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Full text of "Teatro francese"

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LIBRARY 

UNlVasiTY  OF 
CALIFORNIA 


''  I 


THESAURUS  LITTERARUM 
fondato  da  Vincenzo  EnraiUe 


TEATRO   FRANCESE 
///  -  da  Victor  Hugo  a  lonesco 


Toulouse-Lautrec:   Vn  palco  a  teatro.  Litografìa  a  colori  (1897). 


TEATRO       DI       TUTTO       IL       MONDO 
direttore:  Raffaele  Cantarella 


ITALO  SICILIANO 


TEATRO    FRANCESE 

Ili  •  da  Victor  Hngo  •  loneseo 


NUOVA  ACCADEMIA  EDITRICE 


PROPRIETÀ  LETTERARIA  RISERTATA:  NUOVA  ACCADEMIA  EDITRICE 
MILANO  •  VIA  MAZZINI  10 


riCTOR   HU«0 


971 


Ncirimmcnsa  opera  scaturita  dal  cervello  vulcanico  (bagliori, 
lapilli  e  cenere)  di  Victor  Hugo  il  teatro  è  una  parentesi  relativa- 
mente breve  nella  quale  si  condensano  e  si  esaltano  gli  aspetti  con- 
traddittori di  un  genio  la  cui  esuberanza  non  esclude  gli  estremi 
della  banalità  e  della  <  sregolatezza  >.  Annunziato  da  precoci  sag- 
gi di  tragedie  e  dranmii  (un' Athélie,  una  Inés  de  CastrOy  e  altre), 
l'assalto  alla  ribalta  —  e  alla  Bastiglia  classica  —  s'inizia  nel  1827 
(Hugo  ha  venticinque  anni)  con  un  Crotnwell  che  ha  il  piccolo  in- 
conveniente di  essere  <  injouable  >,  subisce  nel  1827  l'infortunio  di 
una  Amy  Robsort^  vince  nel  febbraio  del  1830  la  memorabile  bat- 
taglia di  Hemani,  si  conchiude  nel  1843  col  disastro  dei  Burgra- 
ves.  Fra  l'Austerlitz  e  la  Waterloo  della  campagna  romantica,  al- 
terne vicende  di  faticose  vittorie  e  di  rovesci.  Successo,  nel  1831,  di 
Marion  de  Lorme  (dramma  scritto  nel  1828,  ma  vietato  dalla  cen- 
sura di  Carlo  X),  contrasti  nel  1832  per  Le  roi  s'amuse  (che  met- 
te in  scena  gli  amorosi  capricci  di  Francesco  I  ed  il  patetico  amor 
paterno  del  buffone  Triboulet),  fallimenti  di  Lucrèce  Borgia 
(1833),  di  Marie  Tudor  (1833),  di  Angelo  tyran  de  Padoue  (1835), 
melodrammi  in  prosa  sui  quali  anche  ì  più  accesi  hugolatri  sten- 
dono un  pietoso  velo.  Nel  1838  il  poeta  inizia,  e  non  finisce,  Les 
Jumeaux  (la  storia  della  maschera  di  ferro)  e  fa  rappresentare 
Ruy  Blas,  che  è  considerato  il  suo  secondo  capolavoro.  Dopo  i  lu- 
gubri Burgraves  non  scriverà  che  l'orrido  Torquemada  (1869)  e 
—  fra  gli  uni  e  l'altro  —  delle  piacevoli  scenette  pubblicate  po- 
stume nel  Thiàtre  en  liberté. 

Bilancio  piuttosto  magro  e,  comunque,  sproporzionato  alla 
vastità  dei  rumori  e  delle  ambizioni.  Il  venticinquenne  poeta,  che 
già  si  credeva  Shakespeare  e  che  fra  qualche  anno  crederà  di  es- 
sere stato  messo  da  Dio  al  centro  del  mondo  per  esserne  <  l'eco  so- 


10  VICTOR   HUGO 

nera»,  ritiene  necessario  risalire  all'origine  del  mondo  per  trac- 
ciare la  strada  fatale  che  dalla  genesi  porta  al  suo  CromwelL  Nel- 
la famosa  prefazione,  infatti,  comincia  col  fare  della  stessa  uma- 
nità una  smisurata  <  picce  »  in  tre  atti,  distinta  in  tempi  primitivi 
che  sarebbero  stati  lirici,  in  tempi  antichi  che  sarebbero  stati  epi- 
ci e  in  tempi  moderni  che,  prendendo  inizio  dal  Cristianesimo, 
avrebbero  avuto  per  protagonista  il  teatro.  Questo  e  vissuto  a  lun- 
go nell'arbitrio  delle  regole  e  nell'equivoco  dei  generi  separati,  ma 
ormai  è  venuto  il  tempo  di  risolvere  l'assurdo  divorzio  di  trage- 
dia e  commedia  nel  contrastato  connubio  del  dramma  che  —  au- 
tentica rappresentazione  del  vero  della  vita  e  poema  «comple- 
to »  —  deve  fondere  il  bello  e  il  brutto,  il  riso  e  il  pianto,  il  subli- 
me e  il  grottesco.  Dal  Sinai  della  sommaria  scienza  e  della  colo- 
rata prosa,  Hugo  è  sceso,  o  caduto,  nella  terra  dei  Diderot  e  dei 
Sedaine  e  sul  palcoscenico  del  melodramma  popolare 

Se  nessuno  potè  prendere  sul  serio  l'immaginaria  dottrina  evo- 
luzionistica in  troppo  flagrante  dissidio  con  le  nozioni  di  storia 
elementare,  si  riconobbe  tuttavia  alla  Préface  il  merito  di  aver  mos- 
so le  acque  e  di  aver  scatenato  il  salutare  uragano  romantico.  Sì 
trattava  però  di  acque  già  mosse,  e  di  varia  provenienza.  Rivolta 
contro  le  regole,  condanna  a  morte  del  moribondo  classicismo, 
libertà  dell'arte  o  nell'arte,  antitesi  Racìne-Shakespeare,  mescolan- 
za di  generi  e  di  stili,  di  storia  e  di  fantasia,  di  frenetiche  passioni 
e  di  ironia,  erano  il  disparato  compendio,  e  l'eco  sonora,  delle 
dottrine  settecentesche  e  delle  teorie  di  Lcssing,  di  Schiller,  di 
Wilhelm  Schlegel,  delle  polemiche  milanesi  (riecheggiate  da  Sten- 
dhal), dei  volgarizzamenti  di  Madame  de  Staci,  dei  <  divertimen- 
ti >  del  Mérimée  del  Thiàtre  de  Clara  Gazul,  ecc.  Con  tutte  le  sue 
stravaganze,  il  manifesto  del  Cromwell  contiene  ancora  qualche 
elemento  positivo.  Nelle  successive  prefazioni  il  profluvio  di  pa- 
role serve  solo  a  rivelare  l'inesistenza  di  una  qualsiasi  concezione 
teatrale.  «  Ce  serait  l'heure,  pour  celui  à  qui  Dieu  en  aurait  donne 
le  genie,  de  créer  tout  un  théStre  vaste  et  simple,  un  et  varie,  na- 
tional  par  l'histoire,  populaire  par  la  vérité,  humain,  naturel,  uni- 
versel  par  la  passion  >.  Così  è  scrìtto  nella  prefazione  a  Marion  de 
Lorme.  Altrove  al  teatro  saranno  affidati  la  missione  sociale,  l'in- 
segnamento della  storia,  l'esercizio  della  magistratura  e  del  sacer- 


PRESENTAZIONE  11 

dozio,  e  simili  idoli  —  o  verità  primarie  —  di  caratteristica  marca 
hughiana. 

Purtroppo,  le  opere  non  mantengono  cosi  grandi  e  vaghe  pro- 
messe. In  realtà,  il  dramma  «maestro  di  storia  nazionale»  (che, 
sia  detto  en  passant,  rivela  una  particolare  predilezione  per  le 
escursioni  in  terra  straniera,  per  la  Spagna  di  Carlo  V  o  dellln- 
quisizione,  per  llnghilterra  di  Cromvvrell  e  dei  Tudor,  per  l'Ita- 
lia rinascimentale,  per  la  Germania  di  Barbarossa)  tiene  in  son- 
tuose regge  cattedra  di  filosofia  spicciola,  di  democratica  mora- 
le e  di  eroiche  passioni,  ma  —  oltre  a  fare  dei  tempi  e  dei  luoghi 
chiassosi  quadri  che  finiscono  in  oleografia  —  riduce  troppo  spesso 
il  magistero  all'enfatica  intronizzazione  dell'c  out-law  »  fatale  e 
tenebroso  (siamo  nella  stagione  dei  Manfredo,  Lara,  Karl  Moor, 
eccetera)  e  al  melodrammatico  conferimento  di  titoli  di  nobilita  alla 
cortigiana  Marion  redenta  dall'amore,  ad  una  Lucrezia  Borgia 
sublimata  dalla  maternità,  all'eroica  attrice  La  Thisbé,  al  valletto 
Ruy  Blas  amato  amante  di  una  Regina,  al  bandito  Hernani,  al 
trovatello  Didier,  all'*  uomo  del  popolo  >  Gilbert,  al  buffone  Tri- 
boulet.  Una  siffatta  semplicistica  visione  dell'umanità  sarebbe  an- 
cora tollerabile  se  il  teatro  delle  universali  verità  non  mettesse  una 
singolare  costanza  nell'esercitare  i  diritti  della  fantasia  in  abusi  di 
situazioni  inverosimili  e  in  arbitri  di  cuore,  se  soprattutto  non  chie- 
desse troppo  alla  credulità  dello  spettatore  (ed  all'equivoco  fune- 
sto) rivelando  l'ingenua  credenza  che  il  «grande  nel  vero»  e  il 
<  vero  nel  grande  >  si  trovino  —  meglio  che  in  Corneille  e  in  Mo- 
lière —  nel  tragico  sacco  del  buffone  o  nell'allegro  armamentario 
di  armadi,  molle,  maschere,  barbe  finte  e  tabarri,  veleni,  narcotici, 
patiboli,  bare,  cappe  e  spade. 

Hugo  non  era  Népomucène  Lemercier,  ma  non  era  nemmeno 
Shakespeare.  Pensandosi  autentica  rappresentazione  della  vita  il 
suo  «grottesco»  resta  per  lo  piò  nel  convenzionale  delle  antitesi 
che  non  raggiungono  il  punto  di  incontro  in  cui  l'arte  si  fonde  con 
la  vita  ed  in  cui  l'immaginazione  risolve  in  poesia  i  contrasti  della 
realtà  e  la  dialettica  dei  contrari:  onde  volgare  perizia  e  linguag- 
gio sontuoso  procedono  di  conserva  e  in  discordia  fra  umorismo  e 
involontario  ridicolo,  fra  la  ricerca  del  sublime  e  la  goffa  trovata, 
fra  il  volo  Urico  e  la  caduta  nella  prosa.  Hugo  non  era  Shakespeare, 


12  VICTOR  HUGO 

ma  non  era  nemmeno  Népomucène  Lcmercier.  E  il  puerile  colpo 
di  scena  si  accompagna  volentieri  alla  sorpresa  del  verso  felice  e 
della  rima  ricca,  la  fantasia  vagabonda  scopre  a  volte  il  vago  pae- 
saggio della  fiaba,  mentre  l'assurdo  intreccio  si  riscatta  nel  fram- 
mento e  nelle  gratuità  del  bel  canto.  Il  poeta  delle  luci  e  delle  om- 
bre ha  fatto  anche  del  teatro  uno  di  quei  suoi  amati  mostri  ai  qua- 
li carenze  ed  eccessi  impediscono  di  raggiungere  il  miracolo. 

Luci  ed  ombre  anche  in  quelli  che  sono  considerati  i  suoi  ca- 
polavori, in  Hemani  e  in  Ruy  Bios.  Si  disse  che  il  primo  potrebbe 
intitolarsi  <  la  Vengeance  de  Bartholo  »,  ma,  a  parte  il  fatto  che  la 
stessa  situazione  può  indifferentemente  dare  un  dramma  o  una 
farsa,  Ruy  Gomez  non  conosce  né  il  comico  di  don  Bartolo  ne  il 
grottesco  ante-litteram  di  Arnolphe.  In  realtà,  il  loquace  duca  erra 
fra  la  situazione  farsesca  del  vecchio  innamorato  e  la  melodramma- 
tica marionetta  del  vecchio  feroce,  restando  nel  farnetico  senile 
dei  suoi  giovanili  ardori  e  dei  sermoni  agli  eroici  ritratti,  dando 
prova  di  spagnolesca  grandezza  in  atti  egualmente  incredibili  di 
generosità  e  di  ferocia.  E  qualcosa  della  rigidità  e  dei  movimenti 
bruschi  della  marionetta  c'è  anche  nel  patetico  semplicismo  di  Dona 
Sol,  nelle  irruzioni  sulla  scena  del  bandito  dagli  occhi  fiammeg- 
gianti e  dell'augusto  Don  Giovanni  in  tragicomica  vena  di  avven- 
ture, negli  scontri  e  nei  salti  nel  vuoto  dei  cavalieri  erranti  e  dei 
congiurati  da  ballo  in  maschera. 

La  critica  è  stata  severa  con  quel  re  che  al  momento  di  dive- 
nire Carlo  V  si  nasconde  in  un  armadio  o  tiene  filosofiche  con- 
cioni nella  tomba  di  Carlomagno,  con  quei  nemici  che  si  cercano 
per  sterminarsi  e  si  risparmiano  quando  si  trovano  (e  ricominciano 
a  cercarsi  per  abbracciarsi  o  sterminarsi)  con  quell'Hernani  che  per 
amore  di  Dona  Sol  può  dimenticare  il  giuramento  di  vendicare  il 
padre,  ma  si  avvelena  con  la  donna  amata  per  non  venire  meno 
al  patto  del  corno,  con  il  falso  dei  caratteri,  con  le  incongruenze 
dell'azione.  Nel  fallito  dramma  si  suole  tuttavia  lodare  il  riuscito 
poema,  il  giovanile  ardore  e  il  soffio  corneliano,  i  melodiosi  duetti 
d'amore  e  il  trionfale  proclama  della  rivolta  romantica.  Ed  invero 
Hemani  resta,  e  va  letto,  come  il  caratteristico  documento  del  di- 
suguale gusto  di  un  grande  poet9  e  dei  contrasti  —  ed  eccessi  —  di 
un  pronunciamento  letterario. 


PRESENTAZIONE  13 

Fra  le  numerose  edizioni  delle  opere  complete  di  Victor  Hugo, 
cfr.  l'edizione  monumentale  dell'Imprimerie  Nationale,  che  va  dal 
1904  ai  nostri  giorni  e,  per  H emani,  l'edizione  critica  di  M.  Levaillant 
(1933). 

Del  teatro  di  Hugo  si  parla  più  o  meno  diffusamente  nella  vasta 
mole  di  opere  critiche  e  storiche  dedicate  al  poeta.  Ma  si  veda  in  par- 
ticolare P.  et  V.  Glachant,  Essai  critiquc  sur  le  théàtre  de  VJì.  (1902- 
1903);  H.  Lyonnet,  Les  premières  de  Victor  Hugo,  1930;  G.  Lote,  En 
préface  à  Hernani,  1930. 

Cfr.  pure  Nebout,  Le  drame  romantique,  1897;  A.  Le  Breton,  Le 
théàtre  ramanti que,  1923;  Ch.  Janin,  Drames  et  comédies  romantiques, 
1928;  R.  de  Smet,  Le  théàtre  romantique,  1929. 


Hernanì  o  L'onore  eastìglìano 


PERSONAGGI 


HERNANI 

DON  CARLOS 

DON  RUY  GOMEZ  DE  SILVA 

DONA  SOL  DE  SILVA 

IL  DUCA  DI  BAVIERA 

IL  DUCA  DI  GOTHA 

IL  DUCA  DI  LUTZELBURG 

DON  SANCHO 

DON   KfATIAS 

DON  RICARDO 

DON  GARCI    SUAREZ 

DON  FRANCISCO 

DON   JUAN   DE   HARO 

DON  GIL  TELLEZ  GIRON 

PRIMO  CONGIURATO 

UN  MONTANARO 

lAQUEZ 

DONA  JOSEFA  DUARTE 

UNA  DAMA 


Congiurati  della  Lega  sacrosanta.  Tedeschi  e  Spagnoli,  montanari,  si- 
gnori, soldati,  paggi,  popolo,  eccetera. 

Spagna,   1519. 


HERNANI 


ATTO    PRIMO 

IL    RE 

Saragozza. 
Una  camera  da  letto,  È  notte.  Una  lucerna  su  un  tavolo. 


SCENA  PRIMA 

DONA  josEFA  DUARTE,  vccchiu,  vcstitu  di  ncTO,  COTI  la  gofifia  trapunta 
di  giavazzi,  secondo  la  moda  d'Isabella  la  Cattolica;  don  Carlos 

DONA  JOSEFA  (sóla,  chiude  le  tende  cremisi  della  finestra  e  mette  in 
ordine  qualche  poltrona.  Bussano  ad  una  porticina  nascosta  sulla 
destra.  Ascolta.  Bussano  una  seconda  volta)  -  Sarà  già  lui?  {un 
nuovo  colpo)  È  proprio  alla  scala  segreta,  {un  quarto  colpo)  Presto, 
apriamo,  {apre  la  porticina  nascosta.  Entra  Don  Carlos  con  la  fac- 
cia nascosta  dal  mantello  e  il  cappello  calato  sugli  occhi)  Buon- 
giorno, bel  cavaliere,  {lo  fa  avanzare.  Egli  apre  il  mantello  e  lascia 
vedere  un  ricco  abito  di  velluto  e  seta,  secondo  la  moda  castigliana 
del  1519.  Lei  lo  guarda  da  vicino  e  indietreggia  stupita)  Come, 
Hernani,  signore,  non  siete  voi!  Aiuto!  Al  fuoco! 

DON  CARLOS  {afferrandola  per  un  braccio)  -  Vecchia,  ancora  due  parole, 
e  siete  morta!  {la  guarda  fissa.  Lei  tace,  spaventata)  Sono  in  casa 
di  Dona  Sol,  fidanzata  al  duca  di  Pastrana,  suo  zio,  un  nobile  vec- 
chio, cadente,  venerando  e  geloso?  Dite.  La  bella  adora  un  cava- 
liere ancora  imberbe  e,  ridendosi  degli  invidiosi,  in  barba  al  vec- 
chio, accoglie  ogni  sera  il  giovane  amante.  Son  bene  informato? 
{lei  tace.  Lui  le  scuote  il  braccio)  Riuscirete  a  rbpondere? 

DONA  JOSEFA  -  M'avete  proibito  di  dire  due  parole,  signore. 


2.  •  Ttatro  francef 


18  VICTOR  HUGO 

DON  CARLOS  -  Infatti  una  sola  ne  voglio:  si,  no.  La  tua  signora  è  Dona 

Sol  de  Silva?  Parla. 
Dof5A  josEFA  -  Si.  Perché? 
DON  CARLOS  -  Per  nulla.  Il  futuro  sposo,  il  duca,  il  vecchio,  è  assente 

a  quest'ora? 

