornì  al  Lorenzi  la  tela  della  prima  e,  per 
deferenza  alla  memoria  del  marchese  di  Liveri,  la  seconda 
commedia  fu  condotta  sulla  sua  maniera.  Furbo  quell'abate! 
Cominciava  col  darsi  l'aria  di  voler  mantenere  viva  la  tra- 
dizione liveriana,  per  poi  gettarsela  addietro  alle  spalle.  Se- 
guirono a  Portici,  nel  teatro  della  Pagliara,  altre  rappre- 
sentazioni, a  una  delle  quali  assistette  1'  imperatore  Giu- 
seppe II  che  non  credeva  alle  improvvisazioni  meravigliose 
della  commedia  a  soggetto.  Fra  tanto,  dal  1 764,  al  Lorenzi 
avevano  fatto  profferte  l' impresario  del  Fioientini  e  quello 
del  ZNjiovo:  egli  le  accettò  nel  tempo  in  cui  Francesco  Cer- 
lone  cominciava  a  scrivere  commedie  per  la  compagnia  della 
Cantina  ,  dalla  quale  poi  rampollarono  i  primi  comici  del 
San    Carlino    di  Piazza  del  Castello.    Forse    il  Lorenzi  fu 


—  68  — 

anche  lui  sollecitato  dai  Tomeo,  impresarii  della  Cantina  stessa 
ove  accorreva  gran  gente  per  udir  Francesco  Massaro  ,  il 
don  Fastidio  di  cui  Cerlone  avea  creato  il  tipo.  Egli  ebbe, 
in  grazia  di  quel  celebre  comico  che  accreditava  le  pro- 
duzioni magari  più  indigeste,  la  tentazione  di  scendere  in 
piazza,  ma  poi  mutò  consiglio  ricordando  d'essere  ancora 
il  poeta  di  Corte.  E  anche  si  rifiutò  perchè  in  quel  tea- 
trino «  si  godeva  una  commedia  con  mascare,  voli,  trasfor- 
mazioni »  (1)  e  i  frequentatori  che  vi  avevano  fatto  l'a- 
bito si  sarebbero  poco  facilmente  accontentati  d'una  più  re- 
golare andatura  di  spettacolo. 


IX. 


Visse  il  Lorenzi  fin  al  1 807.  Nel  1 778  Ferdinando  IV 
avea  nominato  poeta  di  Corte  Luigi  Serio  ,  incaricandolo 
pur  della  revisione  teatrale.  Lorenzi,  nato  nel  1721,  contava 
allora  quasi  sessantanni,  età  nella  quale  tutti  gli  stipendiati 
o  prendono,  come  si  dice,  o  subiscono  il  ritiro.  Il  Liveri  era 
stato  compensato,  a  tempo  suo,  con  dieci  ducati  al  mese  e  tanti 
ne  aveva  avuti  appresso  anche  il  Cirillo,  la  cui  vedova,  donna 
Felicetta  Troisi,  «  carica  di  acciacchi  personali,  di  figli  e  di 
angustie»  implorava  ancora  nel  1776,  ai  25  di  luglio  (2),  la 
continuazione  di  quello  stipendio,  passato  ai  superstiti  del 
Demostene  partenopeo.  Don  Titta  Lorenzi,  persona  civile  — 
così    lo  chiamavano  a  Corte  —  fu  pagato  anche  meno  decoro- 


(1)  'Prefazione  al  secondo  volume  delle  Commedie  di  G.   B.  LORENZI, 
Napoli. 

(2)  Jlrchivio  di  Stato  —  ^Documenti  Teatrali  del    1700  —  Fascio   XXI. 


—  69  - 

samente;  ebbe  solo  otto  ducati  al  mese  fin  a  quando  visse, 
ma  con  quelli  e  col  provento  de'  suoi  libretti  pel  ZNjuovo 
e  pel  Fiorentini  campò  mica  male.  Contemporaneo  del  Cer- 
lone  egli  fu  più  colto  ,  più  scorrevole  ,  più  malizioso  di 
costui  :  la  sua  satira  ebbe  una  geniale  intonazione,  i  suoi 
versi  gareggiarono  con  quelli  del  Metastasio,  la  sua  forma 
italiana  fu  corretta  senza  pedanteria  e  quella  vernacola  de* 
suoi  ridicoli  personaggi  sentì  di  tutto  il  gustoso  sapore  della 
frase  dialettale.  La  musica  di  Paisiello,  piena  d'  armonia, 
di  colore,  di  gaiezza  e  di  novità  si  fuse  mirabilmente  con 
la  grazia  particolare  della  farsa  lorenziana,  e  in  Napoli,  città 
musicale  del  settecento,  quel  prodotto  di  due  fervidi  in- 
gegni teatrali  cullò  deliziosamente  la  vita  allegra  e  spensie- 
rata del  tempo. 

Il  teatro  di  Corte  che  il  povero  Liveri  aveva  cominciato 
ad  alimentare,  si  rinvigorì,  dunque,  col  Cirillo,  col  Lorenzi 
e  col  Serio,  il  quale  ultimo  gli  forniva,  specie,  Cantate  per 
fausti  avvenimenti  Reali.  Nel  1  775,  nella  stessa  sera  in  cui 
vi  si  rappresentava  V Orfeo  di  Gluck,  vi  fu  pur  dato  //  di- 
vertimento dei  Numi,  scherzo  comico  dell'abate  Titta  (1) 
con  musica  di  Giovanni  Paisiello.  Le  parti  erano  così 
distribuite  : 

«  Venere,  innamorata  di  Marte,  che  poi  si  trasforma  in 
Annella  villana  : 

La  Signora  Marianna  £XConti. 

Giove,  amante  di  Venere,  che  poi  si  trasforma  in  Cic- 
cotonno  Taverna]  o  : 


(1)   Il  Florimo  non  sa  dell'autore  del  libretto.  Trovo  registrato  :  Anonimo. 
Il  libretto  del  Lorenzi  è  alla  Società  di  Storia  Patria   Napoletana. 


—  70  — 

//  Signor  Antonio  Casaccio. 

JXCarte,  innamorato  di  Venere,  che  poi  si  trasforma  nel- 
l'Abate D.  Taddeo  : 

//  Signor  Gennaro  Luzio. 

Il  vero  Qiove  nella  sua  Reggia  : 

//  Signor  Qiacinto  Perrone.  » 

La  Monti,  dunque,  Casaccia,  Luzio  e  Perrone  ,  comici 
di  teatri  publici,  interpretarono,  si  dice,  divinamente  quella 
specie  d'intermezzo  tra  sostenuto  e  lepidetto.  Poi  i  cesarei 
filodrammatici  scomparvero  :  la  commedia  a  soggetto  fece 
posto,  sulle  scene  di  Corte,  al  libretto  premeditato,  e  il  figlio 
di  Carlo  III,  meno  scrupoloso  del  padre,  accolse  vere  femmine 
sul  palcoscenico  reale  e  ve  le  chiamò,  con  altri  comici  de' 
due  teatri  di  musica  della  città,  per  provare  egli  pure  le 
piacevoli  emozioni  che  quelle  e  i  loro  compagni  di  sesso 
forte  — celebrati,  adorati,  favoriti,  a  un  tempo,  dalla  plebe, 
dalla  borghesia  e  dalla  nobiltà,  veri  dominatori  del  flaccido 
spirito  e  del  gusto  di  quel  tempo  e  della  partecipe  città  ri- 
lassata e  torpida  —  procuravano,  in  sullo  scorcio  del  secolo, 
a  tutta  Napoli,  che  pur  s'avviava,  ignara  ,  sull'  aria  d'  una 
cabaletta,  alla  grande  tragedia  del  novantanove. 

E  adesso,  ridiscendiamo  in  piazza. 


mi 


CAPITOLO  TERZO. 

Piazza  del  Castellò  —  Baracche  e  ciarlatani  —  La  fa- 
miglia Tomeo  —  La  baracca  del  «  San  Carlino  » . 

I. 

LiA  piazza  del  Castello  è  descritta,  in  quasi  tutti  i  vecchi 
libri  che  s'occupano  di  Napoli,  come  quel  posto  della  città 
che  raccoglieva,  in  tutte  le  ore  del  giorno,  gli  oziosi,  i  va- 
gabondi e  i  perditempo,  attirati  dalla  scena  continua  de' 
venditori  ambulanti.  Si  è  introdotto  l'abuso  che  tutti  coloro 
che  vender  vogliono  a  capriccio  e  con  frode  manifesta  si 
vanno  a  situare  nella  giurisdizione  di  Palazzo,  di  Castello 
e  del  Fondo  della  Separazione  (1).  Così  uno  scrittore  vis- 


(I)   Ragionamenti  del    'Principe  di  Strangoli —  Napoli  —  Soc.    di  Storia 
'Patria. 


-  71  - 


—  72  — 

suto  durante  il  regno  di  Ferdinando  IV.  Ma  l'uso  e  l'abuso 
duravano  da  tempi  remoti  e  non  sono  cessati  se  non  una 
quarantina  d'  anni  fa.  I  ciarlatani,  i  bagattellieri,  i  monaci 
che  predicavano  da  uno  sgabello,  con  fra  le  mani  un  cro- 
cifisso, affollavano  nel  settecento  la  famosa  piazza  tutta  la 
santa  giornata,  sgomberandone  soltanto  in  sulle  prime  ore 
della  sera,  quando  principiavano  ad  aprirsi  i  teatrini  di 
legno,  piantati  qua  e  là,  e  suonavano,  d'ogni  parte,  le  voci 
d'un'istrionica  marmaglia,  invitante  la  gente  a  entrare  in  quelle 
puzzolenti  baracche. 

De'  ciarlatani,  o  dar  avoli,  o  dar  aldi  di  Piazza  del  Ca- 
stello parlano  moltissimi  scrittori,  specie  dialettali,  dell'epoca. 
Il  Boccosi,  nelle  sue  Centurie  ^Poetiche,  dice  che  :  da  Sa- 
gliemmanche  (saltimbanchi)  non  s'  aspetta  maje  cose  de 
buono,  e  in  un  sonetto  ,  che  Benedetto  Croce  riprodusse 
nella  prima  edizione  della  sua  interessante  monografia  sui 
teatri  di  Napoli  del  Secolo  XV -XV III,  egli  soggiunge  : 

Chisse,   che  vanno  accomponenno  fabole, 
E  te  venneno  nchiaste  e  carrafelle, 
So'  tanta  truffaiuole,  e  birbantielle, 
Da  fa  j,  chi  le  crede,  all'Incoràbole. 

Non  se  pigliano  scuorno  ncopp'a  tabole 
De  fa  saghre  le  mogliere  belle, 
Che,  cantanno  mottette  e  bellanelle. 
Fanno  sta  cann'apierte  li  diabole... 

Lo  stesso  Croce  fa  menzione  di  un  Tabarrino,  ciarlatano 
Savojardo,  citato  anche  dal  Fuidoro  (1),  che  nel  1669  ven- 


(I)   Giornali,  M.  S.   Bibl.   Naz.  Seg.   X,   B.    15,   fol.   79. 


—  73  — 

deva,  in  Piazza  del  Castello,  una  pomata  per  le  «  posteme 
fredde  » .  Or  mi  pare  di  riconoscere  in  codesto  Eudamio 
del  tempo  quel  re  de'  bateleurs  onorato  perfin  dalla  critica 
di  Boileau.  Celebre  a  Parigi,  ove  si  diceva  che  fosse  ca- 
pitato da  Napoli  ,  egli  vi  andò  man  mano  publicando  per 
le  stampe  le  collezioni  delle  sue  buffonerie,  le  quali,  col 
titolo  di  Farces  de  Tabarin,  ebbero,  nel  1662,  ben  quattro 
edizioni!  (1).  Lo  stesso  Molière  gli  rubò  una  intera  scena, 
quella  del  Sacco  nelle  Fourberies  de  Scapin.  Il  buffone  di 
piazza  Dauphine  e  del  'Pont  neuf  non  poteva  esser  tenuto 
in  maggior  conto  ;  anche  La  Fontaine  lo  citò  nella  sua  fa- 
vola Le  cochon,  la  chèvre  et  le  mouton  : 

Le  charton  n'avait  pas  le  dessin 
De  les  mener  voir  Tabarin... 

Le  Farces  furono  bene  annotate  dal  d'Harmonville.  Tra 
l'altre  :  Souhaits  pour  la  nouvelle  année,  Querelle  aoec 
Francisque,  'Procès  du  moulin  à  vent,  Descente  aux  enfers. 
Erano  raccolte  di  facezie  da  stordire,  di  giuochi  di  parole, 
d'infilzate  di  motti  ridicoli  per  cui  la  gente  si  teneva  i 
fianchi.  Di  lui  dicevano  :  Il  fait  rire  depuis  les  pieds  jusquà 
la  lete.  Vestiva  un  costume  da  Pierrot  :  ampia  giacca  verde 
e  gialla,  larghi  pantaloni  della  medesima  stoffa,  spada  di 
legno  infilata  alla  cintola,  cappello  di  feltro  grigio,  senza 
fondo.  Sulle  tavole  del  suo  teatro-dispensario  s'aggiravano 
la  moglie  di  lui  Franceschina,  in  abito  d'Arlecchino,  un 
negro  e  Mondor,  il  ^Dottore   dalla  lunga  barba.  Al    museo 


(1)  Editori  Sommaville  e  Racollet,   Paris,    1622. 


—  74  — 

del  Louvre  è  un  quadro  di  Karel  du  Jardin  intitolato 
Les  Charlatans  italiens  :  esso  fu  comprato,  per  1  7  mila  lire, 
nel  1657,  e  forse  il  du  Jardin  dovette  inspirarsi  all'autore 
delle  Farces  ,  poiché  tra  gli  altri  personaggi  del  dipinto  è 
pur  Arlecchino  che,  appiè  della  baracca,  suona  la  chitarra 
per  intrattenere  i  curiosi. 

Un  bel  giorno  Tabarrino  sparve  da  Parigi.  Si  disse 
ch'era  tornato  in  Italia  e  io  non  dubito  che  fosse  proprio 
quegli  di  cui  s'occupa  il  Fuidoro.  Certo  non  era  il  solo 
che  promettesse  in  Piazza  del  Castello  la  guarigione  d'una 
malattia  incurabile  ;  Napoli,  di  que'  tempi,  scarsa  di  medici, 
favoriva  il  mestiere  di  Dulcamara  e,  come  l'umana  credu- 
lità e  l'impostura  si  danno  la  mano,  i  ciaravoli  facevano  af- 
fari d'oro,  questi,  novello  Clodio,  vendendo  polveri  per 
l'apoplessia,  quest'altro,  emulo  di  Cantone,  offerendo  sac- 
chetti misteriosi  da  attaccare  al  collo  degli  epilettici,  uno 
cavando  da  uno  scatolo  anelli  contro  l'idrofobia,  un  altro 
strappando  a  un  compare  denti  finti,  mentre  un  sangue  pur 
finto  scorreva.  «  Il  mio  balsamo  —  gridava  uno  —  si  compone 
di  semplici  e  fin  a  tanto  che  vi  saran  qui  de'  semplici  io 
non  me  ne  andrò  »  !  Un  personaggio  cerloniano,  Marcotonno, 
che  si  trova  prigioniero  dei  Mori,  svela  alla  sua  padrona 
Elvira,  anche  lei  prigioniera,  il  mestiere  ch'egli  faceva  a 
Napoli  (1)  :  «  A  Napole  io  faceva  lo  ciarlatano  e  ncopp'a 
na  banca  al  Largo  del  Castello  faceva  veder  cento  cose  a 
quel  popolo  basso  ;  mi  feriva  con  un  coltello  il  braccio, 
mi  tagliava  na  meza  coscia,  e  uscir  si  vedeva  il  sangue, 
ma  erano  tutte  trucche  dell'arte    ciarlatana,  era  na  destrezza 


(I)  CERLONE  —  Cordova  liberata  dai  Mori. 


—  75  — 

de  mano,  era  n'apparenza,  ca  manco  no  rascagno  me  fa- 
ceva ;  e  co  lo  balzamo  da  me  intitolato  il  distrutto!'  dei 
morti,  ch'era  uoglio  de  cocozza  fritta,  in  pubblico  mi  gua- 
riva con  stupore  di  tutti  e  benneva  le  carrafelle  a  no  tari 
luna,  e  là  nc'era  quatto  calle  d'uoglio...  »  Mistificazioni 
durate  fino  al  tempo  nostro,  in  cui  Piazza  del  Castello, 
mutando  forma  a  poco  a  poco,  ha  pur,  all'ultimo,  mutato 
di  nome.  Finalmente,  mentre  delle  generose  leggi  munici- 
pali continuavano  a  giovarsi  i  ciaravoli  del  nostro  secolo 
moribondo,  si  preparava  loro,  inaspettato,  un  editto  gover- 
nativo che,  diffuso  in  ogni  provincia,  specie  del  mezzogiorno, 
ordinava  ai  prefetti  di  sbaragliare  l' empirismo  di  piazza 
confortato  dalla  solita  musica  dei  tromboni.  Nel  1890  è 
stato  bandito  l'ostracismo  ai  nostri  tiramole;  nel  1889  un 
altro  decreto  del  prefetto  di  Napoli,  conte  Codronchi,  proi- 
biva la  rappresentazione  del  Verbo  Umanato,  un  di  quei 
drammi  sacri  che  il  seicento,  il  quale  n'era  così  prolifico, 
dette  in  pascolo  ai  teatri  popolari  di  Napoli.  La  modernità 
ha  colpito  e  soppresse  due  delle  più  antiche  instituzioni 
partenopee  :  quella,  che  pareva  incrollabile  per  la  ingenuità 
del  volgo,  quest'altra,  che  nata  enfatica  e  superstiziosa, 
aveva  finito  per  diventare  indecente.  Nelle  rappresentazioni 
che  si  facevano  del  'Verbo  Umanato  alla  Fenice,  la  vigi- 
lia del  Natale,  Gesù  era  preso  in  giro,  si  dava  del  tu  alla 
Madonna  e  lo  stesso  San  Giuseppe,  con  tanto  di  barba 
bianca  in  faccia,  tendeva  il  biblico  gonnellino  a'  palchetti, 
dai  quali  piovevano  male  parole  e   sigari  napoletani. 


76  — 


II. 


Nel  1 738  lo  «  stampatore  del  Reale  Palazzo  »  France- 
sco Ricciardi,  dando  in  luce  il  suo  Breve  Ragguaglio  della 
Fiera,  descrittaci  dal  filosofo  Doria,  lo  faceva  precedere  da 
un  qualche  appunto  topografico  sul  Largo  del  Castello 
«  luogo  la  figura  del  quale  è  un  parallelogramma,  ma  però 
irregolare,  perchè  in  alcuni  luoghi  è  più  largo  ed  in  altri 
e  più  stretto  ;  la  sua  lunghezza  che  comincia  dalla  Chiesa 
di  S.  Giacomo  dei  Spagnoli  e  termina  al  Teatro  Regale 
di  S.  Carlo  è  palmi  900  in  circa  e  la  sua  larghezza  mag- 
giore è  palmi  350  e  niun  luogo  è  meno  largo  che  palmi  300  » . 

Fino  al  1819 — anno  in  cui  re  Ferdinando  IV  ridusse 
a  un  solo  edifizio  di  forma  regolare  la  chiesa  e  il  mona- 
stero della  Concezione,  le  carceri,  il  Banco  e  l'ospedale  di 
S.  Giacomo,  che  occupavano  lo  spazio,  assieme  a  parec- 
chie case  private,  che  ora  è  tutto  usato  dal  palazzo  del 
Municipio  —  la  chiesa  di  S.  Giacomo  rimaneva,  con  la 
sua  facciata,  assai  più  addentro  della  linea  di  que'  fabri- 
cati  così  variamente  adoperati.  Bisogna  immaginarsi  le  car- 
ceri accanto  al  monastero,  Y  ospedale  attiguo  al  Banco , 
e  più  giù  la  chiesa  ,  il  cui  lato  settentrionale  dava  sulla 
larga  via  pur  detta  di  S.  Giacomo,  che  poi  mena  a  quella  di 
Toledo. 

La  chiesa  di  S.  Giacomo  fu  costruita,  nel  1 540,  da  don 
Pietro  di  Toledo,  viceré  di  Napoli  in  quel  tempo.  I  sol- 
dati spagnuoli  avevano  bisogno  d'uno  spedale  e  il  viceré 
don  Pietro,  che  lo    fece    fabricare  in  Piazza  del   Castello, 


—  77  — 

nel  luogo  detto  Qenova  Piccola  (1),  v'eresse  da  canto  il 
tempio,  con  breve  di  Paolo  III  e  licenza  di  Carlo  V  im- 
peratore. Da  prima  l'ospedale  accolse  solamente  i  soldati 
spagnuoli,  poi  vi  trovarono  ricovero  anche  i  napoletani.  A 
tempo  dell'Engenio,  cioè  in  sul  principio  del  secolo  deci- 
mosettimo, esso  dava  posto  a  ben  duecento  infermi,  mentre 
un  altro  pio  luogo  gli  sorgeva  accanto  nelle  case  di  Lu- 
crezia d'Afflitto  e  di  Agostino  de  Cordes.  In  memoria  della 
battaglia  navale  vinta  da  don  Giovanni  d'Austria  quest'altro 
ospedale  ebbe  nome  di  S.  Maria  della  Vittoria.  Più  tardi, 
nel  1 583,  gli  stessi  governatori  fabricarono  nel  cortile  di 
S.  Giacomo  uno  principal  monastero  con  bella  chiesa  nella 
pubblica  piazza  di  Toledo  (2).  Le  monache  furono  fran- 
cescane e,  a  quanto  se  ne  dice,  non  mai  superarono,  in 
numero,  le  diciotto.  La  -nuova  chiesa  e  il  monastero  furono 
chiamati  della  Concezione.  Ora  tutto  è  sparito. 

Delle  carceri  non  trovo  notizie  precise  di  origine  ;  certo 
è  che  fin  dal  principio  del  seicento  un  enorme  fabricato, 
attiguo  al  Banco  e  allo  spedale  di  S.  Giacomo,  era  ado- 
perato per  quell'uso.  In  un  prezioso  manoscritto  che  pos- 
siede la  nostra  Società  di  Storia  Patria  per  le  Provincie 
Napoletane  è  una  nitida  stampa  rappresentante  il  Largo 
del  Castello  nel  1647  (3);  un  bagattelliere  intrattiene  la 
gente  sulla  piazza,  alcune  ricche  carrozze  vi  passano  cor- 
rendo, e  de'  signori  a  cavallo,  la  spada  allato,  le  piume  al 
cappello,  vi  fanno  caracollare  le  lor  bestie.  Qua  e  là  sono 


(1)  ENGENIO,   pag.   531. 

(2)  ENGENIO,  pag.   534. 

(3)  «Sollevazione  dell'anno    1Ó47.  » 


—  78  — 

gruppi  di  pedoni  e  capannelli  di  popolo.  In  fondo  s'aprono 
due  vie  larghe  :  quella  di  Santa  Brigida  e  l'altra  di  San 
Giacomo  ;  tra  le  due  strade  si  levano  i  tre  o  quattro  fab- 
bricati che  poi  Ferdinando  IV,  incorporandoli  in  un  solo 
di  unica  forma,  rimpastò  pel  palazzo  dei  Ministeri.  Tra  il 
vico  della  Concezione  e  la  via  Santa  Brigida  appare  un 
palazzo  enorme  le  cui  finestre  sono  munite  di  griglie  e  can- 
celli. Non  era  di  là  che  si  vedeva  il  sole  a  scacchi  ?  Il 
triste  e  nudo  aspetto  dell'edificio  pare  che  lo  dimostri  ab- 
bastanza. 

Per  l'o//ava  della  festività  del  SS.  Sagramento  le  car- 
ceri di  San  Giacomo  s'aprivano,  mentre  una  processione 
usciva  dalla  chiesa.  Interveniva  alla  processione  tutto  il  Mi- 
nistero ;  l'Uditore  dell'  Esercito  saliva  alle  carceri  e  gra- 
ziava i  detenuti,  e  quest'uso,  che  durava  da'  viceré  spagnuoli, 
fu  continuato  fino  al  governo  di  Ferdinando  IV.  Lo  spedale 
era  pur  clinica  de'  medici  più  vantati  del  tempo  ;  vi  opera- 
vano ed  insegnavano ,  tra  gli  altri ,  Cotugno ,  Francesco 
Serao,  Carmine  Ventapane,  e  di  volta  in  volta  la  Gazzetta 
di  Napoli  rendeva  publica  la  scoperta  fattavi  di  qualche 
«  pomata  di  nova  invenzione  ,  sperimentata  vantaggiosa  a 
tenere  aperti  i  vescicatori...  »    (1) 

La  porta  maggiore  della  chiesa,  come  quella  di  S.  Gior- 
gio de'  Genovesi,  era  preceduta  da  una  vasta  terrazza  alta 
più  d'un  paio  di  metri  dal  piano  della  via  ;  una  balaustra 
di  fabnca,  provvista  di  cancelli,  correva  attorno  alla  terrazza 
e  si  apriva  di  faccia  a  Castelnuovo,  lasciando  da  quella 
parte  il  posto  a  due  scale  che  venivan  su,    con    una    die- 


(1)   Gazzella  di  Napoli,   anno   1763. 


—  79  — 

cina  di  gradini,  dalla  piazza  medesima.  Alcune  botteghe 
erano  sotto  la  chiesa,  allato  alle  scale  :  una  tenuta  dal  li- 
braio Francesco  Sebastiano,  un'altra  da  un  commerciante 
di  commestibili,  una  terza  dalla  così  detta  Cantina,  ove 
fin  dal  1719  si  faceva  commedia  (1).  Più  in  là,  sotto  le 
carceri,  era  la  bottega  di  un  altro  libraio,  che  si  chiamava 
Niccolò  Rossi. 

Si  narra  d'uno  dei  rettori  della  chiesa  di  San  Giacomo, 
com'egli,  celebrando  messa  all'aitar  maggiore,  nel  voltarsi 
che  faceva  ai  fedeli  per  loro  augurar  Dominus  vobiscum  a 
braccia  aperte,  avesse  caro  di  vedersi  d'avanti,  per  la  larga 
porta  spalancata,  il  Molo  e  il  mare,  quello  terminato  dalla 
rossa  torre  del  faro,  questo,  azzurro  e  tranquillo,  dissemi- 
nato di  vele.  Il  degno  sacerdote  ch'ebbe  sì  poetici  spiriti 
si  dice  abbia  vissuto  nel  bel  settecento,  a  tempo  di  Carlo 
III.  In  quelli  anni  un  novello  bastione  accresceva  Castel- 
nuovo  dalla  sua  parte  debole  che  guardava  la  Darsena,  e 
un  ponte  di  legno  metteva  in  comunicazione  il  forte  con 
Palazzo  Reale  (2).  Di  su  ìa  terrazza  della  chiesa  l'occhio 
abbracciava,  dunque,  tutta  la  vasta  scena  di  Piazza  del 
Castello,  immensa  scena  che  avea  per  fondo  Castelnuovo 
severo  e  grigio  sul  cielo,  a  manca  Piazza  Medina,  a  destra 
la  via  ed  il  teatro  di  San  Carlo. 

In  quel  tempo  il  castello  era,  appiedi,  circondato  da  fossati 
su'  quali  la  gente  si  affacciava  da  una  balaustra  alta  un  po' 
più  di  un  metro;  sulla  sponda  dei  fossi,  verso  Piazza  Medina, 
era  la  Fontana  'Venere,  a  cui  dava  nome  quella    dea,  gia- 


(1)  Archivio  di  Stato,   Documenti  teatrali  del  700,   fascio   XII. 

(2)  G.  Senatore  —  Cit.  P.  320. 


—  80  — 

cente  nuda  sulla  vasca.  La  bella  statua  di  marmo,  eccellente 
opera  di  Gerolamo  Santacroce,  fu  portata  via  fuori  d'Italia  fin 
dagli  ultimi  anni  del  seicento  (1)  e  venne  sostituita  da  una 
pessima  copia.  Un'altra  fontana,  quella  degli  Specchi,  stava 
più  in  qua,  d'avanti  all'arco  d'Alfonso  d'Aragona  ;  una 
terza,  infine,  decorava  il  principio  della  strada  del  Molo. 
D'avanti  la  balaustra  ai  fossati,  presso  la  Fontana  Specchi, 
era  piantata  la  così  detta  Quardiola,  posto  della  guardia 
spagnuola,  e  sotto  il  'Palagio  vecchio,  antica  stanza  dei  vi- 
ceré, si  vedevano  le  botteghe  de'  «  professori  di  tartaruga 
e  madreperla  » ,  tra'  quali  erano  un  Giuseppe  Sardo  e  un 
Nicolò  de  Turris,  eccellenti  nella  loro  arte. 

Indescrivibile  lo  spettacolo  della  piazza,  animata  da  tanta 
varia  gente,  sparsa  di  baracche  e  di  banchi  d'ogni  genere, 
percorsa  a  un  tempo  dalle  più  ricche  carrozze  e  dai  carri 
più  umili ,  affollata  di  monelli,  romoreggiante  senza  posa 
delle  voci  de'  venditori,  degli  squilli  delle  trombe  de'  ciar- 
latani, dello  strepito  delle  grancasse  —  sinfonia  che  princi- 
piava all'alba  e  continuava,  con  gamma  sempre  crescente, 
fino  a  tarda  ora  della  sera.  Nell'agosto  d'ogni  anno,  quando 
la  fiera  non  si  facesse  d'avanti  Palazzo  Reale,  l'architetto 
di  Corte,  Antonio  Jolli,  chiudeva  la  piazza  con  uno  stec- 
cato e  vi  dava  a  pigione  le  baracche  ai  ciarlatani,  ai  com- 
medianti e  a'  conduttori  di  bestie  feroci.  La  baracca  dei 
commedianti,  fin  dal  1  744,  era  tenuta  in  affitto  dai  Tomeo, 
che  in  quel  mese  di  caldo  vi  trasportavano  la  lor  compa- 
gnia dalla  Cantina.  Ricorre  qui,  ancora  una  volta,  il  nome 
loro  :  ed  è  tempo  d'occuparsi  d'essi. 


(1)  CELANO  —  Notizia  della  Città  di  Napoli,  voi.   4°,  p.  377,  ed.  1859. 


(OìtM 


■ 


FERDINANDO  SANFELICE. 


Stampa  sincro) 


i  >;i    un   (iiiiiiit  i  del   Solimene 


III. 

Chi  erano  costoro  ?  Di  dove  venivano  ?  Da  prima  non 
avendo  io  per  mani  se  non  quel  Michele  Tomeo,  da  cia- 
r avolo  mutato  in  impresario  giusto  a  tempo  di  Carlo  III,  e 
udendo,  non  più  ricordo  da  chi,  come  i  Tomeo  fossero 
capitati  a  Napoli  di  Spagna  con  quel  re,  prestai  fede  alla 
notizia,  che  poteva  ben  essere  credibile.  Ma,  continuando 
nella  ricerca,  m'avvidi  che  l'affermazione  era  affatto  gratuita. 
Durante  il  viceregnato  di  don  Gasparo  di  Bragamont  e 
Gusman,  conte  di  Penaranda,  fu  a  Napoli  un  Carlo  To- 
meo, d'origine,  forse,  spagnuolo,  a  giudicar  dal  cognome. 
Nato  ai  tempi  di  Filippo  IV  egli  visse  mentre  a  Napoli 
si  succedevano  i  viceré  del  figliuolo  di  lui  Carlo  II,  di  cui 
ebbe,  immagino,  tra  i  settantacinque  dipinti  che  lasciò  in 
testamento,  pur  l'ironica  ed  omonima  effigie  alla  parete. 
Or  Carlo  Tomeo  morì  ai  1  5  di  luglio  del  1721  ;  il  vice- 
regnato spagnuolo,  in  quel  tempo,  aveva,  già  da  un  pezzo, 
fatto  posto  a  quello  austriaco.  Fu,  dunque,  durante  la  ri- 
gida amministrazione  di  don  Volfango  di  Scrattenberg, 
Cardinale  di  Santa  Chiesa,  che  il  nostro  don  Carlo  si 
spense. 

Egli  lasciò  sei  figli  :  Bonaventura,  Michele,  Orsola,  Paola, 
Chiara  e  Giovanna.  Delle  quattro  figliuole,  vivo  ancora  il 
padre,  Chiara  s'era  maritata  a  Domenicantonio  Gallo  :  le 
altre,  ch'egli  lasciò  nubili,  ebbero,  ciascuna,  in  virtù  del  te- 
stamento paterno,   500  ducati  di  dote. 

Carlo  Tomeo,  detto  //  moretto,  fece  testamento  per  mano 
di  notar  Tomasuolo,  agli  8  di  luglio,  proprio  quand'era  agli 
sgoccioli.  Toccarono,  tra  le  altre  cose,  ai  figliuoli  : 

DI  GIACOMO.  —  S.   Carlino.  6 


—  82  — 

Un  crocefisso  d'argento  sopra  croce  d'ebano. 

Due  lazzetti  d'oro. 

Un  crocefisso  d'oro,  piccolo  con   tre  perle  grosse. 

Uno  vestito  di  domasco  negro  ad  uso  di  donna. 

Una  gonnella  di  lama  di  argento  con  pezzilli  d'oro. 

Un'altra  gonnella  color  musco  a  fiori  d'argento  con  pez- 
zilli d'oro. 

Due  coltri  di  seta  per  estate  di  color   incarnato  e  bianco. 

Quadri  n.  75  tra  piccoli  e  grandi. 

Uno  stipo  alla  genovese. 

Una  corona  d'ambra  e  medaglia  d'argento. 

Due  cannacchelle  di   granata. 

Una  bottonera  di  34   bottoni  d'argento. 

"T^re  abitelli  d'argento  ed  una  crocetta. 

T)ue  agnus  Dei  et  incastro  d'argento. 

Scoppette  n.  8  da  caccia,  un  pistone  et  un  paro  de  fi- 
stole. 

Uno  teatro  di  bambocci...  (1) 

Beni,  come  vedete,  abbastanza  mobili.  Ma  c'è  il  resto, 
ed  ha  un  valore  meno  temporaneo  :  le  case  in  Piazza  del 
Castello,  quell'isolato  che  abbiamo  visto  demolito  a'  5  di 
maggio  del    1884. 

Rimpetto  al  palazzo  Fondi,  in  Piazza  Medina,  è  il  pa- 
lazzo Sirignano,  la  cui  origine  rimonta  fino  al  secolo  deci- 
mosesto. Avanza  della  decorazione  di  quell'epoca  solamente 
il  portone,  a  cui  lo  stile  ricco    del    cinquecento    conferisce 


(1)  Queste  curiose  not  zie  ho  cavate  da  carte  d'  (amiglia  che  il  cav.  Sal- 
vatore Mormone,  hgliuolo  di  Raffaele  e  di  Marianna  Tomeo,  mi  ha,  molto 
cortesemente,   lascialo   ;n'.erro;are. 


—  83  — 

un  aspetto  elegantissimo  a  un  tempo  e  grandioso  ;  tutto  il 
resto  dell'immensa  fabbrica  ha  patito,  a  mano  a  mano, 
adattamenti  continui  alla  modernità.  Lo  stabile  appartenne, 
in  principio,  ai  signori  Moles  (1),  poi  cadde  nelle  mani 
dei  monaci  Martiniani  e,  infine,  fu  comprato,  sullo  scorcio 
del   1669,  dal  Marchese  Giuseppe  Cara  vita. 

Il  palazzo  Sirignano  dava,  a  mezzogiorno,  sul  vico  Tra- 
vaccari.  L'isolato  del  mucchio  di  case  che  ora  è  scomparso 
vi  affacciava  col  suo  lato  settentrionale.  Carlo  Tomeo  com- 
però, nel  1 705,  a  1 3  aprile  (2),  parte  di  quelle  case, 
ch'erano  proprietà  di  Don  Antonio  Brancia,  e  le  pagò  4200 
ducati.  Su  questo  comprensorio  di  diversi  membri  consistente, 
—  come  dice  il  testamento  —  gravavano  le  somme  seguenti  : 

Jìnnui  docati  210  alli  signori  eredi  di  don  Jlntonio 
Brancia. 

Jlnnui  docati  24  col  suo  capitale  di  d.  400  a  Chiara 
Tomeo  assignatili  fra  le  doti  dal  padre  Carlo. 

Annui  docati  6  col  suo  capitale  di  d.  100  a  Cristina 
Ferraro. 

Ancora  qualche  cosa  :  agli  eredi  del  Tomeo  toccava  pur 
una  casa,  con  stalluczia  e  molino  a  'Panecocolo.  Povero  don 
Carlo,  questo  aveva  e  questo  lasciava,  raccomandando  ai 
figliuoli  di  viver  di  accordo  e  in  santa  pace,  e  d'amarsi  e  di 
aiutarsi  da  cristiani  battezzati  ch'erano.  Difatti  la  buona 
armonia  della  famiglia  durò  per  oltre  un  anno.  Michele  e 
Bonaventura  fecero  celebrare  per  5  ducati  di  messe,  nella 
chiesa  dell'Ospedaletto,   per  «  defrisco    della    buon'anima  » 


(1)  Celano  — voi.  X.  P.  373. 

(2)  Strumento  per  notar  Francesco  Jlntonio   Pumpo,   Arch.  Not.,  Napoli. 


—  84  - 

di  don  Carlo  e  pagarono  23  ducati,  3  carlini  e  1 7  grana 
al  postiete  della  J^onaficiata  per  gioco  fatto  dal  fu  moretto. 
Ma,  nel  dicembre  del  1 722,  ai  5  del  mese,  Bonaventura 
e  Michele  Tomeo  si  bisticciarono.  Bonaventura,  manesco, 
sopraffattore  e  scioperato  prendeva  a  prestito  denari  e  re- 
stituiva bastonate;  Michele,  che  già  aveva  moglie  e  figliuoli 
e  voleva  campar  tranquillo,  si  vedeva  ogni  momento  capi- 
tare in  casa  i  creditori  del  fratello,  che  tempestavano  e  mi- 
nacciavano. Prima  s'adoperò  in  tutti  i  modi  perchè  Bona- 
ventura smettesse  la  vita  disastrosa  che  menava,  in  appresso, 
accortosi  che  nessuna  resipiscenza  consigliava  il  fratello  a 
mutar  registro,  se  ne  rimise  alla  giustizia.  Così,  un  bel 
giorno,  il  signor  Bonaventura  Tomeo  fu  arrestato  e  chiuso 
nelle  Carceri  di  S.  Giacomo. 

Vi  rimase  fino  ai  23  di  giugno  del  1 724,  per  passare 
quindi  al  ^Presidio  del  Castello  di  Capua,  ove,  dice  un 
documento  del  !  726,  ancora  rattrovasi.  Dai  finestroni  delle 
carceri  di  S.  Giacomo  Bonaventura  Tomeo  vedeva  passar 
disotto,  per  la  via,  il  fratello  Michele,  al  quale  doveva  il 
bel  regalo  di  essere  stato  privato  della  libertà.  Si  dice  che 
un  giorno,  accecato  dall'ira,  gli  abbia  spianato  contro  un 
fucile  e  sparato  addosso  senza,  per  altro,  ferirlo.  Michele, 
atterrito,  corse  in  Vicaria  a  narrare  il  fatto  e  chiese  che  il 
novello  Caino  fosse  addirittura  sfrattato  da  Napoli.  Il  pas- 
saggio dalle  carceri  di  S.  Giacomo  a  quelle  del  Castello 
di  Capua  troverebbe,  dunque,  una  spiegazione  accettabile 
per  quella  circostanza.  Ma  come  potette  Bonaventura,  stando 
in  carcere,  aver  tra  mani  un  fucile  ?  A  ogni  modo,  come 
questa  tradizione  è  passata,  di  padre  in  figlio,  fino  a'  To- 
meo de'  giorni  nostri,  conviene  accettarla. 

Michele  Tomeo,  il   «  ciaravolo  » ,  rimase,  dunque,     solo. 


—  85  — 

Paola,  sua  sorella,  aveva  preso  marito  nel  1 725  sposando 
Matteo  Falcinelli;  Orsola  l'aveva  imitata,  diventando  mo- 
glie di  un  Francesco  Nespolo;  e  Giovanna,  anche  lei,  s'era 
sentita  in  dovere  di  fornir  dei  soldati  alla  patria.  A  ognuna 
delle  sorelle  Michele  Tomeo  consegnò  i  500  ducati  di 
dote  che  aveva  loro  assegnato  il  padre,  e  le  mandò  con  Dio. 
Egli,  verso  il  1 734,  smise  la  vendita  de'  suoi  specifici, 
raccolse  un  buon  gruzzolo  e  ,  spalleggiato  da'  proventi  si- 
curi delle  case  che  don  Carlo  aveva  lasciato,  s'avviò  alla 
Cantina  per  diventarne  impresario. 


IV. 


Nel  vico  Travaccari,  fino  al  1 725,  le  botteghe  di  Carlo 
Tomeo  erano  fittate  una  a  Francesco  Starito  ferravo,  un'altra 
a  Gaetano  Truvolo  chiavettiere,  la  terza  a  Cesare  Pandol- 
felli,  battitore  d'oro.  Nella  camera  sul  ferraro  abitava  Paola 
Tomeo,  in  quel  tempo  non  ancora  maritata.  Michele  To- 
meo, con  la  moglie  Emmanuela  Serio  e  co'  figli  Tommaso, 
Carlo  e  Vittoria,  abitava  una  camera  e  basso  che  davano 
sulla  Piazza  del  Castello,  ove  davano  pure  quest'altre  pro- 
prietà dell'ex  cavadenti  : 

Una  poteca  a  pontone  dove  abita  Francesco  Valone, 
chiavettiere. 

Jlltra  poteca  appresso  dove  abita  Leonardo  Panza. 

Jlllra  appresso  dove  abita  Qennariello   Troise. 

Un  basso  affittato  all' Jlrrend.  de  Qiochi. 

Una  bottega  grande  affittata  a  Miniello   ^Paparello. 

Una  grande  ad  Aniello  Lauda  Dio,  ferrccavallo. 

Una  camera  grande  sopra  al  ferracavallo. 


—  86  — 

Sei  camere  al  secondo  quarto  ove  abita  Qiuseppe  Buono, 
libraro- 

Una  camera  e  balcone  di  ferro  ov  abita  Rita  Cammarano. 

Non  dite  :  ecco  de'  soprappiù.  La  condizione  dei  pi- 
gionali di  Michele  Tomeo,  il  lor  mestiere  conferiscono  a 
quell'interessante  fabbricato  un  preciso  aspetto  democratico. 
Le  vecchie  case  dell'isolato  in  Piazza  del  Castello  avevano 
uno  speciale  carattere  di  povertà,  le  botteghe  erano  tenute 
dagli  artefici  de'  quali  più  abbisognava  la  gente  di  pas- 
saggio :  il  ferracavallo,  il  chiovarulo,  il  ferraro,  il  chiavet- 
tiere  necessarii,  certamente,  ai  carri,  ai  cavalli,  agl'istrioni 
e  a'  dentisti  che  piantavano  baracche  in  quel  posto,  ove, 
fin  dal  1 660,  sotto  grandi  tettoie,  si  vendevano  «  li  legna- 
mi »   per  tante  varie  costruzioni  temporanee  (1). 

Chi  guardi  una  delle  grandi  incisioni  su  rame  che  Vin- 
cenzo Re,  pittore  e  architetto  di  Palazzo,  publicò  nel  1  747, 
in  occasione  delle  feste  per  la  nascita  dell'infante  Fi- 
lippo (2),  vi  troverà  accennato  il  mucchio  delle  case  che 
i  Brancia  vendettero  a'  Tomeo.  Esso  fa  parte  d'un  im- 
menso presepe  che  volta  le  spalle  al  vico  Travaccari  e 
s'addossa  quasi  al  palazzo  dei  Caravita.  Povere  e  nude 
mura  sulle  quali  la  pioggia  va,  a  mano  a  mano,  lasciando 
larghe  allumacature,  rare  finestre,  piccoli  e  scuri  portoncini, 
sopra  un  de'  quali  è  un'immagine  della  Madonna,  con 
d'avanti  una  lanterna.  Nel  testamento  di  Michele  Tomeo 
sono  citati  «  annui  accomodi  per  le  salve  del  Castelriuovo, 
come  rottura  di  lastre  e  scositure  di  muraglie  » .  I   cannoni 


(1)  FU1DORO  —  Ms.,  fol.  97,  8. 

(2)  Società  di  Storia  Patria  Napoletana. 


—  87  — 

del  forte  facevano  gazzarra  per  qualche  festa  e  i  sudici 
vetri  alle  finestre  dell'isolato  andavano  in  pezzi  e  quelle 
vecchie  mura  tremavano  dalle  fondamenta  e  s'aprivano.  Due 
baracche,  una  delle  quali  grande  più  del  doppio  dell'altra 
attigua,  si  vedono  piantate,  nella  stampa  di  Vincenzo  Re, 
d'avanti  l'isolato.  Teatri  ?  Non  lo  credo  ;  siamo  nel  1 747 
e  Michele  Tomeo  ha  già  assunto  l'impresa  della  Cantina, 
poco  lontana  dalle  sue  case  ;  dunque  posti  temporanei  de' 
soliti  rivenditori  di  specifici  miracolosi,  o  «  casotti  »  per 
esposizione  di  animali  feroci,  oppur  depositi  di  legname  e 
d'attrezzi  per  la  costruzione  d'una  di  quelle  artificiose  «  mac- 
chine "  le  quali  sorgevano  in  piazza,  in  occasioni  di  feste, 
per  il  «  dilettoso  curiosamento  del  popolo  e  bassa  gente  » . 
E  quest'ultima  opinione  mi  par  quella  da  accogliere  con 
più  favore  ;  giusto  in  quell'anno  l'architetto  Re  occupava 
la  parte  centrale  della  piazza  con  un  immenso  e  bizzarro 
edificio  di  legno,  a  forma  di  pagoda,  che  a  sera  s'illuminava 
allo  stesso  momento  in  cui  Castelruovo,  tutto  infiammato  di 
luci  multicolori,  pareva  che  ardesse  dell'abbagliante  e  meravi- 
glioso fuoco  d'un  palazzo  incantato. 

La  via  del  Molo,  in  fondo,  s'apriva  larga  e  lunga  fino 
al  mare,  fiancheggiata  dagli  olmi  e  frequentata  dai  canta- 
storie. Due  di  costoro,  verso  il  1 770,  vi  si  disputavano  il 
publico  de'  soldati  e  de'  marinai.  Si  chiamava  uno  il  Ful- 
lie.ro,  l'altro  lo  Siuorto  (1);  quegli  leggeva  Y  Orlando  fu- 
rioso, questi  intratteneva  il  suo  democratico  uditorio  con 
V Istoria  di  Luigi  Mandrino  celebre  contrabbandiere  di  Fran- 


(1)  CERLONE  — //  villeggiare  alla  moda. 


—  88  - 

eia,  libro  dell'Abate  Pietro  Chiari,  publicato  nel  1762  (1). 
Sul  Molo  stesso,  di  tanto  in  tanto,  in  mezzo  a  un  capan- 
nello di  curiosi,  un  facchino  o  un  marinaio  si  facevano 
tranquillamente  tatuare  da  uno  specialista  di  simili  lavori 
dermo-decorativi.  Il  cantastorie  s'avvicendava  col  guattarel- 
laro,  una  coppia  d'amanti  sedeva  sul  parapetto  della  via 
dove  prima  due  studenti  erano  stati  a  discutere  di  Orazio, 
e  una  fila  di  collegiali,  con  dietro  il  vecchio  prefetto,  tor- 
nava dalla  sua  passeggiata  alla  riva,  mentre  de'  giovanotti 
vi  accompagnavano,  alle  barche  pronte,  le  cantarine  del  teatro 
Nuovo  che  andavano  a  cenare  a  Marechiaro,  da  Carlan- 
drea  famoso. 


V. 


Michele  Tomeo,  come  si  ricava  dal  suo  testamento,  aveva 
tenuto  a  pigione,  da  tal  Giuseppe  Marchese,  un  teatro  alla 
«  strada  de  Nardo  »  prima  di  prender  la  Cantina.  La  etrada 
Nardones  è  uno  de'  tanti  budelli  paralleli  che  sboccano 
nella  via  di  Toledo  e  l'allagano  di  morale  e  material  su- 
diciume ;  come  la  strada  di  Chiaia  essa  accoglieva,  nel  set- 
tecento, parecchie  di  quelle  compagnie  di  straccioni  che 
trovavano  buona  ogni  più  lurida  e  scura  bottega  per  pian- 
tarvi un  ordine  di  palchetti  e  costruirvi,  in  fondo,  un  pal- 
coscenico grande  come  un  guscio  di  noce.  I  frequentatori 
delle  bettole  e  delle   male  case  vicine  erano  il  publico  di 


(1)   Gazzetta  di  Napoli,   aprile,    1762. 


que'  bugigattoli,  davanti  a'  quali,  sotto  fumose  lucerne  ad 
olio,  lo  strillone  della  compagnia  non  lasciava  mai  d'an- 
nunziare, a  gran  voce,  con  frasi  magnificanti,  la  novità  me- 
ravigliosa dello  spettacolo  ch'era  lì  lì  per  principiare.  Alla 
via  Nardones  Michele  Tomeo  rimase  un  anno  ;  passò  in 
appresso,  come  abbiamo  visto,  alla  Cantina  e  vi  si  trovò, 
nel  1 734,  poco  lontano  da  casa  sua  e  impresario  d'un 
teatro  relativamente  più  pulito  di  quello  che  aveva  lasciato. 
Fino,  dunque,  al  1 740  il  nostro  Tomeo  non  ebbe,  ne' 
suoi  pressi,  a  rivaleggiar  con  alcuno.  Di  volta  in  volta  qual- 
che baracca  appariva  in  Piazza  del  Castello  e  de'  com- 
medianti di  passaggio  vi  si  fermavano,  ma  non  il  buon  nome 
della  Cantina  ne  pur  gl'interessi  del  Tomeo  ne  venivano 
danneggiati  ;  dopo  un  mese  o  due  i  commedianti  sparivano, 
la  baracca  era  demolita  e  Michele  Tomeo,  che  avea  l'abito 
di  pigliar  fresco  sotto  la  porta  del  suo  teatro,  vi  continuava 
a  fumare  tranquillamente  la  pipetta,  sorridendo  sulle  recenti 
rovine  che  lo  lasciavano  sempre  più  fortunato  padrone  del 
luogo.  Ma  nel  1 740  la  sua  pace  fu  improvvisamente  tur- 
bata :  una  fila  di  carri  trasportò  nella  piazza  gran  quantità 
di  legname  e,  subito  che  furono  scaricati  que'  tavoloni,  molti 
operai  si  misero  a  costruire  una  grande  baracca.  Don  Mi- 
chele Tomeo  sgranò  tanto  d'occhi  e  depose  la  pipetta.  Che 
diavolo  era  mai  per  seguire  ?  Lascio  la  parola  a'  docu- 
menti del  tempo. 


—  90  — 
VI. 

ARCHIVIO  DI  STATO. 
Fascio   teatrale  IX. 

«  Si  fa  piena  ed  indubitata  fede  per  me  sottoscritto  Gen- 
naro Brancaccio  a  chi  la  presente  spetterà  vedere  o  sarà 
in  qualsiasi  modo  portata  in  giudizio  e  fuori  anco  con  giu- 
ramento, come  per  lo  spazio  di  anni  14  continui  ho  tenuto 
io  sottotestificante  l'affitto  della  Piazza  del  Real  Castello 
Nuovo  seu  il  jus  di  esiggere  tutto  ciò  che  son  tenuti  pa- 
gare tutti  li  venditori  di  robbe  commestibili  ed  altri  generi 
di  robbe  nelli  Posti  e  Barracche  siti  nel  tenimento  e  per- 
tinenza di  d.a  Real  Piazza.  Con  tale  occasione  da  me  sotto 
testificante  si  eriggè  e  situò  un  Barraccone,  seu  Casotto  grande 
di  tavole,  coperte  sopra,  dentro  del  quale  vi  feci  situare 
tre  fila  seu  Registri  di  Palchetti,  nel  quale  suddetto  Bar- 
raccone seu  Casotto  vi  s'introdusse  la  Comertazione  del- 
l'Istrioni seu  la  compagnia  delli  Rappresentanti  comedie  al- 
l'impronto ;  e  da  anno  in  anno  e  da  mese  in  mese  e  da 
giorno  in  giorno  così  di  notte  come  di  giorno  si  sono  sem- 
pre e  di  continuo  rappresentate  le  sudette  comedie  all'im- 
pronto ed  altri  spettacoli.  E  comecché  p.  causa  di  d.e  rap- 
presentazioni di  comedie  spettava  il  mezzo  quarto  di  con- 
tribuzione al  Real  Teatro  di  S.  Carlo,  tal  mezzo  quarto 
l'ho  tenuto  io  in  affitto  dalli  affittatori  prò  tempore  di  d.° 
Real  Teatro.  E  similmente  per  lo  buon  governo  ed  am- 
ministrazione del  sudetto  Teatro  e  recitanti,  dal  Tribunale 
della  Reale  Generale  Udienza  dell'Esercito  si  è   destinato 


—  91  — 

un  scrivano  fiscale  del  Tribunale  sudetto  per  accudire  ed 
assistere  a  detto  Teatro  di  giorno  e  di  notte  e  ciò  si  è 
pratticato  dall'errezione  e  fondazione  di  d.°  Baraccone  seu 
Casotto,  fin  tanto  che  si  è  fatto  di  nuovo  il  sudetto  Bar- 
raccone  seu  Casotto  che  da  me  al  presente  si  tiene  in  fitto. 
Dichiarando  io  sottoattestante  che  sono  stato  richiesto 
dall'EccelLmo  signor  Castellano  di  d.°  Real  Castello  a  fare 
un'altra  fede  simile  che  da  me  si  farà.  Ed  in  fede  della 
verità  ne  ho  fatto  la  presente  » . 


Napoli,   4   novembre    1 754. 


Gennaro  Brancaccio. 


VII. 

Archivio  di  stato. 

Fascio   teatrale   IX. 

«  Si  fa  piena  ed  indubitata  fede  per  noi  sottoscritti  Co- 
mici di  questa  Città  a  chi  la  presente  spetterà  vedere  o 
sarà  in  qualsiasi  modo  presentata  in  Giudizio,  e  fuori,  anco 
con  giuramento  si  opus  sit,  come  con  l'occasione  che  per 
lo  spazio  di  molti  anni  avemo  recitato  e  rappresentato  opere, 
e  Comedie  nel  Casotto  grande  di  tavole  sito  nella  Piazza 
del  Largo  del  Castello,  con  tale  occasione  sapemo  benis- 
simo che  in  d.°  Casotto  ogni  volta  che  facevamo  opere  e 
Comedie,  vi  assistiva  di  guardia  quando  il  scrivano  della 
R.  Udienza  Generale  Giovan  Battista  Diena,  il  scrivano 
Salvatore  Riccio  o  Pietro  Maresca  et  altri  scrivani  di  d.* 
Regia  Audienza,  conforme  sempre  è  stato  solito  e  costume 


—  92  — 

di  accodirci  in  d.°  Casotto  scrivani  di  d.a  Regia  Audienza 
e  non  d'altro  Tribunale,  e  questa  è  la  verità  in  nostra  co- 
scienza et  è  pubblico  e  notorio  a  tutti.  In  fede  di  che 
avemo  fatta  la  presente  sottoscritta  di  nostre  proprie  mani.» 

Napoli,  4  novembre    1 754. 

Io  DOM.   ANT.   DI  FIORE  fo  fede  come  sopra. 
Io  NICOLA  CIOFFO  fojede  come  sup.r 

lo  Onofrio  Mazza  fo  fede  e.  sop. 

Io  GENNARO    ARIENZO  fo  fede  come  sopra. 
Io    FRANC.  TRIVELLI  fo  fede  come  sopra. 


Vili. 


Era,  dunque,  nel  1 740,  accaduto  nientemeno  che  que- 
sto :  di  faccia  alla  Cantina,  alla  distanza  di  «  palmi  1 50 
in  circa  »  (  1  )  un  teatro  novello  sorgeva,  d'un  subito,  come 
dalle  viscere  della  terra.  Grande,  comodo,  ricco  di  tre  or- 
dini di  palchi,  provvisto  di  scenario  dovizioso,  copiosa- 
mente illuminato,  esso  nasceva  con  gli  auspicii  e  le  pro- 
messe migliori  e  dal  nome  del  massimo,  ove  furoreggiavano 
in  quell'anno  Caffariello,  la  Cataneo,  la  Baratti  e  Fran- 
cesco Bernardi,  detto  il  Senesino  —  nel  trionfo  di  Camillo 
del  Porpora  e  in  Siroe  re  di  Persia  del  Perez  —  il  nuovo 
baraccone  s'intitolava  San  Carlino. 

Ed  eccoci  infine,  sulla  scorta  di  que'  due  documenti,  in 
presenza  non  pur  del  fondatore  del  San  Carlino  quanto 
della  compagnia  che  recitava  in  quel  Casotto.  Piazza  del 
Castello  era,  come  avrete  visto,  sotto  la    giurisdizione    del 


(1)  Jlrchivio  di  Slato,    'Documenti  teatrali  del  700,   fascio  XIV. 


—  93  — 

Castellano  del  forte,  che,  per  torsi  d'impaccio,  dava  in 
fitto  a  un  imprenditore  tutto  quell'ampio  luogo.  Nel  1740 
codesto  imprenditore  fu  Giovanni  Brancaccio,  il  quale  fino 
al  1754  rimase  padrone  della  baracca  che  avea  fatto  co- 
struire a  sue  spese,  rimpetto  la  chiesa  di  S.  Giacomo.  Il 
Brancaccio  non  aveva  dovuto  aspettar  molto  per  trovare 
qualcuno  de'  soliti  impresarii  di  compagnie  girovaghe,  il 
quale  gli  chiedesse  il  locale.  Nel  1 743  tal  Francesco 
d'Amato,  barbiere,  co'  denari  di  due  fratelli  de  Petris 
«  giovani  malviventi  ed  immersi  nelle  debolezze  umane  »  (  I  ), 
avea  chiesta  e  ottenuta  da  un  capocomico  ,  chiamato  Do- 
menicantonio  Arcieri,  l'impresa  del  teatro  della  Pace,  fon- 
dato, nel  171 8,  al  vico  della  Lava  ai  Tribunali.  Qualche 
anno  avanti  un  Giuseppe  d'Amato,  fratello  forse  di  quel 
Francesco  —  poiché  la  smania  del  teatro  conquista  quasi 
sempre  tutta  una  famiglia  —  e  impresario  d'una  compagnia 
napoletana,  adocchiato  il  casotto  del  Brancaccio  vi  si  in- 
sediò co'  suoi  comici  i  quali  furono,  senza  fdubbio,  quelli 
che  firmarono,  in  appresso,  la  dichiarazione  quassù  ripor- 
tata. 


IX. 


Domenicantonio  di  Fiore  nacque  nel  1711.  Di  lui  scrive 
il  Bartoli  : 

«  Bravo  e  grazioso  Pulcinella  che  nei  teatri  di  Napoli 
fu  sommamente  ben  accolto  ed  applaudito.  La  sua  ^pron- 
tezza nelle  risposte,  la  sua  pantomima  naturale    e    graziosa 


(1)  archivio  di  Stato,  fascio  V,   Esp.    18. 


—  94  — 

e  una  profonda  intelligenza  delle  commedie  improvvise  fu- 
rono tutti  meriti  che  gli  acquistarono  fama  e  riputazione. 
Lasciò  questo  Comico  valoroso  le  caduche  per  le  celesti 
felicità  l'anno  1 767  avendo  dell'età  sua  oltrepassato  il  cin- 
quantesimosesto » .  Del  Cioffo  suo  compagno  al  Fiorentini 
e  al  San  Carlino  lo  stesso  Bartoli  dà  le  notizie  che  se- 
guono :  «  Comico  napoletano  che  recitò  assai  bene  nel  ri- 
dicolo carattere  di  Tartaglia  e  che  fu  per  lungo  tempo  ap- 
plaudito nella  sua  patria  ed  altrove.  Oltre  il  suo  proprio 
merito  si  può  a  questo  comico  attribuire  il  vanto  d'essere  stato  il 
maestro  del  rinomato  Agostino  Fiorilli.  Cioffo  fu  gran  conosci- 
tore dei  scenici  frizzi,  sostenne  la  commedia  all'improvviso  con 
gran  perizia  e  pubblicollo  l'universal  grido  per  uno  dei  migliori 
comici  che  in  Napoli  avessero  fama  di  spiritosi  e  provetti  » . 
Onofrio  Mazza^ha  pur  la  sua  breve  biografìa  nel  libro  del 
Bartoli,  ov'è  detto  di  lui  :  «  E  comico  rinomato  che  in 
varie  Città  e  specialmente  in  Napoli  si  è  fatto  conoscere 
per  buon  Recitante.  Dimora  anche  oggi  (1)  in  quella  me- 
tropoli e  tra'  comici  provetti  occupa  un  grado  distinto  rap- 
presentando la  parte  dell'Innamorato  con  eleganza  e  dando 
prova  continuamente  della  sua  bravura  in  tutte  le  cose  del- 
l'arte che  da  molti  anni  e  valorosamente  da  lui  esercitata». 
Gennaro  Arienzo  non  ha  il  valore  e  il  vanto  de'  compa- 
gni ;  è  un f comico  di  ventura,  poco  conosciuto,  meno  ap- 
prezzato. Di  lui  non  è  parola  se  non  al  Fiorentini,  nel  1  747. 
Ma  lo  ritroveremo  in  appresso,  nella  compagnia  numerosa 
della  Cantina,  che  ci  ripresenterà,  come  vedrete,  parecchie 
di  queste  conoscenze.  Infine,  del  Trivelli,    ultimo    dei    fir- 


(!)  Il  libro  del  Bartoli  ha  la  data  del    1782. 


—  95  — 

matari  della  compagnia  sancarliniana,  non  ho  potuto,  per 
carte  che  abbia  frugato,  saper  nulla  in  quanto  a'  meriti 
suoi  d'arte.  Questo  so  di  lui,  solamente,  che  nel  1 763  era 
diventato  capo  d'una  compagnia  di  dieci  comici  che  l'im- 
presario Tomeo  mandava  a  recitare  nella  baracca  della  com- 
media, alla  Fiera. 


X. 


Prima  di  passare  al  casotto  del  San  Carlino  Domeni- 
cantonio  di  Fiore  faceva  parte  d'una  compagnia  girovaga  che 
recitava  in  lingua  napoletana  al  Fiorentini,  nelle  sere  in 
cui  non  vi  si  davano  opere  in  musica.  Quella  compagnia 
si  componeva  degli  attori  seguenti  : 

'Prima  "Donna  —  Nicotina  Buonanni. 
Seconda  Donna  —  Margherita  Grimaldi. 
Servetta  —  Angiola  Testa. 
'Primo  jìmoroso  —  Francesco  Gautini. 
Secondo  Amoroso  —  Nicola  Vitolo. 
Terzo  Jlmoroso  —  Saverio  Fusco. 

Per  "Padri: 

"Dottor  Graziano  —  Pietrantonio  Gabrieli. 
Tartaglia  —  Nicola  Cioffo. 

Zanni  : 

"Polcinella  —  Domenicantonio  di  Fiore.^ 
Coviello  —  Ferdinando  di  Diego  (1). 


(1)  Jjrchivio  di  Staio,    'Documenti  teatrali  del  700,    {ascio   I. 


—  96  — 

Il  di  Fiore  aveva  allora  ventisette  anni.  Ma  s'era  dato 
giovanetto  alle  scene  e  in  quel  tempo  era  già  grande  la 
sua  fama. 

L'anno  appresso  egli  militava  in  una  nuova  compagnia 
che  rappresentava  «  commedie  burlesche  »  in  un  giardino 
fuori  Porta  Capuana.  Erano  rimasti  con  lui  il  di  Diego, 
Goffo  e  Fusco,  ma  or  la  prima  donna  si  chiamava  Agata 
Ciavarella,  la  seconda  donna  era  Margherita  Gallegara,  e 
Maddalena  Raganiello  recitava  da  servetta.  Il  primo  amo- 
roso era  il  giovane  Francesco  Barese ,  che  in  appresso 
divenne  Pulcinella  anche  lui  :  Domenico  David,  infine, 
sosteneva  la  parte  di  secondo  innamorato.  Goffo  da  tar- 
taglia s'era  mutato  in  Vecchio  e  il  di  Diego,  da  Coviello 
in  Cola.  Questo  seguiva  nell'aprile  del  1739  (1),  un  anno 
prima  che  si  fosse  aperto  il  casotto  del  San  Carlino  in 
Piazza  del  Castello. 

Nell'agosto  del  1 740  l'Uditor  dell'Esercito  don  Erasmo 
de  Ulloa  scriveva  al  re  : 

«  Due  sono  le  compagnie  d'Istrioni  che  recitano  ogni 
giorno  all'impronto  in  questa  Capitale  ;  l'una  recita  in  un 
luogo  aperto  fuori  Porta  Capuana,  l'altra  in  un  luogo  qua- 
sicchè  sotterraneo,  calandosi  diverse  giade  nel  Largo  del 
Castello  presso  della  chiesa  di  S.  Giacomo.  I  comici  del- 
l'una e  l'altra  Compagnia  sono  in  estremo  miserabili  e  fanno 
tal  vile  professione  solamente  per  vivere  non  lucrandosi  se 
non  che  poche  grana  al  giorno  per  ciascheduno,  le  quali 
qualora  le  mancano  si  riducono  in  una  strettezza  che  fa 
compassione  ;  onde  sarebbero  capaci  della    grazia  di  S.  M. 


(1)  Archivio  di  Stato,   Documenti  teatrali  del  700,  fascio  XII. 


—  97  — 

di  potersi  esercitare  nel  lor  mestiere  con  qualche  riserva 
tanto  più  che  quei  di  Porta  Capuana  possono  solo  rap- 
presentar le  comedie  fin  al  di  otto  di  Settembre,  conforme 
è  stato  sempre  solito,  poiché  per  cagion  dell'umido  che 
viene  a  cader  la  sera  in  detto  luogo  aperto  non  vi  con- 
corre la  gente  siccome  con  facilità  vi  viene  nei  giorni  ca- 
lorosi estivi  per  divertirsi  al  fresco...». 

In  questo  tempo  l'impresario  del  San  Carlino  in  Piazza 
del  Castello  spedisce  un  ricorso  al  re,  lagnandosi  perchè 
le  recite  gli  sono  state  proibite.  V'è  detto,  tra  l'altro,  che 
nel  casotto  «  si  fanno  comedie  e  si  espongono  alla  pubblica 
vista  varie  curiosità  » .  Se  dunque  la  compagnia  del  di 
Fiore,  nell'  agosto  del  1 740  recitava  a  Porta  Capuana 
mentre  al  d'Amato  si  proibivano  altre  rappresentazioni  al 
casotto,  e  chiaro  che  il  di  Fiore,  co'  suoi  compagni,  non 
sia  passato  al  San  Carlino  se  non  dopo  il  1 740.  Forse 
ciò  avvenne  nel  1741  ;  da  quell'anno,  fino  al  1746,  gli 
espedienti  del  tNjiovo  e  del  Fiorentini  non  fanno  più  pa- 
rola del  famoso  Pulcinella  ;  egli  era  in  quel  tempo  re 
d'una  baracca  da  cui  le  carte  dell'Udienza  rifuggivano  sde- 
gnosamente. 

Nel  1 746  ritrovo  il  di  Fiore  al  Nuovo.  Vi  recita  da 
Bajazette  nello  scherzo  comico,  del  quale  egli  stesso  è  au- 
tor del  libretto,  intitolato  :  Fra  lo  sdegno  nasce  amore  ;  la 
musica  è  d'un  altro  comico  chiamato  Onofrio  d'Aquino,  e 
compagni  del  di  Fiore  sono  :  Pietro  Grati  (^ amerlano), 
Francesco  Massaro  {Andronico),  Nicola  Goffo  (Rambaldo), 
Anna  Cavallucci  (Asteria)  e  Giroloma  Grata  (Irene).  Nel- 
l'ottobre del  1 747  il  di  Fiore  scrive  un  altro  libretto,  lo 
intitola  Capitano  Giancocozza  e  lo  fa  musicare  da  Grego- 
rio Sciroli.  Se  ne  dà  rappresentazione  al  Fiorentini  con  gli 

DI  GIACOMO.  -  S.   Carlino.  7 


attori  :  Gennaro  Arienzo,  Onofrio  d'Aquino,  Nicola  Losi, 
Pietro  Grati,  Girolamo  Grati,  Anna  Cavallucci  e  Margherita 
Gallerati;  il  di  Fiore  prende  per  se  la  parte  del  protagonista 
Qiancocozza.  In  quest'anno  è  impresario  del  teatro  San  Carlo 
Diego  Tufarelli,  persona  di  cui  tutti  ridevano  per  la  sua  goffa 
e  comica  albagia.  Or  come  al  Fiorentini  si  dava  una  commedia 
nella  quale  il  Tufarelli  era  maledettamente  posto  in  ridicolo, 
Onofrio  d'Aquino,  autore  del  brutto  scherzo,  è  arrestato  e  la 
compagnia,  perseguitata,  non  trova  più  requie.  Eccola  nel  1 748 
al  Nuovo,  che  il  di  Fiore  ha  preso  a  pigione  «  per  opere 
burlesche  » .  Vi  rimane  un  anno  ;  poi  ricomincia  a  praticare 
un  po'  qua  un  po'  là,  come  la  guida  il  vento.  Nell'aprile 
del  1 749  un  Domenico  Argenzio  Masera,  ex  conduttore 
di  compagnie,  «  per  sacre  rappresentazioni  »  chiede  il  per- 
messo di  costruire  un  casotto  rimpetto  la  Pietra  del  Pesce, 
ove  avrebbe  fatto  recitare  «  Domenicantonio  di  Fiore  o  al- 
tra compagnia  de  stregoni  (sic)  per  lo  spazio  di  quattro  o 
al  più  cinque  mesi  d'està  calorosa  ».  Gli  si  risponde  che 
«  e/  Rey  no  tiene  por  conveniente  la  creacion  de  este  nueve 
Theatro  » .  Il  Masera  nell'ottobre  dell'anno  precedente  aveva 
fatto  rappresentare  «  opere  spirituali  in  un  luogo  sotto  il 
Monistero  di  S.  Giorgio  Maggiore  »,  e  tra  gli  spettacoli 
s'era  data,  con  grande  successo  «  l'opera  del  glorioso  S. 
Eustacchio,  honesto  divertimento,  augumento  della  S.  Fede 
per  essere  martirizzato  detto  Santo,  sua  moglie  e  due  te- 
neri figlioìini  bruggiati  vivi  dentro  un  toro  di  metallo  » .  Nel 
giugno  del  1751  lo  stesso  Masera,  che  ha  lasciata  la  sua 
compagnia  di  «  accademie',  gente  honesta  che  rappresenta 
opere  della  Passione  di  Cristo  »  s'invoglia  degli  Stregoni, 
come  li  chiama  lui,  e  supplica  il  re  perchè  gii  accordi  il 
permesso  di  far  «  rappresentare  le  solite  burlette  sopra    una 


—  99  — 

loggia  del  ^HCandrone  sito  alla  Zavatteria,  per  tre  mesi 
d'està,  per  potersi  divertire  i  convicini  all' aria  fresca  d'està, 
allo  scoverto,  con  le  solite  burlette  di  'Domenicantonio  di 
Fiore...»  Neppur  questa  volta  è  contentato.  E  dal  1751  i 
documenti  d'Archivio  di  Stato  cessano  di  parlare  del  di 
Fiore,  cui  certo  nocquero  le  persecuzioni  che  rincorrevano, 
da  quel  tempo,  i  comici  de'  teatri  popolari  e  l'aver  preso 
in  giro  l'impresario  Tufarelli.  Dal  1741  al  1746  la  sua 
compagnia  tenne  tenda  al  San  Carlino  e  fu  quella  che 
veramente  lo  mise  in  onore,  poi  vagò,  randagia,  non  mai 
più  ottenendo  un  teatro  stabile,  povera,  affaticata  e  mal  vi- 
sta dagli  Uditori  dell'Esercito,  ministri  delle  cose  teatrali. 
Un  triste  vento  la  disperse,  ne  il  favor  popolare  valse  a 
rifonderle  sangue  nelle  vene  ammiserite  ;  languì  senza  aiuto 
e  senza  speranza,  agonizzò  ancora  un  pezzo  per  i  paeselli 
della  provincia  e  poi  si  spense,  gloriosa,  ma  infelice. 

Domenicantonio  di  Fiore  visse  in  tempi  ne'  quali  l'arte 
del  comico,  per  singolare  che  fosse  e  mirabile,  non  arric- 
chiva. Egli  si  dovette  accontentar  della  fama,  e  morì  povero 
come  i  suoi  compagni.  Zingari  della  commedia  dell'arte 
essi  si  sbandavano  paurosamente,  a  quando  a  quando,  come 
nel  verno,  soffiasse  sulla  loro  straccioneria  la  raffica  della 
miseria,  livida  nemica  di  Talia  ridente;  oppur  quando — im- 
pensierito da'  reclami  dei  padri  di  famiglia  che  vedevano 
i  lor  figliuoli  impegolati  fra  le  attrici  —  il  severo  Tanucci 
fulminasse  la  banda  comica  con  decreti  di  immediato  scio- 
glimento. Domenicantonio  di  Fiore  conquistava,  è  vero, 
la  celebrità,  ma  battagliava  con  la  fame.  Gli  cascavan 
d'avanti  gli  amorosi,  pallidi  e  allampanati,  i  suoi  vecchi 
padri  serii  si  trascinavano,  moribondi,  sul  palcoscenico, 
Cola  e  Coviello    ridevano    giallo,  e    la  stretta  sorveglianza 


—  100  — 

degli  Scrivani  dell'Udienza  impostati,  con  tanto  d'occhi 
aperti,  sul  palcoscenico,  impediva  alle  servette  la  pratica 
fruttuosa  de'  loro  infiniti  adoratori.  Mala  tempora  pe'  co- 
mici di  bassa  levatura  ;  il  di  Fiore,  straccione  famoso, 
era  un  sole  spogliato  de'  suoi  raggi.  Ma  ecco,  dopo 
un  secolo  e  mezzo,  l'astro  rifulge  ;  la  ricerca  paziente  ri- 
pesca, tra  vecchie  carte  muffite,  una  pietra  preziosa  e  la 
disvela.  Tardi,  ma  in  tempo,  il  primo  de'  Pulcinelli  di  San 
Carlino  ottiene  dalla  storia  resipiscente  l'amica  e  pietosa 
rievocazione,  che,  liberandolo  dalla  tenebra,  gli  restituisce 
il  posto  di  quel  trono  ch'egli  occupò  pel  primo,  e  così  glo- 
riosamente, nella  Reggia  avventurosa  e  gioconda  della  pia- 
cevolezza. 


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*— * -k 


Che  avvenne,  fra  tanto,  del  primo  San  Carlino  ? 

Gennaro  Brancaccio,  nella  sua  dichiarazione  del  1 754, 
dice,  tra  l'altro,  che  il  casotto  da  lui  «  non  più  posseduto  » 
è  stato  in  quel  torno  rimesso  a  nuovo.  Difatti  è  così.  In 
quell'anno  stesso  tal  Giuseppe  Pepe,  capo  dell'ultima  com- 


—  101  — 

pagnia  che  vi  avea  recitato,  succede  al  d'Amato  e  diventa 
novello  impresario  della  baracca. 

Giuseppe  Pepe,  a  quanto  pare,  ha  denari  da  spendere. 
E  padrone  d'un  teatrino,  fuori  Porta  Capuana,  detto  Lo  Giar- 
deniello,  ove  il  di  Fiore  s'è  spesso  recato  a  recitare  :  s'in- 
tende assai  bene  di  cose  teatrali  e,  infine,  anche  un  poco 
per  far  concorrenza  a  quelli  della  Cantina,  accetta  di  pi- 
gliar le  redini  del  carro  di  Tespi  che  lo  sfortunato  d'Amato 
non  più  sa,  ne  può  menare  avanti.  Eccolo  dunque,  a'  10 
di  luglio  del  1754,  impresario  del  San  Carlino.  Questo 
secondo  periodo  del  casotto  termina  all'anno  1  759.  Le  sue 
brevi  vicende  sono  consacrate  in  una  relazione  dell'  Uditor 
dell'Esercito  Nicola  Pirelli,  il  quale,  dieci  anni  dopo,  a 
proposito  della  Cantina,  ne  informa  —  dopo  avere,  per  le 
generali,  narrato  come  e  quando  San  Carlino  ebbe  origine 
—  ne!  modo  che  segue  appresso,  il  Tanucci. 

XI. 

Archivio  di  Stato. 

Fascio  teatrale  XII. 

«  Michele  Tizzano  fece  nel  1758  offerta  alla  So- 
printendenza del  fondo  della  Separazione  di  fare  un  altro 
Teatro  accosto  il  picchetto  della  Cavalleria  dirimpetto  alla 
porta  del  Castello,  per  fare  Comedie  ne'  tempi  permessi, 
o  di  farci  dei  spettacoli,  o  altro  che  convenisse,  e  fosse 
permesso,  offerendo  prezzo  maggiore,  qualora  dalla  So- 
printendenza si  aboliva  il  Teatro  di  San  Carlino.  In  vista 
di  tale  offerta  e  di  Relazione  della  Soprintendenza  p.  non 


—  102  — 

doversi  accettare,  e  dimettersi  detto  Teatrino  p.  gli  scon- 
certi, e  scandali  che  vi  accadevano: 

S.  M.  non  solo  ordinò  che  si  rigettasse  l'offerta,  ma  che 
si  abolisse  quel  Teatro  di  S.  Carlino  finito  ch'era  l'affitto 
del  medesimo. 

L'affitto  finì  in  settembre  1758  di  modo  che  l'abolizione 
poteasi  fare  subito  dopo  del  disp.  ma  perchè  ricorsero  da 
S.  M.  C.  Giuseppe  Pepe  e  Gennaro  Scoti  affittatoli  di 
detto  Teatrino,  esponendo  che  credendo  di  dover  conti- 
nuare nell'affitto  di  detto  Teatrino  anche  dopo  terminato  il 
prescritto  tempo,  aveano  fatto  venire  da  Lombardia  una 
compagnia  di  comici,  S.  M.  C.  permise  che  le  opere  in 
detto  Teatrino  di  S.  Carlino  continuassero  per  tutto  il 
Carnovale  1 759,  comandando  che  dopo,  nella  Quaresima 
di  detto  anno,  si  fosse  eseguita  subito  l'ordinata  demolizione 
del  medesimo.  E  non  essendo  stata  eseguita  la  demolizione 
a  16  marzo  1759  fu  nuovamente  comandato  che  con  effetto 
fosse  subito  demolito,  e  perchè  anche  a  questo  ordine  non 
fu  neanche  dato  orecchio  con  un  quarto  Real  dispaccio 
ordinò  V.  E.  alla  Soprintendenza,  a  27  aprile,  che  si  fosse 
smantellato  il  Teatrino  con  mettere  in  pulito  tutto  quel 
luogo  che  dal  medesimo  si  occupava,  e  che  in  difetto  la 
M.  S.  l'avrebbe  fatto  demolire  da  una  Compagnia  di  Gra- 
natieri. 

In  vista  di  tutto  ciò  che  descrive  la  Storia  della  fonda- 
zione del  Teatro  San  Carlino  non  mancò  la  Giunta  di  far 
presente  la  nuova  istanza  fatta  dall'affittatore  Pepe  nel  1 760 
di  aprire  nel  Largo  del  Castello  un  teatrino  per  Istrioni 
con  pagarne  al  Fondo  della  Separazione  annui  ducati  168 
ed  in  seguito  di  relazione  della  Giunta  de'  Teatri  a  29 
aprile   1760  ordinò  V.  M. 


—  103  — 

«  Che  la  M.  S.  non  era  venuta  ad  alterare  gli  ordini 
del  suo  Augustissimo  Padre.  »  E  così  restò  terminata  la 
pretensione  del  Pepe  e  di  tutti  gli  altri,  di  fare  un  altro 
nuovo  Teatro  d'Istrioni.   » 


Napoli,   31    Xmbre    1769. 
A.  S.  E. 

Don   {Bernardo    Tanucci. 


Nicola  Pirelli. 


XII. 


La  cronaca  del  San  Carlino,  fino  al  secolo  decimo- 
nono è  tutta  una  storia  di  persecuzioni  ;  al  Pepe  capita  la 
stessa  mala  fortuna  che  rovinò  il  povero  d'Amato,  anzi 
qualche  cosa  di  più  :  i  soldati  gli  smantellano  il  teatro  e 
per  poco  egli  non  è  cacciato  in  prigione.  Tuttavia  non  si 
scoraggia.  Già  dal  1 758  egli  —  che  avea  capito,  dalle  severe 
e  continue  ingiunzioni  dell'Udienza,  come  non  gli  rimanesse 
scampo  —  mentre  temporeggiava,  cercando  di  tirar  avanti 
quanto  più  potesse  col  casotto,  chiedeva  al  re  di  poter 
passare,  con  la  compagnia,  al  Giardeniello.  Or  l'impresario 
della  Cantina  che  soleva  condurvi  anche  lui  i  suoi  comici, 
quando  non  vi  recitasse  il  di  Fiore,  non  lasciando  di  per- 
seguitar l' impresario  rivale,  anch'  egli  s' avviava  verso  quel 
luogo  e  cercava  di  piantarvi  tenda.  Dal  documento  che  segue 
s'appura  come  andarono  le  cose. 


—  104  — 
XIII. 

ARCHIVIO  DI  STATO. 
Fascio  teatrale  XIV. 

«  Con  venerato  dispaccio  de'  28  del  prossimo  passato 
mese  di  aprile  si  è  degnata  V.  E.  di  rimettermi  per  in- 
formo un  ricorso  della  Compagnia  de'  Comici  che  vuole 
rappresentar  le  Comedie  nella  R.  Fiera  avanti  il  R.  Pa- 
lazzo, la  quale  avendo  esposto  di  aver  trovato  prevenuto 
dall'altra  Compagnia  del  dismesso  teatro  San  Carlino  un 
luogo  fuori  Porta  Capuana  detto  lo  Giardeniello  dove  solea 
l'està  rappresentar  le  Comedie  e  che  avea  ritrovato  anche 
fuori  Porta  Capuana  altro  luogo  da  poterle  rappresentare, 
distante  da  quello  intorno  a  70  canne  ha  dimandato  di 
accordarsele  la  licenza,  che  da  me  se  l'era  negata.  Sono 
intanto  a  farle  umilmente  presente  che  mi  fu  prima  richiesto 
un  tal  permesso  ed  erasi  ancor  dato  per  fuori  Porta  Nolana 
essendomi  io  informato  che  più  anni  sono  si  erano  recitate 
comedie  in  tempo  di  està  così  fuori  l'una  come  fuori  l'altra 
porta,  sebbene  avendo  io  l'onore  di  servire  nel  presente 
impiego  dal  1 755  non  si  erano  a  tempo  mio  recitate  che 
soltanto  nell'accennato  luogo  del  Giardeniello.  Ma  avendo 
poi  preinteso  per  ricorso  a  voce  dell'altra  Compagnia,  che 
difatti  si  era  cominciato  a  formare  questo  teatro  similmente 
fuori  Porta  Capuana  stimai  dover  impedire  che  si  proce- 
desse più  oltre  poicchè  mi  parve  che  prima  si  avessero  a 
sentir  le  parti  per  procedere  di  giustizia. 

E  dopo  del  riverito  ordine  dell'  E.  V.  avendo  inteso 
così  la  parte  ricorrente  come  l'impresario  dall'altra  compa- 


—  105  — 

gnia  che  è  nel  tempo  stesso  il  padrone  del  Giardeniello, 
da  cui  si  opponeva  che  gli  si  recasse  pregiudizio  con  la 
vicinanza  di  un  altro  teatro  ordinai  allo  scrivano  della  causa 
che  insieme  con  le  dette  parti  e  coll'ingegnere  Giovam- 
battista Catalano  avesse  riconosciuto  se  l'antico  e  solito 
luogo  fuori  Porta  Nolana,  ch'era  un  orto,  dove  le  comedie 
si  erano  in  altri  tempi  rappresentate,  ritrovavasi  tutto  semi- 
nato siccome  asserivasi  :  se  in  quei  contorni  vi  era  altro 
luogo  fuori  la  città  in  cui  si  fosse  potuto  formare  un  nuovo 
teatro  e  quanta  distanza  eravi  fra  il  Giardeniello  e  il  luogo 
ove  detto  teatro  erasi  già  cominciato  a  formare  e  finalmente 
quale  distanza  vi  era  dal  dismesso  teatro  San  Carlino  al 
Largo  de!  Castello  a  quello  che  vi  è  sotto  la  Congrega  di 
S.  Giacomo,  dove  parimente  fa  le  comedie  la  stessa  Com- 
pagnia che  suole  rappresentar  nella  R.  Fiera.  E  si  è  effet- 
tivamente veduto  che  la  distanza  tra  l'uno  e  l'altro  Teatro 
fuori  Porta  Capuana  sarebbe  di  palmi  685,  dove,  all'in- 
contro, quella  tra  il  dismesso  Teatrino  e  l'altro  sotto  S. 
Giacomo  non  era  che  di  soli  palmi  150  in  circa.  Che  è 
tutto  seminato  il  giardino  fuori  Porta  Nolana  dove  le  co- 
medie  prima  si  facevano  e  che  non  ci  sarebbe  stato  altro 
luogo  da  formare  un  altro  Teatro  se  non  in  una  strada 
accosto  alle  mura  di  Porta  Nolana  da  dentro  la  Città  ma 
sarebbe  andato  ad  appoggiare  ad  una  muraglia  del  Coro 
della  Chiesa  di  S.  Pietro  ad  Aram  ed  avrebbe  dato  im- 
pedimento al  primo  piano  di  alcune  casette  che  vi  sono 
onde  facilmente  vi  sarebbe  potuto  nascer  lite  e  contro- 
versia e  il  teatro  forsi  non  potrebbe  ridursi  a  fine,  ne  l'Im- 
presario che  si  oppone  alla  compagnia  ricorrente  ne  ha 
potuto  ottenere  il  consenso  di  coloro  che  abbitano  le  dette 
case. 


—  106  - 

Posto  adunque  tutto  ciò,  a  me  pare  che  non  essendovi 
altro  luogo  commodo  a  potersi  formare  fuori  la  città  il 
teatro  in  quelle  vicinanze  dove  le  commedie  è  stato  solito 
di  altre  volte  rappresentarsi,  potrebbe  l'È.  V.  degnarsi 
ordinarmi,  se  altrimenti  non  istima,  che  dia  alla  compagnia 
ricorrente  la  licenza  che  ha  richiesto  tanto  più  che  non  si 
ravvisa  che  alcun  pregiudizio  si  rechi  all'altra  compagnia 
del  dismesso  Teatro  di  San  Carlino,  giacche  molto  mi- 
nore era  la  distanza  tra  il  detto  Teatro  dismesso  dove  finora 
ha  essa  fatto  ìe  sue  comedie  e  quella  sotto  la  Congrega- 
zione di  S.  Giacomo  che  non  sia  presentemente  tra  il 
Giardeniello  e  il  luogo  che  dalla  ricorrente  si  è  scelto. 

E  con  profondo  rispetto  le  fo  umilissime  riverenze.    » 

Napoli,   7   Maggio    1759. 

Garofalo  Niccolò. 
A  S.  E. 

"Don   Giulio   Cesare   D'Andrea. 

XIV. 

Il  Garofano  chiede,  infine,  che  deliberazione  intenda 
pigliar  sulla  controversia  S.  M.  Ferdinando,  che  nel  maggio 
di  quell'anno  se  ne  stava  tranquillamente  a  villeggiare  in 
Portici.  S.  M.  Ferdinando  aveva  allora  otto  anni  ;  egli 
amava  assai  più  di  correre  pe'  viali  del  bosco  di  Portici, 
appresso  alle  lucertole,  che  di  sentir  parlare  e  d'occuparsi 
di  cose  teatrali.  Rispose  per  lui  lo  stesso  don  Giulio  Ce- 
sare d'Andrea,  «  Segretario  della  R.  Azienda  »,  in  questa 
maniera  : 

«  Si  rescriva  che  S.   M.  è  rimasta  intesa   ma    prima  di 


—  107  — 

risolvere  vuole  essere  informata  se  oltre  le  cennate  due 
compagnie  di  Istrioni  ve  ne  siano  altre  in  questa  Capitale, 
il  costume,  se  donne  vi  sieno,  quali  commedie  rappresen- 
tano, se  formino  baracche.  » 

E  Garofano  se  la  cavò  appuntino.  Ad  una  delle  do- 
mande rispose  che  «  nel  dismesso  Teatrino  del  Pepe  c'era 
una  certa  Domenica  Baiai  che  aveva  avuto  qualche  attacco 
col  duca  di  Diana  e  poi  si  era  disciolta.  »  Tutti  gli  altri 
comici  erano  «  impiegati  col  Pepe  da  parecchio  tempo,  per 
lo  meno  da  tre  anni  i  meno,  toltone  una  viniziana  che  si 
prese  con  la  Compagnia  sotto  S.  Giacomo.  »  Dopo  di  che 
fu  permesso  a  tutte  e  due  le  compagnie  «  lo  agire  fuori 
Porta  Capuana  » ,  ma,  ad  un  tempo,  il  re  ordinò  —  o  me- 
glio il  Tanucci  ordinò  pel  re  —  che  non  vi  fossero  in 
Napoli  se  non   due  sole  compagnie  d'istrioni. 

Or,  terminate  le  recite  a  Porta  Capuana  e  smantellato 
il  San  Carlino,  Pepe,  nel  1 760,  ritorna  alla  carica,  chie- 
dendo che  non  gli  si  proibisca,  per  carità,  la  costruzione 
d'un  altro  teatro  in  Piazza  del  Castello.  Ma  il  re  non  ne 
vuol  sapere  e  non  permette  nulla,  anche  per  la  gran  copia 
delle  suppliche  che  gli  spedivano  gli  abitanti  e  i  proprie- 
tari di  alcune  case  di  Piazza  del  Castello,  stanchi  del 
chiasso  che  s'era  fatto  intorno  al  casotto  e  paurosi  d'un 
qualche  incendio  che  da  simili  baracche  si  potesse  attac- 
care a'  loro  stabili.  Tra  siffatte  proteste  erano  pur  quelle 
di  due  sorelle,  le  signore  Anna  e  Maria  Moncada,  spa- 
gnuole,  due  famose  seccatrici,  delle  quali  ritroveremo  i 
nomi  in  appresso,  in  margine  di  novelli  ricorsi  contro  i 
Tomeo. 

Giuseppe  Pepe  s'afferrava,  come  si  dice,  alle  fuliggini.  Non 
potendo  ottenere  un  teatro  in  Piazza   del    Castello,    s'ado- 


—  108  — 

però  per  piantarne  un  altro  in  Piazza  dello  Spirito  Santo, 
e  neppur  in  questo  riesci.  Una  carta  d'Archivio  lo  dice 
morto  nel  1 760  stesso,  mentre,  forse,  egli  pensava  a  qualche 
altro  espediente  per  rimettere  in  onore  la  sua  cara  baracca. 
Un  aiorno  —  e  fu  nel  gennaio  del  1761  —  si  vociferò  come 
tal  Salvatore  Braghetti  s'affaccendasse  per  rimettere  in  piedi 
quel  teatro.  Ma  di  vero  e'  era  questo  soltanto  che  il 
Braghetti  voleva  costruire  un  baraccone  nel  largo  del  Ca- 
stello «  vicino  ai  pioppi  »  per  farvi  recitar  commedie  o 
premeditate  o  all'  impronto  » .  Egli  offeriva  di  pagare  al 
Fondo  dei  lucri  «  1'  annuo  estaglio  di  docati  1 68  » .  Ma 
la  giunta  de'  Teatri  ricordò,  a  proposito  della  domanda 
«  l'occorso  per  lo  Teatro  detto  di  San  Carlino  abolito  come 
oggetto  di  scandalo  »  da  Carlo  III,  e  soggiunse  :  «  Questi 
piccioli  teatri  per  Istrioni  tra  per  la  qualità  degli  attori  e 
delle  attrici  come  per  quella  degli  uditori,  che  sono  per 
lo  più  gente  disapplicata  e  dissoluta,  non  lasciano  di  es- 
sere pericolosi,  perchè  in  essi  all'ombra  del  divertimento 
si  fomentano  dissolutezze  » .  E  però  anche  il  Braghetti  non 
ne  fece  nulla.  Povero  San  Carlino!  Questa  volta  era 
proprio  spacciato  per  davvero  ! 


Po 


CAPITOLO  QUARTO. 


La  «  Cantina  »  —Commedia  dell'arte—  Ciangola  —  Don  Fa- 
stidio —  Francesco  Cerlone  —  Agonia  della  «  Cantina  ». 


Da  UNA  FINESTRETTA  della  sua  casa,  in  Piazza  del 
Castello,  Tommaso  Torneo  aveva  assistito  alle  ultime  de- 
molizioni del  minaccioso  baraccone  del  San  Carlino,  e 
ora  soltanto,  finalmente,  si  vedeva  liberato  da'  suoi  temi- 
bilissimi competitori.  Egli  avea,  da  prima,  durante  il  breve 
regno  del  di  Fiore  alla  baracca  che  poi  fu  smessa,  finto  di 
considerare  con  disprezzo  quella  compagnia  che  osava  di  ga- 
reggiare con  la  sua,  ma,  pur  addimostrando  di  non  temerla, 
l'ex  ciaravolo  la  sorvegliava  di  sottocchi.  In  sulle  prime  lasciò 
fare  ;  poi,  quando  si  vide  impegnato  in  una  battaglia  di  concor- 
renza che  abbisognava  di  molti  spedienti  per  non  esser  per- 
duta addirittura  da  parte  sua,  ne  usò  perfino  in  maniera  scanda- 

-  109    - 


—  110  — 

Iosa.  Di  volta  in  volta  l' impresario  Pepe  era  costretto  a  ricor- 
rere all'  Udienza  dell'  Esercito  :  il  sig.  Tomeo  gli  screditava 
il  teatro,  gliene  portava  via,  con  infinite  lusinghe,  i  frequen- 
tatori e  ne  «  seduceva  »  i  comici,  attirandoli,  con  più  lar- 
ghe promesse  di  compenso,  alle  profondità  della  Cantina. 
Appunto,  poco  prima  della  demolizione  del  San  Carlino, 
una  veneziana,  la  stella  della  compagnia  del  Pepe,  lo 
aveva  abbandonato  per  passare  in  quella  di  don  Michele. 
Ogni  sera,  all'  ora  in  cui  s'  aprivano  i  teatri,  i  comici  del 
Tomeo  si  sparpagliavano  in  Piazza  del  Castello  e  adoc- 
chiati gì'  indecisi  che  interrogavano,  col  naso  all'  aria,  i  ma- 
nifesti del .  San  Carlino,  perfino  s'avvicinavano  ad  essi  per 
loro  additare,  invece,  la  vicina  Cantina,  ove,  dicevano,  lo 
spettacolo  era  svariato  e  morale  più  assai  che  non  promet- 
tessero i  volgari  cartelli  d'un  casotto  plebeo,  che  accoglieva 
sbarazzini  e  facinorosi  e  non  offriva  se  non  commedie  rim- 
pinzate di  turpitudini. 

Liberata  che  fu  la  piazza  dalla  pericolosa  baracca,  don  Mi- 
chele si  rimesse  in  carreggiata  e  i  pochi  anni  che  gli  re- 
starono da  campare  spese  nella  cura  più  amorosa  e  più  as- 
sidua del  suo  Fosso,  come,  volgarmente,  era  chiamato  il 
teatrino  sotto  la  chiesa  di  S.  Giacomo. 


II. 


Siamo  nel  1 765,  Michele  Tomeo  è  morto  da  tre  anni, 
ne'  primi  mesi  del  1762  (1).  Ha  lasciato  due  figli,  avuti 
da  Emmanuela  Serio,  che  si  chiamano   Tommaso  e  Carlo. 


(I)   Archivio  di  Stato,   Documenti  teatrali,    fascio  XIII. 


—  Hi- 
ll primo,  che  ha  ereditato  dal  nonno  il  soprannome  di  mo- 
retto,  è  scapolo;  1'  altro,  che  ne  porta  il  nome,  ha  sposato, 
mentre  ancora  era  in  vita  il  padre,  una  Elisabetta  d'  Orso. 

Michele  Tomeo,  con  i  provventi  della  Cantina,  avea  com- 
prato «  a  quandocumque  dalli  signori  Avallone  per  docati 
250  uno  basso  e  camera  con  sua  portella  sola,  alla  Peda- 
mentina di  Santa  Lucia  al  Monte»  e  «fabbricate  e  incor- 
porate con  quelle  delli  signori  Brancia,  in  Piazza  del  Ca- 
stello, due  camere»  che  rendevano  26  ducati  l'anno  (1). 
La  rendita  degl'  immobili  era,  dunque,  aumentata,  e  ai  fi- 
gliuoli di  don  Michele,  che  ereditavano  da  lui  quelli  e 
l' impresa  della  Cantina,  non  toccava  di  metter  altro  da 
parte  se  non  l'assegno  di  dodici  ducati  al  mese  che  don 
Michele  aveva  lasciato  alla  moglie,  Emmanuela  Serio. 

Carlo  Tomeo  juniore  muore  due  o  tre  anni  dopo  che  è 
morto  suo  padre.  Lascia  la  vedova  Elisabetta  d' Orso  e 
parecchi  figliuoli,  de'  quali  il  primogenito  si  chiama  Salva- 
tore. Rimangono  impresari  della  Cantina  Tommaso  il  mo- 
retto e  la  d'  Orso. 

In  questo  anno  (  1 765)  capita  a  Napoli  un  inglese  che 
viaggia  V  Italia  per  divertimento,  il  signor  Samuele  Sharp. 
Appena  arrivato  prende  con  sé  un  cicerone  e  si  fa  condurre 
un  po'  da  per  tutto,  pigliando  nota  per  via,  in  un  taccuino, 
de'  fatti  e  de'  costumi  partenopei  che  più  lo  meravigliano 
e  che  poi  sono  confortati  dalle  osservazioni  sue  in  un  suo 
libro  (2)  che  vede,  poco  dopo,  la  luce,  in  Inghilterra  (3).  Una 


(1)  Testamento  di  Michele  Tomeo. 

(2)  Letters  frorn  Ilaly,    describing  the   Customs  and  Manners  of  that  coun- 
try, in  the  years    1765  and   1766,  by  SAMUEL  SHARP  esq.  London. 

(3)  Vedi  SAMUELE  SHARP  :   Lettere  dall'  Italia.    Traduzione    di  C.  e 
G.   Hulton:   prefazione  di  S.   Di  Giacomo.   Lanciano,  R.  Carabba  ed.  1911. 


—  112  — 

copia  di  questo  libro,  con  la  dedica  autografa  dello  Sharp 
a  Francesco  Carafa,  duca  di  Forlì,  è  alla  nostra  Società  di 
Storia  Patria.  V'è  una  descrizione  della  Cantina  e  il  docu- 
mento sincrono  è  interessantissimo.  Eccolo  senz'altro. 

III. 

«  Il  teatro  è  poco  più  grande  d'  una  cantina,  anzi  è  pro- 
prio conosciuto,  e  molto,  sotto  questo  nome,  poi  che  per 
abito  così  è  chiamato  :  La  Cantina.  Scendete,  dal  livello 
della  strada,  dieci  scalini  e  siete  in  platea.  Questa  può  con- 
tenere da  settanta  a  ottanta  persone  quando  è  affollata,  e 
ciascuna  paga  un  carlino  d'  entrata  (4  pence  and  half).  Corre 
attorno  alla  platea  una  galleria  divisa  in  dieci  o  dodici  pal- 
chi, ognuno  capace  di  quattro  persone,  che  vi  possono  star 
comodamente.  Questi  palchi  separati  l'uno  dall'altro  da  una 
parete  di  legno,  si  fittano  per  otto  carlini  1'  uno.  E  facile 
immaginare,  dopo  questo,  quali  possano  essere  le  scene,  il 
vestiario,  gli  attori  e  le  decorazioni.  Quel  che  non  s'imma- 
gina alla  prima  è  la  volgarità  del  publico  composto,  per  la 
maggior  parte,  d'uomini  da'  sudici  berretti  e  in  maniche  di 
camicia.  Essi  occupano  la  platea,  da  che  i  palchetti,  per  lo 
più,  sono  vuoti. 

Tutti  i  signori  e  le  signore  italiani  sono  indelicatissimi  : 
hanno  il  mal  vezzo  di  sputare  da  per  tutto  senza  mai  ser- 
virsi d'una  pezzuola  o  cercare  qualche  cantuccio  per  quella 
bisogna.  Ma  nella  Cantina  la  loro  scortesia  è  offensiva  al- 
l'ultimo segno,  non  pure  perchè  sputano  in  giro  attorno  ad 
essi,  quanto  perchè  lo  fanno  anche  su  qualsiasi  parte  del 
muro,  per  modo  eh'  è  impossibile  non  insudiciarsi  gli  abiti 
nel  passare.  Ed  io  credo   di  non  ingannarmi   attribuendo  a 


~>^ 


—  (1812) 


—  113  — 

questo  curioso  vizio  di  secrezione  la  estrema  magrezza  de' 
napoletani. 

L' attuale  condizione  del  teatro,  a  Napoli,  non  si  è  di- 
scostata da  quella  della  infanzia  di  esso,  quando,  cioè,  non 
era  ancora  diventato  civile,  quando  il  publico  n'  era  volgare 
e  plebeo  :  la  principale  attrattiva  par  che  sia  costituita  da' 
polisensi  e  dagli  spropositi,  dallo  scambio  d'  una  parola  per 
un'  altra,  e  pur  da  certi  atti  indecenti,  come  lo  sputarsi  o 
soffiarsi  il  naso  1'  uno  addosso  all'  altro,  proprio  come  ve- 
diamo fare  in  Inghilterra  da'  Merry  jìndrews  (gli  allegri 
Andrea)  su'  banchi  de'  ciarlatani,  e  d'avanti  alle  barracche 
della  fiera  di  S.   Bartolomeo. 

Ma  quel  che  mi  pare  essenziale  pel  divertimento  del  pu- 
blico napoletano  son  due  o  tre  caratteri,  come  il  Pulcinella 
e  il  servo  del  ^Dottore  (  1  )  i  quali  parlano  il  dialetto  del  basso 


(  1  )  In  una  sua  illustrazione  del  passo  dello  Sharp  che  si  riferisce  agli 
attori  della  Cantina  il  Croce  pone,  accanto  alle  costui  parole  il  servo  del 
Dottore,  un  interrogativo,  come  per  dire  che  un  somigliante  personaggio  non 
gli  è  accaduto  mai  d' incontrare  tra  gli  attori  di  quel  tempo  e  di  quelle 
commedie.  Gli  è  sfuggito  non  certo  un  documento  contenuto  in  que'  fasci 
teatrali  che  tanti  anni  fa  interrogammo  insieme  nelP  Archivio  di  Stato,  ma 
una  peculiarità  di  esso,  che  ora  m'aiuta  a  identificare  quel  tal  servo  che  lo 
Sharp  addita. 

Nel  1763  la  compagnia  della  Cantina  era  guidata,  come  vediamo,  dall'im- 
presario Tommaso  Tomeo  detto  il  moretto,  e  ne  facevano  parte  il  Dottor 
Graziano,  tra  gli  altri,  e  i  due  Zanni,  (ossia  servi  ridicoli)  Pulcinella  e 
Cornelio.  Recitava  da  Dottore  tal  Pietrantonio  Gabrielli,  il  Pulcinella  era 
Domenicantonio  di  Fiore,  e  Coviello  tal  Ferdinando  di  Diego.  Lo  Sharp  in- 
tende, se  non  mi  sbaglio,  parlare  del  di  Diego,  cioè  di  Coviello,  primo 
Zanni  e  «  servo  astuto,  pronto,  faceto,  arguto  e  mezzano  d'amore  ».  (Vedi 
ANDREA  FERRUCCI  —  Dell'arte  rappresentativa  premeditata  e  all'improv- 
viso. In  Napoli,  1 699,  nella  nuova  stampa  di  Michele  Luigi  Mutio). 
DI  GIACOMO.  -  5.  Carlino.  8 


—  114  — 

popolo,  inintelligibile  per  un  forestiero,  per  quanto  costui, 
possa  ben  intendere  il  puro  italiano.  E  proprio  per  questi 
caratteri  che  il  pubblico  si  diverte  :  non  tanto  esso  ride 
della  oscenità  del  poeta  quanto  di  certe  disgustevoli  tro- 
vate degli  attori,  lor  suggerite  dallo  spirito  e  dall'  umori- 
smo estemporaneo.  L'  entusiasmo  per  questa  specie  di  pia- 
cevolezze è  tale  che  anche  ne'  drammi  è  necessaria  V  in- 
troduzione di  uno  o  due  personaggi  che  parlino  il  dialetto. 
Or  io  domando  :  Se  fosse,  senza  costoro,  rappresentata  un'o- 
pera seria  ?  La  plebaglia  non  frequenterebbe  il  teatro. 

Pur  considerando  sotto  un  aspetto  sfavorevole  gli  attori 
io  credo,  in  verità,  che  gì'  italiani  abbiano  sortita  dalla  na- 
tura una  grande  disposizione  per  la  commedia.  Se  il  pu- 
blico  di  questi  teatri  fosse  più  raffinato  e  avesse  gusto  mag- 
giore, alcuni  di  questi  attori  medesimi  potrebbero  svolgere 
un  grande  talento.  Ma  oggi  essi,  noncuranti  della  critica, 
non  studiano  il  più  elementare  decoro,  anzi  son  così  poco 
vogliosi  di  mandare  a  mente  la  lor  parte  da  abbisognare  del 
suggerimento  d'  ogni  parola,  come  succede  coi  cantanti  ne' 
recitativi  d'  un'  opera. 

Tra  i  pochi  attori  di  merito  della  Cantina  è  uno  che 
rappresenta  sempre  la  parte  di  T)on  Fastidio.  Costui  è  tanto 
spontaneo  e  naturale  in  tutto  quel  che  dice  o  fa  sul  palco- 
scenico da  meritar  di  calcare,  correggendosi  un  poco,  le  scene 
de'  teatri  di  Londra  o  di  Parigi,  ove  farebbe  splendida  figura. 

Gioverebbe  moltissimo  ai  costumi  e  alla  cultura  di  que- 
sto popolo  se  uomini  altolocati  ne  proteggessero  il  teatro.  Non 
dubito  che  un  Mecenate  d'alta  levatura  possa  anche  ora,  come 
altra  volta  è  seguito  sotto  lo  stesso  cielo,  ravvivare  lo  spi- 
rito poetico.  E  strano  come  ciò  non  avvenga,  mentre  è  in 
tutti  una  certa  propensione  per  la  commedia  ;  durante  il  car- 


—  115  — 

nevale  vi  sono  tre  o  quattro  spettacoli  rappresentati,  per  pa- 
recchie sere  di  seguito,  da  privati  o  ne'  conventi.  Simili 
rappresentazioni  sono  accolte  da  grande  plauso.  Tra  1*  altre 
una,  celebre,  che  danno  i  monaci  Celestini.  Essi  rappre- 
sentano con  molto  umorismo  e  con  grande  coscienza  d'arte, 
ne  si  fanno  scrupolo  di  travestirsi  da  femmine  e  fino  di 
rappresentare  caratteri  lascivi. 

Quale  stranezza  !  La  stessa  Madre  Chiesa  tollera  che  i 
suoi  figli  offrano  a  Napoli  somiglianti  spettacoli  e  nega  a' 
poveri  commedianti  francesi  una  cristiana  sepoltura,  sol  perchè 
hanno  recitato  a  Parigi  !  » 

IV. 