DONA   JOSEFA   -   Si. 

DON  CARLOS  -  E  lei,  certo,  attende  l'amante? 

DONA  JOSEFA   -   Si. 

DON  CARLOS  -  Che  io  muoia! 

DONA  JOSEFA   -   Si. 

DON  CARLOS  -  Vecchia,  è  qui  che  avverrà  l'incontro? 

DONA  JOSEFA  -   Si. 

DON  CARLOS  -  Nascondimi  qua  dentro. 

DoSa  JOSEFA  -  Voi! 
DON  CARLOS  -  lo. 

DONA  JOSEFA  -  Perché? 

DON  CARLOS  -  Per  nulla. 

DONA  JOSEFA  -  Nascondervi,  io! 

DON  CARLOS  -  Qui. 

DONA  JOSEFA  -  Mai. 

DON  CARLOS  {tirando  fuori  dalla  sua  cintura  un  pugnale  ed  una  borsa)  - 
Degnatevi,  signora,  di  scegliere  o  questa  borsa  o  questa  lama. 

DONA  JOSEFA  (prendendo  la  borsa)  -  Siete  voi  il  diavolo? 

DON  CARLOS  -  Si,  vecchia. 

DONA  JOSEFA  {aprenda  uno  stretto  armadio  a  muro)  -  Entrate  qui. 

DON  CARLOS  {esaminando  l'armadio)  -  In  questa  scatola? 

DONA  JOSEFA  {richiudendolo)  -  Vattene,  se  non  ti  piace. 

DON  CARLOS  {riaprendo  l'armadio)  -  Ma  si!  {esaminandolo  ancora)  Non 
sarebbe  questa  per  caso  la  scuderia  in  cui  metti  il  manico  della 
granata  che  ti  serve  da  cavalcatura?  {vi  si  rannicchia  a  fatica)  Auf! 

DONA  JOSEFA  {giungendo  le  mani  e  tutta  scandalizzata)  -  Un  uomo  qui! 

DON  CARLOS  {nell'armadio  rimasto  aperto)  -  È  una  donna,  vero,  che  la 
tua  padrona  aspetta? 

DONA  JOSEFA  -  Oh  ciclo!  sento  i  passi  di  Dona  Sol.  Signore,  chiudete 
lo  sportello,  presto,  (spinge  lo  sportello  dell'armadio,  che  si  ri- 
chiude) 

DON  CARLOS  (dall'interno  dell'armadio)  -  Se  dite  una  parola,  vecchia, 
siete  morta. 

DONA  JOSEFA  (sola)  -  Chi  è  quest'uomo?  Gesù,  mio  Dio,  se  chiamassi? 
E  chi?  Fuorché  la  mia  padrona  ed  io,  tutto  dorme  nel  palazzo. 


HERNANI  19 

Bah!  L'altro  sta  per  arrivare.  La  cosa  riguarda  lui.  Ha  la  sua  buona 
spada  e  che  il  ciclo  ci  salvi  dall'inferno!  {soppesando  la  borsa)  Dopo 
tutto,  non  è  un  ladro. 

{entra  Dona  Sol,  vestita  di  bianco.  Dona  Josef  a  nasconde  la  borsa) 


SCENA  SECONDA 

DONA   JOSEFA,   DON   CARLOS    naSCOStO,   DONA   SOL,  pOÌ  HERNANI 

DONA  SOL  -  Josef  a! 

DONA  JOSEFA  -  Signora? 

DONA  SOL  -  Ah!  temo  qualche  disgrazia.  Hernani  avrebbe  dovuto  es- 
ser qui.  {rumori  di  passi  alla  porticina)  Eccolo  che  sale.  Apri  prima 
che  bussi,  e  fa'  presto,  sii  svelta. 

(Josefa  apre  la  porticina.  Entra  Hernani.  Avvolto  in  un  gran  mantello, 
porta  pure  un  largo  cappello.  Sotto,  un  vestito  da  montanaro  d'Arac 
gona,  grigia,  con  una  corazza  di  cuoio,  una  spada,  un  pugnale  e  un 
corno  alla  cintura) 

DONA  SOL  {correndo  verso  di  lui)  -  Hernani! 

HERNANI  -  Dona  Sol!  Ah!  vi  vedo,  finalmente!  Questa  voce  che  parla 
è  la  vostra  voce!  Perché  la  sorte  pose  la  mia  via  cosi  lontana  dalla 
vostra?  Ho  tanto  bisogno  di  voi  per  dimenticare  gli  altri! 

DONA  SOL  {toccandogli  il  mantello)  -  Gesù!  il  vostro  mantello  gronda 
acqua!  Piove  dunque  tanto? 

HERNANI  -  Non  so. 

DONA  SOL  -  Dovete  aver  freddo! 

HERNANI  -  Non  e  nulla. 

doSa  SOL  -  Suvvia,  toglietevi  il  mantello. 

HERNANI  -  Dona  Sol,  amica  mia,  ditemi:  quando  —  la  notte  —  siete 
addormentata,  calma,  innocente  e  pura;  quando  un  sonno  gioioso 
schiude  la  vostra  bocca  e  con  la  punta  delle  dita  chiude  i  vostri 
occhi,  v'è  forse  un  angelo  a  dirvi  quanto  siete  cara  all'infelice  che 
da  tutto  è  abbandonato,  da  tutto  è  respinto? 

DONA  SOL  -  Avete  tardato  tanto,  mio  signore!  Ma,  ditemi,  avete  freddo? 

HERNANI  -  Io!  io  brucio  accanto  a  te!  Ah!  quando  l'amore  geloso  arde 
nelle  nostre  teste,  quando  il  nostro  cuore  si  gonfia  e  si  riempie  di 
tempesta,  che  c'importa  dei  lampi  e  delle  folgori  che  possono  ca- 
dere da  una  nube  passeggera? 


20  VICTOR   HUGO 

DONA  SOL  {togliendogli  il  mantello)  -  Suvvia,  datemi  la  vostra  cappa 
e  la  spada. 

HERNANi  -  No.  È  l'altra  mia  amica,  innocente  e  fedele.  Dona  Sol,  il 
vecchio  duca,  il  vostro  futuro  sposo,  vostro  zio,  è  dunque  assente? 

DofiA  SOL  -  Si,  quest'ora  è  nostra. 

HERNANi  -  Quest'ora!  ed  è  tutto.  Per  noi  non  c'è  altro  che  un'ora.  Dopo, 
che  importa?  Bisogna  dimenticare  o  morire.  Angelo!  un'ora  con 
voi!  Un'ora  a  chi,  invece,  vorrebbe  la  vita  intera,  e  poi  l'eternità! 

DONA  SOL  -  Hernani! 

HERNANi  (amaramente)  -  Quanto  son  felice  che  il  duca  sia  uscito!  Io 
entro,  là,  rapidamente,  come  un  malfattore  che  trema  e  che  forza 
una  porta,  e  vi  vedo,  e  carpisco  al  vecchio  un'ora  dei  vostri  canti 
e  del  vostro  sguardo;  ed  io  sono  ben  fortunato,  e  certo  mi  s'invidia 
di  rubargli  un'ora;  e  lui,  lui  mi  prende  la  vita! 

DONA  SOL  -  Calmatevi,  {consegnando  il  mantello  alla  governante)  Jose- 
fa,  fa'  asciugare  il  mantello.  (Josef a  esce,  Lei  si  siede  e  fa  cenno  a 
Hernani  di  venirle  vicino)  Venite  qui. 

HERNANI  (senza  sentirla)  -  Dunque  il  duca  è  assente  dal  castello? 

DONA  SOL  (sorridendo)  -  Come  siete  alto! 

HERNANI  -  Lui  è  assente. 

DONA  SOL  -  Anima  cara,  non  pensiamo  più  al  duca. 

HERNANI  -  Ah!  pensiamoci,  signora!  Quel  vecchio  vi  ama,  sta  per  spo- 
sarvi! L'altro '  giorno  non  vi  ha  forse  dato  un  bacio?  Non  pen- 
sarci più! 

DONA  SOL  (ridendo)  -  È  questo  che  vi  fa  disperare!  Un  bacio  di  zio! 
sulla  fronte!  quasi  un  bacio  di  padre! 

HERNANI  -  No,  un  bacio  d'amante,  di  marito,  di  geloso.  Ah!  sarete 
sua,  signora!  Ci  pensate?  Oh,  vecchio  insensato,  che  già  ha  la  testa 
curva  ed  ha  bisogno  d'una  moglie  per  terminare  la  strada  e  finir 
la  giornata;  e  va,  gelido  spettro,  a  prendere  una  giovinetta!  Oh 
vecchio  insensato!  Mentre  con  una  mano  s'attacca  alla  vostra,  non 
vede  dunque  la  morte  che  lo  sposa  dall'altra?  contro  il  nostro  amo- 
re, lui  viene  a  gettarsi  senza  paura.  O  vecchio!  porta  le  tue  misure 
al  becchino!  Chi  vuole  questo  matrimonio?  Vi  si  obbliga,  spero! 

DONA  SOL  -  Si  dice  che  lo  voglia  il  re. 

HERNANI  -  Il  re!  il  re!  Mio  padre,  condannato  dal  suo,  è  morto  sul  pa- 
tibolo; ed  oggi,  benché  da  allora  tanto  tempo  sia  passato,  il  mio 
odio  per  l'ombra  del  re  defunto,  per  il  figlio,  per  la  vedova,  per 
tutti  i  suoi,  è  intatto!  immutato!  Lui,  il  morto,  non  conta  più!  Ma, 
bimbo  ancora,  io  feci  il  giuramento  di  vendicar  mio  padre  su  suo 
figlio.  Ti  ho  cercato  ovunque,  Carlos,  re  di  Castiglia!  giacché  l'odio 


HERNANI  21 

è  ben  vivo  fra  le  nostre  famiglie.  I  nostri  padri  han  combattuto 
senza  pietà,  senza  rimorsi.  Trent'anni!  Ed  è  invano  che  i  padri 
son  morti!  Il  loro  odio  vive.  Pace  per  loro  non  c*è,  perchè  i  figli 
son  vivi  e  il  duello  continua.  Ah!  sei  proprio  tu,  dunque,  che  vuoi 
queste  nozze  esecrabili!  Meglio  cosi.  Ti  cercavo,  e  tu  mi  vieni  in- 
contro! 

DofJA  SOL  -  Voi  mi  spaventate. 

HERNANI  -  Portatore  d'un  anatema,  bisogna  che  giunga  a  spaventarne 
me  stesso.  Ascoltate.  L'uomo  a  cui,  ben  giovane,  vi  han  destinata, 
Ruy  de  Silva,  vostro  zio,  è  duca  di  Pastrafia,  gentiluomo  d'Arago- 
na, conte  e  grande  di  Castiglia.  In  mancanza  di  giovinezza,  lui 
può  dare  a  voi  si  giovane,  tanto  oro,  gioielli,  gemme,  da  far  ri- 
splendere la  vostra  fronte  tra  fronti  regali;  e  per  il  rango,  l'orgo- 
glio, la  gloria  e  la  ricchezza,  molte  regine  invidieranno  forse  la  sua 
duchessa.  Ecco  chi  è  lui.  Io  invece  son  povero;  e  non  ebbi,  fin  da 
bambino,  che  i  boschi  in  cui  fuggire  a  piedi  nudi.  Avrò  forse  an- 
ch'io qualche  blasone  illustre  che  una  ruggine  di  sangue  ha  a 
quest'ora  coperto.  Forse  ho  anch'io  dei  diritti,  sepolti  nell'ombra, 
nascosti  tuttora  fra  le  pieghe  del  drappo  nero  d'un  catafalco,  e 
che  potranno,  se  la  mia  attesa  non  sarà  vana,  uscir  con  la  spada 
da  questa  guaina.  Intanto,  però,  non  ho  ricevuto  dal  cielo  geloso 
che  l'aria,  la  luce  e  l'acqua,  la  dote  concessa  a  tutti.  Ora,  o  dal 
duca  o  da  me,  bisogna  liberarvi.  Scegliete  fra  i  due:  o  sposarlo, 
o  seguirmi. 

Dof^A  SOL  -  Vi  seguirò. 

HERNANI  -  In  mezzo  ai  miei  fieri  compagni?  Dei  proscritti  di  cui  il 
boia  conosce  già  i  nomi;  gente  di  cui  mai  il  ferro  —  né  il  cuore  — 
si  smussa,  spinti  tutti  da  un  sangue  che  grida  vendetta?  Verreste  a 
comandar  la  mia  banda?  Perché,  voi  non  lo  sapete,  ma  io,  io  sono 
un  bandito!  Quando  tutto  mi  perseguitava  in  ogni  angolo  di  Spa- 
gna, solo  la  vecchia  Catalogna,  nelle  sue  foreste,  fra  le  sue  alte 
montagne,  sui  suoi  picchi  in  cui  solo  l'aquila  può  scorgerci,  mi  ha 
accolto  come  una  madre.  Fra  i  suoi  montanari,  liberi,  poveri,  e 
fieri,  io  crebbi;  e,  se  domani  la  mia  voce  farà  risuonar  questo  corno 
fra  le  loro  montagne,  subito  verranno  tremila  dei  suoi  bravi...  Voi 
rabbrividite.  Riflettete  ancora.  Seguirmi  nei  boschi,  fra  i  monti, 
sulle  spiagge,  in  mezzo  a  uomini  simili  ai  demoni  dei  vostri  so- 
gni; sospettare  di  tutto,  occhi,  voci,  passi,  rumori;  dormire  sull'er- 
ba, bere  l'acqua  del  torrente,  e  la  notte,  allattando  un  bimbo  che  si 
sveglia,  sentire  le  palle  dei  moschetti  fischiarvi  vicino;  essere  er- 


22  VICTOR  HUGO 

rante  con  me,  proscritta,  e,  se  è  necessario,  seguirmi  là  dove  io 
seguirò  mio  padre:   sul  patibolo. 

DONA  SOL  -  Vi  seguirò. 

HERNANi  -  Il  duca  è  ricco,  grande,  prospero.  Il  duca  non  ha  macchia 
sul  vecchio  nome  di  suo  padre.  Il  duca  può  tutto.  Il  duca  vi  offre, 
insieme  alla  sua  mano,  tesori,  titoli,  felicità... 

DONA  SOL  -  Partiremo  domani.  Hernani,  non  biasimatemi  per  la  mia 
inconcepibile  audacia.  Siete  il  mio  demonio  o  il  mio  angelo,  voi? 
Non  lo  so;  ma  sono  vostra  schiava.  Ascoltate.  Andate  dove  vor- 
rete: vi  seguirò.  Restate,  partite;  son  vostra.  Perché  faccio  cosi? 
Non  lo  so.  Ho  bisogno  di  vedervi  e  di  vedervi  ancora,  e  di  ve- 
dervi sempre.  Quando  cessa  il  rumore  dei  vostri  passi,  credo  allora 
che  il  mio  cuore  non  batta  più:  se  voi  mi  mancate,  è  come  se  non 
esistessi;  ma  non  appena  sento  quel  passo  che  aspetto  e  che  amo, 
allora  mi  ricordo  che  son  viva,  e  sento  rifluire  in  me  la  vita. 

HERNANI  {stringendola  fra  le  braccia)  -  Angelo! 

DONA  SOL  -  A  mezzanotte.  Domani.  Portate  la  vostra  scorta.  Sotto  la 
mia  finestra.  Non  temete,  sarò  coraggiosa  e  forte.  Batterete  tre 
colpi. 

HERNANI  -  Sapete  voi  chi  sono,  adesso? 

DONA  SOL  -  Mio  signore,  che  importa?  Vi  seguo. 

HERNANI  -  No,  giacché  volete  seguirmi,  debole  donna,  dovete  sapere 
qual  nome,  qual  rango,  quale  anima,  quale  destino  è  nascosto  sot- 
to il  pastore  Hernani.  Mi  accettavate  brigante,  mi  volete  proscritto? 

DON  CARLOS  {aprendo  con  fracasso  le  porte  dell'armadio)  -  Quando  fini- 
rete di  raccontare  la  vostra  storia?  Credete  proprio  che  si  stia  bene 
in  quest'armadio? 

{Hernani  indietreggia,  stupito.  Dona  Sol  getta  un  grido  e  si  rifugia 
fra  le  sue  braccia,  fissando  su  Don  Carlos  due  occhi  spaventati) 

HERNANI  {con  la  mano  sull'impugnatura  della  spada)  -  Chi  è  que- 
st'uomo? 

DONA  SOL  -  Cielo!  Aiuto! 

HERNANI  -  Tacete,  Dona  Sol!  Cosi,  non  farete  che  svegliare  degli  occhi 
gelosi.  Quando  sono  vicino  a  voi,  qualunque  cosa  accada,  vi  prego 
di  non  chiamare  mai  nessun  altro  in  vostro  aiuto,  {a  Don  Carlos) 
Che  facevate  là  dentro? 

DON  CARLOS  -  lo?  Ma,  a  quanto  pare,  non  cavalcavo  attraverso  la  fo- 
resta. 

HERNANI  -  Chi  motteggia  dopo  l'affronto  s'espone  a  far  ridere  anche 
il  suo  erede. 


HERNANI  23 

DON  CARLOS  -  Una  volta  per  uno.  Messere,  parliamo  chiaro.  Voi  amate 
la  signora  e  i  suoi  occhi  neri,  e  venite  a  specchiarvici  ogni  sera; 
benissimo.  Anch'io  amo  la  signora,  e  voglio  conoscere  chi  tante 
volte  ho  visto  entrare  dalla  finestra,  mentr'io  restavo  alla  porta. 

HERNANI  -    Sul  mio  onore,  signore,  vi  farò  uscire  da  dove  entro. 

DON  CARLOS  -  Vedremo.  Io  offro  il  mio  amore  alla  signora.  Dividia- 
mocelo. Volete?  Ho  visto  nella  sua  bell'anima  tanto  amore,  tanta 
bontà,  tanti  teneri  sentimenti,  che  la  signora  ne  ha  certo  per  due 
amanti.  Stasera,  volendo  concludere  la  mia  impresa,  scambiato  — 
credo  —  per  voi,  entro  qui  di  sorpresa,  mi  nascondo,  ascolto:  ecco 
tutto,  senza  nascondervi  nulla.  Ma  sentivo  malissimo  e  soffocavo 
benissimo.  E  poi  sgualcivo  il  mio  abito  alla  francese.  In  fede  mia, 
io  esco. 

HERNANI  -  Neanche  la  mia  daga  sta  a  suo  agio,  e  vuole  uscire. 

DON  CARLOS  (solutandolo)  -  Signore,  sarà  come  vorrete. 

HERNANI  [sguainando  la  spada)  -  In  guardia. 

(Don  Carlos  sguaina  la  sua) 

DONA  SOL  (gettandosi  in  mezzo  a  loro)  -  Hernani!  Cielo! 

DON  CARLOS  -  Calmatevi,  signora. 

HERNANI  (a  Don  Carlos)  -  Ditemi  il  vostro  nome. 

DON  CARLOS  -  Eh!  ditemi  il  vostro. 