Tale  quel  fosso  umido  e  sudicio  ove  la  commedia  del- 
l' arte  raccoglieva  gì'  interpreti  più  reputati  e  la  concor- 
renza d'  un  publico  che  lo  Sharp  vorrebbe  far  credere  com- 
posto di  sola  gente  plebea  ma  che,  invece,  scendeva,  pur 
assai  spesso,  alla  Cantina  da  carrozze  baronali,  da  stemmate 
e  dorate  portantine  alle  quali  s'  avvicinavano,  per  baciar  la 
mano  della  bella  dama  che  faceva  capolino  dallo  sportello, 
gli  eleganti  inguantati  e  profumati  a  cui  la  signora  aveva 
affidato  il  dolcissimo  incarico...  di  comprarle  una  chiave  di 
palco.  Certo  i  frequentatori  assidui  di  quel  teatrino  inferiore 
non  erano,  precisamente,  gli  aristocratici  ;  ma  è  pur  risaputo 
che  sempre  a'  signori  napoletani  è  andata  a  sangue  la  rap- 
presentazione popolare,  geniale  manifestazione  del  nostro  ca- 
rattere. Lo  Sharp  s' inganna,  dunque,  se  crede  che  ai  su- 
dici berretti  di  cui  parla  non  si  sieno  frammischiati  tricorni 
piumati,  da'  risvolti  di  raso  o  di  velluto.  1  piccoli  teatri  di 
quel  tempo    somigliano  in  tutto  a  quelli    de'  giorni  nostri  : 


—  116  — 

ZNjna  la  lombarda,  Marianna  Monti,  la  fiorentina  Cento- 
lesi,  la  Viscioletta  e  la  servetta  Raganiello  valevano  bene 
le  chanteuses  dagli  esotici  nomi,  che  oggi,  esecutrici  di  can- 
zonette incanaglite  dalle  ultime  forme  erotiche  della  moder- 
nità, sono  le  stesse  fiamme  abbaglianti  che  bruciano  gli  stessi 
farfalloni.  Or  se  codesti  impenitenti  lepidotteri  d'oltre  un  secolo 
fa  si  chiamavano,  per  citarne  qualcuno,  don  Pasquale  Pinto  dei 
Principi  di  Ischitella,  il  marchesino  Casalnuovo  Pignatelli, 
il  marchese  di  Giuliano  e  don  Gaetano  Prota  (1),  i  quali, 
nel  1748,  si  bisticciarono  nella  baracca  de'  commedianti 
alla  Fiera,  e  se  anche  si  vorrà  tener  conto  d'  altre  carte 
dell'  Udienza  dell'  Esercito  le  quali  fanno  il  nome  di  don 
Inigo  de  Guevara,  tirannello,  con  alcuni  suoi  nobili  compa- 
gni, al  teatro  della  Pace,  ove  s'accapigliavano  varii  partiti 
di  signorotti  prò  o  contra  la  Carasale  (2),  nipote  del  primo 
impresario  del  San  Carlo,  si  vedrà  bene  di  che  fiorito  ele- 
mento superiore  si  onoravano  anche  i  piccoli  teatri,  nel  set- 
tecento. Don  Michele  Tomeo  lasciò  dunque  a'  suoi  figliuoli 
il  fosso  in  ottime  condizioni  ;  era  un  posto,  come  si  dice 
a  Napoli,  accorzato  e  un  impresario  che  avesse  ben  saputo 
maneggiarvisi  ne  avrebbe  cavato  tanti  buoni  ducati.  La 
Cantina  rifioriva  da  quando  la  compagnia  del  San  Carlino 
aveva  dovuto  abbandonare  Piazza  del  Castello  ;  vi  si  ap- 
paltavano —  parola  del  tempo  —  seggiole  in  platea,  per 
tutto  il  carnevale,  fin  tre  o  quattro  mesi  avanti  le  rappre- 
sentazioni, e  alla   concorrenza  borghese    s'andava  accompa- 


(1)  Archivio  di  Stato,  Documenti   Teatrali,  fascio  IV. 

(2)  Chiamata  la  Passaglione  (Archivio  di  Stato,   fascio  V).  Recitava  parti 

di   amorosa. 


—  117  — 

gnando,  a  poco  a  poco,  pur  quella  de'  militari.  Nel  1 759 
1'  alfiere  del  reggimento  Real  Macedone  don  Andrea  Sar- 
goni,  giusto  per  aver  trovato  occupate,  dal  cuoco  e  dal  ca- 
meriere di  don  Agostino  Ratto  segretario  del  ministro  della 
repubblica  di  Genova,  due  delle  quattro  sedie  appaltate, 
prende  a  legnate  il  segretario  in  piena  Cantina,  mentre  le 
signore  si  svengono  nei  palchetti  e  i  cicisbei  corrono  per 
le   «  boccette  delli  odori  » . 

In  quest'  anno  è  capo  della  compagnia  quel  Francesco 
Trivelli  che  abbiamo  conosciuto  tra'  comici  del  San  Carlino. 
Due  anni  appresso  Michele  Tomeo  ,  in  un  ricorso  al  re, 
dice  :  «  l'Impresario  del  R.  Teatro  di  S.  Carlo  l'ha  conve- 
nuto a  pagare  un  dritto  che  pretende  per  le  commedie  di 
Istrioni  che  fa  rappresentare  nel  casotto  sotto  S.  Giacomo 
degli  Spagnuoli  ,  nella  Giunta  di  detto  Real  Teatro ,  non 
ostante  il  Regio  dispaccio  di  S.  M.  Cattolica  con  cui  si 
prescrisse  all'  Uditore  dell'  Esercito  don  Nicola  Garofano 
che  non  si  permettesse  tale  esazione  e  non  ostante  che  in 
virtù  dell' istrumento  istesso  dell'  appalto  non  possa  preten- 
derlo. Supplica  pertanto  ordinarsi  alla  Giunta  che  non  sia  mo- 
lestato il  ricorrente  per  sì  indoveroso  pagamento  ;  e  preten- 
dendo 1'  impresario  cosa  in  contrario  si  accordi  il  termine 
prescritto  dalle  leggi  in  simili  oscure  illiquidissime  preten- 
sioni ». 

Era  allora  impresario  del  San  Carlo  quel  Gaetano  Gros- 
satesta  in  casa  del  quale,  a  Milano  ,  Goldoni  lesse  la  sua 
disgraziata  Amalasunta,  che  finì  per  alimentare  il  fuoco  del 
caminetto  all'albergo  ove  l'autore  della  L^candiera  avea  rin- 
casato con  gli  occhi  lagrimosi  e  la  tristezza  in  cuore.  Da  pri- 
ma ballerino,  poi  direttore  e  concertatore  di  balli,  il  Gros- 
satesta  avea  finito  per  pigliar  le  redini   del    Massimo  ;    ora 


—  118  — 

cercava  d'allargare  la  cerchia  dei  suoi  guadagni,  taglieggian- 
do perfino  i  commedianti  della  vicina  Piazza  del  Castello. 
Ma  la  sua  pretensione  che  ,  nel  1 758  ,  re  Carlo  III  avea 
dichiarata  nulla,  non  trovò  migliore  accoglienza  presso  Fer- 
dinando, il  quale  impose  all'ex-piroettista  di  lasciare  in  pace 
il  Tomeo,  che  potette  fin  al  1762  tranquillamente  badare 
alle  sue  cose,  senza  altre  vessazioni. 

Morto  don  Michele  ,  morto  il  suo  secondogenito  Carlo, 
Tommaso  Tomeo  il  moretto  e  la  vedova  del  fratello  di  lui 
si  trovarono  ,  dunque  ,  impresarii  della  Cantina  e  vi  conti- 
nuarono, dal  1762,  a  far  rappresentare  burlette,  aiutandosi 
con  un  repertorio  sbrandellato  e  con  la  commedia  dell'arte. 

V. 

Commedia  dell'arte  :  ecco  un  qualificativo  in  cui  vi  siete 
incontrati  parecchie  volte,  nello  scorrere  queste  pagine.  La 
strana  e  interessante  manifestazione  a  cui  quello  si  riferisce 
va  sempre  più  perdendo,  nell'agonia  del  settecento,  le  sue 
più  spiccate  caratteristiche,  né  più  valgono  a  tenerla  in  piedi 
le  apostrofi  biliose  di  cui  Baretti  fa  bersaglio  Carlo  Gol- 
doni ,  che  le  ha  trionfalmente  dato  il  gambetto.  Noi  non 
sappiamo  quando  ella  precisamente  è  nata;  e  ancor  oggi  non 
possiamo  dire  che  è  morta  in  tutto  la  commedia  dell'arte 
sulle  nostre  scene  popolari.  La  pianta  dette,  in  sullo  scor- 
cio del  decimosesto  secolo ,  frutti  numerosi  i  quali  colse  il 
seicento  e  assaporò  con  gusto.  Quelli  altri  pochi  che  ri- 
manevano su'  rami  e  vi  marcivano,  come  se  ne  staccarono 
furono  schiacciati  dal  decimottavo  secolo  moribondo.  Fino  alla 
prima  metà  del  settecento  ce  n'  era  una  carrettata  a  ogni 
cantone  ;  dallo  scorcio  del  settecento  in  qua  i  comici  di  me- 


—  119  — 

stiere,  a  cui  l'antico  alimento  cominciava  a  repugnare,  ad- 
dirittura 1'  abbandonarono.  Che  cosa  era  questa  Commedia 
dell'  arte  ?  Ed  ove  nacque  ?  «  Pregio  d'Italia  »  dice  Carlo 
Gozzi.  E  quanti  altri  pur  ne  hanno  scritto  son  della  stessa 
opinione  :  la  marca  di  fabbrica  ,  per  avventura  ,  è  nostra. 
All'  altra  domanda  lascio  che  risponda  quell'  Andrea  Per- 
rucci  che,  giusto  a  tempo  in  cui  la  commedia  dell'arte  fio- 
riva, dette  alla  luce  un  manuale  d'arte  rappresentativa.  La 
seconda  parte  di  questo  libro,  che  tutti  i  comici  di  buona 
volontà  conoscevano,  tratta  del  Rappresentare  all'Improviso 
e  il  Perrucci  così  ne  scrive  nel  Proemio  : 

«  Non  conosciuto  dagli  Antichi  ;  ma  invenzione  de'  no- 
stri secoli  è  stato  il  Rappresentare  all'Improviso  le  Comme- 
die ;  non  avendo  io  ritrovato,  chi  di  loro  di  ciò  parola  si 
faccia  ;  anzi  par  ch'alia  bella  Italia  solo  sia  fin'ora  ciò  sor- 
tito di  fare  ;  poiché  un  famoso  comico  Spagnuolo  detto 
Adriano  venuto  con  altri  a  rappresentare  in  Napoli  le  loro 
Comedie  non  potea  capire,  come  si  potesse  fare  una  Co- 
media  col  solo  concerto  di  diverbi  personaggi,  e  disponerìa 
in  meno  d'  un'  ora.  Bellissima  quanto  difficile,  e  pericolosa 
è  l' impresa,  né  vi  si  devono  porre  se  non  persone  idonee 
ed  intendenti,  e  che  sappiano  che  vuol  dire  regola  di  lin- 
gua, figure  Retoriche,  tropi,  e  tutta  l'Arte  Retorica,  avendo 
da  far  all'Improviso  ciò  che  premeditato  ha  il  Poeta.  Quin- 
di benché  la  Premeditata  Rappresentazione  par  che  abbia 
il  primo  luogo  nel  ben  riuscire  ,  esser  stimata  e  prezzata, 
ciò  avviene  perchè  il  Poeta  vi  studia  in  componerla,  e  tutte 
le  cose  vanno  regolate  da  un  solo;  evvi  poi  l'assistenza,  fa- 
tiga  e  sudori  di  tanti  concerti ,  e  prove  che  per  forza  de- 
vono riuscire  e  non  riuscendo  d'ogni  taccia  son  degni  co- 
loro che  dopo  un  lungo  travaglio   portano  fuori  in  vece  di 


—  120  — 

un  perfetto  parto  uno  sproporzionato  embrione  pieno  di  er- 
rori e  difetti. 

Non  così  le  Comedie  all'Improviso,  dove  la  varietà  di 
tanti  personaggi,  tra'  quali  per  forza  v'ha  da  essere  chi  sia 
men  perfetto  e  men'abile,  fa  che  la  irregolarità  ne  nasca  ed 
il  dire  quidquid  in  buccam  venit,  non  può  esser  senza  man- 
camento. Quando  però  da  buoni  Recitanti  vien  fatta  una 
Comedia  all'Improviso,  suole  riuscire  di  maniera  che  punto 
alla  premeditata  non  cede;  e  ben  disse  quell'aurea  penna  : 
tJXCeditatum  et  in  promptu  habere  quot  quisque  modis  dica- 
tur  ,  magnum  ad  perspicuitatis  habet  adiumentum  (1).  Mi 
rido  poi  di  coloro,  che  avvezzi  a  rappresentare  all'Impro- 
viso ch'è  più  difficile,  facile  più  gli  sarà  il  recitare  preme- 
ditato eh'  è  il  meno  ;  anzi  havrà  sempre  l'improvisante  un 
colpo  maestro  ,  che  mancandoli  la  memoria ,  o  succedendo 
qualche  sbaglio  è  abile  a  rimediarvi,  ne  accorgere  l'udienza 
faranne,  quando  colui  che  da  Pappagallo  rappresenta  in  ogni 
mancanza  restarà  di  stucco. 

Il  male  si  è,  che  oggi  ogn'uno  si  stima  abile  per  ingol- 
farsi nella  comica  improvisa,  e  la  più  vile  feccia  della  plebe 
vi  s'impiega  ,  stimandola  cosa  facile  ;  ma  il  non  conoscere 
il  pericolo  nasce  dall  'ignoranza  e  dall'  ambizione  :  Ond'  è, 
che  i  vilissimi  Ciurmatori  e  Salt'in  banco,  che  s'hanno  po- 
sto in  testa  d'  allettare  le  genti  e  trattenerli  con  parole  a 
guisa  di  tanti  Ercoli  Gallici  con  auree  catene,  vogliono  rap- 
presentare nelle  publiche  piazze  comedie  all'Improviso,  stor- 
piando i  soggetti  ,  parlando  allo  sproposito  ,  gestendo  da 
matti  e  quel  che  peggio  facendo  mille  oscenità  e  sporchezze, 


(l)  Cicerone,  Top.,  Lib.  I,  caP.  14. 


—  121  — 

per  poi  cavare  dalle  borse  quel  sordido  guadagno  con  ven- 
derli le  loro  imposture  d'ogli  cotti,  controveleni  da  avvele- 
nare e  rimedii  da  far  venire  quei  mali  che  non  vi  sono.  Son 
costoro  quai  Pittori  ignorantissimi  che  prendendo  a  copiare 
le  tavole  dei  più  insigni  e  celebri  nell'arte  fanno  più  sca- 
rabocchi ,  che  non  danno  pennellate,  con  questa  differenza 
che  i  primi  fanno  da  Apelli  ,  e  Tiziani  ,  e  questi  guasta- 
mestieri da  Agatarchi  e  Zanini  da  Capugnano...». 

VI. 

Commedia  dell'  arte  era  dunque  la  rappresentazione  co- 
mica nella  quale  ciascuno  degli  attori  ,  senza  bisogno  di 
mandare  a  memoria  la  sua  parte,  s'affidava  alla  vivacità  e 
alle  risorse  del  suo  ingegno  perchè  l'azione  seguisse,  fin  al- 
l' ultimo  ,  senza  interruzione  di  sorta ,  sulla  improvvisazione 
continua  non  pur  del  dialogo  quanto  dal  movimento  mate- 
riale e  particolare  della  scena.  Un  esempio  pratico.  Imma- 
ginate —  tanto  per  restarcene  fra'  nostri  commedianti  della 
Cantina  —  don  Michele  Tomeo  che  ha  bisogno  di  metter 
subito  in  iscena  una  nuova  burletta.  A  rappresentazione  fi- 
nita, mentre,  a  poco  a  poco  la  Cantina  rivomita  sulla  Piazza 
del  Castello  il  suo  publico  romoroso  che  il  buio  della  notte 
ringoia,  l' impresario  passeggia  e  fuma  d'avanti  al  teatrino, 
aspettando,  le  mani  sul  dosso,  i  suoi  comici.  Eccoli,  a  uno 
a  uno,  spuntare  da  quelle  profondità,  quale  intabarrato  fin 
agli  occhi  per  paura  dell'umido,  quale  con  sotto  il  braccio 
un  fagotto  de'  suoi  travestimenti  ,  questi  ancora  impiastric- 
ciato in  volto  di  farina  e  di  bistro,  quest'altro  rivolto,  con 
gli  occhi  in  cielo  ,  a  Sirio  che  brilla  e  eh'  egli  saluta  con 
uno  enorme  sbadiglio. 


—  122  — 

Dei  :  buonanotte,  impresario  —  suonano  sottovoce  nella  se- 
mioscurità, tutta  la  comitiva  è  tacita  ;  di  fatti  non  c'è  nulla 
di  più  malinconico  della  tristezza  de'  commedianti  che  hanno, 
a  momenti,  finito  di  recitare.  Poco  prima  ridevano  e  face- 
van  ridere  ;  or  li  assale  la  verità  delle  cose  e  li  fa  pensosi 
appunto  la  bugiarda  opera  recente  per  la  quale  sono  costretti 
a  strappar  del  pane  ringoiando  le  lacrime.  Ed  ecco  un  ge- 
sto del  capocomico  che  arresta  tutta  la  banda  ;  egli  ha,  in 
quello,  parlottato  brevemente  con  l'impresario  e  con  costui 
s'è  pur  inteso.   Or  annunzia  : 

—  Amici,  domani  bisognerà  trovarsi  al  concerto. 
L'annunzio  è  seguito  da  un  mormorio  :  certo  non  è  troppo 

andato  a  sangue  a'  comici  sonnolenti.   Una  voce,  dopo  un 
po'  chiede  : 

—  Tutti  ? 

E  il  capocomico  risponde  : 

—  Tutti.   E  mi  raccomando  !   Buonanotte 

—  Buonanotte. 

Chi  di  qua,  chi  di  là  i  commedianti  si  disperdono  per 
la  vasta  piazza  tutta  nera,  ove,  d'avanti  a  qualche  baracca, 
scoppietta  una  grande  fiammata  che  illumina  ,  in  giro,  un 
gruppo  di  uomini  i  quali  si  scaldano.  E  una  compagnia  di 
acrobati  or  ora  arrivata  :  un  nitrito  parte  dai  pressi  della 
baracca  e  interrompe  il  silenzio.  Don  Michele  Tomeo  chiude 
la  Cantina ,  caccia  le  chiavi  in  saccoccia  ,  riaccende  la 
pipa  e  s'avvia  tranquillamente  alla  sua  casa  vicina. 

Nel  giorno  appresso  ,  quattro  o  cinque  ore  prima  della 
rappresentazione,  i  commedianti  seggono,  in  giro,  sul  breve 
palcoscenico,  aspettando  il  soggettista.  Di  quale  bisogna 
è  incaricato  costui  ?  Perrucci  lo  chiama  Corago  ,  o  Guida, 
o    Maestro  ;  ma  Perrucci  scriveva  sul   cadere  del  seicento, 


—  123  — 

quando  ancora  que'  qualificativi  si  ripetevano.  Il  settecento 
li  comprese  in  un  solo  :  breve,  il  soggettista  era,  a  un  tempo, 
l'autore  e  il  concertatore  della  favola.  E  non  c'era  bisogno 
di  cercarlo  fuor  di  casa  ;  lo  si  trovava  in  compagnia  ,  tra 
i  medesimi  comici.  Un  soggettista  del  tempo  (1746)  è  quel 
Giuseppe  Bisceglia  che  abbiamo  incontrato  nella  compagnia 
filodrammatica  del  Duca  di  Maddaloni  assieme  al  Ci- 
rillo e  al  Lorenzi.  Questo  Bisceglia  nel  1 746  andò  a  re- 
citare al  'Dalle  di  Roma,  ove  l'impresario  Agostino  Valle 
faceva  rappresentare  commedie  d'arte  nel  carnevale.  Bisceglia 
v'è  apocato,  come  dice  il  documento  che  ho  sotto  gli  occhi, 
«  per  portare  li  soggetti  e  fare  il  soggettista  e  per  far  parte 
di  serva  assieme  con  il  buffo  »   (  1  ). 

Dunque  il  soggettista  era,  per  lo  più,  un  comico.  Nella 
compagnia  Tomeo  mettiamo,  per  le  più  corte,  che  fosse  il 
Trivelli.  Egli  arriva  col  suo  scartafaccio  in  saccoccia,  siede 
rimpetto  ai  compagni,  depone  a  terra  il  tricorno,  in  cui  lascia 
cascar  l'enorme  pezzuola,  prende  tabacco,  inforca  gli  oc- 
chiali e,  cavando  di  tasca  un  rotoletto  di  carta,  lo  spiega, 
tossisce,  dà  intorno   un'occhiata  e  principia  a  leggere. 

Nella  Cantina  silenziosa  penetra  la  scialba  luce  del 
giorno,  ma  non  riesce  a  dar  rilievo  alle  cose,  non  toglie 
alla  penombra  immota  il  suo  lieve  mistero.  Un  lume  brilla 
accanto  al  Trivelli  ;  egli,  di  volta  in  volta,  ha  bisogno  di 
chinarsi,  d'avvicinare  a  quel  cero  lo  scartafaccio,  durante 
la  lettura.  Il  circolo  de'  commedianti,  chi  lo  guardi  dall'alto, 
dalla  porta  della  Cantina,  è  uno  strano  areopago  la  cui 
semioscurità    vela    le    immagini    de'    silenziosi   componenti. 


(1)    Archivio  di  Stato,  'Documenti  teatrali,   fascio  VI. 


—  124  — 

La  sola  amorosa  e  in  luce,  da  che,  col  gomito  sul  ginocchio, 
il  mento  nella  breve  manina,  gli  occhi  curiosi  intenti,  ella 
siede  accosto  al  Trivelli.  Il  lume,  di  sopra  lo  sgabelletto 
che  li  separa,  allunga  sul  volto  di  lei,  dolce  e  tranquillo, 
certo  roseo  chiarore  che  lo  va  infiammando,  lieve  lieve,  insino 
alla  fronte  nuda,  ove  un  breve  riccioletto  folleggia.  E,  com'ella 
sorride,  l'umida  fila  bianca  e  lucente  della  sua  dentatura  si 
disvela  tra  le  labbra  incarnate. 

L'ombra  si  stende  attorno  e  cerca  di  seppellire  la  platea, 
d'ingoiare  gli  ordini  de'  palchetti  deserti,  in  un  de'  quali 
s'appisola  il  grosso  gatto  custode.  L'umido  lubrifica  le  pa- 
reti del  breve  corridoio  che,  disotto  ai  palchi,  conduce  al 
posto  dell'orchestrina  ;  un  alito  freddo  e  disgustevole  assale, 
di  volta  in  volta,  il  palcoscenico. 

Su  di  esso  il  Trivelli,  lentamente,  chiaramente,  principia 
a  leggere  : 


VII. 


«   La  commedia    è  :     tartaglia   medico    con    Pulcinella 
finto  prattico  in  Turchia. 
I  personaggi  sono  : 
Tartaglia  T^aganelli,  medico, 
Isabella  sua  moglie  giovane, 
Rosaura  sorella  d' Isabella, 
Fabrizio  Arditi  suo  fratello, 
Fedelindo  Amoretti,  giovane  nobile  milanese, 
Omar  visire, 
Zelmiro  suo  figlio, 
Colombina, 


—  125  — 

Coviello, 

Pulcinella,  servi  di  Tartaglia, 

Guardie  che  non  parlano. 

L'azione  accade  a  Costantinopoli  in  casa  di   Tartaglia. 

Gli  atti  sono  tre. 

E  questo  è  il  soggetto  : 

Stando  Tartaglia  Raganelli  medico  con  sua  giovane  mo- 
glie Isabella,  sua  cognata  Rosaura  e  la  servetta  Colombina 
a  desinare  a  Posillipo  vien  fatto  prigioniero,  con  quelle, 
da  Turchi  che  sbarcano  e  li  portano  a  Costantinopoli.  In 
questa  città,  saputosi  che  Tartaglia  è  provetto  dottore  e 
possiede  copia  di  specifici,  Tartaglia  è  onorato  e  ricco 
diventa  con  suoi  consulti  e  cure.  Dopo  alcun  tempo  giun- 
gono a  Costantinopoli  il  suo  servo  Pulcinella  con  Coviello, 
altro  servo,  e  Fabrizio,  fratello  della  moglie  di  Tartaglia,  i 
quali  pure  sono  stati  presi  da'  Turchi  e  condotti  a  Co- 
stantinopoli. Ma  saputosi  dal  visire  Omar  che  son  dessi 
della  casa  del  famoso  medico  Tartaglia  loro  concedesi  che 
presso  di  lui  rimangano. 

Or  pratticando  in  casa  del  Tartaglia  il  figlio  del  visir, 
che  chiamasi  Zamiro,  di  amor  s'accende  per  la  bella  Ro- 
saura che  di  nulla  accortasi  non  può  di  uguale  amore  cor- 
rispondere Zamiro. 

E  avviene  che  Fedelindo  ,  giovane  milanese  prigione  a 
Costantinopoli,  per  avere  ucciso  i  suoi  custodi  ed  esser 
fuggito,  è  ricercato  a  morte.  Fugge  in  casa  di  Tartaglia  ed 
esso  nascondelo  senza  dirne  parola  a  quelli  di  casa.  In 
questo  Fabrizio,  fratello  d'Isabella,  scopre  Zamiro  ai  piedi 
di  costei,  mentre  Tartaglia  si  è  allontanato  di  casa  per 
preparare  una  fuga  generale  a  Napoli  e  portarvi  anco  Fe- 
delindo. Crede  Fabrizio  che  Zamiro  sia  innamorato   d'Isa- 


—  126  — 

bella  e  lei  che  stia  per  cedere  allo  sconsigliato  amore,  onde 
di  giusta  ira  acceso  disfida  a  duello  Zamiro.  Succedono 
serii  imbrogli  e  ricercasi  intanto  Fedelindo  dal  visire.  Tar- 
taglia è  arrestato,  il  visire  si  porta  con  la  truppa  a  casa 
di  esso  a  sorprendervi  il  Fedelindo  e  nella  camera,  ove 
crede  egli  che  si  nasconda,  il  figliol  suo  Zamiro,  sorpreso, 
ritrova.  Si  spiega  l' equivoco;  gettasi  alle  ginocchia  del 
padre  Zamiro  e  ottiene  perdono  a  Fedelindo,  spiegando 
che  ai  piedi  di  Isabella  trovavasi,  quando  fu  sorpreso,  per 
invogliarla  a  supplicare  d'amore  Rosaura.  Il  visire  perdona, 
ma  vuole  che  tutti  abbandonino  Costantinopoli  e  che  Za- 
miro, dimenticando  Rosaura,  la  quale,  nel  frattempo  si  ri- 
vela di  Fedelindo  amante,  torni  al  suo  palazzo,  ove  sposerà 
la  nipote  del  Sultano.  Pulcinella  sposa  Colombina  e  tutto 
finisce  con  allegra  concordia  e  col  partirsi  tutti  i  napoletani 
dalla  Turchia  per  ritornare  a  Napoli». 


Vili. 


La  lettura  del  soggetto  è  durata  pochi  minuti.  Quando  ha 
finito,  il  Trivelli,  con  lo  scartafaccio  e  le  mani  sulle  ginoc- 
chia, interroga  gli  ascoltatori,  e  volge   uno  sguardo  in  giro. 

Poi  chiede  : 

—  Vi  sono  difficoltà  ? 

Nessuno  risponde.  Non  vi  sono  difficoltà.  Egli  può  con- 
tinuare. Smoccola  il  lume,  riprende  tabacco,  ripesca  la 
grande  pezzuola  net  tricorno  e  vi  trombetta  dentro  due  o 
tre  volte,  soddisfatto.  Quindi,  ricominciando  a  leggere,  passa 
alle  indicazioni  di  quanto,  atto  per  atto,  segue  nella  com- 
media. 


—  127  — 


IX. 


«  PARTE  PRIMA  —  Zamiro  innamorato  di  Rosaura  e 
volerla  rapire,  se  Tartaglia  non  gliela  concede.  Aver  pen- 
sato di  gettarsi  ai  piedi  di  Isabella  e  narrarle  suo  amore. 
Intanto  cercherà  corrompere  servi  di  Tartaglia  per  averli 
da  sua  parte  all'occasione.  Coviello  fuora.  Maravigliasi  ve- 
dere Zamiro  ad  ora  insolita  in  casa  Tartaglia  e  gli  dice 
che  Tartaglia  è  uscito  per  cose  sue.  Zamiro  che  l'aspet- 
terà. Coviello  fa  lazzi  dicendo  occorrergli  panno  per  pa- 
strano stando  per  arrivare  inverno.  Zamiro  gli  dà  monete 
e  volgelo  dalla  sua  parte  spiegandogli  amore  suo  per  Ro- 
saura. Coviello  promette  aiutarlo  ed  entrasene  con  Zamiro. 
Pulcinella,  suoi  lazzi  da  dentro,  poi  fuora.  Dice  tutto  an- 
dargli male  e  chi  fa  bene  meritare  essere  ucciso.  Narra 
aver  fatto  prima  visita  ad  ammalato  sordo  e  avergli  detto 
che  per  guarire  bisognava  crepargli  tutti  e  due  gli  occhi. 
Aver  avute  bastonate.  In  questo  entra  un  malato  che  chiede 
di  Tartaglia  medico.  'Pulcinella  dice  che  è  lui.  Malato 
spiegargli  malattia  che  è  palpitazione  di  cuore,  continui 
abbagliamenti  di  vista,  febbre  lenta,  stomaco  ribelle,  prin- 
cipio d'asma  e  altro  a  piacere.  Pulcinella  gli  scrive  ricetta 
lunga  a  piacere  dell'attore,  con  molti  spropositi  e  latino 
spropositato  ed  entrasene.  Tartaglia  arriva  con  Fedelindo 
per  concertare  fuga  e  Fedelindo  dice  aver  saputo  che  lo 
cercano.  Tartaglia  bisogna  partir  subito.  Aver  trovato  nave 
che  li  condurrà  a  Napoli.  Entrasene  con  Fedelindo.  Co- 
lombina e  sua  scena  con  Coviello.  Entra  ^Pulcinella  e  sua 
scena  di  gelosia  con  Colombina  e^baruffa^con  Coviello  che 


—  128  — 

gli  dà  bastonate.  Entrasene  Coviello  con  Colombina  ;  lazzi 
di  Pulcinella  che  credesi  vincitore  di  Coviello  e  averlo 
bastonato,  con  chiusetta  :  Vincasi  per  fortuna  o  per  inge- 
gno, sempre  di  lode  il  vincitor  fu  degno.  E  qui  finisce  il 
primo  atto  » . 

X. 

Trivelli  è  già  un  po'  stanco,  ma  la  lettura  dello  scenario 
non  però  s'arresta.  Il  moto  scenico  degli  altri  due  atti  è 
pur  sommariamente  descritto  con  quella  medesima  forma, 
che  oggi  si  potrebbe  chiamar  telegrafica,  ma  che  allora 
chissà  di  quale  conciso  attributo  si  rivestiva.  All'ultimo,  mentre 
i  commedianti  si  distribuiscono  le  loro  entrate  in  iscena,  che 
sono  accennate  su  tanti  altri  brani  di  carta,  e  fra  loro  già 
principiano  ad  accordarsi,  il  buttafuori  esamina  la  nota  del 
vestiario,  così  concepita  : 

«  Ci   vogliono  : 

Abiti  due  sfarzosi  alla  Turca. 

Sciable  turche  e  turbanti. 

Valigie  per  Tartaglia. 

Lance  per  soldati  turchi  ed  altro  occorrente. 

Bastone  per  bastonare. 

Una  borsa  con  scudi. 

Finta  lettera. 

Occorrente  da  scrivere. 

Tabacchiera. 

Due  ventagli. 

Spade  all'italiana  per  Fedelindo  e  Fabrizio. 


r?ns2Jttns^^~^r2ittiuistt 


GIACOMO  DAVID. 

WDORO  ». 


—  129  — 

Boccette  di  odori  per  li  svenimenti. 
Chitarra  per  canzonetta  di   Colombina. 
Una  lanterna». 

XI. 


Ancora  per  poco  i  commedianti  rimangono  sul  palco- 
scenico della  Cantina.  Ma  ora  si  sono  levati,  ed  eccoli  tutti 
peripateticamente  impegnati  nella  pruova  sommaria  delle 
loro  parti.  Guardate  lì,  in  fondo  :  quei  due  che  fingono  di 
venire  alle  mani  sono  Coviello  e  Pulcinella  ;  quest'altro  che 
s'è  buttato  ginocchioni  d'avanti  alla  biondina  che  poco  fa 
stava  a  sentire  con  tanta  attenzione  il  Trivelli,  è  il  primo 
amoroso,  nella  commedia  Zamiro.  E  quella  che  canticchia 
li,  presso  a  una  quinta,  è  la  servetta  ;  e  questo  giovanotto 
che  s'è  fatto  alla  ribalta  con  la  mano  sinistra  spiegata  sul 
cuore  e  la  destra  stesa  a  spettatori  imaginarii  ,  questi 
ch'esclama  :  «  O  cielo,  o  stelle,  più  della  prigionia  mi  strugge 
amore  !  »  —  questi  è  il  secondo  amoroso,  Fedelindo.  Di  tanto 
in  tanto  que'  personaggi  sparsi  su  per  la  scena  si  raggrup- 
pano :  egli  è  che  un  momento  di  pieno,  un  momento  in  cui 
l'azione  ha  bisogno  dell'intervento  di  tutti  gli  attori,  li  rac- 
coglie nel  concerto.  E  questo,  che  è  principiato  sottovoce, 
a  mano  a  mano  si  scalda  e  sale,  e  l'intonazione  vocale,  in 
un  mirabile  componimento  di  passioni,  vibra  come  un  sol 
grido.  Un  romor  solo,  al  finale  del  secondo  atto,  con  tutti 
in  iscena,  è  lo  scoppio  dell'ira,  del  dolore,  della  sorpresa, 
della  risata  e  del  pianto.  Trivelli  esclama  :  Smorzate  !... 
Più  piano  !...  Salite  !...  Smorzate  !...  A  meraviglia  ! 

E  il  gatto  si  sveglia  nel  suo  palchetto,  salta  sul  para- 
Di  GIACOMO.  -  S.  Carlino.  9 


—  130  — 

petto,  vi  si  accoccola  e  vi  rimane   tranquillamente   a   guar- 
dare in  palcoscenico. 

Il  terzo  atto  è  fatica  di  poco  conto  ;  buona  parte  d'esso 
è  affidata  agli  Zanni.  E  notte  ;  cadunt  altis  de  montibus 
umbrae  e  una  scena  di  notte,  nelle  quali  —  come  dice  il 
Perrucci  —  «  i  napolitani  eccellono,  andando  tentoni,  urtan- 
dosi e  facendo  smorfie  »  dà  il  modo  al  ^Pulcinella  e  al 
Coviello  di  cavar  fuori  tutte  le  loro  buffonerie,  onde  perfino 
gli  stessi  compagni  ridono  saporitamente.  E  in  meno  d'un'ora 
la  commedia  è  concertata.  Non  v'è  bisogno  d'altro  ;  andrà 
in  iscena  la  sera  appresso.  Alla  dimane  i  comici  troveranno, 
attaccato  a  una  quinta,  il  soggetto  :  un  gran  foglio  di  carta 
che  rinfrescherà  loro  la  memoria. 


XII. 


Ora  chi  e  mai  questa  brunetta  che  è  rimasta  sul  palco- 
scenico quando  già  tutti  i  commedianti  se  ne  sono  andati 
a  pranzo  ?  E  una  novizia  che  debutterà  fra  poche  sere.  Ha 
una  voce  d'usignuolo.  Adesso  Tomeo  le  fa  insegnare  il 
ballo,  ogni  giorno,  dopo  il  concerto.  Il  violino  d'orchestra 
sospira  un  menuetto  e  la  cantarina,  impacciata  e  irresoluta, 
fa  i  primi  passi.  E  poi...  poi  ne  farà  degli  altri,  fino  a  tanto 
che...  abbandonerà  Napoli.  Si  chiama  Maddalena  Scaz- 
zocchia  ;  è  stata  scritturata  in  qualità  di  servetta,  ma  l'im- 
presario che  ha  subito  scoperto  in  lei  disposizioni  artistiche 
superiori,  ingegno  pronto  ed  ottima  volontà,  pensa  d'avva- 
lersene magari  pur  come  seconda  donna  buffa  o  giocosa, 
come  si  diceva.  La  Scazzocchia,  napoletana  puro  sangue, 
come  Antonia  Spina  che  ha  mandato  in  visibilio  i  frequen- 


—  131  — 

tatori  del  teatro  della  'Pace,  come  quella  Maddalena  Raga- 
niello  che  era  in  compagnia  del  di  Fiore,  come  Angiola 
Testa,  servetta  in  quella  medesima  compagnia  prima  della 
Raganiello,  tutte  attrici  e  cantarine  delle  quali  è  rimasta  la 
fama,  ne  conquista  tanta,  in  poco  tempo,  da  occupare,  con 
gloria  non  minore,  il  suo  posto  accanto  alle  servette  celebri 
contemporanee. 

Le  quali,  chi  voglia  saperlo,  sono  Angela  Rosa  Grieco, 
Maria  Ludovisi,  Rachele  d'Orta  e  Angela  Terracciani.  La 
prima  recita  al  teatro  della  'Pace,  le  altre  due  al  Fiorentini, 
l'ultima  al  ZNjuovo,  nell'anno  di  grazia,  specie  per  esse, 
1 767.  Ritroveremo  la  Scazzocchia  più  avanti.  Or  è  ancora 
una  novizia  :  e  quel  caro  Trivelli,  sebbene  abbia  già  battuto 
all'usciolino  dei  sessanta,  le  va...  a  rinfrescare  il  soggetto  a 
casa. 


XIII. 


De'  «  rappresentanti  la  comedia  all'Improvviso  »  il  Per- 
rucci  dice  :  «  Devono  presentarsi  non  ignudi  affatto  di  qual- 
che cosa  premeditata.  » 

E  io  m'avvalgo  delle  sue  stesse  parole  perchè  questa 
breve  esposizione  della  commedia  dell'arte  non  manchi  pur 
di  qualche  norma  particolare  ch'egli  ne  dette. 

«  Esempi  di  concetti  da  rappresentare  per  gli  Innamorati. 

Concetto  cYyJmor  corrisposto  :  «  Corri  tutto  negli  occhi 
miei,  mio  cuore,  per  beatificarti  della  vista  della  tua  cara 
e  s'egli  è  vero  che  più  vivi  nell'oggetto  amato   che    in   te, 


—  132  — 

anima  mia  gioisci,  rallegrati  e  brilla  scorgendo  chi  ti  dà  e 
moto  e   vita  !  » 

Concetto  di  'Priego  :  «  E  da  chi  avesti  il  latte,  giacche 
sei  così  barbara  ?  Forse  come  Paride  t'allattò  un'orsa  mentre 
crudele  t'esperimento,  o  come  Ciro  ti  die  le  poppe  una 
cagna  mentre  sempre  arrabbiata  meco  ti  mostri  ;  o  qual 
Clorinda  suggesti  le  mamme  di  Tigre  Ircana  se  non  posso 
con  le  lusinghe  domesticarti  ?  » 

Concetto  di  'Partenza  :  «  Parto,  o  bella,  ma  con  qual 
cuore  lo  sa  solo  il  Dio  Cupido,  poiché  se  si  svelle  la 
pianta  dal  natio  terreno  cadono  i  fiori  ,  illanguidiscon  le 
frondi  ed  arido  rimane.  Così  il  mio  cuore  svelto  da  quel 
seno  da  cui  riceve  l'amoroso  alimento  e  la  vita  perde  i 
fiori  delle  gioie,    le  frondi  della  speranza  ed  arido  diviene  !  » 

A  questi  concetti,  raccomanda  il  Perucci,  si  deve  rispon- 
dere a  proposito.  Così,  per  esempio,  se  qualcuno  vi  dice  : 
L 'amicizia  è  un  albero  che  produce  i  frutti  d'una  amabile 
gratitudine,  e  voi  rispondete  :  E  se  è  albero  sarà  di  alloro 
che  vanta  per  pregio  esser  simbolo  dell'Immortalità,  giacché 
per  fredda  stagione  foglia  non  perde,  così  l'amicizia  per  va- 
riar di  fortuna  il  suo  vigore  non  lascia. 

Concetti  principali  di  Innamorate. 

«  Disprezzi  ai  vecchi,  pianto  per  l'Innamorato  :  ricusare 
al  padre  di  casarsi  » . 

Le  prime  uscite  servono  ai  soliloqui  di  Amor  corrisposto, 
d'Amante  tacito  (che  è  poi  quegli  che  parla  più  di  tutti), 
òì Jlmor  disprezzato,  o  sdegnoso  e  così  via.  Con  queste 
prime  uscite  vanno  assieme  le  chiusette  m    versi.    Termina, 


—  133  — 

per  esempio,  la  tiritera  dell'  JJmante  geloso  ed   ecco  che  si 
fa  alla  ribalta  e  declama  la  chiusetta  : 

Per  far  letal  la  piaga  che  ho  nel  seno, 
Gelosia,  vi  mancava  il  tuo  veleno  ! 

E  quest'altra  è  dell' amante  che  parte  : 

Lasciando  l'Alma  il  duol  m'agita  e   ingombra 
Né  porto  di  me  stesso  altro  che  un'ombra  ! 

E  questa  ultima  è   dell'amante    che  —  finalmente  !  —  va 
a  morire...  ammazzato  : 

Quest'aure  che  respiro  odio  ed  aborro, 
Se  perdei  la  mia  vita  a  morte  corro  ! 

pegola  per  li  spropositi. 

Il  Perrucci  la  riassume  in   questa    sentenza  :    Quanti  più 
spropositi  si  diranno  saranno  più  belli. 

Dialogo  laconico  d'invenzione  in  fatto. 

Lui.  O  me   fortunato  ! 

Lei.  O  me  infelice  ! 

Lui.  Ecco  chi  adoro. 

Lei.  Ecco  chi  sdegno. 

Lui.  Mi  appresserò  per  parlarle. 

Lei.  Men  fuggirò  per  non  mirarlo.    (Le  cade  il  fazzoletto). 

Lui.  Fermatevi,  o  bella  ! 


—  134  — 

Lei.  Che  volete  ? 

Lui.  Che  mi  ascoltiate. 

Lei.  Non  ho  tempo,  addio. 

Lui.  Vedete,  almeno... 

Lei.  Che  cosa  ? 

Lui.  Che   amore  mi  fu  pietoso. 

Lei.  In  che  ? 

Lui.  In  farvi  cadere  il  fazzoletto. 

Lei.   Datemelo. 

Lui.  Non  posso. 

Lei.  A  che  vi  serve  ? 

Lui.  A  medicare  le  mie  ferite. 

Lei.  A  che  vale  se  non  vi  è  balsamo  ? 

Lui.  Lo  spererò  dalla  vostra  pietà. 

Lei.  Non  son  medico  per  li  vostri  mali. 

Lui.  E  pure  pace  mi  prometteste  ! 

Lei.  Io  pace  !  V'ingannate  ! 

Lui.  La  bianchezza  di  questo  fazzoletto  l'addita. 

Lei.  Non  lo  vedete  che  cadde? 

Lui.  Io  saprò  sollevarlo. 

Lei.  Vi  fidaste  ad  un   lino. 

Lui.  Sì,  per  vela  di  mia  fortuna. 

Lei.  Ve  la  può  squarciare  un  vento... 

Lui.   Mi  servirà  di  bandiera. 

Lei.  Ma  per  chiamarvi  alla  guerra. 

Lui.  Come,  se  è  bianca  ! 

Lei.  Sarà  di  leva,  perchè  vi  partiate. 

Lei.  Non  posso  se  con  voi  non  fo  lega. 

Lei.  Il  legame  è  troppo  frale. 

Lui.  Ma  è  candido. 

Lei.  Segno  che  restarete  in  bianco. 

Lui.  Servirà  di  fascia  al  mio  Cupido. 

Lei.  Servirà  di  velo  alla  vostra  vergogna. 

Lui.  Crudele  ! 


—  135  — 

Lei.  Ostinato  ! 

Lui.  Più  volubile  d'un  lino  ! 

Lei.  Più  duro  del  ferro  ! 

Lui.  Mi  diede  la  sorte  questo  fazzoletto. 

Lei.  Ve  lo  diede  il  caso. 

Lui.   Per  rasciugar  le  mie  lagrime. 

Lei.  Per  darti  un  segno  di  neve. 

Lui.  Mi  servirà  di  tela. 

Lei.  Mi  servirà  di  carta. 

Lui.  Per  dipingervi  la  tua  crudeltà. 

Lei.  Per  iscrivervi  la  tua  importunità. 

Lui.  Lo  conservarò. 

Lei.  Puoi  brugiarlo. 

Lui.  Perchè  fatto  più  candido... 

Lei.  Perchè  tra  le  sue  ceneri.. 

Lui.  Nel  mio  cor... 

Lei.  Nel  tuo  petto... 

Lui.  Viva  eterna  la  fé  ! 

Lei.  Muoia  il  tuo  affetto  ! 

XIV. 

Fin  quasi  alla  prima  metà  del  settecento  la  commedia  del- 
l'arte è  andata  avanti  con  simili  fior  di  retorica.  Lo  stesso 
Cerlone,  che  le  ha  dato  il  crollo  a  Napoli  sul  teatro  po- 
polare, pur  liberandone  una  buona  volta  le  scene  inferiori, 
non  ha  saputo  resistere  alla  tentazione  di  cacciare  il  naso 
tra  quelle  intabaccature  affatto  seicentesche  per  disseminarne, 
qua  e  là,  con  tanti  starnuti,  le  pagine  allegre  delle  sue 
commedie.  E  appresso  lo  vedremo.  Ma,  direte  voi  :  E  il 
popolo  ci  reggeva  ? 

Come  no  ?  Specie    il    nostro,    naturalmente    avviato    per 


—  136  — 

tutto  che  senta  d'enfatico.  D'altra  parte,  per  fortuna,  l'in- 
tervento di  Pulcinella,  del  Tartaglia,  di  Coviello  interrom- 
peva a  tempo  quel  vieto  lirismo,  ed  era  qui  che  la  com- 
media dell'arte  ritrovava  gl'interpreti  suoi  più  geniali.  Be- 
nedetta la  Provvidenza  che  ha  creato  i  comici  !  Hugo  dice 
ch'essa  ne  ha  fatto  presente  all'umanità  perchè,  finalmente, 
sorrida.  Far  ridere  —  soggiunge       è  far  dimenticare. 

Così  è.  Vuoi  beneficare  ?  Dispensa  l'oblio. 

La  commedia  dell'arte  era  ricca  di  questa  virtù. 


XV. 


Qualche  suo  personaggio.  E  sempre  il  Perrucci  che 
parla  : 

«  GÌ' Innamorati  devono  scegliersi  giovani  e  non  vecchi 
essendo  trito  presso  i  Comici  il  detto  :  Zanni  vecchi  e  In- 
namorati giovani,  poiché  la  vecchiaia  disdice  ad  Amore  e 
chi  è  Innamorato  in  vecchiaia  è  degno  di  riso  e  di  scherno 
e  non  d'applauso. 

«  Si  procurino  anche  di  scegliersi  i  Recitanti  per  gl'In- 
namorati belli ,  perchè  la  bellezza  è  una  gran  carta  di 
raccomandazione  ed  il  vago  aspetto,  come  dice  Lucrezio, 
giova  :  Wjam  facies  multum  valuit  viresque  vigebant. 

«  Siano  decentemente  vestiti  e  galanti. 

«  Studiino  di  sapere  la  lingua  perfetta  Italiana  con  i  vo- 
caboli Toscani  se  non  perfettamente  almeno  i  ricevuti  ed 
a  questo  conferirà  la  lettura  così  dei  buoni  libri  toscani  come 
gli  Onomastici,  Crusca,  <9XCemoria  della  lingua,  del  Perga- 
mino,  Fabrica  del  mondo,  Ricchezze  della  Lingua  ed  altri 
Lessici  toscani  con  la  dotta  'Prosodia  Italiana  del  padre 
Spadafuora. 


—  137  — 

«  La  Innamorata  :  Modestia  nei  gesti.  E  quando  parlano 
con  altri  non  dilungarsi  dalla  porta  di  casa.  Non  gestir 
troppo.  Le  composizioni  siano  meno  erudite  di  quelle  degli 
Innamorati,  poiché  non  tutte  le  donne  sono  Vittoria  Co- 
lonna,  Elena  Cornara,  Costanza  Sforza,  o  Laura  Terracma. 

«  Il  tartaglia  :  Parte  di  vecchio.  La  parte  di  tartaglia 
si  prattica  per  lo  più  in  Napoli  dove  si  figura  un  uomo 
che  stenta  a  proferire  le  parole  con  replicar  le  sillabe  più 
astruse  in  quelle  parole  che  sono  più  ricche  di  consonanti 
e  più  copiose  di  R.  Non  bisogna  esser  troppo  spesso  nel- 
l'intoppare  perchè  genera  tedio  e  nausea  massime  dove  si 
sta  in  sull'intreccio  poiché  ritardarebbe  la  soluzione  della 
favola  e  stancarebbe  la  curiosità. 

«  Qualche  canzone  balbuziente  è  ancora  di   gran  diletto. 

«  Quelli  del  tartaglia  ai  pubblico  sono  gli  stessi  saluti 
degli  altri  due  vecchi  Cola  e  Pasquariello. 

«  Gli  Zanni:  Primo  Zanni  è  Coviello,  servo  astuto, 
pronto,  faceto,  arguto  e  mezzano  d'amore. 

«  Secondo  Zanni  :  è  Pulcinella...  » 

XVI. 

Ci  siamo.  Io  vedo,  a  questo  punto,  non  pochi  de'  miei 
lettori  i  quali  all'udirmi  nominare  il  re  della  commedia  po- 
polare napoletana,  spalancano  tanto  d' occhi,  aspettandosi 
grandi  rivelazioni.  Che  vorreste  mai  ?  Ch'io  m'impegolassi 
nelle  stesse  pulcinellofile  ricerche  le  quali  hanno  logo- 
rata la  vita  degl'innumerevoli  biografi  di  codesto  buffone  ? 
Mai  più  :  come  raccapezzarsi  fra  tanti  profondi  e  varii  pro- 
nunziati? Uno  me  n'è  capitato  di  leggere,  ultimamente,  che, 
nientemeno,  crede  di  affermare  la  provenienza  di  Pulcinella 


—  138  — 

da  lombi  ornitologici  !  Da  parte,  dunque,  tutte  codeste  aber- 
razioni della  ricerca.  Mi  sarebbe  stato  facile  metterle  as- 
sieme per  dimostrare  come  una  certa  vana  e  petulante  ed 
inutile  dottrina  dia  delle  capate  perfìn  nel  ridicolo.  Che 
diamine  !  Tanti  non  sono  stati  i  commentatori  dell'Alighieri 
quanti  storici  ha  avuti  il  così  detto  Acerrano,  che  secondo 
il  Doni  (1),  sulla  fede  dell'amico  suo  Francesco  Cesi,  prin- 
cipe di  Acquasparta,  sarebbe  invece  nativo  dell'ipotetica 
Crifone  ! 

Io,  dunque,  non  m'occuperò  d'intessere  novelle  storie  gre- 
co-latine sul  conto  d'un  personaggio  la  cui  madre  vera,  fra 
tante  che  glie  ne  appiccicano  di  putative,  è  solo  la  Buffo- 
neria. D'altra  parte  l'indole  particolare  di  questa  cronaca 
non  comporterebbe  di  simili  angosciose  e  tabaccose  ed  asma- 
tiche digressioni  ;  ritrovo  il  Pulcinella ,  tra  i  miei  sette- 
centeschi commedianti  del  San  Carlino,  buffone,  sciocco; 
mangione,  pusillanime,  tal  quale  è  stato  sempre  e  sarà  stato 
anche  a  tempo  degli  Oschi  da'  quali  si  vuole  che  discenda  ; 
lo  studio,  a  mano,  a  mano,  in  tutti  i  comici  sancarliniani 
ne'  quali  s'è  incarnato  e  lo  seguo  dal  Di  Fiore  ad  Antonio 
Petito,  in  tutte  le  sue  manifestazioni.   Nient'altro. 

XVII. 

Or  quali  furono  i   ^Pulcinelli  della  Cantina? 

Ricordate  voi  quel  Francesco  Barese  primo  amoroso,  nel 
1 739,  della  compagnia  di  Domenicantonio  di  Fiore  ?  Si  re- 
citava, allora,    in    quell'orto    fuori  Porta    Capuana    detto   il 


(1)   G.   B.   DONI—  Trattati  di  musica,  Firenze,   1763. 


—  139  — 

Giardeniello,  e  Barese  era  giovanissimo.  Nel  1 745  Agostino 
Valle,  padrone  del  teatro  alla  "Dalle,  di  Roma,  perde 
il  famoso  Bartolommeo  Cavallucci,  che  in  quel  teatro  recitava 
da  Pulcinella  nelle  commedie  all'improvviso.  Appura,  fra 
tanto,  come  un  altro  Pulcinella  vada  conquistando,  a  Na- 
poli, gran  nome  ;  gli  dicono  che  è  tal  Francesco  Barese  il 
quale  ha  imparata  l'arte  dal  celebre  di  Fiore,  ancor  vivo, 
ed,  ecco,  l'impresario  romano  lo  scrittura  senz'altro  pel  car- 
nevale del  1746.  Nel  novembre  del  1745  il  Barese  do- 
veva già  trovarsi  a  Roma  ;  il  Valle  s'era  obligato  con 
contratto,  di  «  fornirgli  la  casa  e  il  letto  per  ogni  anno, 
come  parimente  scarpe  e  calzette  e  Abito,  alla  riserva  della 
Mascara  e  coppola  ».  Ma  Barese  gli  fa,  tutt'a  un  tratto, 
sapere,  che  egli  non  può  partire  per  Roma,  poi  che  scrit- 
turato a  Napoli  con  un'altra  compagnia  istrionica  (1).  Quale  ? 
Il  documento  d'Archivio  non  lo  dice.  Ma,  certo,  non  quella 
del  di  Fiore,  che  nel  1  745  —  un  anno  prima,  cioè,  di  pas- 
sare al  Nuovo  —  recitava  al  San  Carlino.  E  al  San  Carlino 
il  Pulcinella  era  il  di  Fiore.  Dunque  il  Barese  nel  1745  era 
alla  Cantina  ;  tutto  fa  supporlo.  Ma  vi  rimase  anche  dopo 
quell'anno  ?  Non  potette  ;  il  Valle  s'era  incaponito  e  lo 
voleva  a  Roma.  Però  scrive  all'Uditor  dell'Esercito,  Duca 
di  Salas,  e  gli  chiede  giustizia,  tanto  più  che  Barese  ha 
già  preso  da  lui  del  danaro.  Il  di  Salas  ordina  al  Barese 
di  recarsi  a  Roma,  e  così  quegli  è  costretto  a  partire  per 
forza.  Dalla  sua  paga  al  Valle  si  sottraggono  cento  ducati 
co*  quali  l' impresario  napoletano  è  compensato  della  per- 
dita d'un  comico  tanto  valoroso  ;  ma  l'Uditor  dell'Esercito 


(1)  archivio  di  Stato,  'Documenti  teatrali,  fascio  VI. 


—  140  — 

che  gli  passa  quel  denaro  glie  lo  consegna  a  condizione 
ch'egli  soccorra  la  moglie  e  i  figliuoli  che  Barese  lascia  a 
Napoli.  Parte  dunque  l'emulo  del  di  Fiore  e  lo  raggiunge 
a  Roma,  pochi  giorni  appresso,  Giuseppe  Bisceglia,  sogget- 
tista, il  quale  è  scritturato  «  per  far  parte  di  serva  »  dallo 
stesso  Valle. 

11  Bartoli  scrive  di  Francesco  Barese  :  «  Fu  questo  un 
grazioso  Pulcinella  che  recitò  per  molti  anni  con  applauso 
nei  Teatri  di  Napoli.  A  mancar  venne  con  danno  dell'arte 
e  dispiacere  dei  suoi  amici  intorno  all'anno  1777».  Nel 
1 772,  in  Primavera,  lo  ritrovo  al  Smuovo  :  recita  da  Zadir 
nella  Dardanè  di  Francesco  Cerlone,  musicata  dal  Paisiello. 
Nel  carnevale  del  1773  gli  è  affidata,  pur  al  U\(jio\)o,  la 
parte  di  Mossili  le  <2}/ò  nella  Finta  'Parigina  dello  stesso 
Cerlone,  musicata  da  Cimarosa.  Nella  primavera  dell'anno 
medesimo  il  Barese  fa  la  parte  del  barone  nel  Tamburo  di 
G.  B.  Lorenzi,  musicato  da  Paisiello.  Nell'estate,  in  fine 
del  1 773,  sempre  al  [Njiovo,  egli  si  chiama  {Tfretton  nel- 
la Innocente  fortunata,  libretto  d'un  anonimo,  musica  di  Pai- 
siello (  1  ).  Recitava  e  cantava  ;  era  un  di  que'  comici  a  cui  le 
necessità  della  vita  forniscono  eccletismo  e  che  noi  ritro- 
viamo, a  tempo  nostro,  or  nella  commedia  in  prosa,  ora 
nell'operetta.  Tornato  da  Roma  il  Barese  smette  la  maschera 
e  diventa  ora  generico,  ora  caratterista  nelle  opere  buffe. 
L'apparire  ch'egli  fa  più  spesso  in  quelle  di  Francesco 
Cerlone  potrebbe  dimostrar  questo  che  cioè,  avendolo  il 
Cerlone  conosciuto  da  Pulcinella  nella  Cantina,  ove  appunto 
si    recitarono    le    commedie    cerloniane,    lo    ebbe    in  tanto 


(1)  Florimo,  voi.  IV. 


—  141   — 

conto  da  farlo  chiamare  al  ^7Vjìovo,  quando  vi  si  rappresen- 
tassero cose  sue.  Era,  come  Francesco  Massaro,  un  attore 
che  creava  un  personaggio  e  lumeggiava  tutta  una  com- 
media. Non  v'è  documento,  per  altro,  il  quale  dica  fino 
a  che  anno  il  Barese  abbia  recitato  da  Pulcinella  alla 
Cantina  ;  tornò  egli  a  far  parte  di  quella  compagnia, 
rimpatriato  appena  da  Roma  ?  Dal  1 746  —  epoca  nella 
quale  il  Barese  lascia  Napoli  —  al  1  772  —  in  cui  vi  riap- 
pare al  [Njiovo — vanno  di  mezzo  ventisei  anni.  E  non  è 
possibile  ch'egli  li  abbia  passati  tutti  fuori  della  sua 
patria. 

Al  Barese  successe  Vincenzo  Cammarano.  Alcune  carte 
dell'  Archivio  di  Stato,  dopo  lungo  silenzio  sul  Pulcinella 
del  San  Carlino,  tornano  a  parlare  del  di  Fiore,  e  una  afferma 
eh'  egli  ha  pur  recitato  alla  Cantina.  Può  ben  essere  ;  il 
poveretto  s'  acconciava,  per  necessità,  un  po'  con  tutti  gl'im- 
presarii  e  forse,  negli  ultimi  anni  della  vita  sua,  s'  arrese  pure 
ai  Tomeo,  nemici  antichi,  a'  quali  ora  faceva  olocausto  del 
suo  amor  proprio.  Quassù  ho  detto  forse,  poi  che  la  notizia 
mi  pare  di  quelle  un  po'  vaghe  e  imprecise  che,  di  volta 
in  volta,  qualche  Uditor  dell'  Esercito,  il  quale  ha  poca  di- 
mestichezza di  comici  e  di  teatri,  lascia  correre  nelle  sue 
relazioni.  Ma  crediamole  pure  :  il  Barese,  il  di  Fiore  e 
Cammarano  furono  dunque  i  'Pulcinelli  della  Cantina.  A 
tempo  loro  se  ne  trovano  altri  non  meno  vantati  :  il  Caval- 
lucci e  Nicola  Piazzani.  Questi,  nel  1 738,  andò  a  Venezia 
col  Medebach  ;  l'altro,  eh'  era  detto  il  Roscio  del  suo  tempo, 
morì  a  Roma  nel  1 746.  Di  Vittorio  Bonani  «  celebre  Pul- 
cinella che  fece  valere  il  suo  spirito  sui  teatri  di  Napoli  e 
che  passò  all'  altra  vita  nel  !  730  »  parla  il  Bartoli,  nelle 
sue  ZNjotizie  Istoriche  dei  Comici  Italiani.  Il  Goldoni  trova 


—  142  — 

a  Roma  un    altro  Pulcinella,  nel     1 759,  e  Goethe  ne  cita 
pur  uno  nel  Zweiter  Ròmische  jìufenthalt. 

Straccioni  tutti,  quale  più  quale  meno,  questi  figliuoli 
della  commedia  dell'arte,  ch'era  il  riso  nella  miseria,  scom- 
parvero dalle  sue  scene  e  da  quelle  non  meno  ridicole  di 
questo  mondo  a  tempo  in  cui  la  commedia  popolare  s'an- 
dava rivestendo  di  panni  nnovi.  Chi  ne  potette,  spettatore 
e  attore  a  un  tempo  ,  seguire  le  prime  vicende  in  codesta 
improvvisa  trasformazione,  fu  l'ultimo  Pulcinella  della  Can- 
tina, Vincenzo  Cammarano. 

XVIII. 

Nel  gennaio  del  1 765  Vincenzo  Cammarano  giunse  a 
Napoli,  da  Palermo,  con  la  moglie  e  un  figliuolo.  La  ma- 
dre e  il  piccino  avevano  sofferto  assai  pel  viaggio  di  mare; 
le  navi,  in  quei  tempi,  mal  costruite,  peggio  arredate,  su- 
dice,  rullanti  maledettamente  a'  moti  più  lievi  dell'  onde, 
somigliavano  tutte,  su  per  giù,  agli  antichi  velieri  biscaglini, 
a  quella  drammatica  Matutina  che  Hugo  fa  movere,  in  un 
tramonto  invernale,  da  un  de'  seni  di  Portland.  La  donna 
procedeva  lentamente,  col  piccino  tra  le  braccia,  tutto  chiuso 
in  un  vecchio  scialle  rattoppato.  Il  marito  le  aveva  gettato 
sulle  spalle,  come  avevano  messo  piede  a  terra,  il  suo  lungo 
mantello  alla  spagnuola,  un  ferraiuolo  stinto,  che  aveva, 
come  Argo,  cento  occhi.  Però  egli  non  la  precedeva  se  non 
per  volere  sgranchirsi  ;  non  s' affrettava,  gli  premeva  riscal- 
darsi. Ma  di  volta  in  volta  era  costretto  a  fermarsi  e  ad 
aspettare  ;  si  girava  indietro,  con  le  mani  in  saccoccia  fino 


—  143  — 

ai  polsi,  col  naso  che  spuntava  da  un  largo  cravattone  di 
lana  scura,  con  la  grossa  testa  insaccata  fra  le  spalle. 

Il  mare  lascia  a  chi  appena  lo  abbandona  un  certo  lieve 
barcollamento  ;  1'  acqua  talvolta  ubriaca,  il  beccheggio  della 
nave  continua,  sulla  terra  ferma,  in  chi  se  ne  parte,  e  di- 
venta irresolutezza.  Tra  per  codesta  convalescenza  dal  crampo 
e  dal  vomito,  tra  per  il  gelo  che  le  metteva  addosso  un 
ostinato  vento  di  nord  che  soffiava  fieramente  in  quella  gri- 
gia e  triste  giornata  di  gennaio,  la  povera  donna  tremava 
tutta.  L' uomo,  più  forte,  andava  avanti  tranquillamente,  mor- 
morando parole  inintelligibili,  parlando  a  se  stesso.  Era  in 
quel  gran  cravattone  di  lana  un  continuo  borbottìo. 

La  via  larga  del  Molo  e  quella  che,  sparsa  di  tisici  al- 
berelli sfrondati,  s'  allungava  sotto  Castelnuovo,  erano  quasi 
deserte.  Il  tramonto  era  triste  ;  il  sole,  coperto  dalla  nebbia, 
cadeva  rapidamente  e  affogava,  senza  riuscire  a  penetrarlo, 
in  un  vapor  grigio  e  nuvoloso  che  premeva  sulla  superficie 
delle  acque  e  saliva  fino  a  mezzo  1'  orizzonte.  Un'angoscia 
era  nell'aria  fredda  e  oscura  ;  il  silenzio  della  città  pareva 
anche  più  pesante,  anche  più  lugubre  di  quello  del  mare. 
Talvolta ,  aspettando  la  moglie  che  gli  era  rimasta  in- 
dietro di  molto,  piantato  sulle  gambe  allargate,  di  contro 
alla  furia  del  vento,  quell*  uomo  guardava  meravigliato  in- 
torno a  sé  e  considerava,  pensoso,  l' ignoto  in  cui  si  cac- 
ciavano lui,  la  donna  e  il  piccino.  Come  qualcuno  gli  pas- 
sava accosto  egli  lo  arrestò  per  chiedergli  se  la  vasta  piazza 
che  si  apriva  loro  davanti  fosse  quella  del  Castello. 

L'  altro,  brevemente,  rispose  di  sì  e  lo  squadrò  da  capo 
a  piedi  :  1'  aspetto  della  miseria  interessa.  Scambiarono  an- 
cora poche  parole  e  ì'  interrogato  s'  allontanò.  In  questo  la 


—  144   — 

donna  raggiungeva  il  marito.  Egli,    con  l' indice  teso  verso 
la  piazza,  le  fece  sottovoce  : 

—  È  laggiù,   guarda. 

Si  rimisero  in  cammino.  Chi  erano  ?  De'  comici.  La 
designazione  del  tempo  è  meno  generosa;  allora  li  si  chiamava 
istrioni.  Meno  generosa  ma  più  giusta  ;  neppur  oggi,  per 
certuni,  quell'aggettivo  guasterebbe  :  abbiamo,  a  furia  d'eu- 
femismi pietosi,  troppi  buffoni  accarezzati.  Dove  andavano  ? 
Ora,  affrettandosi,  attraversando  la  piazza  del  Castello, 
si  fermavano  presso  alla  chiesa  di  San  Giacomo,  indecisi. 
Sotto  la  chiesa  erano  due  o  tre  botteghe,  separate  dalla 
larga  scala  che  dalla  via  metteva  alla  terrazza  ed  era 
pur  chiusa  da  un  cancello  di  ferro,  a  lancie  innastate.  L'uo- 
mo s'  avvicinò  a  una  delle  botteghe,  sulla  cui  verde  inse- 
gna era  scritto  in  rosso  :  Francesco  Sebastiano,  libraro,  con 
privilegio.  Il  libraio  era  sulle  mosse  di  chiudere  il  suo  ne- 
gozio ;  s'  era  afferrato  a  una  tavola  coperta  a1'  in  folio  e  di 
stampe  e  la  trascinava  nelle  tenebre.  L'  istrione,  dalla  so- 
glia, avventò  lo  sguardo  nella  penombra,  avanzò  il  capo  e 
tossì.  Subito  cessò  il  romore  nella  bottega.  Una  voce  chiese, 
burbera  : 

—  Chi  volete?...  Chi  siete? 

L' istrione  si  scappellò,  timidamente.  Rispose  : 

—  Vincenzo  Cammarano. 

Il  libraio  lasciò  la  tavola  e  gli  venne  incontro,  stropic- 
ciandosi le  mani  impolverate.  Guardò  l'uomo  che  gli  s'in- 
chinava davanti,  guardò  la  donna  che,  fuori,  a  due  passi, 
serrava  al  petto  il  piccino,  e  insospettito  e  seccato  levò  più 
alta  la  voce  : 

—  Chi  volete  ?  Chi  siete  ?  Non  ho  nulla  per  voi.  An- 
date. Dio  v'accompagni. 


—  145  — 

L' inverno  del  1 764  era  stato  funesto.  Da  prima  ìa  ca- 
restia, poi  la  terribile  epidemia  che  fino  al  luglio  dello  stesso 
anno  avea  fatto  non  meno  di  cinquemila  vittime.  La  mise- 
ria, natura  le  conseguenza  di  que'  disastri,  spandeva,  per  tutta 
la  città,  della  gente  affamata  che  talvolta,  scambio  di  chie- 
dere elemosina,  assaliva  e  uccideva  perfino.  Nel  1 765  erano 
a  Napoli  trentamila  poveri.  E,  come  il  cuore  gli  s'  era  fatto 
piccino,  il  libraio  fece  la  voce  grossa. 

Allora  la  donna  s'  avanzò  e  trasse  da  parte  il  marito,  che 
s'  era  smarrito   e  non  sapeva  rispondere  : 

—  Noi  siamo  comici,  signore,  non  siamo  mendicanti. 
Cerchiamo  di  don  Tommaso  Tomeo  che  ha  un  teatro  in 
questa  piazza. 

Soggiunse  col  suo  forte  accento  siciliano  : 

—  Signuria  'u  canusci  ? 

—  Bene,  bene  ;  —  disse  il  libraio,  e  uscì  nella  via  e  in- 
dicò 1'  ultima  delle  botteghe,  lontana  dieci  passi  —  Tomeo? 
Ho  capito.  Laggiù,  all'angolo  ;  e'  è  della  gente  davanti  al 
teatro. 

Quei  due  vi  si  avviarono,  in  silenzio.  Cominciava  ad  an- 
nottare e  il  piccino  piangeva  nello  scialle. 

XIX. 

Quante  volte  Vincenzo  Cammarano,  nelle  sere  d' inverno, 
ha  raccontato  quella  sua  storia  ai  figliuoli  e  agli  amici  ? 
Certamente  non  poche  ;  essa  è  passata,  tra'  Cammarano,  di 
padre  in  figlio  con  gli  aneddoti  copiosi  che  intermezzarono 
la  vita  artistica  di  quel  Qiancola,  il  cui  nome  gli  ultimi 
nipoti  di  lui  pronunziano  ancora  con  un  po'  d'  emozione. 

DI  GIACOMO.  —  S.    Carlino.  IO 


—  146  — 

Vincenzo  Cammarano  era  siciliano  ;  nacque  a  Sciacca  in- 
torno al    1  720,   ed  ebbe  due  mogli  : 

Chi  Cammarano  fuie  Napole  sa, 
E  schitto  tu  restave  a  non  sape  ? 
Doie  mogliere  ebbe  sfizio  de  piglia 
Lassannole  la  primma  figlie  tre. 

De  le  treie  una  campa  e  stace  ccà, 
E  anne  settantotto  pole  ave... 

Così  un  figlio  di  Giancola,  Filippo,  in  risposta  a  certo 
Don  Mignola  che  lo  seccava  per  appurar  notizie  del  cele- 
bre comico  (I).  Della  prima  moglie  di  Giancola  era  ancor 
viva  nel  1837  una  delle  figlie  che  questi  ne  aveva  avute. 
La  superstite  delle  tre  sorelle  era  nata  nel  1 759,  in  Sici- 
lia, e  si  chiamava  Caterina.  I  figliuoli  maschi  Giancola  li 
ebbe  dalla  seconda  moglie,  che  fu  una  Paola  Sapuppo,  si- 
ciliana, a  quanto  pare,  anche  lei.  Primo  nato  dalla  Sapuppo 
e  da  Giancola  fu  Filippo  Cammarano,  che  lo  dice  in  que- 
st'  altro  sonetto  della  sua  interessantissima  raccolta  di  versi 
autobiografici  : 

Dinto  Palermo  a  lo  sessantaquatto 
A  lo  pnmmo  d'  Agusto  songo  nato  ; 
De  Cammarano  io  so  lo  primmo  estratto 
E  de  seie  mise  a  Napole  portato. 

Chisto  è  lo  fatto  vero,  tunno  e  chiatto 
Né  so  storduto  o  a  vino  mbnacato; 
La  fede  de  vattisemo  è  contratto 
Che  fa  a  vede  addò  soneo  vattiato... 


(1)  FILIPPO  CAMMARANO,   Vierze    strampt   eblsbetsce,   Napoli,  Stam- 
peria Reale,    1 837. 


—  147  — 

Ed  ha  perfettamente  ragione;  e  posso  affermarlo,  da  che  la 
copia  della  sua  fede  di  battesimo  è  nelle  mie  mani.  Si 
sbaglia,  tuttavia,  soltanto  di  undici  giorni  ;  egli  è  nato  il 
12  agosto  1764.  Suoi  fratelli,  pur  nati  dalla  Sapuppo,  fu- 
rono Giuseppe  e  Antonio.  Ma  lasciamo  i  figli  e  torniamo 
al  loro  genitore. 

Vincenzo  Cammarano  sarebbe,  a  quanto  pare,  arrivato  a 
Napoli,  nel   1765,    proprio  come  uno  che    capitasse  per  la 

prima  volta  nella  nostra  città  ? 
Non  lo  credo.  Era  un  commediante 
e,  anche  di  quei  tempi ,  i  com- 
medianti passavano  il  mare.  In  Si- 
cilia era  nato  ed  aveva  parenti, 
ma  Napoli,  sua  patria  elettiva,  lo 
aveva  visto  tra  le  sue  mura  pa- 
recchie volte  prima  che,  nell'  ul- 
tima, vi  tornasse  da  Palermo,  riam- 
mogliato con  la  Sapuppo.  Tra  i 
meriti  di  Qiancola  era  pur  quello 
della  sua  spiccata  e  naturale  pro- 
nunzia del  dialetto  partenopeo  , 
col  quale  s'era  così  familiarizzato 
da  nascondere  in  tutto  la  di  lui  pro- 
venienza siciliana.  Questo  riafferma 
la  mia  supposizione ,  non  pure, 
quanto  le  affermazioni  di  parecchi  de'  discendenti  da  Giancola. 
Il  famoso  Pulcinella  si  vide,  dunque,  parecchie  volte  aprir 
davanti  l'ospitale  golfo  di  Napoli  :  nel  1  765,  in  quella  brutta 
sera  malinconica  e  rigida,  egli  qui  torna  ancora  in  poverissime 
condizioni,  chiede  di  Tommaso  Tomeo,  del  quale  ha  cono- 
sciuto  il   padre  e,   chissà,  fors'anche  il  nonno,    e  batte  alla 


Antonio   Cammarano. 

1815. 


—  148  — 

porta  della  Cantina  per  domandare  al  giovane  impresario 
un  posto  in  compagnia.  Tomeo  non  cerca  di  meglio  e  lo 
scrittura  da  Abate.  Giusto  abbisogna  migliorare  e  aumentar 
la  compagnia,  per  le  commedie  di  Cerlone  che  chiamano 
a  teatro  gran  folla.  E  così,  poco  dopo  arrivato,  Vincenzo  Cam- 
marano  debutta  al  Fosso. 

Perchè  Qiancola  ?  Lo  sappiamo,  pur  questa  volta,  da  un 
altro  sonetto  del  figliuol  suo  Filippo,  che  ci  addita  l'origine 
di  quel  soprannome  : 


De  Cerlone  na  sera  jette  in  scena 
La    Vedova,   'Donzella  e  Maritata 
E  schitto  le  mancava  essere  prena. 

Cammarano  portava  annommenata 

Masseme  quanno  stea  de  bona  vena  ; 
Maschera  ancora  non  avea  portato 
E  d'  Abbate  faceva  ammalappena. 

De  Milord  Zamblò  stanno  a  la  casa 
Ave  a  morì!...   Ne  ne' è  chi  lo  consola 
E  a  lo  cerviello  e  n*  pietto  ne'  ha  na  vrasa. 

«  Dimmi  il  tuo  nome  e  poi  da  me  t'  invola  » 
Dice  Milord.    «  Don  Giancola  Spasa  » . 
E  da  ccà  Cammarano  fuie  Qiancola. 

La  Dama  maritata,  vedova  e  donzella  è  la  seconda  delle 
quattro  commedie  contenute  nel  settimo  volume  del  teatro 
di  Francesco  Cerlone,  edito  dal    Vinaccia  (1).  Tra  i  per- 


(  I  )  L'  edizione,  rarissima,  è  alla   Biblioteca  del  Museo  di  S.   Martino,  in 
Napoli. 


—  149  — 

sonaggi  è  un  Don  Pompilio  cPecegreca,  napolitano  grazioso, 
al  quale  capitano  le  maggiori  disgrazie  e  che  se  ne  sa,  tuttavia, 
cavare  con  mirabile  avvedutezza.  Quel  milord  Zamblò, 
è  un  ricco  signore,  burbero,  minaccioso  e  severo,  davanti 
al  quale  il  povero  don  Pompilio  si  sviene,  ogni  momento, 
di  paura.  La  scena  citata  da  Filippo  Cammarano  io  1'  ho 
dunque  ritrovata  in  Cerlone  ;  ma  noto,  d'  altra  parte,  que- 
sto, che  Vincenzo  Cammarano  non  vi  prende  parte  da  jlbate. 
Egli  è  un  caratterista,  o,  per  dirla  più  precisamente,  un 
buffo  chiatto.  In  arte  principiò,  forse,  da  Abate,  ma  nel  tem- 
po in  cui  lo  incontriamo  alla  Cantina  egli  ne  ha  già  di- 
smesso i  panni.  E  assunto  alla  gloria  pulcinellesca  qualche 
anno  prima  del  1  769,  a  giudicare  dal  posto,  se  non  da  al- 
tro, che  la  sua  firma  prende,  tra  quelle   di  tutta  la  compa- 


gnia, in  una  supplica.  Domenicantonio  di  Fiore  firmava  pel 
primo  le  suppliche  della  compagnia  ove  funzionava  da  Pul- 
cinella ;  Vincenzo  Cammarano  con  lo  stesso  diritto  che  gli 
concede  la  stessa  funzione,  appone  la  sua  firma,  di  larga  e 
chiara  calligrafia,  sotto  quella  dell'  impresario  Tomeo  e  della 
vedova  d*  Orso,  in  parecchie  suppliche  a  Ferdinando  IV. 
Pulcinella  credeva  ben  di  meritare  quest'  onore;  cominciava 
per  lui  tale  vita  novella,  col  novello  indirizzo  della  com- 
media popolare,  da   farlo  subitamente   risorgere  e  assorgere. 


—  150  — 

Non  era  più  lo  Zanni  di  poco  conto  che,  assieme  a  Co- 
viello,  stemperava  negl'  intermezzi  della  commedia  dell'arte 
le  sue  rancide  buffonerie  per  poi  scomparire  fino  a  quan- 
do 1'  ultima  scena,  in  cui  tutti  si  sposavano,  non  chiamasse 
lui  pure  al  quarto  o  quinto  matrimonio  che  vi  seguiva.  Era 
adesso  un  personaggio  quasi  essenziale,  pigliava  parte  ad 
ogni  avvenimento  e  assai  spesso  aveva  fra  mani  il  destino 
di  tutta  la  commedia. 

Di  codesto  famoso  attore,  capostipite  d'  una  numerosis- 
sima, per  quanto  onesta  e  simpatica  famiglia  artistica,  m'  è 
stato  assai  diffìcile  ottenere  il  ritratto,  ma,  in  compenso,  sono 
riuscito,  finalmente,  ad  averne  uno  che  ha  un  valor  doppio, 
prima  di  tutto  perchè  esso  è  firmato  da  uno  de'  figliuoli  dello 
stesso  Giancola,  da  quel  Giuseppe  Cammarano  che,  a  tempo 
suo,  fu  tra'  pittori  di  Napoli  più  vantati  e  operosi  e  produttivi.  Il 
disegnino  di  Giuseppe  Cammarano  rappresenta  Giancola 
in  camiciotto  da  Pulcinella  (1).  Sollevata  fino  alla  fronte  la 
maschera  sulla  così  detta  rezzbla  che  gì'  imprigiona  i  capelli, 
egli  pare  che  sorrida  bonariamente  al  suo  publico.  Ha  un  naso 
aquilino  che  sembra  tagliato  per  entrare  nel  cavo  di  quello  della 
proprio  maschera  e  a'  lobi  delle  orecchie  due  cerchietti,  che 
doveano  esser  d'  oro.  Allora  si  portavano  molto  anche  da' 
maschi,  e  ancor  oggi  qualche  vecchio  popolano  partenopeo 
non  sa  liberarsi  da  quello  strano  e  tradizionale  ornamento.  Se 


(1)  Tutti  i  ritratti  degli  antichi  Cammarano,  qualche  autografo  di  Filippo, 
dei  disegni  di  Giuseppe,  con  altri  documenti  interessanti  ha  avuto  recente- 
mente in  dono,  per  mio  mezzo  ,  dal  cav.  Giuseppe  Cammarano  funzionario 
del  Tribunale  misto  di  Alessandria  d'  Egitto,  la  Biblioteca  Lucchesiana  di 
Napoli.    Dei   preziosi  ricordi  voglio  anche  qui  render  grazie  al  donatore. 


—  151   — 

glie  ne  chiedete  ragione  vi  risponde  che  quei  cerchietti  d'oro 
alle  orecchie  gli  schiarano  la  vista.  La  curiosa  decorazione  non 
trova,  dunque,  se  non  una  spiegazione  assolutamente  ottica; 
forse  Giancola  era  miope.  Certo  è  ch'egli  non  fumava  e  non 
pigliava  tabacco.  I  suoi  figli  lo  imitarono  in  questa  virtù, 
adoperandosi,  d'altra  parte,  e  con  assidua  cura,  nella  mol- 
tiplicazione della  progenie  a  cui  l'ottimo  Pulcinella  avea 
data  così  abbondantemente  la  stura.  E  il  soprannome  comico 
di  Giancola  rimase  a  Vincenzo  Cammarano  fino  alla  morte 
di  lui.  Anche  la  Sapuppo,  che  s'era  acconciata  a  recitar 
col  marito,  non  sapeva  chiamarlo  con  altro  appellativo.  La 
compagnia  di  Tommaso  Tomeo,  sullo  scorcio  del  secolo, 
era  nel  suo  quarto  d'ora  di  celebrità  ;  il  figlio  accorto  di 
don  Michele  poteva  vantarsi  di  aver  davvero  raccolto  i  migliori 
buffoni  del  tempo  :  Francesco  Cerlone  alimentava  largamente 
il  nuovo  repertorio,  e  Giancola  e  Don  Fastidio  de  Fastidiis, 
due  favoriti  del  publico,  glie  lo  tenevano  gloriosamente  im- 
piedi. 

XX. 

Di  Francesco  Cerlone  un  mistero,  impenetrato  fin  ad 
oggi,  nasconde  le  origini  precise.  Cerlone,  chi  voglia  star- 
sene a  certe  voci,  non  sarebbe  mai  esistito  in  arte.  Quegli 
che  scriveva  le  commedie  in  fronte  alle  quali  è  il  nome 
di  lui,  era,  si  dice,  un  fratello  suo,  monaco  teresiano,  gran 
buon  diavolo  d'uomo  a  cui  piaceva  di  mescolare  il  latin  del 
messale  a  quel  del  Bembo  e  di  leggere,  prima  di  mettersi 
a  dormire,  due  dita  di  breviario  e  una  pagina  di  vino  di 
Gragnano.  La  sua  cella  bianca  e  pulita  vide  assai  spesso  il 
reverendo  padre  chino  sopra  larghi  fogli  di  carta   per    o*ve 


-  152  — 

non  gli  ultimi  pronunziati  della  teologia  ma  si  aggiravano 
intrighi  d'amori  terreni.  Qualche  drammatico  episodio  gron- 
dava financo  dell'onor  d'un  marito,  del  sangue  d'un  amante. 
Ma  i  più  confortava  il  riso  ;  la  risata  germogliava  da  quelle 
carte,  sotto  la  penna  di  oca,  e  risaliva  allo  scrittore.  Però 
un  ventre  enorme  ballonzolava  tra  i  bracciuoh  della  seggiola, 
due  piccoli  occhi  maliziosi  s'empivano  di  gioconde  lagrime 
e  un  triplice  mento  tremava  di  quell'ondulante  sussulto  che 
ha  la  gelatina  scossa.  E  rideva  pur  tutta  la  cella,  complice 
e  discreta,  mentre,  di  sotto,  nel  giardino  solitario,  erano  altre 
risatine  di  perla  della  fontana  all'ombra,  e  allegri  comenti 
di  passeri  chiacchieranti  fra'  rami  delle  acacie. 

Preparato  il  copione,  il  monaco  vi  scriveva  sulla  cover- 
tura  il  nome  di  suo  fratello  Francesco  e  aspettava  che  questi 
capitasse  in  sagrestia,  la  mattina  appresso,  per  consegnargli, 
sotto  mano,  le  carte  pericolose. 

Tutto  questo  si  venne  a  sapere  —  dicono  sempre  quelle 
voci  —  quando  il  giocondo  frate  fu  presso  a  morte.  La 
Nunziatura  Apostolica,  la  quale  appostava  i  suoi  cursori 
ne'  pressi  dei  teatri  con  ordine  d'arrestare  e  perfin  di  per- 
cuotere i  frati  che  si  permettessero  d'intervenire  alle  rap- 
presentazioni profane,  che  avrebbe  detto  d'un  teresiano  com- 
mediografo ?  Giusto  ,  una  sera  ,  due  francescani  di  Mon- 
tecalvario  ed  un  carmelitano  che  uscivano  dal  Fiorentini, 
erano  stati  sorpresi  e  legnati  dai  predetti  cursori  (1). 
Ma  il  nostro  frate  potette,  —  seguita  la  leggenda  —  al- 
legramente pigliandosi  la  solitudine  e  la  cocoll  a,  morire  in 
pace.  Il  suo  confessore  non    tradì  il    segreto    se  non  quan- 


(1)  archivio  di  Stato,   'Documenti  teatrali  del  700,  fascio   I. 


—  153  - 

do  le  povere  ossa  del  monaco  peccatore  riposavano 
già  da  un  pezzo  nel  cimitero  del  convento,  a  ridosso  del 
chiostro.  E  questo  seguiva  intorno  al  1  770,  mentre  le  com- 
medie cerloniane  chiamavano  tutta  Napoli  a  teatro  e  lo  stesso 
re  Ferdinando  IV  se  ne  faceva  rappresentar  qualcuna  nel  suo 
teatrino  di  'Palazzo. 

Altri  vuole  che  il  monaco  sia  stato  antoniano,  (  1  )  altri  afferma 
ch'egli  era  dell'ordine  di  S.  Domenico.  (2)  Ora  alla  biblioteca 
della  nostra  Certosa  di  S.  Martino  è  un  oratorio  d'un  Cer- 
lone,  che  s'intitola  :  La  sconfitta  dell'eresia,  componimento 
sacro  per  musica  in  onore  di  S.  Gaetano  ^iene,  fondatore 
dei  chierici  regolari.  Da  cantarsi  in  casa  dell'  (eccellentissimo 
signor  don  Francesco  Rovegno,  principe  di  cPallagorio  e 
marchese  di  Umhriatico,  per  solennizzare  la  festività  di  detto 
Santo.  E  stampato  in  Napoli  dalla  tipografia  Simoniana, 
nel  1 767.  La  musica  ne  fu  scritta  dal  maestro  Gennaro 
Astarita,  un  compositore  di  cui  non  fa  menzione  il  Florimo, 
ma  di  cui  si  trova  il  nome  nel  Dictionnaire  hisiorique 
des  musiciens,  di  Charron  e  Fayolle  e  nelle  Memorie  dei 
compositori  di  musica  del  Regno  di  Napoli,  del  marchese 
di  Villarosa.  Filippo  Cerlone,  o,  per  meglio  dire,  il  reve- 
rendo don  Filippo  Cerlone  avrebbe,  dunque,  avuto  tale 
faccia  tosta  da  far  seguire  a  una  commedia  con  Pulcinella 
nientemeno  che  degli  oratorii  ?  Chi  potrebbe  crederlo  senza 
offendere  quel  teresiano  ?  Neppur  s'ha  da  credere  più  alla  leg- 
genda del  frate  scrittore  ;  vi  sono  documenti  a  bastanza  per 


(1)  CARLO  TITO  DALBONO,  Biografia  degl'Italiani  illustri   del    secolo 
XVIII,  compilata  da  Emilio  de  Tipaldi,  Venezia,  Cecchini,    1860. 

(2)  MARTORANA,  Scultori  in  dialetto  napoletano. 


—  154  — 

rivendicare  al  povero  calunniato  tutto  il  suo  merito.  D'altra 
parte  il  caso  ha  un  riscontro,  che  onora  Cerlone,  in  quel 
che  accadde  all'autore  della  Bottega  del  caffè.  Quando  il 
Cortesan  veneziano  fu  fischiato  nella  patria  stessa  di  Goldoni, 
una  delle  maschere  che  facevano  gazzarra  in  un  ridotto  ove 
Goldoni,  pur  in  maschera,  s'era  recato  a  smaltir  le  fischiate, 
esclamò  :  Il  portafogli  è  esaurito  !  E  come  le  si  domandava 
di  qual  portafogli  intendesse  parlare  :  —  Eh,  intendo  dire 
—  rispose  —  di  quei  manoscritti  che  hanno  somministrato 
a  Goldoni  tutto  ciò  che  ha  fatto  fin  qua.  —  E  Goldoni,  che 
narra  il  fatto,  soggiunge  :  Il  mio  oggetto  era  di  andare  in 
traccia  di  critiche  ed  altro  non  incontravo  se  non  ignoranza 
ed  animosità... 

XXI. 

Francesco  Cerlone  ebbe  a  combattere  più  questa  che 
l'altra.  In  verità,  egli,  che  non  era  una  cima  nient'affatto  , 
fu  popolare  appunto  da  che  l'arte  sua,  nuda  d'ogni  eleganza, 
ritrovò  spettatori  che  non  badavano  troppo  pel  sottile.  Ma 
giusto  questa  popolarità  che  veniva  così  rapidamente  conqui- 
stando, con  mezzi  da'  quali  un  po'  di  volgarità  e  un  po' 
di  esagerazione  non  s'allontanavano  mai,  gli  procurò  acerrimi 
nemici  ne'  barbassori  della  letteratura  contemporanea.  E 
l'arme  che  usarono  costoro  per  demolirlo  fu  delle  più  efficaci: 
il  silenzio.  Strano  spettacolo  ;  mentre  il  publico  favore 
accompagnava  dovunque  il  Cerlone,  quanti  s'occupavano  di 
cose  teatrali  mostravano  di  non  conoscerlo  affatto  o,  sde- 
gnosamente, arricciavano  il  naso  appena  udissero  solamente 
pronunziar  quel  nome  plebeo.  Cerlone  stampava  le  cose 
sue,  ma  in  fuori  del  soffietto  che  gli  faceva    l'editore    non 


—  155  — 

otteneva  altre  recensioni,  benevoli  o  malevoli  che  potessero 
essere.  D'altra  parte  in  quel  tempo,  in  cui,  per  fortuna,  si 
stava  bene  lo  stesso  senza  giornali  quotidiani,  i  libri  erano 
giudicati  sommariamente,  a  voce,  per  via,  in  conversazione, 
al  caffè  o  a  teatro.  La  rubrica  bibliografica,  a  Napoli,  s'ali- 
mentava in  piazza,  e  le  redazioni  ambulanti  di  simili  fruste 
letterarie  s'aggiravano,  sentenziando,  specie  per  le  botteghe 
de'  parrucchieri.  —  Uno  stampa  —  scrive  Luigi  Serio,  nella 
sua  celebre  risposta  all'abate  Galiani  —  e  quacche  sbruff al- 
lesse ne  diciarra  male  dinto  a  no  cafè  ;  lo  perrucchiere  Ilo 
ssente  e  lo  dice  a  la  signora  ;  la  signora  Ilo  cconta  dinto 
a  Ilo  barchetto  la  sera  ;  li  potute  se  l'agliotteno,  e  beccote 
lo  libro  sbriognato  senza  ca  n'avesseno  letto  na  virgola.  (1) 
Francesco  Cerlone  era  un  autor  da  caffè.  Non  lo  discute- 
vano :   lo  commiseravano. 

Un  solo  suo  contemporaneo,  il  Napoli-Signorelli,  si  decide 
a  citarlo  di  straforo  nelle  sue  X)icende  della  cultura.  Ma 
con  quanto  disprezzo!  Lo  chiama  V  «  Hans  Sachs  del  nostro 
paese  ».  Hans  Sachs,  chi  non  sappia,  fu  un  maestro  can- 
tore di  Norimberga,  scrittor  fecondo  come  Lope  de  Vega, 
come  l'abate  Cancellieri.  (2)  Era  un  impressionista  che  tradu- 
ceva in  semplici  poesie  quanto  lo  commovesse,  un  poeta 
primitivo,  nudo  affatto  di  gusto  raffinato,  ma  provvisto  d'un 
brio  singolare  e  comunicativo,  uomo  schietto,  e  del  bello 
e  del  buono  schiettamente  entusiasta  tra  una  gran  soddisfa- 
zione de'  facili  suoi  trionfi.  Di    accordo    col    Signorelli    in 


(1)  LUIGI  SERIO,   Lo     Vernacchio,     Respuosta  a  Io  dialetto    Napolitano, 
Napoli,    1750. 

(2)  Se  n'è  occupato  in   un'accuratissima  monografia    lo    Shweitzer. 


—  156  — 

quanto  al  paragone  ;  Cerlone,  poveretto,  in  qualcuna  delle 
pagine  di  prefazione  onde  ha  accresciuto  i  volumi  delle  sue 
commedie,  pur  si  riveste  della  medesima  innocente  vanità, 
indugiandosi,  compiaciuto,  in  un'autoapoteosi  delle  opere 
sue.  Ma  via,  lasciamogli  questo  personal  conforto,  tra  le 
molte  vive  amarezze  che  lo  tormentarono  senza,  per  anco, 
invelenirlo.  Dopo  tutto,  e  con  la  debita  distanza,  le  Me- 
morie dello  stesso  Goldoni  non  sarebbero  meno  espugnabili 
da  quella  parte.  Cerlone  leva  a  cielo  la  nobiltà  che  lo 
onora  del  suo  intervento,  e  Goldoni,  su  per  giù,  fa  lo  stesso; 
anzi,  italiano,  si  lascia  andare  a  infiniti  salamelecchi  in  terra 
straniera,  e  di  Luigi  XV  scrive  ch'era  il  piò  clemente  fra 
i  re,  il  padre  pili  tenero,  il  padrone  pili  dolce  che  vi  fosse 
mai  stato  !  Per  poco  non  soggiunge  :  L'uomo  più  morigerato 
del  secolo  ! 

Da  parte  queste  malinconiche  riflessioni  sul  vero  io  di 
qualche  artista,  piuttosto  guardiamo  alle  opere.  Che  avrebbe 
mai  preteso  il  Napoli-Signorelli  ?  Che  Cerlone  fosse  stato 
un  seccatore  drammatico  come  lui  fu  ?  Il  settecento  non  è 
da  solamente  chiamarsi  il  secolo  delle  ariette  ;  la  vita  vi  si 
riscosse  d'ogni  parte  e  ogni  nuova  forma  geniale  vi  guadagnò 
il  suo  posto.  Nel  teatro  comico  popolare  la  commedia 
dell'arte  dava  gli  ultimi  tratti  ;  la  verità  dell'azio  ne  lasciava 
ancor  perdonare  alla  bestialità  del  soggetto.  Cerlone  fu  uno 
degl'innovatori.  Non  chiediamogli  quel  che  non  poteva  dare 
in  un  tempo  in  cui  le  forme  dell'arte  non  si  potevano  ve- 
stire di  tutta  quanta  la  verità.  L'Italia  settecentesca  ebbe  in 
fiore  il  teatro  scevro  d'imitazione,  il  dramma  di  Metastasio, 
la  commedia  di  Goldoni,  la  fiaba  di  Gozzi  ;  Napoli  ebbe 
Lorenzi  e  Cerlone,  a  dispetto  dei  critici  e  a  conforto  degli 
spiriti. 


—   157  — 

XXII. 

Luigi  Settembrini,  quando  era  rettore  dell'Università  di 
Napoli,  ebbe  un  giorno  a  sapere  che  tutte  le  carte  della 
scuola  di  Salerno,  di  fresco  soppressa,  infradiciavano,  ammuc- 
chiate in  uno  stanzone  dell'  Università,  tra  polvere  e  muffa. 
Gli  venne  voglia  d'esaminarle  e  le  trovò  importantissime. 
Erano  i  Registri  dei  Laureati,  gli  Jltti  dei  Dottori  e  le 
'Provvisioni  per  la  Scuola.  Nettate  e  riordinate,  le  carte 
preziose  offersero  al  Settembrini  materia  per  uno  scritto 
ch'egli  publicò  nella  Nuova  Jìntologia  e  del  quale  io  mi 
avvalgo  per  una  notizia  che  si  riferirebbe,  a  quanto  pare 
al  Settembrini,  proprio  al  Cerlone   commediografo. 

«  Le  carte  dell'  Università  di  Napoli  —  scrive  il  Settem- 
brini —  non  contengono  altro  che  gli  Atti  che  si  facevano 
per  conseguire  la  laurea  in  giurisprudenza,  o  in  medicina, 
o  in  teologia.  Questi  atti  sono  Informationes  de  studio  e 
Libri  juramentorum.  Sono  raccolti  per  anno  ed  i  più  antichi 
sono  del  1585:  gli  ultimi  son  del  1812,  nel  quale  anno 
furono  riformati  gli  studi  ;  ma  in  mezzo  mancano,  per  molti 
anni,  dove  i  libri  delle  informazioni,  dove  i  giuramenti. 

Gli  atti  per  la  laurea  in  giurisprudenza  sono  distinti  da 
quelli  per  la  laurea  in  medicina  :  per  la  teologia  non  ci 
sono  che  i  libri  de'  giuramenti.  I  teologi  che  non  erano 
poi  giovinotti  non  avevan  bisogno  di  informazioni  intorno 
agli  studii  fatti. 

Ne'  libri  d'informazioni  per  ciascuna  persona  si  trovano 
i  seguenti  Atti  : 

1.  Monsignor  Cappellano  Maggiore,  presidente  e  capo 
dell'istruzione  pubblica  del  Regno,  certificava  che    cercata 


—  158  — 

la  matricola  degli  studenti  vi  si  era  trovato  iscritto  il  gio- 
vane per  quattro  anni  se  studiava  leggi,  per  sei  anni  se 
studiava  medicina  ; 

2.  Domanda  del  giovane  per  esser  ammesso  agli  esami  ; 

3.  Fede  di  nascita  rilasciata  dal  parroco ,  autenticata 
dal  notaio  ; 

4.  Talora  un  decreto  del  viceré  che  dispensava  il  gio- 
vine dall'età  stabilita  dalla  legge  per  gli  esami  ; 

5.  ^estes  de  studio,  testimonianza  fatta  innanzi  al  can- 
celliere dell'università  da  due  persone  residenti  in  Napoli, 
che  dichiaravano  come  il  giovane  aveva  per  alcuni  anni 
studiato  in   Napoli  ; 

6.  "Tfes/es  de  nativitate.  —  Non  pareva  sicura  la  fede  del 
parroco  ;  ci  voleva  anche  il  notaio  per  le  provincie  ;  ma  i 
giovani  di  Napoli  e  de'  contorni  dovevano  presentare  testes 
de  nativitate  due  donne  ,  che  spesso  erano  serve  di  casa, 
le  quali  attestano  che  esse  conoscono  il  giovane  e  i  signori 
genitori  ,  che  hanno  veduta  la  madre  gravida  e  poi  parto- 
rire, e  alcuna  dice  che  essa  ha  dato  la  zizza  al  bambino, 
ed  un'altra  afferma  che  essa  se  l'ha  cresciuto  come  figlio  e 
si  rallegra  che  ora  lo  vede  dottore.  Con  questa  testimo- 
nianza si  suppliva  allo  stato  civile  che  fu  istituito  da  poi  in 
Francia  e  non  fu  un'invenzione  nata  dal  cervello  francese, 
ma  dal  bisogno  che  ormai  tutti  sentivano  ,  e  ciascuno  cer- 
cava supplirvi  a  suo  modo  ,  ed  ora  il  modo  è  semplice  e 
generale  ». 

«  Chi  prendeva  la  laurea  —  seguita  a  dire  il  Settembrini 
sulla  fede  di  que'  documenti  —  prima  di  ottenere  i  punti  del- 
l'approvazione doveva  scrivere  di  sua  mano  in  un  libro  la  se- 
guente formula  di  giuramento  £go spondeo,  voveo  acjuro, 

sic  me  Deus  adjuvet  et  haec    sancta    Dei    Evangelia  » . 


—  159  — 

Che  cosa  si  giurava  ?  Il  Settembrini  lo  fa  ripetere  da  un 
decreto  d'un  viceré  del  1612,  che  io  riduco  a  questo:  si 
giurava  d'essere  un  galantuomo. 

Or,  fra  innumerevoli  autografi  di  laureati ,  tra  i  nomi  il- 
lustri di  Giulio  Cesare  Cortese  ,  del  Valletta ,  del  medico 
Nicola  Cirillo,  di  Nicola  Capasso,  del  Giannone ,  d'Ales- 
sio Mazzocchi,  di  Domenico  Cirillo,  capita  al  Settembrini 
d'imbattersi  in  quel  di  un  Francesco  Cerlone.  Questi  prende 
la  laurea  di  legge  nel  1 750,  assieme  con  altri  Cerlone,  un 
Domenico  ,  un  Gaetano ,  un  Filippo,  tutti  napoletani  come 
lui. 

«  Chi  è  costui  ?  —  si  dimanda  il  Settembrini  —  Fosse  egli 
quel  Cerlone  scrittore  di  commedie  mezze  in  dialetto  ,  di 
cui  non  si  ha  alcuna  notizia  e  si  dice  eh'  era  un  misero 
sarto  ?  Povero  Cerlone,  fu  dimenticato  e  non  lo  meritava!...  ». 

XXIII. 

Io  non  oso  tener  dietro  alla  supposizione  dello  illustre 
uomo.  Cerlone ,  se  avesse  conseguita  la  laurea  in  legge, 
non  se  ne  sarebbe  stato  senza  rivendicarla  in  qualcuna  delle 
sue  parecchie  prefazioni  in  prosa  e  in  martelliani  ,  e  squa- 
dernarla in  faccia  a'  critici  malevoli.  Una  laurea  in  legge 
non  era  poco  vanto  in  que'  tempi,  ne'  quali  ,  per  fortuna, 
la  pianta  del  paglietta  fioriva  anche  meno  d' oggi.  Non , 
tuttavia,  molto  meno. 

Lasciamo,  dunque,  l'avvocato  Francesco  Cerlone  e  piut- 
tosto occupiamoci  del  suo  omonimo  contemporaneo,  che  in- 
contriamo, fanciullo,  in  una  scura  bottega  di  tintore.  Eccolo 
che  ritorce  e  rannoda  matasse  di  seta,  gocciolanti  la  lor  tinta 
varia,  ora  gialla,  ora  verde,  ora  sanguigna  ;  il  piccolo  Cer- 


—  160  — 

Ione  è  tutto  intento  alla  bisogna,  le  sue  nude  braccia  s'a- 
gitano continuamente,  e  la  seta  cigola  attorno  al  breve  e 
grosso  bastone  infisso  nello  stipite.  Neil'  oscurità  della  bot- 
tega vanno  e  vengono  altri  lavoratori  e  qualcuno  di  loro,  ri- 
sciacquando le  matasse  nella  tinozza,  canticchia  l'ultima  can- 
zonetta in  voga  : 

Fegliole  nnammorate, 
Ammore  si  ve  coce, 
Penate  e  sopportate, 
Ca  lo  penare  è  doce, 
Nc'è  gusto  a  sopporta 

Passano  quattro  o  cinque  anni.  Cerlone  è  diventato  un 
giovanetto  ed  è  pur  mutato  il  suo  mestiere.  Ora,  davanti  a 
un  largo  telaio,  sul  quale  è  steso  un  pezzo  di  seta,  egli  vi 
ricama,  di  volta  in  volta  smettendo  per  rimanersene  come 
nella  contemplazione  dell'opera  sua  faticosa  e  lunga.  Ma  non 
è  questo  ;  egli  è  che  dal  tenero  fondo  della  stoffa  vanno 
rampollando  cose  e  persone,  e  il  loro  moto  lo  anima.  Così 
a  mano  a  mano  ,  tutta  una  scena  vi  si  colora  e  ne  balza 
fuori  con  i  suoi  personaggi;  la  bottega  del  ricamatore  si  po- 
pola della  varia  gente  che  la  fantasia  del  giovinetto  molti- 
plica e  spande  attorno,  ed  egli,  socchiusi  gli  occhi,  ne  segue 
il  movimento,  ne  crea  le  figure,  ne  abbozza  in  mente  i  dia- 
loghi e  distribuisce  per  l' immaginario  palcoscenico  tutta  la 
tela  d'una  commedia  or  ora  architettata. 

Un  bel  giorno  alcuni  tintori  napoletani  vanno  a  Roma 
per  cose  del  mestiere  e  Cerlone  fa  il  viaggio  con  essi»  A 
Roma,  la  compagnia  de*  tintori  improvvisa  delle  rappresen- 
tazioni nelle  sere  di  riposo,  Cerlone   s'offre  di  rifonderne  il 


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—  161  — 

repertorio  ;  ed  eccolo,  finalmente,  commediografo.  Quando 
torna  a  Napoli  ha  fama  abbastanza  per  potere,  abbandonati 
i  suoi  compagni  filodrammatici ,  dedicarsi  ai  teatri  publici. 
Nel  1 760  il  suo  nome  è  già  noto  e  lo  si  pronunzia  con 
grande  simpatia,  poiché  oltre  al  merito,  quale  che  fosse  stato, 
della  sua  produzione,  Cerlone  aveVa  quello,  raro,  della  bontà, 
la  qualità  di  non  invidiare  nessuno  ,  il  pregio  di  addimo- 
strarsi, con  quelli  che  gli  davano  pane,  riconoscente  e  affet- 
tuoso. Nel  1761  va  alle  stampe  La  Finta  Schiava,  com- 
media di  un  Pasquale  Starace,  napoletano,  autore  della  Si- 
gnora riconosciuta,  del  Finto  Conte  Sciuscella,  dell' '  Jlbate 
burlato,  della  Rina  de  lo  Vommero,  della  Sorella  ricono- 
scente. La  Finta  Schiava  ha  in  fronte  due  sonetti  di  Fran- 
cesco Cerlone  :  dovette  essere  una  commedia  molto  riuscita, 
poiché  Cerlone,  nella  dedica  d*  un  di  quei  sonetti  la  dice 
famosa.  Alle  lodi  che  glie  ne  fa  il  suo  amico  risponde  Sta- 
race con  un  altro    sonetto  ,  in  cui  son  versi   come    questi  : 

Chi  da  gnorante  fa  chello  che  pole 
Chiammato  esse  non  mereta   anemale, 
Ca  si  pepe  non  c'è,  si  non  c'è  sale, 
La  razia  toia  me  lo  pò  dà  si  vole  (I). 

Si  parlava,  dunque  ,  di  Cerlone  fin  dal  1 760.  Tre  anni 
dopo  egli  si  decide,  invitato  —  allora  si  diceva  applettato — 
dall'editore  Giacomo  Vinaccia  ,  a  publicare  le  commedie 
in  tanti  volumi. 


(1)  MARTORANA,  Scrittori  in  dialetto  napolitano. 
DI  GIACOMO.  —  S.   Carlino. 


—  162  — 

il  Vinaccia  era  un  curioso  editore.  Non  aveva  bottega 
in  piazza  :  dava  ,  per  io  più  ,  a  stampar  suoi  libri  al  ti- 
pografo Vincenzo  Flauto  —  regio  impressore  —  e  le  copie 
de'  libri  vendeva  egli  stesso  al  'Passetto  del  Sacro  Regio 
Consiglio,  nella  Vicaria.  Il  suo  posto  vidi,  anni  fa,  occupato 
da  un  vecchio  bouquiniste,  davanti  alla  cui  panca,  tra  molti  libri 
di  leggi  e  d'avvocheria,  talvolta  accadeva  d'imbattersi  in  qual- 
che copia  della  Napoli  Sacra  del  d'  Engenio  e  magari  in 
un  Petrarca  con  la  spositione  di  Q.  Andrea  Gesualdo,  edito 
dal  Giglio,  a  Venezia,  nel    1 553. 

Or  nell'anno  1 765,  a'  20  di  maggio,  la  Qazzetta,  che 
publicava  il  tipografo  Flauto  ,  ha  il  seguente  annunzio  in 
quarta  pagina  : 

«  Si  fa  noto  al  Publico  Letterario  ,  qualmente  è  uscito 
dai  nostri  Torchi  il  Primo  Tomo  delle  famose ,  ed  assai 
comendate  Commedie  del  celebre  Francesco  Cerlone,  conti- 
nente quattro  di  esse  che  sono  :  GÌ'  Inglesi  in  Jlmerica, 
ossia  il  Selvaggio  —  La  cOera  Contessina  —  La  Gara  fra 
Y Jìmicizia  e  l'Jlmore  e  La  Pamela  Nubile.  Intanto  stanno 
sotto  il  Torchio  le  altre  sedici  che  verranno  contenute  in 
altri  quattro  Tomi,  i  quali  si  daranno  fuori  con  tutta  la  mag- 
gior sollecitudine  e  polizia. 

«  Quanto  siasi  reso  famoso  il  suddetto  Autore  in  tal  dif- 
ficilissimo genere  di  componimenti  è  inutile  ripeterlo  ;  sic- 
come anche  l'approvazione  universalmente  ricevuta  nelle  rap- 
presentazioni fatte  delle  Commedie  suddette.  Onde  chiun- 
que vorrà  fare  acquisto  di  componimenti  così  cari  e  gustosi 
e  profittevoli  per  lo  costume  che  ne'  medesimi  si  vede  es- 
serne l'oggetto  principale  e  che  niente  offende  o  punto  adom- 
bra   l'onesto  ed  il  religioso,  potrà  indirizzarsi    ecc.   ecc.  ». 


—  163 


XXIV. 


Dall'annunzio  del  Vinaccia,  dunque,  si  cava  che  France- 
sco Cerlone,  fino  al  1765,  aveva  scritto  e  fatto  rappresen- 
tare ben  venti  commedie.  Egli  era  ,  in  quel  tempo  ,  ancor 
giovane  e  si  preparava  ad  imprese  novelle  ,  spronandolo  a 
quelle  il  bel  ricordo  ,  fresco  ,  della  celebrità  conquistata 
quasi  da  adolescente,  la  straordinaria  passione  ch'egli  sen- 
tiva pel  teatro  ,  la  protezione  de'  signori  e...  anche  un  po' 
la  necessità  del  guadagno  materiale.  Dopo  il  successo  delle 
prime  produzioni  il  ricamatore  aveva  messo  da  parte  il  te- 
laio ,  s'  era  ammogliato  —  si  dice  con  la  figliuola  d'un  co- 
mico —  e  or  fabbricava  commedie  e  marmocchi.  Alla  prima 
edizione  di  quelle  io  non  so  di  prefazioni  ch'egli  v'  abbia 
potuto  annettere;  il  Vinaccia  non  ne  parla  ne'  suoi  annunzii, 
e  copie  di  que'  volumi  non  si  trovano  più.  Lo  stesso  Vi- 
naccia ne  imprese  un'altra  nel  1 772,  e  l'accrebbe  del  ri- 
tratto di  Cerlone,  inciso  sopra  rame  da  Domenico  dell'A- 
cerra,  illustratore  d'altri  volumi,  quali  del  Chiari,  quali  del- 
l'inglese Wanton,  autore  de'  Viaggi  alle  ^erre  Incognite 
Australi  ed  al  'Paese  delle  Scimie  (1).  A  parecchi  de'  quat- 
tordici volumi  di  questa  seconda  edizione  —  che  ir  Vinac- 
cia, avendola  cominciata  presso  il  Flauto ,  terminò  di  dare 
alla  luce  co'  tipi  della  Stamperia  Avelliniana  —  è  accom- 
pagnata una  prefazione  del  Cerlone,  quasi  sempre  appresso 


(1)   Qazztita    di  Napoli,    1765,   Società  di  Storia  Patria,   Napoli. 


—   164  — 

alla  dedica  eh'  egli  fa  del  libro  a  un  qualche  noto  perso- 
naggio, amico  o  protettore  suo. 

L'ottavo  volume  è  dedicato  all'Ecc.mo  signor  D.  Anto- 
nino JXCaresca  Donnorso,  Duca  della  citta  di  Seri acapriola, 
utile  signore  della  ^erra  di  Chieuti ,  del  Feudo  di  'Ponte 
Jìlbaneto  ecc.  ecc.  Il  Cerlone  vedeva  spesso  il  Maresca, 
placidissimo  spettatore,  alle  rappresentazioni  delle  sue  com- 
medie, era  suo  grande  amico  e  della  sua  protezione  si  glo- 
riava. «  Sebbene  fra  lo  spazio  di  quasi  due  anni  dacché 
diedi  alle  stampe  il  settimo  tomo  delle  mie  commedie  — 
egli  dice  in  quella  dedica  —  ne  avessi  prodotte  altre  otto 
per  le  obbligazioni  alle  quali  mi  era  sottoscritto  per  il  ser- 
vizio del  Teatro  Nuovo,  avendo  però  quelle  che  in  questo 
io  ti  presento  maggiormente  incontrato  il  compatimento  del 
pubblico  ho  voluto  prima  stamparle  ».  E  dopo  aver  citata 
una  «  lunga  prefazione  apposta  all'  atto  IV  del  Colombo 
stampato  separatamente  nel  1 765  »  (prima  edizione  del  Vi- 
naccia) ,  egli  soggiunge  :  «  Ho  per  esperienza  veduto  che 
quanto  più  per  luogo  dell'azione  ci  allontaniamo  dalla  no- 
stra Italia,  tanto,  più  gradita  riesce  ad  ogni  spettatore  ,  ol- 
tre all'utile  che  si  ricava  dal  vedere  sul  teatro,  come  in  uno 
specchio,  i  difetti  di  alcune  nazioni  o  barbare  o  infedeli  ». 

La  dedica  ha  la  data  del  4  marzo   1771. 

Il  nono  volume  è  dedicato  al  merito  singolarissimo  di  Don 
Qiovanni  Paduano,  ornamento  delle  meccaniche  scienze.  L'un- 
decimo  a  Giampier  Fabiani,  il  duodecimo  al  merito  distin- 
tissimo di  T)on  'Pasquale  Marino,  il  tredicesimo  a\Y illustris- 
simo Don  Carlo  Rocco ,  V  ultimo  al  signor  Don  Qiuseppe 
Liguoro.  Il  Vinaccia  terminò  di  stampare  questa  seconda  edi- 
zione delle  commedie  cerloniane  nel   1 778.  La  prima  edi- 


—  165  — 

zione  si  compose  di  otto  volumi,  l'ultimo  de'  quali  apparve 
nel  1 769.  Si  vendevano  nel  Corridoio  del  Consiglio,  legato 
ognuno  in  carta  pergamena  e  tassello,  tre  carlini  l'uno. 


XXV. 


«  I  critici  avran  ragione  di  censurarmi  ;  ma  io  scrivo  per- 
chè mi  pagano  ,  stampo  perchè  son  comandato  e  non  ho 
avuto  mai  né  potevo  aver  mai  nessuna  presunzione  che  le 
mie  commedie  esser  potessero  qualche  cosa  di  buono  nel 
mondo.  Sono  un  povero  napoletano  che  non  ad  altri  che 
ai  miei  Patriotti  ed  al  loro  buon  cuore  debbo  1*  applauso 
dalle  opere  mie  riportato»    (1). 

Ecco  definito  il  Cerlone  dalle  sue  medesime  parole.  Chi 
sa  leggere  pur  di  sfuggita  tra  quelle  righe  non  tarda  a  sco- 
prire, tra'  modesti  e  semplici  sentimenti  che  esprimono,  una 
punta  d'innocente  vanagloria.  Ma  è  molto  da  perdonarglisi, 
poi  che  il  pover  uomo  molto  sofferse.  Mentre  il  Vinaccia 
continua  a  stampare  le  sue  commedie  la  critica  ne  diventa 
sempre  più  acerba  nemica,  e  Cerlone,  eh 'è  di  quelle  ani- 
me buone  nelle  quali  lascia  larga  piaga  il  più  piccolo  strale, 
fra  tanto  livore  si  scompiglia  e  si  scoraggia. 

«  E  vero  che  prefisso  aveva  di  non  scrivere  più  comme- 
die in  prosa  per  li  teatri  publici  —  dice  nella  prefazione 
all'  undecimo  volume  —  e  dar  riposo  alquanto  alla  stancata 


(!)  Prefazione  all'ottavo  volume,    1775. 


—  166  — 

mente,  vero  è  pur  anco  che  un  sonetto  per  schiribizzo  feci 
su  tal  proposta  ed  eccolo  se  di  leggerlo  vi  piace  : 

Addio  scene,  teatri,   attrici  e  attori, 

Vi  lascio  alfine  in  sempiterno  oblio  ; 

Più  non  spargo  per  voi  folli  sudori, 

Mi  ripiglio  da  voi  tutto  il  cor  mio. 
Frodi,  inganni,  spergiuri,  odio  e  livori, 

Più  non  vi  veggo  intorno  ove  son  io, 

Ma  tra  gl'industri  miei  nuovi  lavori, 

Veggo  unita  la  pace  al  mio  desio. 
All'alzar  del  sipario  or  più  non  gelo. 

Né  supplice  girando  in  sulla  scena 

Raccomando  agli  attori  i  sudor'  miei. 
Or  mi  siedo  in  platea  e  non  mi  gelo, 

E  son  lieto,  tranquillo,  e  senza  pena, 

Giudice  e  spettator,  lode  agli  Dei  ! 

Ma  poi  i  buoni  amici  mi  hanno  dolcemente  spinto  a  pren- 
der di  nuovo  la  penna  » .  Anche  non  avrebbe  stampato  que- 
ste altre  quattro  commedie  dell'  undecimo  volume  se  «  un 
autorevol  soggetto  che  adorna  questa  Illustre  Metropoli  » 
non  glie  le  avesse  «  quasi  a  forza  strappate  di  mano  ».  Delle 
quattro  il  diranno  Cinese  fu  rappresentato  al  Nuovo  trenta 
sere  di  seguito,  con  una  magnifica  messa  in  iscena,  e  X  jìr- 
sace  ebbe  la  stessa  felice  sorte  «  con  1 00  e  più  combat- 
tenti, con  cadute  di  muraglie,  scalate,  arieti,  macchine,  ec- 
cetera » .  E  però  quando  l' impresario  commetteva  al  Cer- 
lone  qualche  nuova  commedia  spettacolosa  gli  si  raccoman- 
dava, a  un  tempo,  perchè  badasse  di  non  troppo  spettaco- 
losamente sceneggiarla.  L'apparato  scenico,  le  mutazioni  a 
vista  ,  il  vestiario  gli  costavano  un  occhio    del    capo  e  per 


—  167  — 

non  rimettervi  gli  abbisognava  di  far  piena  per  lo  meno  una 
settimana. 

«  Ricordi  tu  ,  amico ,  —  dice  Cerlone  ,  nella  dedica  che 
fa  del  duodecimo  volume  a  Pasquale  Marino  —  come 

nel  fior  degli  anni  nostri 

facemmo  tutte  e  due, 

Or  con  sonetti  eroici  lodando  un  degno  attore, 
Ora  il  pensier  fecondo  d'un  nobile  oratore, 
Or  la  beltà  d'Eunlla  che  rese  alcun  felice, 
Or  la  bellezza  indomita  d'una  superba  Nice, 

valer  toscani  inchiostri  ?  —  E  continua  : 

Poi,   reso  il  nostro  ingegno  indebolito  e  fiacco, 
Prendeam  ristoro  insieme  col  dolce  umor  di  Bacco. 
Sedendo  alcuna  volta  in  pubhca  platea, 
Ogni  prescelto  attore  il  suo  dover  facea. 
Era  l'aspetto  nostro  a'  comici  di  sprone... 

Lo  Scherillo  ,  nella  prima  edizione  della  sua  monografia 
sull'Opera  buffa  napoletana  riporta  codesti  martelliani.  Io 
aggiungo  che  quel  Pasquale  Marino  fu,  come  avanti  s'è  visto, 
un  attore  delle  prime  commedie  liveriane ,  le  quali  Cer- 
lone ,  giovanetto ,  vide  parecchie  volte  mettere  in  prova 
dallo  stesso  Liveri.  Anzi  il  nostro  sventurato  poeta  co- 
mico,  giusto  parlando  del  concerto  d'una  di  esse,  ricorda 
la  grande  attenzione  che  il  Liveri  vi  poneva.  «  Un  so- 
spiro (ed  io  ne  fui  testimonio  di  vista)  un  sospiro ,  che 
esalar  dovea  un  personaggio  ,  concertato  dal  fu  marchese 
di  Liveri  ,  sempre  fra  noi  di  gloriosa  memoria  ,  un  sospiro 


—  168  — 

fu  da  lui  concertato  una  sera  32  volte ,  e  nemmen  giunse 
il  povero  personaggio  che  versava  freddi  sudori  dalla  fronte, 
per  compiacere  1*  insigne  concertatore  che  in  quel  sospiro 
cento  cose  volea  che  esprimesse  in  esalarlo  ;  onde  passò 
avanti  ;  riserbandosi  a  meglio  perfezionarlo  in  appresso.  Un 
sospiro  ?  —  mi  dirà  taluno.  Un  sospiro  ;  e  fu  me  presente 
e  sull'onor  mio  lo  giuro  !»  (  1  ).  E  a  que'  concerti  del  Liveri 
il  Cenone  conobbe  Pasquale  Marino  che,  nella  Contessa , 
rappresentava  Qiannetta.  Erano  giovanotti  tutti  e  due  ; 
Manno  aveva  quindici  anni  e  Cerlone  era  suo  coeta- 
neo. La  Contessa  fu  rappresentata  intorno  al  1 775  ;  met- 
tiamo che  in  quell'anno  il  Cerlone  ne  contasse  quindici  ; 
dunque  nel  1 775,  quando  ristampa  il  suo  teatro  e  malinco- 
nicamente egli  ricorda  all'amico  Marino  il  fior  degli  anni  loro 
avvizzito,  il    nostro   buon    Cerlone    né   ha    cinquantacinque. 

Eccolo  al  tredicesimo  volume,  dedicato  a  Don  Carlo 
Rocco.  «  Credeva  —  dice  —  di  finire  col  XII  Tomo  la  ri- 
stampa delle  mie  commedie,  tanto  più  che  esso  ne  con- 
tiene quattro  con  molto  applauso  recitate  a  Roma,  a  Pa- 
lermo, a  Torino.  Ma  ho  voluto  raccogliere  e  dare  alle 
stampe  quest'altre  quattro,  di  cui  due  sono  state  rappresentate 
al  Teatro  della  R.  Fiera,  ove  la  nobiltà,  la  civil  gente  e  la 
minuta  arrossir  mi  fecero  con  i  loro  echi  di  applausi  » . 

La  Cunegonda  fu  data,  in  quel  teatrino,  nel  luglio.  Della 
compagnia,  ch'era  quella  di  Tommaso  Tomeo,  il  Cerlone 
dice  :  «  Valenti  attori  e  graziose  attrici  » .  E  la  stessa  compa- 
gnia rappresentò  due  delle  ultime  produzioni  dell'oramai 
vecchio  autor  comico,  il  Re  de'  Qenii  ed  il  Mostro    'TjUT- 


(1)  Volume  XIV,    1773. 


—  169  — 

chino,  due  fiabe  ch'egli  confessa  d'aver  cavato  da  quelle 
del  rinomato  conte  Qozzi.  E  in  quest'ultimo  volume,  dedi- 
cato a  Don  Giuseppe  de  Liguoro  e  stampato  nel  1 773, 
Cerlone,  stanco  e  sfiduciato,  s'accomiata  dal  suo  carissimo 
publico,  dicendo  :  Compatitemi  ;  la  mia  opera  è  terminata, 
ho  scritto  meglio  di  cento  commedie  per  la  prosa  e  per  la 
musica,  le  ho  messo  in  prova,  ho  assistito,  trepidante,  alla 
loro  sorte  ed  ora  dico  addio  alle  scene 

XXVI. 

Nella  prefazione  al  volume  precedente  ha  scritto  :  «  Se 
riguardiamo  al  teatro,  il  dire  :  a  me  basta  che  un'opera  mia 
piaccia  a  pochi  dotti,  è  un  rifugio  di  molti  infelici  scrittori 
teatrali  che  spesso  hanno  delle  lusinghe  fallaci,  suggerite 
loro  dall'amor  proprio.  —  In  quanto  a  me  —  soggiunge  — 
sempre  ho  riputate  le  mie  composizioni  meno  del  niente, 
ma  niegar  non  posso  che  ho  avuto  il  bel  piacere  di  vedere 
affollarsi  (ancor  col  sole  in  cielo)  nella  porta  della  platea 
la  numerosa  gente  per  aver  sito  nel  teatro  la  sera,  ed  ho 
veduto  affittar  due  o  tre  giorni  prima  i  palchi,  a  prezzo  più 
della  musica  per  una  commedia  in  prosa.  Anzi  più  :  ho 
veduto  con  gli  occhi  propri,  con  l'oro  esatto  dalle  mie 
prose,  restaurar  le  piaghe  della  decaduta  musica.  Se  dico 
il  vero,  attestar  lo  potranno  tanti  e  tanti  labbri  veraci  a 
cui,  al  par  di  me,  fa  meraviglia  il  caso  ». 

Questi  è  Francesco  Cerlone,  curioso  impasto  d'umile 
bontà  e  d'innocente  vanagloria,  pronto  piuttosto  a  chinarsi 
che  non  ad  insorgere.  Nato  dalla  plebe  egli  ne  conserva 
quella  passeggiera  intolleranza  che  presto  e  facilmente  cede 
ad  ogni  superiorità,  ad  ogni  forza  che  le  si  imponga  con  la 


—  1 70  — 

ragione  e  con  l'ingegno  e  la  respinga,  e  riduca  il  vanto  di 
certi  esseri  inferiori  ne'  suoi  limiti  di  piazza. 

Era  egli  proprio,  avanti  di  mettersi  a  scrivere  pel  teatro, 
un  ricamatore  ?  Fino  a  poco  tempo  fa  ho  creduto  anch'io 
che  la  storiella  del  disegnatore  sopra  seta  dovesse  collocarsi 
accanto  all'altra  del  monaco  teresiano  ;  ma  ora  un  autografo 
di  Francesco  Cerlone,  che  uno  scrittore  di  cose  napoletane, 
Raffaele  d'  Ambra  ,  gelosamente  serbò  fino  a  morte  e  che 
io  publico  pel  primo,  non  lascia  più  dubbio  intorno  all'an- 
tico mestiere  del  popolare  commediografo.  Il  buon  d'Ambra 
mi  lasciò  pigliar  copia  di  quello  scritto  e  io  qui  lo  ripro- 
duco tal  quale  :  sono  versi  indirizzati  a  uno  dei  soliti  tar- 
tassatori  di  quel  povero  diavolo  e  sul  grosso  foglio,  di  fuori, 
si  legge:  jll  saggio  mio    mormoratore. 

Ecco  que'  versi  : 

Al  Feritor  superbo,   al  critico  mordace 

Risponde  quel  Cerlone  :  ch'è  un  ignorante  e  piace. 

Lode  al  ciel  pur  trovai  tè  che  da  invidia  roso, 

Ferisci  e  ti  nascondi,  ardito  e  timoroso  ; 

E  forse  a  te  usurpato  l'onor  che  m'acquistai  ? 

Perchè  non  scrivi  ancora  e  conoscer  ti  fai  ? 

Qual  gelosia  tiranna  ?  Qual  sdegno  forsennato  ? 

Perchè  gradito  fui  un  mio  delitto  è  stato  ? 

Il  tuo  saper  profondo,  di  tua  virtù  gli  effetti, 

Restringonsi  a  freddure,  a  critici  sonetti  ? 

Scrivi  Commedie  intere,  almen  sian  cinque  o  sei. 

Indi  fa  paragone  con  i  tuoi  scritti  i  miei. 

Bello  è  fuor  del  cimento  parlar  da  valoroso 

E  star  lontano  intanto  a  criticare  ascoso. 

Conoscer  ti  vorrei,  vii  feritore  atroce. 

Ma  qual  rumore  in  sacco  può  fare  una  sol  noce  ? 


—  171   — 

Contro  un  torrente  pieno  che  in  mio  favor  discende 

Il  gran  sonetto  tuo  argine  far  pretende  ? 

Ne  ho  mille  in  lode,  e  sono  d'Illustri  Letterati, 

E  cavalier  sublimi,  di  te  più  dotti  e  grati. 

Che  mal  può  farmi  il  tuo  d'atro  livor  ripieno? 

Cagion  per  me  di  gioia  diventa  il  tuo  veleno. 

Fin  sull'adriaca  riva  l'opere  mie  mandai 

A  prezzo  di  zecchini  ;   sappilo  se  noi  sai. 

E  i  primi  gran  sogetti  han  fatto  un  attestato 

Che  qui  lo  stile  mio  molto  gradito  è  stato. 

Il  Presidente  stesso  n'è  stato  il  portatore, 

E  per  Venezia  appresso  mi  vuol  comico  Autore. 

Ov'è  un  Goldoni  e  un  Chiari,  Autori  rinomati, 

I  scritti  miei  che  sprezzi  son  stati  ricercati. 

Non  credo  che  saranno  (come  tu  sei)  minchioni 

I  nobil'  Cavalieri,  gl'Illustri  Pantaloni. 

Perdonami  se  parlo  contro  il  voler  severo, 

Di  me  che  non  ti  offesi  fosti  offensor  primiero. 

Se  Critico  ti  fai  d'un  che  te  non  offende 

Te  stesso  oscuri,  e  lui  più  luminoso  splende. 

Voglio  insegnarti  il  modo  di  mitigar  tuo  duolo, 

Pensa  che  contro  mille  non  può  garrire  un  solo. 

Nascondi  almen  prudente  V  invida  pena  amara 

E  le  commedie  mie  meglio  rifletti  e  impara. 

Non  so  se  qualche  tua  composizion  perfetta 

Un  pubblico  Teatro  per  se  l'havrebbe  eletta. 

Non  so  se  venti  sere  l'havrebbe  replicata 

Sempre  a  Teatro  pieno  d'applausi  accompagnata. 

Io  tornerò  al  disegno,  ti  ubbidirò  tra  poco, 

E  tu  occupar  potrai  il  mio  lasciato  loco. 

I  Comici  ben  sai,  via,  fatti  onor  se  puoi, 

Vediam  chi  miglior  sorte  incontrerà  di  noi. 

Che  i  miei  comedianti  non  vidi  mai  dolere, 

Per  me  la  sol  memoria  mi  recherà  piacere. 


—  172  — 

Che  in  pie  talor  restava  colui  tardi    arrivato 

E  che  ogni  palco  avanti  due  giorni  era  affittato. 

Dirai  :  erano  pazzi  ;  rispondo  :  Il  crederei 

Se  stati  fosser  cinque,  se  stati  fosser  sei. 

Ma  quei  Pazzi  a  migliaia  grand* utile  portorno, 

Sempre  al  Teatro,   e  sempre  poi  con  piacer  tornorno. 

Fa  le  tue  prove  prima,  poi  sferza  con  ragione, 

E  allor  la  man  primiero  ti  bacerà  Cerlone. 

Ma  se  con  un  sonetto  mormori  i  scritti  miei 

(Perdona  s'io  ti  lodo)  un  Asino  tu  sei. 

Tu  della  mia  Giustina  mormorator  ti  fai 

Ed  i  difetti  suoi  perchè  assegnar  non  sai  ? 

Se  dici  da  Romanzi  che  ho  le  Commedie  estratte, 

Queste  (se  colpe  sono)  Goldoni  ancor  le  ha  fatte. 

Un  Metastasio,   un  Chiari  prendon  da  libri  ancora, 

E  che  perciò  ?  Il  Mondo  l'opre  lor  non  onora  ? 

Se  gelosia  ti  spinge,  se  invidia  il  cor  ti  morde, 

Prepara  la  tua  cetra,   e  dà  moto  alle  corde. 

Accettan  di  buon  cuore  1  Comedianti  Amici 

Un  tuo  componimento,  basta  che  glielo  dici. 

Forse  quel  che  da  parte  deposero  per  me, 

Se  un  opra  li  darai  rifonderan  per  tè. 

Non  ti  gonfiar  che  abbia  risposto  a  te  Cerlone, 

Talor  ti  dà  diletto  confonder  un  coglione. 

Impara  a  mormorare  chi  non  ti  offese  mai, 

E  non  far  più  sonetti  giacché  far  non  li  sai.   (1) 


(1)  Mi  viene  sottocchi,  mentre  rivedo  le  bozze  di  stampa  di  questo  libro 
un'  operetta  sacra  di  tal  Nicola  Vottiero  :  Chi  è  Vero  divoto  a  Maria  non 
può  dannarsi,  stampata  in  Napoli  nel  1781 — (Biblioteca  Lucchesiana.  Prima 
Sala  22.  11.   20).   Il  Vottiero,  in  una  brevissima  prefazione  ad  essa,  prega 


—  173  — 

Cerlone  :  buon  ricamatore  e  cattivo  comico  ;  in  aratro  bos 
in  quadriges  equus  è  il  dettato  greco  :  queste  parole  di  co- 
lor non  oscuro  il  Martorana  trovò  appiedi  a  una  delle  sa- 
tire di  Pietro  Napoli-Signorelli,  intitolata  X Jlnti-maschera. 
La  misteriosa  persona  che  avea  comprato  quel  libro    n'era 


lettore  di  non  censurarlo,  stante  che  io  —  soggiunge  —  mi  dichiaro  qual  sono 
semplice  idiota....  (I) 

L'opera  fu  rappresentata  parecchie  volte  :  è  una  delle  moltissime  che  si  re- 
citavano ne'  conventi  e  pare  che  altre  somiglianti  il  Vottiero  abbia  pure 
scritto.  Certo  è  che,  in  fronte  al  libro ,  son  due  sonetti  di  due  suoi  ammi- 
ratori, per  quanto  idiota  egli  fosse.  E  un  di  questi  sonetti  è  del  signor  Fran- 
cesco Cerloni  (sic),  ed  è  sconosciuto,  fin  qua,  a  quanti  del  Cerloni  hanno 
scritto.  Lo  riproduco    appresso  : 

Col  velen,  cui  se  stessa  ange  e  divora, 

disse  l'Invidia  al  grande  Apollo  un  giorno  ; 
Deh,  perchè  mai  de'  suoi  Rivali  a  Scorno 
illustri  un  Uom,  ch'è   in  fresca  etade  ancora? 

Lo  volesti  erudito  ?  Eccolo  ogn'ora 

di  belle  Scienze  e  di  Virtudi  adorno  : 

Lo  volesti  distinto  ?  Eccolo  intorno 

al  gran  Parnaso  onde  il  suo  stil  s'onora. 

Smania  I  —  Apollo  rispose  —  e  mordi  il  suolo  : 
la  carriera  di  lui  non  è  compita; 
io  lo  destino  a  più  sublimi  onori. 

L'Estro  del  mio  Vottiero,  il  vanto,  e  il  volo 
sarà  del  mio  pensier  cura  gradita: 
onde  strappati  il  crin,  ruggisci  e   mori 

L'altro  sonetto  laudativo  è  di  don  Antonio  Spinelli  e  non  dice  cose  meno 
pompose. 


—  174  — 

andato,  man  mano,  postillando  le  pagine  e,  capitato  in  certi 
versi  del  Signorelli ,  che  citano  i  mimi  di  Cerlone  ,  così  li 
aveva  annotati.  Contemporaneo  il  Signorelli,  forse  contem- 
poraneo pur  l'annotatore  ;  oramai  la  provenienza,  per  così 
dir,  serica,  del  nostro  Cerlone  non  mi  par  cosa  da  risve- 
gliar più  discussioni  o  ricerche. 

XXVII. 

Ch'egli  abbia  avuto  de'  fratelli  è  pur  certo,  e  potette  ben 
essere  suo  fratello  quel  Filippo,  autore,  come  abbiamo  visto, 
dell'Ora/on'o  a  S.  Qaetano.  Il  Settembrini  fa  menzione  di 
altri  due  Cerlone  laureati  in  legge,  d'un  Domenico,  d'un 
Giuseppe.  Il  Martorana  cita  un  Ottavio  Cerlone  (1789), 
autore  d'un  sonetto  con  la  coda.  Nella  dedica  che  fa  del 
XI  volume,  a  Don  Giampiero  Fabiani,  Cerlone  gli  dice 
tra  l'altro  : 

,  Die  l'ultima  mano 

Di  vostre  glorie  al  quadro  l'amabil  mio  germano  ; 
Egli  qui  giunto  dissemi  quanto  gentil  voi  siete, 
Che  delle  mie  commedie  già  tutti  i  tomi  avete, 
Che  in  nobili  adunanze  onor  troppo  le  fate 
E  che  in  udirle  leggere  tutto  il  piacer  trovate  : 
Che  un  gran  teatro  fisso  nel  vostro  proprio  tetto 
Avete  a  forza  d'oro  superbamente  eretto. 
Ivi  le  mie  commedie,   di  cui  sì  amante  siete, 
Con  fasto  e  con  decoro  rappresentar  solete... 

Ecco  un  fratello,  e,  per  giunta,  viaggiante,  che  capita 
in  una  di  quelle  molte  case  signorili  ove,  specie  in  tempo 
di  villeggiatura,  le  commedie  cerloniane  facevano    le  spese 


—  175  — 

del  privato  divertimento.  In  verità  esse  andavano  da  per 
tutto.  Nel  1772  il  Governatore  di  Penne  «rappresenta  a 
S.  M.  esser  vero  che  D.  Giacinto  Mazzaccone  ha  fatto 
rappresentare  a  sue  spese  nel  pubblico  teatro  di  detta  città 
due  commedie  del  Ciarloni,  con  esporvi  i  ritratti  delle  Loro 
Maestà  in  alto  della  platea  con  decente  pompa  accompa- 
gnata da  cere.  Riferisce  ancora  che  dopo  il  parto  della 
Sovrana  il  d.  Mazzaccone  ne  intende  rappresentare  un'altra 
a  sue  spese  nel  publico  Teatro,  cioè  il  Comediante  onorato 
e  cerca  di  essere  garantito  dalla  Corte  locale  con  prestar- 
gli gli  espedienti  economici  per  frenare  i  tumultuosi  che 
portansi  a  sentire  tali  recite.  Su  tale  esposto  egli  stima  po- 
terglisi  accordare  la  chiesta  licenza  di  far  rappresentare  la 
d.  comedia  che  intende  dedicare  alla  Maestà  della  Regina 
in  ossequio  e  segno  di  allegrezza  dopo  lo  sgravamento  »  (I). 
Nel  1771  Domenico  Morelli,  comico  della  compagnia  di 
Pasquale  Quintavalle,  chiede  di  poter  recitare  commedie 
di  Cerlone  a  Trani  (2);  nel  1777,  21  aprile,  tal  Tom- 
maso de  Rosa,  di  Torre  del  Greco,  comico  «  concerta  con 
alcuni  suoi  compagni  «  una  comedia  del  Ciarlone  intitolata  : 
La  finta  Contatrice,  per  rappresentarla  nella  villeggiatura  di 
Primavera  » .  E  chiede  il  permesso  «  di  poter  esigere  alla 
porta  due  grana  a  testa  ».  Ma  questo  è  niente.  Indovi- 
nate un  po',  nel  1 769,  chi  volle  assistere  alla  rappresen- 
tazione del  Colombo  nelle  Indie?  Nientemeno  che  S.  M. 
(Dio  guardi,  come  si  diceva  allora)  Ferdinando  IV,  al- 
lora diciottenne,  già  da  un  pezzo    marito    di    Maria    Caro- 


(1)  Archivio  di  Stato,   (ascio  teatrale  !I. 

(2)  JJrchivio  di  Stato,  fascio   teatrale   I. 


—  176  — 

lina.  «  Ambedue  le  Maestà  de'  nostri  Regnanti  —  dice  un 
giornale  del  tempo  —  godono  la  più  desiderabile  perfetta 
salute  per  consuolo  de'  Popoli  e  di  questa  Capitale  nella 
quale  continuano  a  risiedere.  Sabato  la  sera  si  compiac- 
quero di  scendere  nel  Gran  Teatro  di  S.  Carlo  e  gradirvi 
la  prima  recita  in  musica  del  Dramma  intitolata  la  Zenobia. 
Grande  fu  il  concorso  di  ogni  ordine  di  persone  per  tal 
motivo  in  detta  sera  tanto  nei  palchi,  che  nel  Parterre,  tutti 
godendo  dell'Amabilissima  presenza  delle  Maestà  Loro  ; 
le  quali  in  una  delle  precedenti  sere  restarono  servite  di 
rappresentare  nella  Gran  Sala  di  Corte  la  rinomata  Com- 
media del  Colombo  nelle  Indie  di  Francesco  Cerlone,  che 
per  la  novità  del  soggetto,  per  li  speciosi  intrighi  e  per  la 
vaghezza  delle  decorazioni  incontrò  il  pieno  Real  di  loro 
gradimento  e  di  tutta  la  Corte  che  v'intervenne»  (1).  Nel 
1 764,  quando  l'estrema  penuria  di  grano  affamava  Napoli,  pa- 
recchi componimenti  in  versi  furono  distribuiti  per  la  città, 
nella  triste  occasione.  La  raccolta  che  ne  fece  l'abate  Cuomo 
è  interessantissima  ;  in  grazia  sua  s'hanno  sott'occhi  moltis- 
simi di  que'  curiosi  pamphlets  dello  scorso  secolo.  Il  quale 
se,  per  un  verso,  si  addimostrava  aggraziato  e  mellifluo,  sa- 
peva ben,  per  l'altro,  maledettamente,  pungere.  Tra  le  con- 
tumelie contro  i  ministri  e  le  satire  atroci  agli  stipendiati  dal 
re,  trovo  ben  quarantotto  ottave  turibolarie.  Sono  intitolate 
Partenope  appiè  del  Re  Cattolico  e  scritte  in  chiara  cal- 
ligrafia .  Appiè  dell'ultima  ottava  un'  altra  penna  d'oca  ha 
soggiunto  :  L'autore  si  dice  essere  Francesco  Cerlone  (2).  E 


(1)  Gazzetta  di  Napoli,  20  giugno    1769. 

(2)  Ms.  Biblioteca  Cuomo,   41-4-7. 


—  177  — 

anche  questo  dimostrerebbe  la  notorietà  del  Cerlone  fin  dalla 
prima  metà  del  secolo.  Non  pur  la  notorietà  artistica  quanto 
quella  tale  smania,  che  sempre  ebbe,  di  gettarsi  alle  ginoc- 
chia di  tutti. 

XXVIII. 

In  fuori  del  Lorenzi,  Cerlone  non  ebbe  concorrenti  pe- 
ricolosi. Nel  1 769,  quando  il  suo  Colombo  era  rappresen- 
tato davanti  al  re  e  qualcuna  delle  commedie  già  andava 
per  le  mani  della  Corte,  rilegata  in  cordovano  rossa  con 
pulito  tassello  in  oro,  la  Gazzetta  non  altro  annunziava  se 
non  de'  nuovi  romanzacci  del  Chiari,  la  sua  ^urca  in  ci- 
mento, il  Don  'Postiglione,  overo  Gli  Amanti  francesi  di 
Simone  Rossi  e  due  altre  commedie  :  //  servo  fedele  e  il 
Contino  Francavigliola  di  anonimo  autore.  E  in  fine  del- 
l'anno il  Vinaccia  publicava  una  Sagr atragicomica  (sic) 
di  S.  Ciro  e  Compagni  martiri  e  una  commedia  profana» 
intitolata  :  Lo  Crapettaro,  overo  Li  Cavaliere  a  posticcio, 
dello  stesso  autore  della  Sperciasepe  e  del  'Don  Liberio, 
tanto  dal  publico  desiderate. 

XXIX. 

I  quattordici  volumi  della  seconda  edizione  che  publicò 
il  Vinaccia  del  teatro  di  Francesco  Cerlone  contengono  le 
seguenti  commedie  : 

I.  Gl'Inglesi  in  America  o  sia  il  Selvaggio  —  La  vera  Con- 
tessina  —  La  Gara  fra  l'Amicizia  e  l'Amore  —  La  Pamela  Nu- 
bile. 

DI  GIACOMO.  -  5.   Carlino.  I  2 


—  178  — 

II.  La  Pamela  maritata — L'Ippolito  —  La  dama    di    Spirito 

—  La  Filosofante  riconosciuta. 

III.  La  Filosofante  Fortunata  —  L'Apparenza  inganna  —  La 
Debora  o  sia  il  difficile  fatto  facile  dall'impossibile  —  Lo  spec- 
chio dei  cavalieri. 

IV.  Il  cavaliere  Napolitano  in  Parigi  —  L'Albumazzare  ti- 
ranno d'Ormus  —  Il  Muleas  re  di  Marocco  —  Il  cavalier  na- 
politano in  Costantinopoli. 

V.  La  Zaide  in  Napoli  —  La  Ninetta  ricamatrice  —  La  finta 
cantatrice  —  La  virtù  fra'  barbari  o  sia  la  Turca  fedele. 

VI.  L'Amar  da  cavaliere  o  sia  la  Doralice  —  I  veri  amanti 
o  sia  i  sventurati  (sic)  per  amore  —  Gli  Amanti  Inglesi  o  sia  la 
Contessa  di  Walvich  —  Il  Commediante  onorato  o  sia  il  Sigi- 
smondo. 

VII.  Il  Generoso  Indiano  —  La  Dama  maritata  vedova  e 
Donzella  —  La  Clorinda  o  sia  l'amico  traditore  —  Il  Colombo 
o  sia  la  scoperta  delle  Indie. 

VIII.  Gli  Empi  puniti  o  sia  il  quartatto  del  Colombo  — 
L'amare  per  destino  o  sia  la  Clarice  —  Vasco  Gama  o  sia  la 
Scoperta  delle  Indie  orientali  —  L'amor  di  figlio  posto  a  cimento 
o  sia  il  Cromvello. 

IX.  La  Zoreide  —  Il  Goffredo  —  Le  avventure  di  Enea  —  Il 
finto  Principe  —  con  la   «  Preziosa  »   che  serve  di  terz'atto. 

X.  L' Aladino  —  L'Amor  vendicativo  —  A  cader  va  chi 
troppo  in  alto  sale  o  sia  il  Kouli-Kan  —  La  beltà  sventurata  o 
sia  la  forza  del  destino. 

XI.  Arsace  —  Non  ha  cuore  chi  non  sente  pietà  —  Il  Ti- 
ranno Cinese  —  La  sofferenza  premiata. 

XII.  La  forza  della    bellezza — La  morte    del    Conte    Upsal 

—  Gli  amori  sventurati  o  sia  l'Ariodante  —  Il  Zingaro  per  amore. 

XIII.  La  Cunegonda  in  Egitto  —  L'Armelindo  —  Il  Vassallo 
Fedele  —  Sopra  l'Ingannator  cade  l'inganno. 

XIV.  Il  Re  de'  Genii  —  11    Solimano  —  Il  mostro  Turchino 

—  La  Finta  molinara. 


—  179  — 

Al  Fiorentini,  nell'inverno  del  1768,  si  dette  L'Osteria 
di  SKCarechiaro,  con  musica  dell'  Insanguine,  sessanta  sere 
di  seguito.  Nel    1 769  il   Colombo. 

Al  Nuovo,  nello  stesso  anno,  in  carnevale,  Cerlone  esor- 
disce col  barone  di  Crocchia,  un  intermezzo  musicato  da 
Giuseppe  Gazzanica.   Al  Barone  di  Trocchia  fanno  seguito  : 

/  scherzi  di  Jlmore  e  di  Fortuna  (estate  del  1 770),  musica 
di  Giovanni  Paisiello, 

La  Dardanè  (primavera  del  1772),  musica  di  Paisiello,  in- 
terpreti la  Monti,  Barese,  Andrea  Ferro,  Gennaro  Luzio,  la 
Montorsi,   la  Abenante  ed  Emmanuela  di  Nardo, 

La  Finta  'Parigina  (carnevale  del   1773),  musica  di  Cimarosa, 
Le  Jìstuzie  Amorose  (primavera  del  !  775),  musica  di  Paisiello, 
//  Principe  riconosciuto  (estate  del  1780),   musica  di  Giacomo 
Tntto,  interpreti  i  due  Casaccia  (Giuseppe  e  Antonio),  Andrea 
Ferraro,   Nicola  Grimaldi,  Rachele  d'Orta  e  Celeste  Trabalza. 
La  Marinella  (estate  del    1780),  musica  di  Tntto  e,    infine: 
Le   Trame  per  Jlmore  (terza  opera  del  carnevale  1  783),  mu- 
sica di  Giovanni  Paisiello. 

Cinquantasei  commedie  in  prosa,  dieci  per  musica;  ecco 
il  copioso  contributo  che  alla  commedia  popolare  e  all'opera 
buffa  napoletane  ha  dato  Francesco  Cerlone. 

XXX. 

Ho  tutte  riletto  le  commedie  cerloniane  ;  dico  riletto  da 
che,  la  prima  volta,  lo  ebbi  per  le  mani  fanciullo.  E  quasi 
io  rimpiango  quel  tempo  ;  esso  mi  lasciava  correr  dietro, 
senza  armarmi  del  pungolo  della  critica,  all'eroicomica  del- 
l'autor favorito  che  rallegrava  la    mia    adolescenza.    Quella 


—  180  — 

fiaba  era  pascolo  alla  mia  fantasia  disordinata  ed  avida, 
quella  melodrammatica  sentimentalità  non  durava  assai  fa- 
tica in  commovermi  e  la  scena  comica,  onde  s'intermezzava 
di  volta  in  volta  l'azione  spettacolosa,  empiva  di  frequenti 
risate  la  complice  stanzuccia  ove  m'avevano  posto  a  stu- 
diare. Or,  non  avrei  più  pensato,  in  quel  tempo  d'ingenuo 
apprezzamento,  di  dovere  un  giorno  frugare  in  biblioteche 
per  ritrovare  quelli  amati  volumi  e  scorrerli,  questa  volta, 
daccapo,  con  sì  diversa  intenzione.  Segue  in  me,  adesso 
che  gli  ho  riletti,  un  curioso  fatto;  per  un  verso  io  son  contento 
di  contribuire,  col  novello  esame,  alla  storia  settecentesca 
della  commedia  popolare  napolitana,  e  per  l'altro  m'affligge 
dover  condannare  lo  scrittor  beneamato  onde  s'accontentarono 
così  facilmente  i  miei  semplici  gusti  di  tanti  anni  fa  ! 

Ma  egli  non  marita,  addirittura,  d'  esser  lapidato.  Che  cosa 
offeriva  di  meglio  il  suo  tempo  ?  L'  opera  buffa  del  Lorenzi 
era  più  italiana  in  lingua,  è  vero,  e  sentiva  d'  una  piace- 
volezza più  fine  e  con  garbo  maggiore  era  presentata  a  un 
miglior  publico.  Egli  era  un  letterato  ;  però  molte  delle  cose 
sue  chiedevano  spettatori  intelligenti  e  colti  e  si  rivolgevano 
particolarmente  ad  essi.  Nel  Lorenzi,  non  so  come  battez- 
zato commediografo  aristofanesco  dell'  epoca,  certo  l' inten- 
zione della  satira  è  talvolta  maggiore  di  quella  del  compo- 
ponimento  scenico  :  la  caricatura  serpeggia  continuamente 
per  la  comica  esposizione  della  sua  favola.  Queste  inten- 
zioni, entro  alle  quali  si  diceva  che  soffiasse  quel  bizzarro 
spirito  dell'  abate  Giliani,  sono  palesi.  Certo  non  furono 
assolute  ;  ma  il  Lorenzi  credette,  senza  dubbio,  che  se  ne 
dovessero  avvantaggiare  la  sua  comica ,  il  suo  spirito,  la 
sua  grande  e  singolare  facilità,  la  veste  ricca  e  piacente  che 
seppe  dar  sempre  a'  suoi  versi. 


—  181  — 

Cerlone  ebbe  un  solo  scopo  :  quello  d' interessare  il  suo 
publico.  Adoperò  tutti  i  mezzi,  anche  i  più  volgari  ,  per 
conseguirlo:  e  vi  riesci.  La  sua  fantasia  gli  suggerisce  con- 
tinuamente le  più  eroiche  trovate,  ma  egli  ha  1'  accortezza 
di  disseminarle  d'  una  larga  e  geniale  comicità  napoletana. 
Siamo,  magari,  nelle  Indie,  tra  selvaggi  e  paurose  deità  ed 
umani  sacrificii,  ed  ecco,  nel  seguito  di  Vasco  de  Gama, 
qualche  piacevolone  partenopeo,  le  cui  disgraziate  avventure 
rifanno  della  precedente  commozione  gli  spettatori,  abban- 
donandoli alla  più  saporita  ilarità.  E  alla  vis  comica  non 
poche  volte  il  Cerlone  accoppia,  nelle  scene  dialettali,  una 
vivacità,  una  genialità  di  dialogo  tali  da  farlo  giudicare  con 
assai  lusinghiero  apprezzamento.  E  un  peccato  che  questo 
orecchiante  d'  arte  non  abbia  potuto  trattare  con  la  stessa 
spontaneità  i  suoi  personaggi  serii,  fantocci  che  si  assomi- 
gliano tutti  in  certa  baroccheria  di  moto  e  di  parole  la 
quale  fa  rivoltare  lo  stomaco.  Ma  poteva  egli  rimanersene 
in  tutto  nell'  ambiente  del  popolo  ?  Il  tempo  suo  non  glie  lo 
permetteva  ;  1'  abitudine  della  lunga  servitù  avea  da  un  pezzo 
tolto  alla  plebe  il  diritto  di  stimarsi  e  la  coscienza  di  se  me- 
desima. La  sua  ignoranza  non  le  assegnava,  nella  comme- 
dia, se  non  un  sol  compito  la  buffoneria;  e  gli  scrittori  di 
cose  popolari  non  trovavano  altro  da  cavar  dal  popolo  se 
non  quella  sua  espressione  d'estrema  inferiorità.  Nessun  palpito, 
non  un  grido  del  cuore,  non  una  qualunque  vibrazione  di 
verità  ;  la  miseria  che  si  sganasciava  dalle  risa,  e  nient'altro. 

Dunque  voli,  trasformazioni  a  vista,  espugnazioni  di  ca- 
stelli con  ogni  sorta  di  macchine  occorrenti,  oscure  grotte 
abitate  da  ladri,  truppe  viaggianti  di  zingari  col  relativo  lor 
Clopin  Trouillefou,  battaglie  navali,  trabocchetti,  avvelena- 
menti, ecco  1'  eroico  materiale  che  Cerlone  poneva  in  iscena 


—  182  — 

con  le  medesime  sfarzose  intenzioni  del  Liveri,  dal  quale 
aveva  imparato  a  offrire  agli  spettatori  codesta  facile  gastro- 
nomia dell'  occhio.  Il  barocco  dialogo  dei  personaggi  prin- 
cipali sempre  pomposo,  esagerato,  retorico;  quello  dialettale 
acconcio,  pieno  di  grazia  e  di  virtù  comica.  Ma,  studiandovi 
bene,  si  potrebbe  dire,  tuttavia,  che  nei  personaggi  i  quali 
parlano,  nella  commedia  cerloniana,  il  dialetto,  la  verità  è 
più  in  quello  che  dicono  che  in  quello  che  fanno. 

XXXI. 

In  quanto  alla  esumazione  (che  si  attribuisce  a  Cerlone) 
del  Pulcinella,  e  alla  creazione  che  egli  avrebbe  fatta  del 
1)on  Fastidio,  non  sono  d'  accordo  con  coloro  che  ne  ri- 
vendicano il  vanto  al  nostro  autor  comico.  Certamente  egli 
si  giovò  molto  di  quella  maschera  e  la  fece  intervenire  in 
parecchie  delle  sue  produzioni,  ma  questo  seguì  precisa- 
mente perchè  1'  attore  che  la  rappresentava  glie  ne  fece  ve- 
nir voglia,  col  suo  grandissimo  merito.  Il  Pulcinella  non 
comparisce  nelle  prime  commedie  del  Cerlone  ;  vi  appare 
quando  Vincenzo  Cammarano  ha  già  la  stessa  gloriosa  no- 
mea del  di  Fiore.  Cerlone  non  lo  ha  ripescato,  lo  ha  so- 
lamente ritrovato,  e  ha  saputo,  accortamente,  lasciargli  pren- 
der parte  maggiore  alla  confezione  dei  suoi  pasticci.  Non 
ha  scritto  per  lui  ;  chiunque  ha  pratica  di  palcoscenico  e 
di  concerti  può  testimoniare  dell'  assoluta  libertà  che  Pul- 
cinella vi  gode  ;  egli  è  il  solo,  fra  gli  attori  della  nostra 
scena  dialettale,  al  quale  sia  tuttora  concesso  di  poter  rimanere 
nelle  abitudini  d' improvvisazione  della  commedia  dell'arte. 
La  parte  di  Pulcinella  non  si  scrive,  e  mi  par  che  lo  dica  lo 
stesso  Cerlone.  Se  non  lo  dice,  lo  addimostra  coi  fatti  ;  nelle 


—  183  — 

sue  commedie  col  Pulcinella  gli  lascia,  per  lo  più,  la  scena 
a  soggetto,  e  passa  avanti. 

Ne  Celione  ha  creato  il  personaggio  di  Don  Fastidio. 
Il  merito  dell'  invenzione  spetta,  per  quanto  afferma  un  con- 
temporaneo (I),  a  quel  Giuseppe  Pasquale  Cirillo,  che  as- 
sieme al  Lorenzi  recitava  nel  teatrino  domestico  del  duca 
di  Maddaloni  (2)  ed  aveva  anche  un  altro  teatro  di  filo- 
drammatici a  casa  sua.  Il  cattedratico  Cirillo  che,  per  met- 
tere in  burla  un  paglietta  molto  conosciuto  per  la  sua  bes- 
saggine  cercava  1'  attore  che  ne  sapesse  vestire  i  panni  e 
l' ignoranza,  capitò  un  giorno  in  un  barbiere  «  alto,  allam- 
panato e  con  un  naso  meraviglioso  ;  proprio  tal  quale  il 
paglietta  di  cui  voleva  far  la  caricatura  » .  Costui  si  chia- 
mava Francesco  Massaro.  E  il  Bartoli  così  scrive  di  lui  : 
«  Egregio  comico  napolitano  che  sotto  il  nome  di  Don  Fa- 
stidio rappresentò  il  carattere  d'  un  servo  accorto  e  piace- 
vole, parlando  nella  sua  lingua  nativa  e  mescendo  ai  sali 
faceti  alcuni  proverbi  sentenziosi  e  accompagnando  il  tutto 
coi  gesti  caricati  e  ridevoli,  recando  gran  diletto  sui  tea- 
tri della  sua  Patria.  Era  un  gran  commediante  e  conosceva 
a  meraviglia  il  teatro  e  il  genio  dei  suoi  nazionali  ;  però 
bastava  eh'  egli  volesse  cavare  le  risate  di  bocca  degli  spet- 
tatori che  facevalo  agevolmente  e  con  qualche  frizzante  pa- 
rola o  con  un  sberleffo  caricato,  sgangheratamente  piangendo 
o  ridendo,  rendendosi  padrone  dell'  animo  altrui,  imprimen- 
dovi a  sua  voglia  la  dilettazione  ed  il  piacere.  Francesco 
Cerlone,  comico  poeta,  vedendo  la  costui  abilità,  pensò  di  va- 


(1)  VINCENZO  M.  ClMAGLIA— Saggi  teatrali  analitici,   Napoli. 

(2)  Vedi  pag.    5ó. 


—  184  — 

lersene  nelle  sue  commedie....  »  Più  avanti  aggiunge  :  «  Fu 
molto  stimato  questo  bravo  comico  dagli  stessi  professori, 
perchè  tutto  in  lui  parlava,  e  camminando  e  gestendo  e  le- 
vando il  cappello  e  stando  immobile  :  effetto  di  uno  stu- 
dio fondato  e  fatto  da  lui  nella  difficile  scuola  del  teatro». 
Cerlone  lo  adocchiò  e  se  ne  giovò  per  le  sue  commedie. 
Ma  consultandole  io  non  vi  ritrovo  Don  Fastidio  se  non  in 
dieci  soltanto  delle  cinquanta  e  più  che  scrisse  1'  ex  rica- 
matore.  Quel  vecchio  Sciosciammocca  del  1 700  non  potette 
a  lungo  servire  Cerlone.  Una  sera  ,  nel  1 768  ,  il  publico 
della  Cantina,  mentre  applaudiva  freneticamente  il  Massaro, 
lo  vide,  d' un  subito,  arrovesciarsi  addietro  e  stramazzar  con 
un  grido  sul  palcoscenico.  Cessarono,  come  d' incanto,  le 
risate  e  gli  applausi.  Gli  attori,  sgomentati,  affollarono  il  pal- 
coscenico, e  Pulcinella,  con  gli  altri,  si  chinò  sul  povero 
e  inerte  Don  Fastidio.  Vi  fu  un  gran  silenzio  ;  gli  spettatori 
aspettavano,  ansiosi,  ritti  nei  palchi.  E  a  un  tratto  la  voce 
d'un  di  quelli  attori  annunziò,  tremante  :  —  Signori,  France- 
sco Massaro  è  morto  !... 

XXXII. 

Nessuno  più,  eh'  io  sappia,  rappresentò  in  appresso,  con 
ugual  valore,  quel  comico  personaggio.  Cerlone  gli  sostituì 
altri  buffi  chiamandoli  :  Don  Taddeo  Pacca,  Don  Alessio 
'Pellecchia,  Don  Tullio  Guallecchia,  Don  Crisostomo  Ci- 
polla. Ma  1'  attore  che  ne  rappresentò  le  parti  caricate  la- 
sciò, certo,  ricordare  e  rimpiangere  il  povero  Massaro.  D'un 
secondo  Don  Fastidio  parla,  tuttavia,  con  molta  lode,  il 
Bartoli  ;  si  chiamava  Luigi  Parisi.  «  Recita  egli  —  dice  il 
Bartoli  —  nel  faceto  e  ridicoloso  personaggio  napolitano  in- 


—  185  — 

titolato  Don  Fastidio  e  vi  riesce  con  molta  grazia  piacendo 
universalmente  in  ogni  città  » .  Il  Parisi  conduceva  con  se 
la  moglie  Sandrina,  e  il  loro  cavallo  di  battaglia  era  la  com- 
media cerloniana  intitolata  :  Le  avventure  di  donna  Irene. 
Ma  non  recitavano  a  Napoli.  La  Sandrina  comparve  per 
la  prima  volta  in  Lombardia,  nella  compagnia  di  Pietro  Fer- 
rari, poi  andò  a  Firenze,  a  Bologna,  a  Livorno,  sempre  ac- 
compagnata dal  marito.  Nel  1781  era  appunto  a  Bologna, 
ove,  fingendo  in  iscena  di  voler  dividere  due  attori,  rima- 
neva ferita  di  spada  in  una  mano. 

XXXIII. 

Francesco  Celione  morì,  vecchio,  intorno  al  1812  (1). 
Vecchio  e  povero,  si  capisce;  gloria  parecchia,  quattrini  po- 
chissimi. E  non  gli  credete  quando  vi  spiffera  che  le  sue 
tasche  son  piene  d' oro  ;  questo  gli  sarà  successo  una  volta 
sola  in  vita  sua.  D' altra  parte  egli  amava  assai  più  sentirsi 
lodare  da  un  qualche  rispettabil  soggetto,  o  sapersi  protetto 
da  una  bella  signora,  alla  q  uale  offriva  un  volume  di  com- 
medie rilegato  in  cordovano,  che  aver  molti  scudi  in  sac- 
coccia. Egli  fu  un  ingenuo  ,  buono  ed  inoffensivo  scritto- 
rucolo  del  settecento  ,  ingegnoso  e  piacente  ,  vero  portato 
d'  un  popolo  che  la  greca  eredità  della  gaiezza,  del  brio, 
del  parlar  facile  e  pronto,  accoppiata  a  una  grande  igno- 
ranza ,  accompagna  nella  continua  indifferenza  delle  di- 
sgrazie e  nell'eterna  incoscienza  della  verità.  La  commedia 
dell'  arte,  eh'  egli    pur  allontanò   dalla  scena   popolare,   non 


(I)  II   Martorana   lo  dice  morto  a  77  anni.   Sarebbe  nato   nel    1735. 


—  186  — 

fece  posto  a  una  riforma  seria  ;  la  nuova  creatura  non 
ebbe  più  ricche  vene,  né  più  buon  sangue  corse  per  esse. 
Si  rise  un  poco  più,  questo  è  vero.  E  come  la  risata  non 
così  presto  si  scorda,  così  è  seguito  che  il  nome  di  Cer- 
tame, legato  alle  più  felici  tradizioni  della  giocondità,  vive 
tuttora. 


%%  ì'f 


—  187  — 

XXXIV. 

Fu  giusto  negli  ultimi  anni  del  settecento  e  della  fecon- 
dità cerloniana  che  principiò  1*  agonia  della  Cantina,  men- 
tre Tommaso  Tomeo,  che  intorno  al  1 763  ne  aveva  fortunata- 
mente assunto  l'impresa,  credeva  di  potersi  lungamente  rinta- 
nare  in  quel  fosso  con  la  sua  compagnia.  Nell'agosto  egli  la 
conduceva  al  teatro  della  Fiera,  preso  a  pigione  da  Anto- 
nio Iolli  «  pittor  di  Corte  e  del  Real  Teatro,  che  non  ha 
saputo  finora  disegnar  figure  ne  ha  capito  mai  il  punto  di 
prospettiva  (1)  ».  In  quaresima  faceva  recitar  tragedie  sacre 
e,  talvolta,  nei  primi  mesi  dell'  estate,  si  metteva  in  giro 
coi  suoi   comici  per  le  provincie  napoletane. 

Dal  1  763  al  1  769  le  carte  d'  Archivio  non  fanno  parola 
del  Tomeo,  non  ricordan  più  altre  le  miserie  morali  e  ma- 
teriali della  Cantina.  Sulla  fine  del  '69  Onofrio  Mazza,  a 
nome  suo  e  dei  compagni  del  Fosso,  chiede  di  potere  usare, 
per  recitarvi,  d'  un  «  rimessone  dei  Reverendi  Padri  Ago- 
stiniani »  a  Portici.  (2)  «  I  PP.  di  S.  Agostino  —  soggiunge 
alla  supplica  1'  uditor  dell'  Esercito  —  non  accordano  il  lo- 
cale se  prima,  com'  è  giusto,  non  ottenga  la  compagnia  de' 
comici  da  S.  M.  la  dovuta  licenza  ».  E  il  re  la  concede. 
E  Tanucci  raccomanda,  in  margine  del  permesso  :  «  Si  prov- 
veda pel  buon  ordine  e   disciplina  » . 


(1)  Raccolta  di  varii  componimenti  per  la  carestia  del    1764 — Bibl.  Mu- 
nicipale Cuomo,   M. 

(2)  Rimessone  :   grande  scuderia. 


—  188  — 

Poco  dopo  la  compagnia  Tomeo  chiese  di  poter  recitare 
a  Caserta,  ove  il  re  villeggiava  e  i  comici  s'erano  recati. 
Questa  volta  Ferdinando  IV  si  seccò  della  petulanza  e  non 
volle  conceder  nulla.  Lo  seppe  1*  uditore  Pirelli,  colse  la 
palla  al  balzo  e,  profittando  del  quarto  d'  ora  di  disgusto 
del  re,  nel  23  novembre  dello  stesso  1 769,  scrisse  a  Ta- 
nucci  : 

«  Don  Nicola  Pirelli,   uditore  dell'  Esercito. 

«  In  seguito  dell'  ordinatogli  che  non  volendo  il  Re  che 
gì'  Istrioni  del  Largo  del  Castello  vadano  in  Caserta  a  rap- 
presentare le  loro  commedie,  durante  la  permanenza  della 
Corte  in  quel  R.  Sito,  dice  che  subito  fece  avvisato  il  capo 
della  compagnia  dandogli  l' ordine  suddetto  in  nome  di 
S.  M.  e  lo  fece  obbligare  di  obbedire  sotto  pena  di  5  anni 
di  presidio,  e  lo  stesso  farà  con  gli  altri  subito  che  si  siano 
ritirati  da  questo  R.  Sito,  ove  si  ritrovano,  e  perchè  que- 
sti Istrioni  non  possono  caminare  per  il  Regno  senza  il  per- 
messo R.  ha  creduto  di  far  obbligare  il  Principale  di  detta 
compagnia  di  non  andare  nei  luoghi  di  permanenza  di 
S.  M.  senza  il  preventivo  ordine  di  V.  E. 

«  Con  questa  occasione  rassegna  a  V.  E.  che  questo 
teatro  d'Istruzioni  sta  situato  in  Napoli  sotto  la  congrega- 
zione dei  Spagnuoli  di  S.  Giacomo,  in  cui  sta  di  conti- 
nuo il  Sacramento.  Quei  pochi  che  l'esercitano  sono  gente 
di  perduto  costume,  giacche  essi  ricavano  il  danaro  dal 
trattenere  gli  uomini  oziosi  e  sfacendati  della  città  di  giorno 
e  di  notte  con  rappresentazioni  che  puzzano  di  laidezza, 
ed  è  veramente  uno  scandolo.  Sarebbe  perciò  della  Sovrana 
Pietà,  e  della  Superior  Previdenza  di  V.  E.  il  distruggerlo 


-     189  — 

e  levarne  la  memoria,  perchè  si  tolga  un'arte  che    è    tutta 
cattiva,  che  si  professa  da  pochi  per  la  ruina  di  molti.  » 

«  Nicola  Pirelli.  » 

Lanciata  la  bomba  quel  caro  Pirelli  se  ne  stette,  mogio 
mogio,  ad  aspettarne  lo  scoppio.  Esso  non  tardò  a  farsi 
udire  :  e  fu  la  condanna  di  morte  della  Cantina.  Resti- 
tuendogli la  sua  lettera  ai  2  di  dicembre  dello  stesso  anno, 
Tanucci  vi  scrisse  appiedi  queste  semplici  parole  :  //  Re 
si  è  uniformato.  Che  altrimenti  dicevano  :  Fate  pure  ;  cac- 
ciate gl'istrioni  e  chiudete  la  Cantina.  Immaginarsi  la  con- 
tentezza di  Pirelli  !  Neil'  8  dicembre  riscrive  puntualmente 
a  Tanucci  : 

«  Eccellenza. 

«  Ho  immediatamente  eseguito  il  sovrano  comando  da- 
tomi da  V.  E.  con  dispaccio  dei  2  del  corrente  pervenu- 
tomi ieri,  della  abolizione  della  compagnia  d'Istrioni  situata 
in  S.  Giacomo,  con  avere  ai  medesimi  ordinato  che  non  più 
si  uniscano  per  far  comedie,  con  aver  fatto  chiudere  il 
Luogo  della  loro  Adunanza  e  ne  farò  restituir  la  chiave 
al  Padrone,  con  imporli  di  servirsi  di  detto  luogo  per 
magazzino  come  prima  si  faceva.  Son  sicuro  che  per  questa 
degna  risoluzione  il  Signor  Iddio  benedirà  1'  Augusta  per- 
sona di  S.  M.  e  darà  a  V.  E.  che  n'è  stata  il  promotore 
tutto  il  bene  per  aver  tolto  il  gran  male  che  da  detti 
Istrioni  si  accagionava  alla  gente  che  va  perduta  per  l'ozio  ; 
e  pieno  d'ossequio  resto  umilmente  rassegnandomi 

«  Napoli,  8  dicembre    1 769. 

Umil.mo  Servo  vero 

«  Nicola  Pirelli.  * 


—  190  — 

XXXV. 

Così  Tommaso  Tomeo  e  i  suoi  commedianti  furono 
sfrattati  dalla  Cantina,  ove  si  era  recitato  fin  dal  1 720. 
Ora,  in  grazia  degli  scrupoli  del  Pirelli,  quel  posto,  che 
contava  quasi  mezzo  secolo  di  vita,  era  restituito  ai  topi, 
antichi  padroni  del  luogo.  Triste  Natale  quello  del  1 769 
pel  povero  don  Tommaso  !  A  mano  a  mano  la  Cantina  fu 
vuotata  e  in  piazza  del  Castello,  d'avanti  alla  chiesa  di  S. 
Giacomo,  se  ne  andarono  ammucchiando,  alla  rinfusa,  le 
scene  e  le  decorazioni.  A  mano  a  mano  erano  tratti  all'aria 
aperta  or  dei  gruppi  di  nuvole  che  la  vedevano  adesso 
per  la  prima  volta,  or  un  vascello  che  aveva  navigato  in 
molte  commedie  cerloniane,  or  un  trono  dorato  che  aveva 
accolto  tra  i  suoi  bracciuoli  di  cartapesta  imperatori  e  sul- 
tani. Tomeo,  con  le  lagrime  agli  occhi,  assisteva  all'inven- 
tario frettoloso.  Non  poche  volte  gli  dovette  sembrare  di 
vedersi  innanzi,  ironica  e  sghignazzante,  l'incadaverita  figura 
di  Gennaro  d'Amato,  l'impresario  dell'antico  San  Carlino,  a 
cui  tanta  guerra  egli  avea  fatto  e  che  or  se  ne  ripagava  con- 
templando quest'altra  rovina. 

Agli  8  di  dicembre  la  Cantina  era  chiusa.  Tommaso 
Tomeo  ne  dovette  pagare  la  pigione  fino  ai  4  di  maggio 
dell'anno  seguente.  So  questo  da  due  documenti,  che  pu- 
blico  appresso,  i  quali,  dopo  molto  frugare  nell'Archivio 
del  Banco  di   Napoli,  ho  avuto  la  fortuna  di  ripescare. 

Il  primo,  nel  libro  maggiore  del  Banco  di  S.  Giacomo, 
al  1770,  è  una  polizza  del  3  marzo  spesa  in  quel  Banco 
nel    10  marzo  stesso  del  '70.  Al  numero  3733  è  notato: 

«  Tomaso   tornei  ed  Elisabetta  d'Orso  ducati  venti.    E 


—  !91   — 

per  essi  alla  nostra  Casa  ed  Ospedale  e  sono  IO  per  la 
3?  maturala  ai  4  Settembre  1769  e  IO  per  la  3.&  dei  4 
Gennaio  1770  per  l'affitto  fatto  del  teatrino  al  Largo 
del  Castello  e  con  detto  pagamento  resta  soddisfatto  del 
passato  e  pagato  in  testa  di  D.  Carlo  <?%Caria  (^Cucciarli, 
qual'è  esattore  della  suddetta  Casa,  ad  esiggere  la  sudetta 
Summa  anco  per  Banco  e  quietare,  come  ne  fa  fede  notar 
Vito  3&artiello  di  ZNjipoli.  Jllla  detta  Cassa  pagato  — 
<Duc   20  ». 

L'altra  bancale  è  la  seguente  : 

«  Tomaso  tornei  ed  Elisabetta  d'Orso.  Fede  di  credito 
di  D.  10  del  dì  24  luglio  1770.  Cassa  S.  Qiacomo. 
Spesa  nel  dì  30  detto,  folio  del  libro  3733.  Qiornale  Cassa 
'Prima . 

«  E  per  essi  alla  R.  Casa  ed  Ospedale  di  S.  Qiacomo 
per  la  terza  maturata  al  4  maggio  1770  per  lo  affitto 
fattogli  d'un  basso  per  uso  di  farci  comedie  spettacoli  ed 
altro,  sito  nel  Largo  del  Castello,  restando  con  detto  pa- 
gamento la  medesima  R.  Casa  ed  ospedale  di  S.  Giacomo, 
e  come  tale  può  esigere  per  mezzo  di  nostro  Banco  la 
suddetta  somma  e  quitare  come  ne  fa  fede  notar  Vito 
JXCartiello  di  Napoli  —  T>uc.    IO». 

XXXVI. 

Povero  don  Tommaso  !  Sperando  nella  provvidenza  egli 
avea  preso  in  fìtto  la  Cantina  fino  al  maggio  del  1 770  ; 
queste  operazioni  di  Banco  lo  dicono  ben  chiaramente. 
Però  fu  tenuto  a  pagarne  la  pigione  per  ancora  altri  cinque 
mesi  dalla  chiusura  del  Fosso  ;  con  quale  animo,  immagi- 
natelo. Fra  tanto,  che  fare  ? 


—  192  — 

E  per  qualche  giorno  egli  non  si  fece  più  vivo.  S'era 
chiuso  in  casa  e  a  quanti  chiedevano  di  lui  faceva  rispon- 
dere ch'era  occupato  in  faccende  assai  gravi  con  la  cognata 
e  socia  Elisabetta  d'Orso.  Finalmente,  ricomparve.  E  per 
annunziare  che  tutto  era  accomodato  :  un  altro  teatro,  se  il 
re  lo  permettesse,  sorgerebbe  in  Piazza  del  Castello,  vi 
passerebbe  a  recitare  la  stessa  compagnia  della  Cantina  ed 
egli,  se  mai,  ve  la  riconfermerebbe  con  una  scrittura  di 
altri  tre  anni.  Aggiunse  che  il  nuovo  teatro  si  chiame- 
rebbe— con  un  vecchio,  reputato,  anzi  glorioso  nome — San 
Carlino  anch'esso. 


CAPITOLO  QUINTO. 

Il  nuovo  «San  Carlino*. —  La  compagnia  e  le  sue  av- 
venture. —  Documenti.  —  Il  Novantanove. 


S. 


OEGUIVA,  pur  in  quel  tempo,  un  avvenimento  impor- 
tante in  famiglia  Tomeo  :  don  Tommaso  si  ammogliava.  Lo 
sfratto  dalla  Cantina  lo  colpì  quando  già  era  per  diventar 
padre  ;  gli  nacque  difatti  il  primo  figliuolo  durante  la  frettolosa 
bisogna  dello  sgombero.  Don  Tommaso  il  moretto  gli  mise 
il  nome  dell'avo  :   Michele. 

Salvatore  Tomeo,  nipote  di  don  Tommaso,  era  nato  nel 
1 760.  Prese  moglie  lui  pure,  sul  cadere  del  1  780,  vivo  an- 
cora lo  zio.  Il  primogenito  ch'ebbe  volle  chiamare  col  nome 
dell'avo  :  Carlo.  Gli  altri  figli  che  ebbe  appresso  si  chia- 
marono :  Raimondo  ,  Maria  Michela  ,  Mariantonia  ,  Luisa, 
Maria  Giuseppa  ed  Emmanuella.  Quest'  ultima  portava  il 
nome  della  Serio,  sua  bisavola  ,  moglie  di  don  Michele  il 

--    193  - 
DI  GIACOMO.  -  S.   Carlino.  !  3 


—  194  — 

ciaravolo.    L'  unica  sorella    di  Salvatore  ,    chiamata    Lucia,, 
sposò  tal  Pietro  Negri. 

La  d'  Orso  (Elisabetta),  madre  di  Salvatore  Tomeo,  era 
ancor  viva  nel  1 770.  Donna  accorta,  borine  ménagère,  ella 
ricordò  sempre  ai  figliuoli,  Salvatore  e  Lucia,  i  loro  diritti 
sulle  case,  comprate  dall'antenato  loro  don  Carlo  il  vecchio, 
e  sul  teatro  della  Cantina.  Quando  la  Cantina  fu  chiusa, 
la  d'Orso  si  cucì  più  che  mai  a'  panni  del  cognato  don  Tom- 
maso, e  fu  lei,  si  dice,  che  lo  incoraggiò  a  chiedere  a  re 
Ferdinando  IV  il  permesso  di  fondare  un  nuovo  teatro.  Co- 
me don  Tommaso  //  moretto  lo  ottenesse  si  vedrà  da'  do- 
cumenti che  seguono. 


DOCUMENTI. 

ARCHIVIO  DI  STATO  DI  NAPOLI. 
FASCI  TEATRALI. 

V^INQUE  giorni  dopo  la  chiusura  della  Cantina  l'Uditore 
dell'Esercito  riceve,  da  Portici ,  questo  viglietto  firmato  da 
Tanucci  : 

«  Vuole  il  Re  che  la  Giunta  de'  Teatri  dica  perchè  si 
dismise  il  Teatro  del  Largo  del  Castello  detto  S.  Carlino, 
e  se  la  stessa  compagnia  di  quel  tempo  o  altra  fu  quella 
che  passò  a  rappresentare  sotto  le  grada  della  Chiesa  di 
S.  Giacomo  ,  e  perchè  vi  passò  ,  e  di  qual  condizione  ,  e 
costume  sia  quest'ultima  Compagnia.  —  Portici,  1 3  Dicem- 
bre  1769». 

La  Giunta  de'  Teatri,  a  mezzo  del  Pirelli,  risponde  : 

«  La  Giunta  rappresenta,  che  la  Compagnia  sotto  la  d.a 
Chiesa  vi  stava  da  gran  tempo  prima  che  fosse  eretto  il 
teatro  di  S.  Carlino,  tanto  che  questa  si  oppose  alla  di  lui 
erezione  senza  che  gli  fosse  riuscito  d'impedirla  ;  e  tolto  il 
d.°  Teatrino,  sbandati  gli  attori,  e  per  lo  più  erano  forestieri, 
i  paesani  restati  senza  quell*  arte  si  applicarono   per  vivere 

-  195  - 


—  196  — 

ad  altra  più  onesta  ed  utile  professione,  restò  sola  la  sud- 
detta Compagnia  d' Istrioni  di  S.  Giacomo  che  ha  fatto  le 
Commedie  in  quel  luogo  fino  a  che  V.  M.  non  ha  per- 
messo più  tale  arte. 

«  Circa  alla  condizione  e  costume  di  questa  ultima  Com- 
pagnia che  sta  sotto  S.  Giacomo  dice  la  Giunta  che  essen- 
dosi informata  ha  ritrovato  che  degl'individui  presenti  di  tal 
Compagnia  soli  due  hanno  sopra  di  loro  qualche  diffama- 
zione, e  tutti  gli  altri,  ò  sieno  uomini  ò  donne,  come  a  dire 
il  Capo  Trivelli  colla  moglie,  il  Giancola  colla  moglie,  ed 
una  romana  chiamata  Teresa  Martorini  col  marito,  vivono  one- 
stamente secondo  la   loro  condizione  senza  scandalo  alcuno. 

«  Il  male  però  non  è  a  quel  che  fanno  ma  a  quel  che 
dicono  gl'Istrioni,  i  quali  in  tutte  le  parti  sono  stati  imme- 
ritevoli di  riguardi,  di  maniera  che  non  si  è  di  loro  tenuto 
altro  conto  che  di  uomini  di  basso  carato,  e  per  quanto  se 
ne  sia  scritto  niun  meglio  che  V.  M.  gli  ha  definiti  nel  suo 
Reale  disp.0  con  dire  che  professano  un'  arte  che  è  tutta 
cattiva  pella  rovina  di  molti. 

«  L'  Uditor  Generale  ha  assicurata  la  Giunta  delle  con- 
tinue lagnanze  che  aveva  da  maggiori  p.  la  rovina  de'  figli, 
e  fra  gli  altri  don  Niccola  Alfieri,  giovane  casato  colla  fi- 
glia del  fu  don  Luigi  Simeone  per  amore  dell'attrice  Nina 
Lombardi ,  non  ostante  le  minacce  e  carcerazioni  ha  per- 
duto la  roba  sua  e  della  moglie. 

«  E  poi  il  Marchese  Amato  educato  nella  scuola  delle 
opere  di  detti  Istrioni  dopo  avere  menata  una  vita  libertina 
ha  fatto  l'eccesso  che  fece  (1)  con  scandalo  di  tutta  la  Città. 


(1)  Ho  invano  cercato  di  sapere  che  eccesso  fece. 


—  197  — 

«  Finalmente  i  vicini  dell'abolito  Teatro  di  S.  Giacomo 
supplicarono  V.  M.  perchè  vicino  alle  loro  case  non  si  for- 
masse altro  Teatro ,  come  avevano  sentito  pretendere  al- 
cuni. 

«  E  1'  Impresario  ed  Attori  del  sudetto  abolito  Teatro 
supplicarono  V.  M.  per  la  nvocazione  del  decreto  della 
abolizione  offerendo  di  fare  nel  medesimo  Comedie  pre- 
meditate riviste  dall'Uditore. 

«  Ed  avendo  V.  M.  ordinato  alla  Giunta  che  tenendo 
presenti  le  dette  suppliche  al  tempo  di  riferire  dicesse  il 
suo  parere  sulle  medesime  e  sulla  istanza  di  Tomaso  To- 
rnei principale  interessato  in  detta  compagnia  per  fare  un 
Teatro  in  alcuni  bassi  delle  sue  Case  situate  nel  Largo  del 
Castello  per  salvare  la  venerazione  alla  sudetta  Chiesa.  E 
che  nel  detto  teatro  voleva  nei  tempi  permessi  rappresen- 
tare coi  suoi  compagni  commedie  premeditate  scritte,  e  ri- 
viste dall'Uditor  dell'Esercito  come  si  fa  nel  Teatro  Nuovo 
e  dei  Fiorentini. 

«  Con  queste  due  cautele  offerte  dal  Tornei  di  fare  il 
teatro  in  luogo  profano  e  di  fare  recitare  solo  opere  preme- 
ditate, rivedute  ed  approvate  dall'Uditor  Generale  e  colla 
3.a  condizione  che  stima  la  Giunta  di  aggiungere,  che  deva 
essere  obbligato  di  dare  in  ogni  anno  la  nota  dei  recitanti 
uomini  ,  e  donne  allo  stesso  Uditor  dell'  Esercito  come  si 
pratica  dagli  Impresarii  del  Teatro  Nuovo  e  de'  Fiorentini, 
non  incontra  l'istessa  Giunta  riparo,  sempre  che  V.  M.  lo 
voglia  e  lo  comandi  ,  di  potersi  permettere  ai  Comici  at- 
tuali, toltine  due,  l'esercizio  della  loro  arte  ,  la  quale  colle 
suddette  tre  correttive  cautele  non  si  rendarebbe  così  peri- 
colosa come  per  lo  passato,  e  sarebbe  in  qualche  maniera 
tolerabile  per  evitare  mali  maggiori  che  si  possono  commet- 


—  198  — 

tere  dagli  oziosi  dei  quali  la  Città  abbonda  ,  servendo  le 
opere  in  tal  maniera  fatte  soltanto  di  trattenimento,  dandosi 
il  comodo  di  divertirsi  a  quei  che  non  possono  farlo  colle 
opere  del  Teatro  Reale  e  degli  altri  due  piccoli  Teatri 
Nuovo  e  de'  Fiorentini  nei  quali  si  spende  di  più  di  quel 
che  in  questo  Teatrino  si  pagherebbe  ». 

Napoli,   novembre    I  769. 

L'UJitor  dell'esercito 

Nicola  Pirelli. 
In  margine  è  scritto  : 

«  Fu  risoluto  ed  eseguito  a  1 7  marzo  1 770  come  dal 
Registro  —  B.  Tanucci  » . 

11  permesso  della  fondazione  d'un  nuovo  teatro  fu,  dun- 
que, concesso  a  Tommaso  Tomeo  nel  1  7  marzo  del  1  770. 
Se  ne  sparge  subito  la  novella,  che  dà  luogo  alle  due  sup- 
pliche seguenti  : 

«  Li  sotti  Complatearj  delle  case  al  Largo  del  Castello 
di  questa  fedelissima  Città  posti  a  piedi  della  M.  V.  umil- 
mente le  espongono  come  si  pretese  ultimamente  da  Don 
Tomaso  Tomeo  di  voler  eriggere,  in  luogo  dell'antico  Fosso 
sotto  la  Congregazione  della  Reale  Chiesa  di  S.  Giacomo, 
un  Teatro  ,  offerendo  Egli  i  Bassi  di  alcune  sue  case  site 
al  Largo  del  Castello  :  Si  preintese,  che  la  M.  V.  si  fusse 
servita  di  comandare  1*  appuramento  alla  Giunta  de  Teatri 
qual  fusse  più  antico,  o  il  Fosso,  o  il  Teatro  detto  S.  Car- 
lino, per  qual  causa  questo  fusse  rimasto  demolito,  e  di  qual 
costume  fusse  la  Compagnia,  che  era  addetta  ai  Teatro  del 
Fosso.  Si  è  preinteso  parimenti  che  la  M.  V.  fusse  stata 
informata  su  quanto  aveva  imposto,  a  segno  che  il  Tomeo 


—  199  — 

ha  pubblicato  ,  che  gli  verrà  permessa  V  erezzione  del  d.° 
Teatro  ne'  suoi  Bassi  delle  Case,  tanto  vero  ,  che  ha  fatto 
spedir  ordini  agli  Inquilini  di  dover  lasciare  le  abitazioni 
vuote  nel  dì  4  maggio  venturo. 

«  Incumbe  a  poveri  suplicanti  con  umilissime  suppliche 
far  presente  alla  M.  V.  che  circa  l'anno  1 754  il  monarca 
delle  Spagne  vostro  Augusto  Genitore  per  i  gravissimi  scon- 
certi provenienti  dal  Teatro  San  Carlino,  dalle  nefandezze 
del  medesimo  e  dal  pencolo  evidente  d'incendio,  e  de  danni 
irreparabili  ai  vicini,  abolì  con  suoi  zelantissimi  reali  ordini, 
il  d.°  Teatro  ,  che  da  quel  punto  restò  distrutto.  L'  intra- 
presa fatta  dal  Tomeo  riguarda  di  mettere  in  piedi  il  Tea- 
tro sud.0  ed  ancorché  nell'idea,  e  nell'apparenza  mostrar  si 
voglia  di  farsi  in  due  Bassi  con  decente  compagnia  ,  con 
recita  di  Comedia  in  prosa,  pure  nell'  esecuzione  tutt'  altro 
si  medita,  poicchè  non  passerà  molto  che  resterà  dilatato  il 
d.°  Teatro,  con  apparenze,  con  intermezzi,  con  Cantanti,  e 
con  disegno  di  poter  riuscire  troppo  plausibile  la  nuova 
pianta  del  d.°  Teatro  ;  Cosicché  indirittamente  e  fuori  della 
Sovrana  Real  mente  della  M.  V.  si  vedranno  restituiti  gli 
antichi  abusi,  iscandali,  e  tutti  quell'altri  inconvenienti,  che 
al  Pubblico,  al  buon  costume,  ed  alle  famiglie  dei  supp.1  vi- 
cini, e  Complatear]  son  contrarj,  oltre  poi  de  danni  e  del  peri- 
colo d'incendio  che  può  avvenire  per  l'affollamento  e  concorso 
della  Gente,  quando  che  la  Città  trovandosi  provveduta  di  tre 
Teatri  che  le  sono  di  bastante  sollievo,  non  tiene  bisogno 
di  altro,  che  tanti  danni,  e  pregiudizi  può  costituire  ad  esem- 
pio di  quelli  avvenuti  p.  lo  teatro  detto  di  S.  Carlino.  Si 
aggiugne  che  col  nome  di  due  Bassi  che  si  vogliono  per 
la  pretesa  erezzione  del  d.°  nuovo  Teatro  restano  dismesse 
ed  abbolite  otto  botteche  che  sono  nel  Largo  del  Castello, 


—  200  — 

dove  1'  abitazione  è  angustissima  per  lo  sito  molto  ristretto 
che  ha  come  di  prospetto  al  Real  Castello  ,  ed  ecco  che 
il  Publico  riceve  danno,  mancando  tanto  commodo  ed  abi- 
tazioni in  luogo  così  specioso,  per  un  privato  utile,  e  van- 
tagio  del  Tomeo. 

«  E  perciò  i  suppl."  posti  a  Reali  piedi  implorando  la 
Suprema  Real  Clemenza  della  M.  V.  la  supp.no  di  coman- 
dare che  non  si  permetta  l'erezzione  meditata  del  d.°  nuovo 
Teatro  che  seco  porta  gravissimi  sconvolgimenti  al  Publico 
ed  al  buon  costume  non  che  danni  irreparabili  alli  supp.1  ed 
alle  di  loro  povere  famiglie  che  con  privata  quieta,  e  de- 
cente onestà  debbono  sostenere,  lontani  da  ogni  scandalo, 
come  sperano  dal  sommo  zelo  e  pietà  della  M.  V.  a  sin- 
goiar grazia  ut  Deus.   Napoli,  22  marzo    1 770. 

«  Michele  aizzano  (  1  )  ,  Domenico  CXCanti ,  Domenico 
Marchese,  Giuseppe  Fieno.  » 

«  Donna  Grazia,  e  D.  Anna  Maria  de  Moncada  supp.'1" 
espongono  alla  V.  M.  come  possedendo  le  supp.1  una  Loro 
Casa  dirimpetto  alla  Porta  grande  della  Real  Chiesa  di  S. 
Giacomo  de'  Spagnuoli  al  Largo  del  Castello  ,  ed  essen- 
dosi, anni  addietro  dalla  parte  di  d.°  Largo  inalzato  un  gran 
Barraccone  di  tavole  per  uso  di  Teatro  publico  sotto  il  ti- 
tolo volgarm.6  di  S.   Carlino,  tra  per  lo  pregiudizio  che  re- 


(1)  Il  Tizzano,  nel  1758,  avea  firmata  una  supplica  per  ottenere  di  co- 
struire un  teatro,  offrendo  prezzo  maggiore  alla  Soprintendenza  del  Fondo 
di  Separazione  qualora  si  aboliva  i!  teatro  di  S.  Carlino.  Ma  non  ottenne 
d'essere  accontentato. 


—  201  — 

cava  alla  d.a  Casa  delle  supp.1  togliendole  la  Veduta  e 
1'  Aria  ,  e  tra  per  il  vicino  pericolo  di  potersi  incendiare, 
essendosi  più  volte  ivi  attaccato  il  fuoco,  e  con  ciò  fare  un 
danno  certo  ,  e  notabile  alle  povere  supp.1  si  compiacque 
la  M.  Cattolica  con  replicati  suoi  ordini  di  tarlo  levare,  to- 
talmente abolendo  ivi  d.°  Teatro  come  già  fu,  tempo  prima 
della  sua  partenza,  da  quella  Monarchia,  esegu  ito.  Al  pre- 
sente si  è  preinteso,  che  siasi  fatta  offerta  nel  Tribunale  del 
Fondo  della  Separazione  per  piantarsi  nell'  istesso  luogo  e 
novamente  riedificarvisi  il  consimile  Barraccone  per  uso  di 
teatro,  e  che  questa  o  siasi  accettata  o  voglia  da  d.°  Tribu- 
nale accettarsi. 

«  E,  perchè  non  è  dovere  che  li  giustissimi  sud.1  Reali 
ordini  della  Maestà  del  Re  Cattolico  restino  annullati  ,  e 
contro  de  medesimi  abbia  a  permettersi  si  grave  pregiudizio 
alle  povere  supp.1  che  altro  non  hanno  per  potersi  alimen- 
tare ,  e  mantenere  sennon  d.a  Casa  ,  ricordono  implorando 
la  Sovrana  Clemenza  e  Pietà  della  M.  S.  acciò  si  degni 
ordinare  precisamente,  che  nulla  s'innovi  contro  la  forma  de 
med.  Reali  ordini  del  Re  Cattolico  suo  degnissimo  Padre 
e  lo  riceveranno  ut  Deus  ». 


Napoli   22   marzo    1770. 


Donna  Grazia  Moncada. 

Donna  Anna  Maria  Moncada.  ut  supra. 


In  margine  a  tutte  e  due  queste  suppliche  è  scritto  : 
//  Tfe  sta  deliberando.  Ma  la  deliberazione  era  stata  già 
presa.  Sua  Maestà  teneva  semplicemente  in  fresco  i  sup- 
plicanti. 


—  202  — 
Nel  23  marzo  Tanucci  scrive   all'  Uditore  Pirelli  : 

«  Nel  dar  conto  V.  S.  111. ma  unitamente  col  consiglieri 
Caruso  e  con  don  Bernardo  Buono  con  rappresentanza  de 
31  dicembre  dell'anno  scorso  delle  ragioni  onde  fu  disfatto 
ed  abolito  il  Teatro  del  Largo  del  Castello  detto  S.  Car- 
lino e  nel  dar  conto  ancora  della  qualità  delli  Istreoni 
dell'abolito  Teatro  sotto  S.  Giacomo,  e  parimente  sulle 
suppliche  di  Tomaso  Tornei  e  della  vidua  di  suo  fratello 
che  hanno  chiesto  voler  fare  un  Teatro  di  alcuni  bassi 
delle  loro  Case  nel  Largo  del  Castello  p.  farvi  rappresen- 
tare Comedie  premeditate,  ha  V.  S.  111. ma  coi  sudd.  due 
ministri  proposto  che  colla  condizione  di  farsi  il  Teatro  in 
luogo  profano  e  di  rappresentarvisi  soltanto  Comedie  preme- 
ditate scritte,  e  rivedute  da  V.  S.  111. ma  e  coll'obblico 
ancora  di  dare  in  ogni  anno  la  nota  de  recitanti  uomini  e 
donne  a  V.  S.  111. ma,  come  si  prattica  dall'  Impressaci  di 
Teatro  Nuovo  e  Fiorentini  per  la  musica,  possa  permettersi 
a  sud.1  Comici  dell'abolito  Teatro  di  S.  Giacomo,  tolti 
solamente  due,  l'esercitare  la  loro  professione  con  le  sopra- 
dette tre  condizioni. 

E  il  Re,  nel  tempo  istesso  che  si  è  conformato  a  tal 
parere,  ne  vuole  che  così  se  ne  disponga  l' esecuzione. 
Mi  comanda  dire  a  V.  S.  111. ma  che  dica  prontamente 
(come  avrebbe  dovuto  dirsi  nella  rappresentanza)  »  nomi  di 
quei  due  attori  ai  quali  stima  V.  S.  Ill.ma  non  doversi 
permettere  di  recitare.  » 

Caserta,  23  marzo    1770. 

Bernardo  Tanucci. 


—  203  — 
Con  un  po'  di  ritardo  arriva  la  risposta  al  re  : 

«  L' Uditor  dell'  Esercito.  Nel  tempo  stesso  che  V.  M. 
gli  partecipò  la  grazia  accordata  a  rappresentanti  dell'  ab- 
bolito  Teatro  nel  Largo  del  Castello  colle  condizioni  di 
doverlo  formare  in  luogo  profano,  di  rappresentare  comedie 
scritte,  e  rivedute  da  lui,  e  coll'obligo  anche  di  dare  in 
ogn'anno  la  nota  de'  Recitanti  uomini  e  donne,  gli  ha 
comandato  dire  prontamente  i  nomi  di  quei  due  Attori 
detti  nella  Relazione  della  Giunta  a'  quali  non  dovea  per- 
mettere il  recitare. 

Fo  presente  che  i  due  attori  sono:  Maddalena  Scazzoc- 
chia  che  è  donna  di  reo  costume,  la  quale  per  altro  non 
sta  più  in  questa  città,  ed  è  passata  in  Sicilia  ove  ora 
dimora,  e  Giovanni  Vitonomeo,  quale  tollera  con  pazienza 
le  rilassatezze  di  sua  moglie,  alle  quali  coopera,  ed  alle  di 
lei  spese  contento  vive.  » 

Napoli,    14  aprile    1770. 

Nicola  Pirelli. 

La  Scazzocchia  è  nostra  vecchia  conoscenza  ;  apparteneva 
alla  vecchia  troupe  di  don  Michele  Tomeo.  Ricordate  la 
brunetta  alla  quale,  sul  palcoscenico  della  Cantina,  dopo 
un  concerto  di  commedia  dell'arte,  il  maestro  di  ballo  inse- 
gnava riverenze  e  sciappè  ?  Quella  era  la  signorina  Scaz- 
zocchia. In  quanto  al  Vitonomeo  io  non  mi  meraviglio  di 
vederlo  perseguitato  per  le  sue  tendenze  alfonsine  ;  i  suoi 
erano  altri  tempi.  Ma,  in  verità,  mi  meraviglierei  di  sicuro 
se,  vivendo  egli  a  tempo  nostro  con  quelle  medesime  abi- 
tudini non  arricchisse. 


Fra  tanto,  su  tutti  codesti  documenti,  si  potrebbe  rico- 
struire il  così  detto  «  ruolo  »  della  compagnia  di  Tommaso 
Tomeo.  Vi  apparirebbero  :  la  romana  Teresa  Martorini, 
Paola  Sapuppo,  Nina  Lombardi,  Maddalena  Scazzocchia  e 
la  canterina  fiorentina  Centolesi,  con  la  quale  Michele 
Tomeo,  nel  1763,  era  venuto  in  lite  (1).  Di  uomini,  fino  al 
1 768  :  il  capocomico  Francesco  Trivelli,  Vincenzo  Camma- 
rano,  Francesco  Massaro,  il  tartaglia  Cioffo  ,  1'  amoroso 
Onofrio  Mazza  e  tal  Vincenzo  de  Romanis,  il  quale 
«  mentre  che  furono  interdette  le  comedie  fece  un  grosso 
debito  col  negoziante  Giuseppe  Brest,  col  contratto  che  si 
contentava  che  gli  restituisse  il  danaro  che  recitando  avrebbe 
guadagnato,  per  metà  della  sua  paga  ». 

Or,  mentre  i  suoi  commedianti  facevano  debiti,  Tommaso 
Tomeo  fabbricava  il  teatro  nelle  vecchie  sue  case  dell'iso- 
lato in  Piazza  del  Castello.  Sfondati  i  pavimenti  di  tre 
botteghe  attigue  (quelle  ove  nel  1 725  erano  il  chiavettiere 
Francesco  Valone,  Leonardo  Panza  e  Gennariello  Troise) 
fu  mutato  in  platea  l' unico  scantinato  che  ne  risultò  ;  i 
palchetti  vennero  costruiti  in  giro  così  da  rispondere  con 
la  loro  seconda  fila  al  livello  della  strada.  La  spesa  «  con 
alcune  necessarie  riparazioni  fatte  alle  case  istesse  cagionata 
dalla  formazione  del  Teatro  »  fu  di  ducati  ottomila  (2).  Com- 
piuta la  «  formazione  del  teatro  »  Tommaso  Tomeo  scritturò 
la  stessa  compagnia  della  Cantina,  per  un  solo  triennio, 
dal    1770,  cioè,  fin  al    1773.  Poi  la  riconfermò  fino  al  1776. 

Aspettando  l'apertura  del  teatro  la  compagnia  si  dava 
da  fare  per  guadagnare,    fra    tanto,    di    che    tirare    avanti. 


(1)  Archivio  di  Stato,  'Documenti   Teatrali,   fascio  XIII. 

(2)  id.,  id.,  fascio  XX. 


—  205  — 

Nel  10  maggio  del  1770  Qiancola,  a  nome  anche  de' suoi 
colleghi,  chiede  la  «  solita  licenza  di  recitare  conforme  al 
solito  anche  ne'  luoghi  convicini  di  Napoli  »,  e  quella  gli 
è  accordata  «  per  poche  recite  in  Aversa  ».  Così  la  pic- 
cola cittadina  vede  arrivare  una  mattina,  guidata  da  Pul- 
cinella in  abiti  da  viaggio,  la  celebrata  troupe  della  non 
meno  famosa  Cantina.  Tornano  i  comici  da  Aversa  e  il 
teatro  non  è  ancora  allestito.  Tomeo,  che  nel  luglio  di  ogni 
anno  manda  la  sua  compagnia  a  recitare  nella  baracca  alla 
Fiera,  prega  anche  questa  volta  il  re  di  concedergliene  il 
permesso,  e  l'ottiene.  E  intanto  continua  a  badare  al  San 
Carlino  nascente,  a  cui  1'  architetto,  i  falegnami  e  i  pittori 
vanno  dando  l'ultima  mano. 


—  206  — 
II. 

Intorno  al    1770  accadevano  i  seguenti  fatti  teatrali: 

Al  San  Carlo  si  rappresentava  Armida  abbandonata,  mu- 
sica di  Nicola  Jommelli.  Vi  cantavano  la  famosa  Anna  àt 
Amicis,  la  Marchetti,  Giuseppe  Aprile,  Arcangelo  Corton: 
e  Pietro  Santi.  E  con  V  Armida  abbandonata  si  davanc 
l' Antigono,  musica  di  Cafaro,  e  il  Demofoonte,  musica  di 
Jommelli  su  libretto  di  Metastasio. 

Al  Fiorentini  tre  nuove  opere  buffe  :  La  pastorella  in- 
gannata, musica  di  Carlo  de  Franchis,  Gelosia  per  Gelosia 
libretto  del  Lorenzi  e  musica  di  Nicola  Piccinni,  La  Dama 
bizzarra  dell'  Insanguine. 

Al  Smuovo  :  La  Caffettiera  di  garbo,  poesia  del  Mililotti, 
musica  di  Pasquale  Tarantini.  Grande  successo,  anche  al 
ZNjuovo,  dell'opera  buffa  Qelosia  per  Qelosia. 

Il  conte  Giovanni  Zambeccari  pesca  un  ballerino  «  in 
genere  grottesco  e  di  mezzo  carattere  sbalzante  »  a  Bologna. 
E  come  Tanucci  gli  ha  più  volte  scritto  d'aver  bisogno  di 
fare  un  simile  acquisto  pel  San  Carlo,  lo  Zambeccari  gli 
spedisce  il  ballerino  assieme...  alle  opere  matematiche  di 
Eustachio  Manfredi,  che  Tanucci  gli  ha  pur  chiesto.  Il 
ballerino  era  il  famoso  Onorato  Vigano. 

La  de  Amicis  «  virtuosa  di  musica  »  anzi  virtuosissima, 
la  mandò  a  Tanucci  il  conte  Durazzo  e  a  mezzo  di  lei  lo 
stesso  conte  chiese  a  Tanucci  «  i  due  ultimi  volumi  dell'  Er- 
odano » .  Interessante  scambio  di  cortesie,  di  libri,  di  can- 
tanti e  di  danzatrici. 

Il  signor  Hamilton,  ministro  plenipotenziario  di  «  Sua 
Maestà  Britannica  »   chiede  a    Tanucci    un    permesso    per 


—  207  — 

Andrea  Bergè,  suddito  inglese  che  vorrebbe  prodursi  al 
Fiorentini  in  «  certi  salti  d'equilibrio  e  piccole  pantomime, 
riserbandosi  qualche  altro  gioco  dopo  Pasqua  ».  Tanucci, 
con  molta  politezza,  si  scusa  e  nega  il  permesso. 


III. 


Altri  appunti  che  ricavo  da'  miei  mucchietti  di  carta  ; 
appunti  d'epoca,  molto  napoletani,  documenti  che  potreb- 
bero lumeggiare,  con  notizie  del  costume  e  delle  predile- 
zioni fin  de  siede,  tutto  un  capitolo  descrittivo.  Io  li  la- 
scio   nel    loro  ordine  sparso  : 

Buccolica  partenopea  ;  Magnifiche  zuppe  di  zoffritlo  alle 
baracche  fuori  'Porta  Capuana  ;  pizze  famose  al  Mercato  : 
Piazza  del  Pendino  regno  della  carnacotta  ;  pesce  fritto  a 
Porto  ;  ottima  tazza  di  levante  al  Caffè  della  Stella,  nella  via 
di  Toledo. 

Caffè  della  Babilonia  —  anche  a  Toledo  —  Caffè  delle 
quattro  porte  al  Largo  del  Castello,  all'entrata  de'  Guantai  ; 
ritrovo  favorito  di  commedianti  e  «  professori  di  musica  » . 
Nel  verno,  in  mezzo  a  ogni  caffè,  un  gran  braciere  acceso. 
In  Piazza  del  Castello  ancora  un  caffè,  quello  di  Don 
Michele  Panno.  Vi  si  esercita  una  continua  maldicenza.  Ed 
è,  naturalmente,  molto  affollato. 

Il  boia  e  il  suo  aiutante,  per  ogni  esecuzione,  son  ripa- 
gati il  primo  con  sei  ducati,   l'altro  con  30  carlini. 

Un  prevetariello  :  moneta  che  vale  poco  più  di  quattro 
grana. 

Volere  o  volare  un  po'  di  tratti  di  corda  e  è  sempre, 
per  aiutare  i  delinquenti  a  confessare. 

Un'altra  moneta  :  no  Sebbeto. 


—  208  — 

Fra  le  Opere  Sacre,  in  Quaresima  :  L'Empia  punita  o 
sia  i  portenti  dei  Rosario. 

Locanda  del  ZXConte  d'Oro  al  Vico  Teatro  Nuovo,  per 
ballerini  e  cantanti. 

Carlo  £M,orosini  —  Locandiere  della  Stella  d'argento. 
Insegna  del  tempo  —  Via  Corsea. 

Quattro  penne,  altra  moneta  equivalente  a  due  tari. 

Nelle  taverne,  a  sera  : 

Non  songo  Aurora  chiù,  non  so*  chiù  chella, 

Songo  na  pellegrina  sfortunata  ; 
Non  me  chiammate  cchiù  donna  Sabella 

Ah,  menicò,   menicò,   menicò  ! 
Chiammateme  Sabella  sbenturata 

canzonetta  dell'  opera  buffa  Gelosia  per  Qelosia.  Un  cieco 
con  la  chitarra,  una  donnetta  col  salterio.  Bevitori  in  giro 
e  tavernaro  appisolato  dietro  il  pancone. 

La  notte  :  scura  e  misteriosa.  Lampade  davanti  alle  im- 
magini, secondo  le  prescrizioni  del  Padre  Rocco  ;  riflettori 
nei  cortili  dei  palazzi  nobili.  La  ronda  di  polizia  —  un  ca- 
pitano, lo  scrivano  e  dieci  sbirri  —  va  m  giro  per  le  strade* 
La  lanterna  cieca,  i  mantelli,  le  spade,  la  malaugurata  fac- 
cia degli  sbirri,  ecco  qualche  cosa  che  non  mi  pare  più  in- 
tonata col  tempo.  C  è  del  lugubre.  Ma  così  era.  Troppa 
gaiezza  illuminava  il  sole,  troppa  spensieratezza.  La  notte 
faceva,  come  sempre  usa,  il  suo  tradizionale  mestiere. 

Tra  codesto  colore  del  tempo  fu  inaugurato  il  nuovo  tea- 
tro, a  cui  Tommaso  Tomeo  volle  dare  il  nome  battagliero 
di  quella  povera  baracca  di  Piazza  Castello  che  avea  reso 
così  famoso  lo  sventurato  di  Fiore. 


VINCENZO  CAMMARA.NO 

DETTO  GIANCOLA. 


1». 


useppe  Cainuiarano. 


Bilil.   Lnccliesiana. 


—  209  — 


IV. 


Siamo  al  1 770.  Il  San  Carlino  ha  avuto  un  battesimo 
trionfale.  Accorre  al  piccolo  teatro  che  ,  riassumendo  i  ri- 
cordi felici  della  baracca  e  della  Cantina,  fa  rivivere  nel- 
1"  antica  giocondità  gli  ottimi  partenopei,  tutta  Napoli  ;  no- 
biltà, borghesia,  plebe.  Il  concorso  è  grande  e  la  ressa  co- 
mincia a  far  nascere  i  soliti  battibecchi  per  la  conquista 
d'  un  buon  posto.   E  però  Tomeo    ricomincia  a  supplicare^ 

«  La  Giunta  de'  Teatri  : 

Tommaso  Tomeo  —  Nel  Teatrino  del  Largo  del  Castello 
in  cui  ha  la  proprietà  vi  è  stata,  sempre  che  si  è  recitato, 
la  custodia  de'  militari  ;  dappoco  in  qua  1'  hanno  levata,  e 
questa  essendovi  necessaria  pel  concorso  delle  genti  di  oaai 
ceto,  che  vi  concorrono  : 

Supplica  ordinarsi  all'  Uditor  dell'  Esercito  che  informi: 
sulla  verità   dell'  esposto.    » 

«  La  Giunta  ecc.  —  Sulla  supplica  di  Tommaso  Tomeo 
che  domanda  che  si  ponga  nuovamente  la  custodia  de"  mi- 
litari levata  al  Teatrino  del  Largo  del  Castello  per  gii. 
sconcerti  che  vi   possono   accadere  : 

Dice  la  Giunta  che  avendo  primieramente  considerato 
che  allorquando  il  Teatrino  era  posto  a  S.  Giacomo  v'era 
pure  la  custodia  de'  militari  :  secondariamente  la  necessità 
che  oggi  più  che  mai  vi  è  delle  Guardie  militari  non  soJo 
per  essere  detto  Teatrino  frequentato  da  molta  gente  e  da 
persone    riguardevoli  ;    ma    benanche   perchè  è    situato  nel 

DI   GIACOMO. -5.    Carlino.  14 


—  210  — 

Largo  del  Castello  eh'  è  piazza  d'  Armi,  e  dove  1*  Uditor 
dell'  Esercito  non  vi  può  mandare  le  sue  Guardie  ;  onde 
se  altrimenti  non  pare  a  V.  M.  crede  che  per  le  allegate 
ragioni  possa  compiacersi  di  accordarli  la  richiesta  custodia 
de'  militari.   » 


«   La  Giunta  del  Teatro  —  Assistenza  di  truppa. 

In  vista  di  altra  relazione  con  cui  fu  di  parere  doversi 
accordare  la  custodia  militare  al  Teatro  piccolo  del  Largo 
Castello  avendo  V.  M.  voluto  sapere  se  la  tal  custodia  era 
anche  assegnata  ai  due  Teatri  Nuovo  e  de'  Fiorentini,  sog- 
giugne  la  Giunta  che  pe'  detti  due  Teatri  stanno  assegnati 
della  Truppa  dodici  soldati,  un  sergente  ed  un  caporale  ;  vi 
sono  poi  destinati  rispettivamente  i  subalterni  della  Udienza. 
Sicché  ad  imitazione  di  quello  che  si  pratica  negli  altri  due 
Teatri  sembra  indispensabile  in  quello  del  Castello  1'  assi- 
stenza della  Truppa.  » 

«  Onofrio  Mazza  —  Questo  Commediante  fa  istanza  per- 
chè 1'  Uditor  dell'  Esercito  o  il  Consiglier  Caruso  lo  pro- 
tegga presso  del  suo  Impresario  a  tenore  del  Real  Dispac- 
cio, che  dice  aver  ottenuto  per  aver  impiego  nell'  aprirsi  il 
nuovo  Teatro  al   Largo  del  Castello.  > 

Il  Mazza,  amoroso,  s' è  fatto  vecchio  e  Tomeo,  a  quanto 
pare,  gli  vuol  dare  il  ben  servito.  La  supplica  del  Mazza 
al  re  ne  lo  impedisce.  L'  amoroso  rimane  in  compagnia. 

L'anno  1772  non  fornisce  alle  carte  d'Archivio  docu- 
mento di  sorta   sul  San  Carlino. 


—  211   — 
1773. 

In  quest'  anno  è  Uditor  dell'  Esercito  Don  Cesare  Rug- 
giero. Consiglieri  della  Giunta  dei  Teatri  sono  : 

Don  Salvatore  Caruso. 

Don  Giuseppe  Crisconio. 

Don  Bernardo  Buono. 

Tomeo  s'ha  tolta  una  brutta  spina  dal  piede:  Don  Ni- 
cola Pirelli  è  morto.  Requie  all'anima  sua.  Don  Tommaso 
inaugura  la  quaresima  con  «  rappresentazioni  di  cani  e  scim- 
mie »  : 

«  La  Giunta  dei  teatri.  —  Sulla  supplica  dell'  Impresario 
del  Teatrino  al  Largo  del  Castello  Tommaso  Tomeo  pel 
permesso  che  ha  chiesto  di  potere  nella  prossima  Quaresi- 
ma fare  rappresentare  nel  suo  Teatrino  da  Antonio  Chiesi 
vari  giochi  sulla  corda  che  si  fanno  da  cani  e  scimie  — -  Ne 
riferisce. 

Dovendo  la  Giunta  unita  umiliare  il  suo  sentimento  e  gli 
esempi  dice  che  in  occasione  che  si  è  domandato  di  farsi 
esporre  al  pubblico  anche  in  tempo  di  Quaresima  diversi 
spettacoli  come  mostri  marini,  scimie,  cani,  giganti,  ballerini 
da  corda,  saltatori,  giocatori  di  bossolotti,  comedie  di  pupi, 
ed  altri  simili  spettacoli  si  è  talvolta,  dagli  Uditori,  prò  tem- 
pore, accordato  il  permesso  di  far  esporre  al  pubblico  detti 
spettacoli  e  talvolta,  su  precedenti  rappresentanze  di  quella 
Giunta,  V.  M.  gli  ha  permessi;  come  seguì  nel  1770  che 
accordò  il  permesso  ali*  Inglese  Walton.  Ed  anni  fa,  su  pre- 
cedente licenza  del  fu  Uditor  Pirelli,  in  Quaresima  si  rap- 
presentavano al  Publico  nel  Teatro  del  Largo  del  Castello 


—  212  — 

le  comedie  de'  Pupi  con  teste  di  legno  ;  essendosi  lo  stesso 
praticato  1*  anno  scorso  col  permesso  del  presente  Uditore 
la  Giunta  non  trova  opposizione  » . 

Intanto  è  arrivata  una  compagnia  francese  a  Napoli  e  ha 
chiesto  al  re  licenza  di  poter  recitare  per  tre  anni,  dall'  ot- 
tobre del  1773,  al  Fiorentini.  E  condotta  da  tal  Senapati, 
il  quale  ha  già  principiato  a  dar  recite  in  quel  teatro  ,  e 
si  decide  a  chiedere  quel  tale  permesso  incoraggiato  dalle 
piene  che  ha  fatto.  Tomeo,  cui  non  troppo  garba  simile  con 
correnza,   spedisce  subito  una  supplica  al  re  : 

«  Tomaso  Tomeo  ed  Elisabetta  d' Orso  madre  e  tutrice 
dei  figli  del  fu  Carlo  Tomeo  :  Lagnandosi,  che  nelle  co- 
medie  che  rappresentano  nel  Teatro  del  Largo  del  Castello 
con  1'  approvazione  dell'  Uditor  dell'Esercito,  per  causa  delle 
Comedie  Francesi  si  è  tolto  loro  quel  concorso  e  lucro  che 
aveano.  Suppl.0  a  permetterli  che  nel  tempc  dell'  imminente 
Quaresima  possano  rappresentare  in  esso  Tragedie  confa- 
centi al  tempo  di  Ottavio  Marchese  ed  altre  comedie  ap- 
provate ». 

Anche  il  Bianchi,  impresario  del  Nuovo,  si  lagna  per  lo 
stesso  fatto.  Il  re,  commosso,  non  accorda  al  Senapart  la 
licenza  che  questi  gli  ha  chiesto. 

Documento  orchestrale  : 

«  D.a  Cattenna  Ionata  moglie  di  D.  Giuseppe  Montalto. 
Racconta  come  il  suo  marito  era  sonatore  del  Teatrino  S. 
Carlino  di  dove  ne  percepiva  sei  due.  il    mese  e  che  ob- 


—  213  — 

bligato  da  D.  Giuseppe  Marzo  e  dal  figlio  di  costui,  nella 
prima  sera  deli'  Opera  dell'  anno  passato,  di  andare  alla 
casa  di  d.°  Marzo  e  di  non  andare  al  Teatro  fu  da  quel- 
1*  impressario  licenziato  ed  in  quella  occasione  essendosi  li 
Marzo  obbligati  di  pagare  li  sei  due.  che  esigeva  dall'Im- 
presario di  S.  Carlino  come  li  pagarono  per  qualche  tem- 
po, ma  da  qualche  mese  in  qua  non  intendendo  costoro  di 
pagare  li  sei  due.  il  mese,  motivo  per  cui  si  trova  nelle 
maggiori  miserie.  Onde  supplica  ordinarsi  che  dalli  Marzo 
ti  continui  a  pagare  tal  somma  mensuale   » . 