HERNANI  -  Segreto  e  fatale,  lo  conservo  per  un  altro,  che  un  giorno 

dovrà  sentire,  sotto  il  mio  ginocchio  vincitore,  il  mio  nome  al  suo 

orecchio  e  la  mia  daga  sul  suo  cuore! 
DON  CARLOS  -  E  allora,  qual  è  il  nome  dell'altro? 
HERNANI  -  Che  t'importa?  In  guardia,  difenditi. 

(incrociano  le  spade.  Dona  Sol  cade  tremante  su  una  poltrona.  Si  sen- 
tono dei  colpi  alla  porta) 

DONA  SOL  (alzandosi  spaventata)  -  Cielo!  bussano  alla  porta! 

(/  duellanti  si  fermano.  Dalla  porticina  entra  fosefa,  tutta  spaventata) 

HERNANI  (a  Josef  a)  -  Chi  bussa  cosi? 

DONA  josEFA  (a  Dom  Sol)  -  Signora,  un  arrivo  inatteso!  È  il  duca  che 
torna. 

DONA  SOL  (giungendo  le  mani)  -  Il  duca!  tutto  e  perduto!  Me  infelice! 

DONA  JOSEFA  (volgcndo  lo  sguordo  intorno)  -  Gesù!  lo  sconosciuto!  del- 
le spade!  Si  battevano.  Che  bella  impresa! 

(i  combattenti  ringuainano  le  spade.  Dom  Carlos  si  avvolge  nel  man- 
tello e  cala  il  cappello  sugli  occhi.  Bussano) 


24  VICTOR  HUGO 

HERNANi  -  Che  fare?  {bussano) 

UNA  VOCE  {dal  di  fuori)  -  Dona  Sol,  apritemi. 

(Dofia  Josefa  fa  un  passo  verso  la  porta.  Hernani  la  ferma) 

HERNANi  -  Non  aprite. 

DONA  JOSEFA  {tirondo  fuori  la  corona)  -  San  Giacomo,  signor  mio! 
tirateci  fuori  da  questo  guaio!  {si  sente  bussare  di  nuovo) 

HERNANI  {indicando  l'armadio  a  Don  Carlos)  -  Nascondiamoci. 

DON  CARLOS  -  Nell'armadio? 

HERNANI  {indicando  lo  sportello)  -  Entrateci.  Me  ne  occupo  io.  Ci  sta- 
remo tutti  e  due. 

DON  CARLOS  -  Mille  grazie,  è  troppo  largo. 

HERNANI  {indicando  la  porticina)  -  Fuggiamo  da  quella  parte. 

DON  CARLOS  -  Buonasera!  Per  me,  io  resto  qui. 

HERNANI  -  Ah!  diavolo!  me  la  pagherete!  {a  Dona  Sol)  Se  barricassi 
l'entrata? 

DON  CARLOS  {a  Josefo)  -  Aprite  la  porta. 

HERNANI  -  Che  dice? 

DON  CARLOS  {a  Joscfa,  interdetta)  -  Ma  aprite,  vi  dico! 

{continuano  a  bussare.  Dona  Josefa  va  ad  aprire  tremando) 
DONA  SOL  -  Sono  morta! 


SCENA   TERZA 

GLI  STESSI,  DON  RUY  GOMEZ  DE  SILVA,  con  borba  c  capclU  bianchi, 
vestito  di  nero,  valletti  con  fiaccole 

DON  RUY  GOMEZ  -  Degli  uomini  da  mia  nipote,  a  quest'ora  di  notte! 
Venite  tutti!  questo  fatto  merita  luce  e  rumore,  {a  Dona  Sol)  Per 
San  Giovanni  d'Avila,  io  credo  che,  sull'anima  mia,  siamo  in  tre 
nella  vostra  stanza.  Due  soh  di  troppo,  signora,  {ai  due  giovani) 
Miei  giovani  cavalieri,  che  fate  qua  dentro?  Quando  avevamo  il 
Cid  e  Bernardo,  questi  eroi  della  Spagna  e  del  mondo  percorre- 
vano la  Castiglia  onorando  i  vegliardi  e  proteggendo  le  donne. 
Erano  uomini  forti,  che  trovavano  il  loro  ferro  e  il  loro  acciaio 
men  grevi  di  quel  che  voi  troviate  il  vostro  velluto.  Erano  uomini 
che  portavano  rispetto  ai  capelli  grigi,  conducevano  a  inginocchiar- 
si in  chiesa  il  loro  amore,  non  tradivano  nessuno;  e  per  la  buona 


HERNAHI  25 

ragione  che  volevano  mantenere  l'onore  del  loro  casato.  Se  vole- 
vano una  donna,  la  prendevano  senza  macchia,  in  pieno  giorno, 
dinanzi  a  tutti,  con  in  mano  la  spada,  o  l'ascia,  o  la  lancia.  E 
quanto  a  quei  felloni  che,  di  sera,  con  lo  sguardo  rivolto  alle  loro 
calcagna,  affidando  alla  notte  i  loro  infami  intrighi,  dietro  le  spalle 
dei  mariti  ruban  l'onore  delle  mogli,  io  affermo  che  il  Cid,  questo 
antenato  di  noi  tutti,  li  avrebbe  ritenuti  dei  vili  e  li  avrebbe  obbli- 
gati a  inginocchiarsi;  e,  degradando  la  loro  nobiltà  usurpata,  avreb- 
be percosso  il  loro  blasone  col  piatto  della  sua  lama.  Ecco  quel  che 
avrebbero  fatto,  e  ci  penso  con  rimpianto,  gli  uomini  di  una  volta 
agli  uomini  d'oggi.  Che  siete  venuti  a  far  qui?  Significa  forse  che 
io  sono  un  vecchio  di  cui  i  giovani  ridono?  Si  riderà  di  me,  sol- 
dato di  21amora?  E,  quando  passerò,  si  riderà  della  mia  testa  bian- 
ca? Ma  non  sarete  voi  a  riderne. 

HERNANI  -  Duca. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Silenzio!  Come!  voi  avete  la  spada,  la  lancia  e  gli 
anelli  S  la  caccia,  i  festini,  i  cani,  i  falchi,  le  serenate  da  cantar  la 
sera  sotto  i  balconi,  le  piume  sul  cappello,  le  casacche  di  seta,  ì 
balli,  le  giostre,  la  giovinezza,  la  gioia,  o  ragazzi;  e  vi  fate  pren- 
der dalla  noia!  Ad  ogni  costo,  a  caso,  vi  occorre  un  gingillo  da 
rompere;  e  voi  prendete  un  vecchio.  Ah!  l'avete  frantumato,  il  gin- 
gillo! Ma  Dio  voglia  che  i  pezzi  possano  schizzarvi  in  faccia!  Se- 
guitemi. 

HERNANI  -  Signor  duca... 

DON  RUY  GOMEZ  -  Seguitemi,  seguitemi!  Signori,  sarebbe  uno  scherzo, 
questo?  Come!  C'è  un  tesoro  in  casa  mia.  È  l'onore  d'una  fanciul- 
la>  di  una  donna,  l'onore  di  tutta  una  famiglia.  Questa  fanciulla  io 
l'amo,  è  mia  nipote,  e  dovrà  presto  scambiare  il  suo  anello  con  me. 
La  credo  casta  e  pura,  e  sacra  per  qualsiasi  uomo.  Ebbene,  devo 
uscire  un'ora,  ed  io,  Ruy  Gomez  de  Silva,  non  posso  farlo  senza 
che  un  vile  seduttore  si  insinui  in  casa  mia.  Indietro!  lavatevi  le 
mani,  uomini  senz'anima,  che,  al  solo  toccarle,  macchiate  le  nostre 
donne.  Ma  no.  Va  bene.  Continuate.  Ho  altro  da  dirvi?  (si  strappa 
il  collare)  Tenete,  pestate,  pestate  il  mio  toson  d'oro!  {getta  a  terra 
il  cappello)  Strappatemi  i  capelli,  fatene  una  cosa  spregevole!  E 
domani  potrete  vantarvi  in  città  che  nessun  libertino,  nei  suoi 
scherzi  insolenti,  ha  mai  sporcato  capelli  più  bianchi  su  più  nobile 
fronte. 

DONA  SOL  -  Mio  Signore... 


^  II  gioco  degli  anelli  consisteva  nel  portar  via,  lanciandosi  al  galoppo  e  infi- 
landoli con  la  spada  o  con  la  lancia,  degli  anelli  appesi  a  un  sostegno.  (N.  del  T.)- 


26  VICTOR   HUGO 

DON  RUY  GOMEZ  {ai  suot  Valletti)  -  Scudieri!  scudieri!  accorrete!  La  mia 
ascia,  il  mio  pugnale,  la  mia  daga  di  Toledo,  (ai  due  giovani)  E 
voi  due,  seguitemi! 

DON  CARLOS  {avanzando  d'un  passo)  -  Duca,  prima  di  tutto  non  e  di 
questo  che  si  tratta.  Si  tratta  della  morte  di  Massimiliano,  impera- 
tore di  Germania,  (getta  via  il  mantello,  e  si  scopre  il  viso  nascosto 
dal  cappello) 

DON  RUY  GOMEZ  -  Vi  burlate  di  me?...  Dio!  il  re! 

DONA  SOL  -  Il  re! 

HERNANi  {con  gli  occhi  chc  gli  brillano)  -  Il  re  di  Spagna! 

DON  CARLOS  {con  gravità)  -  Si,  Carlos.  Signor  duca,  sei  proprio  insen- 
sato? Il  mio  avo  imperatore  è  morto.  L*ho  saputo  solo  questa  sera. 
Vengo,  in  tutta  fretta,  e  in  persona,  a  darne  notizia  a  te,  suddito 
fedele  che  io  amo;  vengo  per  chiederti  consiglio,  in  incognito,  di 
notte.  La  cosa  è  molto  semplice  e  guarda  quanto  fracasso! 

{Don  Ruy  Gomez  fa  cenno  al  suo  seguito  di  ritirarsi.  Si  avvicina  a  Don 
Carlos,  che  Dona  Sol  sta  esaminando  con  timore  misto  a  sorpresa 
e  sul  quale  Hernani,  rimasto  in  un  angolo,  fissa  due  occhi  sfavil- 
lanti) 

DON  RUY  GOMEZ  -  Ma  perchc  aspettar  tanto  ad  aprirmi  la  porta? 

DON  CARLOS  -  Bella  ragione!  Vieni  con  tutta  una  scorta!  Quando  un 
segreto  di  Stato  mi  conduce  nel  tuo  palazzo,  duca,  lo  faccio  forse 
per  andarlo  a  dire  a  tutti  i  tuoi  valletti? 

DON  RUY  GOMEZ  -  Altezza,  perdonate!  l'apparenza... 

DON  CARLOS  -  Mio  caro  vecchio,  ti  ho  fatto  governatore  del  castello  di 
Figueras,  ma  chi  devo  nominare  ora  tuo  governatore? 

DON  RUY  GOMEZ  -  Perdonate... 

DON  CARLOS  -  Basta.  Non  parliamone  più,  signore.  L'imperatore,  dun- 
que, è  morto. 

DON  RUY  GOMEZ  -  L'avo  di  Vostra  Altezza  è  morto? 

DON  CARLOS  -  Duca,  tu  Vedi  quanto  ne  sia  afflitto. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Chi  gli  succederà? 

DON  CARLOS  -  Un  duca  di  Sassonia  è  in  lizza.  Francesco  I,  re  di  Fran- 
cia, è  uno  dei  concorrenti. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Dovc  si  riuniranno  gli  elettori  dell'impero? 

DON  CARLOS  -  Hanno  scelto,  credo,  Aquisgrana,  o  Spira,  o  Francoforte. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Il  nostro  re,  che  Dio  ci  conservi,  non  ha  mai  pensato 
all'impero? 

DON  CARLOS  -  Sempre. 

DON  RUY  GOMEZ  -  E  a  voi  che  spetta. 


HERNANI  27 

DON   CAKLOS  -  Lo   SO. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Vostfo  padfc  fu  aiciduca  d'Austria  e  l'impero,  mi 
auguro,  terrà  presente  che  era  vostro  avo  colui  che  è  passato  dalla 
porpora  al  drappo  mortuario. 

DON  CARLOS  -  E,  inoltre,  sono  cittadino  di  Gand. 

DON  RUY  GOMEZ  -  In  giovcntu,  io  lo  vidi,  il  vostro  avo.  Ahimé!  Unico 
sopravvivo  di  un  secolo  intero.  Tutto  è  morto  ora.  Era  un  impe- 
ratore magnifico  e  possente. 

DON  CARLOS  -  Roma  mi  è  favorevole. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Valoroso,  deciso,  per  niente  tirannico.  Una  testa  che 
stava  bene  sul  vecchio  corpo  germanico,  {si  china  stille  mani  del 
re  e  le  bacia)  Quanta  pena  mi  fate!  Cosi  giovane,  colpito  da  un 
tale  lutto! 

DON  CARLOS  -  Il  papa  vuol  riprendersi  la  Sicilia,  che  è  mia.  Un  impe- 
ratore non  può  posseder  la  Sicilia,  e  lui  mi  fa  imperatore.  Allora, 
da  figlio  docile,  io  gli  rendo  Napoli.  Prendiamo  l'aquila,  e  poi  ve- 
dremo se  lascerò  che  le  si  rosicchino  le  ali! 

DON  RUY  GOMEZ  -  Cou  quanta  gioia,  questo  veterano  del  trono  vedreb- 
be la  vostra  fronte  già  larga  ottenere  tale  corona!  Ah!  signore,  in- 
sieme a  voi  rimpiangeremo  molto  questo  grandissimo  e  buono  e 
cristiano  imperatore! 

DON  CARLOS  -  Il  Santo  Padre  è  abile.  Cos'è  la  Sicilia?  Un'isola  appesa 
al  mio  regno,  un'appendice,  un  rottame,  un  brandello  tutto  a  pezzi, 
appena  attaccato  alla  Spagna  e  che  le  si  trascina  a  fianco.  —  «  Che 
farete,  figlio  mio,  di  quest'isola  tutta  gobbe,  cucita  solo  con  un  filo 
al  mondo  imperiale.  Il  vostro  impero  è  fatto  male:  presto,  venite 
qui,  prendiamo  le  forbici  e  tagliamo!»  —  «Santissimo  padre,  vi 
ringrazio!  Giacché,  se  ho  fortuna,  conto  di  ricucire  parecchi  pezzi 
di  codesto  genere  al  sacro  impero;  e,  se  me  ne  dovesse  essere  strap- 
pato qualche  frammento,  conto  di  rattoppare  i  miei  Stati  con  isole 
e  ducati! 

DON  RUY  GOMEZ  -  Consolatevi!  esiste  un  impero  dei  giusti,  in  cui  ritro- 
veremo i  morti  più  santi,  più  augusti. 

DON  CARLOS  -  Questo  re  Francesco  primo  è  un  ambizioso!  Il  vecchio 
imperatore  muore,  e  lui  eccolo  subito  a  far  l'occhiolino  all'impero! 
Non  ha  lui  la  sua  cristianissima  Francia?  Eppure  la  sua  parte  è 
bella,  e  vai  la  pena  di  tenerla!  Il  mio  avo  imperatore  diceva  al  re 
Luigi:  «  Se  fossi  Dio  Padre,  ed  avessi  due  figli,  il  primo  lo  farei 
Dio,  ed  il  secondo  re  di  Francia»,  (al  duca)  Credi  che  Francesco 
possa  aver  qualche  speranza? 

DON  RUY  GOMEZ  -  È  un  re  vittorioso. 


28  VICTOR   HUGO 

DON  CARLOS  -  Bisogncrcbbc  cambiar  tutto.  La  bolla  d'oro  impedisce  di 

eleggere  uno  straniero. 
DON  RUY  GOMEZ  -  In  tal  caso,  signore,  non  siete  voi  re  di  Spagna? 
DON  CARLOS  -  Sono  cittadino  di  Gand  ^. 
DON  RUY  GOMEZ  -  L'ultima  campagna  di  guerra  ha  fatto  salire  molto 

in  alto  il  re  Francesco  I  ^. 
DON  CARLOS  -  Auche  l'aquila  che  forse  sta  per  uscire  dal  mio  cimiero 

può  spiegar  le  sue  ali. 
DON  RUY  GOMEZ  -  Vostra  Altezza  conosce  il  latino? 
DON  CARLOS  -  Male. 
DON  RUY  GOMEZ  -  È  un  peccato.  Alla  nobiltà  tedesca  piace  molto  che  le 

si  parli  in  latino. 
DON  CARLOS  -  SÌ  Contenteranno  di  uno  spagnolo  altero;  poiché  poco 

importa,  credete  al  re  Carlo,  quale  lingua  parli  una  voce  che  parla 

forte.  Vado  in  Fiandra.  Bisogna  che  il  tuo  re,  caro  Silva,  ritorni 

imperatore.  Il  re  di  Francia  sta  per  metter  tutto  sottosopra.  Voglio 

vincerlo  in  velocità.  Partirò  fra  poco. 
DON  RUY  GOMEZ  -  Altezza,  ci  lasciate  senza  liberare  l'Aragona  da  quei 

nuovi  banditi  che  fra  i  nostri  monti  alzano  ovunque  la  loro  fronte 

ardita? 
DON  CARLOS  -  Ordino  al  duca  d'Arcos  di  sterminare  la  banda. 
DON  RUY  GOMEZ  -  E  date  anche  ordine  al  loro  capo  di  lasciarsi  ster- 
minare? 
DON  CARLOS  -  Eh!  chi  è  questo  capo?  qual  è  il  suo  nome? 
DON  RUY  GOMEZ  -  Lo  ignoro.  Si  dice  che  sia  un  uomo  ardito. 
DON  CARLOS  -  Bah!  so  che  per  il  momento  si  nasconde  in  Galizia,  e  ne 

avrò  ragione  con  pochi  soldati. 
DON  RUY  GOMEZ  -  Voci  falsc,  allora,  lo  dicevano  qui  vicino. 
DON  CARLOS  -  Falsc  voci!  Stanotte,  mi  darai  da  dormire. 
DON  RUY  GOMEZ  {chinandosi  fino  a  terra)  -  Grazie,  Altezza!   {chiama 

i  valletti)  Rendete  ogni  onore  al  re  mio  ospite. 

(/  valletti  ritornano  con  le  fiaccole.  Il  duca  li  schiera  su  due  file  sino 
alla  porta  in  fondo.  Nel  frattempo  Dona  Sol  s'avvicina  lentamente 
ad  Hernani,  Il  re  li  spia) 

DONA  SOL  {sottovoce  a  Hernani)  -  Domani,  sotto  la  mia  finestra,  a  mez- 
zanotte, senza  fallo.  Batterete  le  mani  tre  volte. 
HERNANI  {sottovoce)  -  A  domani. 


*  Come  tale,  quindi,  non  è  straniero,  ma  fa  parte  dell'impero  germanico.  (N. 
del  T.). 

'  Allusione  alla  vittoria  francese  di  Marignano,  1515.  (N.  del  T.). 


HERNANI  29 

DON  CARLOS  {a  portc)  -  Domani!  {ad  alta  noce  a  Dofia  Sol,  verso  cut 
avanza  galantemente)  Permettete  che  vi  offra  il  braccio  per  accom- 
pagnarvi, {la  conduce  alla  porta.  Lei  esce) 

HERNANI  {con  la  mano  in  seno,  sull'impugnatura  della  daga)  -  Mio 
buon  pugnale! 