Questo  documento  ci  lascia  far  conoscenza  con  un  professore 
di  orchestra  del  San  Carlino.  Altre  carte  ci  presentano,  in 
seguito,  altri  addetti  a  quel  teatro. 

1774. 

«  Jennaro  Becci,  Scrivano  dell'  Udienza  dell'  (esercito  :  Si 
lagna  di  essere  stato  rimosso  dall'  impiego  di  scrivano  del 
Teatrino  al  Largo  del  Castello,  che  esercitava  da  molto  tempo 
e  sui  di  cui  proventi  dovea  soddisfare  i  suoi  Creditori,  co- 
me dall'  annessa  copia  di  Dispaccio.  Desidera,  che  la  Giunta 
de'  Teatri  faccia  giustizia  ». 

«  Giovanni  Antonio  Soriani:  Servendo  da  suggeritore  nel 
Teatrino  del  Largo  del  Castello  con  quelle  condizioni,  colle 
quali  è  convenuto  colla  compagnia  di  quei  comici  ;  e  non 
standosi  in  oggi  più  ai  patti  fatti,  ha  dovuto  abbandonar 
la  compagnia  in  Santamaria  di  Capua  e  ritirarsi  in  Napoli 
senza  impiego. 

»  Fa  istanza  per  essere  dai  comici  soddisfatto  di  tutte 
le  fatiche  fatte,  e  delle  giornate,   che    perde  ora  per  causa 


—  214  — 

loro  ;  ed  anche    perchè  si    osservino,  almeno    sino  alla  fine 
del  venturo  Carnevale,  tutti  1  patti  reciprocamente  fatti  ». 

Nel  dicembre  del  1774  la  compagnia  era,  come  avreste 
visto,  a  Santamaria  di  Capua:  uno  dei  soliti  giri  artistici  di 
Tomaso  Tomeo.   Repertorio  cerloniano  in  provincia. 

Due  parole  sullo  scrivano  dell'  Udienza  dell'  Esercito.  Eia 
un  ufficiale  di  Polizia  che  sorvegliava  la  moralità  degli  at- 
tori, impostato  tra  le  quinte.  Aveva  il  diritto  di  far  sospen- 
dere la  recita  quando  quella  moralità  non  fosse  conservata 
o  quando  il  publico  romoreggiasse.  Bazzicava  sul  palcosce- 
nico, annusava  pei  camerini  degli  attori  e  teneva  a  dispo- 
sizione sua  quella  custodia  dei  militari  un  po'  più  sopra  in- 
vocata da  Tomeo. 

Nel  maggio  del  1 774  don  Tommaso,  come  ogni  anno 
ha  fatto,  vuole  intendersi  con  Antonio  Jolli  per  V  affitto  della 
baracca-teatro  nella  Fiera,  d' avanti  Palazzo  Reale.  Jolli 
pretende  aumentare  la  solita  somma  di  1 00  altri  ducati.  Tomeo 
si  mette  a  scrivere  suppliche  un'altra  volta.  Pessima  annata; 
una  maledetta  concorrenza  improvvisa,  dal  ZNjuovo  e  dal 
Fiorentini,  nessun  frutto  dal  giro  in  provincia.  Nel  principio 
dell'  anno,  vistasi  già  a  mal  partito  ,  la  compagnia  del 
S.  Carlino  ha  spedito  la  seguente  supplica  al  re: 

«  Li  Comici  istrumentati  per  le  recite  delle  Comedie 
di  prosa  che  si  rappresentano  nel  Teatrino  del  Largo  del 
R.  Castello  umiliati  rispettosamente  a  Reali  Piedi  di 
V.  M.  colla  maggiore  venerazione  e  rispetto  l'espongono, 
come  benignatosi  la  M.  S.  con  sua  R.  carta  de  29  marzo  1  770 
permettere  a  Tomaso  Tomeo,   ed  alla  vidua  del  di  lui  Fi- 


—  215  — 

glio,  Elisabetta  d'Orso,  di  poter  costruire  nelle  loro  case 
un  Teatro  p.  ivi  rappresentare  le  anzidette  Comedie  : 

Si  spiegò  la  M.  S.  in  quella  R.e  Carta  in  seguela  di  ciò  che 
l'avea  rappresentato  la  Giunta  de'  Teatri,  che  veniva  ad  ac- 
cordare in  questa  sua  dominante  una  sola  Compagnia  d'Istrioni, 
in  seguela  anche  degli  precedenti  ordini  dell'Augustissimo 
Monarca  delle  Spagne  Vostro  Degniss.0  Genitore,  da  chi  con 
altro  R.°  Diploma  segnato  sotto  il  dì  26  maggio  1759  per- 
mette soltanto  una  Compagnia  d'Istrioni  in  questa  Capitale. 

Poi  da'  Teatri  Fiorentini,  e  Nuovo  furon'introdotte  le 
Comedie  di  prosa,  ma  non  più  in  quattro  l'anno,  con  rap- 
presentarsi ciascuna  di  quelle  due  volte  per  settimana,  e 
dette  rappresentanze  si  sono  per  lo  passato  fatte  da'  suoi 
fedeli  Vassalli.  In  oggi,  Signore,  si  son  portate  in  questa 
Città  compagnie  intere  di  Nazioni  straniere  per  togliere  il 
pane  da  bocca  de'  poveri  suppl.'  che  sono  tutti  colle  loro 
numerosissime  famiglie  umiliss.1  e  fedeliss.1  Vassalli  della 
M.  V.  come  fu  la  compagnia  de'  Francesi  nel  p.°  anno, 
ed  al  presente  la  Compagnia  de'  Lombardi  che  rappresenta 
nell'Teatro  de'  Fiorentini,  ed  hanno  i  supp.1  preinteso  che 
nell'Teatro  Nuovo  venga  altra  compagnia  beanche  di  Na- 
zione Straniera,  operandosi  il  tutto  da  quei  rispettivi  Im- 
pressarj  contro  il  divieto  della  M.  V.  colli  precisati  ordini, 
facendo  rappresentare  Comedie,  e  la  sera  ed  il  giorno,  che 
mai  non  vi  è  stato  tal'uso  in  quei  Teatri,  per  dispettare  i 
poveri  supp.1  e  privarli  del  pane  che  hanno  pacificamente 
goduto  per  effetto  della  V.  R.e  Clemenza,  e  tutto  che  lu- 
crano con  li  loro  sudori,  Io  spendono  in  questa  Vostra  e 
loro  Padria,  e  non  già  le  Nazioni  Esteri  che  dopo  si  sono 
impinguati  ne'  Vostri  Dominj  altrove  estragono  la   moneta. 

Ricoirono  pertanto  dall'Innata  Clemenza  e  Paterna    cura 


—  216  — 

cibe  per  sempre  con  benign'occhio  mira  i  suoi  fedeli  Va- 
salli,  ed  umil.te  l'implorano  di  dare  ordini  all'Impresari  ^e 
sud.1  respettivi  Teatri,  che  per  l'avvenire  non  ardiscono 
ammettere  Compagnie  Esteri,  e  che  le  Comedie  di  prose 
(se  pur  la  M.  S.  glie  le  vuole  concedere)  che  quelle  si 
è  praticato  abbusivamente  p.  lo  passato  da  suoi  Vassalli, 
eli  quattro  Comedie  l'anno,  col  rappresentarle  solo  la  sera, 
e  non  già  nel  giorno,  affinchè,  a  poveri  supp.'  non  se  li 
tolga  quel  pane  che  con  tanta  Carità  l'accordo  così  il  vo- 
stro Invittiss.0  Genitore,  che  la  M.  V.  con  Reali  Diplomi, 
gratia  che  sperano  otenere  ut   Deus.  » 

Questa  supplica  è  firmata  da  tutta  la  compagnia;  le 
fcrme  degli  attori,  con  a  capo  quella  dell'illustre  letterato 
e  redattore  della  supplica  don  Tommaso,  son  queste  : 

Tomaso  Tomeo 

lo  Elisaletta  d'Orso  sup.co  come  sopra 
Vincenzo  Cammarano 
Onofrio  Mazza 
Nicola  Pappalardo 
Giuseppe  Teperino  Supp.e 
Giov.  Ant.°  Soriano  ut  supra 
Francesco  Coscia 
Io  Gennaro  Arienzo  ut  >up. 
Salvatore  Tomeo 
lo  Vincenzo  Menna  ut  sup. 
G.  B.ta  Casini 
Lodovico  Giossini 
Gius,  de  Falco 
Teresa  Martorini 
.  Vincenzo  de  Romanis 
Baldassare  Martorini. 


—  217  — 
1775. 

^Coterelle  del  mio  taccuino  : 

Di  carnevale  è  proibito  presentarsi  mascherato  da  Pa- 
glietta o  da  'Pulcinella  alle  feste  a  San  Carlo. 

Tal  Gaetano  Pozzi  chiede  di  poter  «  mettere  tragicome - 
die  ed  opere  di  Pupi  »   al  Nuovo,  con    «  opere  sacre  » . 

Undici  soldati  disertori  del  reggimento  Real  ^JUCacedone 
disarmano  la  sentinella  del  teatrino  di  Tomeo,  alla  Fiera. 

Corse  di  Barberi  per  lo  sgravo  di   Maria  Carolina. 

Nei  «  teatri  piccioli  »  si  fitta  il  così  detto  «  posto  di 
palco  » . 

Continuano  i  guai  del  teatrino  alla  Fiera.  La  sera  del 
15  agosto,  in  un  palco  di  2.a  fila,  liticano  Pietro  Musella, 
tromba  del  battaglione  Real  Ferdinando,  il  tamburo  mag- 
giore, chiamato  Rafaniello  ed  un  Piffero  dello  stesso  Bat- 
taglione con  un  Cadetto  della  Regina,  chiamato  don  Vin- 
cenzo Taverni.  Il  cadetto  occhieggia  a  una  canterina  e  Ra- 
faniello coi  suoi  compagni  si  seccano  di  reggergli  la  can- 
dela nello  stesso  palco  di  cui  il  cadetto  ha  fittato  un  posto 
accanto  a  quei  tre. 

Tornato  Tomeo  dalla  Fiera  al  San  Carlino  ricominciano 
Se  sue  liti  con  gli  attori   della  compagnia  ; 

«  Tom.  Tomeo  fa  istanza  acciocché  p.  mezzo  della 
Giunta  dei  Teatri  s'impedisca  a  teresa  Martorini,  Prima 
donna  del  suo  Teatro,  l'uscir  dalla  Capitale,  terminato  il 
Carnovale,  come  si  presente  che  voglia    fare  in    vigore    di 


—  218  — 

una  scrittura  fatta  coll'impressano  di  Palermo.  Dice  il  ri- 
corrente che  la  mentovata  Donna  è  obligata  pel  suo  Teatro 
fino  a  tutto  il    1 777  ». 

Con  la  Martorini  fanno  lega  anche  altri  della  compagnia. 
E  don  Tommaso  prende  una  bella  risoluzione  di  cui  la  Giunta, 
come  al  solito,  scrive  al  re  : 

«  Tomaso  Tomeo  e  Lisabetta  d'Orso  essendo  obligati  di 
procurare  al  Pubblico  un  divertimento  nel  loro  proprio 
Teatro,  che  è  quello  del  Largo  del  Castello  :  Vuole  per 
conseguenza  riformare  coll'intelligenza  deìl'Uditor  dell'Eser- 
cito, la  maggior  parte  della  Compagnia  de'  suoi  comici, 
perchè  resi  ormai  stucchevoli  al  Pubblico  ». 

1776, 

In  quest'anno  don  Tommaso  è  impresario  della  prosa  dei 
Fiorentini.  Di  volta  in  volta  il  re  lo  chiama  a  Palazzo  con 
la  compagnia  e  si  serve  —  come  si  diceva  allora  —  di  farla 
recitare  in  sua  presenza. 

Nell'aprile  Tomeo  fa  istanza  perchè  siano  costretti  a  ve- 
nire a  Napoli  tre  comici  «  il  padre  con  2  figlie,  con  cui 
ha  fatto  scrittura  in  Venezia  e  che  non  intendono  più  di 
venire  a  Napoli  » . 

Nel  luglio  altra  lite  con  un'altra  comica  :  nell'agosto  lite 
generale  con   tutta  la  compagnia  : 

«  /  Comici  del  S.  Carlino  :  —  Dovendo  la  Giunta  dei 
Teatri  far  giustizia  nella  causa  che  hanno  con  Tommaso 
Tomeo,  sedicente  Impressario  del  Teatrino  al  Largo  del 
Castello  e  provveduto  di  uno  dei  primaiii  avvocati,  ed  es- 


—  219  — 

sendo  essi  poveri  come  dagli  attestati,  fanno  istanza  per 
ordine  del  Re  dall'avvocato  dei  pareri  della  G.  C.  Don 
Pietro  Forte. 

In  margine  :  «  La  Giunta  coll'Ag.10  proveda  i  supp.  po- 
veri d'idoneo  e  probo  Avvocato  che  gli  difenda  gratis  pel 
povero.   Bernardo   Carnicci  »  . 

Onofrio  Mazza,  Francesco  Coscia  ed  altri  compagni 
comici  del  Teatrino  al  largo  del  Castello  :  Venendo  tiran- 
neggiati da  d.  Tomaso  Tomeo,  il  quale  di  semplice  pa- 
drone del  luogo  dove  esiste  il  teatro  e  di  semplice  loro 
socio  si  è  voluto  erigere  in  Impressario,  Capo  e  Dispotico 
della  Compagnia  ed  è  arrivato  fino  ad  espellerne  qualche- 
duno  dei  Supp."  per  surrogarvi  persona  espressamente  vie- 
tata dal  Re  : 

Fanno  istanza  acciocché  la  Giunta  dei  Teatri  faccia  esat- 
tamente osservare  ristrumento  che  i  suppl.'  hanno  col  To- 
meo ;  e  obbligati  le  Parti  respetti vamente  a  quanto  nel  me- 
desimo si  contiene  e  si  ricuperino  gli  atti  altre  volte  for- 
mati per  questo  e  che  ora  si  credono  occultati  per  la  pre- 
potenza del  Tomeo  » . 


777. 


Jlncora  una   lite  : 

«  Tommaso  Tomeo  Impresario  del  Teatrino  al  Largo  del 
Castello  avendo  lite  in  Giunta  dei  Teatri  colli  coniugi 
Bassi  scritturati  con  lui  per  tutto  il  carnevale  1 776  e  non 
potendo  per  causa    loro    apparecchiare    nuove    rappresenta- 


—  220  — 

zioni  teatrali  per  la  pross.  primavera  fa  istanza  acciocché  i 
Bassi  obediscano  agli  ordini   della  Giunta  » . 

Supplica  dei  comici  : 

«  Li  comici  del  Teatrino  al  Largo  del  Castello  e  pro- 
priamente quelli  di  Tommaso  Tomeo  detto  il  Moretto,  de- 
siderarebbero  rappresentare  quattro  loro  Comedie  avanti  la 
presenza  di  Vostra  Maestà  nella  prossima  Villeggiatura  di 
Castellammare  ». 

'Piccole  appropriazioni  indebite  del  ^Coretto  : 
«  Francesco  Vitonomeo  e  Giovanni  Ant.°  Soriani,  co- 
dici della  Prosa  dei  Fiorentini,  avendo  avuto  l'onore  di 
recitare  più  volte  innanzi  alle  MM.  LL.  sentono  che  il  loro 
Impresario  Tommaso  Tomeo  ne  abbia  avuta  una  gratifica- 
zione. E  avendolo  richiesto  della  loro  respettiva  rata  questi 
ha  risposto  che  la  gratificazione  è  data  pel  solo  Impresario 
e  non  pei  comici.  Quando  ciò  non  sia  vero  domandano  le 
sovrane  previdenze  » . 

Seguono  le  appropriazioni  indebite  : 

«  Donna  Elena  Brossard  dice  che  suo  marito  avvocato 
don  Gaetano  de  Fiori  è  continuamente  inquietato  da  una 
recitante  del  Teatrino  di  San  Carlino,  di  nazione  Romana 
chiamata  Nina  Morescanti  Bruscotti,  con  ambasciate  e  bi- 
glietti e  dippiù  con  sfacciataggine  ardisce  anche  costei  di 
andare  la  notte  vestita  da  uomo,  armata,  e  con  altri  di  co- 
mitiva ad  appostarlo  sotto  il  Portone  della  Casa,  di  ma- 
rnerà che  è  costretto  di  non  escir  di  casa  per  non  cimen- 
tarsi con  tal  donna.  Supplica  per  le  più  opportune  previ- 
denze per  acquistare  la  sua  quiete  » . 


—  221   — 

Il  ^Coretto  squattrinato  : 

«  Giovanna  Zambini  non  potendo  essere  soddisfatta  di 
due  mercedi,  che  ascendono  alla  somma  di  80  due.  dal- 
l'Impresario del  Teatrino  del  Largo  del  Castello,  di  cui  la 
supplicante  è  attrice,  insta  per  un  ordine  efficace  all'Udi- 
tore dell'Esercito  ». 


V. 


Noterelle  del   1777  : 

Muore  don  Antonio  Iolli. 

Corse  di  barberi  a  Portici. 

Da  Caserta,  25  Settembre  :  «  Per  la  morte  dell'infante 
Filippo  restino  chiusi  per  sette  giorni  i  teatri  —  Firmato  : 
Il   Re». 

Salta  in  capo  a  tal  Giovanni  Ghermig  di  stampare  una 
Gazzetta   teatrale. 

I  comici  del  teatro  Nuovo  vanno  a  Castellamaie  e  re- 
citano davanti  al  re. 

Una  compagnia  Francese  al  Nuovo. 

Bando  perchè  i  cantanti  non  vadano  in  giro  giorno  e 
notte   «con  detrimento  della  voce». 

Tomeo  in  una  supplica  :  «  La  maggior  parte  dei  miei 
comici  si  sono  resi  esosi  al  publico  che  affatto  non  li  vo- 
gliono sentire  per  le  loro  insipidezze  e  taluni  altri  per  l'im- 
proprio rappresentare  anche  non  possono  essere    ascoltati ,v . 

Gran  brava  pasta  d'uomo,  quel  don  Tommaso  ! 


222  — 


1778. 

.   Noterelle  del  mio  taccuino  : 

II  comico  del  San  Carlino  Francesco  Vitonomeo  fugge  a 
Roma  mentre  è  scritturato  da  Tomeo. 

Tomeo  scrittura  l'amoroso  Gaetano  Buonamici  che  intanto 
firma  un  altro  impegno  con  l'impresario  del  Valle  di  Roma. 
Sospettando  del  Buonamici  Tomeo  lo  fa  arrestare  e  con- 
durre alle  carceri  di  S.  Giacomo.  Dice  don  Tommaso  che 
egli  non  può  far  a  meno  d'un  personaggio  «  tanto  essen- 
zialissimo».  E  così  Buonamici  ogni  giorno  è  accompagnato 
dagli  sbirri  al  concerto  e  alla  recita,  e  riaccompagnato  dal 
teatro  alle  carceri  !  Restituisce  all'impresario  del  Valle  20 
scudi  e  resta  al  San  Carlino,  per  ordine  del  re,  fino  al  1779. 

L'impresa  del  San  Carlino  e  tenuta,  in  quest'anno,  da 
Tommaso  e  Salvatore  Tomeo,  zio  e  nipote. 

E  arrestato  quel  povero  diavolo  di  Giovanni  Antonio 
Soriani,  suggeritore  al  San  Carlino.  Nella  notte  del  9  ot- 
tobre 1 778  «  non  ostante  che  non  gli  avessero  trovato  so- 
pra armi  proibite  »  il  capitano  degli  sbirri  di  ronda,  Vin- 
cenzio Montuori,  lo  maltratta  e  lo  accompagna  alle  carceri 
di  S.  Giacomo. 

Tomeo  s'indebita  con  mezzo  mondo.  Un'Anna  de  Stasio, 
sua  creditrice  per  950  ducati,  fa  istanza  per  avere  il  pri- 
mato tra  coloro  a'  quali  Tomeo  deve  denaro. 

Dal  Natale  del  1777  fino  a  tutto  il  carnevale  dal  1778 
Gaetano  Novi,  impresario  del  Fiorentini,  lo  dà  in  fitto  al 
Tomeo.   Si  rappresentano  in    quel    teatro    venti  commedie. 


—  223  — 

Tomeo  ha  l'onore  di  vedere  il  re  alle  recite  e  ne  lo  rin- 
grazia con  una  supplica  con  la  quale  chiede  una  regalia 
per  i  palchi  che  ha  preso  S.   M.  Gli  si  danno  40  ducati. 

Altri  debili.  Don  Sabino  Negri,  che  ha  prestato  a  To- 
rneo «  gratis  gratia  et  amore  »  500  ducati,  glie  li  chiede 
per  «  fare  li  fatti  suoi  » .  Tomeo  cerca  di  sfuggire  al  paga- 
mento. 

Prende  un  socio  nell'impresa  :   Emanuele   di    Domenico. 

1779. 

Debiti,  debiti,  debiti.  Non  altro  che  debiti.  Finalmente 
il  consigliere  Caruso  è  destinato  «  per  l'esazione  delle  ren- 
dite di  Tommaso  Tomeo  per  pagare  li  suoi  creditori  ». 

In  ogni  Quaresima  commedie  di  'Pupi  con  teste  di  legno, 
al   San  Carlino. 

I  comici  lombardi  cercano  di  togliere  al  Tomeo  il  teatro 
della  Fiera  e  non  vi  riescono. 

Ho  notizia  di  un  nuovo  comico  sancarliniano.  E  tal  Gio- 
vanni Greppi,  di  Bologna.  Scritturato  fin  dal  1 777  con 
Tomeo,  lo  abbandona  per  andarsene  a  Roma.  Torna  a 
Napoli  nel  '79  con  la  uniforme  di  «  capitano  della  Truppa 
del  Papa  »  ;  Tomeo  lo  riconosce  e  vuol  farlo  arrestare.  E 
arrestato,  difatti,  e  condotto  alle  prigioni  di  S.  Giacomo. 

Questo  e  l'anno  1 780  passano  abbastanza  tranquillamente 
per  Tomeo.  Egli,  a  mano  a  mano,  va  modificando  il  suo 
personale  comico.  Gli  riman  sempre  fedelissimo  Qiancola, 
che  è  pur  necessario,  d'altra  parte,  lasciare  al  San  Carlino: 
i  napoletani  non  possono  vivere  senza  Giancola. 

Tommaso  e  Salvatore  Tomeo  scritturano  il  comico  Giù- 


—  224  — 

seppe  Azzalli,  che,  imitando  i  suoi    predecessori,    si    nega 
di  recitare.  Poi  la  faccenda  s'accomoda. 

La  nobiltà  al  San  Carlino.  Nella  sera  del  27  novembre, 
nel  vicoletto  Travaccari,  a  ridosso  del  teatro  «  sortisce  briga 
tra  la  famiglia  del  duca  di  Castel  di  Sangro,  ch'era  venuto 
ad  ascoltare  l'opera  in  uno  di  quei  Palchi  »  e  alcuni  coc- 
chieri «  non  liquidati,  per  cui  ne  rimane  ferito  in  testa  il 
volante  di  esso  duca  » . 


Documento  d'una    nutrice  : 

«  Giovanna  di  Sei  :  Oice  d'aver  dato  latte  per  tre  mesi 
ad  una  fanciulla  di  una  commediante  che  recitava  al  Teatro 
di  San  Carlino  e  che  ora  si  ritrova  in  Catania.  Che  la  me- 
desima gli  ha  fatto  pagare  alcune  mesate  da  quella  Donna 
che  ha  occupato  il  di  Lei  luogo  in  detto  Teatro  e  perchè 
ora  è  morta  detta  fanciulla  ricusa  detta  Commediante  di 
soddisfargli  ciocche  gli  è  rimasto  a  dare  per  tal  causa. 
Chiede  perciò  gli  ordini  convenevoli  per  tal  causa  » . 

Continuano  i  guai  di  Tommaso  Tomeo.  I  creditori  se- 
guitano a  lagnarsi  e  ogni  tanto  ne  spunta  uno  novello.  Cat- 
tivi giorni  per  l'impresario  e  pei  comici.  Si  va  a  recitare 
al  teatro  della  Fiera  e  questa  volta,  peggio  che  mai,  la 
sorte  s'addimostra  loro  contraria.  Tommaso  Tomeo,  dispe- 
rato, scrive,  con  la  solita  sua  purissima  forma  di  lingua, 
al  re  : 

«  Tommaso  Tomeo  genuflesso  umilmente  al  RI.  Trono 
colle  lacrime  negli  occhi  espone  al  Suo  Amabilissimo  So- 
vrano le  sciagure  sofferte  nel    corso    dei    giorni    settantun© 


—  225  — 

della  Fiera  che  si  è  sostenuta  all'incontro  della  Real  Villa 
nella  spiaggia  di  Ghiaia  ove  il  supp.'°  secondo  l'antico  so- 
lito, quando  la  RI.  Fiera  è  stata  avanti  del  V.  RI.  Palazzo 
nel  Largo  del  Castello  opure  vi  è  intervenuto  con  la 
Comp.a  dei  Comici  per  ivi  far  rappresentare  le  comedie 
per  divertimento  del  publico. 

Ma,  S.  R.  M.,  in  questo  riscontro  della  scorsa  Fiera  ha 
il  supp.te  urtato  nella  disgrazia  non  mai  opinata  poiché  avan- 
zato l'estaglio  più  del  solito  per  la  distanza  del  luogo  e 
per  l'amenità  di  quella  RI.  Villa  la  gente  tutta  era  portata 
a  divertirsi  in  quella,  e  non  passarli  neppure  per  pensiero 
di  portarsi  nel  Teatro  cosicché  l'afflitto  Oratore  ha  giornal- 
mente rifoso  l'intiero  spesato,  ne  vi  è  stato  giorno  che 
avesse  almeno  introitato  la  fatta  spesa  che  per  non  dar  cat- 
tivo esempio  all'altre  Bai  acche  non  ave  il  supp.te  fatto  tra- 
lasciare le  recite  della  sua  povera  compagnia,  come  noto 
a  tutti  non  men  che  allistesso  Cavaliere  Deputato  della 
R.  Deput.  dei  Teatri  e  spettacoli  per  cui  va  il  supp. te 
debitore  di  ducati  300  per  compimento  del  convenuto 
estaglio. 

Ricorre  pertanto  dall'  innata  pietà  e  clemenza  della 
M.  S.  acciò  col  Denigrassimo  occhio  della  Patema  Sua  Cura 
miri  lo  Stato  deplorabile  di  esso  supp.,e  che  non  ha  modo 
alcuno  a  poter  soddisfare  il  comp.'0  sudetto  se  non  se  l'ina- 
bile sua  persona  alla  quale  la  M.  S.  ne  usarà  tutta  la  com- 
miserazione, attento  il  pietosissimo  suo  animo  pei  il  di  cui 
effetto,  per  le  circostanze  di  sopra  enarrate  spera  dalla  S.  R. 
Munificenza  essere  assoluto  dal  pagto  sud10  per  singoiar  gra- 
zia ut  Deus  &  » . 

Era  in  quel  tempo  scrivano  al  teatrino    della     Fiera    tal 

DI  GIACOMO.  -  S.    Carìr.o.  I  5 


—  226  — 

Francesco  Mana  Lupari,  che   dalla  vacchetta    de!    Tomeo 

forni  alì'uditor  dell'Esci  cito  le  note  seguenti  : 

Introito  totale Due.                     1204,16 

Spese  giornaliere     ......  »       724,77 

Compadroni  di  Tomeo     ....  »         7 1 ,82 

Compagnia  per    un    mese      ...  »       1 36,00 

In  conto  estaglio »       231,01 

Ultime  spese »        38,16 

Somma  di  tutto  l'esito »       120,76 

Più  Guardaroba »            1 ,40 


Sono  Due.  1204,16 

Tomeo  ha  dunque  speso  tutto  ì  introito,  non  un  grano 
di  più,  non  uno  di  meno  ;  nemmanco  a  farlo  apposta  !  Gli 
attori  erano  quindici  ;  ognuno  di  loro  ha  avuto  nove  ducati 
e  venti  grana  alla  fine  del  mese  di  recite. 

E  l'Uditore  dell'Esercito,  Ferdinando  Dattilo,  nota,  nella 
sua  relazione,  che  la  perdita  sarebbe  stata  maggiore  «  qua- 
lora il  Tomeo  avesse  dovuto  soccombere  col  pagamento 
della  Carrozza  che  in  ogni  sera  li  abbisognava  per  comodo 
delle  Donne  che  andavano  alle  recite  delle  commedie.  Ma 
si  vide  alleviato  da  tale  dispendio  per  la  generosità  del 
Duca  di  Valentino  il  quale  compassionando  la  povertà  di 
detta  gente  le  mandava  in  ogni  sera  il  suo  carrozzone  » . 
In  certe  sere  il  publico  era  così  scarso  da  dover  costrin- 
gere Tomeo  a  licenziarlo  e  levar  cartello  :  quattro  o  cinque 
persone  in  platea  e  tutti  i  palchi  vuoti.  Immaginarsi  che 
desolazione  ! 

Con  tutto  questo  il  re  tien  duro  e  non  accorda  nulla  al- 
l'infelice impresario,     «non    volendo    dare    quest'esempio» 


—  227  — 

dice  la  risposta  alla  supplica,  nell'undici  dicembre  dello 
stesso  1781.  Soltanto,  per  far  qualche  cosa,  Sua  Maestà 
proibisce  al  ballerino  Schifici  —  che  in  quel  tempo  «  s'ha 
costruito  un  magnifico  casotto  di  rimpetto  San  Carlino  con 
disegno  di  esponervi,  oltre  balli  e  salti  del  suo  mestiere, 
anche  divertimenti   teatrali  »  —  di    rappresentar    commedie. 

1782-1789. 

Proibizione  ai  saltimbanchi  di  Piazza  del  Castello  «  di 
lavorarci  con  loro  giochi  »   nelle  mattine  de'  giorni  festivi. 

Tommaso  Tomeo,  creditore  del  Principe  di  S.  Severo  (1) 
per  110  ducati  d'affitto  di  palchi,  li  ottiene,  finalmente,  ri- 
volgendosi al  marchese  Danza,  soprintendente  della  casa 
del  principe.  Continuano  i  creditori  di  Tomeo  ad  affollarsi 
attorno  al  consigliere  Caruso,  amministratore  delle  rendite 
di  lui.  Uno  dei  creditori,  don  Sabino  Negri,  riceve  la  sua 
parte,  mese  per  mese,  dallo  scrivano,  addetto  al  San  Car- 
lino, Lupari,  un  grande  farabutto.  Si  lagna  perchè  il  Lu- 
pari  «  si  ritiene  in  ogni  liberazione  una  porzione  a  suo  pia- 
cimento a  titolo  di  regalia  » . 

Torneò  ottiene  ,  riuscendo  a  intenerire  i  suoi  creditori, 
una  moratoria  di  sei  mesi. 

Nello  stesso  1 782  quell'Onofrio  Mazza,  della  vecchia 
compagnia  della  Cantina,  chiede  al  re  il  permesso  d'esporre 
una  statua  di  cera   «  del   servo    di    Dio    Benedetto    Labre 


(1)  Don  Raimondo  di  Sangro ,  interessantissima  figura  di  signore  napole- 
tano. Vedi:  S.  DI  GIACOMO— Celebrità  napoletane.  V.  pure:  M.  SCHE- 
RILLO — L'opera  luffa  napoletana.  Coli,  settecentesca  Sandron,  191 7. 


22-3  

senza  riscuoter  nulla  eccetto  che  qualche  limosina  che  gra- 
ziosamente gli  si  darà».  Povero  Mazza!  A  questo  era  ri- 
dotto. 

Nell'83  il  direttore  di  scena  del  San  Carlino,  Bartolo- 
meo Penna,  per  non  rimanere  addietro  al  suo  principale  don 
Tommaso,   si  copre  di  debiti  anche  lui. 

Tomeo,  nell'estate,  passa,  con  la  sua  compagnia,  a  Porti 
Capuana  e  vi  fa  recitare  i  comici  in  un  giardino,  come  ai 
bei  tempi  antichi.  Il  giardino  appartiene  a  don  Antonio 
Saggese.  Il  San  Carlino  rimane,  temporaneamente,  chiuso. 
E,  in  una  baracca  al  largo  dei  Castello,  Andrea  Chiupari 
«  rappresenta  al  publico,  con  tutta  la  decenza  conveniente, 
una  sua  figlia  di  una  curiosa  costruzione  tutta  tigrata  e  co- 
verta di  pelo,  la  quale  in  altri  luoghi  e  Corti  ha  meritato 
l'osservazione  di  diversi  sovrani  ed  altri  distinti  personaggi  8 . 

Nell'85  ia  compagnia  di  don  Tommaso  torna  a  emigrare 
a  Porta  Capuana. 

Nell'86  Onofrio  Mazza  chiede  d'esser  ripreso  in  compa- 
gnia. La  sua  statua  di  cera  non  attira  nessuno  più.  11  Mazza 
accusa  Tomeo  di  prepotenza  e  di  male  arti  ;  lo  denunzia 
perfino  come  «  ingannatore  della  R.  Udienza,  avendo  e  gir. 
registri  falsi  ».  Bel  modo  di  rientrare  in  grazia!  Natural- 
mente non  cava  un  ragno  dal  buco  e  in  compagnia  non. 
rientra. 

Nel  novembre  dell'87  riappare  un  altro  dei  vecchi  co- 
mici della  Cantina,  quel  Francesco  Vitonomeo  che  a'  suoi 
be'  tempi  vi  recitò  da  amoroso.  Ora  è  capo  d'una  troupe 
di  commedianti  di  cui  primo  attore  è  un  Pasquale  Pianata 
e  prima  donna  una  Eleonora  Radice.  Chiedono  di  potei 
«  erigere  un  teatro  fuori  Porta  S.  Gennaro  » . 

Tommaso  Tomeo  nell'88  chiede  di  poter  trasportare     la 


229  — 

compagnia  in  un  giardino,  nei  pressi  della  stessa  Porta  San 
Gennaro.  In  quei  dintorni,  e  proprio  al  vico  Crocelle,  è  un 
teatrino  ove  il  comico,  cantante,  antico  attore  della  Cantina, 
Giuseppe  Teperino,  fa  recitare  una  compagnia   di  ragazzi. 

Nel  gennaio  dell'89  son  o  impresarii  del  San  Carlino 
Tommaso  e  il  nipote  Salvatore  Tomeo.  Scappa  a  Roma, 
sotto  finto  noine,  il  loro  comico  Carlo  Catani,  con  i  denari 
che  gli  hanno  anticipato  per  la  sua  scrittura.  Questo  docu- 
mento è  tra  le  carte  d'Archivio,  al  28.°  fascio  teatrale; 
uno  studioso  di  cose  napoletane  ,  or  da  parecchio  morto, 
Vincenzo  d'Auria,  ccscenzioso  ed  assiduo  ricercatore,  me 
lo  accrebbe  di  altre  notizie  dalle  quali  cavo  che  il  Catani 
era  scritturato  in  qualità  d'amoroso,  dal  1 789  al  carnevale 
del    1  790,  come  da  questa  fede  del  notaio  de  Roma  : 

«  Fo  fede  io  sottoscritto  Notaro,  qualmente  don  Tomaso 
e  don  Salvatore  Tomeo,  Impresarii  del  Teatrino  al  Largo 
del  Castello,  trovansi  aver  scritturato  per  detto  lor  Teatrino 
in  qualità  di  amoroso  Carlo  Catani,  tanto  per  il  corrente 
anno  quanto  per  l'anno  venturo  terminando  ad  ultimo  Car- 
nevale 1790,  siccome  da  scritture  che  conservo:  ed  in 
fede  :  Io  notar  Pietro  de  Roma,  di  Napoli,  richiesto  ho  se- 
gnato » . 

E  per  chi  voglia  sapere  come  si  facessero  le  scritture  di 
quel  tempo  ecco  appunto  il  così  detto  albarano  stipulato  tra 
i  Tomeo  ed  il  Catani  : 

«  Col  presente  Albarano  tra  noi  sottoscritti  D.  Tomaso 
e  D.  Salvatore  Tomeo  impresarii  del  Teatrino  al  Largo 
del  Castello  Nuovo  da  una  parte  ed  il  signor  Carlo  Ca- 
tani dall'altra  parte  siamo  venuti  a  convenzione  mediante  la 
quale  io  sottoscritto  Catani  prometto  e  mi  obbligo  di  reci- 
tare così  in  detto  Teatrino  come  in  qualsiasi  altro  Teatro, 


IV 


giorno  e  sera,  a  disposizione  di  detti  signori  Tomeo,  cosi 
in  Napoli  come  fuori  Napoli,  con  rappresentare  tutte  queìle 
parti  che  mi  si  daranno,  e  questo  durante  il  tempo  di  un 
anno  comico  principiando  dal  giorno  di  Pasqua  di  Resur- 
rezione del  venturo  anno  1 788  per  tutto  Carnevale  del- 
l'anno appresso  1  789  con  recitare  giorno  e  sera  così  in  Na- 
poli come  fuori  Napoli,  con  assistere  ai  concerti  ed  a  questi 
non  mancare  mai  per  qualunque  ragione.  Ed  all'incontro 
noi  sottoscritti  Tomeo  ci  obblighiamo  insieme  di  pagare  al 
detto  Catani  per  le  recite  suddette  la  somma  di  ducati  cen- 
tossessanta  da  ripartiglieli  mensatamente  dal  detto  giorno  di 
Pasqua  3  788  in  avanti  ;  e  per  la  consecuzione  dei  mede- 
simi si  possa  il  presente  albarano  per  detto  signor  Catani 
contro  noi  sottoscritti  Tomeo  insieme  verificare  ed  incusare 
via  riius  M.  S.  Vic.a  disegnando  a  tal  effetto  per  luogo 
di  citazione  la  Curia  del  sottoscritto  Notaio.  E  coi  seguenti 
patti  va  detto  che  si  debba  dare  a  me  sottoscritto  Catani 
il  Vestiario  Teatrale.  Dippiù  andando  a  recitare  io  sotto- 
scritto Catani  fuori  Napoli  mi  si  debba  dare  viaggio,  al- 
logio  ed  il  trasporto  per  il  letto. 

E  contravvenendo  ciascuno  di  noi  sottoscritti  dal  di  sco- 
pra espressato  debba  la  parte  controvenente  rifare  all'  altra 
ì  danni,  spese  ed  interessi,  oltre  le  pene  che  se  gì'  impor- 
ranno dal  Consigliere  Deputato  del  Teatrino  suddetto  e  così 
sarà  fatto. 

Obbligando  perciò  le  nostre  persone  nostri  Eredi  succes- 
sori e  beni  tutti  presenti  e  futuri  col  cosi.0  e  prec.0  pena, 
rinuncia  e  giuramento  in  forma.   Napoli,  li  12  agosto    1787  ». 

Per  provare  ì'  anticipazione  fatta  d'  una  parte  del  denaro 
della    scrittura    all'  amoroso    Catani  i    Tomeo    presentarono 


—  231   — 

un'  altra  fede,  che  ci  fa  sapere  come,  nel    1 787,  il  cassiere 
del  Teatro  San   Carlino  fosse  tal  Giuseppe  di  Giovanni. 

Nel  '94  muore  il  consigliere  Caruso.  Tomeo  è  ancor  pieno 
di  debiti  e  ancora,  forse,  ne  va  facendo.  A  ogni  modo  egli 
spedisce  una  supplica  ai  re,  così  riassunta  dall' L  ditore  : 

«  Tommaso  Tomeo  impresario  del  Teatrino  al  Largo  del 
Castello  domanda  che  si  destini  un  altro  ministro  il  quale 
invece  de!  defunto  caporuota  Caruso  proceda  con  le  stesse 
facoltà  economicamente  per  la  soddisfazione  dei  rimanenti 
suoi  creditori  ;  affinchè  1'  Udienza  di  Casa  Reale  tenendo 
presente  la  sovrana  determinazione  dei  due  aprile  3  778  colla 
quale  fu  incaricato  il  defunto  Caporuota  Caruso  di  desti- 
nare un  subalterno  eh'  esigga  le  rendite  delle  case  del  ri- 
corrente ed  esigga  anche  i  frutti  giornalieri  del  Teatro  per 
ripartirsi  tali  somme  dal  Caruso  ai  Creditori  del  supplicante, 
informi  col  suo  parere.  —  Palazzo,  15  novembre  3  794  — 
Carlo  De  Marco  al  signor  Generale  Spinelli  ». 

Nel  '90  don  Tommaso  avea  chiesto  il  permesso  di  po- 
ter fare  rappresentare  <  commedie  sacre  in  prosa  intermez- 
zate di  qualche  aria  in  musica,  da  ragazzi  ».  Il  San  Carlo 
aveva  la  privativa  di  questi  oratorii  ;  a  ogni  modo  il  per- 
messo fu  conceduto.  In  appresso  Tomeo  chiede  licenza  per 
passare,  con  la  sua  compagnia,  in  un  giardino  a  Foria,  rim- 
petto  S  Carlo  all'  Arena.  Ma  come  in  quei  pressi  un  altro 
teatro  è  sorto,  il  re  non  permette  a  Tomeo  di  fargli  con 
correnza.  Quel  nuovo  teatro,  nel  4  agosto  1  790  { 1  ),  con  • 
licenza  del  re,  prende  il  nome  di  San  Ferdinando. 


(I)   Fascio   Teatrale   XXXIX. 


—  232  — 

Nel  '91  il  Torneo  «  si  associa  ad  una  compagnia  volante 
di  cantanti  che  rappresentano  in  musica  varie  commedie 
fatte  in  altri  teatri  piccioli  di  Napoli».  E  così,  ora  con 
socii,  ora  da  solo,  tra  prosa  e  musica  e  commedie  sacre  e 
profane  Tommaso  Tomeo  il  moretto,  tira  avanti  con  sem- 
pre la  speranza  di  migliorare  le  cose  sue.  Egli,  oramai  già 
vecchio,  può  dire  d'avere  ben  allegramente  vissuto  :  grande 
amico  di  gonnelle,  come  è  stato  in  giovinezza,  anche  ora 
le  rincorre  come  può,  malfermo  sulle  gambe  che  si  rifiutano. 
Di  lui  si  dice  che  abbia  in  casa  —  in  quella  casetta  al  pri- 
mo piano  sullo  stesso  teatro  San  Carlino,  tutta  vasi  di  fiori 
alla  terrazzina  che  affaccia  in  Piazza  del  Castello — qualche 
donnina  che  compie  ben  altri  ufficii  che  non  sieno  quelli 
inferiori  d'  una  semplice  serva.  E  anche  si  dice  che,  tal- 
volta le  donnine  siano  due  ,  talvolta  pur  tre.  Un  piccolo 
harem,  infine,  di  cui  mi  parla,  sorridendo,  qualcuno  dei  di- 
scendenti di  quel  caro  uomo. 

Torniamo  al  San  Carlino.  Nel  1 796  la  numerosa  sua 
compagnia  è  tutta  citata  in  questa 

Nota  degli  Individui  e  subalterni  del  teatro  S.  CARLINO 
al  Largo  del  Castello  (1). 

Cassiere  —  Notar  Pietro  de  Roma. 

Comici  —  Gaetano  Buonamici,  Carlo  Catam,  Nicola  Pertica, 
Stefano  Gngnani,  Francesco  Coscia,  Francesco  Linder,  Giuseppe 
Belver,  Vincenzo    Cammarano,   Filippo    Cammarano,   Giuseppe 


(1)  Deve  anche  a!  d' Auria  questo  interessante  documento. 


233  

di  Giovanni,   Giuseppe    Mosso,    Camillo    Fracanzani,  Alessan- 
dro Fracanzani. 

T)onne  —  Rosa  Grignani,   Carlotta    Angiolini,  Anna  Buona- 

mici,  Orsola  Fracanzani,  Rosa  Pellissier. 

Orchestra  —  Violini:  Francesco  Navarxa,  Giovanni  Carraturo, 
Raffaele  Mariani,  Carlo  Graffe.  —  Controhasso  :  Giuseppe  Osci- 
tano.  —  Corno  da  Caccia  :  Giuseppe   Valenza. 

Ssdiarii  di  'Platea  —  Pietro  Nigro..   Bartolomeo  di  Marco. 

Portinai  di  Platea  —  Giovanni  di  Manno.  Gaetano  Lettiero. 

Assistenti  di  Porta  —  Stefano  Gronchi,  Lorenzo  Cammarano. 

Luminano  —  Nicola  Giammetraglio. 

Sartore  —  Giovanni  Stile. 

(guardaroba  —  Teresa  Faiella. 

Parrucchiere  —  Giovanni  Orlandino. 

Portinaio  di  Scene  —  Simone  Verona. 

Falegnami  —  Nicola  Giammetraglio,  Nicola  Pappalardo. 

Suggeritori  —  Vincenzo  Sicondolfo,   Pietro  Cappelli. 

Sediarii  di  Portantine  —  Francesco  Onorato,  Domenico  Ono- 
rato,  Domenicantonio  Cardillo,  Salvatore  Cardillo. 

Custode  del  teatro  —  Mariano  Y  itolo. 

Scrivano  dell'Udienza — Pietro   Ler. 

Impresario  —  Tommaso  Tomeo. 

Napoli,  25  maggio  1796.  (Relazione  de?  Duca  di  Noia  al 
signor  (generale  Spinelli.) 

VI. 

Il  notaio  de  Roma  ha  preso  il  posto  del  cassiere  Giu- 
seppe di  Giovanni  diventato  attore.  Dea  vecchi  commedianti 
della  Cantina  sono  ancora  nella  compagnia  del  Tomeo  Vin- 
cenzo Cammarano  e  Francesco  Coscia,  un  fratello  del  quale 
è  palchettaro.  Recita  assieme  al  padre,  Vincenzo,  Filippo 
Cammaranc,  già  pur,  da  un  pezzo,  poeta  della   compagnia, 


—  234  — 

e  un  altro  Cammaiano,  Lorenzo,  occupa,  come  vedete,  il 
nobile  posto  di  assistente  di  porta.  Il  sarto  delia  compagnia 
è  Giovanni  Stile,  altrimenti  chiamato  Qiovannone.  Lo  ritro- 
veremo in  appresso,  salito  a  ben  altri  onori.  Il  povero  Gio- 
vanni Antonio  Soriani  è  morto  ;  lo  hanno  rimpiazzato,  da 
suggeritori,  Sicondolfo  e  Cappelli.  I  Cardillo  e  gli  Onorato 
sono  i  sediarii  di  portantina  ;  un  altro  Cardillo,  nello  stesso 
anno,  è  professore  di  musica  d'  orchestra  al  San  Carlo, 

Tutti    costoro  li  ritrovò    nell'  esercizio    delle  lor  funzioni 
la  rivoluzione  del  novantanove. 

VII. 

In  quegli  ultimi  anni  del  settecento  il  teatro  San  C 
parecchie  volte  rimase  chiuso.  A  cominciare  dal  1 794  in 
cui,  nella  notte  del  1 2  giugno,  un  formidabile  tremuoto  sco- 
teva  tutta  la  città,  mentre  !'  eruzione  del  Vesuvio  seguiva 
tra  cupi  romori,  avvenimenti  non  meno  paurosi  si  succede- 
vano, tappando  la  gente  in  casa  e  lasciandovi,  pensosi  de! 
domani  quanti  amassero  libertà,  paurosi  e  tremanti  gl'incerti. 
Le  cose  di  Francia  cominciavano  a  mutare  in  apprensione 
la  malsicura  vigilanza  del  governo,  in  crudeli  processi  la 
severità,  la  giustizia  in  sopruso.  Funzionava  già  quella  Giunta 
di  Stato  a  cui  vanno  legati  con  eterna  infamia  gli  odiosi 
nomi  del  Vanni,  dello  Speciale,  del  Guidobaldi,  e  in  piazza 
del  Castello,  di  faccia  al  teatrino  abbandonato,  sotto  i  cannoni 
del  forte,  s'  alzava  il  palco  per  il  de  Deo,  pel  Vitaliani, 
pel  Galiani,  vittime,  tra  le  prime,  dell'odio  e  della  tiran- 
nide. Più  tardi,  neppur  le  cure  di  guerra  distoglievano  dal 
sospetto  interno  e  dalle  più  tristi  misure  il  governo,  e  specie 
i  teatri,  ove  si  credeva  che  potesse  raccogliersi,  con  la  scusa 


—  235  — 

dei  divertimento,  gioventù  congiurante,  furono  vigliati  con 
maggior  numero  di  scrivani  in  paicoscenico,  di  birri  trave-  s 
siiti  e  sparsi  nella  sala,  di  soldati  in  sentinella  alle  porte. 
I  comici  s' imparruccavano  fino  al  naso  e  la  parrucca  spar- 
gevano di  polvere  copiosa  e  si  radevano  accuratamente,  co- 
me tutti  gli  atterriti  dalle  novelle  misure  contro  certa  moda 
che  si  credeva  giacobina,  ed  era  poi  quella  di  lasciarsi  cre- 
scere il  pelo  in  (accia,  di  lasciare  a'  capelli  il  loro  naturai 
colore,  di  sopprimerne  il  codino  infioccato.  Una  canzonetta 
paurosa  correva  per  le  bocche  del  popolo  e  quattro  di  quei 
versi  dicevano: 

Se  vuoi  conoscere  li  giacobino 
e  tu  tiragli  il  codino, 
se  il  codino  ti  viene  m  mano 
quelio  è  vero  repubblicano... 

Lo  sgomento,  1'  incertezza  dilagavano.  Fra  tanto  il  re,  per 
non  darsi  V  aria  d'  un  perfetto  terrorista,  lasciava  che  i  tea- 
tri rimanessero  aperti,  anzi  voleva  che  si  seguissero,  senza 
interruzione,  gli  spettacoli,  come  per  distogliere  i  cittadini 
dall'orrore  de'  suoi  metodi  repressivi.  Cosi,  mentre  le  car- 
ceri s'  empivano  d'inquisiti  e  gì'  istromenti  della  tortura  tor- 
navano in  uso,  al  San  Carlo  si  davano:  La  morte  di  Cleo- 
patra del  Guglielmi,  1'  Ippolito,  dello  stesso  maestro,  l'An- 
dromaca di  Paisielìo,  la  Zulema  di  Giuseppe  Curci.  Nel- 
1'  Jlndromaca  debuttava  Rosalia  Cammarano  Vitellaro,  mo- 
glie d'  un  figliuolo  del  'Pulcinella  del  San  Carlino  e  pro- 
prio di  quel  Filippo  che  in  quel  tempo  preparava,  ai  sem- 
plici gusti  dei  frequentatori  di  quel  teatrino,  drammi  cavati 
dalle  vftCille  e  una  Notte  o  dalle  gesta  de'  briganti  Angelo 
del  Duca  e  Spicciar etti. 


—  236  — 

Al  Nuovo  furoreggiava  sempre  il  celebre  buio  Carlo  Ca- 
saccia,  or  nel!'  Eroismo  ridicolo  di  Gaspare  Spontini,  ora  in 
Dorina  contrastata;,  or  nella  Sposa  tra  le  impostare  di  Lui- 
gi Mosca.  Al  Fiorentini  faceva  concorrenza  al  Casaccia  il 
comico  Gennaro  Luzio,  nell'  Aporensico  raggirato  di  Cima- 
rosa,  nello  Sposo  senza  moglie  di  Valentino  Fioravanti,  ne' 
Tre  Rivali  del  Guglielmi.  Un'  altra  Cam  marano,  Domenica, 
figliuola  di  Giancola,  era  in  quella  compagnia  da  servetta 
'•affa.  Musiche  del  Tritto,  di  Paisiello,  di  Fioravanti,  di 
Giuseppe  Farinelli,  di  Giuseppe  Curci  erano  date  al  Fondo, 
spettacoli  in  prosa  al  nuovo  teatro  San  Ferdinando,  com- 
medie, col   Pulcinella,  al  San  Carlino. 

Fuggito  il  re,  nei  periodo  che  accompagnò  1*  entrata  dei 
Francesi,  nella  povertà,  nello  scompiglio,  le  vicende  tea- 
trali ebbero  sosta,  intesi  tutti  —  quali  ad  aiutare  coloro,  quali 
a  combatterli  —  in  più  affannose  e  concitate  bisogne.  Come 
parve  che  la  città  e  le  cose  sue,  sotto  i  novelli  auspicii, 
avessero  pace,  a  uno  a  uno,  i  teatri  si  riapersero.  Da  un 
manoscritto  del  tempo  (1)  cavo  qualche  curiosa  notizia  che 
li  riguarda. 

«  Mi  è  stato  riferito  —  scrive  1'  anonimo  compilatore  di 
quel  giornale  —  che  nel  Teatro  dei  Fiorentini  ieri  sera  (29 
gennaio,  1 799)  si  vide  ballare  la  prima  ballerina  mezzo  de- 
nudata quasi  sino  all' ombelico  ed  essersi  replicata  mente  ba- 
ciata col  ballerino.  Se  ciò  è  vero  mi  rincresce  perchè  non 
mi  pare  che  corrisponda  alle  massime  del  governo  che  an- 
nunzia virtù  e  libertà,  ma  non   libertinaggio,    e  se  il  Teatro 


(  1  )  Diario  3£apoletcnc,    Ms.,   Società  di  Sforca   Patria. 


—  237  — 

si  corrompe  anche  a  costumi  sì  corromperanno  ;  mi  auguro 
perciò  che  sia  dato  riparo  a  tali  laidezze.  » 

Più  avanti  scrive  : 

«  Questa  mattina,  si  son  trovate  murate  tutte  le  porte  del 
teatro  del  Fondo  di  Separazione.  E  si  è  saputo  essere  stato 
perchè  ieri  sera  vi  si  rappresentò  una  Comedia  in  prosa  il 
cui  soggetto  (Aristodemo)  si  fu  un  monarca  detronizzato  e 
poi  rimesso  sul  Trono.  » 

Naturale  ;  detronizzato  sì,  rimesso  sul  trono  no  ;  così  vo- 
levano i  giacobini.  Ed  ecco  chiuso  il  Fondo.  Dopo  qualche 
mese  è  riaperto  e  il  giornale  (1)  di  Eleonora  Fonseca  Pi- 
raentel  lo   annunzia  : 

«  5  marzo,  ventoso,  1  799.  —  lì  teatro  del  Fondo  che  dopo 
la  rivoluzione  aveva  assunto  il  titolo  di  'Patriottico  e  di  cui 
erano  state  murate  le  porte  per  esservisi  rappresentato  l'Ari- 
stodemo del  Monti,  riaperto  infine  la  sera  dei  3  marzo  ha 
quella  Compagnia  procurato  rimediar  1'  errore  con  rappre- 
sentare a  più  riprese  Catone  in  Utica.  Contemporaneamente 
si  è  rappresentata  in  quello  dei  Fiorentini  la  famosa  trage- 
dia di  Alfieri  la  Virginia.  11  pubblico  con  ripetuti  applausi 
all'  una  e  all'  altra  ha  mostrato  a  quei  Comici  quali  sieno  i 
soggetti  eh'  egli  ama  rappresentati  e  i  sentimenti  di  cui  solo 
si  compiace.  » 

Lo  stesso  Monitore  narra  di  Championnet  — che  apparendo 
al  Fondo,  in  un  palco,  fu  applaudito  fragorosamente — del 
i^icanore  dato  al  San  Carlo  (allora  teatro  Razionale) 
per   «  solennizzare  la  espulsione  dell'ultimo  tiranno  » — delle 


(1)   Monitori  napoletano,    n.    IO. 


—  238  — 

voci  eli  :  stuoia  il  tiranno  !  che  si  udirono  tuonare  nella 
sala,  a  spettacolo  finito.  «  Una  voce  —  soggiunge  la  Pimen- 
tel  —  non  si  sa  di  dove  partita,  rispose  a  quegli  urli  :  E 
pure  tornerà  !  »  E  il  teatro  fu  messo  sossopra  da'  patrioti, 
che  cercavano  il  misterioso  interlocutore.  Tuttavia  nessuno 
seppe  mai  chi  fosse  stato.  Un  borbonico,  o  un  semplice 
profeta  filosofo  ?  A  ogni  modo,  sventuratamente,  gli  dette 
ragione  il  tempo. 

Continuando  l'interregno  francese  i  teatri  non  offersero 
più  se  non  spettaceli  assolutamente  democratici  ;  così  fu 
concesso  il  San  Carlo  a  Claudio  Aurillon,  cavallerizzo, 
perchè  lo  mutasse  a  piacer  suo  in  circo  e,  con  la  moglie 
Carolina  e  i  suoi  acrobati,  vi  addestrasse  quadrupedi.  Il 
Fondo,,  tra  un  Jlridodemo  e  un  Catone,  fu  usato  pel  Qiuoco 
della  bombola,  mentre  al  famoso  ciurmatore,  detto  lo  Spo- 
leiino,  era  vietato  a  organizzare  lotterie  in  piazza.  Stabiliti 
dai  francesi  sei  comitati,  nel  6  gennaio  (piovoso),  i  teatri 
«  in  rapporto  alia  morale  »  erano  sotto  la  giurisdizione  di 
quello  interno.  Poco  concorso  ;  ove  si  raccogliesse  gente 
era  maggiore  il  pericolo.  Si  ricordavano  i  fatti  del  1 4 
gennaio,  in  cui,  da  Capua  arrivati  a  Napoli  in  cinque  car- 
rozze molti  francesi,  gli  emissarii  del  Vicario  —  come  dice 
1*  anonimo  d'  un  altro  Diario  del  tempo  —  li  andarono  cer- 
cando, co'  lazzari  «  sedotti  >  del  Largo  del  Castello,  in 
tutti  i  teatri  della  città  (1).  La  prima  visita  dovette  seguire  al 
San  Carlino,  come  quello  che  si  trovava  giusto  in    Piazza 


(1)  Ms.   nella  Biblioteca  Nazionale  —  Napoli. 


—  239  — 

del  Castello.  I  lazzari  disarmarono  i  soldati  di  guardia  alle 
porte,  irruppero  in  teatro,  lo  rovistarono  e,  riuscitine,  si 
sbizzarrirono  a  fermare  le  carrozze  che  passavano,  con  la 
scusa  di  vedere  se  nascondessero  giacobini.  Poco  appresso, 
alle  grida  di  :  'Diva  S.  Gennaro  /  'Viva  la  Santa  Fede  /, 
era  assalito  e  preso  Castelnuovo.  Che  musica,  non  è 
vero  ?  immaginatevi  San  Carlino  ,  preso  addirittura  fra  due 
fuochi.  I  Tomeo,  in  odor  grande  di  borbonici,  per  quanto 
li  affidasse,  sui  primi  moti,  la  sollevazione  realista  della 
plebe,  sentivano  troppo  da  vicino  i  jurons  francesi  per  non 
sospettare  di  veder  lanciate,  da  un  momento  all'altro,  le 
loro  vecchie  parrucche  in  piazza  e  arsa  la  loro  baracca. 
Tuttavia,  scambio  di  chiuderla,  stimarono  prudente  conti- 
nuare negli  spettacoli  come  appena  la  città  mostrasse  d'an- 
darsi rappaciando.  E  questo  ch'io  dico  è  confermato  dal 
róiCconto,  che  faceva  di  quei  tristi  giorni  il  duca  di  Alba- 
neto,  hrancesco  Proto,  a'  suoi  nipoti,  tra'  quali  il  nostro 
buon  duca  di  Maddaloni.  Narrava  il  d'Albaneto  come, 
nel  marzo  del  '99,  egli  si  trovasse,  con  l'amico  marchese 
di  Paglieta  Pignatelli,  a  San  Carlino,  ove  si  dava  una 
commedia  tutta  da  ridere  col  Pulcinella  e  co'  buffi.  C'era 
poca  gente  a  teatro  ;  pareva  quasi  che  i  comici  recitassero 
sbigottiti,  che  il  ridicolo  venisse  fuori  da  un  terrore  gene- 
rale e  naturale.  Terminato  lo  spettacolo,  sulle  undici  ore  di 
notte,  il  duca  e  il  Pignatelli,  a  braccetto,  s'avviarono  a  casa, 
pigliando  per  piazza  del  Castello.  La  sentinella  francese  alla 
Quardiola  come  se  li  vide  passar  d'avanti  gridò  :  Qui  vive  ? 
E  come  quei  due,  non  sapendo  che  rispondere,  se  la  da- 
vano a  gambe,  il  soldato  tirò  contro  di  loro  due  colpi,  an- 
dati a  vuoto  nell'oscurità. 


—  240  — 

Notti  di  orrore,  urli  eli  feriti  e  d'inseguiti  per  le  vie, 
case  spogliate,  supplizio  continuo  d'animi  liberi,  fatti  lazza- 
reschi  del  Cristallaro,  del  Tanfano,  di  £%Cichele  il  'Pazzo, 

quest'ultimo  ora  francoRlo  ora  ferdinandeo,  confìsca  di  per- 
sone e  di  beni,,  prepatata  la  Fossa  nell'isola  di  Favignana 
ai  ribelli,  processi  e  condanne  spediti  ad  horas  et  ad  mo- 
dum  belli,  giudizii  iniqui  e  inappellabili,  torture  e  impicca- 
gioni, ecco  quanto  accadeva  ogni  giorno  dopo  la  ritirata 
dell'esercito  francese  e  il  precipizio  della  republica. 


Vili. 


Tornato  appena  Ferdinando  IV  a  Napoli  gli  antichi  suoi 
devoti,  fra'  quali  i  buffi,  de'  teatri  della  città,  ch'egli  ono- 
rava della  sua  protezione,  si  presentarono  al  baciamano,  in 
Palazzo  Reale.  «  Vi  fu  —  dice  l'anonimo  del  Diario  con- 
servato alla  Società  di  Storia  Patria  —  la  compagnia  del 
teatro  dei  Fiorentini,  ed  avendo  S.  M.  detta  qualche  parola 
al  primo  buffo  Gennaro  Luzio,  costui  lo  pregò  a  far  aprire 
i  teatri,  dicendo  mancarli  da  vivere.  Il  Re  gli  disse  :  E 
perchè  siete  voi  giacobini  ?  —  Signur),  non  simmo  nuie 
—  rispose  Luzio.  Ed  il  Re  disse:   Non  è  tempo  ancora  ». 

La  sera  del  4  novembre,  ricorrendo  l'onomastico  della 
regina,  fu  riaperto.,  per  la  prima  volta  dopo  i  fatti  della 
rivoluzione,    «  il  Teatrino  di  Corte,  »   ove  si  fece  musica. 

Un  mese  dopo  i  teatri  ricominciarono  ad  alzare  cartello. 
Nel  22  luglio  «  per  l'ingresso  vittorioso  dell'armata  del  re 
e  per  l'abbattimento  della  Repubblica  »   s'era  già    data    al 


PAOLA  SAPUPPO. 


I  >.-i   ni:    disegno   di  Gius.   Ci 


BiRl,  Lucrili 


—  241   — 

San  Carlo  una  Cantata  del  Tritto,  intitolata  //  disinganno. 
1  cantanti  cesarei  furono  Eliodoro  Bianchi,  Luigi  Martinelli, 
Orsola  Fabrizii,  Angela  Albertini  e  Pietro  Matteucci. 


IX. 


Adesso,  mentre  il  secolo  muore,  i  cittadini  napoletani  cele- 
brano, accanto  al  fuoco,  pensosi,  il  loro  triste  Natale.  Son- 
necchia tra  la  bambagia  della  sua  culla  il  piccolo  Gesù 
biondo,  cui  si  rivolgono,  a  quando  a  quando,  occhi  lagri- 
mosi  e  mute  preghiere  ;  dalla  via  silenziosa  non  arriva  romore 
di  sorta,  la  pace  è  grande  —  ma  non  affida,  non  conforta. 
Che  avverrà  domani  ?  Gli  animi  trepidanti  restano  sospesi 
in  un  dubbio  pauroso. 

Le  porte  del  San  Carlino  sono  chiuse.  Ma  di  sopra,  nella 
casetta  al  primo  piano,  raccolti  attorno  alla  loro  tavola  da 
pranzo,  i  Tomeo,  che  hanno,  come  usano  spesso,  convitato 
i  Cammarano,  passano,  chiacchierando,  la  sera  e  sorbiscono 
tranquillamente  il  caffè.  Giancola,  quasi  centenario,  racconta 
le  storie  allegre  del  principio  della  sua  carriera  artistica,  il 
figliuol  suo  Filippo  medita  un  nuovo  dramma  spettacoloso 
pel  nuovo  anno  prossimo,  l'altro  figlio  Giuseppe  disegna  al 
lume  d'un  chinchè  ad  olio.  Le  donne  fanno  la  calza  o 
agucchiano;  i  figli  giovanetti  di  Salvatore  Tomeo  leggono, 
o  giocano  o  ascoltano  Giancola  ;  la  loro  nonna,  Elisabetta 
d'Orso,  il  mento  nello  sparato  d'uno  scialle,  le  mani  in 
grembo,  gli  occhiali  sul  naso,  dorme.  E  sprofondato  in  una 
poltrona,  in  penombra,  don  Tommaso  Tomeo,  Matusalemme 

DI  GIACOMO.  -  5.  Carlino.  16 


—  242  — 

della  famiglia,  sorride,  pensando  che  fra  tanto  avvicendarsi 
di  avvenimenti,  fra  la  paura  e  il  sospetto  che  inchiodano 
tutti  a  casa  e  pur  a'  più  baldanzosi  fanno  passare  la  voglia 
di  levar  la  voce,  egli,  finalmente  liberato  di  tutti  i  suoi 
creditori,  non  vedrà  più  facce  minacciose  e  incartapecorite 
di  giudici  in  Vicaria. 


55? 


CAPITOLO  SESTO. 

Intermezzo  sulle  «  cantarine  » 
Cronaca  d'usignuoli. 


i. 


ìli  UNA  sera  dolcissima  d'un  tepido  ottobre  napoletano. 
Le  monacelle  di  Santa  £%Caria  del  {F}uon  Principio  e  Santo 
Antoniello  scendono,  lente,  dal  lor  belvedere  al  coretto  e 
ancora  s' indugiano  su  per  la  scala  di  legno  e  sospirano 
—  mentre  qualcuno  di  que'  brevi  gradini  tarlati  geme  sotto 
il  loro  piede  —  al  tramonto  d'  oro  che  traluce  per  la  rete 
delle  grate  su  nell'alto  e  nel  cielo,  e  ne  infiamma,  agoniz- 
zante, le  barocche  cimase  d'ottone. 

In  questo,  due  scrivani  dell'Udienza  dell'esercito,  pene- 
trati in  quel  Conservatorio  d'ordine  del  re  Ferdinando  IV, 
consegnano  alla  reverendissima  signora  madre  superiora  una 
donnetta  sui  trenta,  cantarina  del  Fiorentini  e  del  ZNjuovo, 
rea  di  publico    scandalo    col  marchese  di  Gerace    e    però 

-  243  — 


—  244  — 

allontanata  dalle  scene  per  andar  rinserrata  in  monistero,  fino 
a  tanto  che  il  re  non  deliberi  di  sfrattarla  da  Napoli  o 
piaccia  a  lei  di  prendere  il  velo. 

La  signora  madre  superiora ,  impiedi  nella  silenziosa 
penombra  del  parlatorio,  ascolta,  senza  far  parola,  le  raccoman- 
dazioni e  le  istruzioni  contenute  nella  lettera  dell'Uditore, 
don  Nicola  Garofano.  Uno  degli  scrivani,  il  tricorno  sotto 
l'ascella,  inforcati  gli  occhiali  tondi,  legge  quella  carta  allo 
scarso  lume  che  ancor  piove  per  un  finestrone;  l'altro  passa  e 
ripassa  la  pezzuola  sulla  fronte  sudata,  di  volta  in  volta 
levando  gli  occhi  al  soffitto  e  interrogandone,  ammirato,  le 
vivaci  pitture  a  fresco.  Quando  il  primo  ha  finito  di  leggere 
e,  ripiegata  in  quattro  la  carta,  la  consegna  alla  superiora, 
ella  mormora  : 

—  Sta  bene.  Con  l'aiuto  di  Dio. 
E  si  volta,  cercando  la  prigioniera. 

Si  parte  dall'ombra,  che  or  più  si  raffittisce,  una  fresca 
voce  melodiosa  : 

—  Son  qui,  signora  madre. 

E  dalla  scranna,  la  cui  spalliera  s'addossa  a  una  delle 
pareti  dipinte,  spiccandosi  come  da'  piedi  della  Santa 
Chiara  in  estasi  che  dalla  parete  s'  affaccia  sulla  scranna, 
si  leva  una  giovane  e  si  piega  in  una    profonda    riverenza. 

Ella  è  vestita  di  chiaro.  Disseminata  di  piccoli  fiorellini 
azzurrognoli,  s'increspa  in  su  la  sua  gonna  alla  vita,  e  il 
corsetto,  color  tortorella,  scende  rigidamente,  a  cuor  allun- 
gato, tra  quei  rigonfi  di  mille  pieghe  minute.  La  nudità 
delle  braccia  bianche  e  ben  tornite  spunta  dagli  sbuffi  mer- 
lettati delle  maniche  brevi,  che  s'arrestano  un  poco  più  in 
su  del  gomito  e  cosi  accortamente  imprigionano  la  carne  da 
lasciarle,  dalla  spalla  in  giù,  tutta  la  grazia  pienotta  e  appe- 


—  245  — 

titosa  del  modellato.  Il  guardinfante,  ridotto  a  una  circonfe- 
renza convenevole,  arricchisce,  senza  troppo  esagerarle,  le 
forme  della  simpatica  donnetta  che  attaglia  alla  sua  borghese 
condizione  quell'elemento  necessario  della  moda  contem- 
poranea, moderandone  l'abituale  goffaggine.  Una  ricercatezza 
quasi  raffinata  disvela,  tuttavia,  la  finissima  calza  di  seta  nera, 
rameggiata  d'oro  lungo  il  polpaccio  e  terminata  con  tre  pic- 
cole spighe,  pur  d'oro,  sul  collo  del  piede,  un  piccolo  piede 
da  Cenerentola,  chiuso  in  un  minuscolo  scarpino  di  raso 
verde  tenero.  Ella  ha  intorno  al  collo  nudo  un  nastro  cile- 
strino, rannodato  a  fiocco  di  lato  sulla  spalla  destra,  e  tra  le 
mani  un  ventaglietto  e  una  smerigliata  fiala  d'acqua  odorosa. 
C  ra,  ancor  nell'atto  della  riverenza,  che  le  lascia  cascar 
le  braccia  lungo  i  fianchi,  con  le  punte  delle  dita  che  poco  fa 
hanno  graziosamente  sollevato,  nell'  inchino,  la  gonna,  la 
cantarina,  nervosa,  ne  va  tormentando  i  falbalà  di  mer- 
letto veneziano.  Un  neo  posticcio,  una  di  quelle  mosche 
decorative,  che  si  chiama  appassionata  quando  è  sapiente- 
mente collocata  sullo  zigomo  destro,  maestosa  quando  si 
rattrovi  a  mezzo  della  fronte,  sfrontata  sul  naso  e  irresistibile 
accanto  all'occhio,  sembra  più  nero  sulla  guancia  d'avorio  e 
più  ne  rileva  il  pallore.  Ella  è  una  figurina  arieggiante  a 
una  lieve  malinconia,  a  un  certo  che  di  pensoso,  di  biric- 
chino  e  di  sgomento  :  una  figurina  che  Solimene,  o  Bonito, 
o  Francischiello  de  Mura  si  piacerebbero  di  tórre  a  mo- 
dello per  un  de'  loro  deliziosi  quadretti  di  costume.  E  la 
lascerebbero  lì,  certo,  su  quel  fondo  oscurato  da  cui  Santa 
Chiara  quasi  è  come  per  spiccarsi  e  che,  sovrastando  al 
sedile  da  cui  la  madamina  s'è  levata,  rialza,  con  le  ombre 
sue  severe,  il  candore  d'una  cuffietta  arricciata  e  quel  d'un 
collo  d'alabastro,  nudo  anche  più  in  giù  della  fossetta... 


246 
II. 


Congedati  gli  scrivani,  la  superiora  si  volta  alla  canta- 
rina  : 

—  Figliuola,  venite  con  me. 

Vanno  per  un  lungo  corridoio  ove  la  luce  cade  dal- 
l'alto. II  pavimento,  di  larghi  mattoni  giallognoli  sciupati, 
chiude  nel  mezzo  un  enorme  stemma  secentesco  pur  dipinto 
su  que'  quadrelli  e  sormontato  da  un  cappello  cardinalizio 
di  cui  pendono  i  fiocchi  porporini,  ognuno  dei  quali  occupa 
tutto  un  quadrello  patinato.  Lungo  la  parete,  di  faccia  alle 
bianche  porticine  delle  celle,  qua  e  là,  alcuni  altarini  e 
lampade  che  ardono,  sospese  davanti  a  un  Ecce  Homo 
o  a  un  San  £%Cichele,  ora  facendo  più  sanguignamente  ros- 
seggiare il  mantelletto  e  le  piaghe  del  Cristo,  ora  riuscendo 
a  cavare,  con  uno  sprazzo  di  più  viva  luce,  de'  bagliori  me- 
tallici dall'armatura  dorata  dell'arcangelo.  Un  odor  lieve  di 
fiori  si  spande  attorno  ;  delle  iose  d'ogni  mese,  delle  orten- 
sie tardive  agonizzano  nelle  giarre  di  porcellana  ,  esalando 
l'ultimo  ior  fiato  in  quella  penombra  claustrale  ,  silenziosa 
e  mistica.  Nessuna  voce.  Alla  cantarina  pare  di  solamente 
sorprendere  un  colpetto  di  tosse,  un  velo  giallo  che  appare 
e  scompare  in  fondo  a  una  celletta  di  cui  è  chiusa  la  por- 
ticela. La  superiora,  lungo  la  via,  s'inchina  agli  altarini, 
stende  il  braccio  alle  immagini,  e  pare  che  ne  spicchi  qual- 
cosa che  accosta,  in  punta  di  dita,  alle  labbra  e  bacia, 
lievemente.  I  suoi  passi  sono  quelli  d'un'ombra,  la  sua  sottana 
bruna,  molle,   cascante,   disfiora  appena  il  pavimento. 

Dal  primo,  per  una  larga  scala  da'   balaustri  di  legno  a 


—  247  — 

colonnine,  arrivano  a  un  secondo  corridoio,  lungo  la  cui 
parete  destra  sono  larghi  e  alti  nnestroni  da'  vetri  quadrati 
appannati  dalla  polvere  e  dalla  ragnatele.  Due  o  tre  monache 
scendono  per  quelle  scale.   E  salutano. 

—  Avemaria,  zia  badessa. 

—  Avemaria. 

Una  di  loro  ha  gli  occhi  sopra  un  breviario  che  va  leg- 
gendo —  e  non  apre  bocca.  Passano,  e  scompaiono  nel 
corridoio. 

Un'altra  scala  è  in  fondo.  S'intravede  il  principio  d'un 
altro  stanzone  :  un  gran  lanternone  è  acceso  lassù,  e  una 
luce  rossastra  piove  e  dilaga  sul  pavimento.  Ma  la  signora 
superic  a  non  va  oltre.  S'è  arrestata  davanti  all'ultima  celletta, 
quella  che  precisamente  si  trova  appiè  della  seconda  scala. 
Sulla  porta  è  dipinto  un  grande  angelo  biondo  tra  le  cui  mani 
levate  si  svolge  come  un  largo  nastro  giallognolo.  E  scritto 
in  quello  :  'Pax.  E  adesso  la  superiora  affonda  la  mano  in 
saccoccia,  la  cava  fuori  con  una  chiave,  e  la  chiave  ficca 
nella  toppa,  e  gira  e  rigira.  La  toppa  stride.  La  porticina 
s'apre.  Dentro  è  buio  ;  prima  della  cantarina  v'è  penetrata 
la  notte.  La  prigioniera  s'avanza,  varca  la  soglia,  scompare 
nell'ombra.  La  porticella  le  si  chiude  alle  spalle... 


IH. 


E  io  riapro  gli  occhi. 

Mi  riveggo  nella  piccola  sala  di  lettura  a  pianterreno, 
in  Archivio  di  Stato.  Un  bel  sole  di  novembre  mi  ritrova 
davanti  al  fascio  dei  documenti  che  poco  fa  consultavo, 
nella  gran  pace  amica  e  feconda  di  questo  luogo  di  studio. 


—  248  — 

Rimpetto  a  me,  in  un  cantuccio,  presso  alla  finestra  che 
s' apre  sul  verde  del  giardino,  l' impiegato  sorvegliante  e 
anziano  medita — con  gli  occhi  che  interrogano  il  soffitto,  con, 
tra  i  polpastrelli  del  pollice  e  dell'indice  della  mano  destra, 
un  granello  di  tabacco  da  naso,  ch'egli  va  lentamente  ma- 
cinando. Dio  mio,  come  da  queste  vecchie  carte  stinte  esala 
ancora  un  alito  di  vita  e  di  verità  !  Ancora  è  in  me  il  sogno 
che  se  n'è  sprigionato,  e  de'  suoi  fantasmi  a  me  ancor  pare 
che  qualcuno,  l'ultimo  a  dileguarmisi  davanti,  s'indugi  tuttora 
in  questa  tranquilla  cameretta. 

Quella  canterina,  chiusa  in  Santa  Maria  del  Buon  Prin- 
cipio nel  1 760,  si  chiamava  Marianna  Monti.  Di  lei  par- 
lano, assai  spesso,  le  cronache  teatrali  del  tempo  e  il  Na- 
poli-Signorelh  la  nomina  pur  con  grande  considerazione. 
Nell'anonima  prefazione  alle  opere  di  G.  B.  Lorenzi  è 
detto,  a  proposito  del  suo  Don  Anchise  Campa  none  :  «  L'o- 
pera incontrò  assai  più  della  prima  volta.  La  compagnia  fu 
delle  migliori.  Marianna  Monti  rappresentò  la  parte  di  Sofo- 
nisba,  Gennaro  Luzio  quella  dello  sciocco  Campanone  ecc.  » 
E  di  Monti  ce  n'eran  due,  e  tutte  due  si  chiamavano 
Marianna.  La  più  anziana  avea  cantato  al  ZNjuovo,  al  Fio- 
rentini, al  teatro  della  'Pace,  laggiù,  in  un  vico  di  via  de 
Tribunali,  con  mediocre  fortuna.  Lo  stesso  Napoli-Signorelli 
la  dice  «  diversa  dalla  famosa  che  vive  tuttora.  »  La  famosa 
era  l'arrestata  in  quella  sera  d'agosto. 

Tra  le  cantarine  del  settecento  e  le  popolari  divette  del 
tempo  nostro  non  si  può  far  paragone  di  sorta.  A  tempo 
della  Monti  famosa  l'opera  buffa  era  nella  sua  più  bell'e- 
poca e  le  cantarine  del  Nuovo  e  del  Fiorentini,  usignuoli 
assai  bene  ammaestrati  da  Paisiello,  da  Cimarosa,  da  Pic- 
cinni,  si  lasciavano,  talvolta,  addietro  perfin  le  prime  donne 


—  249  — 

del  teatro  San  Carlo.  La  Tesi,  ì'Astrua,  la  De  Amicis 
sapevano  di  avere,  in  qualcuna  di  quelle  dive  inferiori  dei 
teatri  piccioli,  di  pericolose  concorrenti  ;  e  spesso  una  di  queste 
prime  donne  giocose  saliva  pur  agli  onori  delle  grandi  scene, 
come  quella  Caterina  Aschieri  che,  nel  1 735,  cantò  al 
Fiorentini,  e  poi  fu  espulsa  da  Napoli  e  pigliò  voli,  così 
detti,  sublimi. 

Bella,  piacevole,  napoletanissima,  squisita  cantante,  squisita 
attrice  Marianna  Monti  non  aveva  troppo  dovuto  aspettare 
per  ritrovare  un  protettore.  Di  lei  s'innamorò  fortemente  il 
marchesa  di  Gerace,  un  siciliano.  Amor  platonico,  dice  la 
poverina  quando  è  arrestata  :  anzi  amicizia  pura  e  semplice, 
come   1'  acqua. 

«Ciò  non  ostante  —  ribatte  YUditor  dell'esercito  nel  suo 
rapporto  al  re  —  la  più  parte  della  gente  non  rimira  la 
cosa  con  tutta  la  carità  cristiana,  e  certi  particolari  impegni 
e  familiarità  troppo  strette  tra  gente  di  diverso  sesso  pos- 
sono talora  non  prendersi  in  buona  parte  ne  mai  sono  state 
in  modo  alcuno  commendabili,  vieppiù  se  la  famigliarità  è 
tra  un  personaggio  distinto  ed  una  persona  che  faccia  qualche 
mestiere  pericoloso.  »  Ma  la  Monti  insiste  nelle  sue  pro- 
teste e  giura  che  tra  lei  e  il  Gerace  nulla  v'è  mai  stato  di 
scandaloso.  Dopo  tutto,  cosa  c'entravano  re  Ferdinando  e 
Tanucci,  e  come  mai  questo  semi-misogino  si  cacciava  fra 
simili    gonnelle  ? 


—  250  — 


IV. 


Risaliamo  al  secolo  precedente  e  scorriamo,  da  prima, 
qualcuno  de'  curiosi  documenti  dell'  epoca.  Eccone  uno  che 
io  cavo  dal  manoscritto  del  Confuorto  (1),  prezioso  e  in- 
teressante contributo  alla  cronaca,  specie  scandalosa,  dello 
scorcio  di  quel  secolo. 

«  A'  6  di  agosto  1680  —  scrive  il  Confuorto —  di  mar- 
tedì, il  signor  duca  di  Madalune  volendo  andare  a  spasso 
a  Posillipo  col  signor  marchese  di  Tarazena  nipote  del  si- 
gnor viceré,  marchese  di  Genzano,  principe  d'  Acquaviva, 
don  Antonio  Minutolo  et  altre  sue  camerate  et  desiderando 
di  avere  per  loro  ricreatione  una  cantarina  chiamata  Giulia, 
mandò  a  farli  imbasciata  che  fusse  venuta  con  essi  loro  :  et 
havendo  quella  risposto  che  non  poteva  venire  perchè  lo 
stesso  giorno  havea  promesso  di  andare  col  signor  Galeazzo 
Cicinello  e  suoi  camerate,  il  Duca  mandò  replicandoli  a  dire 
che  se  non  veniva  l'havarebbe  pigliata  a  boffettoni.  (2)  Qual 
cosa  raccontando  quella  al  Cicinello,  questo,  piccato  delle 
parole  quali  pareva  che  avessero  anche  ferito  Lui,  mandò 
a  disfidare  al  detto  signor  don  Giovanni  suo  fratello  prin- 
cipe de  Curti,  il  signor  marchese  di  Torrecuso,  il  signor 
don  Ramiro  Ravaschieri  et  altri.  Il  signor  Duca  accettò  la 
disfida  con  quelli  del  suo  partito  et  andorno  fuora  della  città 


(1)  Società  di  Storia   Patria   Napoletana. 

(2)  Ceffoni. 


—  251   — 

com'anche  fece  il  Cicinello  co'  suoi.  Ma  fra  tanto  si  pose 
la  Madre  di  Dio  per  lo  mezzo  ;  perché  si  affissero  li  man- 
dati ;  che  si  ritirassero  alle  loro  case  ;  et  non  essendo  com- 
parsi per  tutto  il  giorno  seguente  mercoldì,  il  susseguente 
poi,  giovedì,  8  detto,  essendo  andati  alcuni  con  le  guardie 
di  Sbirri  così  alla  casa  di  Madalune  come  a  quella  di  Ci- 
cinello per  eseguire  la  pena  del  mandato,  subito  detti  si- 
gnori comparsero,  ai  quali  et  agli  altri  si  fecero  li  mandati 
in  casa.  » 

La  cantan'na  di  cui  parla  il  Confuorto  è  quella  Giulia 
Zuffi  (1)  che  nel  maggio  del  1680  aveva  cantato  mirabil- 
mente al  teatro  di  San  Bartolomeo,  nel  Qiulio  Cesare  in 
Egitto  del  Bussani,  musicato  dal  Sartorio.  Un  sonetto  enfa- 
tico, per  V  ammirabile  arte  e  dolcezza  del  canto  della  si- 
gnora Qiulia  Francesca  Zuffi  Famosissima  Jlrmonica,  è  in 
fronte  al  libretto.  Tra'  versi  retorici  sono  di  scherzosetti  co- 
me i  seguenti  : 

Fa  Qiultva  armonia,  causa  di  pianto, 

Ne  le  Zuffe  d'  Amor  preda  de'  cori — 

Cantarine  ?  Alla  larga.  Il  contemporaneo  Celano  scrive  di 
loro  :  <■'■  Ogni  anno  vi  va  qualche  casa  a  male,  per  cagion 
delle  Cantarine  che  vi  rappresentano  e  che  cantando  in- 
cantano !  » 

E  la  Zuffi  era  proprio  una  vera  figliuola  di  Apollo.  Suc- 
cedeva alla  non  meno  celebre  Giulia  de  Caro,  amata  a  un 


(1)  Vedi  B.  CROCE,  /  teatri  dal  XVI  al   XVIII  secolo,   Napoli,  Luigi 
Pierro  ed.  —  1891. 


—  252  — 

tempo  dallo  stesso  duca  di  Maddaloni,  da  D.  Antonio  Mi- 
nutalo, dal  duchino  della  Regina,  dal  Cav.  Vallo  vene- 
ziano, dal  duca  della  Torre  Filomarino,  da  quel  Cicinelli 
che  poi  s'  attaccò,  come  si  diceva  allora,  alla  Zuffi,  da 
D.  Prospero  Barisano  marchese  di  Caggiano,  dallo  stesso  vi- 
ceré conte  di  Astorga.  E  chi  più  ne  ha  più  ne  metta. 

Ma  le  passeggiate  a  Mergellina,  i  palazzi  a  Posillipo,  le 
cene,  le  gite  in  barca  al  chiaro  di  luna  costavano  un  po' 
caro  alle  dolci  amiche  delle  borse  de'  signorotti.  Sissignore 
cene,  balli,  confetti,  gioielli  —  ma,  di  tanto  in  tanto,  con  un 
metodo  epicratico,  il  correttivo  d'  una  distribuzione  salutare 
di  così  detti  boffeitoni.  Con  i  quali  i  signori  del  seicento, 
e  con  perfino  qualche  legnatma,  trattavano  le  virtuose  imper- 
tinenti. 

Il  settecento  segna  1'  abolizione  del  boffettone  alle  can- 
tanti. L'  aristocrazia  corteggiante  smette  queste  abitudini  vil- 
lane ;  s*  incipria,  s'imparrucca,  s'inchina  con  grazia  mag- 
giore e,  tra  madrigali  e  baciamani,  si  rovina  anche  un  po' 
più.  Alle  donne  di  teatro  usa  riguardi  d'  infinita  cortesia, 
spende  e  spande  per  esse,  le  serve,  come  si  diceva,  di  brac- 
cio, le  riconduce  dal  teatro  a  casa,  le  arricchisce  di  zec- 
chini, di  volanti  e  di  portantine  dorate,  prende  loro  a  pi- 
gione una  casa  e  a  mesata  un  maestro  di  canto.  Le  mogli 
si  consolano,  fra  tanto,  con  le  pastorellerie  d'  un  abate,  con 
le  galanti  immagini  retoriche  d'  un  cicisbeo,  e  a'  lor  mariti , 
braccheggianti  appresso  alle  Nine  o  alle  Romanine  del 
tempo,  non  chiedono  altro  se  non  che  lascino  illeso  lo  spil- 
latico, quella,  così  detta  allora,  mesata  di  lazzi  e  spille  che 
i  ricchi  mariti  assegnavano  alle  mogli  esigenti. 

A  un  tratto  la  morale,  non  aspettata  né  invocata,  capita 
dalla  Reggia  nelle  famiglie.  Prima  una  prammatica  del  1 734, 


—  253  — 

poi  altre  del  '37  e  del  '39  comprendono  tra  le  donne  di 
mal  affare  pur  le  attrici,  specie  se  cantarine,  e  queste  rele- 
gano, senza  tanti  complimenti,  con  1'  altre,  fuor  delle  mura 
di  Napoli.  Così,  quando  qualche  cantante  venisse  scritturata 
da  un  impresario,  era  necessario  che  il  nome  di  lei  fosse 
additato  in  una  nota  che  l'impresario  medesimo  era  obbligato  a 
spedire  alla  Udienza  dell'  Esercito.  L' Udienza  chiedeva 
alla  cantante  la  fede  di  matrimonio,  o  di  zitellanza,  la  fede 
d'  onestà  sottoscritta  dal  capitano  di  strada  e  da  altri  otto 
complatearii,  se  mai  pur  la  fede  del  parroco  del  quartiere 
ove  la  cantante  avesse  eletto  o  volesse  eleggere  domicilio. 
Approvata  la  cantante,  1'  Udienza  ne  passava  il  nome  alla 
Vicaria  e  questa  provvedeva,  liberandola  dalla  re  sidenza 
infamante. 

Ogni  secolo,  chi  vada  peculiarmente  considerandolo,  ma- 
nifesta certe  sue  curiose  morbosità.  L'  allegra  peste  del  se- 
colo decimottavo,  contro  la  quale  pur  non  valsero  quelle  pram- 
matiche e  si  spuntarono  le  misure  tanucciane,  furono  le  can- 
tarine, nelle  cui  braccia  si  dettero  signori  e  borghesi,  felici 
di  poter  dimostrare  alla  bonaria  severità  di  Carlo  III,  che 
li  andava,  a  mano  a  mano,  spogliando  della  boria  antica,  come, 
se  non  altro,  sapessero  ancora  pigliarsi  bel  tempo. 


V. 


La  scala  teatrale  muliebre,  secondo  il  commediografo  del- 
l' epoca  Francesco  Celione,  era  questa  :  Malta,  Corfù,  Ra- 
gusa, Messina,  Lecce,  Napoli.  «  Era  na  cantarinola  —  dice 
un  personaggio  cerloniano  a  un  suo  amico  —  e  aveva  rece- 


—  254  — 

tato  a  Malta  —  E  aveva  incontrato  là  ?  —  £  Uà  tutte  ncon- 
trano,  pe  ditto  loro  o  de  li  mamme.  Parla  co  na  mamma 
de  cantarinola  e  siente  d)  :  Ha  cantato  comm'  a  n  Jì stroia, 
na  Teseca....  »  L' Astrola  era  1'  Astrua,  la  Reseca  Vit- 
toria Tesi,  famose  tutte  e  due  ;  quella  debuttò  al  San 
Carlo  nell'  Andromaca  di  Leonardo  Leo,  questa  fu  il  de- 
siderio di  tutti  i  publici  d' Italia.  Allora  Malta,  come  oggi, 
offriva  a'  novizi  del  canto  il  palcoscenico  del  suo  teatro  spe- 
rimentale. Il  publico  maltese,  non  ancora  raccolto  in  forma 
d'areopago,  s'accontentava  assai  più  facilmente.  Ora  anche 
quell'  Eldorado  della  laringe  è  divenuto,  mi  si  dice,  poco 
accessibile.  Comunque,  certi  insigni  organi  vocali  ci  capita- 
van  di  là,  pure  nel  settecento,  e  a  Napoli  amavano  di  stare: 
a  Napoli,  città  geniale,  allegra,  ricca  di  galanteria  come  di 
zecchini  fiammanti.  Qui  prime  donne,  e  donne  giocose  e  ser- 
vette buffe  a  carrettate.  Ogni  giorno  una  di  quelle  carrozze 
enormi  che  compivano,  a  tratti,  il  cammino  che  fanno  adesso 
i  treni  ferroviani,  appariva  a  Porta  Capuana,  tra  un  romore 
allegro  di  frusta  schioccante  e  un  tintinnio  di  campanelli. 
Ne  sbarcava,  saltando  leggermente  a  terra,  una  cantarina 
novella,  e  per  lo  sportello  s'  affacciava  la  sua  vecchia  ac- 
compagnatrice, una  delle  solite  duegne,  che  chiamava  i  fac- 
chini e  consegnava  loro,  con  infinite  raccomandazioni,  casse, 
cassette  e  bauli,  pieni  di  niente.  Saltava,  dietro  alla  pa- 
droncina,  sullo  sterrato  della  piazza,  la  fedelissima  cagnetta 
ricciuta,  poi  rivedevano  1'  aria  un  canarino  ingabbiato,  un 
pappagallo  e  il  gatto  rosso    della  duegna. 

Del  fausto  arrivo  si  sapeva  subito  in  città  e  subito  la  fore- 
stiera trovava  qualcuno  che  pensasse  al  suo  alloggio.  Ma  piano: 
se  la  natura  non  le  avesse  prodigato  tutte  le  grazie  sue,  ella 
poteva  ben  dormire  à  la  belle  étoile  ;  nessuno  se  ne  sarebbe 


—  255  — 

accorto.  Delle  nuove  arrivate  ad  alcune  capitava,  specie  dopo 
qualche  apparizione  sulla  scena,  una  servitù  invidiabile  :  car- 
rozza, cavalli,  fiori  a  teatro,  pranzi  o  cenette  allegre  a  mezzo 
delle  quali  appariva  in  tavola,  in  bocca  a  uno  storione,  qual- 
che scatola  da  pastiglie  con  intorno  al  coperchio  due  file 
di  diamanti.  Altre  erano  meno  fortunate.  Si  dovevano  accon- 
tentare d'un  nobile  quasi  spiantato,  che  non  poteva  dar  altro 
se  non  lo  spolvero  d'un  bel  nome  e  un  umile  alloggio. 
Cerlone  parla  d'un  di  codesti  scamazzati  dell'epoca,  a  pro- 
posito d'una  cantarina  d'o  pera  buffa  :  «  L'  affittate  la  casa 
a  lo  vico  de  li  Campane  —  dice  —  e  glie  1'  ammobigliò  co 
no  lietto,  no  zimmaro  (cembalo),  na  toletta,  doie  segge,  no 
specchio,  na  testerà,  no  puorco  pe  ntona,  no  volantiello 
p' accompagna  e  na  vecchia  pe  conziglià  » . 


VI. 


Rimaste  inascoltate  le  prammatiche,  i  danneggiati  inon- 
darono la  Reggia  di  suppliche,  alcune  delle  quali  meritano 
proprio  d'  esser  riportate. 

«  Don  Fabio  Errichelli  —  dice  una  —  essendo  il  suo  fi- 
glio don  Anselmo,  Guardia  del  Corpo,  sedotto  da  una  can- 
tarina del  Teatro  Nuovo  denominata  Teresa  Zuccarini,  ro- 
mana, la  quale  non  ostante  i  mandati  dell'  Uditore  dell'E- 
sercito si  è  ostinata  a  trattarlo  e  fa  temere  anche  un  ma- 
trimonio e  una  fuga  clandestina,  fa  istanza  acciocché  que- 
sta donna  non  essendo  scritturata  per  nessun  teatro  sia  su- 
bito sfrattata  da  Napoli.   » 

E  un'  altra  dice  : 


—  256  — 

«  Si  supplica  S.  E.  il  marchese  della  Sambuca  a  far  pre- 
sentare alla  Maestà  del  Re  1'  infelice  situazione  della  Prin- 
cipessa di  Feroleto  per  1'  accecata  passione  concepitasi  dal 
principe  di  lei  marito  verso  una  donna  di  teatro  per  nome 
Giulietta,  di  nazione  bolognese.  La  suddetta  Giulietta  abita 
alla  strada  detta  di  Gerusalemme  sotto  S.  Carlo  alle  Mor- 
telle in  casa  di  un  diffamato  paglietta  a  nome  don  Felice 
Garbiani,  contro  del  quale  fu  spedito  fin  dal  mese  di  lu- 
glio anno  scorso  1'  ordine  dello  sfratto,  con  reale  dispaccio, 
sfratto  che  non  è  stato  eseguito  per  esser  egli  protetto  dallo 
scrivano  Zagarino.  Pregasi  per  conveniente  riparo  senza  stre- 
pito e  pubblicità. 

Il  principe  di  Feroleto,  calabrese,  era  un  d'Aquino  del 
ramo  autentico:  San  Tommaso  in  famiglia  e  tanto  di  bla- 
sone. La  Giulietta,  di  cui  quel  documento  non  fa  il 
cognome,  è  una  Giulietta  Bortolini,  come  si  viene  a  sapere 
da  altri  rapporti.  Ella  fu  arrestata  a  Capodimonte  e,  con- 
dotta in  città,  venne  chiusa  nelle  carceri  di  S.  Felice.. 
11  principe,  che  seppe  la  mala  nuova,  accorse  furibondo 
alle  carceri  e  chiese  perchè  vi  fosse  stata  imprigionata 
la  cantarina.  Il  capo  carceriere  gli  rispose  che  l'ordine  era 
stato  dato  dall'Uditore  dell'Esercito.  E  il  principe  —  dice 
il  rapporto  —  «  ha  eruttato  che  ne  la  deve  pagare  colui 
che  ha  tal  ordine  interceduto  !  » 

La  Zuccarini,  quella  di  don  Fabio  Errichelli,  era  invece 
notissima.  Cantava  al  Nuovo,  nel  1 778,  or  da  Cleonice  nei 
Viluppi  amorosi  di  Angelo  Tarchi,  or  da  Marchesa  Lu- 
cinda  nella  Cecchino  nubile  del  Piccinni,  or  da  Serpina  ne- 
gli Sposi  incogniti  del  Latilla.  Apparteneva,  dunque,  alla 
seconda  delle  due  compagnie  di  cantatrici  che  gli  Uditori 
dell'Esercito   tenevano    d'occhio  ;    la    prima    era    composta 


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—  257  — 

delle  cantanti  del  San  Carlo,  e  si  chiamava  compagnia  ita- 
liana ;  l'altra  era  la  napoletana  e  ne  facevano  parte  le  at- 
trici e  le  cantanti  del  Nuovo,  del  Fiorentini,  del  San  Car- 
lino, ove  la  musica  era  assai  spesso  inframmezzata  alla  com- 
media in  prosa.  L'Ulloa,  Uditor  dell'Esercito  intorno  al 
1 740,  dice  che  la  compagnia  napoletana  è  piti  libertinosa 
dell'altra.  Su  queste  donne  di  teatri  piccoli  cadevano  dun- 
que con  maggiore  severità  i  provvedimenti  del  re  e  le  mi- 
sure repressive  del  suo  primo  consigliere  di  Stato.  Ma- 
rianna Monti  fu  una  di  quelle  vittime. 

Ella  aveva  suscitato  la  gelosia  d'una  prima  donna  gio- 
cosa, seti  buffa,  che  l' impresario  del  Nuovo  nel  1 760, 
don  Pietro  Alberico,  era  riuscito  a  accaparrarsi  per  le  mu- 
siche di  Piccinni,  di  Fioravanti  e  di  Paisiello.  La  rivale  della 
Monti  si  chiamava  Serafìna  Manzillo.  Non  era  bella  e  il 
publico  non  fu  molto  generoso  con  lei.  Preferiva  la  Monti, 
e  però  ogni  sera  applausi  fragorosi  alla  Monti,  come  appena 
si  mostrasse,  e  silenzio  glaciale,  interrotto  di  volta  in  volta 
da  brevi  risatine  ironiche,  quando  cantava  Serafìna  Manzillo. 
Certe  contrarietà,  certe  offese  onde  il  nostro  cuore  sanguina 
dolorosamente,  finiscono  per  farci  diventare  cattivi,  e  questa 
cattiveria  si  comprende  e  si  giustifica.  Aspettando  una  di  quelle 
reazioni  che  impongono  alla  crudeltà  insaziata  il  rispetto  e  la 
pietà  la  Manzillo  meditava  di  vendicarsi  della  Monti  e 
dell'impresario  a  un  tempo  ;  specie  di  quest'ultimo  il  quale, 
giovandosi  delle  mute  proteste  serali  con  cui  la  Manzillo 
era  accolta,  le  voleva  dare  il  ben  servito. 

L'Uditore  dell'Esercito,  ch'era  il  Garofano,  non  racco- 
glieva sempre,  sul  conto  delle  cantanti,  la  voce  publica. 
Anche  qualche  lettera  anonima  gli  perveniva,  di  tanto  in  tanto, 
tenendolo  inteso  di  certi  scandali    che    non    sarebbe    stato 

DI   GIACOMO.  -  S.   Carlino.  I  7 


—  258  — 

prudente  lasciar  passare.  Una  di  queste  lettere  gli  capitò, 
forse,  dalla  Manzillo  ;  certo  egli  ebbe  da  lei,  sia  per 
iscritto,  sia  a  voce,  tale  delazione  da  farlo  subito  rivolgere, 
per  i  soliti  provvedimenti,  al  re.  Dopo  quattro  o  cinque 
giorni  la  Monti,  accusata  di  aver  amicizia  —  l' Uditore 
usava  sempre  la  parola  pulita  —  col  marchese  di  Ge- 
race,  è  arrestata  alle  21  ora,  mentre  rincasa  dall'aver  de- 
sinato in  compagnia,  forse,  dello  stesso  Gerace.  Il  mar- 
chese fu  imprigionato  al  giorno  appresso  e  chiuso  in  Castel- 
nuovo.  Avea  moglie  e  figli. 

Or  in  quale  delle  cellette  di  S.  Antoniello  fu  posta  la 
Monti  ?(  1  )  Sarebbe  questa  una  curiosa  ricerca.  E  se  le  vec- 
chie carte  del  monistero  potessero  essere  consultate  ci  di- 
rebbero quante  volte  ella  è  scesa  a  messa  o  al  parlatorio, 
chi  l'ha  visitata  durante  il  tempo  della  sua  prigionia,  che 
maniera  di  condursi  ha  tenuto.  (2)  Come  tutte  le  celle  de'  mo- 


(  1  )  «  Figlio  di  questo  nostro  è  il  Monastero  di  Santo  Antonio,  volgar- 
mente detto  Santo  Antoniello,  sito  appresso  al  Monastero  della  Sapienza 
nelle  Case  che  furono  de  Prencipi  di  Conca,  poiché  nell'anno  1 565  con 
licenza  di  Pio  IV  Sommo  Pontefice  uscì  da  questo  (cioè  dal  ^Monastero 
de!  Gesù  delle  <^HConache)  suor  Paula  Cappellana  e  fondò  detto  Monastero 
e  Chiesa  sotto  il  titolo  di  Sant'Antonio  di  Padua,  che  morta  poi  detta  fon- 
datrice non  perfetta  ancora  l' opera  è  stata  perfetionata  dalle  Reverende 
monache  succedute  ».  'Platea  et  Libro  di  Patrimonio  del  'Generabile  oXCona- 
stero  di  Santa  ^Miariajdel  Qesu  fatto  dalla  Reo.  Sor  3XCaria  Qio.  {Qatt.  tJ&Cor- 
mile,  Abbadessa  nel  suo  triennio  del  1695  a  1698.  Manoscritto  in  4°. 
Biblioteca  Lucchesiana,   Napoli. 

(2)  L*  archivio  di  Sant\/J ntonio  a  'Pori'  Jllba  (che  è  poi  quel  che  si 
chiamò  di  Santa JH&aria  del  {F}uon  Principio  e  di  Sani'  Jlntoniello)  è,  con 
gli  altri  di  sei  altri  Conservatori  [soppressi,  al  Secondo  gruppo  di  Opere  pie 
di   Napoli,  in  via  Costantinopoli.   Non   ho  modo  di  interrogarlo  perchè  quelle 


—  259  — 

nasteri  napoletani,  queste  di  S.  Antoniello  danno  ognuna 
su  duna  terrazzerà.  Un  sedile  di  fabbrica,  de'  vasi  di 
fiori  lungo  il  parapetto,  l'erba  che  cresce  qua  e  là  nelle 
fessure  e  nei  crepacci  di  esso  e,  per  terra,  de'  vermi  che 
strisciano,  pigri  e  sicuri.  La  cantarina  rimase  là  dentro  dal- 
l'agosto del  1 760  fino  all'ottobre  dello  stesso  anno.  Il  re 
avea  per  altro  comandato  che  la  sua  prigionia  durasse  sei 
mesi,  ma  un  avvenimento  seguito  ne'  primi  tempi  della 
carcerazione  di  Anna  Monti  lo  mosse  a  pietà  di  lei.  La 
povera  cantarina,  strappata  alle  scene,  ridotta  a  star  con 
persone  la  cui  maniera  di  vivere  era  affatto  diversa  dalla 
sua,  fu  colta  da  un  languore,  da  una  malinconia  così 
grandi  da  lasciar  temere  per  la  sua  vita.  Appena  chiusa 
in  monistero  avea  spedito  una  supplica  al  re,  perchè  al- 
meno, avanti  di  confermare  la  sentenza,  si  degnasse  d'in- 
terrogare sul  conto  di  lei  i  vicini,  il  parroco  del  quartiere 
e  l'impresario  medesimo. 

La  supplica  fu  questa  : 

«  Marianna  Monti  di  Napoli,  umiliata  a'  Reali  piedi 
della  M.  V.  con  riverente  supplica  l'espone  ritrovarsi  nel 
Conservatorio  di  S.  Antoniello  per  sovrano  comando  della 
M.  V.  ciecamente  dalla  supplicante  ubidito.  Stanteche  tal 
reale  economica  previdenza  siasi    data,    perochè    pratticava 


c-.rte  devono  avere  un  ordinamento  a  cui  :n  questo  punto,  per  lo  sgombero 
della  sede  del  Secondo  gruppo  dal  luogo  ov'era  prima  di  passare  in  via 
Costantinopoli,  non  sé  potuto  ancora  provvedere.  Ma  io  sono  sicuro  che  il 
chiaro  e  gentile  prof.  Corrado  Biondi,  presidente  del  gruppo,  avrà  a  cuore 
la  sorte  di  tutti  que'  preziosi  registri,  in  cui  molte  cose  interessanti  per  la 
scoria  di  Napoli  si  raccolgono  certo.  Provvedendo  al  riordinamento  di  que'  sette 
archivii,  l'egregio  prof.  Biondi,  ch'è  uno  studioso  egli  stesso,  favorirà  non 
poco  gli  studiosi.   E  costoro  glie  m  saranno  assai  grati. 


-   260  - 

in  Sua  casa  il  marchese  Girace  per  esserne  stato  in  arresto 
nel  Castello  nuovo  e  da  quello  liberato  col  peso  di  som- 
ministrargli nel  Conservatorio  sudetto  docati  sette  il  mese. 
«  Clementissimo  Signore,  siccome  la  supplicante  ha  rice- 
vuto delle  caritative  sovvenzioni  del  detto  Marchese  per  il 
tempo  pratticò  in  sua  casa  con  quell'onestà  propria,  così 
non  pretende  ricevere  li  detti  docati  sette  per  non  acqui- 
starsi taccia  di  sinistro  oprare  per  il  passato,  che  lode  al 
Sommo  Iddio  non  ci  è  mai  stato,  mentre  colle  sole  sue  re- 
cite si  ha  lucrato  il  pane  per  alimentare  se  e  li  suoi  Con- 
gionti  tutti  appoggiati  alli  suoi  sudori  ed  onorate  fatighe, 
che  ha  saputo  nelli  teatri  adempire  alla  sua  parte,  con  ap- 
plauso universale,  senza  che  di  essa  inteso  mai  se  ne  fusse 
disturbo,  ò  inquietudine  alcuna  ne  per  il  vicinato  o  Città 
si  è  mai  inteso  mormorazione  alcuna  circa  li  costumi  della 
povera  supplicante  come  dall'attestati  di  Parroco  e  com- 
plateari  che  umilia  a  V.  M.  Ricorre  pertanto  a'  Vostri 
Reali  piedi  ed  implorando  la  somma  pietà  della  M.  V. 
la  supplica  degnarsi  di  commetterne  rigoroso  informo  circa 
li  costumi  e  condotta  di  vita  della  povera  supplicante  affin- 
chè possa  la  Real  Mente  della  M.  V.  restare  sincerata 
che  la  supplicante  non  abbia  mai  data  occasione  a  chisisia 
di  scandalizzarsi  del  procedere  della  supplicante  e  della  re- 
ligiosa vita  Cristiana  che  ha  menata,  e  mena,  col  semplice 
appoggio  a  suoi  sudori,  colle  quali  sovviene  se  e  la  sua 
famiglia,  sottoponendosi  a  tutti  quelli  sovrani  ordini  sarà  per 
dare  in  simile  emergenza  delli  quali  ne  sarà  ben  contenta. 
Tantospera  dal  suo  Real  animo  ottenere  per  effetto  di  sua 
somma  munificenza  e  clemenza  insieme  a  grazia  et  Deus. 

«  Marianna  Monti.  » 


—  261  — 
La  fede  del  parroco  è  la  seguente  : 

«  Fo  fede  io  sottoscritto  Parroco  di  S.  Giov.  Battista  de* 
Fiorentini  di  questa  città  come  avendo  presa  detta  cura  nel 
1753,  dico  millesettecentocinquantatre,  conobbi  la  signora 
Maria  Anna  Monti  che  abitò  per  più  di  un  anno  nel  quar- 
tiere, poco  discosto  dalla  sopradetta  Parrocchial  Chiesa,  ed 
in  detto  tempo  nell'  istessa  Chiesa  frequentò  con  tutta  edi- 
ficazione i  Sagramenti,  e  le  divozioni,  che  nei  venerdì  del- 
l' anno  il  dopo  pranzo  ivi  si  fanno  in  onore  della  Vergine 
Addolorata,  verso  la  quale  ha  seguitato  anche  dopo  esser 
di  là  uscita  di  abitazione  a  dimostrare  un  filiale  affetto  con 
larghissime  limosine  e  quotidiane  oblazioni  di  modo  che  il 
migliore  de'  sacri  utensili,  che  per  servizio  di  detta  Cap- 
pella della  Vergine  Addolorata  si  osserva,  è  quasi  tutto 
fatto  per  sua  divozione  come  potrebbe  costare  anche  da 
polize  passate  per  Banco.  E  in  fede  della  verità  richiesto 
dalla  medesima  ho  fatto  la  presente  scritta  e  sottoscritta  di 
mia  propria  mano  e  munita  col  suggello  parrocchiale.  » 

Napoli,  7  agosto   1760. 

Don  Antonio  di  Sassati,  Parroco. 
V. 

Inviando  tutti  questi  documenti  al  re  1'  Uditore  li  anno- 
tava, secondo  il  suo  solito,  con  osservazioni  non  tutte  favo- 
revoli alla  supplicante.  Soggiungeva  d'  aver  interrogato  sulla 
moralità  della  cantarina  pur  l' impresario  Alberico.  Costui, 
che  si  sarebbe  fatto  in  pezzi  per  riaver  la  Monti,  non  aveva 


—  262  — 

saputo,  in  coscienza,  non  confessare  eh'  ella  «  come  tutte  le 
altre  del  suo  mestiere  »  accettava  volentieri  certe  cortesi  esi- 
bizioni del  Gerace,  «  essendo  rara  quella  che  non  ha  pro- 
tezione » .  Dunque,  diceva  l' Uditore,  di  tutte  le  belle  e 
commoventi  parole  della  signora  Marianna  S.  M.  faccia  quel 
conto  che  crede  fare;  in  quanto  a  me  non  le  presterei  fede 
così  leggermente  ;  queste  cantarine  hanno  troppo  facili  le 
lagrime...  e  le  bugie. 

Rimase,  però,  la  Monti  nel  Conservatorio  di  S.  Anto- 
niello  e  il  re  non  rispose  alla  sua  supplica.  L'aveva  già  di- 
menticata quando  un  giorno  trovò,  fra'  rapporti  che  gli  si 
spedivano,  una  lettera  del  Tanucci,  che,  rifacendogli  la  ma- 
linconica storia  della  cantarina,  terminava  con  queste  pre- 
cise parole  :  Fin  da  quando  entrò  in  Monisterio  contrasse 
una  grave  indisposizione  di  continua  febre,  con  dolore  di 
petto  e  sputo  di  sangue,  in  guisa  che  il  medico  dice  che  ci 
perderò  la  vita. 

Il  re,  giovane  ancora  e  non  ancora  cattivo,  si  commosse. 
Volle  per  tanto  accertarsi,  della  malattia  di  Marianna  e  spedì 
al  monistero  di  S.  Antoniello  due  medici,  due  celebrità  con- 
temporanee, Francesco  Serao  e  Carmine  Ventapane.  Costoro, 
assieme  al  medico  della  Monti,  don  Salvatore  Cassitto,  dopo 
un  consulto  in  tutta  regola,  riferirono  al  re  nel  modo  seguente: 

«  Avendo  noi  visitato  questa  mattina  (4  ottobre)  la  si- 
gnora Marianna  Monti  nel  Conservatorio  di  S.  Antonio,  ab- 
biamo in  essa  riconosciuti  gradi  di  alterazione  febbrile,  gola 
infiammata,  qualche  imbarazzo  nelle  viscere  :  e  siamo  nello 
stesso  tempo  stati  informati  dal  medico  ordinario  don  Sal- 
vatore Cassitto  aver  questa  giovine  sofferto  da  lungo  tempo 
e  specialmente  dopo  essere  stata   racchiusa  nel  Conservatorio 


—  263  — 

sensibile  accensione  febbrile,  quasi  tutte  le  sere.  Medesi- 
mamente ci  ha  l' istesso  medico  informati  di  qualche  com- 
parsa di  sangue  per  la  bocca  che  più  di  una  volta  e  nei 
tempi  andati  ha  questa  donna  sofferto  :  delle  quali  due  os- 
servazioni crediamo  averne  avuto  noi  medesimi  prova  e  do- 
cumento così  dallo  stato  dei  polsi,  come  dalla  mentovata 
alterazione  delle  fauci. 

«  Or  posto  ciò  siamo  di  sentimento  che  effettivamente 
quella  strada  e  quell'  aria  in  una  contrada  bassa  della  città 
potrebbe  tal  cattiva  disposizione  confermare  ed  avanzare  con 
più  sensibil  danno  della  salute  di  essa  paziente,  e  con  certo 
discapito  della  di  lei  voce,  circostanza  interessantissima  nel 
caso.  » 

Circostanza  interessantissima,  dicevano  i  medici.  Sapevano 
bene  quanto  valesse,  pur  di  que'  tempi,  una  voce  ;  morta 
la  Monti  morto  un  usignuolo.  Anche  lo  sapeva  il  re.  I  buoni 
partenopei  gli  avrebbero  perdonato  tutto,  in  fuori  della  sop- 
pressione di  così  vantate  corde  vocali.  Perdonò.  Venti  giorni 
dopo  la  relazione  de*  medici  la  Monti  fu  liberata  e  tornò 
alle  scene.  Fu  uno  di  que'  commoventi  episodii  intorno 
a'  quali  i  nostri  contemporanei  cronisti  teatrali  ricamerebbero 
tutto  un  merletto  d'  aggettivi  preziosi. 

Quel  della  Monti,  ricostruito  sulle  carte  dell'  Archivio 
di  Stato  è,  in  fonJo,  il  romanzo  di  tutte,  quasi,  le  canta- 
trici  dello  scorso  secolo.  In  un'  epoca  nella  quale  la  legge- 
rezza, la  corruzione,  la  poca  cultura  de'  più  erano  fisono- 
mia  particolare  del  tempo,  questa  forma  di  galanteria  parve 
un  diversivo  da  una  certa  noia  che,  tuttavia,  premeva  gli 
animi  de'  signori,  in  nessun'  altra  faccenda  affaccendati.  E 
divenne  moda.  Gli  abati,  i  musicisti,  i  poeti  arcadici,  i  let- 


—  264  — 

terati  pieghevoli  e  vanitosi  intrattenevano  le  signore  a  casa, 
tra  declamazioni  enfatiche,  acrostici  e  menuetti  —  i  mariti 
si  davano  bel  tempo  con  le  donne  di  teatro,  e  non  rinca- 
savano se  non  a  notte  inoltrata,  per  raccomandare  al  servitore 
di  svegliarli  un'  ora  prima  del  mezzodì,  eh*  era  1'  ora  «  del 
concerto  ». 

Le  attrici  del  San  Carlino  non  dettero  da  fare  all'U- 
dienza dell'Esercito.  Una  sola  —  e  fu  quella  Nina  More- 
scanti  Bruscotti,  romana,  più  sopra  citata  —  provocò  la  sup- 
plica di  donna  Elena  Brossard,  minacciata  nel  marito  don 
Gaetano  de  Fiori.  Delle  altre,  come  la  Martorini,  la  Bassi, 
1'  Angiolini,  la  Grignani,  la  Buonamici,  la  Sapuppo  moglie 
di  Giancola,  la  moglie  del  Trivelli,  capocomico  al  tempo 
della  Cantina,  i  documenti  infami  dell'  Archivio  di  Stato 
non  fanno  i  nomi.  Erano  tutte,  o  quasi,  maritate  a  comici, 
e  in  quel  tempo  i  mariti  attori  vegliavano  un  poco  più  che 
oggi  non  fanno  sulle  loro  metà.  Non  molto  più,  veramente; 
ma  tanto  che  bastasse  a  salvare  almeno,  come  si  dice,  le 
apparenze.  L'  espulsione  di  Maddalena  Scazzocchia  dalla 
compagnia  Tomeo  vi  stabilì  delle  leggi  di  moralità  severa 
e  una  sorveglianza  continua  da  parte  dell'  impresario.  Del 
resto  don  Tommaso  Tomeo  quando  s' imbatteva  in  qualche 
giovane  attrice  scapatella  usava  un  mezzo  assai  pratico  per 
non  lasciar  nascere  scandali  :  si  pigliava  la  scapatella... 
e  se  la  chiudeva  in  casa.  Di  qua  le  allegre  voci  che  cor- 
revano su  certe  abitudini  di  quel  caro  vecchietto. 

«  Eccellenza  —  scriveva  a  un  Uditore  dell'  Esercito  il 
locandiere  Carlo  Morosini,  che  protestava  perchè  avea  una 
cantarina  di  rimpetto  —  son  tutte  cortigiane,  cum  riverenzia.  » 

Non  tutte,  no.  Vi  fu  una  Caterina  di  Gennaro,  vergine  in 
capillis  (vergine  almeno  in  qualche  cosa  —  avrebbe    detto  il 


—  265  — 

nostro  duca  di  Maddaloni)  e  reputata  da  tutti  per  zitella, 
che  in  premio  della  sua  virtù  potette  sposare,  senza  vessa- 
zioni di  sorta,  tal  Francesco  Barraini,  maestro  di  casa  del 
duca  di  Parete. 

Che  il  nome  di  lei  passi  alla  posterità. 


PARTE  SECONDA. 


DAL  1800  AL  1884. 


CAPITOLO  SETTIMO. 

«  GIANCOLA  »    È  MORTO,   VIVA    «  GlOV ANNONE  !  »  —  LABLACHE  A 
SAN    CARLINO  —  FILIPPO    CAMMARANO  —  FINE     DELL'  IMPRESA 

Tomeo  —  Silvio  M.  luzi  —  «  annella  di  port acapuana  » . 


I. 


T, 


ALVOLTA,  come  1'  orchestrina  d'  un  piccolo  teatro,  fa- 
cendo tacer  gli  ottoni,  s'  abbandona  al  ritmo  d'  un'  antica 
melodia  e  lentamente,  lievemente,  si  diffonde  pel  breve  spa- 
zio una  molle  tenerezza  di  note,  accade  che  alla  nuova  nin- 
na nanna  —  mormorando,  a  quando  a  quando,  una  parola 
amorosa  —  la  moglie  d'  un  attore  riaddormenti  sulle  ginoc- 
chia un  fanciullo.  Il  dietroscena  in  certi  momenti  è  rischia- 
rato dall'  innocenza.  Ricordate  voi  Dea  e  Gwynplaine  nella 
baracca  d'  Ursus  ?  Quando  quelle  due  povere  creature,  le 
mani  nelle  mani,  si  parlavano,  Ursus,  abbagliato,  taceva. 

I  bambini  de'  commedianti  dormono  tranquillamente  die- 
tro le  scene,  in  grembo  alla  madre,  o  sopra  un  mucchio  di 

-  269  - 


—  270  — 

corde,  o  raggomitolati  in  qualche  enorme  poltrona  dorata 
e,  su  per  la  sete  stinta,  sparsa  di  pallide  rose  e  di  garo- 
fani ancor  accesi.  Nessuno  turba  il  loro  sonno,  e  chi  fret- 
losamente  attraversa  la  scena  e  la  va  preparando  alla  nuova 
mutazione,  d'  avanti  al  piccolo  cherubino  scantona  ;  il  tro- 
varobe fa  meno  romore  del  solito  ;  1'  amoroso,  addossato  a 
una  quinta,  ripete  sottovoce  le  calde  apostrofi  della  sua  parte; 
la  caratterista,  filosofando  sull*  infanzia,  sorride  e  medita,  col 
ventaglietto  tra  mani. 

Fra  tanto  la  musica  tenerissima  ancor  sospira  e  il  primo 
attore,  mentre  si  rifa  il  volto  e  lo  colora  di  giovinezza,  tien 
dietro,  zufolando,  alle  note  che  muoiono.  Dal  suo  camerino 
illuminato  un  fascio  di  luce  si  fa  strada  per  le  penombre 
del  palcoscenico  ;  uno  specchio  tignoso,  incorniciato  di  va- 
rie parrucche,  riflette  a  rovescio  la  rigidezza  delle  quinte 
drappeggiate  e  un  cielo  di  cordami  e  di  tele  penzolanti. 
Una  botola  si  spalanca,  poi  che  fra  poco  il  sottoscena  do- 
vrà ingoiare  un  folletto.  Prima  di  seppellitisi,  il  macchini- 
sta, ginocchioni  sull'  orlo  della  fossa,  la  interroga,  in  silen- 
zio ;  e  com'  egli  vi  scende,  la  candela  che  ha  in  mano  è 
assalita  da  un  buffo  d'  umido  :  quella  nera  bocca  le  avventa 
un  alito  gelato  per  cui  la  fiammella  s'  agita  e  trema.... 

In  iscena  ,  in  iscena  !  La  musica  s' interrompe,  un  clamore 
di  applausi  arriva  e  si  ripercote  sul  palcoscenico,  la  ribalta 
s' illumina,  tutti  i  camerini  si  spalancano,  il  buttafuori  corre 
attorno  ricordando  a  ogni  attore  la  battuta  d'uscita,  e  dal 
suo  camerino  arriva  sorridendo,  con  una  rosa  in  petto,  l'in- 
genua. La  tela  sale.   Il  fanciullo  si  sveglia. 


—  271 


IL 


Così  Filippo  Cammarano,  quel  piccino  che  Giancola  e 
Paola  Sapuppo  aveano  condotto  a  Napoli,  nel  1765,  dalla 
loro  Sicilia.  Chi  avesse,  in  quel  tempo,  frequentato  quel 
vero  guscio  di  noce  eh'  era  il  palcoscenico  della  Cantina, 
avrebbe  visto,  appisolato  in  un  grosso  scialle  scuro,  davanti 
al  camerino  di  Vincenzo  Cammarano,  un  marmocchietto 
biondo.  Quando  in  qualche  pappolata  cerloniana  i  Turchi 
sbarcavano  in  riva  a  un  paese  immaginario  e  in  un  sangui- 
noso «  battimento  »  il  palcoscenico  risuonava  dello  strepito 
delle  armi,  il  piccolo  Cammarano  si  destava  e  sgranava  gli 
occhi  meravigliati,  tutto  acceso  in  volto  dall'  afa  del  palco- 
scenico e  dalla  puerile  sua  commozione.  Talvolta,  infiam- 
mandosi anche  più,  batteva  palma  a  palma  le  manine  rosee 
e  pienotte;  talvolta,  impadronendosi  d'una  sciabola  musulmana, 
armeggiava  con  quella  per  quanto  gli  concedevano  le  sue 
forze  infantili. 

Nel  1 770,  quando  Tommaso  Tomeo  inaugurava  il  nuovo 
San  Carlino,  Filippo  Cammarano  aveva  sei  anni.  A  sentire 
il  Martorana,  che  di  lui  parla  nella  sua  raccolta  biografica 
degli  Scrittori  in  dialetto  napoletano  ,  Filippo  Cammarano 
a  dieci  anni  era  già  commediografo  ;  la  sua  prima  opera 
sarebbe  stata  il  Comico  Inglese.  Comunque,  egli  fu,  nel  nuovo 
secolo ,  il  successore  di  Celione  al  teatrino  di  Piazza  del 
Castello.  Con  quale  produzione  e  con  quanta  ,  vedremo  a 
momenti. 

Nell'anno   1800  recitavano  al  San  Carlino: 

Rosalia  Linder,  jìnna  Buonamici,  Domenica  Cammarano, 


—  272  — 

Carlotta  Angiolini,  Caterina  Cammarano,  <5XCaria  tJ&ichela 
Tomeo. 

Gaetano  Buonamici,  Ber  ordino  Ferrari,  Nicola  Pertica, 
Filippo  Cammarano,  Giuseppe  Grassi,  Francesco  Linder, 
Tommaso  cTUCerotta,  Carlo  Temetti,  Vincenzo  Cammarano, 
Giovanni  Stile,  Pasquale  Lavezzino,  Giuseppe  di  Giovanni, 
^Cichele   Vacca,  Raimondo  Tomeo,    Antonio   Cammarano. 


III. 


Nel  1801  don  Tommaso  Tomeo  lasciava  questo  mondo 
birbone.  Dei  suoi  figliuoli  gli  sopravviveva  soltanto  uno,  chia- 
mato Michele  ;  gli  altri  erano  morti  tutti  avanti  che  il  se- 
colo nuovo  principiasse.  L' impresa  del  San  Carlino  capitò, 
dunque,  nelle  mani  di  Salvatore  Tomeo,  poi  che  Michele, 
suo  cugino,  non  voleva  sapere  del  teatro,  su'  provventi  del 
quale,  tuttavia,  pur  accampava  i  suoi  diritti  di  successione. 
Salvatore  Tomeo,  nel  1 803,  s'  accompagnò  al  notaio  Pietro 
de  Roma  che,  da  cassiere  che  era,  divenne  anche  lui  im- 
presario del  teatrino.  Una  figliuola  di  Salvatore  sposava,  in 
appresso,  un  figliuolo  del  notaio,  Giovanni  ;  e  così  i  Tomeo 
s'imparentavano  co'  de  Roma. 

Lucia,  sorella  di  Salvatore,  avea  sposato  Pietro  Negri. 
Il  fratello  le  assegnò  in  dote  mille  ducati,  duecento  de' 
quali  le  furono  pagati  dopo  tre  anni  dal  matrimonio.  Gli 
altri  800  diventarono  capitale  pagabile  quandocumque,  con 
ipoteca  su  tutti  i  beni  del  padre  di  Lucia  e  di  Salvatore, 
Carlo  Tomeo,  marito,  come  ricorderete,  di  Elisabetta  d'Orso. 
E  però  la  Lucia    rinunziò  alla  eredità    paterna,  che    toccò 


Sol 


—  273  — 

tutta  quanta  a  Salvatore  (1).  Questi  ebbe  sette  figli  :  Carlo, 
Raimondo,  Maria  Michela,  Mariantonia,  Luisa,  Maria  Giu- 
seppa ed  Emmanuella. 

Maria  Michela  sposò  1'  attore  Berardino  Ferrari,  Marian- 
tonia il  signor  Raffaele  Mormone,  Luisa  il  figliuolo  del  no- 
taio de  Roma,  Maria  Giuseppa  ii  signor  Carlo  Natali,  Em- 
manuella, infine,  il  signor  Raffaele  Gatti. 

Nel  1 803  —  impresarii  del  San  Carlino  Salvatore  Tomeo 
e  Pietro  de  Roma  —  la  compagnia  del  teatrino  era  così 
composta  : 

Prima  donna  —  Anna  Buonamici. 
Seconde  T)onne  —  Domenica  e  Caterina  Cammarano. 
Servetta  —  Maria  Michela  Tomeo. 
'Parti  serie  e  sostenute  —  Gaetano  Buonamici, 
Primo  amoroso  —  Berardino  Ferrari. 
Secondo  amoroso  —  Giuseppe  Grassi. 
Padre  nobile  —  Francesco  Linder. 
Mezzo  carattere  —  Filippo  Cammarano. 
Secondo  padre  nobile  —  Tommaso  Merolla. 
Per  «  li  caratteri» — Giuseppe  di  Giovanni. 
'Pulcinella  —  Vincenzo  Cammarano. 
{Buffo  napoletano  —  Giovanni  Stile. 
Vecchia  caricata  —  Pasquale  Lavezzino. 

Hanno  iasciato  la  compagnia  :  Rosalia  Linder,  Carlotta, 
Angiolini,  Nicola  Pertica,  Carlo  Duretti,  Michele  Vacca, 
Raimondo  Tomeo  e  Antonio  Cammarano. 


(I)  Istrumento  del  9  settembre    1781,   rogato  dal  notaio   Niccolò  Mellace, 
di  Napoli. 

CU  GIACOMO.  -S.  Carlino.  18 


—  274  — 

Berardino  Ferrari,  nel  1809,  si  congeda  dal  Tomeo  per 
passare  dal  teatro  in  Corte.  Emigra  in  Sicilia,  trova  modo 
d'  entrare  nelle  buone  grazie  di  Maria  Carolina  e  diventa, 
nel  suo  seguito,  un  pezzo  grosso.  Conduce,  naturalmente, 
la  moglie  con  sé  e  di  tutti  e  due,  da  quel  tempo,  non  si 
fanno  più  i  nomi  in  arte.  Il  posto  di  primo  amoroso  è  oc- 
cupato da  Giuseppe  Tavassi. 

Nello  stesso  anno  1803,  don  Michelangelo  del  Vallo  è 
direttore  e  concertatore  della  compagnia.  I  poeti  sono  Giu- 
seppe Palomba  e  Filippo  Cammarano.  I  suggeritori  si  chia- 
mano Vincenzo  Sicondolfo  e  Pietro  Cappelli. 

L'  orchestra  si  compone  d'  un  primo  violino  (don  Raffaele 
Marziale),  di  quattro  secondi  violini,  di  due  corni  da  caccia 
e  d'  un  controbasso  (don  Ignazio  Vigorito). 

Tre  palchettari  —  Nicola  Linder,  Antonio  Tari,  Innocen- 
zio  Vigorito. 

Tre  sediarii  di  platea  —  Bartolomeo  di  Marco,  Carlo  Ni- 
gro,  Giuseppe  Feticello. 

Tre  cassieri  di  platea  —  Pietro  del  Vallo,  Agostino  Tra- 
montano, Lorenzo  Cammarano. 

Quattro  sediarii  per  le  portantine —  Domenicantonio,  Sal- 
vatore, Carmine  Cardillo  e  Pasquale  Carrino  (1). 

IV. 

Nel  1809  muore  Giancola.  Ha  recitato  per  cinque  anni 
alla  Cantina,  per  trentadue  al  San  Carlino;  da  'Pulcinella. 
Egli  ha  visto  principiare  e  terminar  tutto  un  secolo;  è  stato 


(I)   Informazioni   fornitemi  da   V.   D'Auria. 


—  275  — 

spettatore  de*  fatti  del  novantanove,  compagno  indivisibile 
de'  Tomeo  nella  fortuna  loro  e  nelle  loro  disgrazie,  amico 
sviscerato  della  monarchia  e,  col  Luzio  e  con  i  Casaccia, 
carissimo  a  re  Ferdinando  IV  che  in  un  palchetto  del  San 
Carlino  ,  nelle  recite  di  giorno  ,  si  recava  assai  spesso  a 
fare  il  chilo. 

Una  sera  Re  Nasone  assisteva  alla  recita  del  Medico 
Notturno  del  signor  di  Soave,  quello  delle  novelle  educa- 
tive per  la  morigerata  gioventù.  Giancola  aveva  saputo  di 
certe  allodole  che  il  re  aveva  ammazzato  in  gran  copia  a 
Patria,  ov'  era  stato  a  caccia,  {cucciarde,  come  le  si  chia- 
ma noialtri),  grosse  e  grasse,  che  son  così  buone  allo  spiedo, 
lardellate  e  cotte  a  fuoco  lento.  S'  era  alla  scena  in  cui,  nel 
fitto  d' un  bosco,  un  misterioso  viandante  intrattiene  con 
lungo  discorso  Pulcinella  il  quale  assume,  con  questo  ch'egli 
crede  un  miserabile  accattone,  delle  grandi  arie  di  superio- 
rità e  infine  lo  minaccia  pur  di  legnate.  Il  viandante  s'  al- 
lontana. Sopraggiungono  soldati,  in  fretta  e  furia,  che  cer- 
cano di  lui.  E  come  Pulcinella,  per  farsi  un  merito,  rac- 
conta loro  di  che  improperii  lo  abbia  investito,  il  capitano 
grida  alla  sua  gente  : 

—  Arrestate  questo  miserabile  ! 

—  Comme!  —  esclama  Pulcinella  —  £  pecche?  E  e' ag- 
gio fatto  ? 

—  Hai  insultato  un'  augusta  persona  ! 

—  Io  ?  (S  chi  era  mo  chesta  ? 

—  Il  Re  ! 

A  questa  battuta  fulminante  Giancola  ,  che  avrebbe  do- 
vuto, com'  era  scritto  nella  commedia,  gettarsi  per  terra  e 
piangere  e  chieder  pietà,  invece  dette  addietro  d'  un  passo 
e,  battendosi  in  fronte  : 


—  276  — 

—  Oh,  sango  de  na  vufera  !  —  esclamò  —  Si  lo  ssapeva 
He  cercavo  li  cucciarde  ! 

Una  grossa  voce,  la  voce  del  re  eh'  era  in  un  palco,  ri- 
spose forte  : 

—  Te  le  manno,  Cammarh  !  Te  le  manno  ! 

E  alla  mattina  appresso  una  cesta  di  allodole  capitava 
a  casa  di  Gì anco  la  da  parte  di  Ferdinando  IV. 

Come  non  parteggiare  per  i  Borboni  quando  s'  entrava 
con  essi  in  simili  dimestichezze  ?  Il  vecchio  Cammarano  avea 
tirato  su  i  figliuoli  in  questa  devozione  ed  essi  la  manten- 
nero viva  fino  ai  loro  ultimi  giorni  in  cuor  loro,  ora,  per  gli 
avvenimenti  politici,  costretti  a  nasconderla  come  potevano, 
ora  manifestandola  con  maggiore  entusiasmo  appena  le  cose 
di  Napoli  tornassero  propizie  al  figliuolo  di  Carlo  III.  Nel 
1 809  il  regno  di  Gioacchino  Murat,  inaugurato,  nell'  anno 
precedente,  con  civili  e  benigni  atti,  con  la  gloriosa  espu- 
gnazione di  Capri,  non  migliorava.  Alcune  leggi  spiacevano,  e 
1*  impeto  con  cui  le  si  sanciva  e  si  voleva  che  fossero  ri- 
spettate e  poste  in  atto,  scambio  d' impaurire  ,  sdegnava.  E 
fu  sulle  prime  mosse  della  spedizione  anglo-sicula  dalle  Eolie 
che  Vincenzo  Cammarano  restituì  alla  terra  le  sue  povere 
ossa.  Morì,  forse,  col  desiderio  di  veder  nel  porto  di  Na- 
poli quelle  navi,  su  cui  si  diceva,  perfino,  che  fossero  il  re 
e  Maria  Carolina.  Sperava  di  vivere  ancora,  ancora  un  poco. 
Napoli  lo  adorava.  L'  ultima  sera  che  lo  si  vide  al  San 
Carlino,  nel  1802,  il  teatro  era  stipato;  Giancola  recitò 
seduto,  poiché  non  avea  più  l'uso  delle  gambe.  E  in  quella 
sera  seguì  un  fatto  commovente  :  Pulcinella  che  si  ritirava 
dalle  scene,  per  la  prima  volta  pianse — e  fece  piangere.... 


—  277 


V. 


Uno  degli  habitués  del  San  Carlino  era,  di  que'  tempi, 
don  Giulio  Genoino,  un  piccolo  abate  che  da  Fratta  Mag- 
giore, sua  patria,  era  venuto  a  Napoli  nel  1 793,  per  com- 
pirvi studii  scientifici  cominciati  sotto  Domenico  Niglio.  Nel 
1809  Genoino  avea  trentasei  anni,  era  già  molto  noto  per 
i  suoi  versi,  specie  in  dialetto,  per  le  sue  prose,  per  la 
bontà  e  per  la  piacevolezza  sue.  Assiduo  frequentatore  del 
San  Carlino  egli  vi  si  recava,  come  re  Ferdinando,  alle 
rappresentazioni  diurne  e  vi  smaltiva  il  pranzo  fra  le  risate 
Poi  finì  per  diventare  anche  lui  un  de'  commediografi  del 
teatrino,  ma  non  gli  fornì  se  non  due  commedie  che  ten- 
nero poco  tempo  il  cartello. 

De'  versi  del  Genoino  non  mi  pare  che  sia  rimasta  rac- 
colta di  sorta;  son  qua  e  là  sparsi  nelle  sue  Nferte  (1)  e 
su  pe'  giornali  del  tempo  suo,  tra'  quali  quel  'Poliorama  pit- 
toresco che  a  ognuno  di  noi,  fanciullo,  è  passato  sott'  oc- 
chi. E  questi  eh'  io  publico  appresso  ,  in  morte  di  Gian- 
cola,  reputo  inediti  addirittura  fino  ad  ora.  (2) 


(1)  Strenne. 

(2)  L' autografo  del   Genoino    mi  fu  mostrato  da    Goffredo    Cammarano, 
figlio  di  Salvatore.   Ha  la  data  del   5   aprile    1809. 


—  278  — 

IN  MORTE  DI  CAMMARANO 
SCHERZO  POETICO 

DI 
GIULIO  GENOINO 

Pieno  il  cor  di  quella  rabbia 
Onde  guerra  al  mondo  move, 
Contro  un  figlio  di  Partenope 
Reclamò  l' Invidia  a  Giove. 

Era  questi  un  Genio  comico 
Che,  nel  genere  giocoso, 
Si  acquistò  già  tanta  gloria 
E  divenne  sì  famoso. 

Contro  a  lui  lassù  la  perfida 
Tante  cose  affastellò 
Che  in  delitto  e  vituperio 
Il  suo  merito  cangiò. 

Disse  in  pria  che  un  uomo  in  regola 
Non  può  aver  tanta  energia 
Da  incantare  i  sensi  e  1   anima 
Senza  un  poco  di  magia. 

Ch'  ella  avea  ragion  di  credere 
(Oh  !  che  idea  maligna  e  strana  !) 
Che  non  era  un  uomo  semplice 
Ma  un  Demonio  in  forma  umana. 

(Che  giammai  non  fu  possibile 
Arte  tanto  singolare 
Cui  la  forza  dell'  Invidia 
Non  è  giunta  a  denigrare  !) 


-   279  — 

Ch'  era  cosa  abbominevole 
Il  far  ridere  poi  tanto 
Quei  che  un  Ente  Sapientissimo 
Avea  già  dannati  al  pianto. 
Conchiudea  che  per  decidersi 
Il  sospetto  suo  profondo 
Un  attor  sì  detestabile 
Si  dovea  levar  dal  mondo. 
Giove  disse  :   Io  ben  m'  immagino 
Quante  ciarle  or  dirmi  puoi, 
Ben  so  il  genio  tuo  malefico, 
Temo  assai  de'   fatti  tuoi. 
Dall'  accusa  e  dall'  ingiurie 
Io  tutt'  altro  ne  argomento, 
E  risolvo  offrire  un  premio 
Al  suo  comico  talento. 
Sciolta  ormai  dal  corpo  fragile 
Venga  1'  alma  innanzi  a  me, 
Giove  alfin  farà  conoscere 
Ch'  egli  un  cavolo  non  è  ! 
Come  udì  Talia  quell'ordine 
Non  serbò  più  convenienze, 
Bestemmiò,  si  stracciò  gli  abiti, 
Fece  mille  impertinenze. 
E  la  tetra,  sanguinaria 
Melpomene  sua  rivale, 
Benché  sempre  avvezza  a  piangere 
Pur  si  rise  del  suo  male. 
Ma  non  v"  ebbe  alcun  rimedio, 
Egli  al  fato  suo  soggiacque, 
Giove  il  vidde  e  scoppiò  a  ridere 
Tanto  il  fare  suo  gli  piacque. 


—  280  — 

E  per  dargli  un  degno  impero 

L'  impiegò  nel  Campo  Eliso  : 

Là  diverte  le  buon'  anime 

E  le  fa  crepar  di  riso. 
Indi  a  eterna  sua  memoria 

Decretò  di  propria  mano 

Che  mai  più  nel  Regno  Comico 

Sorga  un  altro  Cammarano. 

VI. 

«  Udite  un  frastuono  tremendo  ,  uno  sparo  di  fucili,  un 
dar  nei  tamburi,  un  gridare  :  ammazza,  ammazza  !  e  poi  — 
pianti,  lamenti,  scongiuri,  bestemmie  —  vedete  una  mischia 
feroce  di  armati,  un  menar  di  coltella,  e  di  sciable,  e  — 
uomini  insanguinati  che  fuggono,  inseguiti  da  uomini  invi- 
periti ;  e  poi  —  un  vecchio  ucciso  di  qua,  una  donna  sve- 
nuta di  là,  e  fanciulli  che  piangono,  e  forzieri  infranti,  e 
robe  e  denari  sparsi  per  terra  !  —  Mirate  voi  quella  con- 
fraternita che  giunge  a  passo  lento,  quell'  uomo  che  cam- 
mina in  mezzo  ad  essa  colla  benda  su  gli  occhi,  e  le  ma- 
ni avvinte,  e  —  lungi,  quella  trave  orizzontale  posata  sovra 
due  travi  verticali  !  —  Guardate  quella  ninfa  svelta,  grazio- 
sa ,  bellissima  ,  che  portata  da  un  fanciullo  alato  e  ben- 
dato sale  pian  piano  alle  stelle  fra  una  nube  di  profumi, 
fra  ghirlande  di  fiori,  recate  da  altri  fanciulli  vispi  e  benis- 
simo in  carne  !  —  Scernete  quell'  essere  strano  in  camicia, 
colla  faccia  nera,  col  naso  a  ponte,  col  berretto  conico,  che 
si  move  come  gli  uomini  non  soglion  moversi,  che  parla  ar- 
gutamente come  molti  non  san  parlare,  che  simula  lo  sciocco, 
ed  ha  più  sapienza  di  molti  filosofi  !  —  Voi  avete  veduto  i 
birri,  gli  Spicciarelli,  Angelo  del  Duca,  la  forca,  Amore  e 


—  281  — 

Psiche,  e  Pulcinella  —  Che  beli'  innesto  !  Psiche  e  Pulci- 
nella, Amore,  Angelo  del  Duca,  la  forca  e  gli  amori  co* 
fiori  !  N'  è  autore  un  Cammarano  (Filippo),  un  di  quella 
famiglia  sì  onesta,  sì  operosa,  e  sì  feconda  di  artisti. 

«  E  quel  Pulcinella  ?  E  anch'  esso  un  Cammarano  (Vin- 
cenzo) ed  è  padre  dello  scrittore.  Vincenzo  Cammarano  ! 
Pochi  conoscon  forse  questo  nome,  ma  dite  Giancola  e  ve- 
drete gli  avanzi  di  tutta  una  generazione  batter  le  mani,  at- 
teggiarsi a  un  sorriso  di  gioia  e  rammentare  il  beato  tempo 
che  fu,  quando  tutti  gli  affanni  della  vita,  e  non  ve  n'  eran 
molti  allora,  tutte  le  noie,  tutte  le  malinconie  svanivano  a  una 
frase  e  ad  una  mossa  del  non  superato  Giancola  —  Oh  se 
se  aveste  veduto  :  1'  assedio  di  Troia  con  Pulcinella  scri- 
vano criminale  !  Oh  se  aveste  ascoltato  Angelo  del  Duca 
con  Pulcinella  servo  sciocco,  finto  morto  e  perseguitato  dal 
mago  Aristone  !  Avreste  saputo  che  cosa  è  il  ridere  di 
cuore,  ridere  lungamente,  e  a  più  non  poterne.  Questa  spe- 
cie di  riso  or  non  si  conosce  più.  Così  dicono  i  vecchi  e 
dicon  bene.  Essi  ricordano  i  dì  in  cui  v'  eran  denari  molti 
e  pochi  pensieri.  Passare  il  tempo  ridendo  era  la  prima  cura 
di  quei  felicissimi,  e   Giancola  era  1'  uomo  nato  ad  hoc. 

«  Dopo  un  par  di  mesi  di  cammino  giungeano  a  Napoli 
dall'  ultimo  Abruzzo  o  dall'  ultima  Calabria  uno  studente  pa- 
glietta m  erba,  un  ricco  notaio,  un  mastro  d'  atti  riccone  ! 
Dopo  di  esser  discesi  alla  locanda  della  Uicaria  o  della 
Fontana  dei  Serpi,   si  avviavano,  dove  ? 

«  A  udir  Giancola,  poi  —  andavano  a  cena  a  S.  Lucia, 
o  presso  Ciccione  ai  Fiorentini  ;  e  sazii  e  lieti  aspettavan  la 
dimane  per  cominciare  a  spender  le  belle  doppie  di  Spa- 
gna ne'  Guantai  Vecchi  o  per  visitare  il  principale  pre- 
scelto, a  cui  recavano  una  buona  dozzina  di  prosciutti,  olio, 


—  282  — 

fichi  secchi  e  mortatelle.  Per  questo  vennero  ,  camminaron 
due  mesi  e  fecero  testamento  :  per  udir  Giancola,  per  ce- 
nare a  S.  Lucia  o  ai  Fiorentini,  per  spendere  in  via  Guan- 
tai Vecchi,  e  per  recare  i  prosciutti  al  vecchio  paglietta, 
causidico  famoso,  gran  vincitor  ai  lotti  mercè  certi  specifici 
da  lui  trovati. 

«  Così  cominciò  S.  Carlino.  Scrivea  Filippo  Cammarano, 
traendone  gli  argomenti  dalle  storie  de'  masnadieri,  e  dai 
balli  di  S.  Carlo.  Recitava  le  parti  di  Pulcinella  Qiancola, 
di  cui  la  prima  arena  fu  uà  bugigattolo  sito  sotto  la  chiesa 
di  S.  Giacomo  de'  Spagnuoli.  Mancavan  molti  anni  alla 
fine  del  secolo  XVIII,  il  progresso  non  era  venuto  ancora 
ad  accrescer  le  spese  e  a  diminuir  gli  introiti ....  e  si  an- 
dava ad  applaudir  Giancola. 

«  Ma  il  riso  non  dura.  Al  cader  del  secolo  XVIII,  al 
sorgere  dei  secolo  gigante  (il  nostro  !),  nelle  viscere  di  Eu- 
ropa si  udì  quel  rumor  cupo  che  precede  le  eruzioni  vul- 
caniche, quel  brontolar  che  si  ode  all'  azion  dei  purganti  : 
cannoni  di  qua,  battaglie  di  là,  stragi  di  nuovo  conio,  ar- 
rabbiati di  nuovo  tipo  !  Potea  esser  più  tempo  da  Giancola 
quello  !  Il  caro  uomo  vide  e  conobbe  non  aver  che  fare  più 
del  suo  riso  il  mondo  delle  stranezze  e  —  scese  dalle  scene, 
ove  sì  amato  lasciava  il  suo  nome.  Avea  84  anni  l' infati- 
cabile e  intemerato  vecchio.  Volgea  il    1802. 

«Durò  fuori  del  suo  elemento  sei  anni,  e  —  mentre  gli 
uomini  si  uccideano  con  una  meravigliosa  rapidità,  e  il 
progresso  alzava  la  fronte,  egli  andossene  là  donde  non  si 
torna  ,  e  dove  solo  si  conosce  il  vero  ...    » 


283  — 


VII. 


Così,  nel  1844,  scriveva,  nello  Spettatore  napolitano  (1), 
Cesare  Malpica,  un  Frugoni  in  seconda  edizione,  lavoratore 
assiduo  ed  infaticabile,  cronista  prolifico,  traduttore,  improv- 
visatore, compilatore  di  strenne  sulla  maniera  del  Genoino. 
Questo  brano  di  cronaca  sancarlinesca  io  riproduco  poi 
eh'  esso  è  fedele  ;  anche,  perchè  abbozza,  se  bene  di  volo, 
certa  fisonomia  di  cose  napoletane  al  principio  del  dician- 
novesimo secolo. 

Morto  Qiancola,  il  teatrino  di  Piazza  del  Castello  ne 
prese  il  lutto  per  oltre  una  settimana  e  durante  quel  tempo 
rimase  chiuso.  La  facciata  del  San  Carlino,  spogliata  de' 
suoi  giganteschi  cartelloni  scenografici,  alcuni  de'  quali  erano 
dipinti  dal  secondogenito  di  Giancola,  Giuseppe  Cammarano, 
parve  triste.  Come  provvedere,  fra  tanto,  perchè  Qiancola 
avesse  un  degno  successore?  Dal  1802,  anno  in  cui  l'il- 
lustre comico  aveva  abbandonato  la  scena,  parecchi  s'  erano 
provati  a  sostituirlo,  ma  nessuno  v*  era  nescito  ;  Salvatore 
Tomeo,  impresario,  e  il  suo  socio  De  Roma  non  sapevano 
più  a  quale  santo  votarsi  ;  la  baracca  andava  di  male  in 
peggio  e  una  serqua  di  fischiate  era  il  contributo  serale 
eh'  essi  ottenevano  da  un  publico  già  diventato  scarso. 

Un  novello  avvenimento  dette  il  tracollo  all'  impresa.  Nel 
1 805  si  mutò  in  teatro,  in  Piazza  del  Castello,  a  pochi  passi 
dal  San  Carlino,  una  vasta  scuderia  del  duca  di  Grottolella, 


(1)  Anno  I,  n.   4. 


—  284  — 

comprata  da  tal  Gaetano  de  Felice.  Il  nuovo  teatrino  sot- 
terraneo s' intitolò  La  Fenice.  L' impresario  aveva  denari  da 
spendere  e  si  metteva  nell'opera  con  palese  intenzione  di 
far  la  concorrenza  al  San  Carlino,  e  con  tanta  maggiore 
speranza  in  quanto  eh'  egli  ne  vedeva  così  peggiorata  la  for- 
tuna. Difatti  non  ebbe  che  a  far  V  occhio  dolce  all'  ammi- 
serita compagnia  del  Tomeo  perchè  questa,  senz'  altro,  ab- 
bandonata la  vecchia  e  logora  bandiera,  accorresse  alla  Fe- 
nice. Risultò  composta,  in  questo  modo  con  i  vecchi  ele- 
menti del  San  Carlino  e  con  alcuni  altri  nuovi,  che  il  de 
Felice  seppe  accortamente  mettere  assieme  a  quelli,  una  com- 
pagnia modello,  di  cui  furono  attori  principali  Filippo  Cam- 
marano,  Giuseppe  Tavassi,  un  giovine  remano  chiamato  Sil- 
vio Maria  Luzi,  sua  moglie  Teresa  Balestrieri,  il  caratteri- 
sta Pieri  e  la  piccola  Manzi,  che  possedeva  una  squisita  vo- 
cetta  e  cantava  ne'  vaudevilles.  E  co'  vaudevilles  e  con  la 
commedia  in  prosa,  fu  inaugurato  il  nuovo  teatrino.  Nel  1808 
Gaetano  de  Felice  scritturò  Altigonda  Colli,  una  bella  gio- 
vane romana,  tutta  brio,  tutta  facondia,  tutta  grazia  e  spon- 
taneità. Nel  1810  Giuseppe  Tavassi  smesse  di  far  l' inna- 
morato e  creò  il  tipo  buffonesco  del  Biscegliese,  un  cafone 
al  quale  1'  accento  del  suo  dialetto  conferiva  una  straordi- 
naria e  insospettata  comicità.  E,  su  per  giù,  lo  stesso  genere 
di  spettacoli  che  fino  al  1806  avea  dato  San  Carlino  dette 
pur  la  Fenice.  Filippo  Cammarano  vi  si  era  recato  con  sotto 
il  braccio  il  suo  repertorio  mitologico-bligantesco  e  vi  an- 
dava somministrando,  a  mano  a  mano,  le  spettacolose  sue 
composizioni,  manipolandone,  con  la  medesima  ricetta  com- 
plicata, altre  novelle. 

Nel    1809  il    cartello  della    Fenice  annunziò  Annella  di 
T^ortacapuana.  Questa  commedia    in   prosa,  —  disseppellita 


—  285  — 

dal  de  Felice,  dicono  alcuni,  da  Filippo  Cammarano,  di- 
cono altri,  —  fu  una  rivelazione.  Era,  finalmente,  la  vera  com- 
media popolana,  immacolata  d' ogni  finzione,  viva,  vera, 
spontanea  e  geniale. 


Vili. 


Il  Martorana,  facendo  menzione  dell'  Annella,  ne  cita  una 
edizione  del  1 780  ed  aggiunge  —  credendo  forse  che  quella 
sia  stata  la  prima  —  che  dalle  altre  venute  a  luce  in  ap- 
presso non  s' ha  da  giudicare  la  commedia,  specie  se  la  si 
ha  per  mani  stampata  nel  1809  da  Domenico  Sangiacomo, 
che  la  castrò  e  ridusse  maledettamente.  Quest'  ultima  cir- 
costanza potrebbe  far  supporre  due  cose  :  o  che  il  de  Fe- 
lice comprò  qualche  esemplare  dell'  Annella  appena  la  vide 
publicata  nel  1 809  dal  Sangiacomo  —  editore  teatrale  —  o 
che,  visto  il  successo  della  commedia  alla  Fenice,  il  San- 
giacomo ebbe  voglia  di  stamparla  in  quell'  anno.  A  ogni 
modo  io  posso  dire  che  anche  prima  del  1 780  1'  Annella 
fu  impressa.  Ne  ho  sottocchi  una  copia  del  1 767.  L' edi- 
tore è  Gianfi  ancesco  Paci,  che  in  quel  tempo  avea  pur  bot- 
tega di  librario  in  via  S.  Biagio  de'  librai.  Il  frontespizio 
annunzia:  &  Annella,  commeddea  de  Qiovanne  d'Arno,  Na- 
politano (I). 

D'  Arno  ?  E  perchè  non  D'  Avino  ? 

Giovanne  d' Arno  —  dice  la  prefazione  alla  commedia  — 
è  lo  stisso  che  Gennaro  D'  Avino.   E  na  chelleta  purissema 


(1)  Biblioteca  Razionale  di  S.   ^Carlino,   Napoli,  (IV,  A.   77). 


—  286  — 

fatta  pe  ghì  a  V  uso  a  la  primma  Commeddia  che  stampaje, 
e  secotata  pò,  non  se  sa  pecche.  L' ave  sentuto  co  le  recchie 
soie  no  Giovanne  d' Jlrno  che  se  voleva  fa  Autore  de  lo 
JXCeniello  Commeddia  soja  fa  ch'aggio  fatta  sta  sprecazione. 
Quante  ne  lejarrie  co  sto  nomme  sb  tutte  de  D' Avino  o  bone 
o  male  che  so,  so  de  lo  stisso.  L'ave  rappresentata  quatto 
vote  ,  e  sempe  pe  dà  gust'  a  V  ammice  che  V  hanno  voluta; 
l'  ha  fatta  stampare  mo  pe  obbedire  a  chi  lo  poteva  coman- 
nare  e  pe  contentare  la  Communetà,  non  pe  dà  desgusto  a 
nesciuno.  Chi  non  la  vo  leiere  se  stia,  chi  la  leje  lo  faccia 
compatircele  voglia  bene,  ca  le  vasa  le  mmano....  Ah!  zi 
zi..,  n  auta  cosa  :  vi  che  le  parole  pazziarielle  no  le  pigliasse 
pe  qua  commesechiamma,  ca  chi  ha  fatta  ssa  Commeddia  è 
Ommo  nnorato,  galani'  Ommo  e  crestiano  nfi  m  ponta....  Pa- 
trone mio. 

I  personaggi  della  commedia  sono  : 

ANNELLA,  figlia  de  Porzia  e  nnammorata  de 
MENIELLO,    nnammorato  nzecreto  sujo,   figlio  de  Cuosemo, 

e  ammato  da 
RITA,  figlia  d'  Ambruoso,  compromessa  pe  mmogliera  a 
MASTO  ClANNO,   T^pbbe  vecchie,  Ianne  femmeniello. 
ANTUONO,  co  lo  nomme  de  CAPOSECCA,  nnammorato  nze- 

greto   d'  Jlnnella. 
PORZEA,   vedova,    Tavernara  nnammorata  de  JXCeniello. 
AMBRUOSO,   ^otecaro,   nnammorato  d'  Annella. 
NOTA  MARGONE,  ZNjztaro  de  chillo  quartiere. 
CUOSEMO,  XJiecchio  Avaro  Castagnaio. 

La  scena  —  dice  1'  autore  —  se  fegne  fora  Porta  Capoana; 
propeo  nche  s' esce,  addò  sta  la  Taverna,  e  pe  tutto  chello 
che  se  vede  da  lontano. 


287  — 


IX. 


L' Annella  ho  ristampata  dalla  edizione  che  è  alla  Bi- 
blioteca di  S.  Martino  di  Napoli  e  1'  ho  annotata  e,  nella 
prefazione,  ho  parlato  dall'  autor  suo.  (  1  )  Leggendola,  se 
mai  ve  ne  venisse  voglia,  non  trovereste  inopportuna  la  ri- 
stampa. Si  è  al  cospetto  d'  una  semplice,  felice  opera  d'arte, 
1'  autor  della  quale,  mentre  Lorenzi  e  Cerlone  vomitavano 
opere  buffe  e  commedie  su  per  tutti  i  palcoscenici  parteno- 
pei, si  celò  modestamente  sotto  uno  pseudonimo,  poi  ch'egli 
metteva  in  palco  la  verità  tale  quale,  senza  cortigianerie,  senza 
esagerazioni,  senza  sfarzo;  e  ciò,  in  quell'epoca  d'assoluta 
menzogna  d'arte,  sarebbe  potuto  sembrar  perfino  un  delitto. 
Tanto  vero  che  1'  Annella  —  come  dice  lo  stesso  d'  Avino 
—  non  si  rappresentò  che  quattro  volte  fino  al  1  767  :  il  gu- 
sto era  già  pervertito,  la  finzione  aveva  già  preso  troppe  ra- 
dici, lo  spettacoloso  ritrovava  sempre  più  amico  e  appas- 
sionato il  publico.  E  una  commedia  popolana,  senza  ma- 
schere, senza  trabocchetti,  senza  mutazioni  a  vista,  non  po- 
teva piacere.  Piacque,  mezzo  secolo  dopo,  a  una  genera- 
zione più  fresca  e  intelligente  che  incominciava  a  desiderare 
per  la  scena  opere  in  cui  fosse  almeno  salvato  il  senso  co- 
mune ;  piacque  ancora  a'  superstiti  del  secolo  antecedente, 
i  quali  si  rivedevan  tutti,  bonariamente  felici  del  ricordo 
e  del  ritorno,    di    faccia  alle  vere  abitudini    loro    popolane 


(  1  )   L'  edizione  di  questa    mia   ristampa  è  esaurita.   Un     esemplare   è  alla 
biblioteca  Lucchesiana  di   Napoli. 


—  288  — 

che  tante  nuove  commedie  storiche  ,  mitologiche ,  brigan- 
tesche e  sacre  avevano  pomposamente  allontanate  dalla  sce- 
na dialettale. 

X. 

jìnnella  di  Portacapuana  potrebbe  pur  oggi  —  se  rie- 
vocata e  rimessa  su  da  un  riduttore  di  gusto  —  trovare  ac- 
coglienza festevole.  Non  dovrebbe  mutare  la  favola  :  i  per- 
sonaggi diventerebbero,  se  mai,  gente  del  tempo  nostro  e 
sraebbe  pure  ben  facile  ritrovarli,  mutati  solo  nei  panni, 
allo  stesso  posto  ove  ha  luogo  V  azione  della  commedia  ori- 
ginale. Non  mutano,  per  tempo  che  passi,  le  forme  di  certi 
sentimenti,  ne  mutano  le  passioni  umane. 

L'  jìnnella  fece,  dunque,  fortuna  alla  Fenice,  le  cui  sorti, 
tuttavia,  mutarono  in  male  nel    1810. 

Della  vecchia  compagnia  del  San  Carlino  un  solo  non 
aveva  emigrato  al  teatro  del  de  Felice,  tal  Giovanni  Stile, 
detto  Giovannone,  da  prima  portaceste,  poi  vestiarista,  infine 
buffo  napolitano  al  soldo  di  Salvatore  Tomeo.  Era,  nel  1810, 
un  ometto  sui  cinquant'  anni,  grasso,  calvo,  piantato  su  due 
gambe  arcuate,  la  cui  lieve  deformità  accresceva  il  suo  in- 
cedere ridevole.  Giovannone,  a  furia  di  stenti,  di  sacrifìci, 
d'  operosità,  avea  posto  in  serbo  un  bel  gruzzolo,  tesoretto 
di  cui  nessuno  conosceva  1'  esistenza,  poi  che  il  brav*  uomo 
avea  di  buono  questo,  che  parlava  poco  dei  fatti  suoi.  Però 
la  meraviglia  fu  generale  quando  si  seppe  eh'  egli  racco- 
glieva dalle  mani  del  Tomeo  nientemeno  che  l'impresa  del 
San  Carlino,  e  eh'  era  ben  preparato  a  battagliar  col  de 
Felice    per  vendicare  V  onore  del  vecchio  fosso. 

Poco  appresso  San  Carlino  fu  riaperto  ;  i  suoi  comici  vi 


Da  una  incisione  <ìi  F.   Pisanti.  1840. 


Riblioteea   Lucchesiana. 


—  289  — 

tornarono,  abbandonando  il  rivale  del  Tomeo.  Mobilità  mo- 
rale e  materiale:  ecco  la  principale  caratteristica  dei  disce- 
poli di  Talia.  Qiovannone  si  ritrovò  dunque,  un'  altra  volta, 
in  mezzo  a'  suoi  compagni,  e  con  loro  si  mise  subito  d'ac- 
cordo perchè  la  nuova  impresa  andasse  avanti,  come  spe- 
ravano tutti,  meglio  che  fosse  possibile.  Fu  stabilito  che  la 
musica  si  dovesse  alternare  alla  prosa,  e  lo  Stile  si  mise 
subito  in  cerca  delle  opere  musicali  e  dei  cantanti.  «  V  era 
allora  —  scrive  il  Malpica  —  nel  Collegio  di  Musica  un 
giovine  napolitano  con  casato  francese,  un  giovane  dalla  voce 
di  controbasso,  dalla  fìsonomia  aperta  e  inspirata,  da'  ca- 
pelli increspati,  dall'  alta  statura.  Qiovannone  adocchiollo  ; 
pregò,  pagò,  scongiurò  per  ottenerlo  e  1*  ottenne,  e  nel  giorno 
di  Pasqua  dell'  anno  1814  Luigi  Lablache  fece  udire  la 
prima  volta  il  suo  canto  insuperato  in  San  Carlino,  a  pochi 
passi  da  San  Carlo.  Scritturate  con  lui  furono  le  sue  due 
sorelle,  figlie  della  Bussani  ». 

La  storia  de'  Lablache  è  di  quelle  che  interessano.  Nel 
1 794  fu  tra  le  ultime  vittime  della  rivoluzione  francese  un 
conte  de  Lablache  i  cui  due  figliuoli,  scappati  da  Marsi- 
glia per  aver  salva  la  pelle,  sbarcarono  a  Napoli.  Uno  de' 
fratelli,  Nicola,  se  ne  andò  ad  abitare  all'  Arco  Mirelli  a 
Ghiaia  ,  assieme  con  la  moglie  ,  eh'  era  un'  irlandese  e  si 
chiamava  Francesca  Bietach  (1).  Nel  1794,  a'  6  di  dicembre, 
nacque  Lablache.  Tra'  suoi  ricordi  di  fanciullo  questi  :  il 
padre  che  parlava  di  libertà,  continuamente,  e  s'  accendeva 
pe'  giacobini  di  Napoli  :  la    madre  che  andava  ricamando 


(1)   FLORIMO,   voi.   Ili,   pag.   467. 
DI  GIACOMO.  -S.  Carlino.  19 


—  290  — 

una  bandiera  rivoluzionaria  :  Cimarosa  che  veniva  a  trovare 
i  suoi  amici  francesi  all'  Arco  Mirelli,  e  il  mare,  il  mare  az- 
zurro e  terso  che  si  vedeva  così  bene  dalla  terrazza,  disse- 
minato di  vele  bianche.  Scoppia  la  rivoluzione  del  novan- 
tanove alla  quale  prendono  parte  Nicola  Lablache,  un  bal- 
lerino francese  suo  amico,  chiamato  Duport,  la  moglie  di 
Lablache  e  Cimarosa  che,  su  parole  di  Luigi  Rossi,  scrive 
il  famoso  Inno  repubblicano.  Poi  la  rivoluzione  è  affogata 
nel  sangue  ed  ecco  a  Napoli  il  cardinal  Ruffo. 

Nicola  Lablache,  sua  moglie  Francesca,  il  Duport  e  Ci- 
marosa si  nascondono  —  indovinate  dove  ?  —  sotto  il  palco- 
scenico del  teatro  del  Fondo.  S'  erano  provveduti  di  cibo 
e  d'  acqua  per  due  settimane,  nessuno  li  avea  visti,  il  tea- 
tro era  abbandonato  ed  essi  vi  avrebbero  aspettato,  sicuri 
almeno  per  un  paio  di  settimane,  che  le  cose  si  fossero  rap- 
paciate. Il  ballerino  Duport  li  rovinò,  ma,  poveretto,  egli 
stesso,  pel  primo,  pagò  con  la  vita  la  sua  inconsideratezza. 
Dopo  un  paio  di  giorni  eh'  eran  nascosti  là  sotto,  una  stradic- 
ciuola  a  ridosso  del  Fondo  fu  messa  a  romore  da  una  delle 
solite  visite  dei  sanfedisti.  Duport,  curioso,  s'arrampicò,  dal 
palcoscenico,  fino  a  un  finestrino  per  guardar  nella  strada, 
e  precipitò  sullo  stesso  palcoscenico,  essendogli  mancato  un 
piede.  Rimase  morto  sul  colpo.  Cimarosa  e  Lablache  tra- 
scinarono, atterrili,  quel  corpo  esanime  sotto  al  palcoscenico. 
Per  quattro  o  cinque  altri  giorni  continuarono  a  starsene 
rinchiusi  nel  Fondo,  ma,  finalmente,  non  potendone  più,  ne 
uscirono,  mentre  il  cadavere  putrefatto  dal  Duport  appestava 
tutto  il  teatro.  Furono  arrestati.  Cimarosa  venne  imprigio- 
nato in  Castelnuovo  e  vi  rimase  quattro  mesi,  Lablache 
morì,  poco  appresso,  di  aneurisma,  e  la  vedova,  uscita  ap- 


—  291  — 

pena  dal  carcere  dove  l'avevano  posta,  si  mise  a  far  ia 
governante  in  casa  della  principessa  d'Avellino. 

Venuto  a  Napoli  Giuseppe  Napoleone,  la  Bietach  ottenne 
pel  piccolo  Luigi  un  posto  nel  Conservatorio  della  'Pietà 
dei  Turchini  ove  egli  cominciò  a  studiar  di  violino,  ma  con 
tanta  buona  volontà  e  così  tranquillamente  da  essere  espulso 
da  quel  Collegio.  Un  suo  amico  lo  fece  alloggiare  nella 
locanda  di  San  Camillo  in  via  San  Bartolomeo  e  ottenne 
ch'egli  potesse  cantare  nel  teatrino  della  cPietà  de'  tur- 
chini, lì  accosto.  Vi  cantò,  e  il  successo  fu  enorme.  11 
piccolo  teatrino,  dalla  sera  appresso  al  debutto  del  giovane 
basso,  fu  affollato  della  più  fine  aristocrazia.  V'accorsero 
pur  comici,  cantanti,  attori,  musicisti,  e  vi  andò  anche  Qio- 
vannone,  impresario  del  San  Carlino.  E  così  Lablache  fu 
scritturato  al  San  Carlino,  con  50  ducati  al  mese,  nella 
settimana  di  Pasqua  del  1814.  Ma  non  tutti  coloro  che  £n 
qua  hanno  scritto  di  lui  sono  d'accordo  sull'anno  in  cui  il 
divo  esordì  al  teatro  di  piazza  del  Castello.  Il  Malpica  ha 
detto  appunto  che  il  memorabile  avvenimento  seguì  nel 
1814;  egli  accenna  anche  alla  collaborazione  che  v'ebbero 
le  due  sorelle  del  Lablache,  particolare  di  cui  gli  altri  non 
fanno  parola.  Le  Lablache  furono  la  Clelia  e  l'Adelaide. 
Quest'ultima  aveva  appreso  il  canto  nel  Collegio  di  musica 
per  le  donzelle,  fondato,  in  un  locale  del  Gesù  Nuovo,  da 
Giuseppe  Bonaparte. 

Dalle  affermazioni  del  Malpica  non  dissentono  quelle 
dei  giornali  di  mode  e  di  lettere  del  tempo  suo.  Ma  altri 
afferma,  fra  tanto,  che  Lablache  abbia  esordito  a  San  Car- 
lino nel  1813,  altri  dice  che  ciò  accadde  nel  1811.  Il 
Florimo  —  che  vuol  essere  il  meglio  informato  —  dice    che 


—  292  — 

Labìache  cantò  per   ìa    prima    volta    al    San    Carlino    nel 
1812. 

In  quale  opera  si  produsse  il  divo  ?  Nella  Bella  Moli- 
nara,  dice  il  Fètis.  Nel  'Pulcinella  molinaro,  dice  Giacomo 
Marnili,  commediografo  del  San  Carlino,  in  un  manoscritto 
inedito  che  ho  potuto  leggere.  Ma  —  potrebbe  ribatter 
Florimo  —  la  musica  di  'Pulcinella  molinaro  fu  scritta  da 
Vincenzo  Fioravanti  nel  1819,  e  in  quell'anno  Labìache 
era  a  Palermo  con  Barbala.  Lo  stesso  Florimo,  sulla  fede 
di  quel  tale  amico  di  Labìache,  dice  che  questi  esordì  ai 
San  Carlino  neWErede  senza  eredità,  del  maestro  Silvestro 
Palma. 


XI. 


Or  io  ho  cercato  d'appurare  meglio  le  cose,  consultando 
un  giornale  interessantissimo  che  va  dal  1 806  al  1816.  E 
questo  il  Qiornale  delle  due  Sicilie,  prima  chiamato  Moni- 
tore delle  due  Sicilie  e  anche  un  poco  più  avanti,  intitolato 
Corriere  di  [Scapoli.  Nei  181Ó  sospese  le  sue  publicazioni  ; 
le  ripigliò  al  1820  e  da  quel  tempo  andò  fino  al  1837, 
diretto  sempre,  come  lo  era  stato  fin  da  quando  s'intitolò 
Corriere  di  Napoli,  da  quell'ambiguo  uomo  che  fu  Ema- 
nuele Taddei,  zio  dell'attor  celebre,  Luigi.  Gli  spettacoli 
teatrali  della  città  vi  sono,  giorno  per  giorno,  indicati,  e 
quelli  del  San  Carlino  tra  gli  altri.  Nel  1812  —anno  nel 
quale  il  Florimo  afferma  che  Labìache  abbia  cantato  nell'(5- 
rede  senza  eredità  al  San  Carlino  —  l'elenco  pel  San  Car- 
lino non  menziona  per  niente  codesta  opera  del  Palma.  La 
rubrica  degli  spettacoli  cittadini  annunzia  invece,  nel  1814, 


—  293  — 

Y&ede  senza  eredita  al  teatrino  della  'Pietà  dei  turchini 
che  allora  s'apriva  e  dove  quella  musica,  da  quanto  appare, 
fu  ripetuta  moltissime  sere  di  seguito.  E  nell'(^re</e  senza 
eredità  che  Lablache  ha  esordito  da  cantante,  ma  non 
dunque,  al  San  Carlino,  e  nel  1812.  Io,  in  verità,  me  ne 
voglio  stare  alle  informazioni  del  Malpica.  La  vera  stagione 
musicale  fu  pel  San  Carlino  quella  del  1814;  e  il  gior- 
nale del  Taddei  enumera  scrupolosamente  tutte  le  opere 
musicali  che  furono  rappresentate  in  quel  teatro,  tra  l'altre: 
Gli  sposi  in  cimento,  ^Cre  corvi  ed  una  fava,  Un  imbro- 
glio ne  porta  un  altro,  Colomba  contrastata,  La  Fiera  di 
Brindisi,  Lo  Criato  mbroglione,  ZNjna  e  v^Cartufo,  La  casa 
dei  pazzi,  Le  Contatrici  villane.  Vi  si  dette  anche  un  Pul- 
cinella molinaro.  Fu  quello  del  Fioravanti  ?  Questi,  in  una 
sua  lettera  autobiografica,  dice  di  sì,  ma  Florimo  non  gli 
crede,  ne,  veramente,  gli  si  può  credere.  Vincenzo  Fiora- 
vanti nacque  nel  1 799.  Avrebbe  scritto  Pulcinella  moli- 
naro a  quindici  anni  ?  E  però  l'autore  primo  della  musica 
di  quell'opera  buffa  rimane  conosciuto. 

Forse  il  Marnili  si  sbaglia.  Mettiamo  assieme  la  sua 
opinione  —  che  Lablache  abbia  esordito  nel  ^Pulcinella 
molinaro  — ■  e  quella  del  Malpica  —  che,  cioè,  il  divo  abbia 
cominciato  a  cantare  al  San  Carlino  nel  1814.  Contentia- 
moci di  questi  dati  meno  espugnabili  e  più  conformi  al 
caso  e  passiamo  oltre. 


294 


XII. 


«  Al  termine  del  suo  impegno,  nel  sabato  di  Passione 
del  1815,  Lablache  —  continua  il  Malpica  —  chiede  che 
il  suo  stipendio  di  50  ducati  per  mese  si  accresca  fino  a 
60. —  Fermiamoci  un  pò. —  Se  Giovannone  al  carattere  dello 
speculatore  —  già  sapete  che  suoni  questo  nome  —  avesse 
unito  il  talento,  che  avrebbe  fatto  ?  Avrebbe  immantinenti, 
ipso  facto,  prese  sessanta  piastre  nuove  nuove  e  dopo  di 
averle  posate  in  mano  a  Luigi  come  anticipazione  del  primo 
mese  del  secondo  anno  si  sarebbe  posto  colla  faccia  per 
terra  a  ringraziare  i  genii  musicali  e  teatrali.  Ma  egli  era 
solo  speculatore  Giovannone  !  E  pretese  il  risparmio  di 
cinquanta  carlini.  Caro  Lablache  !  Tu  vuoi  sessanta  ducati, 
te  ne  darò  cinquantacinque  ;  non  vedi  i  tempi  cattivi  !  nes- 
suno mi  paga  ;  son  povero,  Lablache  mio  ;  in  giorni  migliori 
farò  quanto  vuoi  ,  ma  ora  !  non  posso.  —  Lablache,  uomo 
di  genio  e  di  cuore,  ondeggiava  :  poveretto  !  cinque  ducati 
di  più  o  di  meno  non  son  denari.  Allora  la  fortuna  che 
era  dietro  l'uscio  gli  si  accostò,  e  favellandogli  all'orecchio: 
Sciogli  il  contratto  gli  disse,  e  seguimi  ;  voglio  e  comando 

che  tu  dia  al  tuo   cuoco    sessanta    ducati    per    mese il 

denaro  che  questi  ti  nega.  Afferrati  alla  mia  chioma  e 
vieni. — Luigi  si  afferrò  alla  chioma  e  se  ne  andò». 

Ma  Giovannone  non  si  perdette  d'animo  e  subito  mise 
avanti  la  compagnia  di  prosa  che  avea  lasciato  alla  riserva. 
Per  tutto  l'anno  1816  non  si  rappresentarono  al  San  Car- 
lino se  non  commedie  in  prosa,  alcune  delle  quali  erano 
cavate  dal  vecchio  repertorio  di  Celione,  come  il  Colombo 


—  295  — 

nelle  Indie,  La  superba  in  amore,  II  cavaliere  napolitano  a 
Costantinopoli.  A  queste  s'inframmezzavano  drammi  storici 
come  La  Sortita  d'Enrico  IV  da  'Parigi,  Cesare  in  Egitto, 
Carlo  XII  di  Svezia,  La  presa  di  fender,  Uggero  di 
^Danimarca.  A  quei  Silvio  Maria  Luzi  che  avea  debuttato 
alla  Fenice,  a  Giovanni  Tagliazucchi,  tiranno,  ad  Angelo 
Spelta,  amoroso,  ad  Eustachio  Tremori,  padre  nobile,  erano 
affidate  le  parti  principali  di  quei  drammacci  ad  effetto.  Il 
primo  attore  Luzi  era  famoso  nel  Carlo  XII,  ne\Y£nrico 
IV,  nel  Figlio  assassino  per  la  madre,  in  un  Otello  moro 
di  Venezia,  di  cui,  giusto,  ho  sottocchi  il  copione,  firmato, 
per  la  rappresentazione,  dal  Segretario  di  Stato,  ministro 
della  Polizia  Generale,  nel  1815,  cavalier  de' Medici.  E 
un  Otello  in  faticosi  endecasillabi  ;  e  colui  che  lo  ha  scritto 
dev'essere  stato  un  Alfieri  andato  a  male,  amico,  per  altro, 
più  del  lieto  fine  che  della  catastrofe  cruenta.  Il  posto  di 
Jago  è  occupato,  in  questa  tragedia  sancarlinesca,  da  un 
Quelfo,  onesto  come  quell'altro  ;  Brabanzio  vi  si  chiama 
T^ambaldo,  Desdemona  si  è  mutata  in  £lena,  e  finalmente 
Cassio  ha  preso  il  nome  di  Tfenato.  L' inclito  moro  inna- 
morato d'Elena  crede,  per  via  delle  astute  e  fosche  pratiche 
di  Guelfo,  ch'ella  ami  Renato.  Non  il  famoso  fazzoletto, 
ma  invece  una  lettera  che  egli  sorprende  gli  riaccende,  in 
un  secondo  atto  molto  concitato,  il  fuoco  della  gelosia.  Che 
cosa  segue  nell'ultimo  ?  Voi  penserete  :  Otello  coglie  in 
flagranza  Elena,  la  soffoca,  poi  ammazza  Guelfo,  poi,  forse, 
s'ammazza  anche  lui,  e  buonanotte.  Nient'affatto.  Otello 
s'accorge  dell'inganno,  si  ravvede,  sposa  Elena,  perdona  a 
Guelfo  e,  contento  lui,  fa  contenti  tutti,  compresi,  natural- 
mente, gli  spettatori.  Le  parti  del  dramma  erano  sostenute, 
come  annunzia  il  copione,   da  Luzi  (Otello),    da    Giovanni 


—  296  — 

Tagliazucchi  (Rarnbaldo),  da  Eustachio  Tremori  (Doge), 
da  Vincenza  Cammarano  (Elena),  da  Angelo  Spelta  (Re- 
nato), da  un  tal  Fanti  (Guelfo). 

Nel  1817  tornò  a  San  Carlino  la  musica,  e  cantarono, 
tra  gli  altri,  in  quel  teatrino  i  due  Luzi,  padre  e  figlio,  e 
Caterina  Rossi.  Finalmente  San  Carlino,  nel  1818,  fu  resti- 
tuito alla  prosa.  I  Pulcinelli  succeduti  a  Giancola  sino  a 
quest'anno,  furono  parecchi  ;  si  provarono,  ma  senza  alcun 
successo,  il  Tavassi,  Filippo  Cammarano,  un  tale  chiamato 
Paolo'o  puorco,  un  altro  agnominato  Cato  d'acqua.  Final- 
mente Giovannone  prese  egli  stesso  la  maschera  e  piacque 
molto,  come  quegli  che  più  s'avvicinava,  nella  maniera  del 
fare  e  del  dire,  al  povero  Giancola.  Fortunato  attore  lo 
Stile  non  fu  meno  fortunato  impresario.  Ma  nello  scorcio 
del  1819,  come  que'  giocatori  sennati  che  si  contentano 
d'avere  abbastanza  guadagnato  e  a  tempo  abbandonano  le 
carte,  egli  manifestò  a  don  Salvatore  Tomeo,  ch'era  sempre 
proprietario  del  teatro,  l'intenzione  che  aveva  di  passarne 
l'impresa  in  altre  mani.  Se  il  Tomeo  non  avesse  voluto 
riprenderla,  lo  Stile  era  deciso  d'affidarla  a  qualcuno  de' 
comici  ch'erano  in  compagnia,  scegliendo,  s'intendeva  bene, 
tra  i  più  esperti  ed  onesti.  Anzi,  per  le  corte,  aggiunse 
d'aver  posto  gli  occhi  proprio  su  quel  Silvio  Maria  Luzi, 
romano,  che  addimostrava  di  possedere  tutte  le  buone  qua- 
lità per  riavviare  la  barca.  Don  Salvatore  Tomeo  non  s'op- 
pose ;  soltanto,  giacche  v'era  da  scegliere  fra  gli  attori  can- 
didati, egli  consigliava  all'amico  Giovannone  quel  buon  Fi- 
lippo Cammarano,  ch'era  proprio,  anche  più  del  Luzi,  per- 
sona di  casa.  Ma  Giovannone  insistette  sul  suo  favorito  e 
Tomeo  non  replicò.  Già  il  Luzi  era  stato  nominato,  dallo 
Stile,  direttore  della  compagnia  ;  poco  dopo  si  seppe  ufficiai- 


—  297  — 

mente  ch'egli  era  diventato  socio  di  Giovannone,  e  infine, 
nel  gennaio  del  1820,  con  regolare  contratto  col  proprie- 
tario e  con  la  compagnia,  egli  diventò  impresario  del  tea- 
trino . 

Giovannone,  o  meglio,  Giovanni  Stile  uscì  ricco  da  quel- 
l'antro ;  un  bel  palazzo  in  via  Salvator  Rosa,  una  villa  a 
Portici,  posta  accanto  alla  famosa  e  ancor  prospera  trattoria 
d'Asso  di  coppa,  una  rispettabile  somma  in  contanti,  ecco 
la  strenna  che  nel  1820  gli  regalò  San  Carlino.  In  sulle 
prime  lo  Stile  avea  sovvenuto  di  consigli  e  di  denaro  Sil- 
vio Maria  Luzi,  poi,  vedendo  bene  incamminate  le  cose, 
gli  riprese  il  denaro  che  gli  avea  prestato  e  s'accomiato 
anche  da  lui. 


XIII. 


Torniamo  a  Filippo  Cammarano. 

Nel  1837,  egli,  già  vecchio  a  settantadue  anni,  raccolse 
in  un  volume  —  che  volle  intitolare  Vierze  strambe  e  bisbe- 
tece  de  Filippo  Cammarano,  arricor dannose  de  chello  che 
ave  mpacchiato  screvenno  n'triato  n'tiempo  de  vita  soia  dal- 
l'età de  dice  anne  a  sta  vita  —  tutta  la  rimata  cronologia 
della  sua  produzione  teatrale.  Il  suo  ritratto  in  fronte  al 
libro,  è  opera  di  Gaetano  Dura,  scolaro  di  Giuseppe  Camma- 
rano, eccellente  filodrammatico  e  geniale  scrittore  di  poesie 
in  dialetto  napoletano.  L'ottimo  don  Filippo  se  n'è  fatto 
un  altro  in  questo  sonetto,  che  è  tra  i  molti  dello  stesso 
libro  : 


(1)   Napoli,   Dalla  Stamperia  Reale,    1837. 


—  298  — 

Pe  natura  non  piglio  mai  tabacco, 
E  trasenno  n'cocina  non  allecco. 
Non  conosco  Bigliardo  o  che  sia  tacco. 
Parlo  poco  co  amice  e  non  li  secco. 

Schitto  screvenno  quacche  carta  nchiacco, 
Magno  carne  de  Vacca  e  mai  de  Becco, 
Si  m'arraggio,   ne  votto  Parasacco, 
Né  a  li  Cantine  maie  traso  o  m'azzecco. 

No  tarallo  m'accatto  o  franfellicco, 

La  carne  si  è  de  Puorco  io  no  la  tocco. 
Tratto  de  bona  fede  e  maie  co  trucco, 

No  ghioco  mai  pe  stratto,   o  a  terno  sicco, 

Quanno  m'attocca  saccio  fa  lo  locco, 

Si  mbe  non  so  no  scemo,  o  mammalucco. 

E  così  era  quest'uomo  ;  probo,  parco,  lavoratore,  modello 
di  padre  e  di  marito.  Alle  virtù  civili  l'ingegno  pronto  e 
versatile  s'accoppiò  fin  dall'adolescenza.  Assai  più  tardi, 
quando  il  buon  uomo,  liberando  l'arte  sua  dalle  inspirazioni 
eroiche  e  dalla  fantastica  morbosità  con  cui  pomposamente 
aveva  esordito,  si  dette  a  cercare  e  a  riprodurre  il  vero, 
l'onestà  genialità  della  sua  commedia  gli  conferì  anche 
maggior  fama.  Parve  esemplare,  a  un  tempo,  e  dolce  la 
resipiscenza  :  il  fatto  popolano  contemporaneo  ritrovava  un 
osservatore  di  bianchi  capelli,  la  cui  bontà  cavava  ammoni- 
mento dilettevole  e  grato  dalla  favola  sciorinata  in  piazza, 
dalle  abitudini  e  dal  costume  pittoresco  del  fondaco  e  del 
vicolo.  Parve,  finalmente,  acconcia  la  leggenda  che  il  poeta 
Santeuil  aveva  fornita  a'  commedianti  italiani  a  Parigi,  pel 
sipario  dell'Hotel  de  Bourgogne  —  Castigai  ridendo    mores 


—  299  — 

—  e  che  il  piccolo  soffitto  del  San  Carlino  gli  aveva  tolto 
a  prestito  fin  da'  tempi  di  Tommaso  Tomeo. 

Rifare,  sino  all'anno  1837,  la  storia  della  produzione  di 
Filippo  Cammarano  m'è  facile,  sulla  scorta  del  libro  che  ho 
citato.  Questa  sua  preziosa  autobiografia  dà  conto  esatto 
non  pur  del  succedersi  de'  diversi  generi  delle  commedie 
delle  quali  egli  inondò  il  teatrino  di  Piazza  del  Castello 
dagli  ultimi  anni  del  decimottavo  secolo  fino  al  1819,  quanto 
della  speciale  elezione  di  lui  per  quello  che  stimava 
più  umano,  e  a  cui  non  potette  dedicarsi  se  non  troppo 
tardi  e  già  stanco.  Principia  la  narrazione  con  alcune  se- 
stine intitolate  :  U^jcopp'a  la  vita  mia  quanno  de  nove  anne 
mme  venne  'ncapo  de  scrivere  la  primma  commedia.  Il  narra- 
tore s'infinge  arrivato  subitamente,  per  averne  appena  sen- 
tito voglia,  in  Parnaso.  Gli  si  avvicinano,  a  una  a  una, 
tutte  le  Muse  e  finalmente  si  trova  al  cospetto  di  Talia, 
che  gli  domanda,  con  grande  familiarità  : 

Giovanetto,   saresti  Cammarano  ? 
£  lui,  subito  : 

Sta  casata  mme  pare  porto  almeno; 
Paterno  non  è  certo  no  pacchiano 
Che  a  lo  Sebeto  sorca  lo  terreno  : 
E,  accommenzano  da  Capodechino 
S'annommena  nzi  a  dò  se  venne  vino. 

De'  suoi  merti  l'Europa  è  tutta  piena, 
Fa  il  Pulcinella  e  ha  quasi  del  divino 
Per  la  grazia  ch'esterna  in  su  la  scena 
Gareggiando  col  veneto  Arlecchino  : 
D'entrambi  il  merto  in  ogni  suol  ne  vola 
Quel  col  nome  di  Sacchi,  ei  di  Giancola. 


—  300  — 
Ebbene  —  la  Musa,  allegramente,  gli  risponde  — 

io  son  Talia,  ch'estro  giocoso  spira, 
Che  sparge  grazie  e  non  conosce  l'ira. 

Immaginarsi  la  contentezza  del  poeta.  Talia  !  La  Musa 
ch'egli  cercava  !  Dunque  da  bere,  da  bere  di  quest'acqua 
Castalia  della  quale  ella  reca  tra  mani  un  orciuolo.... 

Non  mporta  ca  mme  siscano, 

Mme  pigliano  a  varrate 

Fa  priesto,  damme  a  bevere, 
Fallo  pe  caretate  ! 

E  giù  di  gran  sorsi  del  fresco  e  limpidissimo  liquido,  lì, 
sulle  sponde  del  tranquillo  Ippocrene.  Ed  ora,  grazie  a  te, 
provvida  Musa  !  —  esclama,  sazio,  il  poeta  —  Addio,  me 
ne  torno  alla  terra.... 

Co  faccia  tosta  a  scrivere 

Mm'anemo  e  mme  do'  sciato  : 
Vengano  sische  o  applaUse 
Sto  a  tutto  appancchiato. 

Se  t'aie  seccata  ncorpane 
La  poca  sperienz?  • 
Talia,  bonnì  ;  conservate, 
Scusa  la  mpertinenza. 


—  301    - 


XIV. 


Eccoti,  dunque,  a  Napoli  Filippo  Cammarano  —  in  quel 
tempo  della  sua  gioventù  lo  chiamavano  don  Filippetto  — 
di  ritorno  dal  Parnaso.  Si  chiude  in  casa,  prepara  molti 
fogli  di  carta,  rifonde  l' inchiostro  nel  calamaio,  sceglie  la 
migliore  fra  le  sue  penne  d' oca  e  principia  a  scri- 
vere. 

Da  le  Novelle  Arabeche 
Caccia  voglio  na  favola  ; 
E  sta  pietanza  a  tavola 
Mescata  co  la  maschera 
Co  lo  Tartaglia  nzemmora, 
Meza  buffesca  e  sena 
Da  chiagnere  o  da  ridere 
La  prima  aggio  a  caccia. 

Ecco  soggetti  drammatici  cavati  dalle  ZXCille  e  una  notte; 
avventure  di  califfi,  imprese  di  maghi,  intrighi  di  sultane  e 
di  favorite ,  lucerne  meravigliose  e  gesta  d' Arabi  ladri. 
Roba  infantile  che,  tuttavia,  trova  intento  e  curioso  publico. 
Lo  stesso  autore  n'  è  subito  disgustato  ;  egli  non  sa  bene 
se  una  simile  pietanza  stuzzichi  1'  appetito 

a  chi  se  mette  a  tavola , 

O  ncagno  cchiù  io  stommaco 
Lle  face  revotà 

E  in  sulle  prime  ha  proprio  temuto    d*  una    ribellione  a 


—  302  — 

queste  offese  del  senso  comune  e    della    verità  ;    ma,    con 
grande  sua  sorpresa,  s'  è  dovuto  ricredere ,  poi  che 

Sti  gran  pasticce  mannano 
Gran  sete  e  ce  puoie  vevere, 
Applause  puoie  ricevere , 
E  allora  li  Mpressarie, 
Si  be  non  hanno  mereto 
Chiù  vote  replicannole 
Denare  a  branche  e  a  cofene 
Potranno  carrià. 

L  Innesto  ridicolo  della  maschera  continua  in  novelle 
favole  che  tengono  dietro  alle  prime  d'ordine,  direi,  musul- 
mano. La  mitologia  fornisce  quest'  altre;  del  povero  Omero 
e  di  Ovidio  è  pur,  in  appresso,  fatto  strazio.  Pulcinella  si 
ritrova  ali  assedio  di  Troia,  il  Tartaglia  arringa  le  squadre, 
le  Metamorfosi  ottengono,  tra'  nuovi  personaggi,  uno  sciocco 
servo  napoletano.  Su  per  giù  quel  che  avea  fatto  Fancesco 
Cerlone,  e  forse  anche  di  peggio.  «  Scrivo  —  diceva  Celione 
—  per  accontentare  il  publico  ».  E  questo  ripeteva,  più  tardi, 
Cammarano,  solitariamente,  continuando  a  dolersi  con  sé 
medesimo  di  così  barocche  invenzioni.  Ma  —  soggiungeva  — 

fenesciarrà  sta  vernia 

Che  stommaca  li  biscere, 

E  a  stufo  venarrà  ! 
Si  morte  non  mme  sconceca 

Lo  stile  ca  cchiù  masteco 

Scrivo  nzi  a  ncoppa  a  l'asteco 

Co  genio,  gusto  e  sfizio, 

Mmescanno  Pisciavinole 

Nziemme  coli'  aute  suggeghe 

De  Puorto,   Chiaia,  e  Vommero 

Sempe  co  beretà. 


—  303  — 

A  questa  verità  pensa  egli  continuamente  e  la  vagheggia 
aspettando  il  destro  di  coglierla.  E  una  notte  si  desta  di 
soprassalto  parendogli  di  udire,  in  sogno,  una  voce  che  gli 
dica  : 

Felippo,  scetate  ! 

Troppo  aie  dormuto, 
No  sìa  cchiù  stoteco 
Né  cchiù  storduto, 
So  amico,  crideme, 
E  senza  fine 
Fora  Commedie, 
Scrive  Assassine. 
Sacce  comprennere, 
Capisce  a  buolo, 
Li  storie  accattate 
Ncoppa  a  lo  Muoio 

E  Cammarano,  appena  è  fatto  giorno,  corre  al  Molo  ove 
son  venditori  di  vecchi  libercoli  su  pei  muricciuoli  e  compra, 
per  doie  prubbechelle,  cinque  storie  brigantesche,  tra  le 
quali  la  famosa  di  ^itta  lo  Grieco.  Rincasa  e,  dopo  un 
ozio  di  quattro  o  cinque  anni,  ricomincia  a  scrivere  nuove 
pappolate  su'  novelli  soggetti.  Così,  per  tre  anni  di  seguito, 
il  palcoscenico  del  San  Carlino  si  popola  di  forche  e  di 
confraternite,  tra  un  fragore  di  fucilate  e  lo  spalancarsi  di  pau- 
rosi trabocchetti.  Nel  1 806,  mentre  il  de  Felice  si  preparava 
alla  inaugurazione  del  suo  teatrino,  San  Carlino,  ancor  nelle 
mani  di  Filippo  Cammarano,  ondeggiava  tra  le  sue  vecchie 
commedie  mitologico-brigantesche  e  alcune  altre  di  un  ultimo 
genere  ch'erano  tratte  da  storie  complicate  ed  emozionanti,  spet- 
tacoli semidrammatici,  a  cui  teneva  dietro,  quasi  ogni  sera,  una 


—  304  — 

farsa  col  Pulcinella.  Fu  soltanto  intorno  al  1816  che  Filippo 
Cammarano  potette,  finalmente,  veder  mutato  in  realtà  l'antico 
suo  sogno.  In  quell'  anno,  ricordando  il  successo  de\V  Annella 
alla  Fenice,  Silvio  Luzi  la  rimise  in  iscena  al  San  Carlino 
quando  già  altre  sette  primavere  erano  passate  dalla  esuma- 
zione di  quella  vecchia  commedia.  Però ,  tra  gli  stessi  co- 
mici del  San  Carlino  vi  fu  un  gran  fermento  contro  Annella; 
aveva  —  dicevano  —  già  fatto  abbastanza  il  suo  tempo, 
s'era  pur  data  al  San  Carlino  nel  1811,  in  musica  (1),  e 
in  musica  e  in  prosa  avea  fatto  le  spese  di  parecchi  casotti 
circostanti.  Che  successo  avrebbe  potuto  conseguire ,  ora 
che  il  publico  napoletano  ne  avea  piene  le  tasche  ?  Ma 
Luzi  insistette,  e  come  i  suoi  comici  tenevano  duro,  V Annella 
fu  rappresentata  con  attori  d'occasione,  che  la  rimisero  su 
come  meglio  potettero.  Era  tra  costoro  —  mi  narrava  un  vec- 
chio comico  del  San  Carlino  —  un  curioso  sediario  di 
platea  che  rappresentò  stupendamente  la  parte  di  Masto 
danno.  Fortunata  Annella!  Anche  questa  volta  chiamò  gente 
che  la  volle  udire  moltissime  sere  di  seguito  e  le  fece  la 
stessa  festa  d'  un  tempo.  Poco  dopo  Filippo  Cammarano, 
incitato  dallo  stesso  Luzi,  dagli  amici,  e  da'  suoi  desideri 
antichi,  si  decise  all'adattamento  di  qualcuna  delle  più  belle 
commedie  di  Goldoni  alla  scena  partenopea.  Scelse,  per 
la  prima,  Le  baruffe  chiozzote  e  le  mutò  nell'/lpp/cceco  de 
li  Funnacchere  de  lo  JKCuolo  Piccolo  ;  chiamò ,  appresso, 
Li  quatto  de  tJXCaggio  il  Cambio  de'  bauli,  L'acqua  Zurfegna 
il    Ventaglio.  E  così,  a  mano  a  mano,  andò  riducendo,  e 


(I)  Di  autore  sconosciuto.   Vincenzo  Fioravanti  la  rimusicò  poi,  pel  Nuovo, 
:1    1854. 


■'■' 


INNOCENZA  CAMMARANO 

MOGLIE  DI    GIUSEPPE    C  AMMARANO. 


Irlli].     I   Ut  :  Ir.  :  1  lllil. 


]>k   un  disegno  del  mariti 


—  305  — 

adattando  al  San  Carlino,  la  produzione  goldoniana  che 
aveva  avuto,  ed  aveva,  specie  in  quegli  anni,  e  al  Fiorentini, 
maggiore  successo. 

XV. 

Or  mentre  codesta  rivoluzione  artistica  seguiva  al  piccolo 
teatro  di  Piazza  del  Castello ,  ove  accorreva  per  amor  di 
novità  e  di  verità  un  publico  numerosissimo,  Silvati  e  Mo- 
relli, sottotenenti  nel  reggimento  Borbone  Cavalleria,  ne 
preparavano  a  Nola  una  militare,  messi  su  dagl'incitamenti 
della  carboneria  di  Salerno,  dove  era  numerosa  e  potentis- 
sima la  setta.  Tutti  conoscono  le  circostanze  che  accompa- 
gnarono que'  moti.  In  sulle  prime  si  volle  far  credere  a  re 
Ferdinando  che  il  pericolo  fosse  ben  facilmente  scongiura- 
rle, la  carboneria  una  raccolta  di  infervorati  deliranti,  que- 
sti ultimi  suoi  movimenti  non  tali  da  impensierire  il  governo. 
Ma  nel  luglio  del  1820  il  tumulto  scoppiò  e  dilagò  minac- 
ciosamente nelle  province;  invasi  dai  tumultuanti  il  Princi- 
pato Ulteriore  e  la  Capitanata,  poco  dopo  disertato  da  No- 
cera  un  reggimento  di  cavalleria,  pronto  a  imitarne  l'esem- 
pio un  altro  di  fanteria  stanziato  a  Castellamare,  quello  di 
Foggia  apparecchiato  a  sollevarsi,  Terra  di  Lavoro  in  armi 
come  pur  la  Puglia  e  il  Molise,  la  costituzione  era  recla- 
mata e  all'imminente  pencolo  romoreggiava  sordamente  il 
popolo  nella  città,  inquieto  meno  per  desiderio  di  un  governo 
novello  che  per  paura.  Memore  della  triste  epopea  del  no- 
vantanove esso  vedeva  già  rinnovati  quegli  onori  e  sparso 
sangue  daccapo,  e  daccapo  offesi  1  beni,  le  persone,  l'onore. 
Delle  mosse  de'  ribelli  s' ottenevano  ogni  giorno  notizie, 
aspettate  con  ansia,  diffuse  rapidamente  in  città,  ove,  infine, 

DI  GIACOMO.  —  S.    Carlino.  20 


—  306  - 

persuaso  Ferdinando  da'  suoi  ministri  a  concedere  la  costi- 
tuzione, salvo,  come  consigliava  il  vecchio  e  cinico  marchese 
di  Circelìo,  a  «  recuperare,  in  appresso,  da  popolo  reo  i 
diritti  della  corona  »  ,  fu  annunziato  nel  6  di  Luglio ,  che 
il  re  voleva  soddisfare  al  voto  universale.  Ma  la  dimora 
d'otto  giorni  che  egli  pose  alla  publicazione  delle  basi  del 
nuovo  governo  non  garbò  al  popolo,  ed  esso  affollò,  minac- 
cioso e  strepitante,  le  strade  fino  a  tanto  che  non  comparve 
il  decreto  del  Vicario  del  re,  Francesco,  e,  nel  13  di  lu- 
glio stesso,  ebbe  prestato  giuramento,  nella  cappella  di  Pa- 
lazzo Reale ,  Ferdinando  IV  di  Borbone. 

1  teatri  della  città  risentirono  di  quei  torbidi  e  n'  ebbero 
danno  gravissimo.  La  gente  che  ama  divertirsi  non  è  di 
quella  amica  dei  pencoli  :  alle  prime  avvisaglie,  si  chiude 
in  casa  prudentemente  e  vi  aspetta  che  si  rifaccia  la  pace. 
Tuttavia  gì'  impresari  non  mancarono,  quasi  tutti  i  giorni, 
d'  attaccare  cartello  e  si  dette  spettacolo  ogni  giorno,  come 
ad  Atene  durante  la  guerra  col  Peloponneso.  Gli  affissi  del 
Nuovo  annunziavano  :  La  Contessa  di  Fersen  di  Valentino 
Fioravanti,  Violenza  e  Costanza  di  Saverio  Mercadante,  // 
'Uurco  in  Italia  di  Gioacchino  Rossini,  1'  eugenia  degli 
Astolfi  di  Stefano  Pavesi  co'  due  Luzio,  col  Tamburrini, 
col  Dario,  con  le  Cecconi  e  la  Cantarelli.  Al  Fiorentini 
era  succeduta  alla  musica  la  commedia  goldoniana,  al  San 
Carlo  s'  alternavano  gli  spartiti  di  Rossini  con  quelli  di 
Mercadante,  librettisti  il  Duca  di  Ventignano,  lo  Schmit  e 
il  Tottola.  Nella  quaresima  del  1 820  ancora  una  volta  San 
Carlino  aveva  schiuse  le  sue  porte  alla  musica,  e  un  melo- 
dramma di  Filippo  Campanella,  su  libretto  di  Paolo  Gia- 
ramicca  —  teresa  di  Saint  Cyran  e  Gianfaldoni  —  v'  era 
tsato  rappresentato  col  Marchesi,  co'  buffi  Pignata  e  Man- 


—  307  — 

cini,  con  Mililotti  e  Tamburrini,  con  la  Barberi  e  la  Manzi. 
Luzi,  a  cui  veniva  a  mancare,  in  un  brutto  momento,  l'ap- 
poggio dello  Stile,  si  smarrì,  sulle  prime  ;  la  sua  piccola 
fortuna  correva  il  rischio  d'andare  a  male,  gli  stessi  ideali 
suoi,  vagheggiami  una  riforma  completa  del  teatro  dialettale, 
si  perdevano  tra  codesti  ribollimenti  di  discordia  civile,  di 
confusione,  di  nessuno  interesse  per  altro  che  non  fosse  ri- 
forma politica  del  governo.  Ma  non  si  scoraggiò,  aspettando 
tempi  migliori,  che  poi  lo  ritrovarono  anche  più  volenteroso  e 
fidente.  Le  cose,  un  anno  appresso,  parevano,  se  pur  non 
erano,  chetate.  Tornò,  a  mano  a  mano,  la  gente  ai  teatri, 
gli  operosi  tornarono  alle  loro  faccende,  le  vie,  per  ove  poco 
prima  erano  passati  i  tumultuanti,  si  riaffollarono  di  popolo 
dimentico  e  chiassone,  del  vecchio  popolo  napoletano,  al- 
legro, eccitato  e  curioso.  Cinquant'  anni  erano  passati  dalla 
edificazione  del  San  Carlino,  ottanta  e  più  dalla  scompa- 
rizione dell'  antica  baracca  del  Di  Fiore  da  Piazza  del  Ca- 
stello. E  la  piazza  era  sempre  la  stessa.  Lady  Morgan,  una 
inglese  che  nel  1 82 1  si  trovò  a  Napoli  continuando  un  viag- 
gio di  piacere  eh'  ella  aveva  intrapreso  per  tutta  Italia,  così 
la  descrive  nell'  interessante  e  geniale  suo  libro  (1)  : 

«  Des  petits  théàtres,  des  petites  églises  et  des  cabarets, 
avec  une  chàsse  d'  un  coté  et  une  échoppe  de  marionnet- 
tes  de  1'  autre.  lei,  un  moine  prèchait,  le  crucifix  à  la  main, 
là,  un  paillasse  mangeait  de  la  filasse  enflammée.  De  toutes 
parts  on  voyait  les  boutiques  fantastiques  de  la  fruitière  et 
de  1'  aquajolo,  remplies  de  fleurs  et  de  feuillage,  soutenues 


(1)  L'ITALIE,  par  Lady  Morgan.    Tradisti    de  V  anglais,   4  volumi.   Pa- 
ris:  chez  Pierre  Durat,    1 82 1 . 


—  308  — 

par  des  cupidons  et  des  anges,  surmontées  par  une  madcne 
dans  le  ciel,  ou  par  des  pècheurs  en  purgatoire,  et  entou- 
rées  de  drapeaux  de  papier  dorè  ou  d'  étoffe  rouge.  Des 
mendians  demi-nus  s'  anètent  là  pour  ber  fresco  (boire  frais) 
ou  manger  une  giace  qui  leur  est  confieé  avec  une  cuiller 
d'argent  par  le  marchand  dont  ils  sont  les  habitués.  Pres 
de  là  se  tient  le  libraire,  amplement  fourni  de  la  Santa  Bib- 
bia, et  de  la  Nuova  Istoria  della  vita  et  morte  di  uno  fa- 
moso banditto  (sic).  Les  groupes  les  plus  grotesques  et  les 
plus  caracteristiques  entourent  les  theàtres  des  bateleurs,  le 
pavé  est  couvert  d'  écorces  d'  oranges  et  1'  air  retentit  de  ce 
bruit  aigre  et  confus  qui  appartient  exclusivement  à  Naples, 
où  les  esprits  du  peuple  sont  tous  en  dehors,  où  les  voix 
humaines  sont  excitées  et  non  surmontées  par  V  éclat  des 
trompettes,  le  son  des  cors,  et  le  tintement  des  guitares, 
qui  appellent  les  dèvots  au  plaisir  dans  ces  differens  tem- 
ples.   » 

XVI. 

Una  certa  vita  d'  arte  rifioriva,  fra  tanto,  in  case  private, 
ove,  affidati  dalla  temporanea  tranquillità  delle  cose  citta- 
dine, il  Cardinale  Capecelatro,  il  marchese  Serio,  —  nel  suo 
famoso  palazzo  in  via  Toledo,  —  il  duca  di  Ventignano  ra- 
dunavano gente  amabile  e  spiritosa,  letterati  e  musicisti, 
principesse  e  duchesse  da'  titoli  romantici  «  come  quelli  — 
dice  la  Morgan  —  che  han  fatto  scrivere  a  Walpole  la  sua 
novella  sul  Castello  d'  Otranto.  »  I  napoletani  nelle  società 
chiacchierano  bene,  e  codesta  lor  nudrita  maniera  di  con- 
versare in  tono  minore,  confortata  dallo  spirito  naturale,  dalle 
mosse  della    loro  fantasia  sempre    operosa,   dalla    particola} 


-  309  — 

grazia  del  dire  sparsa,  a  volta  a  volta,  delle  vivacità  dia- 
lettali onde  si  giova,  li  rende  piacevoli  e  simpatici.  Il  mar- 
chese Berio  profittava  di  certi  intermezzi  per  leggere  odi 
a  Byron:  Cesare  della  Valle,  duca  di  Ventignano,  gli  ca- 
pitava, in  casa,  di  tanto  in  tanto,  con  un  suo  dramma  nuovo; 
Rossetti  improvvisava  a  pianoforte  ;  Gioacchino  Rossini  ac- 
compagnava queste  improvvisazioni  e  le  favorite  arie  del  suo 
Mosè,  cantate  squisitamente  dalla  Colbran,  prima  donna  del 
San  Carlo.  E  in  giro  sedevano,  in  illustre  areopago,  Ca- 
nova, lo  storico  Delfico,  filosofo  e  patriota,  dame  belle  e 
colte,  scrittori  eleganti  come  il  Lampredi  e  il  Selvaggi.  Se- 
rate d'  arte,  serate  molto  francesi  anche  a  casa  la  principessa 
di  Belmonte  :  serate  scientifiche  e  letterarie  nelle  vaste  sale 
austere  del  Cardinal  Capecelatro. 

Ne'  piccoli  crocchi,  ne'  caffè,  d'  avanti  a'  quali  oziavano 
sotto  le  tende,  nella  dolce  estate,  uomini  vestiti  all'  inglese 
o  alla  francese,  si  ciarlava  d'  un  po'  di  tutto  e,  tra  l'altro, 
del  novello  indirizzo  che  andava  pigliando  la  commedia  dia- 
lettale a  San  Carlino.  Qualche  giornaletto  inneggiava  ai 
buoni  propositi  del  Luzi,  gli  consigliava  di  continuare,  gli 
assicurava  1'  assentimento  di  tutto  un  publico  desideroso  di 
naturalezza,  di  verità,  di  logica  a  teatro.  Non  era  ancor  ve- 
nuto fuori  1'  Omnibus,  il  diario  magno  delle  cose  napoletane: 
ma  il  Giornale  delle  due  Sicilie  riprendeva  le  sue  publica- 
zioni  dopo  un  silenzio  di  quattro  anni  e  annunziava,  ogni 
giorno,  gli  spettacoli  sancarlineschi.  Fu,  quello,  buon  tempo 
pel  Luzi;  affari  d' oro,  teatro  affollato,  salito  in  onore  di 
nazionale  il  genere  delle  nuove  produzioni,  in  fama,  nien- 
temeno, di  Molière  partenopeo  Filippo  Cammarano.  I!  quale 
doppo  paricchie  anne  d'  ave  tradotte  —  come  lui  dice  —  li- 
beramente a  lengua  nosta  lo  impareggiabbele  Carlo  Goldoni, 


—  310  — 

stuzzecato  da  V  amice  a  scrivere  commedie  nove  di  pianta  e 
a  capa  soia,  mette  mano  al  seguito  d'  Annella,  attorno  al 
quale  già  lavora  da  parecchio  tempo. 

Lo  titolo  ne'  azzecca  ed  è  perfetto  : 

«  Le  gelosie  de  Porzia  e  Masto  danno 
«  O  lo  nalo  sia  de  lo  corpetto  » . 

A'  personaggi  della  vecchia  commedia  aggiunge  di  nuovi; 
rilegge  lo  scritto  ;  n'  è  contento  :  la  commedia  è  piena  d'  e- 
quivoci,  di  buffonerie,  di  contrasti... 

E  lo  meglio  che  ne'  è,  scena  pe  scena, 
E  Porzia  vecchia,  che  se  crede  prena. 

Co  lo  patre  e  la  figlia,  panettera, 
Non  sta  male  ntrecciato  lo  studente, 
E  manco  Annella  e  Rita,  juorno  e  sera. 
Che  attizzano  no  fuoco  cchiù  potente 
De  quanno  a  fuoco  va  na  cerhmenera 
Che  p'  astutarla  correno  la  gente  : 
Lo  Notaro  è  mbroghato  e  porta  danno 
E  na  lettera  dà  de  controbanno. 

C  è  Masto  danno  che  va  per  la  levatrice,  Cuosemo  di- 
ventato anche  più  avaro  e  importuno,  una  giovane,  Canneto, 
accusata  a  torto  d' intendersela  con  éM.eniello. 

Co  Porzia  le  doje  giovene  gelose 
Cacciano  lo  Notaro  pe  birbante, 
Chi  una  sbroglia,   mbrogha  1'  auta  cosa. 
Mazzate,  confusione,   allucche  e  chiante, 
La  vecchia  che  se  sbatte  e  fa  le  pose 
Né  vole  Biasio  danno  cchiù  pe  nnante, 
Chi  s'  arraggia,  chi  mormola,  chi  scippa. 
Chi  a  lo  Notaro  vo'  spercià  la  trippa, 


—  311   - 

Va  tutto  buono  e  meglio  lo  sviluppo  ; 
De  Canneta  scommoglio  la  nnocenza 
Co  farla  vede  chiara  e  senza  ntuppo  ; 
Faccio  prena  la  vecchia  nn'  apparenza 
Che  p'  arraggia  se  vo  spenna  lo  tuppo 
Trattenennose  appena  pe  prudenza, 
Penzo  capacetà  porzì  Retella, 
E  resta  'mpace  co  Meniello  Annella. 

Faccio  abbuscà  a  l'avaro  na  magnata, 
E  a  lo  Notaro  argiamma  e  no  vestito, 
Na  tavola  te  faccio  e  na  scialata 
Aunenno  tutte  quante  a  lo  convito. 
La  robba  è  cotta,  e  bona  apparecchiata, 
E  ogne  mogliera  aunesco  a  lo  manto. 
Vaco,  scrivo,  concerto  e  a  farla  corta 
Lo  prubbeco  la  sente  e  la  sopporta. 


XVII. 


Questo  saggio  di  commedia  originale  piacque  molto,  di- 
fatti, e  il  successo  incoraggiò  Cammarano.  Le  Ceiosie  de 
Porzia  e  Masto  danno,  rappresentate  nel  27  maggio  1821, 
si  ripetettero  nell'  8  giugno  dello  stesso  anno  per  la  deci- 
ma volta  (1)  e  poi,  di  tanto  in  tanto,  riapparvero  ancora 
sulle  scene  del  San  Carlino.  E  novelle  commedie  popolane 
originali    tennero     lor  dietro.    Nel   suo  libro  di  ricordi  Fi- 


(1)   Giornale  delle  Due  Sicilie,   anno    I82i. 


-  312  — 

lippo    Carnmarano    ne  va    enumerando ,    in  preciso    ordine 
cronologico,  i  titoli  appetitosi  : 

Nce  si  trasuto  mo  mmiezo  a  stu  ballo  ? 

«  La  Festa  vuoie  tu  fa  dell'  Archetiello  »  ? 
Scrivela,  e  non  asciare  qua*  cavillo  ; 
Pare  che  doje  cantara  puorte    ncuollo  ! 
Fa  pnesto,   e  non  lassa  scacà  lo  vullo. 

«  E  doppo  a  la  Corzea  pienze  passare  ?  >• 
Sacciala  n'  treccia  bona  e  co  piacere, 
Ca  ncoppa  a  li  scarpare  ncè  da  dire 
Ca  mbrogliarnano  pure  no  dottore, 
O  na  dozzana  de  procurature, 

St'  auta  mme  piace,  e  vale  na  patacca  : 
«  Li  Siggettare  de  la  Pignasecca  » 
Le  deta  chi  Ile  sape  se  ne'  allieta  : 
Retirate  cchiù  pnesto  e  ba  te  cocca, 
E  cerca  darle  quanto  puoie  la  cucca, 

Appriesso  pienze  de  passare  a  Chiaia 
«  Addove  la  Malora  nce  ronneia  ?  » 

Chesta  è  la  strada  meglia,   iurarria, 
Ch'  aie  saputo  pigliare    n  vita  toia, 
Né  ncè  chi  a  scarpesarla  maie  la  struia, 

A  Puorto  mo?...   O  che  so  scemo,  o  pazzo!... 
Niente  da  chella  via  certo  accapezzo  : 
«  La  Cuccuvaia  chi  fu  le  recchie  appizzo  » 
Cercanno  d'  appura  quanto  chiù  pozzo, 
E  mme  venga  si  accorre  lo  selluzzo. 


—  313  — 

Tutte  quante  nne  faie   'm  poppa  te  vanno, 
E  co  !e  recchie  toie  lo  staie  sentenno 
Ca  si  gruosso  abbastanza,  e  non  chiù  ninno, 
E  si  a  sto  mare  buono  vaie  pescanno 
Non  pighe  qua  vavosa,   o  qua  retunno. 

Lassa  mo  tutto,   e  non  passare  nnante 
Ca  non  sbaglia  chi  va  co  la  corrente, 
E  doppo  averne  scritte  credo  vinte 
Chesta  eh'  è  la  chiù  guappa  manne  a  monte, 
Non  saccio  che  t'  è  dato,  e  perchè  mpunte  ? 

Non  fa  le  cose  toie,   viene  a  lo  fatto, 
E  spera  de  vederene  l'effetto. 
Mme  suppongo  eh'  aie  ntiso,  o  t'  hanno  ditto 
«  Chello  che  sta  facenno  Pascalotto  ?  » 
E  non  pienze  a  cacciarne  lo  costrutto  ? 

Pe  ogne  luogo  si  cirche  de  passare 
Sia  taverna,  cantina,   o  pasticciere 
La  nommena  che  ha  te  fa  stordire  ! 
Sta  mmocca  d'  ogni  artista,  e  cosetore, 
A  gruosse,  mezzanielle,  e  criature. 

Le  chiancarelle  sotta  e  ncoppa  vanno  ! 
Nfra  carta,  e  gnosta  no  carrino  spenno, 
E  a  tortura  mettennome  lo  sinno 
Scrivo  de  pressa  nzò  che  penzo  e  sonno, 
Pe  stare  a  galla,  e  pe  non  ghire  affunno. 

In  cinco  juorno  è  scritta,  e  copiata 
Facenno  da  copista,  e  da  poeta  ; 
Tutto  s'  allesta,  se  concerta,  e  mmita, 
De  li  palchette  è  chiena  già  la  nota, 
E  pe  lo  juorno  appriesso  è  pure  anchiuta. 


—  314  — 

So  stunato  chiù  io  de  no  pacchiano 

Che  Ile  danno  a  rentennere  eh*  è  prieno  ; 
Lo  triato  vedenno  sempe  chino 
Non  mme  pare  addavero,  e  chiù  mme  stono, 
E  stonato  co  me  nce  sta  chiù  d'  uno. 