DON  CARLOS  {ritomando,  a  parte)  -  Costui  ha  la  faccia  dell'uomo  preso 
in  trappola,  {prende  da  parte  Hernant)  Vi  ho  fatto  l'onore  d'incro- 
ciare la  spada  con  voi,  signore.  Dovreste  essermi  sospetto  per  mille 
ragioni.  Ma  il  re  Carlo  rifugge  dai  tradimenti.  Andatevene.  Voglio 
proteggere  anche  la  vostra  fuga. 

DON  RUY  GOMEZ  {ritornando  e  indicando  Hernant)  -  Chi  è  questo  si- 
gnore? 

DON  CARLOS  -  Parte.  È  uno  del  mio  seguito. 

(escono  con  i  valletti  e  le  fiaccole;  il  duca  precede  il  re  con  un  cero 
in  mano) 


SCENA   QUARTA 

HERNANI,   solo 

Si,  o  re,  sono  del  tuo  seguito!  del  tuo  seguito!  Infatti,  notte 
e  giorno,  passo  per  passo,  io  ti  seguo.  Cammino  con  un  pugnale 
in  mano  e  l'occhio  fìsso  sulla  tua  traccia.  La  mia  stirpe  in  me  per- 
seguita in  te  la  tua!  E  in  più,  eccoti  anche  mio  rivale!  Per  un  mo- 
mento, sono  rimasto  incerto  fra  l'amore  e  l'odio;  il  mio  cuore  non 
era  abbastanza  largo  per  lei  e  per  te;  amandola,  dimenticavo  il  mio 
odio  per  te,  di  cui  son  carico;  ma,  poiché  lo  vuoi,  poiché  sei  tu  che 
vieni  a  ravvivare  i  ricordi,  va  bene,  mi  ricordo!  Il  mio  amore  fa 
pendere  l'incerta  bilancia  e  la  fa  cader  tutta  dalla  parte  del  mio 
odio.  Si,  sono  del  tuo  seguito,  e  sei  tu  che  l'hai  detto!  Va';  mai 
cortigiano  che  assista  al  tuo  maledetto  risveglio,  mai  signore  che 
baci  la  tua  ombra  o  maggiordomo  che  abbia  ripudiato  il  suo  cuore 
d'uomo  a  forza  di  servirti,  mai  cane  di  palazzo  ammaestrato  a  se- 
guire un  re,  mai,  nessuno  sarà  sui  tuoi  passi  più  assiduamente  di 
me!  Ciò  che  vogliono  da  te,  tutti  questi  grandi  di  Castiglia,  è 
qualche  titolo  vacuo,  qualche  gingillo  che  brilli,  qualche  montone 
<l'oro  da  appendere  al  collo;  io  non  son  cosi  pazzo  da  voler  tanto 
poco!  Quel  che  voglio  da  te  non  son  dei  futili  favori;  ma  è  l'anima 
<lcl  tuo  corpo  che  voglio,  il  sangue  delle  tue  vene;  è  tutto  ciò  che 


30  VICTOR   HUGO 

un  pugnale  furibondo  e  vittorioso,  può  prendere  in  fondo  ad  un 
cuore,  frugandovi  a  lungo.  Va'  pure!  ti  seguo.  La  mia  vendetta 
sempre  all'erta  cammina  con  me  e  mi  parla  all'orecchio.  Va'!  io 
son  là,  ti  spio,  ti  ascolto,  e  silenzioso  il  mio  passo  cerca  il  tuo  passo, 
e  lo  incalza  e  Io  segue.  Di  giorno,  tu  non  potrai  volger  la  testa, 
o  re,  senza  vedermi  immobile  e  cupo  alla  tua  festa;  di  notte,  o 
re,  non  potrai  volger  lo  sguardo  senza  vedere  i  miei  occhi  ardenti 
brillare  dietro  di  te!  {esce  dalla  porticina) 


ATTO    SECONDO 

IL    BANDITO 

Saragozza. 
Un  patio  del  palazzo  de  Silva.  A  sinistra,  i  grandi  muri  del  palazzo  ed  una 
finestra  con  balcone.  Sotto  la  finestra,  una  porticina.  A  destra  e  in  fondo,  case  e 
strade.  È  notte.  Qua  e  là,  sulle  facciate  degli  edifici,  si  vedono  brillare  delle 
finestre  ancora  illuminate. 


SCENA   PRIMA 

DON  CARLOS;  DON   SANCHO   SANCHEZ   DE  ZUNIGA,  COfitC  di  MofltCrey;  DON 

MATLAS  CENTURION,  morckese  d'Almunan;  don  ricardo  de  roxas,  si- 
gnore di  Casapalma.  Con  Don  Carlos  per  primo,  tutti  e  quattro  giun- 
gono con  i  cappelli  calati  sugli  occhi;  sono  avvolti  in  lunghi  mantelli, 
la  cui  parte  inferiore  è  sollevata  dalle  spade. 

don  CARLOS  (esaminando  il  balcone)  -  È  questo  il  balcone,  la  porta... 
Il  mio  sangue  bolle,  (indicando  la  finestra  ancora  buia)  Nessuna 
luce,  per  ora.  (percorre  con  lo  sguardo  le  altre  finestre  illuminate) 
Luci  ovunque,  dove  non  ne  vorrei;  ma  nessuna,  invece,  a  questa 
finestra. 

DON  SANCHO  -  Signore,  riparliamo  di  questo  traditore.  E  voi  l'avete  la- 
sciato partire! 

DON  CARLOS  -  PrOprio  COSI. 

DON  MATiAS  -  E  forse  era  il  capo  dei  banditi! 

DON  CARLOS  -  Che  ne  sia  il  capo  oppure  il  capitano,  è  certo  che  nessun 

re  coronato  ebbe  mai  un  aspetto  più  altero. 
DON  SANCHO  -  E  il  SUO  nome,  signore? 


HERNANI  31 

DON  CARLOS  {con  gli  occhi  fissi  dia  finestra)  -  Munoz...  Fernan...  {col 

gesto  di  chi  ricorda  di' improvviso)  Un  nome  in  i. 
DON  SANCHo  -  Hcmani,  forse? 

DON  CARLOS  -  Si. 
DON   SANCHO  -   È  lui! 

DON  MATiAs  -  Era  Hernani?  È  il  capo! 

DON  SANCHO  {d  re)  '  Vi  ricordate  le  sue  parole? 

DON  CARLOS  {chc  Tion  perde  di  vista  la  finestra)  -  Eh!  non  capivo  nulla 
in  quel  maledetto  armadio! 

DON  SANCHO  -  Ma  pcrchc  lasciarlo,  dal  momento  che  lo  tenevate?  {Don 
Carlos  si  volge  gravemente  e  lo  guarda  in  faccia) 

DON  CARLOS  -  Conte  di  Monterey,  voi  m'interrogate.  {/  due  signori  si 
ritraggono  e  tacciono)  D'altronde,  non  è  affatto  questa  la  mia 
preoccupazione.  M'interessa  la  sua  amante,  non  la  sua  testa.  Ne 
sono  innamorato  alla  follia!  Due  occhi  neri,  bellissimi,  amici  miei! 
due  specchi!  due  raggi  di  sole!  due  fiamme!  Di  tutta  la  loro  storia 
non  ho  sentito  altro  che  queste  tre  parole:  «Venite  domani,  a 
notte  fonda!  ».  Ma  è  l'essenziale.  Non  è  magnifico?  Mentre  questo 
bandito  dall'aspetto  galante  s'attarda  a  compiere  qualche  assassi- 
nio, e  a  scavar  delle  tombe,  io  vengo  pian  piano  a  snidare  la  sua 
colomba. 

DON  RicARDo  -  Altezza,  per  completare  il  tiro,  sarebbe  stato  bene  snidar 
la  colomba  e  uccidere  l'avvoltoio. 

DON  CARLOS  {a  Don  Ricardo)  -  Conte!  è  un  degno  consiglio!  Avete  la 
mano  pronta! 

DON  RicARDo  {inchinandosi  profondamente)  -  Con  qual  titolo  il  re  de- 
sidera che  io  sia  conte? 

DON  SANCHO  {impetuosamentc)  -  È  uno  sbaglio! 

DON  RicARDo  {a  Don  Sancho)  -  Il  re  mi  ha  nominato  conte. 

DON  CARLOS  -  Basta!  Va  bene,  (a  Ricardo)  Ho  lasciato  cader  questo  ti- 
tolo. Raccoglietelo. 

DON  RicARDO  {inchinandosi  dt  nuovo)  -  Grazie,  signore. 

DON  SANCHO  {a  Don  Matias)  -  Bel  conte!  un  conte  a  sorpresa! 

(//  re  passeggia  in  fondo,  osservando  con  impazienza  le  finestre  illu- 
minate, I  due  signori  parlano  sul  proscenio) 

DON  MATIAS  {à  Don  Sancho)  -  Una  volta  presa  la  bella,  che  farà  il  re? 

DON  SANCHO  {guardando  di  traverso  Ricardo)  -  La  farà  contessa,  e  poi 
dama  d'onore.  Infine,  se  ne  avrà  un  figlio,  quello  sarà  re. 

DON  MATIAS  -  Signore,  andiamo!  un  bastardo!  Conte,  neppure  un'Al- 
tezza potrebbe  trarre  un  re  da  una  contessa! 

DON  SANCHO  -  Allora  la  farà  marchesa,  mio  caro  marchese. 


32  VICTOR   HUGO 

DON  MATiAs  -  I  bastardi  si  riservano  ai  paesi  conquistati.  Si  fanno  vi- 
ceré. È  a  questo  che  servono.  {Don  Carlos  ritorna) 

DON  CARLOS  (guardando  irritato  tutte  le  finestre  illuminate)  -  Si  direb- 
bero degli  occhi  gelosi  che  ci  spiano!  Finalmente!  eccone  due  che 
si  spengono!  via!  Come  son  lunghi  i  momenti  d'attesa,  signori! 
Chi  farà  avanzare  il  tempo  con  più  rapidità? 

DON  SANCHO  -  È  quel  che  noi  diciamo  spesso  da  voi,  Altezza. 

DON  CARLOS  -  Ed  è  ciò  che  il  mio  popolo  ripete  quand'è  da  voi.  (l'ul- 
tima finestra  illuminata  si  spegne)  L'ultima  s'è  spenta!  (rivolto  ver- 
so il  balcone  di  Dona  Sol,  che  è  sempre  buio)  O  vetri  maledetti! 
quando  vi  illuminerete?  Questa  notte  è  ben  buia.  Dona  Sol,  vieni 
a  brillare  come  un  astro  nell'oscurità!  (a  Don  Ricardo)  Che  ore 
sono? 

DON  RicARDO  -  Mczzanotte,  fra  poco. 

DON  CARLOS  -  Eppurc  bisogna  farla  finita!  L'altro  può  sopraggiungere 
da  un  momento  all'altro,  (la  finestra  di  Dona  Sol  s'illumina.  La  sua 
ombra  si  delinea  sulla  vetrata  illuminata)  Amici!  una  fiaccola!  la 
sua  ombra  è  alla  finestra!  Non  vidi  mai  giorno  cosi  incantevole  nel 
suo  nascere.  Affrettiamoci!  facciamole  il  segnale  che  aspetta.  Bi- 
sogna batter  le  mani  tre  volte.  Fra  un  momento,  amici  miei,  la 
vedrete!  Ma  il  nostro  numero  la  potrebbe  forse  spaventare...  Riti- 
ratevi tutti  e  tre  nell'ombra,  laggiù,  a  spiare  l'altro.  Amici,  divi- 
diamoci i  due  amanti.  Ecco,  a  me  la  dama,  a  voi  il  brigante. 

DON  RicARDO  -  Grazie  mille! 

DON  CARLOS  -  Se  viene,  uscite  subito  dal  nascondiglio  e  date  una  stoc- 
cata al  mariolo.  Mentre,  steso  per  terra,  riprenderà  i  sensi,  io  mi 
porterò  via  la  bella,  e  poi  rideremo.  Non  ammazzatelo,  però!  è  un 
coraggioso,  dopo  tutto,  e  la  morte  d'un  uomo  è  cosa  grave. 

(/  tre  signori  s'inchinano  e  escono.  Don  Carlos  li  lascia  allontanare, 
poi  batte  le  mani  a  due  riprese.  La  seconda  volta  la  finestra  si  apre, 
e  Dona  Sol  appare  sul  balcone) 


SCENA   SECONDA 

DON  CARLOS,   DONA   SOL 

DONA  SOL  (al  balcone)  -  Siete  voi,  Hernani? 

DON  CARLOS  (a  parte)  -  Diavolo!  stiamo  zitti!  (batte  di  nuovo  le  mani) 

DONA  SOL  -  Scendo,  (chiude  la  finestra,  da  cui  scompare  la  luce.  Un 


Hernani,  di  Victor  Hugo,  rappresentato  alla   Comédie   Fran^aisc   in  (Kcasione  del  centocinquante- 
simo anniversario  del   Poeta.   Messinscena  di   Henri  Rollan,  scene  e  costumi  di    Mariano  Andrcii. 


HEINANI  33 

momento  dopo  la  porticina  si  apre  e  ne  esce  DoHa  Sol,  con  una  lu- 
cerna in  mano  ed  un  mantello  sulle  spalle) 
DONA  SOL  -  Hernanil 

(Don  Carlos  si  cala  il  cappello  sul  viso  e  si  precipita  verso  di  lei) 

DONA  SOL  {lasciando  cadere  la  lucerna)  -  Dio!  non  è  il  suo  passo!  (vuol 
rientrare.  Don  Carlos  corre  verso  di  lei  e  l'afferra  per  un  braccio) 

DON  CARLOS  -  Dofia  Sol! 

DONA  SOL  -  Non  è  la  sua  voce!  Ah!  me  infelice! 

DON  CARLOS  -  Vuoi  tu  una  voce  più  amorosa  di  questa?  È  sempre  un 
amante,  ed  è  un  amante  re! 

DONA  SOL  -  Il  re! 

DON  CARLOS  -  I>esidera,  ordina,  c'è  un  regno  per  te!  giacché  colui  di 
cui  tu  vuoi  spezzare  la  dolce  stretta  e  il  re  tuo  signore,  è  Carlos 
tuo  schiavo! 

DONA  SOL  (cercando  di  liberarsi)  -  Hernani,  aiuto! 

DON  CARLOS  -  Giusto  c  lodcvolc  spavento!  Non  è  il  tuo  bandito  che  ti 
tiene,  è  il  re! 

DONA  SOL  -  No.  Il  bandito  siete  voi!  Non  ne  avete  vergogna?  Ah!  mi 
sento  arrossire  per  voi.  Son  queste  le  imprese  per  cui  il  re  farà 
parlare  di  sé?  Venire  a  rapire  con  la  violenza,  e  di  notte,  una 
donna!  Ah,  quanto  il  mio  bandito  vi  vale  di  più!  Io  affermo,  o 
re,  che  se  l'uomo  nascesse  dove  lo  pone  la  sua  anima,  se  Dio  desse 
il  rango  in  conformità  alle  qualità  del  cuore,  certo  sarebbe  lui  il 
re,  o  principe,  e  voi  il  brigante! 

DON  CARLOS  (ccrcando  d'attirarla  a  sé)  -  Signora... 

DoffA  SOL  -  Dimenticate  che  mio  padre  era  conte? 

DON  CARLOS  -  Vi  farò  duchessa. 

DONA  SOL  (respingendolo)  -  Andatevene!,  è  vergognoso!  (indietreggia 
di  qualche  passo)  Non  può  esserci  nulla  fra  noi  due,  don  Carlos. 
Il  mio  vecchio  padre  ha  versato  il  suo  sangue  a  fiotti  per  voi;  io 
son  nobile  e  gelosa  di  questo  sangue:  ed  è  troppo  per  la  concu- 
bina, troppo  poco  per  la  sposa! 

DON  CARLOS  -  Principessa! 

DONA  SOL  -  Re  Carlos,  rivolgete  i  vostri  amorazzi  a  facili  donnette,  o, 
se  voi  osate  trattarmi  in  un  modo  infamante,  potrò  mostrarvi  mol- 
to facilmente  che  io  sono  una  dama,  e  che  sono  una  donna! 

DON  CARLOS  -  Ebbcnc,  dividete  dimque  con  me  e  il  mio  trono  e  il  mio 
nome.  Venite.  Sarete  regina,  imperatrice!... 

DofiJA  SOL  -  No.  È  un  tranello.  E  d'altra  parte,  Altezza,  francamente, 
bisogna  che  ve  lo  dica,  non  si  tratta  di  voi:  preferisco  vivere  er- 
rante con  lui,  il  mio  Hernani,  il  mio  re,  fuori  del  mondo  e  della 


8.  •  Temirc  frunet^ 


34  VICTOR  HUGO 

legge,  affamata,  assetata,  fuggiasca  sempre,  condividendo  giorno 
per  giorno  il  suo  misero  destino,  e  l'abbandono  e  la  guerra  e  l'esilio 
e  i  lutti  e  la  miseria  e  il  terrore,  piuttosto  d'essere  imperatrice  con 
un  imperatore! 

DON  CARLOS  -  Quant'è  fortunato  quest'uomo! 

Dof^A  SOL  -  Come!  povero,  e  perfino  proscritto!... 

DON  CARLOS  -  È  bello  esser  poveri  e  proscritti,  quando  si  è  amati  t  Io, 
io  sono  solo!  Un  angelo  invece  accompagna  i  suoi  passi!  Voi,  dun- 
que, mi  odiate? 

DONA  SOL  -  Non  vi  amo. 

DON  CARLOS  {afferrandola  con  violenza)  -  Ebbene,  che  mi  amiate  o  no, 
poco  m'importa!  Voi  verrete  con  me:  la  mia  mano  è  più  forte  della 
vostra.  Verrete!  lo  voglio!  Perdio,  vedremo  se  non  per  nulla  sono 
re  di  Spagna  e  delle  Indie! 

DONA  SOL  {dibattendosi)  -  Signore!  oh!  per  pietà!  Come!  voi  siete  al- 
tezza, siete  re.  Fra  duchesse,  marchese  o  contesse,  non  avete  che 
da  scegliere.  Le  donne  di  corte  tengon  sempre  pronto  un  amore 
per  ricambiare  il  vostro.  Ma  il  mio  proscritto,  lui,  cos'ha  ricevuto 
dal  cielo  avaro?  Ah!  voi  avete  la  Castiglia,  l'Aragona,  e  la  Navar- 
ra,  e  la  Murcia,  e  il  Leon,  e  dieci  altri  regni,  e  le  Fiandre,  e  l'In- 
dia con  le  sue  miniere  d'oro!  Avete  un  impero  che  nessun  re  può 
toccare,  e  cosi  vasto,  che  il  sole  non  vi  tramonta  mai!  E  voi  che 
avete  tutto,  vorreste,  voi,  il  re,  prendere  una  povera  fanciulla  come 
me  a  lui  che  ha  me  soltanto?  {si  butta  in  ginocchio  dinanzi  a  lui, 
che  cerca  di  trascinarla  via) 

DON  CARLOS  -  Vieni!  Non  ascolto  nulla.  Vieni  via!  Se  m'accompagni, 
ti  dono  quattro  delle  mie  Spagne;  scegli.  Dimmi,  quali  vuoi?  Sce- 
gli! {lei  gli  si  dibatte  fra  le  braccia) 

DofJA  SOL  -  Per  il  mio  onore,  signore,  da  voi  non  voglio  altro  che  que- 
sto pugnale!  {gli  strappa  il  pugnale  dalla  cintura.  Lui  la  lascia  e 
indietreggia)  Avanzate,  ora!  fate  un  passo! 

DON  CARLOS  -  Ah,  la  bella!  non  mi  stupisco  più  che  ami  un  ribelle! 
{vuol  fare  un  passo,  lei  alza  il  pugnale) 

DONA  SOL  -  Se  fate  un  passo,  vi  uccido,  e  mi  uccido,  {lui  indietreggia 
ancora.  Lei  si  volta  e  grida  con  forza)  Hernani!  Hernani! 

DON  CARLOS  -  Tacctc! 

DONA  SOL  {col  pugnale  alzato)  -  Un  passo,  e  tutto  è  finito! 

DON  CARLOS  -  Signora!  la  mia  dolcezza  è  vinta  da  codesti  eccessi.  Ho 
qui  tre  uomini  del  mio  seguito  per  obbligarvi  a... 

HERNANI  {apparendo  all'improvviso  dietro  di  lui)  -  Ne  dimenticate 
uno! 


HERNANI  35 

{il  re  si  volta,  e  vede  dietro  di  sé  Hernani,  immobile  nell'ombra,  con 
le  braccia  incrociate  sotto  il  lungo  mantello  che  lo  ricopre,  e  col 
largo  bordo  del  suo  cappello  rialzato,  DoHa  Sol  lancia  un  grido, 
corre  verso  Hernani  e  l'abbraccia) 


SCENA   TERZA 

DON   CARLOS,   DONA    SOL,    HERNANI 

HERNANI  {immobile,  con  le  braccia  sempre  incrociate  e  gli  occhi  sfa- 
villanti fissi  sul  re)  -  Ah!  il  cielo  m'è  testimone  che  sarei  volentieri 
andato  a  cercarlo  più  lontano  I 

DONA  SOL  -  Hernani,  salvatemi  da  lui! 

HERNANI  -  State  tranquilla,  amor  mio! 

DON  CARLOS  -  Ma  che  fanno  i  miei  amici  per  la  città?  Aver  lasciato 
passare  questo  capo  di  vagabondi!  (chiamando)  Monterey! 

HERNANI  -  I  vostri  amici  sono  in  mano  ai  miei.  E  non  cercate  la  loro 
spada  impotente;  contro  tre  che  venissero  in  vostro  aiuto,  ne  arri- 
verebbero sessanta  dei  miei.  Sessanta,  di  cui  uno  solo  vale  voi 
quattro.  Perciò  regoliamo  qui,  e  fra  noi  due,  i  nostri  affari.  Come! 
voi  mettevate  la  mano  su  questa  fanciulla!  È  cosa  da  imprudente, 
signor  re  di  Castiglia,  e  da  vigliacco! 

DON  CARLOS  (sorridendo  sdcgnoso)  -  Signor  bandito,  niente  rimproveri 
da  parte  vostra  a  me! 

HERNANI  -  E  scherza!  Oh!  non  sono  re,  io;  ma  quando  un  re  m'insulta 
e  per  di  più  mi  beffeggia,  la  mia  collera  s'innalza  e  sale  alla  sua 
altezza;  state  attento  dunque,  poiché,  quando  mi  si  fa  un  affronto, 
si  teme  il  rossore  della  mia  fronte  assai  più  del  cimiero  d'un  re! 
Siete  un  insensato,  se  vi  lasciate  ingannare  da  qualche  speranza! 
(gli  afferra  un  braccio)  Sapete  qual  è  la  mano  che  ora  vi  stringe? 
Sentite:  vostro  padre  ha  fatto  morire  il  mio,  ed  io  vi  odio.  Avete 
preso  il  mio  titolo  e  i  miei  beni:  io  vi  odio.  Amiamo  tutti  e  due 
la  stessa  donna:  io  vi  odio,  vi  odio,  si,  ti  odio  nel  profondo  dcl- 
Tanimal 

DON  CARLOS  -  Va  bene. 

HERNANI  -  Eppure  stasera  ero  ben  lontano  dall'odiare.  Non  avevo  che 
un  desiderio,  un  ardore,  un  bisogno:  Dona  Sol.  Accorrevo  qui  pie- 
no d'amore...  Sull'anima  mia!  E  vi  sorprendo  a  tentare  su  lei  un 
rapimento  infame!  E  trovo  sulla  mia  strada  proprio  voi,  che  di- 


36  VICTOR  HUGO 

mcnticavo!  Signore,  ve  Io  ripeto,  siete  un  insensato!  Don  Carlos, 
eccoti  preso  al  tuo  stesso  tranello.  Non  c'è  fuga,  né  soccorso!  ti 
tengo,  ti  circondo!  Solo,  cinto  da  ogni  parte  da  nemici  accaniti, 
che  farai? 

DON  CARLOS  {cofi  fierezzo)  -  Andiamo!  voi  m'interrogate! 

HERNANi  -  Va',  va',  non  voglio  che  ti  colpisca  un  braccio  ignoto.  Non 
è  bello  che  mi  sfugga  cosi  la  mia  vendetta.  Nessun  altro  ti  toccherà 
fuorché  me.  Difenditi  {snuda  la  spada) 

DON  CARLOS  -  lo  sono  il  re,  vostro  signore.  Colpite,  ma  senza  duello. 

HERNANi  -  Signore,  ricordati  che  anche  ieri  la  tua  spada  ha  incontrato 
la  mia. 

DON  CARLOS  -  Ieri  potevo  farlo.  Ignoravo  il  vostro  nome,  voi  ignora- 
vate il  mio  titolo.  Oggi,  amico,  voi  sapete  chi  sono  e  so  chi  siete. 

HERNANi  -  Forse. 

DON  CARLOS  -  Niente  nuello.  Assassinatemi,  se  volete! 

HERNANi  -  Credi  dunque  che  per  me  i  re  siano  sacri?  Allora,  ti  vuoi 
difendere? 

DON  CARLOS  -  No,  mi  assassinerete!  (Hemani  indietreggia,  Dan  Carlos 
fissa  su  lui  il  suo  sguardo  d'aquila)  Ah!  banditi,  voi  credete  che  le 
vostre  vili  masnade  potranno  dilagare  impunemente  nelle  città? 
Credete,  disgraziati,  che,  imbrattati  di  sangue  e  carichi  d'assassinii, 
potrete  poi  fare  i  generosi,  e  che  noi,  le  vittime  ingannate,  ci  de- 
gniamo di  nobilitare  i  vostri  pugnali  con  l'urto  delle  nostre  spade! 
No,  voi  siete  prigionieri  dei  vostri  delitti;  dovunque,  voi,  ve  li 
trascinate.  Noi  far  dei  duelli  con  voi!  indietro!  assassinate. 

(Hernani,  cupo  e  pensieroso,  per  qualche  istante  tormenta  con  la  ma- 
no l'impugnatura  della  spada,  poi  si  volta  bruscamente  verso  il  re, 
e  spezza  la  lama  sul  selciato) 

HERNANI  -  Vattene!  {//  re  si  volge  appena  verso  di  lui  e  lo  guarda  sde- 
gnosamente) Avremo  incontri  migliori.  Vattene. 

DON  CARLOS  -  Va  bene,  signore.  Fra  poche  ore,  io,  vostro  re,  sarò  di 
ritorno  al  palazzo  ducale.  La  mia  prima  cura  sarà  quella  d'in- 
viarvi il  pubblico  accusatore.  È  stata  messa  una  taglia  sulla  vostra 
testa? 

HERNANI  -  Si. 

DON  CARLOS  -  PadroD  mio,  da  questo  giorno  vi  considero  suddito  ri- 
belle e  traditore.  Vi  perseguiterò  dovunque,  vi  avverto.  Vi  farò 
mettere  al  bando  del  regno. 

HERNANI  -  Ci   sono  già. 

DON  CARLOS  -  Bene. 

HERNANI  -  Ma  la  Francia  è  vicina  alla  Spagna.  È  un  rifugio. 


HEXNANI  37 

DON  CARLOS  -  Diventerò  imperatore  di  Gennania.  Vi  farò  mettere  al 
bando  dell'impero. 

HERNANi  -  A  tuo  beneplacito.  Ho  il  resto  del  mondo  per  sfidarti.  Ci 
sono  tanti  luoghi  d'asilo,  in  cui  la  tua  potenza  non  arriva. 

DON  CARLOS  -  E  sc  avcssì  il  mondo? 

HERNANi  -  Allora  avrò  la  tomba. 

DON  CARLOS  -  Saprò  sventare  i  vostri  insolenti  complotti. 

HERNANi  -  La  vendetta  zoppica,  arriva  lentamente,  ma  arriva. 

DON  CARLOS  (ridacchiando  sprezzantemente)  -  Toccare  una  donna  che 
questo  bandito  adorai 

HERNANi  (/  cui  occhi  sfavillano  di  nuovo)  -  Ci  pensi  che  sei  ancora  in 
mio  potere?  Non  mi  ricordare,  futuro  cesare  romano,  che  ti  ho 
qui,  debole  e  piccolo  nella  mia  mano;  e  che,  se  stringessi  questa 
mano  troppo  leale,  schiaccerei  sul  nascere  la  tua  aquila  imperiale! 

DON  CARLOS  -  FatC. 

HERNANi  -  Vattene!  Vattene!  {si  toglie  il  mantello  e  lo  getta  sulle  spalle 
del  re)  Fuggi  e  prendi  questo  mantello;  perché  temo  che  dalle  no- 
stre file  potrebbe  venirti  sferrata  qualche  coltellata,  {il  re  si  avvolge 
nel  mantello)  Parti  tranquillo,  ora.  La  mia  sete  di  vendetta  mi  fa 
sacra  la  tua  testa  di  fronte  a  tutti. 

DON  CARLOS  -  Signorc,  voi  che  osate  parlarmi  cosf,  non  venite  mai  a 
domandare  un  giorno  la  mia  grazia,  (esce) 


SCENA   QUARTA 

HERNANI,  DONA   SOL 

DONA  SOL  {afferrando  la  mano  di  Hernani)  -  Ora  fuggiamo,  subito. 

HERNANi  {allontanandola  con  dolcezza  grave)  -  Ben  vi  si  addice,  ami- 
ca mia,  il  sentirvi  sempre  più  decisa  a  voler  condividere  le  mie 
disgrazie,  a  non  volervi  rinunciare  per  nulla  al  mondo,  a  voler 
sempre  vivere  con  me,  fino  in  fondo,  sino  alla  fine.  È  un  nobile 
proposito,  degno  di  un  cuore  fedele.  Ma  tu  lo  vedi,  o  mio  Dio: 
per  accettar  tanto  da  lei,  per  portar  con  me  nel  mio  antro,  felice, 
questo  tesoro  di  bellezza  che  fa  geloso  un  re,  perché  Dona  Sol  pos- 
sa seguirmi  e  appartenermi,  per  prender  la  sua  vita  e  congiungerla 
alla  mia,  per  portarmela  via  senza  vergogna  e  senza  rimpianti, 
non  è  più  tempo;  vedo  il  patibolo  troppo  vicino. 

DofiJA  SOL  -  Che  dite? 


38  VICTOR  HUGO 

HERNANi  -  Il  re  che  ho  sfidato  faccia  a  faccia  mi  punirà  per  aver  osato 
fargli  grazia.  Fugge;  forse  è  già  nel  suo  palazzo.  Chiama  la  sua 
gente,  le  sue  guardie,  i  suoi  valletti,  i  suoi  signori,  i  suoi  carnefici... 

DONA  SOL  -  Hernani!  Dio'  Io  tremo!  Ebbene,  affrettiamoci  allora!  fug- 
giamo insieme! 

HERNANI  '  Insieme!  no,  no.  Il  momento  è  passato,  ahimé!  Quando  i 
miei  occhi  ti  videro  per  la  prima  volta,  Dona  Sol,  tanto  buona  da 
degnarti  di  amarmi  d'un  amore  che  mi  dà  un  cosi  grande  conforto, 
ho  potuto,  si,  offrirvi,  io,  povero  miserabile  —  tanto  mi  rincuorava 
la  tua  pietà  —  la  mia  montagna,  il  mio  bosco,  il  mio  torrente,  il 
mio  pane  di  proscritto,  la  metà  del  letto  verde  e  fronzuto  che 
m'offre  la  foresta;  ma  offrire  a  te  la  metà  del  patibolo!  perdonami, 
Dona  Sol,  il  patibolo  è  solo  per  me! 

DONA  SOL  -  Eppure  me  l'avevate  promesso! 

HERNANI  {cadendo  in  ginocchio)  -  Angelo!  in  questo  istante  in  cui 
forse  viene  la  morte,  in  cui  s'avvicina  nell'ombra  la  cupa  conclu- 
sione di  un  destino  si  cupo,  affermo  ora,  io,  proscritto,  con  una 
pena  profonda  chiusa  nel  petto,  io  nato  in  una  culla  di  sangue, 
che,  per  quanto  funerea  sia  la  tristezza  che  avvolge  la  mia  vita, 
io  sono  un  uomo  felice,  e  voglio  essere  invidiato:  poiché  voi  m'ave- 
te amato!  perché  voi  me  l'avete  detto!  perché  dolcemente  avete 
benedetto  questa  fronte  maledetta! 

DONA  SOL  {curva  sul  suo  capo)  -  Hernani! 

HERNANI  -  Benedetta  sia  la  sorte  dolce  e  propizia  che  mi  mette  questo 
fiore  sull'orlo  del  precipizio!  {si  rialza)  E  non  è  per  voi  che  io  par- 
lo, ora;  parlo  per  il  cielo  che  m'ascolta,  e  per  Dio. 

DONA  SOL  -  Fammi  venire  con  te. 

HERNANI  -  Ah!  sarebbe  un  delitto  strappare  il  fiore  al  momento  di 
cader  nell'abisso!  Va',  ne  ho  respirato  il  profumo!  basta!  Unisci  ad 
un'altra  la  tua  vita  che  io  ho  oltraggiata.  Sposa  quel  vecchio.  Sono 
io  che  ti  lascio  libera.  Io  rientro  nell'oscurità.  Tu,  sii  felice,  di- 
mentica! 

DONA  SOL  -  No,  ti  seguo!  voglio  la  mia  parte  della  tua  bara!  Io  m'at- 
taccherò al  tuo  passo. 

HERNANI  {stringendola  fra  le  braccia)  -  Oh!  lasciami  fuggire  solo!  {la 
lascia  con  un  movimento  convulso) 

DONA  SOL  {dolorosamente  e  a  mani  giunte)  -  Hernani!  tu  mi  fuggi!  Ah! 
insensata,  aver  dato  la  propria  vita  e  vedersi  respinta;  e,  dopo  tanto 
amore  e  tante  pene,  non  aver  neppure  la  felicità  di  morire  accanto 
a  lui! 

HERNANI  -  Sono  bandito!  sono  proscritto!  sono  funesto! 


HERNANI  39 

DofiA  SOL  -  Ahi  voi  siete  ingrato! 

HERNANI  {ritornando  sui  suoi  passi)  -  Ebbene,  no!  no,  rimango.  Tu  io 
vuoi,  eccomi.  Vieni!  oh!  vieni  fra  le  mie  braccia!  Rimango  e  ri- 
marrò quanto  vorrai  tu.  Dimentichiamoli,  restiamo,  {la  fa  sedere 
su  un  sedile  di  pietra)  Siediti  su  questa  pietra,  {lui  si  siede  ai  suoi 
piedi)  Inonda  le  mie  palpebre  con  le  fiamme  dei  tuoi  occhi.  Can- 
tami qualche  canzone,  come  me  ne  cantavi  talvolta,  la  sera;  e  i 
tuoi  occhi  neri  eran  pieni  di  lacrime!  Siamo  felici!  beviamo,  che  la 
coppa  è  piena,  e  quest'ora  è  nostra,  e  tutto  il  resto  è  follia.  Par- 
lami, incantami!  Non  è  vero  che  è  dolce  amare  e  sentirsi  amati 
in  ginocchio?  E  essere  in  due?  E  esser  soli?  Non  è  vero  che  è 
dolce  parlarsi  d'amore,  nell'oscurità,  quando  tutto  riposa?  Oh!  la- 
sciami dormire  e  sognare  sul  tuo  seno.  Dona  Sol,  amor  mio,  mia 
bellezza! 

{scampanio  in  lontananza) 

DONA  SOL  {(dzandosi  spaventata)  -  Le  campane  a  martello?  Le  senti?  le 

campane  a  martello! 
HERNANI   {sempre  seduto  ai  suoi  piedi)  -  No!  suonano  per  le  nostre 

nozze! 

(lo  scampanio  aumenta.  Grida  confuse,  fiaccole  e  luci  a  tutte  le  finestre, 
su  tutti  i  tetti,  in  tutte  le  strade) 

DofJA  SOL  -  Alzati!  Fuggi!  Gran  Dio!  Saragozza  si  sta  illuminando 

tutta! 
HERNANI   {sollevandosi  solo  per  metà)  -  Avremo  delle  nozze  con  le 

fiaccole! 
Dof^A  SOL  -  Sono  le  nozze  dei  morti!  Le  nozze  delle  tombe! 

{rumore  di  spade.  Grida) 

HERNANI  {lasciandosi  andare  di  nuovo  sul  sedile  di  pietra)  -  Vieni  fra 
le  mie  braccia! 

UN  MONTANARO  {accorrcndo  con  la  spada  sguainata)  -  Signore,  gli  sbir- 
ri, i  giudici,  sboccano  sulla  piazza  in  lunghe  schiere,  a  cavallo! 
All'erta,  mio  signore! 

{Hernani  si  alza) 
DofJA  SOL  {pallida)  -  Ah!  l'avevi  previsto! 

IL  MONTANARO  -  Aiuto! 

HERNANI  {al  montanaro)  -  Eccomi.  Va  bene. 

{grida  confuse,  fuori*.  Morte  d  banditol) 
HERNANI  {aH  montanaro)  -  La  tua  spada,  {a  DoHa  Sol)  Addio! 


40  VICTOR  HUGO 

DONA  SOL  -  Sono  io  la  causa  della  tua  perdita.  Dove  vai?  {indicandogli 

la  porticina)  Vieni!  Fuggiamo  da  questa  porta  aperta. 
HERNANi  -  Dio!  lasciare  i  miei  amici!  ma  che  dici? 

(tumulto  e  grida) 

doSa  sol  -  Queste  grida  mi  fiaccano,  {trattenendo  Hernant)  Ricordati 

che,  se  tu  muori,  io  muoio. 
HERNANi  {stringendola  a  sé)  -  Un  bacio! 
Dof^A  SOL  -  Sposo  mio!  mio  Hernani!  mio  signore! 
HERNANi  {baciandola  in  fronte)  -  Ahimé!  è  il  primo. 
DONA  SOL  -  £  forse  è  l'ultimo. 