Quante  meglio  de  cheste  n'  aggio  fatte  ! 
E  mo  a  confrunto  d'  esse  chi  le  mette 
Tricche  tracche  le  ttrova,  o  fitte  fitte  ! 
Esempio  sia  pe  chi  mo  magna,   e  agliotte 
A  tiempo  suio  de  se  magna  li  frutte. 

Penzo...   e  passo  de  pressa  a  li  Guantare 
E  scrivo  co  gran  gusto,   e  co  piacere 
«  De  na  Vecchia  Madama  li  delire  » 
Che  figliola  se  crede  e  fa  11'  ammore, 
E  eh  è  bona  a  smammà  le  creature. 

Chesta  pe  veretà  piacette  assaie. 

La  fanno  ogn'  anno  cinco  vote  e  seie 
Piacene  de  madama  le  pazzie, 
E  de   lo  ncuntro  contenta  te  puoie, 
Parlanno  n*  confidenza  nfra  de  nuie. 

Mm  arreposo  sicuro  quase  n'  anno 
Quacche  cosella  buffa  traducenno. 
Non  lassanno  però  de  da  no  ntinno 
A  quanto  li  poete  penzà  ponno 
Pe  scavare  le  mbroglie  de  lo  munno. 

No  juorno  pe  pazzia  dinto  a  le  sacche 
Mme  fuieno  poste  cierte  pera  secche  : 
Le  magno...  e  penzo  fa   «  duie  Pacchesicche  » 
Studentielle  azzeccuse,  e  mieze  locche, 
E  a  fa  I'  ammore  niente  mammalucche. 


—  315  — 

A  tutte  duie  li  penzo  de  nf ornare, 
A  la  vista  facennole  vedere  ; 
St'  idea  da  capo  non  la  faccio  ascire, 
E  ghienno  in  scena  co  piacere  e  ammore 
Galantuommene  corrono,  e  signure. 

Quacch'  auta  appriesso  a  chella  iette  male... 
Ma  non  sempe  magna  se  pole  mele  ; 
So  le  cantine,  e  si  le  tutte  spile 
Quacch'  una  acito  maie  mancare  pole, 
Pe  fa  a  li  canteniere  parla  sule. 

Passo  a  li  «  ndebbetate  a  Montesanto  », 
E  apertis  verbis  dicere  me  sento  : 
Cammarà...  vaie  trasenno  troppo  dinto, 
E  amico,   o  nemmico  nzò  chi  sconto 
Vò  che  a  li  ndebbetate  faccio  punto. 

Chisto  so  assaie,   e  tu  nce  può  abbuscare 
Da  quacche  frate,  figlio,  o  qua  moghere  ; 
Meglio  è  addonca  st'  articolo  scompire  ; 
Si  penzave  da  ommo  eh*  ave  annore 
Lassave  a  chi  sta  chiuse  n'  quatto  mure  (1 

«  Una  nne  faccio  de  li  mellunare, 

«  N*  auta  de  Pisciavinole,  e  Chianchiere, 
1  All'  Arenella  penzo  de  saghre, 
«  Co  lo  Bello  Gasparro  mme  fa  annore 
«  Una  de  Galessiere,   e  Cacciature ». 


(1)   «  Voleva  fa  lo  jegueto,   e  fuic  sconsigliato.  »    Nota  dell'  A. 


—  316 


XVIII. 

La  festa  de  V  Archetiello,  La  Mmalora  de  Chiaia,  Lo 
Sguizzerò  mbriaco  dint'a  lo  vascio  de  la  Siè  Stella,  Li  Can- 
tastorie de  lo  Muoio,  La  scialata  de  tre  don  Limune  a  lo 
Granatiello,  Lo  bello  Gasparro  e  basta  così,  Li  Mellunare 
a  Chiazza  Franzese,  Lo  Casino  a  V  Arenella,  Pascalotto , 
La  Cuccuvaia  de  'Puorto,  Li  Siggettare  de  la  'Pignasecca, 
Li  duie  Pacchesicche  n fumate,  ecco,  della  nuova  maniera, 
le  commedie  più  riuscite  di  Cammarano.  Intanto  siamo  al 
i  830  ;  il  buon  uomo  ha  già  sulle  spalle  sessantasei  anni  ; 
la  lena  comincia  a  mancargli,  le  sue  commedie  risentono 
della  mano  che  trema,  del  pensiero  che  vacilla.  Anni  e 
guai  cresciuti  ;  tuttavia  don  Filippo  continua  a  lavorare,  da 
autore  e  da  attore,  pel  suo  caro  San  Carlino.  Nel  1831 
Pietro  Raimondi,  su  libretto  di  Domenico  Gilardoni  (emulo 
di  Tottola  e  predecessore  di  Salvatore  Cammarano  in  me- 
lodrammatica), scrive  la  musica  del  Ventaglio  e  la  fa  ese- 
guire al  Nuovo.  Il  successo  enorme  prende  le  proporzioni 
di  un  avvenimento  :  il  Nuovo  è  pieno  zeppo  ogni  sera,  le 
vie  circostanti  sono  affollate  di  carrozze  signorili,  la  sala  è 
sempre  gremita  del  publico  più  fine  e  intelligente.  E,  in- 
somma, una  vera  festa  d'  arte,  e  ad  essa  si  fa  un  dovere  di 
non  mancare  pur  il  nostro  don  Filippo  : 

Na  sera,  aunite  all'  aute,  vaco  la  sento  e  apprenno, 
E  pe  dì  :   fora  !  fora  !  resto  abrucato  ascenno. 
No  libro  aggraziato,   na  museca  cchiù  bella 
Chi  maie  aveva   ntiso  compagno  a  chilio  e  a  chella  ? 


—  317  — 

La  notte  non  donnette  pe  non  ascia  la  via 

D*  accommenzare  a  scrivere  ncoppa  na  Parodia. 
Ne  stenno  1'  argomento  pe  quanto  peso  e  baglio 
Ncopp'  a  1'  jlppassionate  de  lo  bello   ^Ventaglio  ; 

La  scena  fegno  d'  essere  a  Fontana  Medina 
Addò  de  musecante  ne'  è  sempe  n'  ammoma. 
E  mmiezo  a  chillo  lario,   a  lo  Cafè  nmpetto, 
L'  appassionate  a  sarma  e  criticante  io  metto. 

Le  male  lengue  atterro,   le  lode  mano  ncielo. 
La  luce  de  lo  sole  non  pò  scura  no  velo. 
Metto  na  cafettera  vecchia  senza  cervella 
Che  sta  pe  ghi  ad  Averza  pe  fare  Parmetella. 

Le  grazie  de  lo  libro  le  vaco  semmenanno 

Mm'  appenno  a  li  fehnie...   Niente  però  speranno... 
Scrivo...   nfra  me  dicenno  :   E  spiccete,   nzerlone. 
Chi  sa  che  non  lo  pigliano  pe  frutto  de  stagione  ! 

Non  tremma  a  parto  stuorto  maie  tanto  na  vammana 
Quant'  io  che  sempe  ncuollo  teneva  la  terzana. 
Penzanno  Guardoni  e  chillo  degno  masto 
Quanno  la  vaco  a  leggere  la  trovo  no  gran  nehiasto. 

M'  appoio  a  lo  terzetto  che  fa  lo  Tavernaro 
Ricorrenno  a  lo  Conte,   aunito  a  lo  Scarparo. 
Va  n   scena,   e  mente  aspetto  sentì  li  sordeghne 
Piace,   non  saccio  comme,   in  sine  fine  fine. 

La  parodia  :  ecco  1*  ultima  forma  delle  commedie  di  Fi- 
lippo Cammarano.  A'  fortunati  Jlppassionate  de  lo  Venta- 
glio fece  seguire  gli  ,/lppassionate  pe  la  Malibran,  ma  prese, 
questa  volta,  delle  sonore  fischiate  che  furono,  bisogna  dir 
la  verità,   ben  meritate.  Così,   finalmente,  smise,  accontentan- 


—  318  — 

dosi  di  solamente  recitare.  Una  sera,  nel  1833,  nelle  dento 
disgrazie  de  Pulicinella,  gli  venne  male  ;  m  allentaie  —  dice 
lui.  Povero  vecchio  !  Se  Luzi,  eh'  era  tanto  un  brav'  uomo 
e  che  gli  voleva  tanto  bene,  non  avesse  provveduto  agli 
ultimi  anni  suoi,  Cammarano  sarebbe  morto  di  fame  addi- 
rittura. 

XIX. 

Ricapitoliamo,   come  si  dice. 

La  commedia  dialettale  napolitana,  a  cui  Francesco  Cer- 
lone  lasciava  larga  eredità  di  finzione  e  di  retorica,  passata, 
sullo  scorcio  del  settecento,  nelle  mani  di  Filippo  Camma- 
rano non  migliorò,  in  sulle  prime.  Cerlone  si  vangava  sco- 
laro del  Goldoni,  perfino  il  titolo  di  parecchie  produzioni 
goldoniane  togliendo  a  prestito  per  le  sue  ;  tuttavia  non  prese 
mai  dalla  natura,  come  usava  di  fare  il  maestro,  il  modello 
per  la  sua  favola.  Era,  fra  tanto,  morta  e  seppellita  la  com- 
media dell'  arte,  espressione  d'  un  gusto  volgare,  d'  una  im- 
perfezione secolare  ;  ma  questa  che  i  comici  napoletani  rap- 
presentavano ora,  ogni  sera,  sulle  scene  popolari,  con  sì 
grande  successo,  si  poteva  dir  cosa  più  sana  ?  S'  era  tro- 
vato che  la  favola  della  commedia  dell'  arte  era  stupida  e 
povera,  che  abbisognava  di  troppo  aiuto  d' improvvisazione 
da  parte  degli  attori,  che  usava,  infine,  con  troppa  uggiosa 
insistenza,  di  quei  tipi  fissi  e  convenzionali  che  si  chiama- 
vano maschere.  Ma  con  quaii  ingredienti  novelli  fu,  dopo 
tutto,  impastata  la  novella  commedia  ?  Scorrendo  queste  pa- 
gine vi  sarete  accorti  che  un  delirio  eroicomico,  una  puerile 
complicazione  di  avvenimenti,  una  insopportabile  leziosaggine 
mescolata  alle  fantasticherie  più  viete  e  ridevoìi  formarono  Tabi- 


—  319  - 

tual  canovaccio  sul  quale  il  Celione  volle  intessere  i  suoi 
spettacolosi  arazzi  da  baracca.  La  società  del  suo  tempo, 
guasta,  illetterata,  gonfia  di  vento,  applaudiva  ed  era  con- 
tenta ;  costume  di  gente  decaduta  così  nella  familiare  come 
nella  vita  publica.  I  signori  sorridevano  compiaciuti,  ritro- 
vandosi, nella  commedia  cerloniana,  alteri,  sprezzanti,  cor- 
teggiati, come  erano  per  davvero  ;  il  popolo,  rispecchiato 
nelle  buffonesche  paure  di  Don  Fastidio  e  di  Pulcinella, 
nella  semioscenità  del  loro  turpiloquio,  rideva  fino  alle  la- 
grime, poiché  nessuna  gente  ha  mai,  più  della  nostra,  go- 
duto della  propria  goffaggine. 

Paragonare  Cerlone  all'  autor  della  Locandiera  sarebbe 
addirittura  una  empietà  ;  tuttavia  non  il  valore  intrinseco  del- 
l' uno  e  dell'  altro  ma  bene  l' indole  peculiare  della  lor  pro- 
duzione contemporanea  potrebbe  formare  oggetto  di  studio 
per  un  raffronto  direi  quasi  etnografico  della  loro  manifesta- 
zione d'  arte.  Scriveva  Goldoni  per  i  suoi  buoni  veneziani, 
miti,  dolci,  tranquilli,  un  po'  malinconici  e  delle  lor  cose 
vaghi,  allora  come  oggi,  d' assistere  alla  rappresentazione 
scenica  in  un  tranquillo  ambiente  dal  quale  scaturissero, 
senza  troppe  buffonate,  il  bene,  1'  amore,  la  felicità.  Cerlone, 
invece,  metteva  a  profitto  le  sue  trovate  portentose  per  un 
popolo  chiassone,  ricco  di  fantasia  come  di  parole,  e  però 
avido  d'  un  pascolo  d' iperboli,  impertinente,  passionato,  im- 
paziente, grottesco  e  spavaldo.  La  commedia  goldoniana  ti- 
rava via  per  la  sua  strada  con  sempre  gli  stessi  morali  in- 
tendimenti, arricchiti,  nella  semplice  esposizione,  d'  un'  argu- 
zia superiore  e  d'  una  benefica  genialità.  La  commedia  na- 
poletana —  che  non  ha  avuto  mai  carattere  —  andava  giù  a 
rotta  di  collo  per  sentieri  e  viuzze  da  cui  l' arte  si  è  tenuta 
sempre  lontana.  E  pure,  il  secolo    decimottavo  si  svegliava 


—  320  — 

e  poneva  mano,  fra  tanto,  a  non  poche  opere  civili  ;  nuovi 
studi  erano  impresi,  nuovi  ideali,  nella  scienza,  nella  cosa 
publica,  vagheggiati,  almeno,  se  non  conquistati  del  tutto. 
La  sola  commedia  non  ebbe  miglioramento  ;  non  è  facile  do- 
mare un  vizio  antico  di  servitù,  e  quella  espressione  d'arte 
era  rimasta  serva,  figlia  della  commedia  spagnuola.  Così  la 
ritrovò  Filippo  Cammarano.  Quando  egli  cominciò  a  scri- 
vere pel  teatro  era  anche  più  difficile  rifonderle  buon  san- 
gue nelle  vene  :  in  un'  epoca  di  terrore,  considerata  come 
publica  libertà  la  libertà  dell'  arte,  pareva  delitto  grave  e 
palese  ogni  forma  di  questa  che  non  rimanesse  ne'  limiti  as- 
segnati dalla  tirannia  al  pensiero  ;  ogni  superiore  aspirazione 
era  ritenuta  intolleranza,  qualunque  novità  impensieriva  la 
Reggia.  Sul  principio  del  secolo  decimonono,  non  per  re- 
sipiscenza ma  per  caso,  le  commedie  goldoniane  furono  ri- 
dotte per  le  nostre  scene  popolari  ;  il  desiderio  della  novità 
e  del  vero  da  un  pezzo  era  negli  animi  e  in  quel  punto  si 
manifestò  con  la  festevole  accoglienza  che  ottenne  1'  Annetta 
del  d'  Avino.  Per  quasi  un  decennio  prima  lo  Stile  poi  il 
Luzi  mantennero  viva  la  nuova  e  felice  manifestazione,  e 
parve  che,  avviato  per  quella  via,  il  teatro  dialettale,  dive- 
nuto soltanto  allora  popolano,  conquistasse,  finalmente,  ca- 
rattere. 

Che  valore  ebbero  le  ultime  commedie  del  figlio  di 
Qiancola  ?  Vi  si  rispecchiò  il  popolo  per  davvero,  vi  fu 
veramente  ed  artisticamente  riprodotta  la  verità  dell'  am- 
biente e  delle  persone  ?  Di  sì  o  di  no  ch'io  possa  dire  mi 
si  potrà  domandare,  ed  a  ragione,  con  quale  competenza 
sincrona  esponga  il  giudizio  mio  :  questo  posso  dir  con 
coscienza,  che,  cioè,  m'è  parso,  dall'esame  che  ho  fatto  di 
parecchie  delle  commedie  nazionali  del  Cammarano,  trovare 


:S>" 


X.  ^^J 


SALVATORE    CAMM ARANO. 


I>a  uu  disegno  'li  Giuseppe,  suo  padre. 


Bibl.    Luccliesiana 


—  321   — 

nell'autor  d'esse  molta  efficacia  di  colorito,  semplice  sce- 
neggiatura, osservazione,  se  non  profonda,  piacevole,  almeno, 
e  diligente  delle  cose  e  degli  uomini.  Nella  commedia  ori- 
ginale egli  riesce,  tuttavia,  da  meno  che  nella  riduzione  o 
adattazione,  che  si  voglia  chiamare,  di  quella  goldoniana. 
Li  funnachere  de  lo  Muoio  'Piccolo,  le  quali  sono,  come 
ho  detto,  le  Barufe  chiozote,  si  lasciano  addietro  La  Mma- 
lora  de  Chiaia  e  la  Cuccuvaia  de  tuorlo  ;  Li  quatto  de 
<ffiCaggio,  cavata  dal  Cambio  de'  bauli  del  Goldoni,  supera 
in  movimento  scenico,  in  genialità,  in  colorito  Li  duie 
cPacchesicche  nfurnate,  Li  Cacciature  e  Qalessiere,  Lo  Bello 
Qasparro  e  basta  cosi.  Tra  le  originali  Lo  Sguizzerò  mbriaco 
dint'a  lo  vascio  de  la  Siè  Stella  è  tra  le  più  efficaci  e 
piacevoli  ;  passata  nella  tradizione  gloriosa  del  repertorio 
nazionale  sancarhnesco  questa  commediola  era  vantatissima 
fino  agli  ultimi  tempi  del  teatrino  di  Piazza  Castello  :  in 
verità  la  si  citava  più  spesso  che  non  la  si  rappresentasse. 
Tuttavia  come,  parecchi  anni  addietro,  nacque  tra  due  pu- 
blicisti,  a  Napoli,  una  certa  questione  a  proposito  del  genere 
di  commedia  che  Eduardo  Scarpetta  offeriva  al  publico  del 
San  Carlino,  la  vecchia  farsa  di  Cammarano  fu  rappresen- 
tata un'altra  volta,  dopo  tant'anni,  su  quelle  scene.  Fu  nel 
1881  ;  i  due  publicisti,  dei  quali  la  serietà,  l'educazione, 
il  valore  onorano  la  stampa  napoletana,  erano  Federigo 
Verdinois  e  Michele  Uda.  Si  dettero,  dunque,  nella  stessa 
sera,  al  San  Carlino,  Lo  sguizzerò  mbriaco  e  una  riduzione 
che  Scarpetta  aveava  fatto  ultimamente  d'una  pochade  :  Duie 
morite  mbrugliune.  Se  la  prima  commedia  non  cadde,  ciò 
seguì  solamente  pel  modo  veramente  ammirevole  con  cui  fu 
rappresentata  da  quelli  attori  ;  il  publico  sorrise,  applaudì, 
trovò  caratteristici  quel  vecchio  costume,  que'  vecchi  panni 

DI   GIACOMO.  -  S.    Carlino.  2  I 


—  322  — 

napoletani,  bonario  l'intendimento  dell'autore,  innocente  la 
intenzione  sua,  come  la  schioppettata  onde,  a  un  tratto, 
sobbalzarono  tutti  nella  sala.  Venne  giù  la  tela  mentre  le 
discussioni  già  principiavano  su'  meriti  e  sui  demeriti  della 
commedia  rievocata  e  in  quelle  discussioni  fu  detto  questo, 
su  per  giù,  che  il  tempo  di  Cammarano  era  finito.  Forse  lo 
Sguizzerò  mbriaco  avrebbe  conseguito  maggior  successo  se 
vi  avesse  preso  parte  Scarpetta.  Un  coefficiente  necessario, 
importantissimo,  capitale  addirittura  nell'opera  di  Filippo 
Cammarano,  erano  1  suoi  attori.  Mirabile  il  loro  modo  di 
recitare  :  quando  la  commedia  popolana  fu  sostituita  al 
dramma  spettacoloso  i  comici  del  San  Carlino  sentirono  tutta 
la  responsabilità  che  pesava  loro  addosso  e  lo  studio  del 
vero  occupò  ardentemente  tutto  il  tempo  loro.  Altigonda 
Colli,  la  romana  passata  dal  teatrino  della  Fenice  al  San 
Carlino,  preparò  il  suo  debutto  di  caratterista,  nelle  Funna- 
chere,  con  pellegrinaggi  continui  ai  quartieri  di  Porto  e  di 
Pendino  ove  imparò  la  lingua  e  il  costume  della  nostra 
gente,  diventandovi  pur,  dopo  breve  tempo,  di  tutte  e  due 
cose  padrona  in  tale  maniera  da  meravigliare  quanti  l'ave- 
vano udita,  da  prima,  romaneggiare  nell'antico  repertorio 
semidrammatico.  Or  ella,  con  Salvatore  Petito,  'Pulcinella, 
con  l' amoroso  de  Lilìis,  col  generico  Giovanni  Tagliazucchi, 
con  Andrea  Natale,  col  buffo  Scarola,  col  Tavassi,  Bisce- 
gliese,  col  tartaglia  Michele  Manzi,  col  Tremori,  padre 
nobile,  con  Raffaele  Santelia,  guappo,  interpretava  meravi- 
gliosamente la  nuova  produzione  artistica  di  Cammarano, 
colorendola  ove  mancasse  di  colore,  drammatizzandola  quando 
vi  languiva  il  dramma,  alitandovi  per  entro  la  passione  e  la 
verità.  Al  valor  della  Colli,  alle  speciali  e  singolari  qualità 
comiche  de'  suoi  compagni  Cammarano    dovette    principal- 


—  323  — 

mente  il  successo  delie  sue  commedie  popolane,  le  quali 
furono,  anzi  tutto,  improntate  sempre  alla  moralità,  semplici 
e  oneste.  Tuttavia,  rileggendole  adesso  in  tempi  mutati  e 
tra  manifestazioni  d'arte  assai  più  vibranti  di  vita  e  di  pas- 
sione, paiono  monotone  ;  nsentono  della  vecchiaia  dell'au- 
tore che  avendole  scritte  nei  tardi  anni  suoi  si  trovò,  in 
omaggio  alla  neve  dei  suoi  capelli,  a  mutarle  troppo  spesso 
in  ammonimenti. 

Si  deve,  a  ogni  modo  —  per  amore  di  verità  e  di  storia 
—  a  Filippo  Cammarano  la  riforma  della  commedia  dialet- 
tale napoletana,  riforma  intesa  soprattutto  ad  affollare  la  via 
deserta  dell'arte  scenica  popolare  di  personaggi  umani,  libe- 
rati dalle  vecchie  fantasticherie,  vestiti  di  panni  moderni, 
mossi  da  passioni  e  da  sentimenti  naturali,  in  un  ambiente 
che  della  vera  fìsonomia  del  nostro  paese  era  coscienziosa 
e  benevola  riproduzione.  Vedrete,  appresso,  come  nessuno 
de'  successori  di  Cammarano  abbia  continuato  a  procedere 
per  questa  via  ;  già  lo  stesso  Cammarano,  Io  sapete,  se  n'è 
improvvisamente  allontanato  per  badare  alle  parodie  degli 
spettacoli  musicali  del  suo  tempo.  Il  destino  della  comme- 
dia nazionale  al  San  Carlino  parve  quel  d'una  meteora  : 
luminosa  l'apparizione,  brevissimo  il  suo  corso. 


XX 


Questa  de'  Cammarano  fu  tutta  una  famiglia  artistica. 
Filippo,  Giuseppe,  Antonio  e  Michele  Cammarano  traevano 
origine  da  quel  Qiancola  che  dalle  scene  sancarliniane  avea 
distribuito  il  buonumore  a  tutta  Napoli  ;  quei  quattro  fratelli 
erano  nati  con  Talia  sorridente  al  capezzale.  Filippo    seri- 


—  324  — 

veva  commedie  e  recitava,  Michele,  ottimo  tenore,  cantava 
al  ZNjiovo  fin  dal  1797  (I),  Antonio  dipingeva  e  recitava, 
da  servo  sciocco,  al  teatro  di  San  Severino.  E  nessuno 
si  meravigliava  di  veder  Giuseppe  Cammarano,  il  pittore 
amico  di  Camuccini,  di  Benvenuti,  di  Podesti,  d'Hayez, 
di  Wigar,  di  Gianni  e  Patamia,  il  decorato  del  Giglio  di 
Francia  e  dell'ordine  di  Francesco  I,  il  socio  della  Reale 
Accademia,  l'artista  cesareo,  vestire  il  camiciotto  di  Pulci- 
nella e  apparire  al  San  Severino  con  sul  volto  la  maschera 
di  cuoio  che  Giancola  gli  lasciava  in  sacra  eredità.  Come 
i  Tomeo  che  li  avevano  preceduti,  come  i  Petito  che  li 
seguirono,  i  Cammarano  non  sognavano  se  non  la  scena. 
La  commedia  ce  l'avevano,  come  chi  dicesse,  nel  sangue. 
Nato  nel  1  765  (2),  Giuseppe  Cammarano  fu  avviato  alla 
pittura  dall'  infanzia.  Pensionato  a  Roma  vi  rimase  venti 
mesi  con  un  assegno  che  gli  fu  pagato  anche  nel  tempo 
in  cui,  ritornato  da  Roma  ammalato,  egli  non  potette  lavo- 
rare a  Napoli.  Diventò  maestro  nell'istituto  di  Belle  Arti 
al  1806  ed  ebbe  a  scolari  Mancinelli,  de  Vivo,  Marsigli, 
Bonolis,  il  paesista  Smargiassi,  gli  scultori  Antonio  e  Gen- 
naro Cali.  La  Corte  borbonica  si  valse  dell'opera  sua  ;  le 
reggie  di  Napoli,  di  Caserta,  di  Cardilo,  il  teatro  San 
Carlo,   il  Fiorentini,  il  palazzo  dell'Ammiraglio,  quel    della 


(1)  La  prima  volta  nell'Impresario  burlato,  musica  di  Luigi  Mosca.  —  Vedi 
Florimo,   voi.   IV. 

(2)  ENRICO  TAFOnE,  Lettera  al  giornale  il  Pungolo  di  Scapoli  per 
l'articolo  intitolato  «l'Arte  a  Scapoli  »  pubblicato  il  7  novembre  1882 
n.  309,  e  con  la  quale  (sic)  si  rettifica  un  brano  di  storia  sopra  Giuseppi 
Cammarano  ecc.  —  Vedi   anche  MARTORANA,   op.   cit. 


—  325  — 

Foresteria  —  che  è  oggi  la  Prefettura  —  la  Floridiana  (1) 
e  molte  chiese  della  provincia  ci  ricordano  l'opera  di  lui, 
che  vi  è  sparsa  nelle  sue  consuete  forme  severe  e   signorili. 

XXI. 

«  Giuseppe  Cammarano  —  cosi,  avendogli  chiesto  alcuni 
particolari  intorno  a  un  certo  aneddoto ,  mi  scriveva  tempo  fa 
Goffredo  Cammarano,  (2)  —  abitava  al  vico  Corrieri  a  Santa 
Brigida,  n.  11.  Nel  giardino,  ove  affacciavano  la  sua  stanza 
da  studio  ed  un  salotto,  guardavano  (pare  strano!)  altre  tre 
famiglie  Cammarano.  Al  quarto  piano  del  palazzo  ove  abi- 
tava Giuseppe  dimorava  il  figliuol  suo  maggiore,  Giovanni. 
Nel  giardino  dava  la  terrazza  di  un  palazzetto  posto  in  uno 
dei  vicoli  della  via  Concezione,  al  n.  32.  Sulla  terrazza 
erano  due  quartini  in  uno  dei  quali  abitava  Antonio  Camma- 
rano, con  la  moglie  e  due  figlie.  L'altro  era  tenuto  da  Sal- 
vatore Cammarano,  mio  padre.  In  quest'ultima  casa,  come 
capirete,  son  venuti  più  volte  Donizetti,  Verdi,  Mercadante, 
Pacini,  ecc.  Mi  raccontava  mia  madre  che,  salvo  Verdi, 
che  poche  volte  è  stato  a  Napoli,  gli  altri  maestri  su  nomi- 
nati, capitando  il  mattino  per  tempo,  amavano  restare  fuori, 


(  1  )  Così  chiamata  dalla  duchessa  di  Floridia,  seconda  moglie  di  Ferdi- 
nando IV,  il  quale  comprò  la  villa  dagli  eredi  del  Saliceti  e  ne  fece  dono 
alla  seconda  moglie.  —  Vedi  COLLETTA.  Vedi  pure  :  S.  D!  GIACO- 
MO —  Lettere  di  Ferdinando  IV  alla  Duchessa  di  Floridia  —  Collezione 
settecentesca  —  Sandron  editore  —  Palermo. 

(2)   Figlio  del  poeta   Salvatore  e  nipote  del  pittore  Giuseppe. 


—  326  — 

all'aperto,  su  quella  terrazza  a  godersi  la  bella  veduta, 
mentre  mio  padre  si  levava  dal  letto.  Antonio  Cammarano 
avvicinava  il  suo  cavalletto  a  una  sua  finestra  e  ritraeva  il 
monastero  di  S.   Martino. 

Attraverso  il  giardino  si  vedevano,  dunque,  e  si  parla- 
vano quattro  famiglie  Cammarano.  Nel  1 5  maggio  1 848 
Luigi  Cammarano,  (figlio  del  pittore  Giuseppe),  distinto 
compositore  di  musica  che  dette  al  Fondo  due  opere  su 
libretto  del  fratello  suo  e  mio  padre,  Salvatore,  fu  arrestato 
come  appartenente  alla  liberale  guardia  nazionale,  e  trasci- 
nato ai  fossi  di  Castelnuovo  per  esservi  fucilato.  Ricono- 
sciuto da  un  ufficiale  superiore  fu  salvo  per  miracolo.  Che 
trepidazione,  che  sgomento  a  casa  !  Sui  ferri  del  balcone 
era  un  continuo  picchiar  di  chiavi  col  quale  tutti  i  Camma- 
rano si  chiamavano,  ogni  cinque  minuti,  per  interrogarsi,  per 
chiedersi  notizie,  a  vicenda,  del  povero  Luigi.  Quand'egli 
tornò  a  casa  furono  pianti  di  gioia,  abbracci,  lunga,  infinita 
commozione 

Morto  Giuseppe  Cammarano,  mio  padre  volle  abitare  la 
casa  ove  quegli  s'era  lentamente  spento.  In  quella  casa  morì 
anche  lui.  Là,  io,  bambino,  rimanevo  estatico  d'avanti  al 
grande  giardino  che  aveva  udito  tante  voci  a  me  care  e 
che  mi  pareva  misterioso.  De'  colombi,  di  volta  :n  volta, 
venivano  a  beccarsi  le  briciole  di  pane  che  una  mia  sorel- 
lina ed  io  spargevamo  sul  parapetto  della  finestra.  Dalla 
finestra  si  vedeva  un  di  quei  lumi  che  pendono  avanti  alle 
immagini,  in  là,  in  un  cortile  alle  spalle  del  muro  di  cinta 
dei  giardino.  De'  suonatori  ambulanti  capitavano  spesso  in 
quel  cortile  e  una  chitarra  e  un  violino  suonavano  ariette 
sacre,  flebili  e  monotone,  ma  così  penetranti  la  mia  piccola 
anima,  così  dolci  per  me  !  Ancora  mi  pare  di    udirle » 


—  327 


XXII. 

L'aneddoto,  a  cui  più  sopra  accennavo,  fa  parte  d'una 
lunga  serie  di  certi  caratteristici  ricordi  di  quella  famiglia  : 
esso  potrebbe  invogliare  un  novelliere  o  un  bozzettista  a 
cavarne  partito,  e  io  voglio  raccontarvelo  —  per  chiuder 
questo  cammaranesco  capitolo  —  tal  quale  me  lo  narrò  il 
buon  Goffredo,  centellinando,  in  casa  mia  una  tazzina  di 
caffè. 

Siamo  nel  dicembre  del    1 845. 

Lo  stanzone  ove  m'adopero  di  far  penetrare  la  vostra 
fantasia  —  la  quale  non  avrà  un  gran  da  fare  per  cacciar- 
visi,  da  che,  rimpetto  ad  una  grande  finestra,  è  una  porta 
larga  ed  aperta  —  accoglie  il  tramonto  invernale,  freddo  e 
malinconico.  Il  giorno  cade,  i  tersi  vetri  della  finestra  lasciano 
vedere  un  gran  pezzo  di  cielo  opalino,  d'un  colore  uguale 
e  diffuso,  un  di  quei  fondi  di  cielo  che  danno  tanto  rilievo 
ai  comignoli  bruni,  e  alla  frangia  delle  grate  d'un  belvedere 
di  monastero  la  delicatezza  d'un  merletto,  e  alla  chioma 
scomposta  degli  alberi,  del  quale  il  verde  tramonta  e  si 
rompe  in  tante  ciocche,  un  disegno  a  contorno,  preciso  e 
pulito.  Le  voci  si  fanno  più  rare  e  meno  alte  nella  via  : 
in  questo  momento  di  stanchezza  del  giorno  sembra  pure 
che  sia  stanca  la  gente:  quello  della  casa  è  un  desiderio  che  cresce 
nei  frettolosi  passanti,  il  lavoro  umano  li  ha  lungamente 
affaticati,  la  pace  è  un  bisogno,  il  silenzio  è  un  riposo.  Di 
volta  in  volta  il  tintinnare  cadenzato  della  campanella  d'una 
vacca,  il  romore  sordo  e  rotolante  d'una  carrozza  soffocano 


—  328  — 

le  voci  e  si  lasciano  appresso,  allontanandosi,  un  silenzio 
più  lungo. 

Alle  pareti  dello  stanzone  sono  attaccate  parecchie  grandi 
tele,  già  quasi  conquistate  dalla  penombra.  Ove  la  luce 
riesce  ancora  a  scivolare,  qualcuna  di  quelle  si  disvela, 
lasciando  intravedere  una  composizione  mitologica,  piena  di 
effetti  pittorici  che  l'artista  ha  cavato  or  da  un  chiaro  di 
luna,  or  dal  passaggio  di  Febo  luminoso  sulle  nuvole  che 
se  ne  accendono,  or  dalla  pallida  trasparenza  d'un'alba  che 
spunta.  La  penombra  rende  anche  più  ideali  questi  sogni 
del  colore  e  li  fa  più  misteriosi  ;  l'ora  ne  va  parlando,  sotto- 
voce. E,  seduto  davanti  a  un  gran  cavalletto,  a  cui  s'ad- 
dossa una  di  queste  tele,  muto  e  pensoso ,  il  gomito  sul 
ginocchio,  il  mento  nella  mano,  l'autore  di  tutti  quei  dipinti 
contempla  l'ultima  sua  creazione,  che  si  va  rivestendo  di 
forme. 

E  Giuseppe  Cammarano;  un  vecchio.  Ma  1  occhio  ancora 
brilla;  i  capelli,  per  grigi  che  sieno,  gli  si  affollano  ancor 
sulle  tempie  e  in  fronte,  e  alcune  ciocche,  brune  tuttora, 
sfiorano  l'arco  dell'orecchio.  Or  che  si  leva  in  piedi  e 
s'accosta  alla  tela  per  guardarvi  più  da  vicino  egli  scopre 
tutta  la  sua  vantaggiosa  statura.  Appena  la  vecchiezza  gli 
ha  un  po'  incurvato  le  spalle  ;  un  che  di  grandioso  è  an- 
cora in  tutta  la  sua  persona.  Ma  se  per  un  verso  questo  gli 
giova  all'aspetto,  per  l'altro  lo  impiccia  quand'egli,  la  sera, 
appare  sul  palcoscenico  del  teatro  San  Severino,  da  dilet- 
tante Pulcinella. 

Il  teatro  San  Severino,  in  fondo  al  Vico  Figurari  a  San 
Biagio  dei  Librai  e  proprio  accanto  all'  edifìcio  occupato 
dal  Grande  Archivio  di  Stato,  accoglieva  filodrammatici  di 
grido,  dilettanti  di  tragedie,  di    drammi,    di    commedie    in 


—  329  — 

lingua  e  in  dialetto.  Celebre,  laggiù,  la  compagnia  Gaetani, 
composta,  nel  1830,  dal  primo  uomo  Carlo  Gaetani,  dal 
caratterista  Carlo  Ciotola,  òa\Y ipocrita  Gerardo  Mandatiti, 
dal  generico  Giuseppe  Cuomo,  dal  mezzo  carattere  Antonio 
Dumonte,  dalla  prima  donna  Celidea  Donadio,  dall'ingenua 
Rosina  Ciotola,  dal  suggeritore  Antonio  Guarino  (1).  A 
costoro  s'aggiunsero  in  appresso  Tronconi,  Raffaele  Moreno, 
Tofano,  zio  del  pittore  e  del  pianista,  Gaetano  Dura,  Luigi 
Liguori,  Giuseppe  Cammarano,  Antonio  Cammarano  e  il 
futuro  buffo  Barilotto  del  San  Carlino,  Pasquale  de  An- 
gelis.  Il  Taddei  di  quell'antro  era  Cafora,  Tofano  rivaleg- 
giava con  Pietro  Monti  e  Giuseppe  Cammarano  dava  de' 
punti  a  Salvatore  Petito,  in  quel  tempo  Pulcinella,  al  San 
Carlino.... 

XXIII. 

Il  vecchio,  che  s'è  staccato  dal  suo  dipinto,  gli  volta  le 
spalle  e  si  mette  a  misurare  lo  stanzone,  a  piccoli  passi. 
Ha  lasciato  appiè  del  cavalletto  la  tavolozza  e  ìa  lunga 
bacchetta  che  gli  regge  il  polso  quand'egli  dipinge.  La  tela 
rappresenta  un  tramonto,  ma  questo  è  espresso  plasticamente  : 
Apollo  s'incarna  in  un  giovane  ricciuto,  accampato  sopra 
nuvole  d'oro.  L'ultima  luce  del  giorno,  che  traspare  per  la 
finestra,  coglie  il  quadro  in  pieno  e  lo  bagna  mollemente 
d'una  uguale  e  dolce  tonalità,  in  cui  tutti  gli  effetti  della 
pittura  par  che  si  fondano  teneramente.    Come  l'artista,  che 


(  1  )  //  raccoglitore,   Giornale,    1 830,    Biblioteca  Cuomo,  ora   Municipale. 


—  330  — 

torna  addietro,  s'arresta  un'altra  volta  a  contemplare  l' opera 
sua,  una  voce  lo  saluta  allegramente  di  sotto  la  porta  : 

—  Buonasera  ! 

Entra  Antonio  Cammarano  e  va  difilato  a  sedere  presso 
il  braciere  che  è  nel  mezzo  della  camera,  e  allunga  le  mani 
al  fuoco. 

—  Si  gela,  per  via  —  dice,  dopo  un  momento,  senza 
voltarsi,  parlando  al  fratello  che  in  questo  va  risciacquando 
i  pennelli  e  ripulendo  la  tavolozza. 

—  Di  dove  vieni  ?  —  domanda  Giuseppe.  E  asciuga  i 
pennelli  a  uno  straccio. 

—  Dal  caffè  dei  Fiorentini.  C'erano  Tremori,  don  Salva- 
tore Petito.  de  Lilhs.  Sono  stati,  ìersera,  tutti  e  tre  al  teatro 
di  San  Severino  . . 

—  Davvero?...   Non  li  ho  visti. 

-  Capitarono  tardi.   Ma  assistettero  alla  nostra  scena... 

—  Davvero  ?  E  che  dicono  ?  Don  Salvatore  che  dice  ? 

—  Fa,   naturalmente,   le  sue  osservazioni... 

—  Che  dice  ?   Dice  che  ho  recitato...  che  abbiamo  reci- 
tato male  ? 

—  Questo  no.   Fa  le  sue  osservazioni. 

Segue  un  silenzio.  Giuseppe  Cammarano  va  in  su  e  in 
giù  per  la  camera.  Peripateticamente,  dopo  un  po',  soggiunge: 

—  Forse  ha  ragione.  Nella  scena  della  paura  è  mancato 
il  colorito.  Tu  eri  stanco,  ti  sfuggivano  le  battute... 

—  Io?   No,  mio  caro.   Eri  stanco  tu... 

—  Io? 

—  O  non  ricordavi  la  parte... 

—  Non  ricordavo  la  parte  ?  Vuoi  provare,  se  me  la  ri- 
cordo ? 

—  Prontissimo. 


—  331   — 

—  Ebbene,  spingi  in  là  il  braciere...  Proviamo... 

—  Prontissimo... 

E  mentre  Antonio  Cammarano  trascina  il  braciere  in  un 
angolo,  suo  fratello  allontana  il  cavalletto,  stacca  dal  muro 
i  pantaloni  e  il  camiciotto  da  Pulcinella  e  se  ne  veste. 
Si  mette  la  maschera,  si  copre  del  coppolone  e  si  fa  avanti, 
sbracciandosi.  Chi  riconoscerebbe  più  Giuseppe  Cammarano 
in  quel  buffone  che  ha  mutato  di  voce,  d'  atteggiamento,  di 
statura  perfino?  Ne  più  è  riconoscibile  Antonio,  a  cui  sono 
bastate  alcune  rapide  modificazioni  ai  panni  che  indossa  per 
rimutarlo  tutto.  Non  più  lo  studio  severo  e  silenzioso  del 
pittore,  ma  un  palcoscenico  ove  le  ombre  della  notte  che 
cade  raddoppiano  la  finzione  della  scena  di  notte.  Pulcinella 
scende,  a  tentoni,  in  una  cantina  ove  un  tesoro  è  nascosto, 
e  'Paolino  lo  segue.  La  paura  li  soffoca  ;  appena  possono, 
balbettando,  incoraggiarsi  a  vicenda  ;  si  guardano  attorno, 
cercano  d'  accendere  un  lume  e  non  vi  riescono,  tremano 
sulle  gambe  e  non  vanno  avanti.  Dove  sarà  il  tesoro  ?  Pul- 
cinella ha  udito  dire  che  si  nasconde  sotto  un  cadavere  ab- 
bandonato nella  cantina.  'Paolino  soggiunge  che  ha  perfino 
creduto  di  scorgere,  steso  per  terra,  presso  alle  botti,  quel 
corpo.  E  il  finale  del  primo  atto  di  Vendetta  e  disprezzo 
segue  tra  le  ansie  di  quel  terrore  ,  in  cui  1*  arte  dei  due 
fratelli  ha  meravigliosi  momenti  di  verità  e  di  comicità,  fino 
a  quando  i  due  servi,  convulsi,  cadono  sul  supposto  cada- 
vere, che  è  poi  un  fascio  di  paglia... 

Ed  ecco,  lo  stanzone  risuona  d'  applausi.  Ma  come  ?  I 
due  vecchi  hanno  avuto  degli  spettatori  ?  Sì,  eccoli.  Sono 
i  loro  nipotini,  i  figli  del  poeta  Salvatore  Cammarano,  dei 
bambini  che  hanno  preso  posto  sotto  la  porta;  piccoli  ascol- 
tatori che  ora  battono  le  manine  e  gridano  :  Bravo  !   Il  lume 


—  332  — 

che  la  serva  sorregge  li  rischiara,  ed  ella  rimane  in  piedi  e  sor- 
ride; i  piccini  continuano  a  gridare,  continua  V  applauso  inat- 
teso e  insospettato  e  a  un  tratto  un  di  quei  ragazzetti  pronunzia 
la  parola  sacramentale  :  Maschera  !  Maschera  !  I  due  vec- 
chi, sbigottiti,  come  se  veramente  si  trovassero  d'  avanti  al 
loro  solito  publico ,  con  moto  simultaneo  s' avanzano. 
Mentre  Antonio  si  cava  il  cappello  e  s'inchina,  Giu- 
seppe Cammarano  con  la  mano  sinistra  si  sberretta,  solleva 
con  la  destra  fino  alla  fronte  la  maschera,  e  scopre  all'infan- 
tile e  romoroso  uditorio  entusiasmato  due  grosse  lagrime  che 
scorrono  per  quelle  guance  rugose.... 


CAPITOLO  OTTAVO. 

Salvatore  Petìto  e  la  Sua  famiglia  —  Orazio  Schiano  — 
Morte  di  Cammarano  —  Vicende  del  teatro  —  Autori 
ed  attori  fino  al  1850. 


Jr  INO  al  1 820,  dal  1 899  in  cui  morì  Giancola,  San 
Carlino  ebbe  da  quattro  a  cinque  Pulcinelli,  Y  ultimo  de' 
quali  tu  Gaspare  de  Cenzo.  Nel  1810  un  certo  Tamberlani, 
impresario  di  una  compagnia  di  fanciulli,  radunava  in  un 
teatrino,  all'  angolo  di  Via  Concezione,  le  Cuniberti  e  i 
Lambertini  dell'  epoca,  facendoli  recitare,  ballare  e  morir 
di  fame.  Nel  Teatrino  di  Donna  <7HCarianna,  così  era  chia- 
mato   quel  posto    dal  nome  della    moglie  del  comprachicos 

-  333  - 


—  334  — 

Tambevlani,  esordì  Gaspare  de  Cenzo  da  Pulcinella,  a  di- 
ciott'  anni  ;  egli  era  nato  nel  1 800,  a  Napoli,  da  gente  di 
piccola  borghesia. 

Al  1 820  —  due  anni  lo  avevano  già  reso  famoso  —  Ga- 
spare de  Cenzo  fu  chiamato  al  San  Carlino  da  Silvio  Ma- 
ria Luzi.  Vi  rimase  un  anno,  poi  emigrò  a  Roma  e  di  là 
tornato  in  patria  prese  scrittura  al  teatro  'Partenope.  Finì, 
imitando  il  Tamberlani,  per  mettersi  in  giro  per  le  Provin- 
cie, direttore  d'una  compagnia  di  ragazzi.  Morì  verso  il  1875. 

Il  suo  posto  al  San  Carlino  era  stato,  fra  tanto,  occupato 
da  Salvatore  Petito,  capostipite  della  numerosa  schiatta  co- 
mica la  quale  ha  sparso  'Pulcinelli,  ballerini,  mimi  e  ser- 
vette per  tutti  i  teatri  di   Napoli. 

Salvatore  Petito  aveva  sposato  una  ballerina,  Giuseppa 
Errico,  poi  chiamata  Donna  Peppa.  Nel  1826  un  teatrino 
era  stato  aperto  alla  via  della  marina  :  la  Errico  n'  era  la 
proprietaria  e  l' impresaria.  In  quel  tempo  avea  trentaquat- 
tro anni.  Era  una  piccola  bruna;  occhi  vivi  e  neri,  capelli 
lievemente  crespi,  grosse  labbra  tumide  e  accese ,  di  mani 
pronta  come  di  parole.  Don  Salvatore  Petito,  suo  marito, 
1'  adorava.  L'  avea  conosciuta  ballerina  al  teatro  di  Donna 
Marianna  e  se  n'  era  innamorato.  Ballerino  lui  pure,  di  mezzo 
carattere  grottesco,  come  si  diceva  in  quei  tempi,  chiamato 
al  teatrino  di  'Donna  Marianna  per  rialzarne  la  sorte,  avea 
finito  per  conquistare  non  pur  il  publico  quanto  anche  la 
più  attraente  delle  danzatrici.  Un  bel  giorno  la  Errico  di- 
sparve. Quei  due  figliuoli  di  Tersicore,  mirando  a  più  alti 
ideali,  disertavano  un  palcoscenico  troppo  breve  per  il  passo 
a  due  del  loro  amore.  Disse  la  gente  che  don  Salvatore 
se  /'  era  fuggita  ;  questo  napoletanismo  è  pieno  di  genero- 
sità e  di  pudore  ;  si  dice  fuggita...   Ma  lasciamo  andare... 


—  335  — 

Tutto  ciò  seguiva  mentre  Gioacchino  Murat,  tra  una  Corte 
avventizia,  governava  Napoli  a  modo  suo.  Don  Salvatore 
Petito,  diventato  primo  ballerino  al  San  Carlo,  s'  era  stretto 
in  grande  amicizia  co'  sottoufficiali  del  reggimento  Veliti, 
si  vantava  della  protezione  di  quel  povero  re  d'  un  quarto 
d'  ora  e  perfino  si  permetteva  d'  arrivare  al  San  Carlo  ap- 
pena cinque  minuti  prima  del  ballo.  Il  suo  murattismo  gli 
aveva  procurato  molti  nemici  tra  i  francofobi  del  tempo  :  fug- 
gito via  Gioacchino  scappò  lui  pure  con  Donna  Peppa  e 
prese,  nientemeno,  la  volta  di  Corfù,  dove  per  avventura 
era  in  onor  non  minore  la  piroetta.  La  tragicomedia  de* 
Petito  principia  ad  aver  delle  scene  caratteristiche  da  que- 
sto viaggio  di  mare  ;  la  nave,  mal  governata,  è,  per  giunta, 
sorpresa  da  una  tempesta,  nella  notte  ;  1  lampi  rompono,  di 
volta  in  volta,  le  tenebre  e  svelano  a  un  gruppo  di  navi- 
ganti inginocchiati  in  coperta  1'  orrore  delle  onde  infuriate. 
Tutti  pregano,  balbettando,  battendo  i  denti,  e  si  votano. 
A  voce  alta  tutti  confessano  all'  oscurità  le  colpe  loro  ;  il 
buio  ascolta  e  romoreggia,  1'  ombra  sghignazza.  Don  Salva- 
tore Petito  sentì  in  quel  momento  di  dover  lui  pure  una 
promessa  agli  elementi  sdegnati,  e  fece  voto  di  sposar  Peppa 
Errico,  da  cristiano  timorato,  davanti  all'  altare,  appena  le 
sue  povere  gambe  tremanti  avessero  riconquistata  la  forza 
e  la  terra  ferma.  II  buon  Dio  glie  lo  permise  e  lo  ripagò 
della  tarda  resipiscenza...  con  otto  figliuoli.  Così  è  principiata 
codesta  dinastia  comico-danzante. 

Ma  Corfù  non  ebbe  le  ossa  di  Salvatore  Petito.  Egli 
se  ne  tornò  con  allori  e  quattrini,  e  mise  tenda  in  un  pic- 
colo teatro  a  Porta  S.  Gennaro.  Vi  si  rappresentavano  opere 
serie,  come  Paolo  e  Virginia,  Querin  Meschino,  Bianca  e 
Fernando,  Il    solitario  della  Foresta,    spettacoli   drammatici 


—  336  — 

palpitanti,  pe'  quali,  ogni  sera,  fiumi  di  sangue  e  di  veleno 
scorrevano  sul  palcoscenico.  Per  via  di  tanti  delitti  orrorosi 
il  teatrino  del  Largo  delle  'Pigne  era  diventato  celebre,  ma 
la  buona  gente  di  Foria,  perseguitata  nel  sonno  da  tutti  quei 
fantasmi  che  chiedevano  vendetta,  non  più  reggeva  a  tanta 
funebre  e  paurosa  rappresentazione.  Voleva  ridere.  L'  im- 
presario del  teatrino,  tal  Antonio  de  los  Rios,  chiamò  un 
bel  giorno  da  parte  don  Salvatore,  suo  novello  socio,  e  gli 
propose  di  mutar  metro  in  tempo.  C  era  quel  benedetto  San 
Carlino  che  faceva  affari  d'  oro  con  le  commediole  in  dia- 
letto :  non  si  sarebbe  potuto  tentare  lo  stesso  genere  na- 
zionale, anche  qui  a  Porta  S.  Gennaro,  migliorando  la  com- 
pagnia e  rappresentando  farse  tutte  da  ridere  ? 

Quattro  giorni  appresso  il  cartello  annunziava  una  com- 
media intitolata  Mazzate  e  spusalizie,  con  Pulcinella  servo 
d'  un  padrone  disperato.  Don  Salvatore  Petito  prendeva  la 
maschera.   E  Talia    dava  il  gambetto  a  Tersicore. 


II. 


Dalla  Marina  d'  'e  limuncelle  il  teatro  di  Tìonna  Peppa 
era,  fra  tanto,  passato  alla  Porta  del  Carmine.  La  famiglia 
Petito  aveva  preso  in  fitto,  sotto  il  palazzo  de'  signori  Mai- 
sto,  una  grande  bottega  e  ne  avea  fatto  teatro  ;  un'  altra 
vicina  bottega  era  diventata  un  caffè  e,  in  fondo,  vi  sedeva 
al  banco  Rosina  Petito,  l'anziana  tra  le  figliuole  della  Er- 
rico. I  Petito  abitavano  un  piccolo  quartiere  nello  stesso 
palazzo  Maisto  ,  al  primo  piano  ;  due  balconcelli  affac- 
ciavano sulla  via  della  Marina  e  le  camerette  erano  sem- 
pre piene  di  sole,  piene  della  confusa  voce  del  mare  e  del 


—  337  — 

remore  della  strada  popolosa.  Al  teatrino  di  'Donna  Peppa 
si  davano  fino  a  quattro  rappresentazioni  al  giorno,  il  caffè 
di  Rosina  Petito  era  sempre  pieno  di  consumatori  e  nel 
Lume  a  Qas,  nel  Sibilo,  nel  Palazzo  di  Cristallo,  nel  Mer- 
curio e  nel  Topo  letterato,  gazzettini  del  tempo,  quei  compila- 
tori spremevano  il  miglior  succo  delle  loro  penne  per  con- 
gratularsi con  Donna  Peppa  del  profìtto  di  allegria  che  l'uma- 
nità intelligente  ricavava  dai  sanguinosi  drammi  del  suo  re- 
pertorio. Intanto  Salvatore  Petito  era  scritturato  al  San  Car- 
lino. 

Il  teatrino  di  Donna  Peppa  stava  nella  bottega  come  la 
polpa  d'  una  noce  nel  guscio  ;  gli  attori  penetravano  sul 
palcoscenico  per  una  porta  che  si  apriva  nel  palazzo  dei 
Maisto,  in  fondo,  accosto  al  casotto  del  portinaio,  e  tal- 
volta, per  mancanza  di  camerini,  si  vestivano  nel  cortile  ; 
avvenimento  singolare  per  la  gente  del  palazzo  che  dalle 
finestre  attorno  si  trovava  sciorinati  sott'  occhio  come  degli 
studii  di  nudo  del  cavalier  Mattia  Preti. 

Alle  quattro  della  sera,  nell'  inverno,  principiava  la  pri- 
ma delle  due  rappresentazioni  ;  l'altra  acconciava  il  suo  ora- 
rio alla  comodità  di  qualche  numerosa  famiglia  o  d' una 
mezza  compagnia  di  soldati,  dei  reggimenti  svizzeri  e  sici- 
liani, che  anticipavano  o  ritardavano  il  loro  intervento  se- 
condo le  faccende  loro.  L'  Oriente  riforniva  il  repertorio  ; 
smesso  quel  genere  a  San  Carlino,  gli  spettacoli  mirabo- 
lanti che  Filippo  Cammarano  avea  cavati  dalle  Mille  e  una 
notte  passavano  al  teatro  di  Donna  'Peppa  e  vi  s'  alterna- 
vano con  truci  fatti  medievali.  Il  turbante  e  il  cimiero,  un  ca- 
liffo e  un  condottiero  di  ventura,  un'  odalisca  e  una  castellana 
s'  avvicendevano  tra  uno  sfolgorio  di  vestiario  e  dei  balletti 
internazionali.  Un  posto  di    palco  si  pagava  quattro  grana, 

DI  GIACOMO.  -S.   Carlino.  22 


—  338  — 

con  due  si  stava  in  platea,  con  un  solo  in  lubbione.  Otto 
lumi  ad  olio  combattevano  con  le  tenebre  ;  Ignazio  Stru- 
milio,  primo  violino,  dirigeva  un'  orchestra  di  cinque  istro- 
menti  sepolta  nella  oscurità,  e  pure  quei  suonatori  avevano 
d'  avanti,  spiegate,  le  loro  serie  di  pentagrammi  !  Tale  il 
teatrino,  per  quasi  quarant'  anni  di  seguito.  Il  sipario  rap- 
presentava un  sacrifìcio,  ma  s*  era,  negli  ultimi  anni,  così 
logorato  che  non  più  si  raffigurava  la  vittima.  Quando  la  cas- 
setta era  piena,  l' impresana,  rannicchiata  nei  suo  «  botte- 
ghino »  accosto  alla  porta,  guardava,  per  una  finestretta  di 
quel  casotto,  in  teatro,  avvicinava  alle  labbra  uno  zufoìetto 
e  fischiava.  Per  quarant'  anni  di  seguito  la  tela  s'  è  levata 
a  quel!'  avviso,  per  quarant'  anni  i  monelli  del  lubbione, 
sgranando  ceci  e  fave  tostati,  hanno  urlato,  impazienti  : 

—  Donna  Pè,  siscate  ! 

E  fin  quasi  al  '60  la  brava  donna,  quando  quelle  solle- 
citazioni s' accompagnavano  a  una  pioggia  di  bucce,  dal 
suo  botteghino,  che  le  permetteva  di  guardar  nella  strada 
e  nel  teatro,  ha  messa  fuori  la  testa  pel  finestrino,  minac- 
ciando col  suo  gran  vocione  bonario  : 

—  Quaglih,  ca  io  chiarnmo  'o  feroce  !  (  1  ) 


III. 


La  Errico  ebbe  sette  figli  :  Gaetano,  Davide,  Pasquale, 
Antonio,  Michela,  Adelaide  e  Rosa.  1  primi  quattro  erano 
così  definiti  da  don  Salvatore  loro  padre  :  Gaetano  o'  fran- 


(1)1!  feroci  era  la  guardia  di  pubblica  sicurezza  del  tempo. 


—  339  — 

cese,  Davide  'o  gesuita,  Pasquale  /'  ingrese  e  Totonno  'o 
pazzo.  Quest'  ultimo,  ch'era  il  più  intelligente,  otteneva  dalla 
madre  tutto  quel  che  volesse,  pur  non  essendo  il  più  me- 
ritevole de'  quattro.  Ma  'Donna  T*eppa  diceva:  'E  mam- 
me so'  comme  'e  nnammurate  ;  vonno  cchiìi  bene  a  chille 
figlie  ca  He  danno  cchiu  marze  amare.  Col  marito  non  se- 
guiva il  medesimo  fatto  :  don  Salvatore  correva  appresso 
alle  serve  e  Donna  "T*eppa,  in  abiti  maschili,  lo  pedinava 
per  coglierlo  in  tenero  colloquio  e  strusciarlo,  come  diceva 
lei.   Strusciare,  in  dialetto  —  legnare,  in  lingua. 

La  famiglia  Petite,  fin  che  visse  Donna  Peppa,  non  si 
sbandò.  Sedevano  don  Salvatore  e  i  figliuoli,  nell'  ora  del 
pranzo,  a  una  sola  tavola  e  Donna  Peppa  andava  attorno 
scodellando  la  minestra  in  ogni  piatto.  Però  il  suo  tondino 
restava  vuoto.  E  allora  ella  rifaceva  il  giro  delia  tavola  e 
da  ogni  piatto  ricolmo  toglieva  una  cucchiaiata  pel  suo. 
Questa  e  lo  spendere  in  una  giornata  tutto  quanto  avesse 
guadagnato  la  sera  avanti  erano  tra  le  sue  più  vecchie  abi- 
tudini. Liberale,  benefica,  affettuosa,  ella  dava  perfino  le 
sue  vesti  per  carità,  ma  pagava,  con  grande  esattezza,  i  suoi 
trenta  ducati  al  mese,  per  la  casa  e  pel  teatro,  ai  Maisto, 
i  quali,  ogni  capodanno,  ricevevano,  assieme  al  denaro,  un 
sonetto  augurale,  scritto  da  Salvatore  Petito,  ora  in  dialetto, 
or  in  una  lingua  che  don  Salvatore  credeva  che  fosse  italiana. 

Tra  il  1 845  e  il  '4ó  nella  compagnia  del  teatrino  trovo 
Gennaro  Petito,  Pulcinella,  fratello  di  Salvatore,  Ferdinando 
Petito,  tiranno,  figlio  d'  un  fratello  di  Salvatore,  Davide  Pe- 
tito, amoroso,  e  Adelaide  Petito,  servetta,  figli  della  Errico. 
La  «  carattericta  »  si  chiama  Maria  Raffaella  Sansone,  il 
servo  sciocco  ha  nome  Filippo  Carbutti.  E  come  il  primo 
attore,  tal  Comincio,    impiegato  alla  Fabbrica    dei  tabacchi., 


—  340  — 

lo  apostrofa  spesso  con  l'aggettivo  di  furbacchiolto,  il  lub- 
bione  ha  soprannominato  Fra  Pacchiotio  il  Carbutti,  eh'  è 
l'idolo  sud.  L'orchestrina  si  compone  di  due  trombe,  d'un 
flauto,  d'  un  controbasso,  di  due  violini.  11  primo  violino  è 
Ignazio  Strumillo.  Questo  vecchietto  diventò  poi  uno  dei 
ricoverati  nell'  Albergo  dei  Poveri  ove  riparò  assieme  al  suo 
screpolato  Stradicarius,  che  negl'  intermezzi  di  Stellante  Co- 
stantino e  Bellafronte  avea  dolcemente  rapito,  con  un  a 
solo  sul  Lionello  di  Verdi,  tutto  un  uditorio  marinaresco. 

Nel  1 846  1'  antico  repertorio  non  è  mutato,  ma  ora  i 
Disertori,  gli  Eremiti  di  Spoleto,  Barbarone,  ed  Jìmulei 
Viceré  d'  Egitto,  vecchi  drammi  d'antico  successo,  sono  con- 
fortati dal  Pulcinella.  E  invano  quegli  che  proprio  era  de- 
stinato alla  gaiezza,  Antonio  Petito  —  nel  1 846  felice  di 
poter  recitare  da  primo  attore  tragico  —  tentò  d'  avviare  il 
repertorio  di  Donna  Peppa  sua  madre  per  la  strada  clas- 
sica e  romantica  delle  lacrime.  Per  un  mese  di  seguito  i 
soldati  e  i  marinari  resistettero  ad  Jlngelo  tiranno  di  Pa- 
dova, a  tJXCaria  ^udor,  a  Elnava  di  Michele  Cuciniello, 
poi  protestarono  con  una  tempesta  di  fischi,  e  Donna  Peppa 
pregò  a  mani  giunte  il  figliuolo  perchè  se  ne  andasse  con 
la  Schiano,  chi  Antonio  Petito  aveva  scritturata  in  provin- 
cia, e  con  Mauro  de  Rosa,  eh'  era  un  altro  caposcarico. 

Nel  1850  Tìonna  'Peppa,  nata  nel  3  792,  contava  cin- 
quantotto primavere,  ma,  sempre  vegeta  e  forte,  non  man- 
cava di  scendere  ogni  sera  al  teatro  e  rimanervi  fino  alla 
mezzanotte,  in  quell'  ora,  a  uno  a  uno,  il  marito  e  i  figlioli 
rincasavano  da  San  Carlino  e  dalla  Fenice,  stanchi,  rauchi, 
con  ancor  sulle  gote  e  agli  angoli  delle  palpebre  le  tracce 
del  trucco.  In  camera  da  pranzo  un'  insalata  di  indivia  li 
aspettava  nella  penombra.   Il  palazzo    Maisto  dormiva.   Per 


—  341    - 

la  via  deserta  era  la  pace  della  notte,  a  cui  di  volta  in  volta, 
si  confidava,  mormorando,  il  mare.  E  ora  attorno  alla  tavola , 
Pulcinella,  V  amoroso,  la  servetta,  l' ingenua  e  il  caratteri- 
sta tranquillamente  cenavano,  chiacchierando  e  motteggiando. 
Coi  gomiti  suila  tavola,  il  mento  nelle  palme  delle  mani, 
senza  toccar  cibo,  Donna  Peppa  ascoltava  e  sorrideva,  vera 
dea  madre,  contemplante  ia  felicità  familiare  e,  a  poco  a 
poco,  appisolandosi. 

IV. 

Ella  morì  nel  1867.  Aveva  governato  per  cinquant'  anni 
il  suo  teatro,  avea  visto  Gaetano  suo  primo  figliuolo,  mimo 
al  San  Carlo.  Salvatore  e  Totonno  Petito  Pulcinelli  a  San 
Carlino,  e  una  delle  due  figliuole  ,  la  Rosina,  maritata,  per 
sua  buona  fortuna,  fuori  dell'  arte.  Moriva  contenta,  spe- 
gnendosi, dolcemente,  a  settantacinque  anni,  nella  sua  ca- 
setta alla  ^Cannella. 

In  quel  giorno  i  Maisto  —  come  è  costume  in  questo 
nostro  caratteristico  paese  ove  si  crede  che  il  dolore  porti 
fame  —  mandarono  la  cioccolatte  ai  Petito.  Costoro  pian- 
gevano, seduti  in  gruppo  d'  avanti  al  catafalco,  sul  quale, 
pallida  come  la  cera,  col  volto  esangue  incorniciato  da 
due  coppie  di  buccoli  grigiastri,  le  mani  inanellate  e  con- 
giunte, dormiva  serenamente  Donna  Peppa,  —  in  una  veste 
di  seta  nera  —  l'ultimo  sonno  eterno.  La  stanzuccia  era  piena 
di  sole,  e  nel  sole  rosseggiavano  le  fiamme  dei  ceri  tra  un 
fumo  azzurrognolo  che  ne  saliva  a  spire  e  si  spandeva  con 
un  odor  grave  e  nauseante.  La  serva  dei  Maisto,  tacita, 
paurosa,  entrò  per  la  porta  spalancata,  depose  il  vassoio 
della  cioccolatte  sopra  una  seggiola  e  mormorando  la  frase 


-  342  — 

di  rito  :  Co'  salute  !,  se  ne  andò  in  fretta  e  furia.  Allora 
seguì  una  scena  assai  strana. 

Don  Salvatore  Petito  levò  gli  occhi,  vide  la  cioccolatte 
fumante  e  ricominciò  a  piangere  più  forte.  Poi  si  alzò  tra' 
singhiozzi,  afferrò  il  vassoio  e,  singhiozzando,  s'  avvicinò  al 
catafalco,  stese  le  braccia  e  presentando  alia  povera  morta  il 
vassoio  con  le  chicchere,  esclamò  : 

—  Peppa,  Pe'  !  Peppa  mia  !  Guarda  'o  signora  £KCaisto 
che  t'  ha  marinato  !  "7T  ha  mannata   'a  ciucculata  ! 

E  per  un  pezzo  rimase  iì,  davanti  al  catafalco,  col  vas- 
soio fra  le  mani  e  gli  occhi  sulla  moglie,  quasi  aspettando 
—  mentre  le  lacrime  cadevano  nelle  tazze  —  che  la  povera 
morta  allungasse  un  braccio  e  si  servisse  per  la  prima.... 


V. 


«  Bisogna  che  sappiate  per  la  gloria  del  nostro  teatro  na- 
zionale—  scriveva  nel  1833,  a  10  di  novembre,  don  Vin- 
cenzo Torelli  (1)  —  che  per  gli  anni  lunghi  s'  è  ritirato  dalla 
carriera  di  scrittore  di  fatti  patrii  il  signor  Filippo  Camma- 
rano,  a  cui  è  succeduto  con  onore  il  signor  Orazio  Schiano. 
Egli  non  gii  è  da  meno  per  ingegnose  invenzioni,  concetti 
pieni  di  grazie,  e  verità  somma  del  nostro  dialetto.  Gli  usi 
e  costumi  più  popolari  del  paese,  recitati  con  naturalezza, 
spontaneità  e  belli  modi  sono  per  gli  stranieri,  che  pare  sieno 
stanziati  in  quel  Teatro,  il  più  gradito  passatempo.  Essi  as- 
sicurano che  il  signor    Schiano  è  un  degno  successore  del 


(1)   L'  Omnibus,    Giornale,   anno   I,    1833,   Bibl.   Naz. 


_  343  — 

signor  Cammarano  e  quesf  ultimo,  in  proposito  della  com- 
media /  castelli  in  aria,  gli  ha  scritto  per  complimento  un 
sonetto  che  finisce  :  Orazio  sol  contro  Toscana  tutta.  Intanto 
Lo  muorto  che  parla,  Li  quatto  de  lo  -Jfàuolo  sono  le  com- 
medie di  lui  più  recenti  e  più  applaudite.  Ne  crediate  che 
quegli  attori  dicano  solamente  in  prosa  :  essi  nelle  occasioni 
cantano,  e  pezzi  forti,  duetti  e  terzetti,  di  modochè  l'altra 
sera,  per  onorare  la  venuta  in  teatro  della  signora  Maìibran 
e  Lablache  cantarono  il  terzetto  del  Ventaglio  nell'  opera 
Li  appassionate  de  lo  Ventaglio.  Madama  Maìibran  notò 
che  non  ostante  che  il  pezzo  fosse  eseguito  da  cantanti  di 
prosa  il  tempo  non  era  perduto.  » 

Più  avanti  (1)  V  Omnibus  medesimo  annunzia: 
«  Ogni  di  più  si  dimentica  il  congedo  preso  dal  signor 
Cammarano,  da  che  il  suo  degno  successore  signor  Schiano 
ha  preso  il  suo  luogo.  La  commedia  ultima  T)oie  figliole 
malate  senza  malatia  lo  mostra  abbastanza.  Fra  giorni  si 
darà  altra  sua  cosa  intitolata  La  chiusarana  de  li  ciefare.» 
Era  stato  Orazio  Schiano  quegli  che  aveva  pescato  al 
teatrino  del  Largo  delle  Pigne  il  Pulcinella  Salvatore  Pe- 
rito e  lo  avea  fatto  entrare  nella  compagnia  del  San  Carlino. 
Ne  faceva  parte  anche  lui  fin  dal  1815:  era  nato  a  Na- 
poli (2)  nel  1761,  da  Filippo  e  Teresa  Cafìero,  aveva  stu- 
diato, da  prima,  teologia  in  seminario,  poi  che  il  padre  de- 
siderava che  diventasse  prete,  poi  medicina  e  chirurgia.  Fi- 
nalmente s'  era  dato,  certo  per  bisogno,  a  far  l'attore,  co- 
minciando a  recitare  nel    1799,  a  trentotto  anni.   La  rivolu- 


(i)  L'  Omnibus,  4  gennaio    1834. 

(2)  Vedi   MARTORANA.  -  11  Marnili  lo   dice  leccese. 


—  344  — 

zione  lo  allontanò  dalla  patria  ;  lo  Schiano  peregrinò  quat- 
tro o  cinque  anni  per  le  provincie  della  Sicilia  e  per  lo 
Stato  Romano  e  campò  la  vita  come  potette,  seguitando  a 
recitare.  Tornato  a  Napoli  fu  accolto  dal  Luzi  al  San  Car- 
lino, ove  recitava  da  buffo  chiatto.  Nel  1831  esordi  in  qua- 
lità di  commediografo,  con  Nu  tresoro  mmiezo  a  li  muorte. 
Del  teatro  avea  pratica  ;  era  stato  anche  suggeritore  e  gli 
era  familiare  la  scena  ;  così  le  sue  prime  commedie,  tra  le 
quali  La  taverna  de  dTìiConzh  Arena,  Lo  muoricene  parla, 
scrive  e  cammina,  La  fattucchiara  de  lo  Covone,  La  Ta- 
verna de  la  baronessa,  Quatto  cane  attuorno  a  n'uosso,  La 
Chiusarana  de  li  ciefare,  U  Jlmmolafuorfece,  che  ha  un 
terzo  atto  bellissimo,  attirarono  tutte  1'  attenzione  del  publico. 
Oltre  alla  dimestichezza  che  avea  lo  Schiano  del  teatro  egli 
possedeva  il  segreto  per  tenere,  a  tempo,  sospesi  gli  animi 
degli  spettatori  in  momenti  drammatici,  e,  quel  eh'  era  più, 
una  perfetta  conoscenza  di  autori  stranieri,  con  le  opere  dei 
quali,  comiche  o  drammatiche,  rifondeva  sempre  il  suo  re- 
pertorio. Ma  il  plagio  era  accorto  ;  que'  furti  erano  com- 
messi con  tatto  così  fine,  con  gusto  e  con  avvedutezza  così 
grandi  da  lasciar  completamente  in  ombra  ì  derubati.  La 
commedia  di  Schiano,  avviata,  in  sulle  prime,  sulle  orme 
del  Cammarano  dell'  ultimo  tempo ,  mutò,  poco  appresso 
poi  che  vi  penetrarono  Kotzebue,  Nota  e  Federici  che  lo 
Schiano  svaligiava  a  mano  a  mano.  Vi  si  mescolò  il  serio 
al  buffonesco,  i  caratteri  comici  e  le  maschere  vi  diven- 
tarono personaggi  episodiali,  vi  si  mutò,  infine,  in  dramma- 
tica, da  comica  che  v'  era  stata,  la  favola.  La  intenzione 
era  sempre  morale  :  trionfo  del  bene,  punizione  del  male  : 
e  così  quel  benedetto  Cerlone,  che  avea  gonfiato  1'  uno  e 
1'  altra    pel  suo    teatro  paradossale,    pigliava  la  via  del  Scn 


—  345  — 

Carlino,  dopo  tanti  anni,  un'  altra  volta,  a  braccetto  di  Schia- 
no.  Comunque,  il  teatrino  era  pieno  ogni  sera  e  Silvio  Maria 
Luzi  ritrovava,  ogni  sera,  colma  la  sua  cassetta  nel  botte- 
ghino. I  giornali  s'  occupavano  con  molta  compiacenza  delle 
fortunate  vicende  del  San  Carlino  e  1'  impresario  otteneva 
continuamente,  senza  spese  di  sorta,  tanta  buona  reclame. 

«  ....  Qui  — -  scriveva  il  Torelli  nell'  Omnibus,  parlando 
del  teatro  di  Piazza  del  Castello  —  fin  dacché  1'  alba  inco- 
mincia a  luccicare  è  uno  svoltolarsi  di  ampii  cartoni,  ed  un 
ingombrare  tutto  la  prospettiva  del  teatro. —  Qui  vedi  le  ge- 
ste  d'  un  falcone  di  mare,  qui  vedi  una  diligenza  che  tra- 
balla, e  un  pacchebotto  a  vapore  che  sta  per  perdersi,  fis- 
sare F  attenzione  d'innumerevole  calca.  —  Il  cortese  e  pan- 
ciuto dispensator  di  viglietti  apre  intanto  il  suo  piccolo  Bu- 
reau ed  ecco  succedersi  a  gara  il  maestro  di  casa,  1'  amante, 
il  marito  che  vengono  a  procacciare  il  palchetto  per  la  da- 
ma, per  1'  innamorata  e  per  la  moglie.  I  palchetti  sono  ben- 
tosto finiti.  La  sera  si  avvicina  e  già  le  più  grandi  carrozze 
si  fermano  alla  porta  del  Teatro  :  una  turba  di  giovani  le 
circonda  :  tutti  vogliono  squadrar  le  belle  e  le  brutte  che 
onoreranno  la  sera  lo  spettacolo....  » 

Diventato  di  moda  il  San  Carlino  faceva  ricordare  i  pri- 
missimi suoi  tempi  felici,  quando  1*  aristocrazia  lo  frequen- 
tava e  una  folla  di  portantine  aspettava  1'  uscita  delle  si- 
gnore da  quell'  antro  nobilizzato.  Ad  Orazio  Schiano  s'erano 
in  questo,  accompagnati  altri  scrittori  di  commedie,  uno  dei 
quali  fu  il  suggeritore  Francesco  de  Petris,  ex  tenente  di 
dogana,  nato  a  Napoli  nel  1770.  Il  de  Petris,  dal  1815 
fino  al  1 830,  scrisse  pel  San  Carlino  e  per  altri  teatrini  po- 
polari una  quantità  di  stupidissime  farse.  Nel  1 830,  preso 
da  non  so  qual  religioso  furore,  se  n'  andò  a    far  1'  eremita 


—  346  — 

sul  monte  di  Somma.  Di  là  scese  a  Napoli  per  tornare  alla 
sua  buca  da  suggeritore  al  San  Carlino  :  finalmente,  scrii- 
turato  con  una  compagnia  di  comici,  seguì  un  impresario  di 
ventura  a  Campobasso,  ove  nel  ]  830  —  aveva  sessantanove 
anni — morì,  avvelenato  da'  funghi. 

Michele  Cappelli,  Ferdinando  Coscia,  Raffaele  Santeìia 
furono  gli  altri  commediografi  sancarlinescrn  del  periodo  di 
Schiano.  il  Cappelli,  che  si  modellava  sulla  semplicità  del 
Cammarano,  dette  ai  repertorio  dei  teatrino  :  <JXCamozio  de 
Pozzulo,  La  primma  asciufa  de  na  vecchia  zita,  Cinco  ma- 
tremmonie  a  tJ&orveglino.  Le  due  notti  di  un  diavolo  ladro. 
Ma  nessuna  di  queste  commedie  tenne  tre  volte  di  seguito 
il  cartello.  Del  Coscia,  avvocato  napolitano,  le  commedie 
più  conosciute  sono  :  Lo  reluorno  da  la  pesca  de  li  cornile, 
La  strada  de  lo  Baglivo  a  rommore.  Di  Raffaele  Santeìia 
si  ricordano  :  No  pazzo  nnammorato  de  no  pupazzo,  Li  ire 
guappe  ammartenate,  Doie  cammere  affittate  a  quatto  per- 
zune,  riduzioni  di  commedie  e  di  farse  francesi  che  il  San- 
teìia, dotato  di  mediocre  conoscenza  scenica  e  non  digiuno 
di  lettere,  rimaneggiava  con  garbo  e  adattava  alla  napole- 
tanità. Di  lui  pur  so  questo,  ch'era  figlio  di  Gennaro  e  di 
Maria  Rosa  Brunetti  —  che  nacque  a  Napoli  nel  1787,  che 
vi  morì  nel  novembre  del    3  854. 


VI. 


Nel  1835  la  compagnia  del  San  Carlino  era  composta 
di  quindici  comici  ognuno  de'  quali  sosteneva  un  carattere. 
C*  erano  :  Maddalena  Santeìia  (amorosa),  la  De  Gennaro 
(seconda  donna),  Giuseppina  Frabboni,  moglie,  in  appresso, 


—  347  — 

di  Gaetano  Petito  (servetta),  la  De  Simone  e  la  Catalano 
(prime  donne),  Raffaele  Santelia  (guappo),  De  Liììis  (amo- 
roso e  primo  attore),  Tavassi  (Biscegliese),  Penco,  Gaetano 
Petito,  Ceolini  (buffi),  Pasquale  Altavilla  (carattere  sciocco), 
Salvatore  Petito  ('Pulcinella),  Altigonda  Colli  (caratterista), 
Michele  Manzi  (Tartaglia).  Sul  cadere  dell'anno  1835  Sil- 
vio Maria  Luzi  aveva  bisogno  di  un  amoroso.  Recitava  ap- 
punto da  amoroso  al  teatro  di  San  Severino  il  giovane  Luig  i 
Aliprandi,  modenese,  e  vi  otteneva  grande  successo  ogni 
sera.  Andarono  a  sentirlo  Raffaele  Santelia  e  il  Tavassi, 
ne  parlarono  a  Luzi,  lo  invogliarono  a  prender  1'  Aliprandi 
in  compagnia.  De  Lillis,  in  quel  tempo,  era  compensato  con 
diciassette  ducati  al  mese,  Luzi  ne  offre  diciotto  all'  Ali- 
prandi,  questi  accetta  e  firma  la  sua  scrittura  per  un  anno, 
con  diritto  di  riconferma  per  un  altro.  Esordisce  nella  com- 
media Flaminio  pazzo  per  amore  e  rimane  in  compagnia 
fino  al  1837.  Poi  va  al  Dauno  di  Foggia  e  vi  si  trattiene 
un  anno.  Tornato  da  Foggia  è  scritturato  al  Fiorentini.  Ai 
San  Carlino  torna  Andrea  Natale  in  qualità  d'  amoroso  e 
anche  vi  prendono  scrittura  Raffaele  Cammarano  e  Achille 
Lisgara,  da  generici,  Checchina  Zampa,  da  prima  donna, 
Carolina  Giordano  e  Raffaele  Negri.  Morta  Aìtigonda  Colli 
occupa  il  posto  di  lei  Serafìna  Zampa. 


—  348 


VII. 


Siamo  al  1842.  Nell'aprile  è  morto  Orazio  Schiano;  nel 
29  dicembre  di  quest'anno  muove  Filippo  Cammarano.  Qual- 
che mese  avanti  d' imprendere  1'  ultimo  suo  viaggio  quel 
buon  uomo  avea  scritto  : 

Si  lo  munno  se  venne  pe  tre  calle 
Non  me  pozzo  accatta  no  purtuvallo. 
Lo  dicette  Casaccia  a  Chiaravallo, 
Astronomo  primario  e  gran  cerviello  ; 
Cammarano  !  Tu  muore  povenèllo  !... 

Silvio  Maria  Luzi,  cuor  d' oro,  lo  aveva,  tuttavia,  sovve- 
nuto fino  agli  ultimi  giorni  e  il  povero  don  Filippo,  che  non 
era  un  ingrato,  fece  a  tempo  per  celebrare  nel  suo  libro  di 
versi  1'  amica  magnanimità  del  suo  impresario  : 

Si  n'  avesse  na  gioia  de  Mpressano 

Che  m'  ha  dato  e  sta  danno  refrigerio, 

Co  assegnarme  de  core  lo  salano 

Galhana  addavero  lo  streveno. 
Quanta  vigilie  fora  Calannano 

Starria  facenno,  o  a  quacche  monasteri© 

Cercarna  co  no  piatto  a  lo  Vicario 

Menesta  pe  sazia  lo  vesenterio. 
Pe  isso  non  m'  abbence  Io  delirio, 

Ne  m'  hanno  nchiuso  a  quacche  Reclusorio, 

E  non  dormo  a  no  vascio  o  a  no  togurio. 
N'  antico  Grieco  scrivania  n'  papirio  : 

«  Co  li  figlie  si  magno  a  refettorio 

«  Quanto  bene  desidere  t' aurio  !  > 


—  349  — 

In  un  altro  sonetto  soggiunge  : 

Quanno  denare  faie  fasane  io  pappo 
E  tengo  a  lo  palato  lo  geleppe, 
Quanno  ne'   è  poca  gente  io  me  ne  scappo 
E  magnarna  p'  arraggia  porzi  streppe. 

Li  subarterne  a  uno  a  uno  acchiappo. 
Sia  Sgarrone,   sia  Fonzo  o  sia  Giuseppe, 
E  nce  scialo  spelannole  lo  tappo 
Nzentenno  chelle  sere  che  faie  zeppe. 

Co  fa  bene  a  lo  povero  Felippo 
Mente  campe  aie  da  ire  de  galoppo 
Co  fa  denare  assaie  e  senza  ntuppo. 

Puozzo  ave  lo  Triato  sempe  zippo, 

Puozze  sempe  la  mmidia  (e  manco  è  troppo) 
Mpesa  vederla  a  lo  chiù  luongo  chiappo  ! 

Fra  tanto  gli  amici,  gli  ammiratori  antichi,  lo  stesso  Luzi 
chiedevano  ancora  qualche  commedia  al  buon  vecchio.  E 
gli  anni  ?  —  rispondeva  lui,  malinconicamente  —  E  i  malanni? 
E  la  mia  memoria  perduta  ?  E  finita,  amici  miei,  sento  di 
non  esser  più  buono  a  metter  sulla  carta,  l' una  appresso  al- 
l' altra,  due  righe  sole.   Una  nuova  commedia  ?  Ahimé  !.... 

Quanno  avea  de  cervella  na  catasta 

Mme  parea  de  na  quaglia  fa  doie  morza, 
Mo  n'  anno  a  fa  doie  scene  non  m'  avasta  !.., 

E  fu  in  questo  rimpianto,  in  questa  malinconia  che  il 
poveruomo  si  spense  ,  senza  ,  tuttavia  ,  nessuno  invidiare, 
lieto  della  fortuna  dei  suoi  successori  come  della  propria 
fortuna.  La  sua  bara  passò  d'avanti  al  teatrino,  e  parecchi 
dei  comici  che  l'accompagnavano  piansero  lacrime  vere;  da 
un  pezzo  avevano  perduto  il  compagno  di  scena,   ora  per- 


—  350  - 

devano  un  amico  affettuoso  la  cui  benigna  indole,  onesta- 
mente scherzevole,  s'era  rispecchiata  in  ogni  sua  produzione. 
Il  feretro  fu  seguito  da  uomini  di  lettere,  da  artisti  d'ogni 
genere,  dagli  stessi  fratelli  del  povero  Filippo,  i  quali  non 
molto  gli  sopravvissero.  E  il  teatro  San  Carlino  rimase 
chiuso  per  tre  giorni. 

Filippo  Cammarano  era  nato,  com'egli  stesso  v'ha  detto, 
a  Palermo.  La  sua  fede  di  battesimo,  della  quale  ebbi  co- 
pia da  Palermo  grazie  alla  cortesia  dell'  amico  G.  Ragusa 
Moleti,  dice  :  «  Oggi  3 1  agosto,  il  reverendo  sacerdote  An- 
tonio Raineri  ha  tenuto  al  fonte  battesimale  un  bambino 
nato  ieri  dai  coniugi  Vincenzo  Camerano  (sic)  e  Paola  Sa- 
puppo.  Al  bambino  vennero  posti  i  nomi  di  Filippo,  Gio- 
vanni, Giacobbe,  Domenico,  Giuseppe.  Presenti  l' illustris- 
simo don  Filippo  Antonio  Amato  e  donna  Giovanna  A- 
mato-Moncada,  principi  della  Saìara.  E  per  essi  don  Do- 
menico Perrone  e  donna  Paola  Prestino,  per  virtù  di  pro- 
cura fatta  con  atto  del  notaio  don  Gaetano  Fazio  ». 

Moglie  di  Filippo  Cammarano  fu  Rosalia  Vitellarc,  dalla 
quaie  egli  ebbe  otto  figliuoli:  Rosalinda,  che  sposò  l'attore 
Raffaele  Negri  e  fu  lei  stessa  attrice,  Olimpia,  Alessandro, 
Amalia,  Federico,  Ludovico,  Vincenza,  Clementina.  Queste 
due  ultime  si  dettero  pur  alla  scena  ;  Vincenza  fu  attrice 
drammatica,  Clementina,  che  sposò  il  Tremori,  divenne  ot- 
tima comica.  La  Rosalinda  fu  madre  delia  celebre  madre 
nobile  Adelaide  Negri-Falconi. 

Rosalia  Vitellaio  cantò,  al  San  Carlo  ed  al  Nuovo,  fin 
dal  1791,  nelle  opere  di  Cimarosa,  di  Tritto,  di  Fioravanti, 
di  Paisiello,  di  Piccinni,  del  Guglielmi  ;  trovo  il  nome  di 
lei  citato  fino  al  1898,  anno  in  cui  la  Rosalia  si  produce 
da  Palmira  nell'Idolo  Cinese  di  G.  B.  Lorenzi,  musicato 
da  Pietro  Generali. 


—  351   — 

Caterina  Cammarano,  sorella  di  Filippo,  cantò  pur  al 
Nuovo.  Nel  1807  sostiene  la  parte  di  Lisetta  nella  Bella 
Pescatrice  di  Saverio  Zini,  musicata  da!  Guglielmi.  Uopo 
quest'anno  non  appare  più  in  elenchi  d'attori.  Michele  Cam- 
marano, fratello  di  Filippo,  cantò,  nel  1 797,  al  Nuovo,  in 
tre  spartiti,  due  de'  quali  di  Giuseppe  Mosca,  Y  altro  di 
Carlo  Guglielmi.  Dovette  abbandonare  ii  teatro  poi  che  im- 
provvisamente perdette  la  bella  sua  voce  di  tenore. 

Filippo  Cammarano  non  lasciò  ai  suoi  figliuoli  alcuna  ere- 
dità, in  fuori  d'un  nome  intemerato.  Rimasero  di  lui  il  de- 
siderio in  quanti  lo  avevano  conosciuto,  la  lode  in  tutti  : 
n'ebbe  il  San  Carlino  un  dovizioso  repertorio,  l'impresario 
un  cumulo  di  lucri.  Nulla  serbava  da  tanto  suo  sudore  il  po- 
vero vecchio;  morì  poverissimo.  Con  deliberazione  spontanea 
il  ministro  Santangelo  avea,  tuttavia,  provveduto  agli  ultimi 
anni  di  quell'infelice,  assegnandogli  una  pensione  mensile 
che,  se  non  altro,  non  gli  lasciava  mancare  la  minestra. 
Benedetta  generosità,  la  quale  oggi  —  è  triste  dirlo  —  non 
troverebbe  imitatori. 


Vili. 


Nello  stesso  anno  1842,  in  gennaio,  capitò  al  San  Car- 
lino una  compagnia  siciliana  della  quale  faceva  parte  Giu- 
seppe Colombo,  attore  dolalo  d' impareggiabile  vis  comica 
nella  maschera  peloritana  dei  Pasquino.  Lo  precorreva  una 
grande  celebrità,  e  di  lui,  protagonista  nelle  due  commedie 
di  sua  invenzione  'Pasquino  lustrascarpe  e  Ladro  in  cam- 
pagna e  galantuomo  in  città,  si  diceva  mirabilia.  Egli,  con 
una  immutabile  gravità  piena  d'umorismo,  con  abilissimo  e 


—  352  - 

rapido  trucco,  con  un  portamento  e  un  fare  che,  al  suo  solo 
apparire,  destavano  1'  ilarità  più  grande,  raggiungeva,  con 
pochissimi  mezzi,   l'effetto  massimo  e  immediato. 

Nell'aprile  del  '42  scriveva  di  lui,  nell'  Omnibus  il  To- 
relli :  «  Pasquino  è  l'onore  del  nostro  teatro  minimo,  è  l'og- 
getto di  tutti  i  discorsi,  di  tutte  le  curiosità.  Tutti  lo  tro- 
vano sì  naturale  che  gli  si  dimandò  :  Se  siete  attore  perfetto 
siate  una  volta  esagerato.  Egli  rispose:  Non  lo  so  fare.  Così 
il  moro  nel  Fieschi  di  Chiller  (sic)  risponde  :  Comandatemi 
in  tutto  tranne  che  nelle  cose  oneste.  In  breve  questo  Pa- 
squino e  un  uomo  tra'  45  anni,  io  credo,  corto,  grassotto, 
con  viso,  come  si  direbbe,  quadrato,  parlante,  di  color  bruno, 
occhi  vivissimi.  Gesto  poco  e  vero,  andamento  franco,  modo 
di  dire  piano  e  giusto,  non  contorsioni,  non  sghignazzi,  non 
fatica,  non  affanno  e  non  mai  inceppamento  alcuno.  Per 
sentire  questa  meraviglia,  come  è  uso  di  tutti  i  casotti  dove 
per  ogni  mostro  di  più  accrescono  un  grano,  l' impresario 
ha  cresciuto  il  prezzo,  accresciute  ha  pure  le  sue  preten- 
sioni quel  grasso  bullettinaio,  o  ti  ricaccia  tra'  scalzacani 
degli  ultimi  posti,  e  così  un  biglietto  a  San  Carlino  viene 
nientemeno  tre  carlini,  tra  prima  spesa,  aumento  di  biglietto, 
regalia  all'uomo  grasso,  cuscino  per  chi  vuol  star  duro  e  per 
giunta:   acqua  ne  condannate  ?  (])  » 

E,  più  tardi,  un  altro  giornale  (2)  : 

«  Quando  nel  1842  per  la  prima  volta  su  le  scene  del 
nostro  teatro  nazionale  di  San  Carlino  recitò  la  compagnia 
siciliana,   sentimmo  Giuseppe  Colombo,   e  sin  d'allora  scor- 


(1)  Allude  aìi'acquafrescaio  che,  negli  intermezzi,  faceva  il  giro  della  platea 

(2)  //  Messaggiero  della  Moda,  giornale  per  «  la  scelta  Società  ». 


—  353  — 

gemmo  in  lui  doti  bastevoh  per  noverarlo  fra  gli  artisti,  vai 
dire  spontaneità  e  verità  nei  caratteri  che  rappresentava  ;  e 
meglio  potemmo  giudicar  della  sua  valentia  nell'arte  comica 
quando  nel  1  847  venne  nuovamente  in  Napoli.  Noi  lo  sen- 
timmo più  volte  nel  Cortile  degli  Aragonesi,  nei  Due  Pa- 
squini  simili,  e  sempre  più  avemmo  agio  di  scorgere  in  lui 
dei  pregi  a  pochi  largiti  dalla  natura.  E  certo  ognuno  ri- 
corderà che,  nelle  sere  in  cui  recitava  Colombo,  il  teatro 
era  pieno  zeppo  ed  il  pubblico  rideva  a  più  non  posso  ed 
applaudiva  all'artista  siciliano  ;  e  che  quando  egli  parti  di 
Napoli  lasciò  gran  desiderio  di  sé  e  fama  di  valente  nel- 
l'arce sua.  Però,  ora  che  egli  è  ritornato  fra  noi  crediamo 
di  far  cosa  grata  ai  nostri  associati  pubblicando  il  ritratto 
di  lui  CO  ne^  nostro  giornale,  illustrandolo  con  un  brevissi- 
mo cenno  biografico. 

Giuseppe  Colombo  nacque  in  Castronuovo,  nel  1  783,  da 
onesti  ed  agiati  parenti.  Per  molti  rovesci  di  fortuna  si  vide 
costretto  nel  1811,  per  campare  la  vita  insieme  a  sua  moglie 
ed  ai  suoi  figlioletti,  di  scritturarsi  nella  compagnia  comica 
diretta  da  un  tal  Bonajuto,  il  quale,  quantunque  sapesse  che 
Giuseppe  non  avea  mai  recitato,  pure  volentieri  lo  scritturò, 
scorgendo  nel  giovane  buone  disposizioni  e  desiderio  arden- 
tissimo  di  fama. 

Colombo  esordì  in  Partinico,  paese  poco  distante  da  Pa- 
lermo, nel  Bugiardo  di  Goldoni  ;  gli  applausi,  gli  evviva 
indirizzati  quella  sera  dal  publico  al  giovane  esordiente  giun- 
sero sino  all'entusiasmo,  e  lo  stesso    Marchese    della  Gran 


(!)  Che   è  quello  ch'io  ho  riprodotto   nella   prima   edizione   illustrata — ed 
esaurita  —  di  questo  libro. 

D!  GIACOMO.  -S.  Carlino.  23 


—  354  — 

Montagna  che  dapprima  non  voleva  consentire  che  Colombo 
esordisse  nel  teatro  di  cui  egli  era  deputato,  credendolo 
ignaro  dell'arte,  restò  talmente  preso  d'ammirazione  per  la  na- 
turalezza e  per  la  grazia  con  cui  il  giovane  recitò,  che  volle 
che  ivi  rimanesse  scritturato  per  molto  numero  di  recite. 

D'allora  in  poi  Giuseppe  Colombo  ha  percorso  sempre 
con  successo  maggiore  i  teatri  tutti  di  Sicilia,  e  la  sua  lunga 
cannerà  teatrale  non  è  stata  che  un  continuo  avvicendarsi 
di  trionfi  ». 

Il  Colombo,  che  fece,  dal  1842  al  1843,  tanta  bella  pruo 
va  al  San  Carlino,  non  vi  rimase,  dunque,  la  prima  volta 
se  non  per  un  anno  solo.  Tornandovi,  nel  luglio  del  1847, 
lo  ritrovava  nella  medesima  buona  fortuna  in  cui  l'avea  la- 
sciato ;  vi  ritrovava  Tavassi,  Salvatore  Petito,  Tremori,  Li- 
sgara,  la  caratterista  Serafina  Zampa,  la  Frabboni,  le  tre  so- 
relle Negri,  il  De  Lillis,  Pasquale  Altavilla  e  Raffaele  San- 
telia.  Ancora  si  rappresentavano  qualche  commedia  di  Carri - 
marano  e  qualche  altra  dello  Schiano,  per  contentare  i  rima- 
sugli d'una  vecchia  generazione,  che  si  trascinavano  ancora 
ai  teatrino  di  Piazza  del  Castello.  Ma  fra  tanto,  come  Cam- 
marano,  come  Schiano,  come  De  Petris,  come  Santelia, 
Pasquale  Altavilla,  da  attore,  s'  era  mutato  in  autore.  Di 
costui,  che  conquistò,  a  mano  a  mano,  un  posto  glorioso 
accanto  a'  commediografi  sancarlineschi  i  quali  lo  avevano 
preceduto,  e  di  Giacomo  Marulli,  che  gli  tenne  bordone, 
dirà  il  capitolo  che  segue. 


—  355 


IX. 


Nel  1848  Siìvio  Maria  Luzi  rifece  tutta  la  compagnia 
così  detta  nazionale.  Il  teatro  fu  riaperto  il  26  marzo  e  il 
cartello  annunziò  questi  nomi  : 

Donne  —  Serafina  Zampa,  Silvia  Crispo  De  Cenzo,  Giu- 
seppina Frabboni,  Vincenza  Tremori,  Rosina  Agolini,  Ma- 
netta De  Lillis. 

Uomini  —  Giuseppe  Colombo,  Salvatore  Petito,  Pasquale 
Altavilla,  Giovanni  De  Lillis,  Giuseppe  Crispo,  Raffaele 
Santelia,  Raffaele  Mancini,  Raffaele  Cammarano,  Achille 
Lisgara,  Eustachio  Tremori,  Giovanni  Guttier,  Vincenzo 
Zottola. 

Ragazzi  —  Sofia  Moretti,  Pasquale  Petito. 

Un  piccolo  giornale  del  tempo  (I)  così  parla  della  pri- 
ma rappresentazione  di  questa  nuova  compagnia  : 

«  Teatro  San  Carlino  —  La  sera  dei  26  si  è  ria- 
perto il  nostro  teatro  nazionale.  Noi  non  sapremmo  conve- 
nientemente dire  con  quanti  segni  di  gioia  è  stata  accolta 
la  sua  numerosa  compagnia,  quanti  applausi  si  ha  avuto 
ognuno  dei  bravi  attori,  che  per  lo  passato  ha  formato  la 
delizia  del  pubblico  napoletano.  Quegli  applausi  sono  stati 
la  chiara  espressione  del  desiderio  che  nei  napoletani  era 
di  riveder  quegli  attori  in  quel  teatro  e  non  altrove.  Infatti 
portate  sopra  altre  scene,  che  non  sieno  quelle  di  San  Car- 


(1)  //  Messaggero  della  Moda,    1848. 


lino,  questi  attori,  ed  essi  perderanno  quel  prestigio  che  ivi 
li  circonda  ;  ìa  compagnia  nazionale  e  San  Carlino  non 
possono  andare  ì'una  disgiunta  dall'altro.  Questo  è  vero,  è 
innegabile  e  pure  noi  non  sapremmo  darne  la  ragione:  alle 
volte  ciò  che  si  sente  non  può  definirsi. 

Noi  abbiamo,  insieme  col  pubblico,  applaudito  anche  con 
più  soddisfazione  al  bravo  Altavilla,  a  questo  attore  valen- 
tissimo nelle  parti  di  carattere;  che  con  le  sue  grazie,  con 
i  suoi  epigrammi  ci  muove  al  riso  e  fa  dimenticarci  delia 
tristezza  di  che  è  circondata  la  vita  ;  al  valente  Salvatore 
Petito,  che  sotto  le  spoglie  del  Pulcinella,  ha  l'arte  di  pia- 
cere (cosa  difficile)  senza  avvalersi  di  tutto  quello  scurrile 
che  pei  volgari  attori  è  indispensabile,  anzi  sola  fonte  di 
ridicolo  che  offre  questa  maschera  ;  ed  alla  graziosissima 
caratterista  Serafino  Zampa,  la  quale  con  buon  volere  e 
perseveranza  è  quasi  giunta  a  farci  dimenticare  l'inarrivabile 
Altigonda  Colli. 

Tutti  gli  attori  della  compagnia  nazionale  recitarono  quella 
sera.  Tra  essi  ve  n'  ha  dei  nuovi  pel  pubblico  di  S.  Car- 
lino; noi  ci  serbiamo  parlarne  quando  li  avremo  meglio  giu- 
dicati ;  poiché  non  può  darsi  un  esatto  giudizio  d'un  attore 
sentendolo    recitare   una  sola  volta  ed  in  una  commedia  » . 

Qualche  settimana  dopo,   soggiunge  : 

«  TEATRO  S.  CARLINO.  —  Ora  vogliamo  dire  qualche 
cosa  intorno  ai  nuovi  attori  della  compagnia  nazionale.  Giu- 
seppe Colombo  (Pasquino)  è  un  ottimo  acquisto  per  questo 
teatro.  Nei  abbiamo  già  discorso  dei  suoi  pregi  artistici  nel 
cenno  biografico  che  accompagna  il  ritratto  pubblicato  nel 
n.  3  di  questo  giornale,  però  diciamo  soltanto  eh'  egli  ha 
supplito  il  bu#o  Biscegìiese,  il  quale,  quantunque  fosse  ot- 
timo attore  quanto  Colombo,    pure  perchè    vecchio  e  poco 


—  357  — 

agibile  non  poteva  più  fare  gì'  interessi  deìi'  impresario,  ne 
soddisfare  ali'  esigenza  dei  pubblico.  Raffaele  Mancini  è 
venuto  in  luogo  di  Ignazio  Rosati.  Chi  ha  inteso  1'  uno  e 
l'altro  dei  due  attori  potrà  facilmente  giudicare  del  guada- 
gno che  si  è  fatto  in  questo  cambio.  Giuseppe  Crispo  è  un 
buon  attore  :  suoi  pregi  sono  naturalezza  e  spontaneità.  Vo- 
gliamo credere  che  in  breve  egli  non  lascerà  mente  a  de- 
siderare rappresentando  amorosi  che  parlano  il  toscano.  Sil- 
via  Crispo  de  Cenzo  è  una  graziosa  donnetta  valente  egual- 
mente nel  napoletano  come  nel  toscano.  La  coppia  Crispo 
è  venuta  in  luogo  della  coppia  Natale.  Da  quanto  abbia- 
mo detto  chiaramente  si  scorge  che  la  compagnia  nazionale, 
ritornando  su  le  scene  di  S.  Carlino,  che  per  qualche  tem- 
po ha  abbandonato,  è  di  molto,  ma  di  molto  migliorata  » . 


X. 


Aggiungo  qualche  parola  intorno  a  codesti  attori. 

La  caratterista  Altigonda  Colli,  morta  intorno  ai  '40, 
avea  lasciato  il  suo  posto  a  Serafina  Zampa,  il  cui  nome, 
a  poco  a  poco,  eguagliò,  se  non  superò,  quel  della  Colli. 
Serafina  Zampa  aveva  cominciato  a  recitar  da  prima  donna 
tra  la  gente  di  casa  sua  ;  la  sua  famiglia  componeva  una 
compagnia  comico-drammatica  che,  assai  spesso,  ne  teatri 
d'Italia  si  dava  il  cambio  con  la  famiglia  Taddei.  Quando 
Serafina  Zampa,  che  allora  chiamavano  la  fata  Serafinetta, 
fu  costretta  dalla  vecchiaia  de'  genitori,  che  non  potevano 
recitar  più,  e  dall'allontanamento  dalla  casa  del  fratello  Tom- 
maso, che  pigliava  moglie,  a  procacciarsi,  da  sola,  il  pane, 
entrò    nella  compagnia    Fabbrichesi.    Il  direttore    di  questa 


—  358  — 

compagnia,  Salvatore  Fabbrichesi,  aveva  recitato,  nel  1819, 
al  Fiorentini,  con  grande  e  meritato  successo. 

Or  la  moglie  e  la  figliuola  di  lui,  gelose  della  Zampa, 
che  era  stata  scritturata  come  prima  donna  giovane,  la  ves- 
sarono in  tale  maniera  da  costringerla  a  non  rinnovare  il 
contratto.  La  Serafma  s'avviò  a  Napoli  e  giuntavi  ricomin- 
ciò a  recitare,  con  lo  stesso  ruolo,  in  varii  teatri,  ma  senza 
guadagnare,  senza  essere  apprezzata  come  davvero  meritasse. 
Infine  accadde  a  lei,  press'  a  poco,  quel  eh'  era  seguito  a 
Salvatore  Petito  :  un  bel  giorno  Luzi  le  propose  d'  entrare 
nella  compagnia  del  San  Carlino.  Era  morta  la  Colli  e  l'im- 
presario abbisognava  d'una  carallerisia.  La  Zampa  accettò 
e  con  lei  prese  scrittura  allo  stesso  San  Carlino,  da  prima 
donna,  la  sorella  Checchina,  che  Andrea  Natale  poi  tolse 
in  moglie  e  che  era  un'  avvenente  e  piacevolissima  attrice. 

Come  caratterista  nel  teatro  dialettale  napoletano  la  Sc- 
ranna ebbe  tutti  i  numeri,  anche  quel  della  grassezza,  re- 
quisito quasi  necessario  per  la  gastronomia  degli  occhi  dei 
pubhco.  E  per  publica  voce  è  pur  noto  che  più  semplice 
artista,  più  vera,  più  sincera  di  lei  quel  teatrino  non  ebbe  mai 
in  fuori  della  Colli  che  l'avea  preceduta. 

Nel  1 848  il  Luzi  scritturò,  da  amoroso,  Mauro  de  Rosa 
Era  costui  giovanissimo  e  promettentissimo  attore  e  la  com- 
pagnia n'ebbe  vantaggio.  Una  sera  Yattitante  della  polizia, 
che  soleva,  come  nel  settecento  lo  scrivano,  sorvegliare  la 
moralità  del  palcoscenico,  ebbe  a  rimproverare  il  de  Rosa 
poi  che  questi,  grande  ammiratore  della  Zampa,  si  ficcava 
troppo  spesso  nel  camerino  di  lei.  Dopo  tre  o  quattro  giorni 
Yattitante  ritrovò  l'impertinente  giovanotto  allo  stesso  posto 
prediletto  ;  il  de  Rosa,  mentre  la  Serafina  s'  acconciava  i 
capelli  allo  specchio,  tranquillamente  badava  a  vestirsi.  Im- 


—  359  — 

maginarsi  che  proteste  e  che  minacce  !  L'amoroso  allora  si 
levò  e  presentando  la  Serafìna  a\Y aiutante  gli  annunziò,  sor- 
ridendo :  La  signora  è  mia  moglie.  Difatti  s'erano,  in  tre  o 
quattro  giorni,  sposati,  senza  che  nessuno,  neppur  il  Luzi, 
ne  avesse  saputo  nulla. 

La  Zampa  morì  di  colera,  nel  17  dicembre  1866,  a 
cmquantanove  anni;  era  nata  nel  1807,  a'  ÌC  gì  gennaio, 
a  Resina,  presso  Napoli,  da  Crispino  e  Rosa  Broggi,  ro- 
mani. Quando  ella  morì,  Mauro  de  Rosa  si  trovava  nella 
compagnia  drammatica  del  celebre  Cesare  Dondini,  con  ìa 
Pezzana  e  con  altri  attori  di  grido.  All'annunzio  della  morìe 
di  Serafina  egli  provò  tanto  dolore  da  restarne  ammalato 
assai  gravemente  ;  quella  donna  era  stata  per  lui  madre, 
moglie,  maestra  affettuosissima. 


XI. 


Giovanni  de  Lillis  era  morto,  dieci  anni  prima:  nel  1856. 
Rappresentava  il  guappo  in  guanti  e  soprabito  e  parlava  in 
lingua,  a  spropositi.  Il  guappo  plebeo  era  Raffaele  Santelia, 
valentissimo  attore  anche  lui.  Vestiva  da  Rugantino  ;  cal- 
zoni corti,  neri,  giamberga  rossa,  spadino,  cappello  immenso 
a  tricorno.  Pareva  ancora  una  maschera  della  commedia 
dell'arte. 

Il  Tremori  —  insuperabile  nella  parte  dello  Sguizzerò 
mbriaco  dint'a  lo  vascio  de  la  siè  Stella  —  fu  generico  pri- 
mario e  caratterista  valorosissimo. 

Achille  Lisgara  —  padre  della  signora    Concetta  Miano, 


—  360  — 

die  noi  abbiamo  conosciuta  in  compagnia  Pantalena  —  fu 
un  ottimo  generico.  Un  po'  trivialuccio  Y amoroso  e  brillante 
Giuseppe  Crispo  ;  graziosa  donnetta,  ma  fredda  e  svogliata 
attrice,  sua  moglie. 


XII. 


I  fatti  politici  del  1848  rovinarono  gl'impresarii,  e  i  teatri 
furono  chiusi  tutti.  Invano  il  Ministero  —  sedati  i  tumulti  e 
le  dimostrazioni  popolari  —  tentò  di  risollevarne  le  sorti,  as- 
segnando al  San  Carlino  quaranta,  settanta  alla  Fenice, 
centotrenta  ducati  al  mese  al  Nuovo,  perchè  con  quelli 
avessero  rimediato  al  male  patito.  Invano  Luzi  annunziava 
gare  buffonesche  tra  Pasquino  e  Pulcinella,  canzoni  pa- 
triottiche cantate  dalla  ragazza-prodigio  Sofia  Moretti,  fan- 
tasie su  motivi  personali  eseguite  a  pianoforte  dal  fratello 
eli  lui,  Luigi.  Gli  affari  peggioravano  sempre  più.  Neil'  8 
di  aprile  del  1849  la  compagnia  nazionale  recitò  per  l'ul- 
tima volta  al  teatrino.  V'accorse,  m  folla,  il  publico;  eran 
commossi  attori  e  spettatori  e  Luzi  singhiozzava  in  un  pal- 
chetto. «  Addio  dunque  —  esclamava  YOmnibus,  nel  giorno 
appresso  —  addio,  bravi  Petito,  Altavilla,  de  Lillis,  Natale, 
Tremori,  addio,  valentissima  per  quanto  intelligente  Chec- 
china  Zampa  che  nella  nazionale  commedia  non  hai  chi 
t'eguagli,  addio  Agolini,  Vincenza  Tremori  e  voi,  perfino 
graziose  ed  ardite  sorelle  de  Lillis  !  Vi  rivedremo  più  su 
quelle  scene  ?  >; 

E  così  il  San  Carlino  rimase  chiuso  fino  all'ottobre  del 
1 849.  Ma  neir  agosto  Silvio  Maria  Luzi,  con  un  ultimo 
sforzo,  lo  avea  riappigionato    dagli  eredi   Tomeo  e  il  con- 


—  361   — 

tratto  era  stato  rogato,  nei  termini  che  seguono,  dal  notaio 
Ercole  de  Rossi,  di   Napoli  : 

«  1 .  Il  Teatro  è  stato  fittalo  nella  sua  intera  continenza 
del  locale,  comprendendosi  nello  affitto  il  pozzo  sistente  nella 
parte  del  Vico  Travaccan  e  la  vasca  contigua.  Se  n'è  fatta 
al  signor  Luzi  una  minuta  consegna  ed  egli  è  nell'obbligo 
di  restituirlo  nello  stesso  modo  come  venne  descritto  in  tale 
consegna. 