{^ui  forte.  Lei  s'accascia  sulla  Ranchimi) 


ATTO    TERZO 

IL     VEGLIARDO 

//  castello  de  Silva, 
Fra  le  montagne  d'Aragona. 

La  galleria  dei  ritratti  della  famiglia  de  Silva;  tfna  grande  sala  alla  quale  que- 
sti ritratti,  montati  in  ricche  cornici  ornate  di  stemmi  dorati,  servono  da  de- 
corazione. In  fondo,  un'alta  porta  gotica.  Fra  un  ritratto  e  l'altro,  una  pano- 
plia completa:  tutte  queste  armature  appartengono  a  secoli  diversi. 


SCENA   PRIMA 

DO^A  SOL,  vestita  di  bianco,  in  piedi,  vicino  ad  un  tavolo;  ios  ruy 

ooMEZ  DE  SILVA,  scduto  nella  stia  grande  poltrona  ducale, 

di  legno  di  quercia 

DON  ruy  OOMEZ  -  Finalmente!  questo  giorno  è  arrivato!  fra  un'ora  avrò 
la  mia  duchessa!  Lo  zio  non  esìste  più!  e  mi  abbraccerai!  Ma  mi 
hai  perdonato?  Avevo  torto,  lo  confesso.  Ho  fatto  arrossire  la  tua 
fronte  e  impallidire  le  tue  guance.  Ho  sospettato  troppo  presto  e 
non  avrei  dovuto  condannarti  cosi,  senza  averti  prima  ascoltata. 
L'apparenza  inganna!  Come  siamo  ingiusti!  Certo,  là  c'erano  quei 
due  bei  giovanotti!  Non  importa.  Avrei  dovuto  non  credere  ai  miei 
occhi.  Ma  che  vuoi,  bambina  mia,  quando  si  e  vecchi! 

DONA  SOL  (immobile  e  grave)  -  Parlate  sempre  di  questo.  Chi  vi  rim- 
provera? 


HEBNANI  41 

DON  RUY  GOMEZ  -  lo!  Ebbi  torto.  Avrei  dovuto  sapere  che  col  tuo  ani- 
mo non  si  hanno  corteggiatori,  quando  si  è  Dona  Sol,  quando  si 
ha  nel  cuore  del  buon  sangue  spagnolo. 

DofiA  SOL  -  Certo,  è  buono  e  puro,  mio  signore,  e  forse  si  vedrà  presto. 

DON  RUY  GOMEZ  (olzandosi  e  avvicinandosi  a  let)  -  Senti,  non  m'è  fa- 
cile esser  padrone  di  me  stesso,  innamorato  come  sono  di  te,  e 
vecchio.  Si  è  gelosi,  si  è  cattivi,  e  perche?  Perché  si  è  vecchi.  Per- 
ché bellezza,  grazia,  giovinezza,  in  un  altro,  tutto  fa  paura,  tutto 
è  una  minaccia.  Perché  si  è  gelosi  degli  altri  e  ci  si  vergogna  di 
noi  stessi.  Qual  derisione  che  questo  storpio  amore,  che  ci  rimette 
in  cuore  tanta  ebrezza  e  tanto  fuoco,  abbia  dimenticato  il  corpo 
mentre  ringiovanisce  l'animai  Quando  passa  un  giovane  pastore  — 
sf,  fino  a  questo  punto!  —  spesso,  mentre  camminiamo,  lui  che 
canta,  io  che  penso;  lui  nel  suo  prato  verde,  io  nei  miei  cupi  viali, 
spesso  dico  fra  me:  O  mie  torri  merlate,  o  vecchio  torrione  du- 
cale, e  campi,  e  foreste,  e  le  greggi  numerose  che  brucano  le  mie 
colline,  e  il  mio  vecchio  nome,  e  il  mio  vecchio  titolo,  e  tutti  i 
miei  ruderi,  e  tutti  i  miei  vecchi  avi  che  fra  poco  mi  aspetteranno, 
come  vi  cambierei  volentieri  con  la  sua  capanna  nuova  e  col  suo 
volto  giovane!  Perché  i  suoi  capelli  sono  neri,  perché  i  suoi  occhi 
brillano  come  i  tuoi;  e  tu  puoi  vederlo,  e  dire:  che  giovanotto!  e 
poi  pensare  a  me  che  son  vecchio.  Lo  sol  Mi  chiamo  Silva,  certo, 
ma  non  mi  basta  piiSI  Si,  io  mi  dico  tutto  questo.  Vedi  fino  a  che 
punto  io  t'amo!  Darei  tutto  per  esser  giovane  e  bello  come  te! 
Ma  a  che  sto  pensando?  Io,  giovane  e  bello,  io  che  devo  precederti 
di  tanto  nella  tomba! 

DofiA  SOL  -  Chi  lo  sa? 

DON  RUY  GOMEZ  -  Ma,  Credimi,  in  questi  frivoli  cavalieri  non  c'è  amore 
tanto  grande  che  non  finisca  con  l'esaurirsi  a  parole.  Se  una  fan- 
ciulla amasse  e  credesse  in  uno  di  questi  giovincelli,  lei  ne  mor- 
rebbe e  lui  ci  riderebbe.  Tutti  questi  giovani  fringuelli  dall'ala 
vibrante  e  variopinta,  dal  languido  cinguettio,  cambiano  amore  co- 
me cambian  le  piume.  I  vecchi,  a  cui  l'età  smorza  la  voce  e  i  co- 
lori, hanno  l'ala  più  fedele;  e,  se  son  men  belli,  sono  migliori.  Noi 
sappiamo  amare.  I  nostri  passi  sono  pesanti?  i  nostri  occhi  aridi? 
le  nostre  fronti  piene  di  rughe?  Il  cuore  non  ha  mai  rughe.  Ahi- 
mé! quando  un  vecchio  ama,  bisogna  risparmiarlo.  Il  cuore  è  sem- 
pre giovane,  e  può  sempre  sanguinare.  Oh!  il  mio  amore  non  è 
come  un  ninnolo  di  vetro  brillante  e  tremulo;  oh!  no,  è  un  amore 
severo,  profondo,  solido,  sicuro,  paterno,  amichevole,  fatto  di  legno 
di  quercia  come  la  mia  scranna  ducale!  Ecco  come  t'amo  io,  e  poi 


42  VICTOR  HUGO 

ti  amo  anche  in  cento  altri  modi,  come  si  ama  l'aurora,  come  si 
amano  i  fiori,  come  si  ama  il  ciclo!  A  vederti  ogni  giorno,  te,  col 
tuo  passo  grazioso,  con  la  tua  fronte  pura  e  la  bella  fiamma  dei 
tuoi  occhi  fieri,  io  sorrido  ed  ho  nell'anima  un'eterna  festa. 

DONA  SOL  -  Ahimé! 

DON  RUY  GOMEZ  -  E  poi,  Vedi?  quando  un  uomo  declina  e  se  ne  va, 
brandello  per  brandello,  e  inciampa  sulla  pietra  della  tomba,  il 
mondo  giudi'ca  bello  che  una  donna,  angelo  puro,  colomba  inno- 
cente, vegli  su  di  lui,  gli  dia  sicurezza,  e  si  degni  di  sopportare 
ancora  l'inutile  vecchio  che  è  buono  solo  a  morire.  È  un'opera 
santa,  e  giustamente  lodata,  questo  supremo  sforzo  di  un  cuore 
che  si  dedica  a  consolare  un  morente  sino  alla  fine,  e  che,  forse 
senza  amare,  sa  avere  delle  apparenze  d'amore!  Oh!  tu  sarai  per 
me  quell'angelo  dal  cuore  di  donna  che  sa  rallegrare  ancora  l'ani- 
ma del  povero  vecchio,  e  che  per  metà  sopporta  il  peso  dei  suoi 
ultimi  anni,  figlia  per  rispetto,  sorella  per  pietà. 

DONA  SOL  -  Invece  di  precedermi,  potreste  seguirmi,  mio  signore;  l'es- 
ser giovani  non  e  una  ragione  per  vivere.  Ahimé!  spesso,  ve  l'as- 
sicuro, i  vecchi  sono  lenti,  i  giovani  li  precedono;  e  i  loro  occhi 
chiudono  bruscamente  le  palpebre,  come  un  sepolcro  aperto  a  cui 
ricade  il  coperchio. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Oh!  che  cupi  discorsi!  Ma  io  vi  rimprovererò,  bam- 
bina! un  simile  giorno  è  gioioso  e  sacro.  A  proposito,  come  mai, 
mentre  l'ora  sta  per  scoccare,  voi  non  siete  ancora  pronta  per  la 
cerimonia?  Suvvia,  presto!  vestitevi.  Io  conto  gli  istanti.  L'abito 
da  sposa? 

DONA  SOL  -  Ci  sarà  sempre  tempo. 

DON  RUY  GOMEZ  -  No.  (entra  un  paggio)  Che  vuoi,  laquez? 

IL  PAGGIO  -  Mio  signore,  c'è  alla  porta  un  uomo,  un  pellegrino,  un 
mendicante,  non  so,  che  vi  chiede  asilo. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Chiunque  egli  sia,  la  felicità  entra  con  lo  straniero 
che  si  riceve.  Che  venga.  Si  hanno  notizie  da  fuori?  Che  si  dice 
di  quel  capo  di  banditi,  di  rinnegati,  che  riempie  le  nostre  foreste 
della  sua  ribellione? 

IL  PAGGIO  -  Tutto  è  finito  con  Hernani,  tutto  è  finito  col  leone  della 
montagna. 

DONA  SOL  {a  parte)  -  Dio! 

DON  RUY  GOMEZ  -  Come? 

IL  PAGGIO  -  La  banda  è  distrutta.  Si  dice  che  il  re  in  persona  si  sia 
messo  al  loro  inseguimento.  Sulla  testa  di  Hernani  il  re  ha  posto 
mille  scudi  di  taglia;  ma  si  dice  che  lui  sia  morto. 


HERNANI  43 

DONA  SOL  {a  parte)  -  Come!  senza  di  me,  Hernani! 

DON  RUY  GOMEZ  -  Grazie  al  ciclo!  è  morto,  il  ribelle!  Possiamo  ralle- 
grarci ora,  mia  cara.  Andate  a  prepararvi,  amor  mio,  mio  orgoglio! 
Oggi,  doppia  festa! 

DONA  SOL  (a  parte)  -  Oh!  degli  abiti  da  lutto!  (esce) 

DON  RUY  GOMEZ  (al  paggio)  -  Svelto,  fatele  portare  lo  scrigno  che  le 
dono,  {si  siede  di  nuovo  sulla  sua  scranna)  Voglio  vederla  adornata 
come  una  madonna,  e,  per  merito  del  suo  sguardo  dolce  e  dei 
miei  gioielli,  tanto  bella  da  far  cadere  in  ginocchio  un  pellegrino. 
A  proposito,  e  colui  che  ci  domanda  asilo?  Digli  d'entrare,  fagli 
le  nostre  scuse,  corri.  (U  paggio  saluta  ed  esce)  Lasciar  aspettare  un 
ospite!  ah!  è  male! 

(/<!  porta  in  jondo  si  apre.  Appare  Hernani  travestito  da  pellegrino.  Il 
duca  si  dza  e  gli  va  incontro) 


SCENA  SECONDA 

DON   RUY   GOMEZ,   HERNANI 

(Hernani  si  ferma  sulla  soglia  della  porta) 

HERNANI  -  Mio  signore,  pace  e  felicità  a  voi! 

DON  RUY  GOMEZ  (faccndo  con  la  mano  un  cenno  di  saluto)  -  Pace  e  fe- 
licità a  te,  mio  ospite!  (Hernani  entra.  Il  duca  si  rimette  a  sedere) 
Non  sci  un  pellegrino? 

HERNANI  (inchinandosi)  -  Si. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Certamente,  vieni  da  Armillas? 

HERNANI  -  No.  Ho  prcso  Un'altra  strada.  Si  battevano  da  quelle  parti. 

DON  RUY  GOMEZ  -  La  banda  del  proscrìtto,  vero? 

HERNANI  -  Non  so. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Chc  nc  è  del  capo?  di  Hernani?  lo  sai? 

HERNANI  -  Signore,  chi  è  costui? 

DON  RUY  GOMEZ  -  Nou  lo  conosci?  pcggio  pcr  te!  la  grossa  somma  non 
sarà  certo  tua.  Vedi,  questo  Hernani  è  un  ribelle  al  re,  ed  è  rima- 
sto troppo  tempo  impunito.  Se  vai  a  Madrid,  potrai  vederlo  im- 
piccare. 

HERNANI  -  Non  ci  vado. 

DON  RUY  ooMEZ  -  La  sua  testa  è  pcr  chi  vuol  prenderla. 

HERNANI  (a  parte)  -  Che  vengano! 


44  VICTOR   HUGO 

DON  RUY  ooMEZ  -  Dovc  Vai,  buoii  pellegrino? 

HERNANi  -  Signore,  vado  a  Saragozza. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Un  voto  fatto  in  onore  di  un  santo?  di  Nostra  Si- 
gnora? 

HERNANi  -  S(,  duca,  dì  Nostra  Signora. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Del  Filar? 

HERNANi  -  Dd  Filar. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Bisogna  non  aver  anima  per  non  adempiere  i  voti 
che  si  fanno  ai  santi.  Ma,  appena  adempiuto  il  tuo,  non  hai  altri 
progetti?  Vedere  il  Sacro  PUone,  è  questo  tutto  ciò  che  desideri? 

HERNANi  -  S(,  voglio  Veder  bruciare  le  fiaccole  e  i  ceri,  voglio  vedere, 
in  fondo  al  cupo  corridoio,  brillare  Nostra  Signora  nella  sua  urna 
ardente,  con  la  sua  cappa  d'oro;  e  poi  tornarmene  via. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Molto  bene.  Il  tuo  nome,  fratello  mio?  Io  sono  Ruy 
de  Silva. 

HERNANi  {esitando)  -  Il  mio  nome?... 

DON  RUY  GOMEZ  -  Fuoi  tacerlo,  se  vuoi.  Nessuno  qui  ha  il  diritto  di 
saperlo.  Non  vieni  forse  a  domandare  asilo? 

HERNANI  -   Si,   duca. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Grazic.  Sii  il  benvenuto.  Rimani,  amico,  e  chiedi  ciò 
che  vuoi,  quanto  al  tuo  nome,  tu  ti  chiami  mio  ospite.  Chiunque 
tu  sia,  va  bene!  Accoglierei  Satana  senza  inquietarmene,  se  Dio 
me  rinviasse. 

(la  porta  in  fondo  W  sptdanca  completamente.  Entra  Dona  Sol,  con 
l'abito  da  sposa  secondo  la  moda  castigliana  del  tempo.  Dietro  di 
lei,  paggi,  valletti,  e  due  donne  che  portano  su  un  cuscino  di  vel- 
luto un  cofanetto  d'argento,  cesellato,  che  vanno  a  deporre  su  un 
tavolo-,  contiene  un  ricco  scrigno,  una  corona  di  duchessa,  braccia- 
letti, collane,  perle  e  brillanti,  alla  rinfusa,  Hernani,  ansante  e  stra- 
volto, esamina  Dona  Sol  con  occhi  ardenti,  senza  ascoltare  il  duca) 


SCENA   TERZA 

GLI  STESSI,  DONA  SOL,  PAGGI,  VALLETTI,  DONNE 

DON  RUY  GOMEZ  -  Ecco  la  mia  Madonna.  L'averla  pregata  ti  porterà 
fortuna,  {va  a  porger  la  mano  a  DoHa  Sol,  sempre  pallida  e  grave) 
Mia  bella  sposa,  venite.  Come!  non  avete  ancora  l'anello!  non  avete 
ancora  la  corona! 


HERNANI  45 

HERNANi  {con  vocc  tonante)  -  Chi  vuol  guadagnare  qui  mille  carli 
d*oro?  (/«/ft  si  voltano  stupiti.  Egli  si  strappa  di  dosso  l'abito  da 
pellegrino,  lo  calpesta  e  appare  in  abito  da  montanaro)  Sono  Her- 
nani. 

DONA  SOL  (a  parte,  con  gioia)  -  Ciclo!  è  vivo! 

HERNANi  (ai  valletti)  -  Sono  io  l'uomo  che  tutti  cercano,  (al  duca)  Va- 
levate sapere  se  mi  chiamo  Perez  o  Diego?  No,  mi  chiamo  Her- 
nani.  È  un  nome  molto  più  bello,  è  un  nome  di  bandito,  è  un 
nome  di  proscritto!  Vedete  questa  testa?  Vale  tant'oro  da  poter 
pagare  la  vostra  festa!  {ai  valletti)  La  do  a  tutti  voi.  Sarete  pagati 
bene!  Prendete,  legatemi  le  mani,  legatemi  i  piedi,  su,  legate!  Ma 
no,  è  inutile,  una  catena  mi  lega  che  non  romperò  mai! 

DONA  SOL  {a  parte)  -  Me  infelice! 

DON  RUY  GOMEZ  -  Pazzo!  il  mio  ospite  è  pazzo! 

HERNANi  -  Il  vostro  ospite  è  un  bandito! 

Dof^A  SOL  -  Oh,  non  ascoltatelo! 

HERNANi  -  Ho  detto  qud  che  ho  detto. 

DON  RUT  ooMEZ  -  Mille  Carli  d'oro!  signore,  la  sonuna  è  grossa,  e  io 
non  posso  farmi  garante  di  tutti  i  miei  servitori. 

HERNANi  -  Che  importa!  Tanto  meglio  se  fra  tutti  se  ne  trova  uno  di- 
sposto a  prendersela.  {<ù  valletti)  Consegnatemi!  vendetemi! 

DON  RUY  GOMEz  {ccrcando  di  farlo  tacere)  -  Ma  tacete!  Potrebbero  pren- 
dervi in  parola. 

HERNANi  -  Amici,  Toccasione  è  bella!  Vi  dico  che  sono  Hernani,  il  ri- 
belle, Hernani! 

DON  RUY  ooMEz  -  Taccte! 

HERNANI  -  Hernani! 

DofiA  SOL  {all'orecchio,  in  un  soffio)  -  Oh!  taci! 

HERNANI  {volgendosi  in  parte  verso  Dona  Sol)  -  C'è  un  matrimonio 
qui!  Anch'io  voglio  parteciparvi!  Anche  la  mia  sposa  m'aspetta! 
{al  duca)  È  meno  bella  della  vostra,  signore,  ma  non  è  men  fedele! 
È  la  morte!  {ai  valletti)  Non  si  avanza  ancora  nessuno  di  voi? 

DONA  SOL  {a  bassa  voce)  -  Per  pietà! 

HERNANI  {ai  valletti)  -  Hernani!  Mille  carli  d'oro! 

DON  RUY  GOMEZ  -  È  il  demonio,  costui! 