2.  Il  signor  Luzi  ho  la  facoltà  di  dare  m  detto  Teatro 
qualunque  rappresentazione  e  genere  di  spettacoli  ad  esso 
piacerà,  sia  di  prosa  che  di  musica,  ed  altri  ancora  di  va- 
riato genere. 

3.  La  durata  delio  affitto  è  fermata  per  mesi  3 1 ,  cioè 
dal  23  settembre  1849  a  tutto  Sabato  di  Passione  dell'an- 
no 1852,  i  primi  mesi  19  di  fermo  e  gli  altri  12  di  rispetto, 
con  patto  che  ove  il  signor  Luzi  non  voglia  avvalersi  di 
quest'  ultima  annata,  dovrà  denunziarlo  a'  proprietarii  per 
tutta  la  fine  dicembre  1850,  in  mancanza  resterà  fermo  lo 
affitto  anche  per  l'anno  di  rispetto. 

4.  Il  Signor  Luzi  ha  la  facoltà  di  cedere  o  subaffittare 
ad  altri  il  Teatro,  dovendo  però  sempre  preferire  i  pro- 
prietarii tanto  nella  cessione  che  nel  subaffitto. 

5.  Intorno  al  pigione  è  stabilito  che  il  signor  Luzi  dal 
23  settembre  1849  fino  a  Sabato  di  Passione  1850  debba 
corrispondere  ai  proprietari  il  prezzo  di  tre  biglietti  di  pla- 
tea tanto  di  giorno  che  di  sera,  e  dell'  introito,  depurato 
prima  della  spesa  occorrente  dello  spettacolo  tanto  di  giorno 
che  di  sera,  dovrà  farne  cinque  porzioni,  una  delle  quali 
andrà  a  favore  de'  proprietari,  e  quattro  altre  a  favore  di 
esso  Luzi.  Per  gli  altri  due  anni  avvenire  il  signor  Luzi 
deve  pagare  ducati  mille  a  titolo  di  pigione,    senza    che    i 


—  362  — 

proprietari  abbiano  più  diritto  al  quinto,  e  più  sarà  di  esclu- 
siva spettanza  de'  proprietari  l'introito  dei  tre  primi  biglietti 
di  platea  ad  affittarsi  sì  di  giorno  che  di  sera. 

I  quali  ducati  mille  deve  il  signor  Luzi  pagargli  mensil- 
mente a  ducati  83,33  l/3  al  mese.  Se  però  ne!  decorso  de' 
mesi  di  giugno,  luglio  ed  agosto  non  vi  saranno  recite  di 
giorno,  o  per  causa  d'indisposizione  di  qualche  attore  o  at- 
trice, o  di  qualunque  sinistro  evento,  i  proprietari  riceve- 
rebbero lo  importo  dei  soliti  tre  biglietti  solo  di  sera. 

6.  I  proprietari  durante  l' affitto  hanno  il  diritto  a  nomi- 
nare i  seguenti  impiegati  di  confidenza  :  //  venditore  de'  bi- 
glietti dei  palchi  —  Quello  dei  biglietti  di  platea  —  //  Cu- 
stode del  teatro  —  //  portinaio  di  platea  —  //  Cassiere  di 
platea  —  ed  il  signor  Luzi  per  detti  impiegati  è  obbligato 
pagare  seralmente  carlini  dieci  ai  proprietari. 

7.  I  proprietari  godranno  l'entrata  gratis  nel  Teatro  quante 
volte  però,  tanto  ne'  palchi  che  in  platea,  vi  sieno  posti 
inaffittati  ». 

XIII. 

E  il  teatrino  fu  riaperto,  nell'  ottobre  dello  stesso  1 849, 
con  una  vecchia  commedia  di  Cammarano  :  La  festa  de 
V Jlrcheticllo.  Come  la  tela  si  levò  scoppiarono  gli  applausi. 
Il  publico  volle,  insistendo,  vedere  alla  ribalta  tutti  gli  at- 
tori avanti  che  la  rappresentazione  principiasse  ;  ultimi  a 
comparire,  tremanti  di  commozione,  con  gli  occhi  pieni  di 
lagrime,  furono  Colombo,  Altavilla  e  l'impresario. 

In  questo  tempo,  essendo  morto  il  proprietario  del  San 
Carlino,  Salvatore  Tomeo,  lo  stabile  passò  nelle  mani  de* 
suoi  eredi,  alcuni  dei  quali  cedettero  agli  altri  la  loro  por- 


-  363  — 

zione.  Da  un  quaderno  di  vendita  che  ho  sott'occhi  appare 
che,  fino  al  1849,  il  teatro  era  proprietà,  per  cinque  set- 
timi, di  donna  Mariantonia  Tomeo,  per  un  settimo  della 
signora  Maria  Giuseppa,  sua  sorella,  moglie  di  Carlo  Na- 
tale, e  per  un  altro  settimo  de'  figli  della  terza  sorella  Ma- 
ria  Michela  Tomeo  :   Nicola  e   Maria  Ferrari. 

Con  sentenza  della  Terza  Camera  del  Tribunale  Civile 
di  Napoli,  nel  21  giugno  del  1850,  fu  dichiarata  la  indi- 
visibilità del  teatro  San  Carlino  e  ne  fu  ordinata  la  venduta 
all'incanto  davanti  al  giudice  delegato  Don  Nicola  de  Ren- 
tiis.  I  periti  avevano  stimato  il  teatro  ;  esso  valeva,  secondo 
il  loro  giudizio,  1  7,984  ducati  ed  80  grana,  cioè  quasi  70 
mila  lire.  «  In  esecuzione  della  sentenza,  sopra  citata,  nella 
mattina  di  mercoledì,  28  del  corrente  mese  di  agosto  — 
dice  1'  ultima  parte  del  quaderno  di  vendita  —  innanzi  al 
lodato  giudice  signor  Nicola  de  Rentiis,  e  nel  locale  della 
suddetta  Terza  Camera  si  procederà  all'aggiudicazione  del- 
l' intero  fabbricato  che  comprende  il  Teatro  San  Carlino 
sito  al  largo  del  Castello  Nuovo,  Sezione  S.  Giuseppe,  il 
quale  fabbricato  racchiude  una  platea  consistente  in  sette 
file  di  scranni  di  legno  addetti  per  la  così  appellata  Pic- 
cionara,  quindici  file  di  sedie  di  legno  colle  rispettive  spal- 
liere e  laterali,  formanti  sedie  177,  ed  altra  fila  che  forma 
la  sedicesima  addetta  per  l'orchestra,  cinque  palchettini  nella 
platea  istessa,  e  due  file  di  palchi  in  numero  di  26  con 
parapetti  a  palumbo  e  stregalli  di  legno  dorato.  La  prima 
fila  ha  sei  cornocopj  di  ferro  fuso  con  frondi  di  cristallo, 
e  la  seconda  altri  sei  cornocopj  dello  stesso  ferro  fuso,  e 
dieci  lumi  di  piange  di  ottone  con  campane  di  cristallo.  Un 
palcoscenico  pavimentato  di  tavole  incalzate,  con  cinque 
portine  a  calatoje,  dieci  mutazioni  di  scene   complete,  due 


—  364  — 

teloni  in  buono  stato  e  sette  camerini  per  vestirsi  e  spo- 
gliarsi gii  attori.  II  detto  immobile  si  vende  nella  sua  ma- 
teriale costruzione  e  nello  stato  come  trovasi  descritto  ecc. 
ecc.  » 

Gli  atti  procedettero  regolarmente.  Non  essendosi  pre- 
sentato alcuno  in  ribasso,  il  teatro  venne,  all'ultimo,  defini- 
tivamente aggiudicato  ai  coniugi  Don  Raffaele  Mormone  e 
Donna  Mariantonia  Tomeo,  (figlia  di  Salvatore),  per  la  som- 
ma di    1 5  mila  ducati. 

XIV. 

Questa  materiale  eredità  era  ottenuta  mentre  si  preparava 
in  compagnia  la  strana  funzione  d'una  eredità  artistica  che 
un  novello  attore  era  destinato  a  raccogliere.  Nella  settimana 
di  Pasqua  del  1852  Salvatore  Petito  presentò  a  Silvio  Ma- 
ria Luzi  il  figliuolo  Antonio,  il  quale  avrebbe  presa  la  ma- 
schera che  Salvatore,  vecchio  e  stanco,  abbandonava  dopo 
quasi  trent'anni  di  onorato  pulcinellismo. 

Antonio  Petito  era  nato  il  22  giugno  del  1822.  Il  padre 
gli  aveva  insegnato  il  ballo,  Gaetano,  suo  fratello  maggiore, 
la  mimica.  Sapeva  acconciamente  cantare,  sapeva  di  musica, 
sapeva  perfino  di  prestidigitazione;  avea  esordito  da  attore 
al  teatro  di  Donna  Peppa  sua  madre,  n'era  uscito,  un  bel 
giorno,  per  occupare  il  posto  di  brillante  nella  compagnia 
di  un  tal  Crescenziano  Palombo  e  con  costui,  per  quattro 
o  cinque  anni  di  seguito,  avea  girovagato  pei  piccoli  teatri 
delle  provincie  napoletane.  Il  padre  lo  avea  costretto  a  tor- 
nare a  Napoli  e  a  pigliar  posto  al  Donna  Peppa.  Ma  An- 
tonio, poco  accetto  a  quel  publico,  fu  questa  volta  ridotto 
a  lasciare  il  teatrino  di  via   Marina  dalle  insistenti  manife- 


—  365  — 

stazioni  d'  antipatia  delie  quali  erano  prodighi,  ogni  sera, 
all'insopportabile  amoroso  i  frequentatori  di  quella  baracca. 
Fu  accolto  allora  nella  compagnia  Martini  e,  nel  1 840, 
quand'essa  rappresentava  a  Caserta,  v'  ottenne  un  successo 
clamoroso.  Qualche  anno  appresso,  a  Salerno,  con  lo  stesso 
Martini,  diventò  Pulcinella.  Nel  1844,  a  Castellamare  di 
Stabia,  ov'era  in  quel  tempo  la  Corte,  recitò,  pur  da  Pub 
cimila,  in  una  compagnia  racimolata  da  Bartolomeo  Ma- 
gliano,  un  signore  di  Casteììamare  che  si  pigliava  il  gusto 
di  tener  teatro  a  casa.  Nel  1 852  capirò,  finalmente,  al  San 
Carlino. 

Nella  sera  memorabile  in  cui  vi  prese  la  maschera,  la 
piccola  orchestra  del  San  Carlino  eseguì,  per  primo  pezzo, 
una  sinfonietla  che  fu  un  tenerissimo  preparativo  musicale 
al  prossimo  avvenimento  di  commozione.  Terminata  la  sin- 
fonietta  sbucò,  dalla  prima  quinta  a  destra  degli  spettatori, 
Salvatore  Petito,  vestito  del  suo  solito  costume,  la  maschera 
sul  volto.  Dalla  quinta  a  sinistra  uscì  Antonio,  pur  vestito 
da  Pulcinella,  ma  a  faccia  scoverta.  Don  Salvatore  si  sber- 
rettò, si  fece  alia  ribalta,  e  con  voce  tremante  d'emozione, 
volgendosi  al  publico,  pronunziò  le  sacramentali  parole:  Pub- 
blico rispettabile  /..... 

Il  teatro  aspettava,  in  silenzio.  Egli,  arrestatosi  all'apostrofe, 
pareva  che,  a  un  tratto,  avesse  perso  l'animo  di  continuare. 
Ma  pigliò  coraggio,  e  soggiunse  :  //  vostro  servitore  devo- 
tissimo s'  è  fatto  vecchio,  ha  bisogno  di  riposo  e  voi  non 
glielo  vorrete  negare  dopo  trent'  anni  durante  i  quali  vi  ha 
servito.  Da  questa  sera  egli  smette  la  maschera  di  Pulcinella. 
La  consegna  a  suo  figlio  Antonio,  che  ha  V  onore  di  pre- 
sentare al  rispettabile  pubblico  ed  all'  inclita  guarnigione. 
Così  detto  si  tolse  dal  volto  la  maschera  e  la  pose  sul  volto 


—  366  — 

di  Antonio;  gii  mise  m  capo  il  coppolone  e,  con  le  lagri- 
me agii  occhi,  augurò  al  figlio  :  E.  pe  cient'anne  !  11  pu- 
bìico  ,  tra  commosso  e  ridente  ,  rispose  con  applausi  :  e 
principiò  lo  spettacolo. 

Fu  rappresentata  una  commediola  intitolata:  S'è  stufata 
la  cannela.  Gli  attori  che  tennero  compagnia  al  Petito  nel 
suo  debutto  furono  :  Silvia  de  Cenzo-Crispo  (Margherita) 
Salvatore  Petito  (Don  Ignazio),  Mauro  de  Rosa  (Leopoldo), 
Vincenza  Tremori  (Carolina),  Gaetano  Pretolani  (Luigi), 
Achille  Lisgara  (Andrea),  e  finalmente,  il  più  bravo,  il  più 
forte,  il  più  geniale  di  tutti  que'  comici  :  Pasquale  Altavilla, 
attore  e  commediografo  a  un  tempo. 


CAPITOLO  NONO. 

Pasquale  Altavilla,  il  suo  tempo,  le  sue  commedie  —  Il 
1660  —  Nuovi  commediografi  e  nuovi  attori  del  «  San 
Carlino  »  —  «  San  Carlino  »  fino  al  1875. 


I. 

/tlLTAVILLA  !  Che  lieti  ricordi  la  evocazione  di  questo 
nome,  e  quale  rimpianto  ella  suscita  in  tutta  una  generazione 
che  va  invecchiando  sempre  più  nelle  allegre  e  nelle  tristi 
memorie  del  passato,  e  ne  vive  ancor  tanto  !  L' oblio  che 
ha  seppelliti  Giancola  e  Don  Fastidio,  Cerlone,  Cammarano, 
Schiano,  i  primi  attori  della  commedia  dialettale  napoletana 
e  i  suoi  più  antichi  artefici,  non  è  riescito  fin  qua  a  pigliar 
possesso  dell'ultimo  signore  della  scena  popolare  partenopea. 
Ma,  ahimè,  codesto  glorioso  personaggio  —  del  quale  è  cer- 
tamente maggiore  il  nome  del  merito  —  è  stato  quegli, 
proprio,  che  alla  commedia  popolana  ha  dato  l'ultimo  crollo. 

Tempo  fa  un  critico    de'  più  vantati,  a  proposito    d'  un 

-  367  - 


—  368  — 

dramma  napoletano  de'  più  veristi,  manifestò  nella  ZNjiooa 
antologia,  mi  pare,  questa  idea  sua  profonda  :  Se  Pelilo 
e  Altavilla  ritornassero  in  vita  non  riconoscerebbero  più  la 
loro  Napoli,  il  critico  era  il  marchese  d' Arcais  ;  e  a  me 
e  a  un  mio  cooperatore  nel  dramma  che  gli  era  spiaoufco 
tanto  egli  lanciava,  dalle  sue  vette  antologiche,  di  simili 
poponi  fradici.  Che  cosa  rispondergli  ?  La  frase  mi  suonava 
così  male  da  potermi  far  mancare  di  rispetto  all'ottimo  uo- 
mo, se  avessi  dovuto  replicargli.  O  egli  era  assolutamente 
ignorante  del  teatro  d'Altavilla  e  di  Antonio  Petito  o,  co- 
noscendolo, e  stimandolo  tale  da  doverlo  rimpiangere  con 
sì  cocenti  lagrime,  s'  addimostrava  persona  sprovveduta  in 
tutto  di  gusto,  di  sentimento,  di  amore  di  verità.  Neil'  un 
caso  o  nell'altro  non  francava  la  spesa  di  polemizzare  :  il 
marchese  s'  era  creata  nella  fantasia  una  Napoli  assisa  in 
mezzo  a*  vermicelli  al  pomodoro,  in  riva  alle  chiare  acque 
di  Posillipo,  tra  1  preparativi  d'  una  tarantella  e  il  suono 
d'una  chitarra. 

Parola  d'onore  non  mi  lascio  andare  a  questo  malinco- 
nico ricordo  per  un  tardo  amore  della  mia  causa  ;  il  mar- 
chese d'Arcais  è  morto  e  io  non  amo  battagliare  con  om- 
bre. Ho  dovuto  e  voluto  far  menzione  di  quella  sua  frase, 
poich'essa,  uscita  di  bocca  nientedimeno  che  a  un  critico, 
ribadisce,  con  l'autorità  d'un  de'  più  lodati  socii  delia  be- 
nemerita instituzione,  il  più  falso  giudizio  che  hanno  espresso 
fin  qua  su  Altavilla  tutti  coloro  i  quali  hanno  scritto  di 
Napoli  e  delle  cose  sue  ;  forse  anche  molti,  napoletani  stessi, 
che  per  magnificare  l' illustre  comico  gli  hanno  affibbiato, 
riconoscenti,  tutte  le  qualità  d'un  commediografo  eminente. 

Pasquale  Altavilla  fu,  senza  dubbio,  un  riformatore.  Quan- 
d'egli —  come  avete  visto  —  nel    1834  scrisse  la  sua  prima 


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—  369  — 

commediola,  il  teatro  popolare  napoletano  era  nelle  mani 
di  Filippo  Cammarano  e  d'Orazio  Schiano.  Quegli  —  che 
dopo  essersi  modellato  sulla  pazzia  eroicomica  cerloniana, 
avea  finito  per  rimettere  in  una  lineare  semplicità  e  ne'  ter- 
mini della  verità  e  dell'osservazione  la  commedia  popolana  — 
negli  ultimi  anni  suoi  era  tornato  al  metro  antico  e  avea 
ricondotta  la  scena  dialettale  sulla  via  dell'  esagerazione  e 
della  falsità.  Schiano  a  sua  volta,  pasticciere  de'  più  fa- 
mosi, si  giovava,  come  ho  detto  di  lui  più  avanti,  di  Nota, 
di  Federici,  di  Kotzebue,  voltandone  e  rifacendone  in  dia- 
letto le  scene  più  impressionanti  e  inframmezzando  la  loro 
posata  andatura  alla  vivacità  plebea  delle  sue  commedie  di 
piazza.  Ne  veniva  fuori  una  composizione  aneuntmica  e 
stonata,  in  cui  la  verità  e  la  finzione,  la  semplicità  e  lo  spet- 
tacoloso, la  grazia  e  la  pesantezza  battagliavano  continua- 
mente. Chi  fosse  capitato  dopo  Schiano  e  Cammarano  a- 
vrebbe  potuto,  se  gì'  intendimenti  suoi  fossero  stati  quelli 
d'un  restauratore  accorto  e  animato  da  felice  senso  dell'arte, 
restituire  alla  verità  la  così  detta  commedia  nazionale,  che 
in  quel  tempo  dava  gli  ultimi  tratti.  Dal  1 820  l'attività  in- 
tellettuale napoletana  aveva  ben  progredito,  le  rivoluzioni 
avevano  dato,  a  mano  a  mano,  la  stura  a  più  libera  lette- 
ratura, e  il  popolo  stesso,  che  fino  a  quel  momento  s'era  ri- 
tenuto inferiore  perfino  ai  sensi  più  umani  e  civili,  comin- 
ciava ad  apprendere,  e  a  stimarsi,  e  a  sperare.  Altri,  forse, 
avrebbe  cavato  partito  da  queste  belle  disposizioni  ;  Alta- 
villa cominciò  per  tentarle  con  una  commedia  popolana  (Na 
trastola  de  na  barraccara  abbascio  a  lo  ^Cercato),  ma  i 
quattro  atti  di  quella  produzione  in  cui  si  scimmiottava  il 
Cammarano  della  seconda  mano  non  piacquero.  Invece  YAp- 
passiunate  pe  la  Sonnambula,  La  Parisina,  Lo  sparo  de  lo 

DI   GIACOMO.  -5.    Carlino.  24 


—  370  — 

cannoncino  a  la  ^TUCeridiana,  Lo  cannocchiale  d^r  schei,  La 
dama  co  la  capa  de  morte,  'Ure  sfasulate  appassiunate  pe 
la  musica  de  'Verdi,  commedie  così  dette  d'  attualità,  poi 
che  intrattenevano  gli  spettatori  con  la  caricatura  del  fatto 
del  giorno,  ottennero  un  successo  addirittura  strepitoso.  Con 
un  battesimo  d'applausi  e  di  risate  il  novello  genere  della 
commedia  dialettale  napoletana  penetrava,  così,  nel  vecchio 
San  Carlino  e  ne  pigliava  felicemente  possesso.  Nel  1849 
Pasquale  Altavilla  cominciava  a  stampare  il  suo  teatro  e 
dedicava  l'opera  al  principe  di  Salerno,  don  Leopoldo,  fra- 
tello del  re  Ferdinando  II. 


II. 


«  A  pochi  è  ignoto  il  nome  di  Domenico  Bocchini,  av- 
vocato napolitano.  La  fama  del  sapere  di  lui  era  giunta 
anche  oltre  monti,  e  gli  è  sopravvissuta.  Dotto  nell'ebraico, 
nel  greco,  nel  latino,  ed  in  molti  altri  idiomi  ancora,  facea 
per  questa  sua  scienza  poliglotta  lo  stupore  di  chiunque  lo 
avvicinasse.  Cortese  per  modi  fu  la  delizia  dei  giovani  che 
seco  lui  famigliarmente  s'intrattenevano.  Lo  studio  suo  pro- 
fondo degli  antichi  scrittori  parea  gli  avesse  dato  molto  del 
venerando  ;  ed  invero  non  appariva  l'uomo  di  questo  secolo, 
agli  atti,  alle  attitudini,  alla  favella,  all'  odio,  che  nudriva 
per  tutto  che  non  fosse  giusto  e  onesto.  Il  suo  volto  arieg- 
giava del  Platone  o  di  non  saprei  dir  qual  altro  filosofo 
dell'antichità.  Lunghi  scendeangli  i  capelli  sugli  omeri,  abiti 
che  poteansi  dire  alla  stoica  lo  coprivano. 

«  L'opera  del  Bocchini  :  Gli  arcani  gentileschi  svelati  e 
che  poi  (sic)    incominciò  a  veder  la  luce    in  pubblicazioni 


—  371  — 

periodiche  col  titolo  il  Qeronta  Sebezio,  bisogna  che  ognun 
ne  convenga,  è  rimasta  monumento  di  scienza  non  facilmente 
accessibile,  e  quasi  divinatoria.  Intanto  il  nome  del  Bocchini 
correva  sulle  bocche  di  tutti  e  divenne  popolare  sì  che 
ognun  lo  designava  per  le  vie  col  nome  antonomastico  di 
Qeronta  Sebezio. 

«  Questa  popolarità  mi  fece  nascere  in  mente  il  pensiero 
di  scrivere  la  presente  commedia,  che  sulle  scene  del  San 
Carlino,  ottenne  il  compatimento  dei  miei  concittadini  per 
molte  sere.  Lo  stesso  Bocchini  cui  espressi  il  desiderio  di 
poterlo  ritrarre  sulla  scena  al  quale  egli  con  gentili  maniere 
fé'  pago  (sic)  mi  fu  cortese  di  un  plauso,  ond'  io  serberò 
ognora  grata  memoria.  Or  che  la  dò  alle  stampe  le 
faccia  il  Pubblico  di  nuovo  buon  viso.  Di  più  non 
chieggo.  » 

Così  Pasquale  Altavilla,  nella  prefazione  a  Li  fanatece 
pe  lo  Qiaronta  Sebezio.  La  prefazione  alla  Dama  co  la 
capa  de  morte  annunzia  : 

«  La  diceria  di  una  Dama  milionaria  con  la  testa  di 
morte  non  si  sa  ancora  da  chi  e  perchè  inventata,  era,  nel 
1843,  l'oggetto  di  tutti  i  discorsi  de'  napoletani.  Ella  di- 
ceasi  che  abitasse  la  riviera  di  Chiaia,  la  quale  più  che 
mai  in  quei  giorni  era  battuta  da  una  folla  di  giovanotti  no- 
bili e  plebei  ansiosi  di  veder  la  dama  e  di  prendersi  il 
milione.  Si  soggiungea  che  coprisse  lo  schifoso  volto  con  una 
maschera  bellissima  ;  chi  dicea  accompagnata  da  un  vecchio 
che  ignora  vasi  se  padre  le  fosse  o  zio  ;  altri  soggiungea  es- 
ser venuta  così  com'  era  al  mondo,  perchè  la  madre  avea 
pianto  lungamente  sulla  tomba  del  marito  ;  diceansi  infine 
mille  altre  cose  in  mille  sensi  diversi  a  seconda  della  im- 
maginazione di  ciascuno. 


—  372  — 

Questa  diceria  così  atta  ad  esser  trattata  per  le  scene  del 
.San  Carlino  mi  offrì  1'  argomento  di  questa  commedia,  la 
quale  fu  da  me  scritta  nel  breve  spazio  di  tre  giorni.  » 


III. 


Lo  vedete  :  i  soggetti  per  le  sue  commedie  Pasquale  Al- 
tavilla li  cavava  dalla  cronaca  giornaliera  ;  la  fantasia  non 
gliene  suggeriva  di  molti  ed  egli  era  costretto,  volta  per 
volta,  a  servirsi  fin  dell'  ultimo  ritornello  in  voga  per  archi- 
tettare, sulle  vicende  d'  una  canzone  e  sopra  i  suoi  patiti, 
nuove  favole  intricate,  co'  soliti  Pangrazii  e  con  l' imman- 
cabile 'Pulcinella.  S'  apre  a  Toledo  il  Caffè  d'  Europa,  in 
cui  monsieur  Revang  profonde  specchi,  stucchi,  dorature  e 
marmi,  ed  eccoti  Altavilla  che  annunzia  al  San  Carlino  la 
sua  commedia  L'apertura  de  lo  Cafè  d'europa  ;  s' inaugura 
il  primo  tronco  di  ferrovia  da  Napoli  a  Castellamare  di 
Stabia  ed  egli  scrive  Na  juta  a  Castiellammare  per  la  stra- 
da de  fierro  ;  s' impianta  la  prima  $oulangerie  francaise  in 
via  Nardones,  ed  ecco  La  folla  pe  lo  ppane  frangese.  E 
Li  fanatece  pe  lo  Giaronta  Sebezio,  Li  leggeture  de  lu  Lu- 
me a  gas,  eh'  era  un  giornaletto  satirico  del  1 845,  La  sposa 
co  la  maschera,  La  cena  a  la  cantina  siciliana,  Pangrazio 
Biscegliese  ammoinato  pe  V  arrivo  de  lo  celebre  maestro  Thal- 
berg,  Li  combinazione  pe  lo  iuoco  de  monzu  Felippo,  La 
statua  de  monzu  Reso,  No  grano  varva  e  caruso  non  sono 
che  nuovi  prodotti  della  vasta  fabbrica  di  commedie  d' at- 
tualità impiantata  dal  fortunato  ed  eccellente  comico  per  la 
fornitura  del  repertorio  sancarlinesco. 

Per  quale  ragione  queste  commedie  piacquero  tanto  ?  Non 


—  373  — 

per  una  sola.  Da  prima  poi  che  quel  Lope  de  Vega  del 
teatro  dialettale  partenopeo  alla  conoscenza  della  scena  e 
dell'  effetto  accoppiava  qualità  comiche  non  comuni  :  si  ri- 
deva, e  il  riso  erge  piedistalli  così  facili  come  incrolla- 
bili. E  poi,  perchè  la  caricatura  degli  avvenimenti  contem- 
poranei interessava  e  dilettava  la  gente.  Per  avventura  quelli 
avvenimenti,  nella  stasi  tra  il  '20  e  il  '48,  furono  tutt'  altro 
che  turbolenti  :  Napoli  si  rifaceva  delle  ansie  recenti  ab- 
bandonandosi al  divertimento  ;  la  tranquillità  delle  cose  la 
incoraggiava,  e  se  novità  la  interessavano  erano  pacifiche 
novità  della  moda.  La  letteratura  era  scherzosa,  e  Y  Omnibus 
di  don  Vincenzo  Torelli,  il  Lume  a  gas,  il  'Palazzo  di 
Cristallo,  tutti,  insomma,  i  giornaloni  e  i  giornalini  del  tempo 
uscivano  in  piazza  ridendo  ;  qui  una  poesia  di  don  Giulio 
Genoino  sull'  Orologio  del  Mercatello,  lì  una  nuova  can- 
zonetta del  Sacco,  altrove  un  bozzetto  di  Emanuele  Bidera 
sugli  abitatori  delle  terrazze,  e  da  pertutto  come  1'  esprimersi 
allegro  e  lievemente  ironico  d'  una  gente  che  non  pensava 
a  nulla  di  serio.  11  1 848  era  alle  porte,  ma  pareva  che  nes- 
suno lo  sospettasse  ;  Napoli  ha  sempre  di  queste  placide 
esteriorità  :  l' interno  lavorio  non  offusca  il  suo  aspetto  e 
neppur  le  più  grandi  disgrazie  valgono  a  mutarne  la  fisono- 
mia.  Con  un  grano,  in  quelli  anni,  il  lazzarone  era  quasi 
ricco,  e  una  piastra  ballonzolante  nella  saccoccia  del  pan- 
ciotto a  un  borghese  gli  conferiva  1'  aria  della  più  grande 
supenontà.  L'allegra  povertà,  in  pieno  possesso  della  strada, 
vi  si  sciorinava  al  sole  ;  il  facchino  appisolato,  a  un  angolo, 
in  una  cesta,  schiudeva,  di  volta  in  volta,  gli  occhi  e  tran- 
quillamente, abituato  a  posare,  contemplava  il  forestiero,  in- 
glese o  francese,  che,  impiedi,  davanti  a  lui,  pigliava  note 
in  un  taccuino.  Le  solite  baldorie  per  le  feste  de'  soliti  suoi 


—  374  — 

santi  occupavano  la  gente  de'  quartieri  inferiori  —  come  an- 
che adesso  la  occupano  —  ma  pareva  che  un  senso  di  ca- 
ricatura fosse  pur  penetrato  dal  giornale  fin  nella  plebe. 
SXConsieur  Raison,  capo  de'  parrucchieri  esotici,  aveva,  per 
il  primo,  piantata  nella  sua  vetrina  una  ragazza  di  cera  che 
girava  su  d'  un  piedistallo  per  lasciare  ammirare  al  publico 
la  magnifica  e  sapiente  disposizione  della  sua  pettinatura.  Il 
taglio  alla  condanne  si  pagava  in  quel  salone  un  carlino,  le 
pomate,  i  cerotti,  l'acqua  odorosa  aumentavano  la  somma  di 
altre  cinque  grana  ;  un  po'  caruccio,  di  que'  tempi.  Ed  ec- 
coti, in  Piazza  del  Castello,  un  nuovo  parrucchiere,  un  in- 
digeno, che  inaugura  la  sua  baracca  con  la  più  spietata  con- 
correnza al  francese.  Sulla  leggenda  è  scritto:  Don  Anto- 
nio jimoruso,  co  dote  grana  fa  Varca  e  caruso.  E  gli  av- 
ventori, fosse  per  campanilismo,  fosse  per  necessità,  gli  fioccano 
in  bottega.  La  parodia  era,  dunque,  in  piazza  prima  che  al 
San  Carlino,  e  Altavilla,  per  ritrovarla,  non  doveva  fare  al- 
tro che  voltarsi  attorno. 

Commedia  in  cui,  come  in  tutte  le  cose  napoletane,  un 
certo  che  di  poetico,  di  sentimentale,  era  commisto  al  riso. 
Chi  fosse  capitato  a  tarda  ora  nella  famosa  cantina  del 
siciliano ,  al  vico  Campane ,  tra  una  frittura  di  pesce  e 
de'  carciofi  alla  palermitana ,  vi  avrebbe  udito  cantare 
sulla  chitarra  la  più  gentile  delle  calandrelle  :  Ninetta 
la  bionda,  tenera  dell'  abate  Meli  ,  la  cui  vena  arcadica, 
così  già  ricca  di  melodia ,  alimentava  quasi  tutto  il  suo 
repertorio. 

Era  lì  che  Altavilla,  uscendo  dal  teatro,  passava,  qual- 
che volta,  un' oretta  a  studiare  l'ambiente  a  e  udir  Ninetta. 
I  nottambuli   cenavano    tranquillamente,  il  Siciliano  andava 


—  375  — 

attorno  e  sei-viva  anche  lui  gli  avventori,  il  fritto  chiacchie- 
rava in  cucina,  e  Ninetta  cantava  : 

Spacca  l'alba  da  ìu  mari, 
Eccu  già  lu  suli  affaccia, 
E  li  tenebri  discaccia 
Cu  lu  chiari  raggi  su. 

Lassa  duncu  la  capanna 
Cu  sta  bedda  matinata, 
Fa  eh'  ìu  passi  sta  ìurnata, 
Don  bedda,   a  latu  to!.., 

Così  nacque  la  commedia  d'  attualità  intitolata  La  cantina 
de  lo  siciliano  ;  poco  prima  San  Carlino  avea  avuto  :  No 
grano  varca  e  caruso  ;  poco  appresso  ebbe  :  A  sta  fenesta 
affacciate,  una  delle  più  spigliate  e  vivaci,  intessuta  sul  suc- 
cesso fenomenale  della  canzonetta  omonima.  E  così  trionfò 
il  nuovo  genere,  con  la  marca  di  fabbrica  di  Pasquale  Al- 
tavilla. Piacque,  è  verissimo.  Gli  stessi  critici  che  pur  non 
sapevano  e  non  volevano  considerarlo  figlio  d'  un'arte  sana 
e  sincera,  tenendo  conto  del  successo,  si  confessavano  vinti, 
trascinati  da  quel  fiume  d' ilarità.  Dicevano,  sì,  che  le  com- 
medie d'  Altavilla,  che  divertivano  immensamente  i  suoi  con- 
temporanei, non  avrebbero,  di  certo,  resistito  al  tempo  e 
prodotto  il  medesimo  effetto  sui  posteri.  Che  importava  ?  Egli 
era  modesto  ne'  suoi  desiderii  e  s'  accontentava,  autor  di 
passaggio,  di  strappare  alla  malinconia  soltanto  la  società 
dei  suoi  giorni.  Non  aveva  Filippo  Cammarano,  con  Li  ap- 
passiunate  pe  la  Malibran,  tentato,  negli  ultimi  anni  suoi, 
quel  che  Altavilla  metteva  poi  in  opera  con  maggiore  fortuna 
e  con  più  fresco  ingegno  ? 


—  376  — 
IV. 

Con  Pasquale  Altavilla  il  genere  poco  letterario  della 
commedia  napoletana  scese  anche  più  giù  ;  egli  non  si  è 
mai  curato  di  presentare  al  suo  pubhco  una  laboriosa  con- 
cezione artistica  in  cui  fossero  il  gusto  personale  dell'  autore 
e  le  sue  qualità  d'  osservazione. 

I  suoi  successi  li  dovette  a  una  facilità  di  buona  vena, 
alla  gaiezza  di  cui  sempre  confortò  le  sue  produzioni,  al 
sovracancarle  delle  combinazioni  più  stravaganti,  al  romore, 
sopra  tutto,  eh'  era  in  ogni  sua  commedia,  un  romor  comico 
che  impegnava  in  acrobatismi  scenici  tutti  i  suoi  personaggi. 
Dell'  arte  egli  non  ebbe  ideale  di  sorta,  non  fu  originale  ; 
ebbe  una  certa  pratica  della  scena,  la  malizia  necessaria  per 
la  combinazione  dell'  intreccio.  E  nelle  sue  prime  comme- 
die queste  mediocri  qualità  s' accompagnarono,  talvolta,  è 
vero,  ad  una  certa  osservazione,  a  un  certo  spirito.  Poi,  tra 
la  furia  che  lo  prese  di  prepararne  di  nuove,  quell'  osser- 
vazione superficiale,  quello  spirito  disparvero.  La  commedia 
d'  attualità  adoperò  canovacci  infantili  e  la  sua  scempiag- 
gine grottesca  fece  scempio  del  più  elementare  buon  senso. 

II  commediografo,  dunque,  in  Pasquale  Altavilla  non  me- 
rita una  biografia  particolare  ;  piuttosto  la  meriterebbe  l'at- 
tore, e  più  dell'  attore,  1'  uomo.  La  sua  vivacità,  i  suoi  frizzi, 
le  intenzioni  della  sua  caricatura  pigliavano  lume  soltanto 
alla  ribalta  ;  nella  vita  privata  Pasquale  Altavilla,  esempio 
di  bontà,  di  moderatezza,  di  buon  costume,  era  docile,  mite, 
religioso  fin  quasi  al  bigottismo.  Si  levava  per  tempo  e  an- 
dava ad  ascoltare  la  messa  ;  usciva  di  chiesa  per  recarsi  a 


-  377  — 

dar  lezione  di  chitarra  e,  terminata  la  lezione,  occupava  qual- 
che publico  ufficio,  ricopiando  carte  per  un  magro  compenso. 
Talvolta,  quando  l' impresario  Luzi  glielo  permetteva,  an- 
dava a  cantare  da  tenore  in  qualche  sacro  concerto,  in  chiesa. 
Se  gli  avanzava  tempo,  ne  profittava  per  correre  a  dare  una 
lezione  di  ballo  o  di  mimica.  A  mezzodì  capitava  alle  prove 
in  San  Carlino  e  metteva  in  iscena  una  sua  nuova  com- 
media, pensando,  nello  stesso  tempo,  a  un'  altra  che  avrebbe 
principiato  a  scrivere  subito  dopo  pranzo,  in  cucina,  come 
soleva,  tra  il  gatto  e  il  pozzo.  Così  tirava  su  la  sua  fami- 
glia numerosa,  così  toglieva  alla  gente  il  modo  di  rimpro- 
verare anche  a  lui  quel  che  quasi  a  tutti  i  comici  è  rim- 
proverato :  l' immoralità. 


V. 


Contemporanei  d'  Altavilla,  il  teatrino  di  Piazza  del  Ca- 
stello ebbe  parecchi  commediografi,  che  furono  :  Giacomo 
Marulli,  Nicola  Tauro,  Francesco  Zampa,  Antonio  di  Ler- 
ma  di  Castelmezzano,  lo  stesso  Pulcinella  Antonio  Petito, 
Carlo  Guarini,  Luigi  Melina,  Enrico  Conno,  Raffaele  Al- 
tavilla, Enrico  Campanelli,   Davide  Petito. 

Giacomo  Marulli  era  un  signore.  Nacque,  in  Napoli,  dal 
conte  Troiano  Marulli,  di  Barletta,  e  dalla  duchessa  Te- 
resa Marulli  di  San  Cesario,  nel  1 .°  di  giugno  dell'  anno 
1 822,  tra  gli  agi  d'  una  invidiabile  fortuna.  Datosi  agli  stu- 
dii  legali  pigliò  pratica  nello  studio  dell'avvocato  Cito,  poi 
lo  abbandonò,  lasciò  pur  la  famiglia,  con  la  quale  era  ve- 
nuto in  lite  e,  per  non  aver  da  fare  altro,  principiò  a  scri- 
vere pel  teatro.   La  sua  prima    commedia  s' intitolò  :   'Pan- 


—  378  — 

grazio  portato  ri  carrozza  da  lo  nepote.  Rappresentata,  nel 
1 84 1 ,  al  San  Carlino,  piacque  così  da  invogliare  1'  autor 
d'  essa  a  manipolarne  d'  altre.  Dal  1 84 1  al  1 843  Giacomo 
Marnili  scrive  meglio  di  duecento  tra  commedie  ,  drammi 
e  farse,  or  da  solo,  ora  in  collaborazione  con  Pasquale  Al- 
tavilla, o  con  Carlo  Guarini,  o  con  Luigi  Colucci,  o  con 
Antonio  Petite 

Nel  1853  il  Mainili  avea  sposata  la  signorina  Fanny  di 
Pietro  con  la  quale  partì  per  Palermo  nel  1855.  Fu  ob- 
bligato a  rimpatriare  in  fretta,  non  so  per  quale  grave  malattia 
che  lo  colse  in  Sicilia.  Nel  1 856  Adamo  Alberti ,  es- 
sendosi licenziata  dalla  sua  compagnia  di  prosa  del  Fio- 
rentini la  prima  donna  Rosalia  Rossi,  propose  alla  signora 
Fanny  di  sostituirla.  Costei  rifiutò  1'  offerta,  ma  a  un  tempo, 
fece  sapere  al  cognato  Gennaro  Marulli,  allora  maggiore 
nel  2.°  cacciatori,  ch'ella  l'avrebbe  accettata  se  non  si  fosse 
provveduto  pel  povero  suo  Giacomo.  Allora  il  maggiore  Gen- 
naro Marulli,  che  della  benevolenza  di  re  Ferdinando  II  si 
poteva  giovare  in  cose  simili,  ottenne  un'  occupazione  pel 
fratello.  Così  Giacomo  Marulli,  nel  1856,  penetrò,  da  pri- 
ma, nell'  amministrazione  de'  telegrafi,  poi  in  quella  delle 
finanze. 

Dopo  il  1860,  per  brighe  politiche,  Giacomo  perdette  il 
posto.  Si  ritrovò  in  tale  miseria  da  tentar  d'  ammazzarsi  ; 
dei  carabinieri  lo  trattennero  mentre  faceva  per  precipitarsi 
dal  ponte  della  Sanità.  Finalmente  nel  1863,  essendo  sin- 
daco di  Napoli  il  barone  Rodrigo  Nolli,  amico  e  compa- 
gno di  scuola  del  Marulli,  allo  sventurato  fu  concesso  un 
posticino  nella  medesima  amministrazione  municipale,  con  lo 
stipendio  di  cinquantuno  lire  mensili,  le  quali  in  appresso 
diventarono  centoventicinque. 


—  379  — 

Dell'  opera  sua,  ripagata  con  magri  e  stentati  compensi, 
si  giovarono  in  poco  onorevole  modo  parecchi  a'  quali  la 
vanità  fece  velo  alla  coscienza  ;  uno  di  costoro  fu  Antonio 
Petito  il  quale  delle  penne  del  pavone  si  fece  bello  non 
poche  volte  e  volle  dare  ad  intendere  al  colto  ed  all'  in- 
clita d'  esser  non  pure  attore  provetto  quanto  originale  e 
prolifico  scrittore  di  commedie.  Il  Marnili  morì,  poverissimo, 
il  13  agosto  del  1853.  Cinque  ore  prima  di  passar  nel 
mondo  di  là  il  disgraziato  avea  compiuto  un  bozzetto  dram- 
matico intitolato  La  catastrofe  di  Casamicciola.  Proibito  a 
Napoli,  pei  troppo  recenti  ricordi  di  quella  immane  scia- 
gura, quel  lavoruccio  fu  poi  rappresentato  al  teatro  Flora 
di  Salerno,  e  vi  piacque. 


VI. 


Carlo  Guarini,  nato,  nel  novembre  del  1825,  da  Antonio 
e  da  Concetta  Zottola,  fu  impiegato,  al  1844,  nelle  Ferrovie, 
in  qualità  d'alunno  aspirante.  Nel  1862  era  già  segretario 
in  quella  Direzione  Generale,  a  Napoli.  La  nuova  società 
ferroviaria  Talabot  ci  C.  mise  fuori  quasi  trecento  dei  vecchi 
impiegati  e  fra  costoro  il  Guarini.  Egli  ,  intanto ,  aveva 
trovato  tempo,  in  mezzo  alle  sue  cifre  e  a'  suoi  registri,  di 
scrivere  due  commediole  «  Mprestame  se'  canine  ca  dimane 
t'  'e  torno  »  e  «  No  mbruoglio  ca  pe  cchiu  sbrugliarse  sempe 
cchiu  se  mbroglia.  »  Tutte  e  due  furono,  nel  1859,  rappre- 
sentate con  molto  successo  al  San  Carlino.  Nel  1861  ne 
scrisse  una  terza  per  la  Fenice,  nel  1864,  in  collaborazione 
con  l'Altavilla,  fece  rappresentare  al  Nuovo  la  «  Parodia 
degli  omnibus  nazionali  »  che  ottenne  un  successo  strepitoso. 


—  380  — 

Giuseppe  Luzi  lo  impegnò  allora  pel  suo  teatro,  facendogli 
vantaggiose  condizioni  a  patto  ch'egli  non  producesse  per 
altri.  Così,  dal  '64  al  '68,  il  Guarini,  stipendiato  da  Luzi, 
sopperì  al  provvento  della  prima  sua  occupazione  perduta. 
Ma  come  questo  secondo  impegno  gli  pesava  egli  non  rin- 
novò il  contratto  con  l'impresario.  Dal  1865  al  1875  arricchì 
il  suo  repertorio  d'altre  centoventi  commedie,  una  delle  quali 
«  Madama  quatto  solde  »  fu  rappresentata  d'avanti  a  Vit- 
torio Emanuele  II  al  San  Carlino  e  procurò  all'autore  e  agli 
attori  principali  splendidi  doni  dal  re. 

Molta  comicità,  molta  arguzia  e,  talvolta,  amore  di  verità 
e  d'osservazione,  ecco  le  sue  buone  qualità  artistiche.  Aveva 
ingegno  fertilissimo  e  grazia  di  forma.  Scrisse  alcune  can- 
zonette popolari  che  levarono  romore,  collaborò  al  famoso 
Cuor  pò  de  Napole,  insegnò  recitazione  in  privati  istituti.  Era 
modesto  e  buono;  la  sua  satira  non  offendeva,  ne  pareva 
volgare.  Morì  a'  7  aprile  del  1876.  Del  suo  teatro  si  trovano 
stampate  solo  tre  commedie,  le  più  fortunate  :  E  femmena 
o  è  Nicola  ?  —  Madama  quatto  solde  —  Lo  cappiello  de 
*Don  Gennaro. 

VII. 

Nicola  Tauro  —  impresario  del  San  Carlino,  nel  1864,  il 
Verniero  —  librettista  di  vaudevilles,  avea  già  tentato,  con 
poco  successo,  nel  1849,  di  far  rientrare  la  musica  in  quel 
teatro.  Quando  Silvio  Maria  Luzi  dovette  lasciare  San  Carlino 
l'ex  librettista  Tauro  vi  mise  tenda  e  vi  si  mantenne  sei 
mesi  con  un  repertorio  d'opere  musicali  che  non  ebbe  suc- 
cesso di  sorta.  Al  '64  vi  tornò  col  Verniero,  ma  neppur 
questa  volta  egli  e  l'impresario  uscirono   dal   San    Carlino 


—  381   — 

con  le  saccocce  piene,  il  teatro  della  commedia  popolare 
era  refrattario  a  ogni  altro  genere  di  spettacolo  che  non  fosse 
quel  della  prosa. 

Che  dire  di  Francesco  Zampa,  figlio  dell'attore  Tommaso 
e  nipote  della  caratterista  Serafina  ?  Di  lui,  del  Campanelli, 
del  Cofino,  di  Davide  Petito  non,  certo,  si  potrebbe  scrivere 
a  lungo.  Furono,  quale  più,  quale  meno,  improvvisatori  di 
commedie  nulle  e  avventizie,  le  quali  non  tennero  lunga- 
mente il  cartello  e  non  ebbero  importanza  di  sorta.  Un  vivace 
ingegno,  fertile  e  versatile,  addimostrò  nelle  sue  Antonio  di 
Lerma  di  Castelmezzano,  che  principiò  a  scrivere  pel  San 
Carlino  intorno  al  1866.  Luigi  Melina,  finalmente,  esordì 
con  una  farsetta,  in  versi,  per  l'apertura  del  Nuovo,  al  1 864, 
e  continuò  poi  a  scrivere,  per  qualche  anno  ancora,  com- 
mediole  innocenti  pel  teatrino  di  Piazza  del  Castello,  quando, 
dal  Nuovo,  vi  rimise  tenda  la  compagnia  del  Luzi. 


Vili. 


Erano  entrati,  fra  tanto,  nella  compagnia  del  San  Carlino, 
al  1853,  due  nuovi  attori  per  i  così  detti  caratteri  :  Raffaele 
di  Napoli  e  Pasquale  de  Angelis. 

Raffaele  di  Napoli,  sarto,  abitava  a  'Piazza  Francese  ac- 
canto al  teatro  Sebeto.  Un  bel  giorno  abbandonò  l'ago  e  il 
ditale  e  prese  la  via  del  Sebeto  cominciandovi,  da  comparsa, 
la  sua  carriera  artistica.  Le  comparse,  per  ottener  l'onore 
di  mostrarsi  sul  palcoscenico  di  quel  casotto  pagavano  tre 
grana  al  giorno  all'impresario  Falanga.  Dopo  un  po'  il  di 
Napoli  fu  scritturato,  al  Sebeto  stesso,  da  Guappo  ;  egli  era 
riuscito  a  conquistare  quel  publico    recitando    le  parti   bri- 


—  382  - 

gantesche  di  Tonno  Grifone,  di  Titta  'o  Grieco,  d'Angelo 
del  Duca,  terminato  il  suo  apprendissage  da  comparsa  :  ora 
che  il  repertorio  accoglieva  anche  produzioni  nazionali  il  bri- 
gante si  mutava  in  rodomonte.  Fama  volat,  si  dice,  e  negli 
ultimi  anni  suoi  Silvio  Maria  Luzi,  che  metteva  occhio  per 
tutti  i  teatri  dialettali  della  città  cercandovi  novelli  elementi 
pel  suo,  saputo  del  valore  del  di  Napoli,  prese  costui  nella 
compagnia  e  gli  assegnò  il  posto  di  guappo  che  fino  a  quel 
punto  avea  tenuto  Raffaele  Santelia. 

Pasquale  de  Angelis,  figlio  di  Giuseppe  e  di  Antonina 
Manzo,  abbandonò  gli  studi  di  medicina  e  si  dette  alle  scene, 
tra  dilettanti,  principiando  a  recitare  con  Giuseppe  Cammarano, 
col  Gaetani,  col  Dura,  col  Tofano  al  teatro  di  San  Severino. 
Nel  1837  prese  a  publicare  un  giornaletto  semiletterario, 
intitolato  La  Specola,  e  lo  mandò  avanti  per  tre  anni.  Nel 
1843,  premiato  con  medaglia  d'oro  a  un  concorso  di  decla- 
mazione che  fu  tenuto  nella  R.  Università,  riunì  parecchi 
dilettanti  e  con  essi  rappresentò  YOtello,  il  Precettore  e  il 
'Vampiro  per  pruova,  suoi  lavori  teatrali.  Ne'  primi  mesi 
del  1 853  Luzi  lo  accolse  in  compagnia  e  gli  affidò  la  parte 
di  marno,  mezzo  carattere.  Nella  parodia  del  trovatore  An- 
tonio Petito  gli  strappò  la  parrucca  con  la  quale  il  disgra- 
ziato nascondeva  la  precoce  sua  calvizie.  Da  quella  sera  gli 
spettatori  protestarono  ogni  volta  che  il  povero  giovane  com- 
parì ornato  dei  suoi  finti  capelli;  egli  dovette  smetterli  per 
sempre,  e  guadagnò  con  quel  sagrifizio  la  simpatia  del  pu- 
blico.  Fu  lo  stesso  Petito  che  gli  affibbiò  il  nome  di  buffo 
Barilotto  :   e  con  quello  il  bravo  commediante  fu  celebre. 


—  383  — 
IX. 

La  parodia,  che  era  un  risultato  anche  più  esagerato  e 
più  impasticciato  della  commedia  d'attualità,  tentava  in  que- 
sto tempo  quanti  si  volevano  togliere  il  gusto  di  gabellarsi 
commediografi  d'un  quarto  d'ora.  Nel  1852  —  per  citarne 
qualcuna  —  aveva  ottenuto  grandissimo  successo  al  San  Carlo 
un  ballo  del  celebre  Giovanni  Briol,  intitolato  :  La  regina 
delle  rose.  Nel  giugno  dello  stesso  anno  ne  fu  data  la  pa- 
rodia al  San  Carlino;  la  stessa  Amalia  Ferraris,  prima  bal- 
lerina del  San  Carlo,  concertò  il  passo  a  due  fra  Salvatore 
Perito  e  la  Zampa,  la  musica  fu  la  medesima  di  quella  del 
San  Carlo,  il  vestiario  venne  allestito  dal  Guillaume,  che  lo 
avea  fornito  al  Massimo,  e  lo  stesso  Vernier,  scenografo  di 
quel  teatro  regio,  dipinse  le  scene  pel  San  Carlino.  Il  ballo, 
preceduto  da  una  commedia  intitolata  :  Li  appassiunate 
de  lo  ballo  la  Regina  delle  rose,  suscitò,  assieme  alla  com- 
media il  più  grande  entusiasmo  e  fu  ripetuto  per  due  mesi 
di  seguito,  facendo  conoscere  al  mondo  teatrale  un  nuovo 
dilettante  parodista,  il  signor  Paolo  Montuoro. 

Si  andò  avanti  a  questo  modo,  tra  parodie  e  commedie 
d'attualità  fino  al  1856,  nel  quale  anno  per  la  prima  volta, 
la  compagnia  di  Silvio  Maria  Luzi  trasportò  le  sue  tende 
al  Valle  di  Roma.  Vi  andò  in  iscena  con  Pulcinella  di- 
sertore e  contadino  (Il  birraio  di  Preston)  :  Antonio  Petito, 
come  narra  un  giornale  di  quel  tempo  (1),  fu  coverto  di 
fiori  e  Altavilla  trionfò  nella  farsa  :    //   pittore   di  un  morto 


(1)  //  palazzo  di  cristallo,   anno   I,   25   aprile    1856. 


—  384  — 

vivo.  La  sera  appresso  fu  data  la  parodia  del  trovatore  con 
un  successo  clamoroso  e  per  un  mese  e  più,  stando  la  com- 
pagnia napoletana  al  Valle,  tutta  Roma  v'accorse.  Fu  un'epoca 
felice  per  i  comici  del  Luzi,  i  quali  ne  serbarono  il  ricordo 
certo  assai  più  lungamente  che  non  serbassero  in  saccoccia 
i  quattrini  che  avevano  guadagnati. 


X. 


Dopo  il  1848  il  1860. 

Tornati  da  Roma  carichi  di  quattrini  e  d'allori  i  troglo- 
diti di  Piazza  del  Castello  rientrarono  nella  lor  tana.  A  Silvio 
Maria  Luzi,  morto  intorno  al  '60,  era  succeduto  il  figliuolo 
Giuseppe,  nelle  cui  mani  si  ritrovavano  adesso  le  redini 
dell'impresa.  Altavilla,  Antonio  Perito,  Pasquale  de  Angelis, 
Raffaele  di  Napoli,  il  vecchio  Salvatore  Perito,  Natale,  Gio- 
vanni de  Chiara,  la  Frabboni,  Vincenza  Tremori,  Rosa  e 
Adelaide  Agolini,  Lisgara  e  Zottola  formavano  tuttora  il 
nucleo  della  compagnia  nazionale.  Riaperto  il  teatro  s'andò 
in  iscena  con  una  commedia  d'Altavilla;  gli  spettatori  ritro- 
varono nelle  loro  vecchie  conoscenze  lo  stesso  brio,  la  stessa 
comicità,  l'antico  valore  :  risero,  s'accontentarono  e  tranquil- 
lamente, senza  altro  pretendere,  andarono  via.  E  fino  al  1 86 1 
le  attualità  d'Altavilla,  attualità,  direi,  retrospettive  poi  che 
il  brav'uomo  riandava  a  commedie  sue  che  già  contavano 
qualche  lustro  e  più,  la  passarono  liscia.  Ma  come,  nel  gennaio 
del  1862,  i  Giuseppe  Maria  Luzi  saltò  in  capo  di  rimet- 
tere in  iscena  VAnnella,  un  giornale  quotidiano  di  quelli 
che  ogni  giorno  predicavano  la  struzzione  (istruzione)  de  lo 
popolo,  il  famoso  Cuorpo  *De    Napole  e  lo    Sebeto,    lanciò 


—  385  — 

la  prima  bomba  contro  la  bicocca  di  Piazza  del  Castello. 
«  Nce  facimmo  maraveglia  —  esclamò  —  che  a  chisto  Triato 
s'à  da  fa  la  stessa  jìnnella  de  Portacapuana  che  se  faceva 
50  arine  fa  !  Embè,  non  ce  sta  niente  de  nuovo  ?  No,  nuie 
nun  ce  la  potimmo  scennere  !  No  triato  popolare,  a  lengua 
nosta  ha  da  essere  scola  pe  lo  popolo,  scola  de  libbertà, 
e  si  ce  stesse  chi  se  mettesse  paura  a  scrivere  so  cattive 
cetatine.  Lo  guappo  napolitano  non  a  da  abbuscà,  lo  Pu- 
lecenella  non  ha  da  essere  no  smocco....  La  caratteristica  ha 
da  essere  na  marpiona,  no  na  vommecosa,  nzomma  s'ha  da 
scrivere  de  n'ata  manera.  Sapimmo  ca  lo  Governo  nce  sta 
penzanno  e  fa  buono,  sapimmo  pure  ca  darrà  no  ncorag- 
giamiento  a  lo  Triato  si  farrà  chesto  e  va  meglio,  ma  met- 
timmoce  ncapo  che  s'ha  da  fa,  e  s'ha  da  fa!  »    (1). 

Il  fuoco  era  aperto;  e,  come  se  Lo  Cuorpo  de  Napole 
e  lo  Sebeto  avesse  aspettata  questa  occasione  per  isquadei- 
nare  agli  occhi  di  Luzi  le  azioni  gloriose  degli  altri  teatri 
della  città,  associati  in  un  solo  criterio  di  libertà  spettaco- 
losa, il  giornale  dialettale  andò  annoverando,  giorno  per  giorno, 
le  imprese  esemplari  della  Fenice,  della  T^artenope,  del  Fondo 
che  al  loro  publico  offerivano  commedie  e  drammi  cavati 
dagli  episodii  più  infiammanti  della  conquistata  libertà. 
E,  al  2  febbraio  1 862,  Lo  Cuorpo  de  ZNjipole  notava  : 
«  Lo  Triato  de  Donna  ^Michela  a  lo  Carmene  s'è  por- 
tato sta  semmana  de  na  guappa  manera.  Lo  Direttore  è  ve- 
nuto addò  nuie  a  mmitarce  e  avimmo  viste  li  pupe  vestute 
de  tre  culure,  avimmo  visto  li  bannere  de  Savoia,  avimmo 
ntiso  parole  de  libbertà  e  de  patria.  Benone  !  Le  stregnimmo 


(1)   Lo  Cuorpo  de  ^Capote  e  lo  Sebeto,  anno  HI,  27   gennaio    1862. 
DI  GIACOMO.  -  S.  Carlino.  2  5 


—  386  — 

la  mano  e  lo  priammo  de  sequela  accessi  che  lo  popolo 
s'ha  da  mparà.  » 

In  quei  giorni  il  Marulli  spediva  al  giornale  la  lettera 
seguente  : 

«  Mio  caro  Cuorpc  de  Napole  !  Screvenno  a  te  che  sì 
de  li  nuoste  l'aggio  da  fa  afforza  a  lengua  chiantuta  e  sim- 
mele  a  chella  co  la  quale  tu  struisce  lo  popolo  nuosto, 
nzieme  co  lo  Sebbeto.  Aggio  letto  dinto  a  lo  {T^uompiso  de 
lo  giornale  tuio  na  lavata  de  capo  che  faie  a  lo  Triato 
de  S.  Carlino.  Benfatto  !  Sopierchio  buono,  e  secoteia  sempe 
accossì  ca  la  capa  è  tosta  e  la  malattia  è  ttale  ca  senza 
fìerro  e  fuoco  non  se  sanarrà  pe  mo.  Altavilla  avette  lo 
piacere  de  fa  rappresenta  lo  Patriotto  e  Core  cattive  e  core 
libberale  pecche  appena  tastiavano  cose  comme  avarriano  da 
essere  chelle  che  s' avarriano  fa  mo  —  ma  io  che  te 
scrivo  non  aggio  potuto  ave  lo  piacere  de  vede  rappresen- 
tate tre  cose  de  li  meie,  fuorze  pecche  troppo  aggio  chiac- 
chiariato  chiaro.  La  primma  è  na  commedia  de  5  atte  che 
accommenza  da  doppo  lo  1  5  maggio  1 848,  che  t'alliccordar- 
raie.e  fenesce  a  lo  momento  de  la  trasuta  de  Zi  Peppo  (1) 
li  7  settembre  1860.  N'autra  è  nientemeno  che  lo  fatto  storeco 
groliuso  de  Masaniello  nuosto,  ma  vestuto  propeto  co  lo 
cazonetto  e  cammisa  e  senza  tene  mocca  lo  chente  o  Yun- 
quanco  ma  chiacchiarianno  la  vera  lengua  soia  ;  e  l'urdema 
e  n'autra  commedia  de  tre  atte  che  chiacchiarea  de  la  ce- 
lebre congiura  de  Posilleco,  de  lo  comme  fuje  scoperta  ecc. 
e  tutte  e  tre  chiene  de  chille  sentimiente  che  lo  popolo 
nuosto  s'ha  da  mparà  e  de  chello  poco  de  struzzione    che 


(I)  Garibaldi. 


—  387  — 

lo  scarzo  talento  mio  ha  potuto  dà  a  lo  stesso.  Cheste  tre  cose, 
quaccheduna  mo  sento  che  se  volarrà  fa  a  Quarajesema,  ma... 

Pe  consequenzia,  giacche  tu  aie  accomenzato  a  dà  ncapo, 
secotea. 

Statte  buono,  magna  forte  tu  e  tutte  li  guagliune  tuoie, 
salutarne  a  lu  Sebeto  e  Donna  Marianna  la  senza  naso  e 
tieneme  sempre  n'core. 

Da  no  cafè  lo  cchiù  paccariato  de   Napole , 
li  28  Jennaro    1862. 

Giacomo  Marulli  (1).  » 

Ma  Luzi  non  si  faceva  commuovere  dal  Marulli,  ne  dava 
retta  al  giornale.  Senza  inni  patriottici,  senza  spettacoli  ga- 
ribaldini egli  vedeva  sempre  pieno  zeppo  il  suo  fosso  della 
solita  gente  che  voleva  ridere  e  degli  ammonimenti  non  si 
turbava,  né  pigliava  conto. 

Lo  Cuorpo  de  Napole  continuò,  tuttavia,  a  dargli  addosso  : 

«  San  Carlino  sta  semmana  ha  fatto  denaro.  Nuie  aspet- 
tammo ca  ce  mantenesse  la  promessa  e  facesse  rappresenta 
commedie  de  lo  tiempo  de  mo.  Una  cosa  non  pigliasse  a 
luongo,  ca  si  no  nce  appiccecammo  nauta  vota.  Pe  mo 
tenimmo  mmano  »    (2). 

E  più  tardi  : 

«  San  Carlino  non  s'arrenne.  Robbe  vecchie  a  bucn 
prezzo,  scemità  a  quatto  a  grana.  Tre  vote  s'è  fatta  la  com- 
media Sposalizie  e  mazzate,  e  cheste  nce  vorriano  pe  chi 
non  vò  spennere  niente  pe  lo    popolo  !    Sapimmo    che    lo 


(1)  Lo   Cuorpo  ecc.   anno   III,   n.   34,   2   febbraio    1862. 

(2)  9  febbraio    1862. 


—  368  — 

Governo  ha  fatta  na  commissione  pe  l'opere  triatrale  ;  pe 
San  Carlino  cchiù  de  tutte. 

Ma  nuie  nun  vurnamo  ca  se  venesse  a  chesto,  e  la 
stampa  bona  farrà  l'ufficio  suio  dicenno  da  dò  prevene  lo 
male  »    (1). 

Qualche  giorno  appresso  ripicchiava  : 

«  San  Carlino  scasseia  co  cose  vecchie  e  non  s'arrenne. 
E  passata  n'autra  semmana.  Mo  nce  avutammo  a  lo  mpres- 
sario  e  le  dicimmo  chiaro  chiaro  che  da  isso  dipenne  che 
le  cose  non  s'acconciano  a  chillo  Triato  !  »    (2). 

E,  difatti,  nella  nota  di  cronaca  che  segue,  si  rivolse 
all'impresario  : 

«  Pare  no  destino,  ma  doppo  San  Carlo  pe  nuie  non 
ce  sta  che  San  Carlino  lo  quale  ha  stampato  la  nota  de 
la  compagnia  e  lo  nomme  de  lo  mpressario.  Ora  mo,  caro 
don  Giuseppe  Maria  Lazio  (sic)  ,  nuie  sapimmo  ca  vuie 
site  n'ommo  mo  nce  vo  commerzebbolo  e  trattebolo,  ma  si 
non  nce  schifate  allungate  le  recchie  ca  ce  sta  na  chelleta 
a  la  quale  tanto  ve  n'avimmo  da  dicere  che  a  la  fine  avite 
da  mettere  jodicio.  Vuie  dicite  dinto  a  lo  cartiello  ch'avite 
stampato  ca  se  farranno  commedie  pe  ridere,  e  va  buono, 
commedie  nove  e  va  meglio,  pecche  sarrà  sempe  na  cosa 
de  chiù  ca  non  fanno  a  li  Fiorentine.  Ma  quanno  tu  dice 
ca  se  farranno  commedie  d'attualità  che  vuò  ntennere? 
Fuorze  ca  si  vene  monzù  Felippo  le  farraie  la  carncatura, 
ca  si  se  fa  n'autro  trovatore  le  farraie  la  parodia  ?  Ma 
nuie  a  dirtelo  quatto  e  quatto  fanno  ottantotto  l'attualità  la 


(1)  Martedì,    16  febbraio    1862. 

(2)  Domenica,   20  febbraio    1862. 


—  389  — 

ntennimmo  de  n'autra  manera,  ntennimmo  p  attualità  li  cose 
che  succedono  mo,  l'affare  politece,  la  scola  de  struzione 
popolare  che,  ogge  na  botta  dimane  n'autra,  mpara  a  lo 
popolo.  Ora  tu,  carissemo  don  Giuseppe  Maria  Lazio,  saie 
l'idee  noste  ncopp'a  sta  cosa  e  può  contentarce  de  na  ma- 
nera  o  de  n'autra,  pecche  ogne  citadino  aunesto  à  da  con- 
tribuì come  meglio  po'  a  lo  vantaggio  de  lo  popolo  ;  niente 
meglio  che  lo  Triato,   po'  essere  scola  pe  lo  popolo. 

Onne  simmo  perzuase  che  mettennoce  la  bona  ntenzione 
riusciarraie  a  fa  scrivere  chelle  cose  che  ponno  turnà  utele 
pe  sta  via  a  li  popolane  nuoste.   Nce  capimmo»    (I). 

Quel  nce  capimmo  decise  Luzi.  Nel  maggio  dello  stesso 
anno  1862  egli  accondiscese,  finalmente,  a'  desiderii  del 
Cuorpo  de  Napole.  E  il  giornale  annunzia,  che  una  delle 
tre  commedie  del  Marnili  citate  nella  lettera  del  28  gen- 
naio, è  andata  in  concerto.  Pochi  giorni  dopo  la  commedia 
fu  rappresentata  e  potete  immaginare  con  quale  successo. 
S'intitolava  :  Lo  corrivo  de  li  codine  e  la  gioia  de  li  lib- 
berale  pe  l'arrivo  a  Zh[apole  de  lo  Re  Galantommo,  co  Pa- 
scariello  sparatore  de  mbomme-carte.  Vi  recitarono  tra  gli 
altri,  Antonio  Petito  da  Pascariello,  Lisgara,  Di  Napoli, 
Altavilla,   Natale,  la  Morsella  e  la  Moxedano. 

Vittorio  Emanuele  era,  di  quei  giorni,  in  Napoli.  Una 
sera  Luzi  fu  chiamato  a  Palazzo  Reale  e  seppe  che  il  re, 
curioso  d'assistere  a  uno  spettacolo  sancarlinesco,  sarebbe 
venuto  a  teatro  nella  sera  appresso.  Un  contrordine  ina- 
spettato non  dette  tempo  al  Luzi  di  preparar  meglio  le  cose. 
Nello  stesso  giorno  in  cui  l'impresario  era  stato  chiamato  a 


(1)  Lunedì,  21    aprile   1862. 


—  390  — 

Palazzo,  Vittorio  Emanuele  si  recò,  assieme  al  Rattazzi,  al 
teatrino  di  Piazza  del  Castello.  Cavo  dallo  stesso  Cuor  pò 
de  Napole  i  particolari  dell'avvenimento. 

«  L'autriera  a  ssera  —  dice  il  giornale  —  lo  triato  de  lo 
popolo  à  avuto  n'annore  ca  nisciuno  rignante  ce  l'ha  dato 
ancora.  Vittorio  Emanuele  nziemme  co  Rattazzi  jette  a  San 
Carlino  pe  vede  li  costume  de  lu  popolo  vascio  nuosto,  e 
pe  gusta  lo  carattere  buffo  de  lo  Pulecenella  napolitano  che 
nisciuno  paese  possedè.  Mperò  co  tutto  ca  simmo  perzuase 
ca  l'attore  pe  fa  meglio  facetteno  peggio,  pure  dicimmo 
e  lo  dicimmo  co  ddispiacere  che  chillo  non  era  spettacolo 
da  offrirse  a  no  Re.  Io  dico  ca  lo  mpressario  a  n'ora  e 
meza  de  notte  fuie  chiammato  da  lo  soprantennente  pe 
sape  ca  lo  Re  sarria  iuto  a  San  Carlino,  e  che  voleva 
sentì  na  commedia  co  lo  Polecenella  e  che  dinto  a  mez'ora 
de  tiempo  la  confusione  non  le  facette  vede  che  bonora 
s'aveva  da  rappresenta  ;  ma  nfra  tanta  parodie  d'Altavilla, 
addò  li  carattere  napulitane  traseno  a  ccofane,  scegliere  na 
commedia  stravecchia  e  nzipeta  (si  volite),  addò  nun  ce 
trase  nisciuno  carattere  de  lo  popolo,  è  cosa  ca  non  se 
perdona  né  a  lo  mpresario  ne  a  Fatture.  A  'Petito  pò 
l'avimmo  dì  co  tutta  franchezza  ca  l'autra  sera  perdette 
tutto  lo  spireto.  —  Pareva  no  buffo  Toscano  anze  che  no 
Pulicenello  —  Simmo  perzuase  ca  isso  lo  fece  pe  fa  capi  a 
lo  Rre  lo  spireto  de  li  parole,  parlanno  a  lengua  tosca,  ma 
si  lo  Rre  voleva  sentì  la  lengua  Toscana  se  ne  sarria  iute 
a  li  Fiorentine.  Lo  Rre  voleva  sentì  lo  dialetto  e  lo  mpres- 
sario facette  male  a  non  scegliere  na  commedia  addò  nce 
trasevano  assaie  carattere  napulitana.  Facette  male,  anze 
malissemo  a  non  fa  recita  De  Angelis,  e  Di  Napoli  da 
guappo.   Nzomma  tanto  la  commedia    (Le    metamorfosi    de 


—  391  — 

Pulicenella)  che  la  farza  (Pulecenelia  micàceo  a  forza  de 
bastonate)  riuscettono  fredde,  fredde.  Lo  Rre  redeva  e  va 
buono  e  se  trattenette  nfi  a  l'urderno,  ma  avarria  reduto 
cchiù  si  se  fosse  rappresentata  na  commedia  de  Altavilla. — 
Lo  Rre  fu  accuoveto  da  apprause  a  lo  veni  e  a  lo  ghì  »  (1). 


XI. 


Memorabile  questa  campagna  del  Cuorpo  de  Napole  con- 
tro Luzi.  Il  giornale  non  gli  perdonava  neppur  quando  la 
bonaria  risata  del  Re  Galantuomo  suonava,  in  quell'antro, 
dal  palchetto  numero  due,  di  prima  fila,  come  un  suggello 
d'oblio  alle  tacite  dimostrazioni  antiliberali  dell'impresario. 
Però  Luzi,  seccato,  finì  per  voltar  le  spalle,  temporanea- 
mente, alla  patria  e  tornò  a  Roma. 

I  codini,  i  reazionarii  s'erano  proprio  rifugiati  lì,  dalle 
prime  avvisaglie.  Parecchi  di  loro,  napoletani,  come  videro 
giungere  la  compagnia  del  Luzi  nella  città  de'  Cesari,  non 
mai  così  frequentata  come  in  quei  giorni  da  principi  spo- 
destati, trovarono  provvidenziale  per  le  malinconie  dell'esi- 
lio volontario  quest'arrivo  di  patrii  buffoni.  Il  Valle  riboc- 
cava ogni  sera  del  publico  più  aristocratico  e  le  commedie 
d'Altavilla  vi  trovavano  plaudenti,  non  critici  politicanti. 
Ma,  ahimè,  l'applauso  pacifico  sortì  un  effetto  sciagurato  ; 
quei  comici,  lontani  dal  focolare  liberale,  sicuri  a  Roma 
ov'era  sicura  e  ancor  riverita  tutta  la  copiosa  famiglia  bor- 
bonica, presi  da  non  so  quale  improvvisa  tenerezza  per  essa, 


(  1  )  Venerdì,    1  5   maggio    1 862. 


—  392  — 

la  manifestarono  nelle  rappresentazioni  e  la  confortarono 
d'ironiche  tirate  all'indirizzo  dei  liberali  e  della  libertà.  Li- 
bertas  —  osservava  un  di  loro,  dal  palcoscenico  —  non  m'è 
parola  nuova.  Che  vorrà  significare  ?  Ah,  ecco  :  libere  tasse  ! 
Altri  diceva  :  Jlggio  avuto,  dint'o  cafè,  nu  pagnottino  chiam- 
mato  «  turino  »  Robba  piemuntese.  Comme  se  vede  !  Chino 
'a  fora  e  vacante  'a  dinto  !  Questo  spirito  di  cattiva  lega 
costò  assai  caro  a  tutta  la  compagnia  quando  tornò  a  Na- 
poli. E  l'allarme  fu  dato  dall'inesorabile  Cuorpo  de  Napole. 
A'  primi  di  maggio  del  1863  il  terribile  giornaletto  annun- 
ziava : 

«  Lo  mpresario  de  S.  Carlino,  Luzi,  è  tornato  da  Roma, 
fuorze  p'arreparà  a  lo  grancefellone  che  à  pigliato,  cioè  de 
porta  la  compagnia  a  Roma  pe  fa  divertì  a  li  nobbele  na- 
politane  e  a  l'ex  Corte,  e  tutto  pe  poche  centenara  de  du- 
cate  de  guadagno  i  Nfradetanto  avimmo  sentuto  che  a  la 
pnmma  receta  che  faciarrà  la  Compagnia  ZN^azionale  Bor- 
bonesca,  de  rituorno  da  Roma,  a  S.  Carlino  nce  sarrà  na 
dimostrazione  niente  decente.  Veramente  la  soprascritta  va 
a  la  compagnia,  ma  la  lettera  è  a  lo  'mpressario  »    (1). 

E  il  giorno  appresso  : 

«  Stasera  la  compagnia  de  S.  Carlino  de  retuorno  da 
Roma  darrà  la  primma  rappresentazione  »    (2). 

Ed  ecco  il  resoconto  della  serata  : 

«  Ajere  ssera,  secunno  s'era  ditto,  succedette  la  dimo- 
strazione a  S.  Carlino.  Li  bigliette  erano  fernute  e  3,  o  4 
ciento  perzune  stevano  fora  aspettanno  de  piglia  parte  a  la 


(1)  Lo  Cuorpo  de  Napole  e  lo  Sebeto,  anno  IV,  Lunedì,  1  1  maggio  1863. 

(2)  Anno  IV,  Martedì,    12  maggio   1863. 


—  393  - 

dimostrazione.  De  primma  scena  erano  Altavilla  e  la  d'An- 
gelo e  fuieno  salutate  da  sische,  allucche,  scorze,  ova  fra- 
cete  etc.  Volenno  la  folla  de  fora  trasì  dinto,  pe  mmiezo 
se  nce  miscaie  quacche  borbonico,  e  non  volenno  se  tirale 
no  corpo  de  rivolvero.  Chesto  facette  nascere  n'ammuina, 
ma  pò  lu  pubbreco,  alluccanno  :  Viva  l'Italia,  Viva  Vit- 
torio Emanuele  !  ogne  cosa  fenette.  Fuieno  rutte  solamente 
tutte  li  lume  e  li  lampiune  »   (  I  ). 

Al  quale  resoconto  il  giornale  soggiunge  il  seguente  dia- 
logo comentativo  tra  il  Cuorpo  de  Napole  e  il  Sebeto  : 

Sebeto.  Tu  comme  vattije  lo  fatto  de  l'autra  sera  a  San 
Carlino  ? 

Cuorpo  de  Napole.  Dico  ch'era  na  lezzione  che  nce  voleva. 

Sebeto.  Ma  aje  da  commenì  co  me  ca  chill'affare  de  lo 
corpo  de  rivolvero  nun  stette  niente   buono. 

Cuorpo  de  Napole.  Non  stette  buono  sicuro  e  fuie  na  cosa 
ca  non  steva  scritta  dint'a  l'ordene  de  lo  juorno.  Mperò 
chillo  che  fuie  e  ch'era  na  guardia  de  Prubbeca  Sicu- 
rezza stravestuta  ha  avuto  purzì  la  lezzione  soia. 

Sebeto.  Ma  è  lo  vero  ciò  che  se  dice  a  riguardo  de  chello 
ch'ha  fatto  la  compagnia  ^[azionale  (!)  a  Roma  ? 

Cuorpo  de  Napole.  A  comme  se  dice  è  vero  cchiù  che 
vero,  e  diverze  atture  codine  se  ne  so'  viste  bene  a  me- 
narce  purcaria  nf accia. 

Sebeto.  Addonca  li  napolitane  facettero  buono  l'autra  sera 
ad  accogliere  la  compagnia  comme  se  mmeretava? 

Cuorpo  de  Napole.  Era  na  protesta  che  nce  voleva  pe  non 
fa  dì  che  li  napolitane  se  rennevano  compiece  d'autre 
napolitane  ch'erano  state  a  Roma  a  divertì  li  riazziunarie. 


(  I  )    13  maggio    1 863. 


—  394  — 

Sebeto.  Ma  ccà  pare  che  lo  tuorlo  cchiù  gruosso  l'ave  lo 
mpressario,  lo  quale  pe  3  mila  ciucate  (comme  se  dice) 
jette  a  Roma. 

Cuorpo  de  Napole.  E  chesto  se  sapeva  e  nuie  l'avimmo 
ditto  juorno  fa  che  la  soprascritta  era  de  la  compagnia 
e  la  lettera  jeva  a  lo  mpressario.  Lo  mpressario  co  st'af- 
fare  de  ì  a  Roma  s'è  mostrato  scanoscente  assaie  co  lo 
prubbeco  napolitano,  lo  quale  ogni  sera  le  jencheva  lo 
triato,  e  la  famiglia  Luzi  s'ha  fatto  na  fortuna  de  paric- 
chie  migliara  co  li  napolitane.  Sto  mpressario  ha  fatto 
arriva  lo  prezzo  de  li  palche  a  32  canine  e  li  poste  de 
platea  a  25  grana  e  lu  prubbeco  è  curzo  a  lo  triato.  E 
chesto  pe  sentì  la  compagnia  Stazionale.  Ma ,  ecco 
qua  so'  state  li  ringraziamente  de  la  compagnia  ^[azio- 
nale ! 

Sebeto.  E  pò  steva  bene  ca  uno  che  è  capitanio  de  la 
Guardia  Nazionale  pe  na  piccola  speculazione  macchia 
lo  bottone  de  la  melizia  cettadina? 

Cuorpo  de  Scapole.  Basta,  comme  fuie  fuie  li  riazziunarie 
da  chesto  saparranno  che  nuie  nce  afferrammo  a  capille 
ogne  ghiuorno,  e  nce  dicimmo  no  sacco  de  corna,  ma 
po'nfaccia  a  na  protesta  libberale  simm'aunite  repubbri- 
cane,  menesteriale,  costetuzionale,  garibaldine,  formammo 
uno  cuorpo  e  un'anema.  Me  despiacette  che  se  venette 
a  quacche  via  de  fatto  contro  a  quacch'attore,  ma  nfaccia 
a  no  popolo  offeso  è  difficele  a  ngarrà  la  strata  de  la 
prudenzia  e  de  la  moderazione. 

Sebeto.  Chesto  sia  pe  mparatura  de  tutte  li  papaline!  (1) 


(I)  Idem,    14   maggio    1863. 


—  395  — 

Altri  particolari  del  fatto  sono  narrati  appresso  : 
«  Tornammo  ncopp'a  lo  fatto  de  San  Carlino.  Nfra  li 
tuorte  addebetate  da  lo  prubbeco  contro  ad  Altavilla  nce 
sta  chillo  che  a  Roma,  pe  fa  piacere  a  li  riazziunarie,  ha 
scritto  e  rappresentata  la  commedia:  ^(Cazzate  che  perdono 
tiempo !  Pe  sta  raggione  diverze  perzone  ì'aspettaieno  fora, 
dall'autra  porta  a  la  strada  Travaccare,  e  venetteno  a  vie 
di  fatto,  cosa  che  a  nuie  è  dispiaciuto  non  poco  pecche 
non  vularriamo  ca  lo  popolo  cacciasse  lo  pedo  da  lo  singo. 
Avastavano  li  scorze,  li  sische,  li  prete  e  li  portovalle  fra- 
cete  che  aveva  ricevuto  dinto.  A  chisto  proposeto  avimnio 
saputo  che  l'autre  atture  se  ne  scappaieno  a  li  primme  si- 
sche. Nfra  li  danne  fatte  a  lo  mpressario  nce  stanno  tutte 
li  lume  rutte,  lo  telone  stracciato,  scene  e  segge  guastate. 
Nce  fuie  quaccheduno  che  dicette  :  Dammo  fuoco  a  lo 
triato  !  Ma  lo  prubbeco  lo  facette  sta  zitto  anche  pecche, 
a  comme  ne  dicetteno,  lo  proprietario  de  lo  triato,  Mor- 
mone, scennette  e  assicuraie  la  folla  che  la  compagnia  Luzi 
non  avarria  cchiù  recitato  a  chillo  triato.  Mo  San  Carlino 
sta  nchiuso  e  non  s'araparrà  pe  mo.  Non  volimmo  fernì 
senza  dà  na  parola  de  lode  a  lo  delegato  de  Prubbeca 
Sicurezza  che  steva  dinto  a  lo  palco  de  la  Polizia,  lo  quale 
mmiezo  a  l'ammoina  generale,  se  levaie  da  cuollo  la  fascia 
de  tre  culure  e  mostrannela  a  lu  pubbreco  alluccaie  :  Viva 
l'Italia  !  Viva  Vittorio  Emanuele  !  Ordine,  fratelli  !  A  la 
vista  de  chille  colure  tutte  alluccaieno  :  Viva  lo  re  d'Italia  ! 
Viva  Vittorio  Emanuele  !  E  se  n'ascetteno  fora  ntramente 
che  l'orchestra,  tremmanno  pe  la  paura,  arrivaie  a  racca- 
pezzare l'inno  de  Garibalde  »    (1). 


(1)  Idem,  ibidem. 


396 
XII. 


Nella  mattinata  di  quel  12  maggio  Giuseppe  Maria  Luzi 
avea  presa  la  consegna  del  teatro  dalla  compagnia  Zottola. 
Sapeva  d'un  certo  fermento  che  minacciava  lui  ed  i  suoi 
comici,  ma  non  immaginava  punto  che  sarebbe  scoppiato  a 
quel  modo.  Alle  prime  minacciose  proteste  del  publico 
Antonio  Petito  s'arrampicò  fino  al  cielo  del  palcoscenico  e 
vi  si  nascose  tra  le  scene  arrotolate,  sulla  così  detta  grati- 
cola. Natale  fece  scappar  nel  vico  Travaccari  il  povero  Al- 
tavilla e  Giovanni  de  Chiara,  un  altro  de'  comici,  lo  na- 
scose dietro  di  se.  Ma  parecchi  furibondi  inseguirono  il 
disgraziato  commediografo  fino  in  quel  vico,  lo  scovarono  e 
rincorsolo  per  le  scale  del  palazzo  Sirignano,  ove  egli  cer- 
cava riparo,  sconciamente  lo  percossero  e  lo  ferirono.  Le 
donne  della  compagnia,  ch'erano  Chiara  d'Angelo,  la  Frab- 
boni  e  la  Schiano,  se  la  cavarono  con  soltanto  la  paura  :  il 
Buffo  Barilotto  si  seppellì  sotto  al  palcoscenico,  uscendone 
a  riveder  le  stelle  dopo  un  paio  d'ore  dal  fatto. 

I  dimostranti  sbizzarritisi  sul  San  Carlino,  compirono  al- 
tre imprese  in  quei  pressi  e  se  la  pigliarono  con  quanti 
parvero  ad  essi  sospetti.  I  cantanti  Francesco  e  Corradino 
Sortino,  siciliani,  penetrati  in  un  caffè  vicino  alla  cosi  detta 
Qran  Guardia,  a  pochi  passi  dal  teatro,  bastonarono  alcuni 
professori  d'orchestra  che  s'erano  messi  a  gridare  :  Fuori  i  li- 
berali !  Nella  mischia  rimasero  ferite  meglio  di  dieci  persone. 

Antonio  Petito  s'affrettava,  intanto,  a  spedire  al  Cuorpo 
de  [SCapole  la  seguente  Protesta  di  ^otonno  Petito  a  lo 
prubbeco  napolitano  : 


—  397  — 

«  Io  non  ve  parlo  né  co  la  risa,  né  co  la  pazzia,  corame 
so  soleto  de  fa  ncopp'a  la  scena  ;  ma  co  lo  dolore  a  lo 
core  e  spero  che  mme  credarrate. 

«  Nuie  autre  comece  lenimmo  na  scrittura  co  lo  mpres- 
sano  che  quanno  a  chisto  le  pare  e  piace  avimmo  da  re- 
cetà  addò  crede.  E  si  quacche  comeco  non  crede  de  ri- 
spettarlo pavana  na  murda  de  6  milia  ducale. 

<  Se  dice  e  s'è  ditto  ca  io  ncopp'a  la  scena  a  Roma, 
aggio  parlato  male  de  lo  Governo  e  de  lo  Re  nuosto  Vit- 
torio Emanuele  !  Ma  comm'è  possibile  ?  Che  fuorze  Na- 
poìe  non  me  canosce  ?  E  non  canosce  comme  me  so  lan- 
zato  pe  la  libbertà  ncopp'a  la  scena  ?  Ma  che  ncapo  a  me 
manca  n'onza  de  sentimento?  E  pò,  mmostrà  la  ngratetu- 
dene  a  chi  mme  fa  de  bene,  a  lo  re  nuosto  !  Sarria  troppo 
tristo  ! 

«  Se  io  a  Roma  avesse  ditto  quacche  parola  comme  s'è 
ditto,  stateve  sicuro  ca  lo  Comitato  Liberale  di  Roma  ca 
steva  sempre  dint'a  lo  Triato,  m'avarria  fatto  ntorzà  li  parole 
nganna  e  quacche  cosa  de  peggio,  comm'è  succieso  a  quac- 
chedun'autro,  non  de  l'aita  nosta,  a  chella  città. 

«  Volite  sape  la  verità  ?  Embè,  screvite  a  lo  Comitato 
Nazionale  a  Roma  ca  chillo  ve  diciarrà  si  è  lo  vero  tutto 
chello  che  s'è  ditto  ;  e  si  aggio  tuorto  facitene  chello  che 
volite  de  me. 

«  Fernesco  dicennove  che  non  comme  Pulecenella,  ma 
comme  Totonno  Perito,  pe  me  allucco  sempe  :  Viva  l'Italia! 
Viva  Garibalde  !  Viva  Vittorio  Emanuele  !»   (1) 

Nessuno,  pel  momento,  tenne   conto    della    pulcinellesca 


(1)  Idem,    15   maggio   1863. 


—  398  — 

lettera.  Nel  2  giugno  Luzi  riebbe  dal  Mormone  il  San 
Carlino,  il  teatro  fu  riaperto  nello  stesso  giorno,  ma,  se  non 
di  spettatori,  esso  rimase  deserto  del  solito  buonumore  ;  non 
si  applaudì,  si  rise  assai  poco,  le  resipiscenti  manovre  de' 
comici  trovarono  freddo  e  sprezzante  il  publico.  Nel  9  giugno 
il  cartello  annunziò  uno  spettacolo  a  favore  della  rivoluzione 
polacca.  Troppo  tardi.  Facendone  parola  l'inesorabile  diario 
soggiungeva  :  San  Carlino  ha  pigliato  Pasca  co  sti  viole  ! 
Quanto  dire  :  Stai  fresco,  se  credi  commoverci  con  simili 
ammende  !  Allora  Luzi  emigrò  un'altra  volta  :  la  compagnia 
dei  San  Carlino  passò  alla  vicina  Fenice. 

In  quel  tempo  (giugno  del  1864)  Antonio  Petito  ammalò. 
«  Sentiamo  co  dispiacere  —  scriveva,  finalmente  commosso, 
il  Cuorpo  De  ZNjapole  —  che  lo  bravo  Pulecenella  Totonno 
Petito,  de  l'ex  teatro  de  San  Carlino,  sta  buono  malato. 
Pare  ca  no  conzurdo  de  miedece  avesse  deciso  ca  si  se 
sana  non  ha  da  recetà  cchiù.  Si  s'avvera  sto  fatto  la  com- 
pagnia de  Luzi  pò  arricettà  li  fierre,  pecche  perdenno  Pe- 
tito è  impossibele  che  se  pò  trova  n'ato  artista  originale  e 
graziuso  comme  a  lo  stesso.  »  A  15  aprile  dello  stesso 
anno  il  Petito  subì  un'operazione  chirurgica,  assistito  da  me- 
dici più  illustri,  tra'  quali  il  Palasciano,  che  gli  voleva  un 
gran  bene.  L'operazione  riuscì  a  meraviglia  :  dopo  una  ven- 
tina di  giorni  da  essa  Petito  ricominciò  a  recitare,  comple- 
tamente guarito.  Egli  stesso  combinò  e  preparò  il  mecca- 
nismo scenico  degli  spiriti  folletti  nella  nuova  parodia  del- 
V Incognita  che  Luzi  fece  poi  rappresentare  alla  Fenice. 

Da  questo  teatrino  la  compagnia  mise  tenda  al  Nuovo, 
mentre  l'impresario  Verniero  occupava  il  San  Carlino  con 
una  troupe  che  avea  a  capo  l'attore  Tommaso  Zampa.  La 
compagnia  di  Luzi  al  Nuovo  fu  così  costituita  :  Luisa  Amato 


—  399  — 

Petito  (caratterista),  Marianna  Checcherini  (caratterista  anche 
lei),  Concetta  Natale,  Emilia  Telesco  (servetta),  Angiola 
Agolini,  Adelaide  Agolini,  Adelaide  Petito,  Giuditta  Altieri, 
Antonio  Petito,  Salvatore  Petito,  Pasquale  Altavilla,  Pasquale 
de  Angelis,  Raffaele  di  Napoli,  Andrea  Natale,  Giovanni  e 
Cesare  de  Chiara,  Vincenzo  Santelia,  Vincenzo  Cafora,  Giu- 
seppe Marangelli  (tartaglia),  Giovanni  Pirelli,  Davide  Petito. 
Al  20  ottobre  1865,  partita  la  compagnia  del  Verniero 
per  Livorno,  i  comici  di  Luzi  rientrarono  in  San  Carlino, 
riuscendone,  per  tornare  al  Nuovo,  nel   1867. 


XIII. 


Cinque  anni  dopo,  nel  1872,  morì  Pasquale  Altavilla, 
vittima  d'un  disgraziato  accidente.  Scendeva  le  scale  di  casa 
sua  quando  si  sentì  chiamare  da  una  vicina,  dal  piano  su- 
periore. Ella  gli  gridava  :  Don  Pasquale,  ricordatevi  che 
m'avete  promesso  un  palco  per  una  di  queste  sere  !  Ed  egli 
rispose,  voltandosi  e  guardando  in  su  :  Non  mancherò  alla 
mia  promessa  !  Siete  padrona  del  teatro....  In  questo  gli  fallì 
un  piede  e  il  poverino  precipitò  per  le  scale.  N'ebbe  com- 
mozione addominale  e  cerebrale  che  in  tre  o  quattro  giorni 
lo  condusse  a  morte. 

Nella  mattinata  di  quella  disgrazia  aveva  dato  1'  ultima 
mano  a  una  nuova  commedia.  Ne  avrebbe  portato  il  primo  co- 
pione, come  usava  di  far  sempre,  alla  Madonnina  della  chiesa 
di  Santa  Brigida,  con  1'  obolo  d'  una  piastra  perchè  gliela 
facesse  riescir  bene  come  le  altre.  Poveio  Altavilla  !  La 
piccola  Madonna,  questa  volta,  lo  aspettò  invano,  e  il  copione 
rimase  lì,  sulla  tavola,  in  cucina,  tra  il  gatto  e  il  pozzo. 


—  400  — 

XIV. 

Tre  anni  avanti,  nel    1869,  era  morto  Salvatore  Petito. 

Tra  gli  abitudinarii  delle  passeggiate  al  Molo,  in  quel 
tempo,  erano  due  vecchietti  tranquilli  e  amorosi,  due  vecchi 
colombi  i  quali  parea  che  tubassero  ancora,  teneramente, 
al  cospetto  del  Faro.  Rifacevano,  passo  a  passo,  tre  volte 
o  quattro  la  via  polverosa,  soffermandosi  a  contemplare,  in 
silenzio,  quando  il  dolce  dialogo  languiva,  le  grandi  barche 
nel  porto,  la  flottiglia  serrata  delle  piccole  barche  irrequiete, 
nere,  sudice  sull'acqua  nera  ed  oleosa,  di  cui  era  sparsa  di 
rifiuti  galleggianti  e  di  tritumi  di  carbone  trasbordato  la  su- 
perficie luccicante.  La  via  del  molo,  così  trafficata,  cosi  ro- 
morosa  durante  la  giornata,  si  rappaciava  in  quelle  prime 
ore  della  sera  ;  1  facchini  tornavano  dalla  riva,  a  frotte,  in- 
filandosi per  la  strada  le  giacchette  rattoppate,  passando  sulla 
fronte  che  gocciolava  e  sul  collo  arso  dal  sole  i  loro 
umidi  stracci.  A  uno  a  uno  i  garzoni  carbonai  risalivano, 
dalla  banchina,  la  sudicia  scaletta,  o  s'arrampicavano,  per 
far  più  presto,  pel  muro  bucherellato  che  era  una  spalla  della 
strada  sullo  scalo.  E  sulla  cresta  del  muro  spuntavano ,  a 
mano  a  mano,  teste  spaventose,  incappucciate  di  tela  scura, 
più  nere  del  carbone  che  quelli  uomini  avevano  trasportato 
laggiù,  al  mare.  A  chi  stava  sulla  via  pareva,  subitamente, 
di  vedersi  nascere  tra'  piedi  persone  sbucate  di  sotterra;  delle 
braccia  nere  armeggiavano  sulle  asperità  del  parapetto,  delle 
mani  nere  vi  s'  afferravano  e,  a  un  tratto,  saltava  sul  mar- 
ciapiedi, nella  luce,  un  di  quelli  uomini  seminudi  al  quale 
scorreva  per  le  membra  il  sudore  in  tanti   neri  rigagnoletti. 


—  401  — 

Le  prime  ombre  cadevano,  addensando  a  poco  a  poco 
l'oscurità  sotto  la  murata  che  1'  acqua  tacitamente  leccava; 
di  sopra  il  cielo  era  ancor  luminoso  :  il  tramonto  stagliava 
le  forme  allo  stampo  e  per  gli  aperti  cancelli,  sotto  il  Faro, 
venivano  alla  via,  staccatisi  come  dall'orizzonte  che  le  pro- 
filava, altre  forme  bizzarre  che  sfollavano  la  riva.  Talvolta 
il  silenzio  era  altissimo;  anche  si  spegnevano,  per  un  pezzo, 
i  romori  della  città,  il  vocìo,  il  sordo  rotolìo  dei  carri.  Se- 
guono assai  spesso,  nei  luoghi  dello  strepito,  di  simili  ad- 
dormentamenti  ;  come  il  sole  scompare  e  se  ne  prova  l'an- 
goscioso allontanamento,  persone  e  cose  si  tacciono. 

1  due  vecchietti  peripatetici  rincorrevano  i  loro  ricordi. 
Egli  era  Salvatore  Petito,  ex  Pulcinella  del  San  Carlino, 
ella  era  Marianna  Checcherini  ,  figliuola  di  Giuseppe  e  di 
Francesca  Checcherini,  quegli  autore  d'una  ventina  di  me- 
lodrammi pel  teatro  Nuovo  e  pel  Fondo  e  pei  Fiorentini, 
questa  cantatnce  vantata  e  prima  donna  comica  ne'  più  re- 
putati spartiti  di  Raimonti  e  di  Fioravanti.  Un  profumo  del 
settecento  rimaneva  però  in  quei  tranquilli  peripatetici,  che 
ne'  modi  e  nelle  fisonomie  e  negli  abiti  trattenevano  ancora, 
devoti  ritardatarii,  le  ultime  espressioni  d'un  secolo  fuggente. 
La  Checcherini,  gonfiata  dalla  sua  crinolina  ballonzolante, 
si  pavoneggiava  in  una  gonna  a  fiori,  tutta  rameggiata  di 
verde  tenero  e  terminata  appiedi  da  una  larga  banda  di 
velluto  cremisi.  La  camicetta  di  mantino  un  po'  grinzoso, 
era  decorata  intorno  al  collo  e  sul  petto  da  una  gala  di 
ricamo  smerlato,  a  punti,  così  detti,  alla  genovese.  Il  cap- 
pelino  a  sporta  incorniciava,  tra  una  flora  multicolore,  un 
pallido  volto  malizioso,  ove  brillavano  due  piccoli  occhi  mo- 
bilissimi e  si  disegnava  la  fine  linea  delle  labbra  lunghe  e 
sottili.  Da  una  dozzina    di    grossi    buccoli    ricascanti    sulle 

DI  GIACOMO.  —  S.    Carlino.  26 


—  402  — 

tempia  dalle  due  bande  lucide  e  lisce  dei  capelli,  e  da  un 
bel  paio  di  orecchini  —  due  lunghe  perle  coniche  della  più 
pura  falsità  —  la  fisonomia  della  vecchietta  pigliava  un  rilievo 
maggiore.  Dello  spirito  e  della  bonomia  a  un  tempo  :  questo 
vi  si  leggeva.  Ella,  di  volta  in  volta,  accennava  al  mare, 
a  una  nave  che  spuntava  nel  lontano,  a  una  manovra  che 
seguiva  sopra  un'altra  ancorata  nel  porto.  Il  suo  ventaghetto 
si  puntava  senza  posa;  talvolta,  come  pareva  che  il  vec- 
chietto tenesse  dietro  a  un  sogno,  ella,  col  ventaglietto,  gli 
batteva  lievemente  sul  braccio  e  ne  lo  sviava.  Gli  antichi 
innamorati  allora  si  guardavano  e  si  sorridevano. 


XV. 


S'erano  amati  da  moltissimi  anni,  in  silenzio,  senza  troppo 
scandalo,  senza  troppo  farsi  vedere  assieme,  poi  che ,  fino 
al  1860,  1)onna  Peppa,  moglie  legittima  di  Salvatore  Petito, 
non  aveva  lasciato  di  sorvegliare  il  marito.  Morta  la  celebre 
impresaria  quando  già  il  Petito  aveva  passata  la  maschera 
al  figliuolo  Antonio  e  la  Checcherini  era  stata  abbandonata 
dalla  sua  bella  vocetta  di  soprano  e  dall'impresa  della  Fenice, 
i  due  vecchi  finalmente  si  sposarono  in  chiesa  e  al  municipio, 
e  non  si  lasciarono  mai  più.  Don  Salvatore  Petito,  come 
lui  diceva,  s'era  voluto  accuncià  e'  'o  'Paté  Eterno  ;  la  si- 
gnora Marianna,  alla  quale  era  dolce  toscaneggiare,  soggiun- 
geva :  Uè  stato  per  porre  a  freno  le  male  lingue.  Infine  i  sen- 
timenti della  vecchiezza  facevano  cessare  un  piccolo  scan- 
dalo ed  assicuravano  un  compagno  alla  povera  Checcherini. 

Quando  la  compagnia  nazionale  napoletana,  nel  1864, 
aveva  portato,    come   ho   detto,  le  sue  tende  al    Smuovo,  il 


—  403  — 

Petito,  per  quanto  spodestato,  aveva  ottenuto  per  la  sua 
seconda  moglie  il  posto  di  Serafina  Zampa.  E  Marianna 
Checcherini  non  fece  dimenticare  la  Zampa,  tutt'altro;  ma 
al  vecchio  guscio  di  noce  del  San  Carlino  come  dal  Nuovo 
vi  passò  la  compagnia,  portò  due  personali  qualità  novelle  : 
una  figurina  asciutta,  piccola,  e  un'osservazione  satirica  che 
talvolta  pungeva  forte.  Non  fu  mai  volgare  e  non  ingrassò 
mai  sotto  l'enorme  quantità  dei  suoi  fronzoli.  Petito,  stanco, 
più  vecchio  di  lei,  si  disponeva,  fra  tanto,  ad  abbandonare 
le  scene.  Da  prima  Pulcinella,  poi  buffo  chiatto,  come  si 
diceva  allora,  poi  notaio  sordo,  o  cafone  centenario,  o  vavone 
semiparalitico,  egli  discendeva  gradino  a  gradino,  tutta  la 
scala  dei  comici  veterani.  Si  arrestò  a  tempo.  L'impresario 
Giuseppe  Maria  Luzi  non  avrebbe  mai  voluto  permettere 
che  egli  s'allontanasse  da  San  Carlino,  ma  Petito  gli  rispon- 
deva con  un'aria  malinconica  e  rassegnata  :  ©or?  Peppino 
mio,  è  meglio  ca  io  lasso  a  l'arte,  ca  l'arte  lassa  a  me  ! 
Simmo  già  troppe  io  e  £M.arianna  :  l'arte  nun  truvarria  addò 
se  mpezza  cchiu  ! 

Tali,  a  que'  tempi,  i  due  vecchietti.  Il  loro  continuo 
idillio  quando,  in  una  delle  sue  forme  più  galanti,  li  menava 
a  passeggio  al  Molo  avrebbe  suggerito  a  un  artista  l'inspi- 
razione d'un  quadretto  di  genere.  La  coppia,  talvolta,  si 
ritrovava  sola  per  quella  via  :  il  cantastorie,  il  burattinaio,  i 
facchini,  1  carbonai,  tutti  sparivano,  come  se  ai  due  vecchi 
a  braccetto  si  piacessero  di  lasciar  silenzioso  e  deserto  quel 
luogo.  Lentamente,  egli  appoggiandosi  a  un  bastoncello,  ella 
appoggiandosi  a  lui,  tornavano  ad  avviarsi  al  limite  del  loro 
cammino,  l'ultima  volta.  Alle  loro  spalle  s'allineavano,  rosee 
sul  mare,  le  case  della  marina,  coi  vetri  delle  finestre  ri- 
specchianti il  sole  morente  :  d'avanti,  i   due   miti    sognatori 


—  404  — 

avevano  il  tramonto  d'una  dolce  giornata  d'autunno ,  e  nel 
loro  cuore,  lievemente  ammalinconito,  il  loro  tramonto. 

XVI. 

La  Marianna,  sua  sorella  Giulietta  e  la  madre  loro,  Fran- 
cesca, recitarono  e  cantarono  al  Smuovo  dal  1834  al  44. 
Poi  scomparirono  da  quel  piccolo  teatro.  Al  Lorenzi  ,  al 
Passaro,  al  Tottola,  vecchi  librettisti,  succedettero  Marco 
d'Arienzo,  lo  Spadetta,  Salvatore  Cammarano,  il  Bidera,  il 
Bardare.  Ora  i  maestri  di  musica  cominciavano  a  chiamarsi 
Mercadante,  Donizetti,  Ricci,  de  Giosa,  Verdi,  Pappalardo 
e  Sarria.  Finalmente  nel  1869,  eccoti  al  3\[uovo  la  Bella 
Elena,  eccoti  poi  Madama  Angot...  e  felice  notte  all'opera 
buffa  napoletana. 

XVII. 

L'ultima  caratterista  è  morta  nel  settembre  del  1889,  per 
gli  anni,  ch'erano  molti,  e  per  la  miseria,  che  era  grave  non 
meno.  Era  nata  nel  1807;  negli  ultimi  tempi  di  sua  vita  ella 
aveva  patito,  patito  assai,  ma  le  forze  non  l'avevano  abban- 
donata se  non  che  all'ultima  ora.  L'ho  incontrata  parecchie 
volte  in  corridoi  di  teatri,  o  d'avanti  a  un  «  botteghino  »  o 
avviantesi,  passo  passo,  lungo  i  muri,  alla  piazzetta  Tagliavia 
dove,  a  casa  di  Aniello  Balzano,  Pulcinella  alla  Fenice, 
aveva  un  lettuccio  per  carità.  Una  sera,  quando  ella  già  era 
caduta  nell'indigenza,  la  vidi  gironzare  nell'ambulatorio  del 
Fondo.  Pioveva  a  dirotto  :  la  poverina  ,  addossata  a  uno 
spigolo  di  muro,  levava  gli  occhi  al  soffitto,  di  volta  in  volta, 


—  405  — 

con  uno  sguardo  così  triste,  così  disperato  che  impietosiva. 
Il  buon  Dio  non  le  aveva  mandato  niente,  neppure  un  soldo 
e  pioveva.  La  vecchietta  piangeva,  silenziosamente,  con  le 
mani  sotto  lo  scialle;  le  sue  labbra  si  movevano,  come  mor- 
moranti una  preghiera. 

Un  giovanotto,  che  l'aveva  riconosciuta  e  s'era    fermato, 
esclamò,  indicandola  a  un  altro  : 

—  Guarda,  la  Checcherini  ! 
Ella  rispose  : 

—  Ahimè,  signore,  quanto  scheccherinata  ! 
Ripassando,  poco    dopo,    la    sorpresi    che    baciucchiava, 

misteriosamente  ,  una  monetina  d  argento.  Il  campanello 
elettrico  chiamava  gli  spettatori ,  l' ambulatorio  rimaneva 
deserto.  La  Checcherini,  come  la  pioggia  era  cessata,  se 
ne  andava  con  i  suoi  dieci  soldi,  pian  piano,  infagottata  in 
una  veste  scura  tutta  rammendata,  tutta  insozzata  di  mota 
e  così  rifinita  che  pareva  le  dovesse  a  momenti  cascar  di 
dosso  a  brandelli.  Cenci  contemporanei.  Poverina,  neppure 
cenci  suoi  ! 


F 


s^cSrg; 


CAPITOLO  DECIMO. 

Morte  di  Antonio  Petito  —  Giuseppe  de  Martino  —  Edoar- 
do SCARPETTA  ATTORE,  IMPRESARIO  E  COMMEDIÒGRAFO  — 
SOPPRESSIONE  DEL  PULCINELLA  —  DEMOLIZIONE  DEL  TEATRO 
—  CONCLUSIONE. 


1. 


G 


A  avviciniamo  di  molto  alla  fine  del  San  Carlino  ;  ec- 
coci agli  ultimi  suoi  nove  anni  di  vita  :  eccomi  pur  all'ulti- 
mo capitolo  dell'opera  mia. 

Nelle  sue  Memorie  il  Goldoni  narra  di  un  eccellente  at- 
tore chiamato  1'  Angeleri,  milanese,  che  i  comici  del  tea- 
tro San  Luca  s'  erano  accaparrato  nel  tempo  in  cui  l'autor 
del  Don  (T&arzio  si  trovava  appunto  a  Milano.  L'  Ange- 
leri, ipocondriaco,  aveva  ritrovato  nel  Goldoni  tale  cui  pia- 
ceva spesso  intrattenersi  con  lui  malinconicamente  :  una  certa 
tristezza,  eh'  era  pur  il  fondo  del  carattere  di  Carlo  Gol- 
doni, si   risvegliava,  di  volta  in  volta,    nell'  animo  suo  e  il 

-  407  - 


—  408  — 

suo  spirito  rincorreva  volentieri  certi  fantasmi  di  sconforto, 
di  dubbio,  di  tedio  che  gii  vagolavano  attorno.  L'  Ange- 
leri,  che  aveva  un  fratello  nella  curia  milanese  e  parenti 
stimabilissimi  nella  classe  della  borghesia,  si  vergognava  di 
comparire  sul  teatro  davanti  a'  suoi  concittadini.  Dall'altra 
parte  lo  pungeva  il  desiderio  che  aveva  di  far  conoscere  la 
singolarità  del  suo  ingegno;  e  le  sue  pene  aumentavano  quanto 
più  egli  ,  costretto  a  rimanersene  inerte  ,  vedeva  applau- 
diti i  compagni.  Finalmente,  cedendo  al  violento  impulso 
del  suo  genio,  va  sul  palcoscenico  una  sera  in  cui  Goldoni 
assisteva,  da  un  palchetto,  alla  rappresentazione.  «  E  ap- 
plaudito —  dice  il  Goldoni  stesso  —  rientra  fra  le  quinte  e 
cade  morto  all'  istante  » . 

Lo  stesso  avvenne,  nel  1 688,  all'  amoroso  Cesare  Cacca- 
mesi,  il  quale  cadde  stecchito  sul  palcoscenico  nell'  atto  di 
gettarsi,  la  spada  alla  mano,  sul  suo  rivale  in  commedia. 
E  nel  1 750  1'  attore  Giuseppe  Sansò,  napoletano,  amoroso 
nella  compagnia  dì  Antonio  Fiorillo,  mentre  era  in  iscena 
a  declamar  le  sue  tirate  sentimentali,  mise  un  grido  e  si 
volse  attorno  smarrito,  avanzando  alla  ribalta  con  le  brac- 
cia stese.  Era  improvvisamente  diventato  cieco  di  tutti  e 
due  gli  occhi  ! 

Morì  Antonio  Petito  anche  lui,  come  il  Caccamesi,  come 
l'Angeleri,  come  quel  povero  Francesco  Massaro,  Don  Fa- 
stidio alla  Cantina,  gloriosi  suoi  predecessori  in  simili  tra- 
gedie di  scena. 


—  409  — 

II. 

La  sera  del  26  marzo  1 876  il  teatro  era,  come  al  solito, 
pieno  di  gente.  Si  rappresentava  la  Dama  bianca  di  Gia- 
como Marnili  e  vi  pigliavano  parte,  oltre  al  Petito,  la  Te- 
lesco,  il  caratterista  Luigi  Liguori,  Achille  Lisgara,  Ade- 
laide Schiano,  un  nuovo  giovane  attore  chiamato  Milzi, 
Vincenzo  Santelia,  la  caratterista  Della  Seta,  il  buffo  ba- 
rilotto de  Angelis,  il  tartaglia  Marangelli.  I  due  primi  atti 
erano  terminati  tra  gli  applausi  generali  :  Antonio  Petito 
nel  finale  del  secondo  era   stato   addirittura  meraviglioso. 

Principiò  il  terzo  atto,  Ma  ora,  a  poco  a  poco,  Petito 
s'  andava  mostrando  svogliato,  distratto  ;  le  sue  battute  man- 
cavano di  vivacità  :  pareva  stanco.  Da  un  palchetto  di  pro- 
scenio l' impresario  Giuseppe  Maria  Luzi,  che  teneva  com- 
pagnia all'  attor  Pietriboni,  non  levava  lo  sguardo  dalla  scena, 
come  meravigliato  di  quei  subitaneo  mutamento  del  suo  fa- 
vorito Motorino.  Parve,  finalmente,  che  questi  si  avvedesse 
dello  stato  suo  e  dell'  aspettazione  palpitante  del  suo  im- 
presario, oltre  che  d'  un  senso  di  meraviglia  che  principiava 
a  penetrare  il  publico.  Tornò,  dunque,  1'  attor  comico  ine- 
sauribile di  poco  prima.  Anzi  raddoppiò  il  suo  ridicolo.  E 
come,  nel  finale  del  terzo  atto,  la  Dama  bianca  e  un  ser- 
gente che  riconosce  in  lei  la  sua  amante  travestita,  s'  ab- 
bracciano, mentre  Pulcinella  ne  li  vuole  impedire  esclamando: 
^iano  !  La  dama  bianca  non  permette  V  acchiappabiminus  !, 
Antonio  Petito  mutò  in  tragico  quest'intervento  suo  buffo- 
nesco. «  Anch'  io  —  declamò  —  anch'  io  sento  nelle  vene 
scorrere  1'  amoroso  mio  sangue,  acceso  dalla  femminile  beltà! 
Anche  a  me  queste  peregrine  bellezze  scuotono  tutta  l'os- 


—  410  — 

satura  dei  nervi.  O  barbari  !  Mi  volete  veder  morto  ?  Ah, 
no,  arrestatevi  !  Io  morto  ?  Oh,  Cielo,  in  considerarlo  solo 
sento  rabbrividirmi  tutti  i  novecalli  che  ho  in  sacca,  e  i  tor- 
nesi  passano  in  seno  dei  trecallucci  !  »  Risorse  altavilliane, 
queste  sparate  pulcinellesche  ottenevano  sempre  un  gran  suc- 
cesso. Mentre  ilpublico  batteva  le  mani,  Petito  levò  gli  occhi  al 
palchetto  overa  Pietriboni,  e  a  lui  disse:  Che?  Saccio  fa  'otrag- 
geco  pur  io  ?  La  tela  cadde.  Era  1'  ultima  volta  che  An- 
tonio Petito  se  la  vedeva  scendere  d'  avanti.  Egli,  libera- 
tosi del  berretto  e  della  maschera,  s'  era  andato  a  sedere, 
come  al  solito,  nel  corridoio  sul  quale  s'  apriva  il  suo  ca- 
merino. Sedeva  rimpetto  a  lui  la  servetta  Telesco.  Quasi  a 
ogni  intermezzo  Petito  sorbiva  una  tazza  di  caffè  ;  ne  aveva 
preso  l' abito  e,  quella  volta,  la  sorella  di  lui  Adelaide, 
eh'  era  in  palcoscenico,  glie  1'  aveva  portata.  Egli  appressò 
la  tazza  alle  labbra.  Gli  tremava  la  mano.  La  Telesco,  che 
lo  guardava,  vide,  a  un  subito,  contratta  la  faccia  di  lui  da 
certe  smorfie  particolari  ai  colpiti  di  apoplessia  :  gli  occhi 
stralunati,  la  lingua  pendula,  la  bocca  che  si  torceva  :  An- 
tonio Petito  faceva  paura,  ©oh  Jlnto,  —  disse  la  Telesco 
—  nun  facite  sti  cose  !  Credeva,  poverina,  eh'  egli  scherzasse , 
come  soleva  fare  spesso  per  mettere  paura  a'  compagni,  scim- 
miottando i  prodromi  caratteristici  della  morte  subitanea.  Ma 
era  la  morte  per  davvero  ;  il  commediante,  questa  volta, 
non  recitava  una  parte.  E  subitamente  Petitorotolò  dalla  seg- 
giola a  terra.  E  spirò  dopo  cinque  minuti,  senza  aver  po- 
tuto profferire  parola. 


—  411  — 

III. 

Quale  scena  !  L'infelice  fu  trasportato,  dal  corridoio,  sul 
palcoscenico  e  qui  adagiato  sopra  un  materasso.  Fra  tanto 
un  attore  usciva  ad  annunziare  agli  spettatori  la  triste  no- 
vella. Un  silenzio  profondo  seguì  alle  poche  proteste  di  co- 
loro che  non  credevano  ancora  all'  avvenimento,  e  in  quel 
silenzio,  a  un  tratto,  si  alzò  lentamente  la  tela  sull'ultimo  atto 
della  Dama  bianca,  sulla  catastrofe  tragica,  imprevista  e 
reale.  Erano  attorno  al  Petito  i  suoi  compagni  :  il  guappo 
gli  sorreggeva  il  capo,  il  Buffo  Barilotto  gli  stringeva  le  mani, 
lo  scoteva,  lo  chiamava,  singhiozzando  :  ^otò  !  ^Cotò  /...  Il 
Tartaglia  sopraggiungeva  con  un  bicchier  d'  acqua  e  glie 
la  spruzzava  in  faccia,  la  caratterista  piangeva  dirottamente, 
buttata  appiè  del  materasso.  Un  quadro  che  avrebbe  ten- 
tato Goya  o  Gérome.  E  fu  uno  scoppio  di  singhiozzi,  di  urli, 
d'apostrofi,  un  pieno  di  commozione,  che  pareva  il  finale  d'un 
dramma,  quando  i  fratelli  del  povero  morto,  Gaetano  e  Pa- 
squale, adagiato  il  cadavere  in  una  carrozzella,  lo  porta- 
rono a  casa.... 


IV. 


Antonio  Petito  era  malato  di  cuore.  Parecchie  volte  s' era 
tolto  cartello,  per  questo,  al  Zh[uotìo  e  al  San  Carlino,  e 
negli  ultimi  giorni  suoi  egli,  al  dottor  Palasciano  che  lo  aveva 
incontrato  in  Piazza  del  Castello  e  gli  avea  chiesto  della 
sua  salute,  avea  risposto  :  Dottò,  Pulicenella  se  n  è  ghiuto! 
Ed  era  morto  sulla  breccia,  rivestito  del  suo  publico  carat- 
tere. Fra  la  polvere  del    palcoscenico  avea    raccolto  i  suoi 


—  412  — 

allori,    era  stata    sua  culla  il    palcoscenico,  esso  fu    la   sua 
tomba. 

La  notizia  si  sparse  per  Napoli  in  un  baleno.  Spariva  il 
benemerito  dell'  allegrezza,  il  riso  moriva.  E  una  grande  ma- 
linconia tenne  pensosi  tutti  i  figliuoli  di  Partenope  abituati 
all'  adorazione  di  quel  gran  benefico  uomo,  dispensatore  di 
oblio.  Così  il  suo  feretro  fu  accompagnato  da  una  turba  in- 
numerevole ;  autori,  attori,  giornalisti,  letterati,  popolani,  don- 
ne, perfino,  e  fanciulli  seguirono  Pulcinella  morto  cPrinci- 
pibus  placuisse  viris  non  ultima  laus,  dice  Orazio.  E  An- 
tonio Perito  aveva  interessato  e  divertito  re  e  regine,  si- 
gnori dell'  arte,  signori  della  scienza,  per  quasi  trent'  anni . 
Non  sempre  triste  ed  oscura  la  sorte  de'  commedianti.  I 
loro  nomi  —  scrive  Varnhangen  d'  Ense  —  durano  spesso 
più  a  lungo  nella  memoria  degli  uomini,  di  quelli  de'  qua- 
resimalisti,  dei  medici,  de'  professori,  degli  avvocati,  se  co- 
storo non  s' illustrano  anche  servendo. 


V. 


Buon  manto,  operaio  onesto,  generoso,  talvolta  pur  co- 
raggioso, spiritoso,  non  servo,  non  maligno,  non  egoista,  ar- 
guto, non  goffo  in  amore,  fine  osservatore,  intelligente  po- 
polano :  ecco  il  'Pulcinella  in  Antonio  Perito.  La  dichia- 
razione dei  diritti  dell'uomo  rianimava,  tardi  ma  in  tempo, 
fin  la  maschera  acerrana  ;  il  palcoscenico  del  San  Carlino 
aveva  in  'Pulcinella  un  uomo  accessibile  alle  passioni  più 
varie  e  contrarie,  un  attore  che,  di  volta  in  volta,  sapeva 
pigliar  così  dirittamente  la  via  del  cuore  da  commovere  fino 
alle  lagrime  gli  spettatori.  L'  antico  'Pulcinella  di  Cerlone, 
di  Cammarano,  di  Schiano  era  rimasto  sulle  scene  del  San 


—  413  — 

Carlino  fino  al  1852  e  l'ultimo  rappresentante  di  quel  tipo 
di  buffoneria  stereotipata  era  stato  Salvatore  Petite  Quando 
Pasquale  Altavilla  cominciò  a  svestire  il  Pulcinella  della 
sua  servile  stupidaggine  secolare  e  gli  volle  dar  moto  ed 
atti  e  sentimenti  nuovi,  Salvatore  Petito,  che  si  trovava  a 
disagio  tra  il  ballo,  la  mimica,  il  canto  e  i  travestimenti 
della  commedia- parodia,  gettò  la  maschera  alle  ortiche,  non 
sembrandogli  decoroso  il  novello  indirizzo  che  Altavilla  dava 
a  un  tipo  comico  rimasto,  fino  a  quel  tempo,  quasi  classico. 
Antonio  Petito,  a  cui  la  riforma  sorrideva,  raccolse  la  ma- 
schera, ma  se  ne  coperse  la  faccia  non  per  nasconderla  sotto 
una  melensa  e  goffa  sembianza.  Quando  gli  parve  che  non 
lasciasse  trapelare  la  passione  la  smise,  e  diventò  cPasca- 
riello,  tipo  popolare  eh'  egli  rappresentò  mirabilmente,  as- 
sorgendo ad  arte  singolare  e  penetrante. 

Ed  è  solo  come  attore  che  bisogna  considerare  Antonio 
Petito  ;  chi  non  ne  seppe  la  ignoranza  letteraria  gli  dette 
posto  di  commediografo  accanto  a  Cammarano,  a  Schiano, 
ad  Altavilla,  a  Marnili,  e  credette  a  un  vero  teatro  origi- 
nale e  caratteristico  uscito  dal  suo  ingegno  fervente.  An- 
tonio Petito  poco  sapeva  leggere,  pochissimo  scrivere  ;  una 
sua  fotografia,  da  lui  donata  a  Giuseppe  Maria  Luzi,  ha 
questa  dedica  :  Jìl  mio  ibresario  Qusepe  Maria  Luzi,  ed 
egli  stesso,  all'amico  suo  Mario  de  Rosa,  confessava:  Nun 
saccio  leggere,  ne  manco  scrivere,  si  lo  facesse,  tefarria  ridere. 

Imparò  a  scrivere  poco  dopo  d'essere  entrato  in  San  Car- 
lino, ma  tutto  quei  poco  che  riesciva  a  mettere  sulla  carta 
era  roba  maledettamente  scorretta.  Glie  la  rivedevano  il 
Marnili  e  Altavilla  i  quali  lasciavano,  specie  il  primo,  che 
Antonio  Petito  desse  il  suo  nome  ad  alcune  produzioni  sce- 
niche eh'  erano  farina  del  sacco  loro.  Pel  U^juovo  —  in  ve- 


—  414  — 

rità  —  Antonio  Petito  scrisse  parodie,  qualche  volta,  pur  da 
solo.  Tornando  dal  concerto  si  metteva  davanti  a  una  ta- 
vola e  faticosamente  copriva  di  gran  fogli  di  carta  della  sua 
grossolana  calligrafia,  mescolando  alle  gocce  d' inchiostro, 
che  facevano  d'  ogni  foglio  un  firmamento,  goccioloni  di  su- 
dore che  gli  venivano  giù  per  le  guance.  Lo  scartafaccio 
era,  infine,  rilegato  e  il  copista  A.niello  Savastano  lo  met- 
teva in  bello  in  una  seconda  edizione. 

Nel  1867  Petito  cominciò  a  stampare  le  sue  commedie, 
intitolando  la  raccolta  :  Selva  Comica  Nazionale.  Le  com- 
medie sono  le  seguenti  :  Na  seconda  muta  de  'Puortece, 
No  brigantaggio  de  femmene,  ^Vj?  Sansone  a  posticcio,  Fran- 
cesca da  Rimini,  Pascariello  guardaportone  a  lo  vico  Rotto 
San  Carlo  (con  la  farsa  //  portaceste),  Don  Fausto,  Pulci- 
nella creduto  'Donna  Dorotea  pezz'  a  V  uocchie,  La  Donna 
co  la  barba,  So  'muorto  e  m  hanno  fatto  tornò  a  nascere, 
^V^a  lotteria  arfabeteca,  Na  beli'  £lena  mbastarduta,  Na  con- 
tessa in  erba  e  no  conte  in  fumo,  <9KCasto  Raffaele  e  nun 
te  ne  ncarreca.  Degli  apprezzamenti  faccio  a  meno  ;  a  chi 
vorrebbe,  ricordando  il  successo  d' ilarità  provocato  da  qual- 
cuna di  queste  opere,  domandarmene  ragione,  risponderei 
eh'  esso  non  fu  se  non  il  successo  personale,  comico,  di  An- 
tonio Petito.  L'  attore  era  veramente  grande,  la  sua  figura 
illuminava  tutta  la  scena,  riempiva  tutti  i  vuoti,  raccoglieva 
tutte  le  emozioni  e  gì*  interessamenti  ;  così  le  volgari  stu- 
pidaggini della  commedia  petitiana  e  il  suo  difetto  d'uma- 
nità scomparivano  in  un  godimento  che  pervadeva  tutto  il 
publico  e  durava  ancor  fuori  del  teatro  :  una  felicità  che 
accompagnava  fino  a  casa  gli  spettatori,  e  lasciava  ancora 
sorridere,  nel  sonno,  le  loro  labbra  dischiuse. 


—  415  — 

VI. 

Ad  Antonio  Petito  successe  Giuseppe  de  Martino,  che 
andò  in  iscena,  come  si  dice  in  linguaggio  teatrale,  la  sera 
del  30  marzo  dello  stesso  anno  1 876.  Giuseppe  de  Martino 
recitava,  da  Pulcinella,  al  Rossini,  un  teatrino  sorto,  di  re- 
cente, ne'  pressi  di  Piazza  Dante.  Del  Rossini  era  impresa- 
rio quello  stesso  Falanga  che  prima  lo  era  stato  del  Sebeto; 
la  sua  compagnia  s'intitolava  pur  Nazionale  come  quella 
del  San  Carlino,  e  parecchi  attori  di  merito  la  tenevano 
felicemente  in  piedi.  Or,  proprio  nel  giorno  appresso  alla 
morte  di  Antonio  Petito,  Luzi  s'  abboccò  col  de  Martino 
per  averlo  come  Pulcinella  al  San  Carlino.  Il  Falanga  non 
s'  oppose  e  il  nuovo  Pulcinella  esordì,  tre  sere  appresso,  in 
bricche  tracche  tanto  a  parte  di  Giacomo  Marulli  e  nella 
farsa  O  rilorgio,  'o  cappiello  e  'o  pazzo,  cavalli  di  batta- 
glia del  povero   Totonno. 

Fu  anche  quella  una  serata  piena  d'  emozione  ;  il  teatro 
era  zeppo,  erano  gli  spettatori  ansiosi  della  nuova  conoscenza, 
gli  attori,  l' impresario,  il  debuttante  compresi  tutti  della  so- 
lennità dell'avvenimento.  A  tela  abbassata,  dopo  la  sinfo- 
nietta  dell'  orchestrina,  si  vide  apparire  Pasquale  De  An- 
gelis  che,  inchinandosi  al    publico,  recitò  i  versi  seguenti  : 

Signori,   io  sono  il  Prologo  ;   fu  il  vetusto  lampione 
Che  m'  accordaje  1'  annore  d'  asci  fora  al  telone  : 
Essenno  lo  marrone  de  chesta  compagnia, 
Che  sta  parte,   non  bella,  era  la  parte  mia  ! 
L'  avite  letto  affisso,  1*  ha  scritto  lo  Mpressario, 
E  io  ccà  ve  lo  ripeto  da  fora  a  lo  sipario. 
Poteva,   senza  maschera,  i  nnante  sto  triato  } 


—  416  — 

E  inutile  che  perdo,   pe  dirlo,  tiempo  e  sciato  : 
Pe  certo  non  poteva  ;   e  allora  comme  fa  ? 
Nzerrato  se  sarria  e  nuje?...   Pe  carità! 
Meglio  è  che  resta  apierto,  chisto  è  lo  fatto  vero, 
Nisciuno  de  nuje  seenne  o  saghe  al  Ministero  ! 
Se  fatica  e  se  magna  !   Ma,  De  Marti,   mmalora, 
P'  essere  presentato  vuo'   asci,  si  o  no,  ccà  fora? 

De  Martino  fece  capolino  e  balbettò  : 

Don  Pasca,   non  è  cosa... 

De  Angelis 

(afferrandolo  per  un  braccio  e  trascinandolo  alla  ribalta). 

E  mena  mo  !  Signori  ! 
La  nostra  nuova  maschera  vi  presento  qui  fuori. 
Povero  bardasciotto 

De  Martino 

Prubbeco  bello  mio, 
A  parlare...  rame  mbrogho... 

De  Angelis 

E  mo  me  ne  vac'  io  ! 
Ma  non  tremmà  ;   canosco  che  pasta  è  chi  me  sente 

De  Martino 

Don  Pasca! Si  mme  sisca?... 

De  Angelis 

N'  ave  paura  'e  niente  ! 


—  417  — 

Allora    il  nuovo  Pulcinella,    avanzandosi  alla    ribalta,  si 
rivolse  agli  spettatori  : 

Prubbeco  bello  mio  !   Lo  chiarito  e  la  paura 
Me  fa  la  lengua  ncanna  scennere  addirittura  : 
Da  sotto  a  chesta  maschera,  da  sotto  a  sto  vestito 
Nce  steva...   allicurdannolo  non  so  chiù  compatito. 
E  da  masto  a  scularo  la  differenza,  e  si 
Chi  me  sente  me  ntenne,   m'  ave  da  compati. 
Pe  ben  servirvi  tutto  lo  studio  mio  nce  metto, 
Assaje  sarrà  lo  mpegno  si  poco  è  lo  ntelletto. 
Lo  Mpressano  me  pare  che  me  vulesse  bene, 
E  li  compagne  pure  ;   a  me  però  commene 
D'  ave  pnmma  speranza 

De  Angelis  a  questo  punto  lo  interruppe  ; 

Nei  Pubblico,  ho  capito  ! 
Coraggio  !   E  si  lo  mrmerete  sarraie  certo  applaudito  ! 

E  così  fu.  Per  uno  strano  caso  il  de  Martino  somigliava 
tanto  a  Petito  nella  persona,  nella  voce,  nei  movimenti  che,  in 
sulle  prime,  gli  spettatori  ebbero  quasi  a  credere  di  vedersi 
d'  avanti,  redivivo,  lo  sciagurato  Motorino.  Aggiungi  che  il 
nuovo  ^Pulcinella  era  giovane  d' ingegno  e  attore  assai  sim- 
patico ;  da  Petito  egli  aveva  imparato  molte  cose,  la  scuola, 
infine,  era  la  medesima  e,  quel  che  è  più,  come  ho  detto, 
la  voce,  eh'  è  requisito  essenziale  per  il  successo  fonico, 
direi,  della  nostra  maschera.  Piacque,  dunque,  moltissimo 
ed  a  ragione  :  era  il  solo  che  potesse  pigliare  il  posto  de 
figlio  di  Donna  Peppa.  Parlando  del  de  Martino  l' impre- 
sario Luzi  diceva  :  Egli  ha  il  valore  e  la  gioventù  ;  al  po- 
vero  'Uotonno  era  rimasto  solamente  il  valore... 

DI  GIACOMO.  -S.  Carlino.  27 


—  418  — 

E,  talvolta,  tra  un  atto  e  1*  altro ,  memore ,  tuttavia,  di 
Motorino,  egli  entrava  nel  camerino  ch'era  stato  di  costui 
e  vi  s'intratteneva,  malinconicamente,  a  ragionar  del  morto 
col  'Pulcinella  vivo.  Talvolta  vi  ritrovava  de  Martino, 
stanco,  assopito,  la  maschera  sollevata  fino  alla  fronte ,  la 
bocca  aperta,  le  braccia  penzoloni.  Allora  gli  si  accostava 
tremando,  e  lo  scuoteva,  e  Io  destava,  e  balbettava  :  Peppì  ! 
Peppì  !  Scetate  !...  ZNjin  durm)  accussì  !...  U^jne  pare  Mo- 
torino... ! 


VII. 


Giuseppe  Maria  Luzi  morì  un  anno  dopo  di  Petite  Nel 
1 877  egli  aveva  appigionata  una  grande  baracca  in  via  del 
Castello  Nuovo,  uno  di  quei  teatri  di  legno  che,  in  quel 
torno,  erano  sorti  appiè  del  castello  medesimo,  tra  i  pioppi. 
La  baracca,  che  si  chiamava  teatro  delle  Follie  dram- 
matiche, accolse  la  compagnia  del  San  Carlino  e  le  portò 
fortuna  grande  durante  i  due  o  tre  mesi  d'estate  in  cui 
i  comici  di  Luzi  vi  recitarono.  Così  che  Luzi  s'era  in- 
teso col  proprietario  delle  Follie  per  aver  quel  teatro  pur 
l'anno  venturo,  negli  stessi  mesi  d'estate  in  cui  la  sala  del 
San  Carlino  diventava  un  forno.  Ora,  com'egli  rincasava, 
la  domenica  del  22  luglio  del  1877,  qualcuno  gli  riferì 
che  una  società  di  comici,  promettendo  al  proprietario  delle 
Follie  una  somma  maggiore  di  quella  che  Luzi  gli  aveva 
offerta,  era  riuscita  a  ottenere  il  teatro  pel  1878.  Luzi, 
smarrito,  accoratissimo,  entrò  nel  Caffè  della  Concezione, 
d'avanti  al  quale  si  trovava  a  passare  in  quel  momento,  e 
chiese  un  bicchier  d'acqua.  In  quello  stesso  caffè  il  pro- 
prietario delle  Follie  e  que'  tali  comici    badavano,    attorno 


—  419  — 

a  un  tavolino,  a  stipulare  il  contratto.  Il  povero  Luzi  ebbe 
un  tuffo  al  cuore  e  uscì  barcollando.  Per  la  via  gli  soprag- 
giunse la  paralisi  d'una  gamba,  così  ch'egli  dovette  essere 
trasportato  a  casa,  ove  lo  stesso  giorno  morì.  Alle  5  pome- 
ridiane fu  tolto  il  cartello  alle  Follie  :  esso  annunziava  la 
Mandolinata,  e  il  teatro  era  già  tutto  accaparrato. 

Nell'ottobre  del  1 878  morì  Raffaele  di  Napoli,  il  guappo, 
di  mal  di  pietra;  nel  settembre  del  1880  morì,  d'apoplessia, 
il  Buffo  Barilotto  Pasquale  de  Angelis.  La  morte  lo  avea 
colto  mentre  egli  era  sul  punto  di  uscir  di  casa  per  recarsi 
alla  prima  rappresentazione  di  riapertura  del  San  Carlino 
con  la  nuova  Compagnia  Scarpetta. 


Vili. 


Eduardo  Scarpetta,  figlio  di  buona  famiglia,  come  si  diceva 
tra'  comici  per  dir  di  chi  non  era  nato  da  comici,  era  en- 
trato nella  compagnia  del  San  Carlino  al  1 869  :  nato  a'  1 3 
di  marzo  del  1854  egli  aveva  allora  quindici  anni.  Le  sue 
prime  armi  le  aveva  fatte  alla  cPartenope,  e,  nella  farsa  na- 
poletana Feliciello  Sciosciammocca  mariuolo  de  na  pizza, 
una  sera,  in  quel  teatrino  popolare  di  via  Foria,  gli  era  ac- 
caduto di  recitare  d' avanti  all'  impresario  Giuseppe  Maria 
Luzi  e  al  guappo  Raffaele  di  Napoli.  Così  Luzi  lo  prese 
al  San  Carlino.  Gli  assegnò  diciassette  lire  al  mese  e  gli 
fece  sottoscrivere  un  contratto  col  quale  il  giovanetto  attore 
s'obbligava,  tra  l'altro,  di  ballare,  sfondare,  volare,  fornirsi 
di  basso  vestiario  all'oltramontana,  tingersi  il  volto,  essere 
sospeso  in  aria  e  cantar  ne'  cori.  Ma  il  piccolo  Scarpetta 
era  volenteroso,  paziente,  innamorato  del  teatro;  aveva  tutte 
le  qualità  per  riuscire  e,  difatti,  pervenne,  in  poco    tempo. 


—  420  — 

Nel  1 876,  quando  morì  Antonio  Petite,  già  il  nome  dello 
Scarpetta,  nella  cronaca  della  scena  popolare,  uguagliava 
quasi,  se  non  superava  quel  dell' ultimo  grande  attore  del 
San  Carlino  ;  in  Feiiciello  Sciosdammocca  tutti  riconosce- 
vano, ammirati,  una  singolare  spontaneità,  delle  irresistibili 
qualità  comiche,  la  novità  esilarante  di  una  nuova  semima- 
schera capitata  a  tempo  tra'  vecchi  caratteri,  già  muffiti  al- 
l'umido dell'antico  fosso  di  Piazza  del  Castello,  per  risolle- 
vare le  sorti  della  commedia  popolare. 

La  morte  del  Petito  e  quella  di  Luzi  arrestarono  per  un 
momento  il  novello  attore  nel  suo  cammino  fortunato  ;  il 
teatro  capitava  or  nelle  mani  d'uno  or  in  quelle  d'un  altro, 
ora  mandava  avanti  le  sue  rappresentazioni  per  un  paio  di 
mesi,  ora,  d'un  subito,  era  chiuso  per  quattro  o  cinque.  I 
comio  si  sbandavano,  raccogliendosi,  di  volta  in  volta,  per 
un  breve  corso  di  recite,  in  qualcuna  delle  baracche  che 
in  quei  tempo  occupavano,  in  fila,  buon  tratto  di  via  sotto 
il  Castelnuovo.  S'era  al  1 880  :  San  Carlino,  abbandonato, 
avea  chiuse  le  sue  porte;  i  passanti  guardavano,  ammalin- 
coniti, la  sua  scura  facciata  silenziosa,  schiaffeggiata  dalla 
pioggia  e  dal  vento,  le  sue  finestrette  sgangherate,  la  pic- 
cola porta  d'entrata  tremante  sui  cardini  rosi  dalla  ruggine, 
i  gradini  cascanti,  i  vetri  rotti.  E  pareva  loro  mutato  in  una 
tomba  l'allegro  monumento;  laggiù  era,  forse,  seppellita  per 
sempre  la  commedia  napoletana,  accanto  agii  ultimi  suoi  fa- 
mosi interpreti 

Quand'ecco,  sullo  scorcio  dell'agosto,  i  giornali  annun- 
ziano la  riapertura  del  teatro.  Quei  Felicielio  Sciosdammocca 
il  quale,  di  que'  tempi,  s'era  dato  da  fare,  ricompariva  ar- 
mato di  tutto  punto  e  a  capo  di  una  compagnia  ch'egli  stesso 
aveva  messa  insieme  e  della  quale  era  a  un  tempo    primo 


—  421 

attore  ed  impresario.  Per  la  riapertura  del  teatro  era  annun- 
ziata la  commedia  //  cavaliere  don  Felice  Sciosciammocca 
direttore  d'una  compagnia  comica,  e  l'importante  avvenimento 
sarebbe  seguito  al  primo  di  settembre.  Della  compagnia  fa- 
cevano parte,  oltre  allo  Scarpetta,  la  Schiano,  la  signora 
Amalia  de  Crescenzo,  Gennaro  Pantalena,  Raffaele  de  Cre- 
scenzo, Adelaide  Agolini,  Sofìa  Moxedano,  il  Pulcinella 
Teodoro,  tra  gli  attori  principali.  Era  stato  scritturato  anche 
Pasquale  de  Angelis,  il  Buffo  Barilotto.  Ma  s'andò  in  iscena 
senza  di  lui  :  a'  comici  fu  nascosta  la  sua  morte  improvvisa, 
avvenuta,  com'avete  letto,  nella  sera  stessa  della  riapertura 
del  teatro.  Ne  la  conobbe  il  publico  che  in  quella  prima 
rappresentazione  inaugurale  stipava  il  San  Carlino  ;  se  pur 
la  seppe  la  dimenticò  subito  fra  le  risate  continue  di  cui  la 
commedia  fu  feconda.  Negli  intermezzi  furono  comentate 
con  molta  compiacenza  le  nuove  estetiche  decorazioni  della 
sala,  rifatta  per  accogliere  convenevolmente  il  publico  in 
una  platea  comoda,  per  quanto  l'angustia  del  luogo  lo  per- 
mettesse ,  e  pulita  ,  in  palchetti  arredati  a  nuovo,  arricchiti 
di  specchi  tersi  e  di  balaustre  gaiamente  dipinte.  Al  vecchio 
e  sciupato  sipario  (1),  che  rappresentava  una  compagnia  di 
comici  napoletani  condotta  ad  Apollo  da  Talia,  era  stato 
sostituito  un  sipario  nuovo  fiammante,  i  chinchè  antichi  erano 
stati  rimpiazzati  da  candele  a  gas,  e  due  o  tre  ordini  di 
poltroncine  abbastanza  comode  precedevano  le  file  di  sedie 
della  platea,  che  procuravano  adesso  minore  tortura  alle 
costole  degli  spettatori. 


(  1  )  Era  opera  di  Giuseppe  Cammarano.   Una  scritta  diceva  :   Jld  Jlpollo 
Talia,   con   volto   lieto,   le   maschere  presenta   del  Sebeto. 


—  422  — 
IX. 

Chi  aveva  dato  a  Scarpetta  tanti  bei  denari  per  tutte 
queste  innovazioni  ?  Il  Signor  Salvatore  Mormone,  ultimo,  per 
parte  di  madre,  de'  Tomeo  e  proprietario  del  teatro,  s'era 
interessato  alla  sorte  di  Sciosciammocca  e  gli  aveva  fatto  ot- 
tenere in  prestito  da  un  avvocato  napoletano,  il  signor  Se- 
vero, una  somma  di  cinquemila  lire.  Così  il  Mormone  come 
il  Severo  speravano  assai  poco  sui  frutti  di  quel  prestito, 
anzi  credevano  irremissibilmente  perso  il  denaro;  poche  sere 
prima  dell'apertura  del  San  Carlino  Scarpetta  non  aveva 
più  un  soldo  in  saccoccia.  Ma  d  avanti  al  piccolo  teatro 
di  Piazza  del  Castello  la  fortuna  aveva  davvero  arrestata 
la  sua  ruota;  dalla  prima  sera  delle  rappresentazioni  si  eb- 
bero introiti  inaspettati  i  quali  crebbero  in  tale  maniera  ogni 
sera  che,  dopo  appena  sei  mesi  dal  settembre  del  1880, 
l'avvocato  Severo  si  trovò  ad  aver  guadagnato  ben  venti- 
mila lire.  Ma  allora  Scarpetta  ,  ringraziandolo  dell'  aiuto, 
gli  annunziò  che  oramai  avrebbe  continuato  da  solo  la  ge- 
stione del  teatro.  Dal  marzo  del  1881  fino  al  maggio  del  1884 
egli  guadagnò,  su  per  giù,  un  trecentomila  lire;  lo  si  vide, 
in  quelli  ultimi  tempi,  capitare  alle  pruove  e  alle  recite  del 
San  Carlino  in  una  carrozza  elegante,  sua,  e  si  seppe  che 
Sciosciammocca  si  faceva,  fra  tanto,  fabricare  un  bel  palazzo 
al  Rione  jlmedeo,  uno  de'  quartieri  più  aristocratici  della 
città. 

Il  successo  era  principiato  con  le  riduzioni  che  lo  Scar- 
petta aveva  allestito  delle  ultime  e  più  gaie  commedie  fran- 
cesi, principalmente,  e  d'alcune  altre  italiane.  Ai  7  di  set- 
tembre del    1880  sul  cartello  del  San  Carlino  era    annun- 


—  423  — 

ziato  gettilo,  ridotto  per  le  scene  napoletane  dalla  brillante 
pochade  di  Najac  ed  Hennequin  intitolata  Bebé.  Seguì  a 
Tettilo,  ai  19  dello  stesso  mese,  la  commedia  tJXCettileve 
a  fa  l'ammore  co  me  ;  al  13  ottobre  si  dette  t\£o  zio  ciuccio 
e  no  nepote  scemo  (La  finta  ammalata);  ai  22  di  ottobre 
stesso  Due  morite  mbrugliune ,  riduzione  dei  Domino  rosa. 
E  il  1881  fu  inaugurato  con  una  delle  migliori  adattazioni 
del  repertorio  scarpettiano  :  Lo  scarfalietto.  Ora  in  nessuna 
di  queste  commedie  pigliava  più  parte  'Pulcinella  :  da  prima, 
in  qualche  farsa  che  teneva  dietro  alle  più  brevi  e  con  la 
quale  si  mandava  avanti  lo  spettacolo  fino  all'ora  di  pram- 
matica, l'antica  maschera  napoletana  era  un'altra  volta  ri- 
comparsa su  quello  ch'era  stato  il  teatro  delle  sue  gesta  più 
vantate;  poi,  a  poco  a  poco,  aveva  finito  per  disertarlo.  In 
questo  tempo  alcuni  sì  domandarono  :  E  Pulcinella  ?  «  —  Che 
Pulcinella  !  —  disse  qualche  altro  —  Scarpetta  l'ha  soppresso 
e  ha  fatto  bene  !  »  Quelli  ribatterono  che  aveva  fatto  male  ; 
la  questione  passò  a'  caffè,  e  da'  palcoscenici  degli  altri  teatri 
minuscoli  fino  a'  giornali;  l'assassinio  di  Pulcinella  era  un 
reato  che  interessava  tutta  la  cittadinanza  napoletana.  Alcuni 
vollero  malevolmente  scusarlo  con  la  legittima  difesa  da 
parte  di  Sciosciammocca,  altri,  in  buona  coscienza,  con  dire 
che  delle  maschere  e  Goldoni  ne  aveva  dato  esempio 
ben  qualche  centinaio  d'anni  avanti  —  si  doveva  finire  per 
addirittura  sbarazzare  le  scene  popolari.  Nondimeno  i  tepidi 
di  'Pulcinella  continuarono  a  soffiar  sul  fuoco,  e  a'  24  di 
gennaio  del  1 88 1  si  vide  perfino  annunziata  dal  cartello  del 
teatro  Partenope,  ove  recitava  da  Pulcinella  Davide  Perito, 
una  commedia  intitolata  :  ^TvTa  mazziata  morale  fatta  da 
'Pulcinella  a  Sciosciammocca,  ovvero  l'apoteosi  della  maschera 
napoletana.  Vi  furono  applausi  e  lagrime;  a  Pulcinella  che 


—  424  - 

reagiva  venne  fatto  dal  popolino  di  Fona,  tenero  delle  pro- 
duzioni d'un  signor  Iaccarino  autore  di  quella  commedia, 
una  vera  ovazione,  ma....  tutto  questo  non  fece  rientrare 
'Pulcinella  in  San  Carlino.  Mosse  ,  tuttavia  ,  a  un  ultimo 
combattimento,  come  m'è  capitato  di  dire  più  avanti,  due 
critici  teatsalifreputatissimi,  Federigo  Verdinois  e  Michele 
Uda,  il  primo  de'  quali,  a  cui  sembravano  disadatte  alle 
nostre  scene  e  sconvenienti,  anche,  le  riduzioni  dal  francese 
che  andava  facendo  Scarpetta,  si  augurava  di  vedere  in 
San  Carlino  una  commedia  che  riproducesse  i  nostri  veri 
costumi  e, fosse  opera  originale,  sangue  del  nostro  sangue. 
L'esperimento  che  si  fece  la  sera  del  i  febbraio  del  1881» 
allo  stesso  San  Carlino,  dette  ragione  aìl'Uda,  il  quale  aveva 
detto  che  San  Carlino  non  era  mai  stato,  ne  era  «un  teatro 
di  commedia5  popolare,  di  quella  popolarità  che  piace  tanto 
nelle  commedie  veneziane  e  piemontesi  »,  che  a  «  San  Car- 
lino ci  si  era  andati,  ci  si  andava  e  ci  si  andrebbe  per 
ridere,  come  a  Parigi  si  andava  al  Palais  Royal  » ,  che  le 
commedie,  «  ridotte  dall'italiano  e  dal  francese,  che  vi  si  rap- 
presentavano in  quel  punto  erano  divertenti  e  meno  triviali 
delle  parodie  e  degli  spettacoli  di  prosa,  canto,  danze  e 
fuoco  di  bengala  di  Altavilla  e  di  Antonio  Petito,  »  che, 
infine,  le^riduzioni  dello  Scarpetta,  «sopprimendo  le  ma- 
schere con  le  quali  non  è  possibile  la  commedia  popolare, 
erano,  se  non  la  commedia  popolare,  una  preparazione  ad essa» . 
Dopo  tutto  i  due  critici  si  trovavano  d'accordo  nel  vagheg- 
giarla questafcommedia  popolana  viva,  vera  ed  originale, 
come  la  vagheggiano  tutti  coloro  che  hanno  dell'arte  e  della 
verità  un  ideale  un  poco  più  alto  e  più  dignitoso  di  quello 
che  ne  possa  avere  un  impresario  o  un  attore.  E  forse  pur 
allo  stesso^  Scarpetta  quella  idea  sorrideva;  sarebbero   stati, 


-  423  — 

di  certo,  audace  il  tentativo,  difficile  il  successo  fra  tanta 
aspettazione,  ma  che  buon  nome  e  che  vera  gloria  se,  fi- 
nalmente, egli  fosre  riescito  in  così  onorevole  impresa!  La 
commedia  di  Scarpetta  Miseria  e  nobiltà,  rappresentata  al 
Fondo  nel  1 888  e  accolta  con  entusiasmo,  provò  che  la 
verità  trova  sempre  buon  posto  sulla  scena  ed,  anche,  di- 
mostrò che  lo  Scarpetta,  quando  si  fosse  voluto  mettere,  con 
più  onesti  intendimenti  d'arte,  a  scrivere  commedie  che  fos- 
sero state  della  verità,  e  della  sana  comicità  che  ne  scatu- 
risce, geniali  riproduzioni ,  ne  sarebbe  potuto  uscire  con 
onore.  Ma  egli  non  ebbe  il  coraggio,  e  ne  pur  ebbe  il 
tempo,  di  farlo  a  San  Carlino.  La  vecchia  Piazza  del  Ca- 
stello già  da  un  pezzo  aveva  mutato  nome  e,  a  poco  a  poco, 
andava  pur  mutando  aspetto.  Si  chiamava  adesso  Piazza 
Municipio,  vi  andavano  sorgendo  nuovi  palazzi,  e  lo  sterrato 
che  un  secolo  avanti  era  stato  allegro  campo  di  ciaravoli 
e  di  truppe  di  comici  castelleggianti,  come  li  distingueva 
da'  famosi  il  Bartoli,  spianato,  lastricato,  aperto,  con  una 
più  larga  strada,  alla  marina,  non  reggeva  più  delle  antiche 
costruzioni  se  non  che  il  famoso  presepe  delle  case  de' 
Brancia  e  de'  Tomeo.  Anche  di  quello  fu  votata  la  demo- 
lizione, e  San  Carlino,  grotta  di  quel  presepe,  fu  destinato 
a  scomparire  con  esso.  L'epoca  del  piccone  cominciò  a'  6  di 
maggio  del  1884,  e  dopo  qualche  mese  non  rimaneva  più, 
al  posto  del  teatro,  se  non  un  cumulo  di  pietre.  Su  quelle 
rovine  pianse,  lungamente,  tutta  Napoli,  memore  delle  ore 
deliziose  passate  in  quei  torrido  fosso,  tenera  de'  ricordi 
quasi  classici  che  quel  teatro  avea  tramandati,  con  la  storia 
sua  e  de'  suoi  comici  e  dei  suoi  frequentatori,  in  tre  o  quattro 
generazioni  partenopee.  Spariva,  difatti,  un  monumento  na- 
poletano,  l'Eldorado  della  gaiezza  spariva  e    la    improvvisa 


—  426  — 

e  insospettata  soppressione  era  lamentata  qui  come  da  per 
tutto,  poi  che  erano  state  accessibili  a  tutti  le  forme  comiche 
nostrane  e  nel  teatrino  di  San  Carlino  era  stata  interna- 
zionale la  risata. 

Però  esso  meritava  davvero  una  storia:  la  meritavano, 
principalmente,  le  vicende  della  commedia  dialettale  napo- 
letana, seguite  su  quelle  minuscole  scene  popolari  per  oltre 
un  secolo.  Quali  sieno  state  ho  cercato  di  peculiarmente 
narrarvi  in  questo  libro,  e  se  voi  m'avete  accompagnato  nella 
narrazione  vi  sarete  accorti,  assieme  con  me,  che  se  qualcosa 
di  stabile  ebbe  il  nostro  principal  teatro  popolare  fu  pre- 
cisamente l'indirizzo  comico.  Lo  scoppio  d'ilarità  che  prin- 
cipiò da  Cerlone  s' interruppe,  soltanto  per  un  momento, 
fra  i  tentativi  senili  di  Filippo  Cammarano,  che  tentò  d'av- 
viare la  commedia  dialettale  per  una  via  d'arte  più  coscien- 
ziosa e  più  umana.  Ma  ci  si  rideva  poco,  e  il  genere  non 
andò  avanti;  gli  stessi  comici  s'acconciavano  male  alla  sem- 
plicità del  vero,  e  del  doversi  ringoiare  certe  loro  speciali 
tirate  del  buffonesco  più  retorico,  (sul  quale  aveano  fabricata 
la  maggior  parte  del  successo  loro),  si  dolevano  come,  a  un 
tempo,  della  mancanza  di  occasioni  propizie  alle  facili  smorfie 
che  fino  allora  aveano  posto  in  convulsioni  di  riso  gli  as- 
sidui spettatori.  Ed  ecco  Altavilla  che  rifeconda  1'  antico 
germe,  ecco  infine  Scarpetta  che  adatta  alla  modernità  la 
sua  linea  e  ie  sue  trovate  ridicole,  non  mirando  ad  altro  se 
non  che  a  risollevare  lo  spirito  del  suo  publico  e  a  lasciar 
dimenticare  a  quest'ultimo  tutte  le  noie  della  vita.  Fedele, 
dunque,  alla  sua  tradizione,  San  Carlino  è  stato  atterrato, 
mentre  ancora  le  sue  mura  trattenevano  l'eco  sonora  del- 
l'ultima risata  e  la  gente  napoletana,  affidata  dalle  promesse 
dell'ultimo  capocomico  del  teatrino,  sognava    già    un    pros- 


—  427  — 

simo  e  novello  godimento  nella  casa  nuova,  dove,  rifatto 
dalle  noie  dello  sgombero,  Don  Felice  Sciosciammocca  avrebbe 
trasportata  la  commedia  napoletana. 

Per  fortuna  questo  non  è  accaduto  :  Sciosciammocca  ha 
dovuto  lasciare  il  passo  a  un'arte  più  decorosa,  più  sana, 
più  nostrana  ,  più  vera  della  sua,  anzi  proprio  sana  e  vera 
e  originale  come  la  sua  non  fu  mai.  Una  mano  d'  artisti 
coscienziosi  ha  potuto,  a  poco  a  pcco,  constituire  un  teatro 
dialettale  napoletano  di  vita  e  di  verità  :  la  prima  pietra 
di  questa  nobile  architettazione  ha  posto  un  venerato  maestro, 
l'autor  de'  ^Cariti,  e  alla  efficace  e  schietta  sua  riduzione 
dialettale  de'  Mariti  stessi  hanno  tenuto  dietro  tante  e  tante 
altre  commedie  locali,  che  non  da  flaccidi  lombi  stranieri 
ma  sono  scese  da  sangue  nostro  genuino.  E  così  il  teatro 
dialettale  napoletano  continuerà  per  la  via  nella  quale  da 
parecchi  anni  s'è  posto  con  dignità  e  con  elevatezza;  e  cosi 
seguiterà  a  farsi  onore  anche  fuori  di  Napoli  —  meglio,  forse, 
fuori,  ov'esso  sarà  giudicato  serenamente  e  dove  non  arri- 
veranno querimonie  d'invidi  sciocchi  o  insidie  di  arrivisti  che 
s'intrufolano  nelle  cose  dell'  arte  per  giovare  soltanto  alle 
loro  meschine  ambizioni  o  alla  loro  uggiosa  vanità. 

Se  v'  è  cosa  bella  ed  alta  e  onorevole  questa  è  1'  arte 
davvero.  Ed  ella  non  accoglie  fratellanze  volgari,  non  tollera 
ammonimenti  insinceri,  non   s'adombra    per    voci    petulanti. 

Se  arte  è  —  da  se  sola  vive,  s'esalta  e  s'illumina. 


INDICE  ALFABETICO 


ABBREVIAZIONI. 


Cant.  —  cantante. 
att.  —  attore 
attr.  —  attrice. 
comm.  —  commediante. 
impr.  —  impresario. 
librett.  —  librettista. 


Abate  (L')  di  Dom.  Baione — Pagina  63. 

cibate  burlato  (L")    161. 

Abenanta  (d")  La  —  cant.   1  79. 

A  cader  va  chi  troppo  in  alto  sale,  di  Frane. 

Cerlone   I  78. 
Acquaviva  (Principe  di)  250. 
Acqua  zurfegna,    (/-'),    di    Filippo    Camma- 

rano  304. 
Addamo  Francesco,    attore  6 1 . 
Adriano  (//)  comm.  spagn.    I  19. 
Agolini  Adelaide,  attr.  422. 
Aladino  (L")  di  F.  Cerlone   178. 
Alberico  Pietro,  impr.  257,  261. 
Albertini  Angela,  cant.  241. 
Albumazzare  (L')  di  F.   Cerlone    1 78. 
Alfieri  Nicola   196. 
Aliprandi  Luigi,  att.  347. 
Altavilla  Pasquale,  att.    e   comm.    347,  354, 

355,  414. 
Amanti  (Gli)  inglesi,  di  Cerlone   178. 

-  429 


Amanti  (I  veri),   di  Cerlone    1 78. 

Amare  per  destino  (L')  di  Celione    I  78. 

Jlmar  da  cavaliere  (L')  di  Cerlone    1 78. 

Amato  (marchese)   1 96. 

Amato  (d")  Francesco,   barbiere  93. 

Amato  Filippo  Antonio  350. 

Amato-Moncada  Giovanna  350. 

Amato  (d-)  Gennaro   101. 

Ambra  (d')  Raffaele   170. 

Amicis  (de)  Anna,  cant.  206,  249. 

Jlmicizia  (L'),  di  Gius.   Pasqu.   Cirillo  66. 

Ammola  fuorfece  (L')  di  Orazio Schiano  344 

Amor  (L')  Vendicativo,  di  Cerlone    178. 

Amor  di  figlio  (L')  posto  a  cimento,  di  Cer- 
lone   178. 

Amori  (Gli)  sventurati,   di  Cerlone    178. 

Amulei,  viceré  d'rSgillo,  di  Cerlone    340. 

Jlncbise  Campanone  (Don)  248. 

Andrea   (d")   Giulio  Cesare    106. 

Andromaca,  mus.  di  Leonardo  Leo  235,  254. 

Angeleri,  att.  407,  408. 

Angelis  (de)  Pasquale,  att.  329,  409,  416, 
422. 

Angelo  tiranno  di  Padova  340. 


—  430 

Angelo  del  Duca  235. 

Angiolini  Carlotta,  attr.  233,  272. 

JInnella  di  T>orìacapuana,    di    d'Avino  284 

a  288,  304,  310. 

Jlnligone  (L')  mus.  di  Cataro  206. 
Jlpparenza  (L')  inganna,  di  Cerlone   178. 
Appassiunate(L')  de  lo  ventaglio,  di  F.  Cam- 

marano  3  1  7,  343. 
Jlppassiunate  (L')  pe  la  Malibran,  dello  stesso 

317. 
Jlppicceco  de  li  funnachere  (L')  de  lo  Muoio 

piccolo  di  F.  Cammarano  304. 
Aprile  Giuseppe,  cant.  206. 
Apprensivo  raggirato  (L')  236. 
Aquino  (d')  Onofrio,   att.   97,   98. 
Arianna  e  Teseo,  mus.  di  Giac.  Insanguine  17. 
Arderò   Dom. -Anselmo,  capocom.  93. 
Arienzo  (d")  Gennaro,  att.  92,  94,  98. 
Jìrmelindo  (U)  di  Cerlone    178. 
Jlrmida  abbandonala,  mus.  di  Jommelli  206. 
Jlrsace  (U)  di  Cerlone    166,    178. 
Aschieri  Caterina,   cant.   249. 
Jlsciula  (La  primma)  de  na  vecchia  zita,  di 

Mich.  Cappelli  346. 
Astarita  Gennaro   153. 
jlstolfi    (degli)    Eugenia  ,    mus.     di    Stefano 

Pavesi  306. 
Astrua  (L"),  cant.  249,  254. 
Astuzie  (Le)  amorose,  di   Cerlone   1 79. 
Augusto  III,   Elettore  di  Sassonia    12. 
Auria  (d)   Vincenzo  229. 
Aurillon  Claudio  238. 

Avventure  (Le)  di  Enea,  di  Cerlone   1  78. 
Azzarboni  Antonio,  att.  61. 
Azzalli  Giuseppe,   att.   224. 


B. 


Baiai   Domenica,   attr.    107. 

Balestrieri  Teresa,  attr.  284. 

Balli  di  S/essania,  di  F.   Caliot  38. 

Banco  di  S.  Giacomo  76. 

Baratti  (La)  cant.    92. 

Barbarone  340. 


Barberi  (La)  cant.  306,  307. 
Barbala  impr.  292. 
Barese  Francesco  att.  96,    138,    179. 
Barisano  Prospero  march,  di  Caggiano  255. 
Barone  Domenico,    march,    di  Liveri  53,   54, 
55,  56.  64,  65,  182. 

Barone  di   Trocchia  (II)  di  Cerlone    1 79. 
Barraini  Francesco  265. 
Bartoli  Francesco   18. 

Barufe  chiozzote  (Le)  di  Goldoni  304,  321  . 
Bassi  coniugi,  attori  2  1  9. 
Becci  Gennaro,   scrivano  213. 
Belver  Giuseppe  232. 
Bauci  Francesco,   att.   65. 
Baudouin  4 1 . 

Belleone  (Il  cartello  di)    I  6. 
Belrr.onte  Claudio,   parrucchiere  62. 
Belmonte  (principessa  di)  309. 
iBeltà  (La)  sventurata,  di  Cerlone    178. 
Benvenuti,  pitt.  324. 
Berio  (marchese)  308,  309. 
Bernardi  Francesco  (//  Senesino)  92. 
Bernasconi  (La),  cant.  47,  49. 
Bergé  Andrea,   acrobata,   207. 
Bianca  e  Fernando  335. 
Bianchi  Eliodoro,  cani.   24  I . 
Bietach  Francesca  289. 
Biscegliese  (II)  284. 
Bitetto  Casimiro,   att.   61. 
Bisceglia  Giuseppe,  att.  65,    140,   123. 
Bianchi,  impres    del  Nuovo  212. 
Bonani  Vittorio   141. 
Bonito  Giuseppe,  pitt.  48. 
Bonoiis,  pittore  324. 
Bortolito  Giulietta,   cant.   256. 
Boucher   17. 
Bovino  52. 

Braghetti  Salvatore    108. 
Brancaccio  Gennaio  90,  91,  93,    100. 
Brancaccio  Giovanni   I  6. 
Branda  Antonio  83. 

Bragamont  (de)  Gaspare,  viceré  di  N.,  81. 
Brest  Giuseppe   204. 

Brigantaggio    (No)    de  femmene,  di    A.   Pe- 
rito 414. 
Brinzi  Arrigo  (Conte)   55. 


—  431 


Brossard  Elena  220. 

Brunetti  Maria  Rosa  346. 
Bugiardo  (II)  di  G.   B.   Lorenzi  67. 
Buonamici  Gaetano,  att.  222,  232,  272,  273. 
Buonamici  Anna,  attr.   233,   271,   273. 
Buonann:  Nicolina,   attr.   95. 
Buono  Bernardo,  Cons.  della  Giunta  dei  Tea- 
tri 202.  211. 
Buonocore  Nicola,  att.  65. 
Bussani,  librett.  251. 


Caccamesi  Cesare,  att.   4Ù8. 

Caccialure  (Li)  e  galessicre,  di  F.  Caramarano 
321, 

Caffariello,  cani.   92- 

Caffettiera  ài  garbo,  (La)  mus.  di  P.  Ta- 
rantini 206. 

Caffè  delia   Babilonia  a  Toledo  207. 

Caffè  delle  quattro  porte  al  largo  del  Castello 
207. 

Caffè  della  Concezione  419. 

Caffè  della  Stella  a  Toledo  207. 

Cafiero  Teresa  343. 

Cafora,  att.  329. 

Cali  Antonio,  scult.  324. 

Cali  Gennaro,   scult.   324. 

Cambio  dei  bauli  (II)  di  Goldoni  321,  304. 

Cammarano  Filippo     149,    231,     241,    271, 

272,  273,  274,   297,   348,  350,  351, 
337,  342,  309,    318.  320,   323.  413. 

Cammarano  Vincenzo    141,    182,   204,   216 

232,  272,  273. 
Cammarano  Giuseppe   150,  323.    324,  325. 

326,  328,  329,  331. 
Cammarano    Antonio    272,  323,  324,  325, 

326,  329,  331. 
Cammarano  Michele  323,  324,  351. 
Cammarano  Giovanni  325. 
Cammarano  Salvatore    316,   325,    326,   331. 
Cammarano  Goffredo  325. 
Cammarano  Luigi  326. 
Cammarano  Caterina  272,  351. 


Cammarano  Raffaele  347,   355. 

Cammarano  Federico  350. 

Cammarano  Clementina  350. 

Cammarano  Domenica  236,   271,   273. 

Cammarano  Lorenzo  233,   234,   274. 

Cammarano  Vitellaro  Rosalia  235. 

Cammarano  Ludovico  350. 

Cammarano  Rosalinda  350. 

Cammarano  Amalia   350. 

Cammarano  Alessandro  350. 

Cammarano  Vincenza  350. 

Cammarano  Olimpia  350. 

Cammere  (Doie)  affittate  a  quatto  perzune, 
di  Raff.  Santelia  346. 

Campanella  Filippo,  mus.  306. 

Camuccini,   pitt.   324. 

Cane  (Quatto)  attuorno  a n'uosso di  O.  Schia- 
no  344. 

Canova  Antonio  309, 

Cantarelli  (La),  cant.   306 

Cantastorie  de  lo  muoio  (Li)  di  F.  Cam- 
marano 3  I  6. 

Contatrice    (La  finta)    di  Cerlone    175,    178. 

Cantina  (La)  20,   67,   79,   80,   88,   89.   92. 

107,  112.  115,  116,  121,  122,  123, 
187,  189,  190,  191,  192,  194,  195. 
204,  209. 

Capasso  Nicola,    1  5,    1  59. 

Capecelatro  (cardinal)   308,   309. 

Cappelli  Michele,  commediogr.  346. 

Cappelli  Pietro  233. 

Cappelli  Pietro,   suggerit.   234,   274. 

Carata  Carlo,     duca  di    Maddaloni    65,    183, 

250  a  252. 
Carasale  (La)  detta  La  "Passaglione,  cant.  I  I  6. 
Cara  vita  marchese  Giuseppe  83. 
Carbutti  Filippo,  att.   339. 
Carceri  di  San   Felice  256. 
Carceri  di  San    Giacomo    76,     77,     78,    84. 

223.    222. 
Cardillo  Dom.  Ant.  233,  234,  274. 
Cardillo  Salvatore  234,   274. 
Carlandrea,  oste  a  Marechiaro  88. 
Carlo  III  di  Borbone  2,    12,   16,    1 7,    51,   53, 

70.  79,  81. 
Carlo  H  di  Spagna  81. 


—  432 


Carlo  XII  di  Svezia  295. 

Caio  (de)  Giulia  251. 

Carraturo  Giovanni   233. 

Carrino  Pasquale  274. 

Caruso    Salvatore  consigliere,  202,  210,   211, 

223. 

Casini  G.   Battista,  att.   2!  6. 
Casaccia  Giuseppa,   cant.  com.    179. 
Casaccia  Carlo,   cant.  com.   236. 
Casaccia  Antonio,  cant.   com.   70. 
Casalnuovo  Pignatelli  marchesina    1  1 6. 
Casino  (5Vo)  a  l'Arenella  di   F.  Cammarano 

316. 
Cassitto  Salvatore,   med.   262. 
Castello  di  Capua  84. 
Castel  di  Sandro  (duca  di)  224. 
Caste'.nuovo   18,   78. 
Castiglia  Fr.  Ant.   att.   65. 
Caiani  Carlo,  att.  229,  232. 
Caianeo  (La)  cant.   92. 
Catalano  G.   Battista  ing.    105. 
Calo  d'acqua,  att.  296. 
Cavallucci  Anna,   attr.   97,   98. 
Cava'Jere  (II),  di  D.  A.   Barone  63. 
Cavaliere  (II)  napoletano    in    Costantinopoli, 

di  F.  Cerlone   178,  295. 
Cecchini  (La)  nubi  e  mus.  di  Piccinni  256. 
Cecconi  (La)   cant.  306. 
Centolesi  (La)  cant     116,  204. 
Centurie  poetiche  del   Boccosi  72. 
Cenzo  (de)  Livia,   attr.   357. 
Cenzo  (de)  Gaspare,   att.   333,   334. 
Ceolini,  alt.  347. 
Cerlone  Francesco    35,    60,67,     140,     151, 

177,   186,  253,    255,  318.  319,  344, 

413. 

Cerlone  Filippo   I  53. 

Cerlone  Ottavio   174. 

Cesare  in  (Sgitto,  295. 

Cesi  Francesco  princ.  d'Acquasparta    138. 

Charlatans    (Les)    Italiens,  di  Karel  du  Jardin 

74. 
Charny  (contessa  di)  52. 
Charolais  (mademoiselle  de)  52. 
Chateauroux  (madame  de)    1 6. 
Chiari  abate  Pietro  34,    88,    177. 


Chiesa  di  S.  Giacomo  20,   76,  96,    198,  200. 

Chiesa  dell'Ospedaletto  83. 

Chiesi  Antonio  211. 

Chiupari  Andrea  228. 

Chiusarana  (La)  de  li  ciefarz  di  O.  Scherno 

343,  344. 

Ciavarella  Agata,   attr.    96. 

Ccinello  250,  251,  252. 

dento  (Le)  disgrazie  de  'Pulicenella  218. 
Cimarosa    Domenico    179,    236,    248,    290, 
306,  350. 

Cirillo  Gius.   Pasquale   39,   65,    66,   68,   69, 

183. 
Cirillo  Nicola   1  59. 

Cioìfo  Nicola,  att.  92,  94,  95,  96,  97,  204. 
Ciotola  Carlo  att.  329. 
Ciotola  Rosina,  attr.  329. 
Ciro  (S)  e  compagni  martiri   177. 
Cyran  (Saint)  Teresa  di,  e  Gianfaldoni  306. 
Claudia  (Li)  di  Dom.   Ant.   Barone   63. 
Clermont  (madamigella)   52. 
Clilennestra    54, 
Clorinda  (La)  di  Cerlone    I  78. 
Colbran  (La)  cant.  309. 
Coilegio  dei  nobili  54. 
Collegio  di  musica  per  le  donzelle  291. 

Colli  Altigonda,  attr.  284,   322,  347,  356, 
358. 

Colombo  Giuseppe,  att.  351,  352,   353,   354, 

355,  356, 

Colombo  (li)  nelle    Indie    di    Cerlone,     177, 

178,   179,  295. 

Colonna  Vittoria    137. 

Cernici  Lombardi  323. 

Comico  Inglese   (II)  di   F.  Cammarano  271. 

Comingio,  att.   339. 

Commediante    onorato    (II)    di   Cerlone    175, 

178. 
Compagnia  Fabbrichisi  357. 
Compagnia  Scarpetta  420. 
Compagnia  dei  Comici  Lombardi  215. 
Condé  (Principe  di)  34. 

Contessa  (La)  in  erba...  di  A.  Petito  415. 
Contessa  (La)  di  Fersen  di  V.  Fioravanti  306. 
Contessa  (La)  di  D.  Barone  54,  56,  168. 
Contcssina  (La  vera)  di  Cerlone,    162,    177. 


Conservatorio  di  S.  Maria  del  Buon  Princi- 
pio 248. 

Conservatorio  della  Pietà  dei  Tuichini  29 1 . 

Cornata  Eiena   137. 

Corriere  di  Napoli  (11)  292. 

Corsa/e  (lì)  di  D.   Barone  63. 

Cortese  (Giulio  Cesare)    I  59. 

Cortile  (II)  degli  Aragonesi  'bb'i . 

Cortooi  Arcangelo,  cant.  206. 

Coscia  Francesco  att.  216,  219.  232. 

Coscia  Ferdinando  346. 

Coturno  medico  78. 

C  repella  ro  (.Lo)  177. 

Crescenzo  (de)  Raffaele,  att.  422. 

Crescenzo  (de)  Amalia,  atti.  422. 

Crispo  Giuseppe,  art.  355.  357,  360. 

Cristallaio  240. 

Criaconio  Giuseppe  consigliere  211. 

Cuccuval*  (Lo)  de  Puorto  di  F.  Camma- 
tano  316.  321. 

Cucinieilo  Michele  340. 

Cunegonda  (La)  di  Cerlone   168,    178 

Coomo  Giuseppe,  att.  329. 

Curd  Giuseppe  235,  236. 

Curcio  Nicola  65. 

Curri  (Principe  di)  250. 


Damo   (La)  di  spirito,  di  Celione   1 78 
Dama  bianca  (La)  di  G.  Marulli  409. 
"Dama  (La)  bizzarra  206. 
Dama  (La)  maritata,   vedovo  e  donzella,  di 

Catione  1 76. 
Danza  (Marchese)  227. 
Datdane  (La)  di  Catione   1 79. 
Dario,  cant.   306. 
Dattilo  Ferdinando  226. 
David  Domenico,  art.  96. 
Debora  (La)  di  Celione    I  78. 
Delfico  309. 

"Demo/oonle  (II)  mus.  da  Jomrodli  206. 
Deo  (De)  234. 
Dastoocbas,  trad.  del  Tamburo  66. 

DI  GIACOMO.  -  S.   Carlino. 


433  —  , 

Diano  (Duca  di)  107. 

Diderot  41. 

Diego  (di)  Ferdinando,  att.  95.  96. 

Disertori  (l)  340. 

Disinganno  (II)  cantata  241. 

Divertimento    dei  Numi    (II)   cantata    di  Lo* 

renzi  69. 
Donadio  Celidea,  atti.  329. 
Dondini  Cesare,  att.  359. 
Domenico  (di)  Emanuele  223. 
Dominicis  (de,)  Giov.  Paolo,  att.  65. 
'Domino  rosa  (I)  424. 
Donizetti  Gaetano  322. 
Donna  (La)  co  la  barba  di  A.  Perito  415 
Doria  Paoo  Mattia   I.    10,    II.  55.  76. 
Dorina  contrastata  236. 
Dumonte  Antonio,  att.  329. 
Duport.  baller.  290. 
Dura  Gaetano,  att.  61.  297.  329. 
Duretti  Carlo,  att.  272. 
Durazzo  (Conte)  206. 

E. 

Elena    (!fl£a    beli")  mbastarduta    di  A.  Pati- 
to 415. 
(Slnava  di  M.  Cucinieilo  340. 
Empia  (Z,")  punita,  op.  sacra  208. 
Ómpii  puniti  (Gli),  di  Cerlone   1 78. 
Erede  (LO  senza  eredità,  mus.  di  Palma  292. 
Eremiti  di  Spoleto  (Gli)  340. 
Eroismo  (L")  ridicolo  236. 
Erriehelli  Fabio  255. 
Errico  (L')  di  Barone  63. 
Errico  Giuseppa  (Donna  Ptppa)   334.   338. 
Etiolet  (madame  d")    16. 


Fabiani  Giampietro    174. 
Fabrizia  Orsola,  cant.  241. 
Fabbrichesi  Salvatore,  impr.   358. 
Faiella  Teresa  233. 
Falcinelli  Matteo  85. 

28 


—  434  — 


Falanga,   impr.   41  5. 

Falco  (de)  Giuseppe,   att.   216. 

Fansaga  Cosimo    14. 

Farces  de   Tabarin  73,    74. 

Farinelli  Giuseppe  236. 

Fastidio  (.Don)  114,   143,   182,   185,   188. 

408. 
Fatlucchiara  (La)  de  lo  Covone,  di  O.  Scoia- 
no 344. 
Fausto  (.Don)  di  A.   Petito  414. 
Fazio  Gaetano,   notaio  350. 
Federici  commed.  344. 
Felice  (de)  Gaetano  284. 
Ferdinando  IV,  68.  72.  76.  78.   106.   188. 

194.  230.  275.  306.  308. 
Feroleto  (principessa  di)  256. 
Ferrari  Berardino,  att.  272,   273,  274. 
Ferrari  Pietro,  impr.    185. 
Ferraro  Andrea,  cant.    179. 
Festa  de  V Atchetieìlo  (La)  di  F.    Cammara- 

no  316. 
Feticello  Giuseppe  274. 
Fierro  Giuseppe  200. 
Figlio  (li)  assassino  per  la  madre  295. 

Figliole  (Doie)  malate...  di  Sthiano    343. 

Filippo  II  infante,   figlio  di  Carlo  111  86. 

Filippo  IV  di  Spagna  81. 

Filosofante  (La)  riconosciuta,  di  Crrlonr   I  78. 

Finta  molinara  (La)  di  Cerlone   178. 

Fioravanti  Valentino,   mus.,   236,   292,     293, 
350, 

Fiore  (di)    Dom.    Antonio   att.,  92,  93,  95. 
96.  97.  98,  99.   100.  103.   182.  307. 

Fiore  (di)  Tiberio,   maestro  di  Fiera  2  I . 

Fiori  (de)  Gaetano,  avv.   220. 

Fiorillo  Agostino,  att.  94. 

Fiorillo  Dom.  Ant.  att.    408. 

Flaminio  pazzo  per  amore  347. 

Flauto  Gerolamo,  tip.    I  I  . 

Flauto  Vincenzo,  tip.  32,    162. 

Floridiana  (La)  325. 

Fonseca  Pimentel  Eleonora  236. 

Fontana    Venere  79. 

Fontana  degli  Specchi  80. 

Forte  Pietro,  avv,  219. 

Forza  de  la  bellezza  (La)  di  Cerlone    178. 


Fossi  di  Castelnuovo  326. 
Fosso  (II)  110.  187.    198. 

Fourberks  de  Scapin  (Les)  di   Molière   73. 

Fracanzani  Orsola,  att.  233. 

Fracanzani  Alessandro,  att.  233. 

Fracanzani  Camillo,  att.  233. 

Francavigliola  {Il  contino  di)   177. 

Francescana,  moglie  di  Tabarin   73. 

Francesco  I  di  Borbone  306. 

Fragonard  4 1 . 

Franchi»  de  Carlo,   mus.   206. 

Frabboni  Giuseppina,   att.   346,    354,    355. 

Fuidoro  72,   74. 

Fulliero  (11)  cantastorie  87. 

Funnachere  de  lo  Muoio  piccolo    (Le)  di   F 

Cammarano  32  I . 
Fineo  Saverio,   att.   95,  96. 


Gabrielli   Pietro  Antonio,   att,   95. 

Gaetani  Carlo,   att.   329. 

Gaetani  Compagnia  al  S.  Severino  329. 

Galiani  Ferdinando  36.  37.    180.  234. 

Gallegara  Margherita  att.  96.  98. 

Gallo  Domenicantonio  8 1 . 

Cantini  Francesco,  att.  95. 

Cara  (La)  fra  l'amicizia  e  l'amore,  di  Cel- 
ione 162.   177. 

Garbiani  Felice  avv.  253. 

Garofano  Nicola  106,   107,   117.244,  257. 

Gasparro  (Lo  bello)  e  basta  cos),  di  F.  Cam- 
marano 316,  321. 

Gatti  Raffaele  273. 

Gautier  Teofilo  64. 

Gazzanica  Giuseppe   I  79. 

Gazzetta  teatrale  221. 

Gazzetta  di  Napoli  78. 

Ceiosia  per  gelosia,  di  Lorenzi  206,  208. 

Gelosia  de  ^Pazzia  (Le)  e  Alaste  danne  di 
F.  Cammarano  311. 

Generali  Pietro,  mus.  250. 

Gennaro  (di)  Gius.  Auielio ,  giudice  22 . 

Gennaro  (de)  Caterina  artr.  265,  346. 


455 


Genoino  Giulio  277. 

Gemano  (marchese  di)  250. 

Getace  (marchese  di)    249. 

Gèrome   411. 

Concola,  alt.    196.    223,  236,    241.  271, 
274,  323,  333. 

Giovanni  (di)  Giuseppe  272,   273. 

Ghermig  Giovanni   221. 

Gion/econdo  (II)  di  Barone  61,   62,  63. 

Giammetraglio  Nicola   233. 

Giancocozza  (Capitan)  di   D.   A.   di  fiore, 

Gianni  piti.   324. 

Giaramicca    Paolo,    libr.   306. 

Gilardoni  Domenico  316. 

Giordano  Carolina  attr.  307. 
Giordano  Gaetano  att.  65. 

Giornale  delle  due  Sicilie  292,  309. 
Giovanni  (di)  Giuseppe  231,  233. 

Giovannone,  a».  288,  291.  296.  297. 

Giuliano  (march,   di)   I  16. 

Giulio  Cesare  in  £gitto  251. 

Giuseppe  II  imp.  d'Austria  67. 

Giuseppe  Napoleone,   re  di   Napoli  291. 

Giusti  Giuseppe  34. 

Giustina  (La)   172. 

Goffredo  (II),  di  Cerlone    178. 

Goldoni  Carlo  118,  309.  407,  408 

Goya  411. 

Covernadore  (II)  di  Baione  63. 

Graffe  Carlo  233. 

Grassi  Giuseppe  att.  272,  273. 

Grati  Pietro,  att.  97,  98. 

Grati  Giro'ama,  attr.  97,  98. 

Grieco  Angela  Rosa   131. 

Grignani  Stefano,  att.  232. 

Grignani  Rosa,  attr.  233. 

Grimaldi  Margherita  attr.  95. 

Grimaldi  Nicola  att.    179. 

Greppi  Giovanni  att.  223. 

Gronchi  Stefano  233. 

Grossatesta  Gaetano,  impr.    117 

Grossini  Ludovico,  att.  216. 

Grottolella  (Duca  di)  283. 

Guappe  (Li     tre)  ammartenale  di   R.     Sante- 

lia  346. 
Guardiola  (La)  80. 


Guarino  Antonio,  sugger.  329. 

Guerin  Meschino  335. 

Guevara  (Inigo  de)    1  16. 

Guglielmi  Carlo,  mus.  234,  236,   350,   351. 

Guìtier  Giovanni    35. 

H. 

Hamilton  (Lord)  206. 

Harmonvìlle   73. 

Harrach   (Don   Luigi  conte  d)    18. 

Hayez  324. 

Ho«ar(  40. 


I. 


Idolo  (L')  cinese,  di  Lorenzi  350. 
imbimbo  (d')  Gennaro  m.  di  ballo  63. 
Indiano  generoso  (L'),  di  Cerlone    178. 
Inganno  fortunato  (L'),  di  Lorenzi    67. 
Inglesi  in   Jlmerica    (Gì')    di    Cerlone     162. 

177. 
Insanguine  Giacomo  mus.   47,    179,   206. 
Ippolito  (L~)  di  Cerlone    178,  235. 


Jaccarmo  Domenico  425. 
Jolli  Antonio  80.   187.  214,  220. 
Jommelli  Nicola  mus.    3  3 . 
Jonata  Caterina  212. 

K 

Kotzebue    344 


L. 

Lablachc  Clelia  291. 
Lablache  Ad«iaide  291. 
Lablache  Luigi  cani.   289,   291, 
Lablache  (le  comte  de)  289. 
I  .ablacKc  Nicola  289. 


343. 


-  436  — 


Labe  Braccetto  227. 

Ladro  in  campagna  e  galantuomo  in  città  351. 

Lampiedi  309. 

Largo  del  CasSello  238. 

Lalilla,   mus.  256. 

Luvezzino  Giovanni  alt.  272. 

Lavezzino  Pasquale  alt.  273. 

Lemoine.  pitt.   27. 

Leo  Leonardo  mus.   2  54 

Ler   Retro  233. 

Lcscaut  Marion  34. 

Lettiere  Gaetano  233. 

Liguori  Luigi,  att.  329,  409. 

Liguoio  (de)  Giuseppe    169. 

Lillis  (de)  att.    322,   347,   354,    355. 

Largata  Achille,  att.  347,  354,  355,  359, 409. 

Lioder  Nicola  att.  274. 

Lindsr  Francesco  232,  272,  273. 

Linder  Rosalia  attr.   271. 

Lionello  (li),  di  Verdi  340. 

Locanda  di  S.  Camillo  29 1 . 

Locanda  del  Monte  d'oro  208. 

Locanda  della  Stella  d'argento  208. 

Locke   10. 

Lombardi  Nina  attr.    196,   204. 

Lorenzi  Giambattiste  65,  66,  67,  68,  69,  177, 

J80.  183,  248. 
Loriot  meccanico  53. 
Losi  Nicola  att.   98. 

Lotteria  (Na)  arfabeteca  di  A.   Pelilo  415. 
Luciano  Giuseppe  att.  61. 
Ludov-si  Maria  attr.    131. 
Lui»  XV  16,  17,  52. 
Lume  a  gas  (II)  giornale  357. 
Lupaii  Frane  Maria  226,  227. 
Luzio  Gennaro,  att.  70,  179,  236,  240,  306. 
Luzi   Silvio    Maria    284,    295.    306.  307, 

309,  334,  345,  348.  355,   360. 
Luzi  Gius.  Maria  409,  419,  420. 


M. 


Macchia  Domenico,  att.   61. 
Mailly  (d«)  madame  16. 


Malibran  Maria,  cani.  346. 

Malocchi  (I)  di  Gius.   Pasqu.   Cirilla  66. 

Malpica  Cesare  283,  291. 

Mmalora  de  Chiaia  (.La)  di  F.   Cammarano 

316.  321. 
Mamozio    de    'Puzzulo,  di    Mich.    Cappelli, 

346. 
Mancinelli  pitt.  324. 
Mancini  Raflaeie  att.  306.  355,  357 
Mandatiti  Gerardo  atl.  329. 
Mandolinata  (Lo)  420. 
Manfredi  Eustachio  206. 
Manti  Domenico  200. 
Manzi  (La),  attr.  284,   306,  307 
Manzi  Michele,  att.  322.    347. 
Manzillo  Scranna,  cant.  257. 
Marangelli  att.   409. 
Marchese  Giuseppe  88. 
Marchese  Domenico  200. 
Marchesi  Ottavio  212. 
Marchesi  cant.  306. 
Marchetti  (La)  cant.    206. 
Marco  (di)  Bartolomeo  233,  274. 
Marco  (de)  Carlo  231. 
Mazziala  morale  (Mi)  de  Policenella  a  Scio- 

sciammocca  424. 
Marechiaro  36,  88. 
Maria  Amalia  di  Valpurgo   1,   2,    12. 
Maria  Carolina  regina  delle    Due  Sicilie  274. 
Maria  Antonietta   d'Austria    1 6. 
Mariani  Raffaele  233. 
Marinella  (La)  di  Cerlone  I  79. 
Marino  Pasquale  att.  61,    167. 
Marino  (de)  Giovanni  233. 
Morite    mbrugliune    (Duie)    rid.  di  Scarpette 

424. 
Mariti  (I)  di  A.  Torelli  428. 
Marotti  Nicola,  suggeritore  61. 
Marsigli  pitt.  324. 
Martiello  Vito  notaio   191. 
Martinelli  Luigi  cant.  241. 
Martini  (de)  Giuseppe  att.  61,  416,   418. 
Martorini  Teresa,  attr.    196,  204,  216,  217, 

218. 
Marnili  Giacomo  292.  354,  409. 
Marziale  Rafaele  274, 


—  437 


Marzo  Giuseppe  213. 

Musato  Francesco  68.  97.    141.   183,    184. 

204.  408. 
Maaera  Domenico  Argenzio  impr.  98. 
Matremmonie  (Cinco)  a  Monieglino,  di  Mich. 

Cappelli  346. 
Matteucci  Pietro  cant.  241. 
Mazza  Onofrio  att.  92.  94,   187.  204.  210, 

216.  219.  "227,  228. 
Mazzaccone  Giacinto  1 75. 

Mazzate  e  sputali  zie  336. 

Mazzocchi  Alessio    I  59. 

&(Cedico  notturno  (IT)  di  Soave  275. 

Mercadante  Fr.  Saverio  325. 

Mercurio  (II),  giornale  337. 

Mellunare    a   Chiazza   Francete    (.Li)    di  F. 
Cammatano  316. 

Menna  Vincenzo,  att.  216. 

Metolla  Tommaso,  att.  272,  273. 

Metafisico  (lì)  di  Gius.  Pasqu.  Cirillo  66. 

Metastasio  Pietro  69. 

Mettitele  a  fa  l'ammore  cu  me,  rid.  di  Scar- 
petta 424. 
■  Miano  Concetta  attr.  359. 

Michele  ti  pozzo  240. 

Mille  e  una  notte  33.  235,   337. 

Mililotti  Pasquale  206.  306,  307. 

Milzi  Antonio  art.  309. 

Minutalo  Antonio  52.  250. 

Miseria  e  nobiltà,  di  E.  Scarpetta  426. 

Mma'ora    de  Chiaia  (La)  di   F.  Cammarano 
316. 

Moles  (signori)  83. 

JKolinara  (La  bella)  292. 

Monastero  della  Concezione  76,   77. 

Monastero  di  S.  Antoniello  a  Port'Alba  257. 

Moncada  Maria    107,   200,  201. 

Moncada  Anna   107. 

Moncada  Grazia  200,  201. 

Mondor  73. 

Monitore  (II)  delle  Due  Sicilie  292. 

Montagna  (marchese  della  Gran)  354. 

Montalto  Giuseppe  212. 

Monti  Marianna   cant.    69,    116,    179,  248 
249,  257  a  265. 

Montoni  (La)  cant.   179. 


Montuoro  Vincenzo,  capit.  di  sbirri  222. 

Moreno  Raffaele  art.  329. 

Moretti  Sofia,  attr.  355,  360. 

Motescanti  Bruacotti  Nina  attr.  220. 

Morgan  (Lady)  307. 

Mormone  Raffaele  273. 

Mormone  Salvatore   123. 

Morosini  Carlo,  locandiere  208,  264. 

■Morte  (La)  del  Conte  Upsal.  di  F.  Cerio, 
ne   178. 

Morte  (La)  di  Cleopatra  235. 

Mosca  Luigi  236. 

Mosca  Giuseppe  mus.  351. 

Mosè  (II)  di  Rossini  309. 

Mostro  (IO  Turchino,  di  F.  Cerlone  168,  177. 

Mosso  Giuseppe  233. 

.Ylogedano  Sofia  attr.  422. 

■Z&uleas  (U)  re  del  Marocco  di  F.  Cerio* 
ne  178. 

Mondo  Francesco  att.  61. 

Muorto  (Nu)  che  parla,  di  O.  Schiano  343, 
344. 

Murat  Gioacchino  335. 

Muta  (iAfa  seconda)  de  Puorteet  di  A.  Pe- 
rito 413. 


N. 


Napoli  (di)  Raffaele,  att.  420. 

Napoli  Signorelli  Pietro  56.  65,  248 

Nardo  (di)  Ernmanuela  cant.    I  79. 

Natale  Andrea,  att.  322,  347,  358. 

Natali  Carlo  273. 

Navarra  Francesco  233. 

Negri  Sabino  223,  227. 

Negri  Falcone  Adelaide  3  50. 

Negri  Raffaele  att.  347,   350. 

Negri  sorelle  354. 

Negri  Pietro   194,   272. 

Nigro  Carlo  274. 

Nigro  Pietro  233. 

Nina  la  lombarda,  cant.   1  16. 

^inetta  (La)  ricamatrice,  di  F.  Cerlone  178 

Noi»  (Duca  di)  233. 


—  438 


Non  ha  cuore  chi  non  sente  pietà,  di  F.   Cer- 

lone  J  78. 
Notti  (.Le  due)  di  un   diavolo    ladro,  di  M. 

Cappelli  346. 
Novi  Gaetano  impr.  222. 


0. 


Omnibus  (L)  di  V.  Torelli,  giorn.   309,  343 

345,  360. 
Onorato  Francesco  233. 
Onorato  Domenico  233,  234. 
Oratorio  a  S.  Gaetano   I  74. 
Orfeo,  di  Gluck  69. 
Orlandino  Giovanni  233. 
Orso   W)    Elisabetta  MI.   190,    191.     192, 

194,  212.  215,  216,  241,  272. 
Orta  (d")  Rachele  attr.   131,    179. 
Ospedale  di  S.  Maria  della  Vittoria  77. 
Ospedale  di  S.  Giacomo  76. 
Ospitano  Giuseppe  233. 
Osteria    di   JXCareehiaro  (L')    di  F.    Cerlone 

179. 
Otello  more  di  Venezia  295. 


P. 


Paci  Sanhaneesco,  libraio  285. 
Pacchesicche  nfurnate  {Li  duie)  di  F.  Cam- 

marano  316.  32  1 . 
Pacchiarotti  (La),  cant.  47. 
Pacchiolto  (Fra),  alt.  340. 
Pacini  Giovanni  mui.   325. 
Padello  Giovanni  mus.  69,    179,   235,  236, 

24S. 
Palazzo  dell'Ammirai*  iato  324. 
Palazzo  Svignano  82,  83. 
Palazzo  Findi  82. 
Palazzo  drlla   Foresteria   325. 
Palazzo  di  cristallo  (  l)  giorn.   337. 
Palomba  Giuseppe  libr.  274. 
Pamela  nubile  (La)  di  Cerlone   162,    177, 


Pamela  maritata  (La)  di  Cerlone   178. 

Pantalena  Gennaro  360,  422. 

Paolo  e  "Virginia  335. 

Paolo   'o  puorco,  att.  296. 

Pappalardo  Nicola  att.  216,   233. 

Parc-aux-cerfs   1  6. 

Parco  di  Caserta  67 . 

Pascalotto,  di  F.  Cammarano  3  1  6. 

Pascariello  guardaportone,  di  A.   Pelilo  415. 

Parigina  (La  finta)  di  Cerlone   I  79. 

Parisi  Luigi,  att.   1 84. 

Partenope  appiè  del  7?e   Cattolico    176. 

Pasquini  simili  (l  due)  352. 

Pasquino  (Gius.  Colombo)  3  51. 

Pasquino  lustrascarpe  351. 

"Pastorella  (La)   ingannata   mus.  di  Carta  de 
Franchis  206. 

Pazzo  (5VTo)   nnammorato    de  no  pupazzo, 

di  R.  Santelia  346. 
"Pecegrcca  Pompilio  CDon)   149. 

Pellisier  Rosa  233. 
Penco  (La)  attr.  347. 

Penna  Bartolomeo  228. 

"Penne  (Quatto)  moneta  208. 

Pepe  Giuseppe  capo  di  comp.   100,  101.    102, 

107,  110. 
Peppa  Donna  334.  336,  339,  340.  341. 
Perla  Felice,  att.  61. 
Perrone  Domenico  350. 
Perrone  Giacinto  70. 
Pertica  Nicola  232,  272. 
Perrucci  Andrea   1 30. 

Pescalrice  (La  bella)  mus.  di  Guglielmi  351 
Pelilo    Salvatore,    att.    322,  329.   334,  336, 
339,  341.  343,  347,  354,  356.  414. 
Petito  Gaetano,  id.  338,  341,   347,  411. 
Petito  Davide,  id.  338,  339,  424. 
Petito  Pasquale,  id.  338,  355,   411. 
Petito  Antonir,    id.     135,    338,     340.      141, 

408,  409,  410,  416. 
Petito  Gennaro,  id.  339. 
Petito  Ferdinando,  id.  339. 
Petito  Adelaide  attr.  3*8,   339. 
Petito  Michela  id.  338. 
Petito  Rosa  337,  338.  . 
Pctris  (A?)  Francesco  345.  354, 


-   439 


Pezzana  Giacinta  359. 
Piazza  del  Castello   14,  20,  71,  73,  74,  75 
76,  77,  82,  85,  66,  89,  92,  212,  227, 
23'' 
Piazza  Medina  79,  62. 
Piazzali!  Nico.a   141. 
Pieri,  attr.  284. 

Piccioni  Nicola  mas.  206,  248,  256,  350 
Pietriboni  a».  409,  410. 
Pignata  Pasquale,   att.   228,   306. 
Pignatell.,  marchese  di  Pagi  età  239. 
Pinto  Pasquale  dei  princ.  d'ischitella    I  I  h 
Pirelli  Udit.  dell'Esodio  20,  101.   IO 

189,  190,  198,  202,  211. 
Pace  Dauphine  73. 
Podesti  324. 

Pompadour  (la  marquise  de)   16. 
Pont  Neiif  (Le)  a  Pariai  73. 
Porta  cesie  (II)  di  A.   Patito  415 
Postiglione  (Don),  di  Sim.  Rossi   177. 
Pozzi  Gaetano  217. 
Pregiudizio  alla  moda  (11)  d.    de  la  Caussée 

66. 
Presi  (La)  di  Bender  295. 
Prestino  Paola  350. 
Prevetarie  lo  <3\Co),  moneta  207. 
Prevost  (L'abbé)  34. 
Preziosa  (La)  di  Ce  rione   I  78. 
Principe  (Il  finto),  di  Cerlone    1  76. 
'Principe  riconosciuto  (//)  di  Cerloae  1 79 
Precida  52. 
Prota  Gaetano   1 1 6. 

Proto  Francesco,  duca  di  MaddaJoni  239. 
Pulcinella  molinaro  292. 
Pulcinella  creduto  donna  DoroUo  etc    di    \ 
Pet.to  415. 


Quatto    de    maggio  (Li)    di    F.  Cammarano 

304,  321. 
Quatto  de  lo  muoio  (Li)  di  O.  Scoiano  343 
Quinavalle  Pasquale   175. 
'Rafaele    (JXaslo)  e    nun   te  ne  ncarricù,  d. 
A.  Perito  415. 


Raganicllo  Maddalena,  attr.  96,    116,    131. 

Radice  Eleonora,  attr.  228. 

Raimondi  Pietro  mus.   316. 

Rainieri  Antonio  350. 

Ratto  Agostino   117. 

Ravaschieri  Ramiro  250. 

Regina  (Duchino  della)  252. 

Ré  dei  Genti  (11)  di  Cerlone   168,    178. 

Retuorno  (Lo)  da  la  pesca  de  li  cortile  di  F. 

Coscia  346. 
Re  Vincenzo  pi»,  e  arch.  86,  87. 
Ricciardi  Francesco  tip.    Il,  76. 
Rilorgio  CO),    'o  ccppiello  e  'o  pazzo,  di  A 

Petto  465. 
Vimini  (da)  Francesca  di  A.   Petito  415. 
Rina  (La)  de    o   Vommero    161. 
Rios  (de  los)  Antonio,  impr.  336. 
RiOali  (I  tre)  236. 
Rocco  (Padre)  203. 
Rocco  Carlo   168. 

Roma  (de)  Pietro  not.   229,   272,   282. 
Roma   (de)  Giovanni   272 
Roman  s  (de) 
Romto   Biag'o,   pirruf 
Roa  (de)  Miuro,  a.:,    li        3  4       J5 

414. 
Rosati  Ignazio,   att.  357. 
Rossetti  poeta  309. 
Rossi  Caterina  cant    296. 
Rossi  Cristoforo,  att.  65. 
Rossi  Niccolò,  libraio  79. 
Rossi  Luigi  290. 
Rossini  Gioaci  ' 

Rotolo  Domenico  pasticciere  62. 
Rousseau  Giacomo   16. 
Ruggiero  Cesare  Udit.  dell'Esercito  211. 


Saggese  Antonio  228. 
Saint-Curan  (teresa  di)  306. 
Salasso     (II),  di  Ch,,.   P.Cirillo  66. 


440 


Salerno  Cannato,  att.   65. 

Sambuca  (della")  marchese  236. 

Sondrina,  attr.    185. 

Sanfel.ce  Ferdinando  arch.    1,   5,   8,    IO,    15, 

20. 
Sangiacomo  Domenico,  stamp.  285. 
Sangro  (di)  Ramiro,  princ.  di  Sansevero 
Sansone  (2\£o)  a  posticcio  di  A.   Petito  4  i  5 
Sansone  Maria  Raffaella  attr.  339. 
Santacroce  Gerolamo  80. 
Santelia  Vincenzo,  att.  409. 
Sante.ia  Gennaro  346. 
Santelia  Maddalena  346. 
Santelia  Raffaele  322,  346,  337,  354,  355. 

359. 
Santi  Pietro  cant.  2G6. 
Sapuppo  Paola   146,  196,  204,  271. 
Saracino  Paolo  pitt.  63. 
Sarconi  Andrea   117. 
Sardo  Giuseppe  80. 
Sartorio,  mus.  251. 
Sansò  Giuseppe  att.  408. 
Sassari  (di)  Antonio  261. 
Saturno  (10,  di  G.  P.  Cirillo  66. 
Savastano  Aniello  copista  teatr.  415. 
Scatfalietto  (Lo)  rid.  di  Scarpetta  424. 
Scarola  att.   322. 

Scarpetta  Eduardo  32 1 ,  222,  e  da  420  a  428. 
Scazzocchia  Maddalena  attr.    130,  203,  204, 

264. 
Scialala  (La)  de  tre  don  Limune,  di  F .  Cam- 

maraoo  31  6. 
Schiano  Adelaide  attr.   409,   422. 
Schiano  Orezio  3  42,  343.  344,  348,  354,413. 
Schiano  Filippo  343. 
Schmid»  libr.  306. 
Schiava  (La  finta)  161. 
Scherzi  (Gli)  di  amore  e  di  fortuna  di  Cer- 

lone   179. 
Schifici  ballerino  227. 
Sciosciammocca  (Il  cav.  Don  Felice)  direttore 

d'una  compagnia  comica  422. 
Sciosciammocca  Felice  42 1 . 
Sciosciammocca  \Feliciello)    mariuolo  de    na 

pizza  420. 
Sciroli  Gregorio,  mus.  (v.  di  Fiore). 


SelutcelU  (Il  finto  etnìe)  161. 

Scrattenberg  (di)  Wolfango  8 1 . 

Scoti  Gennaro  102. 

Sebastiano  Francesco  libraio  79,    1 44. 

Sebeto  (Un),  moneta  207. 

Sei   (di)  Giovanna  224. 

Selvaggi  309. 

Selva  comica  nazionale,  di  A.  Petito,   415. 

Senapart  capo  di  comp.  212. 

Serao  Francesco  medico  78,  262. 

Serio  Emmanuella  85,    110. 

Serio  Luigi  68,  69,    155. 

Seno  Fedele  (II)  177. 

Seta  (della)  Luisa  attr.  40<». 

Settembrini  Luigi   1  57. 

Sforza  Costanza   137. 

Sguizzerò  'mbriaco  (Lo)  etc.  di   F.  Caroma- 

rano  316,  321,  359. 
Sharp  Samuele   III,  115. 
Sopha  (Le)  di  Crèbillon  41. 
Sicortdolfo  Vincenzo  233,  234,  274. 
Siggettare  (Li)  de  la  Pignesecce,  di  F.  Cam- 

marano  3 1 6. 
Signora  riconosciuti  (La)   161. 
Simone  (La  de)  attr.  347. 
Simeone  Luigi   I  96. 
Siroe  re  di  Persia,  di  Perez  92. 
Smargiassi  paesista  324. 
Sofferenza  premiata  (La)  di  Cerlone   178. 
Solimano  (II)  di  Cerlone   1  78. 
Solitario  (II)  di  Dom    Barone  63. 
So  Ilario  della  foresta  (II)  335. 
Solimene  Francesco  pitt.    I  4. 
So'  muorto  e  m'hanno  fatto  toma  a  nascere 

di  A.  Petito  415. 
Sopra  l'ingannator  cade  l'inganno  di  Cerlone 

178. 
Sorella  (La)  riconoscente    161. 
Soriani  Antonio  suggeritore  213,    216,   220, 

222,  234. 
Sortita  (La)  d'Errico  IV  da  Parigi  295. 
Spada  Antonio  6 1 . 
Spelta  Angelo,  att.  295. 
Spina  Antonia   1 30. 
Spinelli  Antonio   173. 
Specchio  (Lo)  dei  cavalieri  di  F.  Cerlone  178. 


—  441  - 


Sperciatepe  (Lo)   177. 

Spettatore  (Lo)  napoletano,  giorn.  263. 

Spoletino  238. 

Sposa  (La)  tra  le  Imposture  236. 

Sposi  (Gli)  incogniti  256. 

Sponlini  Gaspare  mas.  236. 

Sposo  (Lo)  senza  moglie  236. 

Spicciargli  (Gli  ,    135. 

Spinelli  (generale)  231. 

Starace  Pasquale   161. 

Stasio  (de)  Anna   222. 

Stellante  Costantino  340. 

Strada  de    lo    Baglivo   (La)  a    rommore,  <£ 

Ferd.  Coscia  346. 
Stile  Giovanni  att.  238,  234,  272,  273,  307. 
Studenti  (Gli)  di  Don».    Barone  63. 
Stuorlo  (Lo)  cantastorie  87. 
Strumillo  Ignazio  340. 
Superba  (La)  in  amore,  di  Cerlone  295. 


Tabarrino  72. 

Taccarella  (L'abate)  di  Cerlone,   35. 

Taddei  famiglia  357. 

Taddei  Emmanuele  292. 

Tagliacozzi  Canale  arch.   17. 

Tagliazucchi  Giovanni,  att.   295,   322. 

Tamberlani,  impr.   333,   334. 

^Tamburo  (II)  di  Addiston    66. 

Tamburrini,  cant.  306,    307. 

Tanfano  340. 

Tanucci  52,  101.  107,  187,  188,  189,  195, 

198,  206,  207.  219. 
Tarazena  (marchese  di)  250. 
Tarchi  Ange'o  mus.  256. 
Tari  Antonio  274. 

Tavaui  att.  247,  274,  322.  354,  355,  384. 
Taverna  (La)  de  la  baronessa,  di  Scoiano  344. 
Taverna  (La)   de  monzù  Jlrena,  di  Schiaao 

344. 
Teatro  San  Carlo  47.    76,    79,     I  1 7,    206, 

289,  306,  324,  341,  350. 


Teatro  dei  Fiorentini  39.  48,  67,  69,  94.  95. 
97.  98,  179,  197,  202,  206.  210.  212. 
215. 240. 248, 249. 306. 324.  347, 358. 

Teatro  Nuovo  39.  67.  69,  88.  97,  98.  179. 
1 97, 205, 206, 2 1 0, 2 1 4. 2 1  5. 22 1 ,  248, 
255.  256.  306.  316.  350.  351.  360. 

Teatrino  della  Pietà  dei  Turchini  293. 

Teatro  San  Carlino  20.  40.  92.  97.  99  a 
110,  195,  199.  200.  205.  209.  213, 
232,  238.  229,  241.  306.  307,  609. 
316,  321.  322.323.  333.  334.  336, 
340-47,  350,  351,  354-56,  360. 

Teatro  di  Sanseverino  324,  328. 

Teatro  della  Fiera   187,  217.  225. 

Teatrino  di  Palano    53,   65,  69.   75,  240. 

Teatro  S.   Bartolomeo  251. 

Teatro  della  Pace  93,  248. 

Teatro  del  Fondo  di  separazione  231,  237,  290. 

Teatro  S.   Ferdinando  236. 

Teatro  domestico  dr-I  duca  di  Maddaloni  63. 

Teatro  di  3.  Luca  407. 

Teatro  Fenice  75.  284.  322.  340.  360. 

Teatro  Donna  Teppa  336.   337. 

Teatro  *D«uno  di  Foggia  357. 

Teatro  Partenope  134,  420. 

Teatrino  di  via  Nardones  88,   89. 

Teatro  di  "Donna  Marianna  333. 

Teatrino  deVa  Pag'iara  a  Portici  67. 

Teatro  del  Glardeniello  96,    101.    IC6. 

Teatro  Rosmini,   416. 

Teatro  delle  Follie  Drammatiche  419,   420. 

Telesco  attr.  409,    410. 

Teodoro  att.  422 

Teperino  Giuseppe,  att.  216,  229. 

Tcrracciano  Angela,  attr.    131. 

Terracina  Laura,    137. 

Tesi  Vittoria,  cant.  249.  254. 

Testa  Angiola,  attr    95,    131. 

Tettilo,  rid.  di  Scarpetta  424. 

Tiberio  (Don)  177. 

Tiranno  (II)  Cinese  di  Cerlone    1 66,    1 78. 

Tiziano  Michele   101.  200. 

Tofano  att.  329. 

Toledo  (di)  Don  Pietro  76. 

Tomasuolo,    notaio  8 1 . 

Tomeo  famiglia  80. 


442  - 


Tom»  Toffljaaso  109,  1)0,  il8,  143,  187, 
190,  191,  193,  194,  197,  198,  202, 
204.208,209,211,212.214,216,217, 
218,219,220,221,223,220,227,228, 
229,230,  131,232.  233,241,272. 

Tomeo  Carlo  81.  65,  .  0,  1  1  !,  1 18,  193, 
212,  272,  273. 

Tomeo  Salvatore  111,  193,  194,  219,223, 
229,  241,  272. 

Tomeo  Michele  19,  20,  81,  84,  87,  87,  88. 
89,  110,  NI,  117,  118,  121,  193,203, 
272. 

Ttìmeo  Bonaventura  8i,  85,  84. 

Tomeo  Chiara  81. 

Tomeo  Maiia  Michela  193,  272,  273. 

Tomeo  Matia  Giuseppa   193,  273. 

Tomeo  Paola  8). 

Tomeo  Raimondo  193,  272,  273. 

Tomeo  Orsola  81. 

~ì  omeo  Giovanna  8  ! . 

Tomeo  Luiya  193,  273. 

Tomeo  Mariairtonia  193,  273. 

Tomeo  EmanoeUa  193,  273- 

Tomeo  Lucia  194,  272. 

Te  meo  Vittoria  85. 

I  opo  (II)  letterario,  giorn.  337. 

Torelli  Vincenzo  342,  345,  352. 

Torre  Filomarino  (Duca  della)  252. 

"]  onecuso  (marchese  di)  250. 

Tottola  Andrea  Leone,  libre».   306. 

1  cuIoU3e  (comtesse  de)   52. 

Trabalza  Celeste,  cant.   179. 

Tra  lo  sdegno  nasce  amore  di  D.  A.  di 
Fiore  97. 

Trame  (Le)  per  amore,  di  Cerlone   179 

1 1 amontano  Agostino  274. 

Trattoria  di  Manziìlo    19. 

Trattoria  di  Ciccioni      81. 

Tremori  Eustachio,  alt.  295,  322,  350,  354, 
355,  359- 

Tresiro(No)  mrniez  a  li  muorte  di  O.  Sema- 
nò  344. 

Tricchc  traccile  tanto  a  parte  di  G.    Marulli 

316. 
7  rionfo  (II)  di  Camillo,    mus.  di  Porpora  92 
Trino  Giacomo,  mus.    179-  236,  241.  350. 


Trivelli  Francete,   au.  92,  94,     17. 

204. 
^roisi  Felicetta  68. 
Tronconi  att.  329. 
Tudor  Maria  340. 
Tufarelli  Pietro,  impr.  98,  99. 
Turca  (La)  in  cimento  ài  P.  Chiari  35.  177. 
Turco  (lì)  in  Italia,  mus.  di  Rossini   306. 
Turris  (de)  Nicola  80. 


u 


Uva  Michele  351,  425. 

Uggero  di  Danimarca  293. 

Ulloa  (de)  Erasmo  udit.  dell'Esercito  96,  257. 

Uome   (LO   di    un  altro   mondo    dell'  abate 

Chiari  35- 


Vacca  Michele,  a»    272. 
Vactaro  Domenico  att.  61,  63. 
Valentino  (Duca  di)  296. 
Valenza  Giuseppe  233. 
Vallo  (del)  Pietro  274. 
Vallo  (CavaKer)  252. 
Vallo  (de!)  Michelangelo,  capoc.  274. 
Vanvitelli  Luigi  arch.    I  5. 
Vassallo  (II)  fedele  di  Ccrlons   I  78- 
i-  n^co  de  Coma  di  Cerlone   178. 
l'eliti  (Reggimento)  335. 
Verrei  Jacques  parrucch.  42. 
Vendetta  e  disprezzo  33  ! . 
Ventaglio  (II)  di  Goldoni  314. 
Ventaglio  (II)  mus.  di  Raimondi  316,    343. 
V  entapane  Carmine,  med.   78,  262. 
Ventignano  (Duca  di)  306,  308,  309. 
Verbo  (II)  umanato  75. 
Verdi  Giuseppe  325.  340. 
\  erdinois  Federico,  321.  425. 
Verona  Simone  233. 
Via  S.  Giacomo  78. 


.._  443  — 


Via  de!  ifolo  87,   88. 

Via  S.  Brigida  781 

Vicedomini  Francesco  alt.  61. 

Vico  Crocelle  229. 

V'ico  Travaccati  83,  85. 

Vico  Lava  ai  Tribunali  93. 

Vico  teatro  Nuoro  42. 

Vigano  Onorato  ball.  206. 

Vigorito  Innocenzto  274. 

Vigorito  Ignazio  274. 

Villani  Francesco  att.  65. 

Violenza  e  Costanza,  mus.  di  Merradint^  306. 

Viluppi  amorosi  (/)  mus.  di  A.Tarcni  256. 
Vinaccia  Giacomo  libraio  35,    161. 

Vinigiana  di  spirito  (La),  di  Chiari  35. 

Virtù  (La)  fra  i  barbari,  di  Orione    178. 

Viscioletta  (La)   116. 

Visconti  Giulio  18. 

Vitaliani  234. 

Vitellaro  Rojalia  350. 

Vitolo  Mariano  233. 

Vicolo  Nicola  att.  95. 

Vitonomeo  Francesco  art.  203,  220,  222,  228. 

Vivo  (de)  Tommaso  pitt.  324. 

Vocola  Angelo  libraio  10. 

Voisenon  (abate  de)  34, 

Vettiero  Nicola  172. 


w. 


Wafcole 

WaUen  ciurmadore  211. 
Wijfar  324. 


Zaide  (Le)  in  Napoli,  di  Cerlone   178. 

Zambeccari  conte  Giovanni  47,   206. 
Zampini  Giovanna  attr.  221. 

Zampa  Checchina  attr.  347. 

Zampa  Serafina  attr.  347,   354.   3  55,   356 

358,  359. 
Zenobìa  (La)  di  Orione   I  76. 
Zini  Saverio  351. 

Zingaro  (//)  per  amore,  di  Cerlone   178. 
Zoreide  (La)  di  Cerlone  178. 
Zortela  Giuteppe  355. 
Zoccarini  Teresa  cani.  255,  256. 
Zuìeima  235, 
Zvtfn  Giulia  cant.  25'     ?>2. 


INDICE 


capitolo  primo P*g.     i 

Fiere  e  cuccagne  del  Settecento  —  L'architetto  SaoffcKco  —  Migrai 
Tomeo,  cavadenti  autorizzalo  —  U  Settecento  a  Napoli. 

Capitolo  Secondo 51 

Commedie  e  commedianti  di  corte  —  Il  marchese  di  L'iveti  — 
Giaiaaattista  Lorenzi  —  La  virtuosa  esitagli»  cesarea. 

Capitolo  Terzo »     71 

Piazza  del  Castello  —  Baracche  e  ciarlatani  —  La  famiglia  Tomeo 

—  La  baracca  del  a  San  Carfaro  ". 

Capitolo  quarto »    109 

La  a  Cantina  "  —  Commedia  dell'arte  —  Gianeola  —  Don  Fastidio 

—  Francesco  Cerfone  —  Agonia  delia    <  Cantina  y- . 

Capitolo  Quinto .       .       >    193 

U  nuovo  «  San  Carlino  -' .  —  La  eompasma  e  le  sne  avventure.  — 
Documenti.  —  Il  Novanta suvt, 

Capitolo  Sesto    .  »    243 

Intermezzo  sulle  «  carrtarine  :;  Cronaca  ddi'-gnueti. 

Capitolo  Settimo »    269 

«  Giancola  s  è  morto,  viva  «  Giovaanone  !  •  —  Lablacne  a  San 
Carlino  —  f-ifippo  Cammarnno  —  Fine  dell'Impresa  Tomeo  —  Silvio 
M.  Lvzr —  «  Annella  di  Portacapoana  ». 

—  445  — 


capìtolo  Ottavo pag.     333 

Salvatore  Pelilo  e  U  sua  (amiylia  —  Orazio  Sehiano  —  Morte  di 
Catamarano  —  Vicende  de!  teatro  —  Autori  ed  attori  600  al   1850. 

Capitolo  Nono     .  >    3ó7 

Pasquale  Altavilla,  il  suo  tempo,  le  sue  commedie  —  Il  1860  — 
Nuovi  commediografi  e  nuovi  attori  del  «  San  Carlino  "  —  «  San 
Carlino  ,;   fino  al   1875. 

Capitolo  Decimo  .       .       .       .       .       .       .  »    407 

Morte  di  Antonio  Pelilo  —  Giuseppe  de  Mattino  —  Edoardo  Scar- 
petta attore,  impresario  e  commediografo  —  Soppressione  del  Pulci- 
nella —  Demolizione  del  teatro  —  Conclusione. 


PN  Giacomo,  Salvatore  di 
2686      Storia  del  teatro  San 

N36T45  Carlino.  3.  ed. 
1919 


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