HERNANI  {a  un  giovane  valletto)  -  Vieni  avanti,  tu!  guadagnerai  la 
somma.  E  quando  sarai  ricco,  da  valletto  che  sei  ritornerai  un 
uomo!  {ai  valletti  che  continuano  a  rimanere  immobili)  Anche  voi 
tremate!  Non  sono  abbastanza  infelice? 

DON  RUY  GOMEZ  -  Fratello,  toccando  la  tua  testa,  rischierebbero  la  loro. 
Quand'anche  tu  fossi  Hernani,  quand'anche  tu  fossi  cento  volte 


46  VICTOR    HUGO 

peggiore  e,  invece  di  oro,  si  offrisse  per  la  tua  vita  un  impero,  o 
ospite  mio!  io  devo  proteggerti  in  questo  luogo  anche  contro  il  re, 
perché  mi  sei  inviato  da  Dio!  Possa  io  morire,  se  tu  dovessi  perdere 
un  sol  capello!  (a  Dona  Soi)  Nipote  mia,  sarete  mia  moglie  fra 
un'ora;  rientrate  nelle  vostre  stanze.  Vado  a  dare  ordini  perché  il 
castello  sia  posto  in  armi.  Vado  a  chiuderne  la  porta,  {esce,  I  val- 
letti lo  seguono) 
HERNANi  {guardando  disperatamente  la  sua  cintura  sguarnita  e  disar- 
mata) -  Oh!  neppure  un  coltello! 

{Dofla  Sol,  sparito  il  duca,  fa  qualche  passo  come  per  seguire  le  sue 
donne,  poi  si  ferma  e,  non  appena  quelle  sono  uscite,  ritorna  verso 
Hernani,  ansiosamente) 


SCENA   QUARTA 

HERNANI,  DONA  SOL 

{Hernani  osserva  con  uno  sguardo  freddo  e  come  distratto  lo  scrigno 
nuziale  posto  sul  tavolo;  poi  scuote  la  testa,  e  i  suoi  occhi  s'illu- 
minano) 

HERNANI  -  Vi  faccio  i  miei  complimenti!  I  vostri  ornamenti  mi  affasci- 
nano e  m'incantano  piò  di  quanto  non  possa  dire,  e  li  ammiro!  {si 
avvicina  allo  scrigno)  L'anello  è  di  buon  gusto,  la  corona  mi  pia- 
ce, la  collana  è  ben  lavorata,  il  braccialetto  è  raro,  ma  cento  vol- 
te, cento  volte  meno  della  donna  che  sotto  una  fronte  cosi  pura 
nasconde  un  cuore  infame!  {esaminando  di  nuovo  lo  scrigno)  E  che 
cosa  avete  dato  voi  per  tutto  questo?  Benissimo!  Un  po'  del  vo- 
stro amore?  ma,  veramente,  l'avete  dato  per  un  nulla:  Gran  Dio! 
tradire  cosf!  non  aver  vergogna,  e  vivere!  {esaminando  lo  scrigno) 
Ma  forse  non  sono  altro  che  perle  false,  e  rame  invece  di  oro,  e  ve- 
tro e  piombo,  e  diamanti  falsi,  falsi  zaffiri,  false  gemme,  falsi  bril- 
lanti, gioielli  falsi!  Ah!  se  è  cosi,  il  tuo  cuore  è  falso  come  questi 
ornamenti,  duchessa,  e  tu  non  sei  che  una  doratura!  {ritoma  verso 
lo  scrigno)  Ma  no,  no.  Tutto  è  vero,  tutto  è  buono,  tutto  e  bel- 
lo!  Non  oserebbe  ingannare,  lui  cos(  vicino  alla  tomba!  Non  ci 
manca  nulla,  {prende  una  dopo  l'altra  tutte  le  gioie  contenute  nello 
scrigno)  Collane,   brillanti,   orecchini,   corona   di   duchessa,   anello 


HERNANI  47 

d'oro...  A  meravigliai  Grazie  tante  dell'amore  sicuro,  fedele  e  pro- 
fondo! Che  prezioso  scrigno! 

Dof^A  SOL  (va  verso  lo  scrigno,  vi  cerca  dentro,  e  ne  estrae  un  pugna- 
le) '  Voi  non  andate  (ino  in  fondo!  {Hemani  getta  un  grido  e  cade 
prosternato  ai  suoi  piedi)  È  il  pugnale  che  presi  al  re  Carlos,  con 
l'aiuto  della  mia  divina  protettrice,  quand'egli  m'offri  un  trono  ed 
io  lo  rifiutai  per  voi  che  mi  oltraggiate! 

HERNANI  {sempre  in  ginocchia)  -  Oh!  lascia  che  io  cancelli  in  ginocchio 
questo  pianto  amaro  eppur  pieno  d'incanto,  che  scorre  dai  tuoi  oc- 
chi afflitti;  e  tu,  per  le  tue  lacrime,  prenderai  poi  in  cambio  tutto 
il  mio  sangue. 

DONA  SOL  (intenerita)  -  Hernani!  Io  vi  amo  e  vi  perdono,  non  sento 
che  amore  per  voi. 

HERNANI  -  Lei  mi  ha  perdonato  e  mi  ama!  chi  potrà  far  si  che  anch'io, 
dopo  quello  che  ho  detto,  possa  perdonarmi  ed  amarmi?  Oh!  vor- 
rei sapere,  angelo  riservato  al  cielo,  dove  avete  camminato,  per 
baciare  le  vostre  impronte. 

DofiA  SOL  -  Amico  mio! 

HERNANI  -  No,  devo  esserti  odioso!  Ma  ascolta,  dimmi:  Io  t'amo! 
Ahimé!  rassicura  un  cuore  che  dubita,  dimmelo!  poiché  spesso  con 
queste  poche  parole  la  bocca  di  una  donna  ha  guarito  tanti  mali! 

DONA  SOL  (assorta  e  senza  sentirlo)  -  Credere  che  il  mio  amore  avesse 
cosf  poca  memoria!  che  tutti  questi  uomini  senza  gloria  avrebbero 
potuto  abbassare  ad  altri  amori,  a  lor  parere  più  nobili,  un  cuore 
in  cui  è  entrato  il  suo  nome! 

HERNANI  -  Ahimé!  ho  bestemmiato!  Se  fossi  al  tuo  posto,  Dona  Sol,  ne 
avrei  abbastanza,  mi  sarei  stancato  di  questo  pazzo  furioso,  di  que- 
sto cupo  insensato  che  sa  accarezzare  solo  dopo  aver  colpito.  Gli 
direi:  «  Vattene  ».  Respingimi,  respingimi,  ed  io  ti  benedirò,  per- 
ché tu  fosti  buona  e  dolce,  perché  mi  hai  sopportato  fin  troppo, 
perché  io  sono  cattivo;  io  renderei  cupi  i  tuoi  giorni  con  le  mie 
notti,  perché  basta,  alla  fine:  la  tua  anima  è  bella  e  alta  e  pura,  e 
se  io  sono  cattivo,  è  forse  colpa  tua?  Sposa  il  vecchio  duca!  è  buono, 
nobile;  sua  madre  gli  ha  lasciato  Olmedo,  suo  padre  Alcala.  E 
infine:  sii  ricca  con  lui,  sii  felice.  Io  invece,  sai  che  cosa  può  offrirti 
di  magnifico  questa  mano  generosa?  una  dote  di  dolori.  Potrai  sce- 
gliervi o  sangue  o  lacrime.  L'esilio,  le  catene,  la  morte,  la  paura 
che  mi  circonda,  è  questa  la  tua  collana  d'oro,  la  tua  bella  corona, 
e  mai  sposo  pieno  d'orgoglio  offri  alla  sua  sposa  uno  scrigno  più 
ricco  di  miseria  e  di  lutti!  Sposa  il  vecchio,  ti  dico;  egli  ti  merita! 
Eh!  chi  mai  crederebbe  che  la  mia  testa  proscritta  possa  essere  uni- 


48  VICTOR   HUGO 

ta  alla  tua  fronte  pura?  Chi,  vedendoci,,  te,  calma  e  bella,  me,  vio- 
lento, rischioso;  te,  tranquilla,  cresciuta  come  un  fiore  all'ombra, 
me,  sbattuto  nella  tempesta  contro  scogli  infiniti,  chi  direbbe  che 
le  nostre  sorti  possano  seguire  la  stessa  legge?  No.  Dio  che  fa 
tutto  bene  non  ti  fece  per  me.  Dal  cielo  non  ho  ricevuto  nessun 
diritto  su  di  te:  mi  rassegno.  Ho  il  tuo  cuore,  ma  è  un  furto!  lo 
restituisco  al  più  degno.  Il  cielo  non  ha  mai  acconsentito  al  nostro 
amore.  Se  ho  detto  che  era  il  tuo  destino,  ho  mentito!  Del  resto, 
vendetta,  amore,  addio!  la  mia  vita  finisce.  Me  ne  vado,  inutile, 
con  irrealizzato  il  mio  duplice  sogno:  umiliato  per  non  aver  potuto 
né  punire,  né  conquistare,  e  per  esser  stato  creato  per  odiare,  io  che 
non  ho  saputo  far  altro  che  amare!  Perdonami!  fuggimi!  sono  le  mie 
due  preghiere;  non  le  respingere,  poiché  sono  le  ultime.  Tu  vivi 
ed  io  son  morto.  Non  vedo  perché  ti  faresti  murare  con  me  nella 
mia  tomba. 

DONA  SOL  .  Ingrato! 

HERNANi  -  Montagne  d'Aragona!  Galizia!  Estremadura!  Oh!  io  porto 
disgrazia  a  tutto  ciò  che  mi  circonda!  Ho  preso  i  vostri  figli  mi- 
gliori e  senza  rimorso  li  ho  fatti  combattere  per  rivendicare  i  miei 
diritti;  ed  ecco  che  sono  morti!  Son  caduti  tutti  sulla  montagna, 
tutti  sono  stramazzati  con  la  fronte  in  avanti,  da  prodi,  dinanzi  a 
Dio,  e,  se  i  loro  occhi  si  aprissero,  vedrebbero  il  cielo  azzurro!  Ecco 
come  riduco  tutto  ciò  che  si  lega  a  me!  È  un  destino  tale  da  renderti 
gelosa?  Dona  Sol,  prendi  il  duca,  prendi  l'inferno,  prendi  il  re!  È 
ben  fatto.  Tutto  ciò  che  non  sono  io  vale  più  di  me!  Non  ho  piò 
un  amico  che  si  ricordi  di  me,  tutto  m'abbandona,  è  tempo  che 
venga  anche  il  tuo  turno,  perché  devo  essere  solo.  Fuggi  il  mio  con- 
tagio. Non  farti  una  religione  dell'amore!  Oh!  per  pietà  di  te,  fug- 
gi! Tu  mi  credi  forse  un  uomo  come  tutti  gli  altri,  un  essere  intelli- 
gente, che  va  dritto  alla  mira  agognata.  Disingannati!  Sono  una 
forza  che  va!  Un  cieco  e  sordo  agente  di  misteri  funerei!  Un'anima 
di  duolo  fatta  con  delle  tenebre!  Dove  vado?  Non  lo  so.  Ma  mi  sen- 
to incalzato  da  un  soffio  impetuoso,  da  un  destino  insensato.  Io 
scendo,  scendo,  e  non  mi  fermo  mai.  Se  qualche  volta,  ansimante, 
oso  volger  la  testa,  una  voce  mi  dice:  «Canmiina!»  e  l'abisso  è 
profondo,  e  ne  scorgo  il  fondo  arrossato  o  di  fiamma  o  di  sangue  I 
E  intanto,  intorno  alla  mia  corsa  selvaggia,  tutto  si  spezza,  tutto 
muore.  Sventura  a  chi  mi  tocca!  Oh!  fuggi!  allontanati  dal  mio 
fatale  cammino.  Ahimé!,  senza  volerlo,  potrei  farti  del  male! 

DONA  SOL  -  Gran  Dio! 


HERNANI  49 

HERNANi  -  È  un  dèmone  pericoloso,  il  mio,  ti  dico.  La  mia  felicità, 
ecco  il  solo  prodigio  che  gli  sia  impossibile.  E  tu,  sei  la  felicità! 
Tu  dunque  non  sei  fatta  per  me,  cerca  un  altro  signore.  Va',  se 
mai  una  volta  il  cielo  sorridesse  alla  mia  sorte  che  rinnega...  non 
crederci!  sarebbe  un'ironia!  Sposa  il  duca! 

DONA  SOL  -  Dunque,  non  bastava  ancora!  Avevate  straziato  il  mio 
cuore,  ora  lo  spezzate!  Ah!  non  mi  amate  più! 

HERNANI  -  Oh!  il  mio  cuore  e  la  mia  anima,  sei  tu!  l'ardente  focolare  da 
cui  mi  viene  ogni  fiamma,  sei  tu!  Non  volermene  se  fuggo,  mia 
adorata! 

DONA  SOL  -  Non  ve  ne  voglio.  Soltanto,  ne  morrò. 

HERNANI  -  Morire!  per  chi?  per  me?  È  possibile  che  tu  muoia  per  così 
poco? 

DONA  SOL  (scoppiando  in  lacrime)  -  Ecco  tutto,  {si  accascia  su  una  pol- 
trona) 

HERNANI  (sedendole  accanto)  -  Oh!  tu  piangi!  Ed  è  di  nuovo  per  colpa 
mia!  e  chi  mi  punirà?  Giacché  tu  perdonerai  ancora!  Chi  ti  dirà 
almeno  quello  ch'io  soffro  quando  una  lacrima  spegne  la  fiamma 
dei  tuoi  occhi,  la  cui  luce  è  la  mia  gioia!  Oh!  i  miei  amici  son  mor- 
ti! Oh!  io  sono  un  insensato!  Perdonami.  Vorrei  amare,  e  non  rie- 
sco! Ahimé!  eppure  amo  di  un  amore  cosi  profondo...  Non  pian- 
gere, moriamo  piuttosto!  Perché  non  ho  un  universo?  Te  lo  do- 
nerei! Sono  tanto  infelice! 

DONA  SOL  (gettandogli  le  braccia  ed  collo)  -  Voi  siete  il  mio  leone  su- 
perbo e  generoso!  Vi  amo. 

HERNANI  -  oh!  l'amore  sarebbe  un  bene  supremo,  se  si  potesse  morire 
per  aver  troppo  amato! 

DONA  SOL  -  Ti  amo!  Mio  signore!  vi  amo  e  sono  tutta  vostra! 

HERNANI  {^asciando  cadere  la  testa  sulla  spalla  di  lei)  -  Oh!  quanto  mi 
sarebbe  dolce  una  pugnalata  che  mi  venisse  da  te! 

DONA  SOL  (supplichevole)  -  Come?  Non  temete  che  Dio  vi  punisca 
a  parlare  cosi? 

HERNANI  (sempre  abbandonato  sul  seno  di  lei)  -  Ebbene,  che  esso  ci 
unisca!  Tu  lo  vuoi.  E  sia  cosi!  Ho  resistito  abbastanza! 

{abbracciati,  si  guardano  con  estasi,  senza  vedere,  senza  sentire,  e  co- 
me assorti  nel  loro  sguardo.  Entra  don  Ruy  Gomez  dalla  porta  in 
fondo.  Guarda,  e  si  ferma  come  pietrificato  sulla  soglia) 


4.  •  Teatro  francese 


50  VICTOR   HUGO 


SCENA   QUINTA 

FIERNANI,  DONA   SOL,  DON  RUY  COMEZ 

DON  RUY  GOMEZ  {immobile  sulla  soglia  della  porta,  e  con  le  braccia 
incrociate)  -  È  cosi,  dunque,  che  mi  ripagate  l'ospitalità. 

DONA  SOL  -  Dio!  il  duca!  (tutti  e  due  si  voltano,  come  risvegliati  di 
soprassalto) 

DON  RUY  GOMEZ  (scmprc  immobile)  -  È  dunque  questa  la  mia  ricom- 
pensa, ospite  mio!  Buon  signore,  va'  a  vedere  se  le  mura  sono 
alte,  se  la  porta  è  ben  chiusa  e  se  l'arciere  è  nella  sua  torre,  fai  e  ri- 
fai il  giro  del  tuo  castello  per  noi,  cerca  nell'arsenale  un'armatura 
della  tua  misura,  rimettiti  a  sessant'anni  in  assetto  da  battaglia! 
Ecco  la  lealtà  con  cui  ricamberemo  la  tua  fiducia!  Tu  fai  quello 
per  noi,  e  noi  questo  per  te!  Santi  del  cielo!  Ho  vissuto  più  di 
sessant'anni,  ho  visto  tanti  banditi  dalle  anime  nefande,  e  spesso, 
sfoderando  la  mia  daga,  ho  fatto  levare  davanti  a  me  una  selvag- 
gina da  carnefice;  ho  visto  degli  assassini,  dei  falsari,  dei  traditori, 
dei  falsi  valletti  che  avvelenavano  a  tavola  i  loro  padroni;  ne  ho 
visti  morire  senza  croce  e  senza  preghiere.  Ho  visto  Sforza,  ho  vi- 
sto Borgia,  vedo  Lutero,  ma  non  ho  mai  visto  una  perversità  cosi 
grande  da  non  temere  neppure  la  folgore  nel  tradire  il  proprio 
ospite!  Non  è  cosa  del  mio  tempo.  Un  cosi  nero  tradimento  pie- 
trifica un  vegliardo  sulla  soglia  della  sua  casa,  e  fa  si  che  il  vec- 
chio padrone,  in  attesa  della  morte,  abbia  l'aria  di  una  statua  da 
metter  sulla  sua  tomba!  Mori  e  Castigliani!  Chi  è  quest'uomo? 
{alza  gli  occhi  e  fa  scorrere  lo  sguardo  sui  ritratti  che  ornano  la 
sala)  O  voi,  tutti  i  Silva  che  m'ascoltate  qui,  perdono  se  davanti 
a  voi,  perdono,  se  la  mia  collera  dice  che  l'ospitalità  è  una  cattiva 
consigliera! 

HERNANi  {alzandosi)  -  Duca... 

DON  RUY  GOMEZ  -  Taci!  (fa  lentamente  tre  passi  nella  sala  e  guarda  di 
nuovo  i  ritratti  dei  Silva)  Morti  sacri!  avi!  uomini  di  ferro!  Voi 
che  vedete  quello  che  viene  dal  cielo  e  quello  che  viene  dall'inferno, 
ditemi,  miei  signori,  ditemi,  chi  è  quest'uomo  P  Non  si  chiama 
Hcrnani,  si  chiama  Giuda!  Oh!  cercate  di  parlare  per  dirmi  il  suo 
nome!  (incrocia  le  braccia)  Avete  mai  visto  in  vita  niente  di  si- 
mile? No! 

HERNANi  -  Signor  duca... 


HERNANI  51 

DON  RUY  GOMEZ  (sempTc  rivolto  ai  ritratti)  -  Vedete?  Vuol  parlare, 
l'infame!  Ma  voi  leggete  nella  sua  anima  meglio  ancora  di  me. 
Oh!  non  ascoltatelo!  È  un  furfante!  Prevede  che  il  mio  braccio 
insanguinerà  certo  il  mio  tetto,  che  forse  il  mio  cuore  cova  nella 
sua  furia  qualche  vendetta,  sorella  del  festino  delle  sette  teste*; 
vi  dirà  che  e  proscritto,  vi  dirà  che  si  parlerà  dei  Silva  come  si  parla 
dei  Lara,  e  poi  che  è  mio  ospite  e  poi  che  e  vostro  ospite...  O  miei 
avi,  miei  signori,  guardate:  è  colpa  mia?  Giudicate  voi  fra  noi 
due! 

HERNANI  -  Ruy  Gomez  de  Silva,  se  mai  una  nobile  fronte  s'alzò  verso 
il  cielo,  se  mai  un  cuore  fu  grande,  se  mai  un'anima  fu  eletta,  que- 
sta è  la  vostra,  signore!  è  la  tua,  o  mio  ospite!  Io  che  ti  parlo  qui, 
sono  colpevole  e  non  ho  niente  da  dire,  se  non  che  sono  un  dan- 
nato. Sf,  ho  voluto  prenderti  e  portarti  via  la  tua  donna,  sf,  ho 
voluto  macchiare  il  tuo  letto,  si,  è  una  cosa  infame!  Ho  del  sangue. 
Farai  benissimo  a  versarlo,  asciugar  la  tua  spada  e  non  pensarci 
piò! 

DONA  SOL  -  Signore,  lui  non  ne  ha  colpa!  Colpite  solo  me... 

HERNANI  -  Tacete,  Dona  Sol,  poiché  quest'ora  è  suprema!  Quest'ora 
m'appartiene.  Non  ho  più  che  questa.  Quindi  lasciate  che  ora  io  mi 
spieghi  col  duca.  Duca!  credi  alle  ultime  parole  della  mia  bocca:  lo 
giuro,  sono  colpevole,  ma  sii  tranquillo,  lei  è  pura!  Ecco  tutto.  Io 
colpevole,  lei  pura;  la  tua  fiducia  per  lei,  un  colpo  di  spada  o  di 
pugnale  per  me.  Ecco.  Poi  fa'  gettare  il  mio  cadavere  fuori  della 
porta  e  fa'  lavare  il  pavimento,  se  vuoi,  non  ha  importanza! 

DONA  SOL  -  Ah!  io  sola  ho  fatto  tutto.  Perche  l'amo.  (Don  Ruy  si  volta 
trasalendo  a  questa  parola,  e  fissa  su  Dona  Sol  uno  sguardo  terribile, 
Lei  si  getta  ai  suoi  piedi)  Si,  perdono!  Lo  amo,  mio  signore! 

DON  RUY  coMEZ  -  Voi  l'amate!  {a  Hernani)  Trema  allora!  {rumore  di 
trombe  fuori.  Entra  il  paggio.  Al  paggio)  Che  cos'è  questo  ru- 
more? 

IL  PAGGIO  -  È  il  re  in  persona,  mio  signore,  con  un  seguito  d'arcieri 
e  il  suo  araldo  che  suona. 

DofjA  SOL  -  Dio!  il  re!  È  l'ultimo  colpo! 

IL  PAGGIO  (al  duca)  -  Domanda  perche  la  porta  è  chiusa  e  vuole  che  gli 
si  apra. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Aprite  al  re.  (//  paggio  s'inchina  ed  esce) 

DONA  SOL  -  È  perduto. 


^  Allusione  alla  vendetta  della  famiglia  dei  Lara,  narrata  nel  Rotnancero.  (N. 
d.  T.). 


52  VICTOR  HUGO 

(Don  Ruy  Gamez  va  verso  uno  dei  quadri,  che  è  il  suo  ritratto  e 
Vultimo  a  sinistra;  preme  una  molla,  il  quadro  si  apre  come  una 
porta  e  lascia  vedere  un  nascondiglio  praticato  nel  muro.  Si  volta 
verso  Hernani) 

DON  RUY  GOMEZ  -  Sigtiorc,  ciitratc  qui. 

HERNANI  -  La  mia  testa  è  tua.  Consegnala,  signore.  La  tengo  pronta, 
sono  tuo  prigioniero,  {entra  dentro  il  nascondiglio.  Don  Ruy  pre- 
me di  nuovo  la  molla,  tutto  si  richiude,  e  il  quadro  ritorna  al  suo 
posto) 

DONA  SOL  (al  duca)  -  Signore,  pietà  per  lui! 

IL  PAGGIO  (entrando)  -  Sua  Altezza  il  Re! 

(Dana  Sol  abbassa  precipitosamente  il  velo.  La  porta  si  spalanca  com- 
pletamente. Entra  don  Carlos  in  assetto  di  guerra,  seguito  da  una 
folla  di  gentiluomini  armati  come  lui,  da  alabardieri,  da  archibu- 
gieri, da  balestrieri) 


SCENA   SESTA 

DON  RUY  GOMEZ,   DONA   SOL,    velata,  DON   CARLOS,  il  SCguitO 

(Don  Carlos  si  avanza  a  passi  lenti,  con  la  mano  sinistra  sul  pomo 
della  spada,  la  destra  sul  petto,  e  fissa  sul  vecchio  duca  uno  sguar- 
do pieno  di  diffidenza  e  di  collera.  Il  duca  va  incontro  d  re  e  lo 
saluta  profondamente.  Silenzio.  Attesa  e  terrore  tutf intorno.  Alla 
fine  il  re,  arrivato  in  faccia  al  duca,  alza  bruscamente  la  testa) 

DON  CARLOS  -  Perché  mai  oggi  la  tua  porta  è  così  ben  sprangata,  cu- 
gino mio?  Per  tutti  i  santi!  credevo  che  la  tua  daga  fosse  più  arrug- 
ginita! E  non  sapevo  che,  quando  noi  veniamo  a  trovarti,  avesse 
tanta  fretta  di  brillare  nel  tuo  pugno!  (Don  Ruy  Gomez  vuol  par- 
lare, il  re  prosegue  con  un  gesto  imperioso)  È  un  po'  tardi  per  fare 
il  giovanotto!  Abbiamo  forse  dei  turbanti?  ;ni  chiamano  forse 
Boabdil  e  Maometto,  e  non  Carlos?  rispondi!  perché  abbassi  di 
fronte  a  noi  la  saracinesca  e  alzi  il  ponte? 

DON  RUY  GOMEZ  (inchinandosi)  -  Signore... 

DON  CARLOS  (ai  suoi  gentiluomini)  -  Prendete  le  chiavi!  impadronitevi 
delle  porte!  (due  ufficiali  escono.  Molti  altri  schierano  i  soldati  su 
triplice  fila  nella  sala,  dal  re  fino  alla  porta  grande.  Don  Carlos  si 
volta  di  nuovo  verso  il  duca)  Ah!  voi  risvegliate  le  morte  ribellio- 


HERNANI  53 

ni!  Perdio!  Se  voi  vi  date  queste  arie  con  me,  signori  duchi,  il  re  as- 
sumerà delle  arie  da  re!  e  con  le  mie  mani  armate  andrò  sulle 
montagne  ad  uccidere  le  signorie,  nei  loro  nidi  merlati! 

DON  RUY  GOMEZ  (raddrizzandosi)  -  Altezza,  i  Silva  sono  leali... 

DON  CARLOS  (ifiterrompendolo)  -  Rispondi  senza  ambagi,  duca!  o  farò 
radere  al  suolo  le  tue  undici  torri!  Resta  una  scintilla  dell'incendio 
spento,  resta  un  capo  dei  banditi  morti.  Chi  lo  nasconde?  Sei  tu! 
QueirHernani,  quel  ribelle  che  semina  veleno,  tu  lo  nascondi,  qui 
nel  tuo  castello! 

DON  RUY  GOMEZ  -  È  vero,  signore. 

DON  CARLOS  -  Benissimo.  Voglio  la  sua  testa,  oppure  la  tua.  M'intendi, 
cugino  mio? 

DON  RUY  GOMEZ  {inchinandosi)  -  Poco  importa!  Voi  sarete  soddisfatto. 

(Dona  Soi  nasconde  la  testa  fra  le  mani  e  si  accascia  sulla  poltrona) 

DON  CARLOS  (cdmato)  -  Ah!  confessi!  Va'  a  cercare  il  mio  prigioniero. 

(il  duca  incrocia  le  braccia,  abbassa  la  testa  e  rimane  per  qualche 
momento  sopra  pensiero.  Il  re  e  Dona  Sol  l'osservano  in  silenzio 
e  agitati  da  emozioni  contrarie.  Finalmente  il  duca  rialza  la  testa, 
va  verso  il  re,  gli  prende  la  mano  e  lo  conduce  lentamente  davanti 
al  più  antico  dei  ritratti,  quello  che  inizia  la  galleria  sulla  destra 
dello  spettatore) 

DON  RUY  GOMEZ  (mostrando  al  re  il  vecchio  ritratto)  -  Questi  è  il  capo- 
stipite dei  Silva,  è  l'avo,  l'antenato,  il  grand'uomo!  Don  Silvius, 
che  fu  per  tre  volte  console  di  Roma,  (passando  al  ritratto  seguente) 
Ecco  Don  Galceran  de  Silva,  l'altro  Cid!  Gli  è  consacrato  a  Toro, 
vicino  a  Valladolid,  un  reliquario  dorato  in  cui  sono  accese  mille 
candele.  Liberò  Leon  dal  tributo  delle  cento  vergini  ^  {passando 
ad  un  altro)  Don  Blas,  che,  nella  sua  rettitudine,  si  esiliò  volontaria- 
mente perché  aveva  mal  consigliato  il  re.  (a  un  altro)  Christoval. 
Alla  battaglia  d'Escalona,  Don  Sancho,  il  re,  fuggiva  a  piedi  e  tutti 
i  colpi  si  accanivano  sulla  sua  piuma  bianca;  gridò:  Christoval!  Chri- 
stoval prese  la  piuma  e  dette  il  suo  cavallo,  (a  un  altro)  Don  Jorge, 
che  pagò  il  riscatto  di  Ramiro,  re  d'Aragona. 

DON  CARLOS  (incrociando  le  braccia  e  squadrandolo  dalla  testa  ai  pie- 
di) -  Perdio!  Don  Ruy,  vi  ammiro!  Il  mio  prigioniero! 

DON  RUY  GOMEZ  (passando  a  un  altro)  -  Ecco  Ruy  Gomez  de  Silva» 
gran  signore  di  San  Giacomo  e  di  Calatrava!  La  sua  armatura 


Un  tributo  di  cento  giovani  che  dovevano  essere  inviate  ai  mori.  (N.  d.  T.). 


54  VICTOR   HUGO 

gigantesca  si  adatterebbe  male  alle  nostre  stature.  Prese  trecento 
bandiere,  vinse  trenta  battaglie,  conquistò  al  re  Motril,  Antequera, 
Suez,  Nijar,  e  mori  povero.  Altezza,  salutate,  (s'inchina,  si  scopre, 
e  passa  a  un  altro.  Il  re  lo  ascolta  con  un'impazienza  e  una  collera 
che  diventano  sempre  piti  grandi)  Vicino  a  lui  è  suo  figlio  Gii, 
caro  alle  anime  leali.  La  sua  mano,  per  un  giuramento,  valeva  la 
mano  di  un  re.  (a  un  altro)  Don  Gaspar,  l'onore  di  Mendoza  e  di 
Silva!  Tutte  le  famiglie  nobili  si  sono  interessate  ai  Silva,  signore.  I 
Sandoval  ci  temono  e  s'imparentano  con  noi,  alternativamente.  I 
Manrique  ci  invidiano  e  i  Lara  sono  di  noi  gelosi,  gli  Alencastre 
ci  odiano.  Noi  tocchiamo  contemporaneamente  coi  piedi  tutti  i  du- 
chi, con  la  fronte  tutti  i  re! 

DON  CARLOS  (spazienttto)  -  Vi  burlate  di  me? 

DON  RUY  GOMEZ  (andando  verso  altri  ritratti)  -  Ecco  don  Vasquez, 
detto  il  saggio.  Don  Jayme,  detto  il  Forte.  Un  giorno  fermò  Zamet 
al  suo  passaggio  e  cento  Mori,  da  solo.  Ne  tralascio  alcuni,  e  dei 
migliori,  (a  un  gesto  di  collera  del  re,  tralascia  un  gran  numero 
di  ritratti  e  arriva  subito  ai  tre  ultimi,  sulla  sinistra  dello  spetta- 
tore) Ecco  il  mio  nobile  avo,  visse  sessant'anni,  mantenendo  la  parola 
data,  anche  agli  ebrei,  (al  penultimo)  Questo  vecchio,  questa  testa 
sacra,  è  mio  padre.  Fu  grande,  benché  fosse  l'ultimo.  I  Mori  di 
Granada  avevano  fatto  prigioniero  il  conte  Alvar  Giron,  suo  amico. 
Ma  mio  padre  prese  seicento  soldati  per  andarlo  a  riprendere.  Fece 
scolpire,  in  pietra,  una  statua  che  rappresentava  Alvar  Giron  e  la 
trascinò  dietro  di  sé,  giurando  sul  suo  santo  protettore  di  non  in- 
dietreggiare, a  meno  che  il  conte  di  pietra  non  si  girasse  e  tor- 
nasse indietro  da  sé.  Combatte,  arrivò  fino  al  conte  e  lo  salvò. 

DON  CARLOS  -  Il  mio  prigioniero! 

DON  RUY  GOMEZ  -  Era  un  Gomez  de  Silva.  Ecco  dunque  ciò  che  si  dice 
quando  si  vedono  in  questa  dimora  tutti  questi  eroi... 

DON  CARLOS  -  Il  mio  prigioniero,  subito. 

DON  RUY  GOMEZ  (s' inchina  profondamente  dinanzi  al  re,  gli  prende  la 
mano  e  lo  conduce  davanti  all'ultimo  ritratto,  quello  che  serve  da 
porta  al  nascondiglio  in  aii  ha  fatto  entrare  Hernani,  Dona  Sol  lo 
segue  ansiosamente  con  lo  sguardo.  Attesa  e  silenzio  nell'uditorio)  - 
Questo  ritratto,  è  il  mio.  Re  Don  Carlos,  grazie!  che  voi  volete  che 
si  dica  vedendolo  qui:  «Quest'ultimo,  degno  figlio  di  una  si  nobile 
stirpe,  fu  un  traditore  e  vendette  la  testa  del  suo  ospite!  ». 

{gioia  di  Dona  SoL  Movimento  di  stupore  nell'assemblea.  Il  re,  scon- 
certato, s'allontana  con  collera,  poi  resta  qualche  istante  silenzioso, 
con  le  labbra  tremanti  e  lo  sguardo  di  fiamma) 


HERNANI  55 

DON  CARLOS  -  Duca,  il  tuo  castello  mi  dà  noia,  lo  farò  radere  al  suolo I 

DON  RUY  GOMEZ  -  Chc  voi  mc  lo  paghereste,  Altezza,  non  e  vero? 

DON  CARLOS  -  Duca,  farò  spianare  le  tue  torri  per  tanta  audacia  e  farò 
seminar  la  canapa  al  loro  posto! 

DON  RUY  GOMEZ  -  MegHo  Veder  crescere  la  canapa  là  dove  s'innalzava 
la  mia  torre,  piuttosto  che  intaccare  con  una  macchia  il  vecchio 
nome  dei  Silva,  {ai  ritratti)  O  voi  tutti,  non  è  forse  vero? 

DON  CARLOS  -  Duca!  quella  testa  è  nostra  e  tu  mi  avevi  promesso... 

DON  RUY  GOMEZ  -  Ho  promesso  Tuna  o  l'altra,  (ai  ritratti)  Non  è  vero, 
voi  tutti?    {mostrando  la  sua  testa)  Do  questa,   {al  re)  Prendetela. 

DON  CARLOS  -  Benissimo,  duca.  Ma  io  ci  perdo,  grazie  tante!  La  testa 
che  mi  occorre  è  giovane,  bisogna  che  da  morta  si  possa  prendere 
per  i  capelli.  La  tua?  Che  m'importa!  Invano  il  carnefice  cerche- 
rebbe di  prenderla  per  i  capelli.  Non  ne  hai  abbastanza  per  riem- 
pirgli la  mano! 

DON  RUY  GOMEZ  -  Altezza,  niente  affronti!  la  mia  testa  è  ancora  bella 
e  vale,  credo,  la  testa  di  un  ribelle.  È  la  testa  di  un  Silva,  e  voi  ne 
siete  disgustato! 

DON  CARLOS  -  Consegnaci  Flernani! 

DON  RUY  GOMEZ  -  Veramente,  ho  già  parlato,  signore. 

DON  CARLOS  {ol  SUO  seguìto)  -  Frugate  dovunque!  Che  non  ci  sia  ala, 
cantina  o  torre... 

DON  RUY  GOMEZ  -  La  mia  rocca  è  fedele  come  me.  È  sola  con  me  a 
conoscere  il  mio  segreto.  Lo  sapremo  mantenere  tutti  e  due. 

DON  CARLOS  -  lo  souo  il  re! 

DON  RUY  GOMEZ  -  A  mcno  che  non  vogliate  demolire  il  castello  pietra 
per  pietra  e  assassinarne  il  padrone,  non  avrete  nulla. 

DON  CARLOS  -  Preghiere,  minacce,  tutto  e  inutile!  Consegnami  il  bandito, 
duca!  oppure  butterò  giù  tutto,  testa  e  castello. 

DON   RUY   GOMEZ   -   Ho  dettO. 

DON  CARLOS  -  Ebbene,  allora,  invece  di  una  avrò  due  teste,  {al  duca  d' Ai- 
cala)  Jorge,  arrestate  il  duca! 

DONA  SOL  {strappandosi  il  velo  e  gettandosi  fra  il  re,  il  duca  e  le  guar- 
die) '  Re  Don  Carlos,  siete  un  cattivo  re! 

DON  CARLOS  -  Gran  Dio!  Chi  vedo?  Dofia  Sol. 

DONA  SOL  -  Altezza,  tu  non  hai  il  cuore  di  uno  Spagnolo! 

DON  CARLOS  {turhato  e  titubante)  -  Signora,  siete  molto  severa  col  re. 
{s  avvicina  a  Dona  Sol.  Sottovoce)  Siete  voi  che  mi  avete  messo 
questa  collera  in  petto.  Un  uomo  diventa  angelo  o  demonio  quando 
vi  tocca.  Ah!  quando  si  è  odiati,  si  fa  presto  a  esser  cattivi!  Se  ave- 
ste voluto,  o  fanciulla,  forse  sarei  grande,  quand'anche  fossi  stato 


56  VICTOR   HUGO 

il  leone  di  Castiglia'  Mi  avete  fatto  diventare  una  tigre  col  vostro 
corruccio.  Ed  ecco  che  essa  ruggisce,  signora!  tacete!  {Dona  Sol 
getta  uno  sguardo  su  di  lui.  Egli  s'inchina)  Eppure  obbedirò,  {vol- 
gendosi verso  il  duca)  Cugino  mio,  ti  stimo.  Dopo  tutto,  il  tuo  scru- 
polo può  sembrare  legittimo.  Sii  fedele  al  tuo  ospite,  infedele  al  tuo 
re.  sta  bene.  Ti  faccio  grazia  e  sono  migliore  di  te.  Porto  soltanto 
con  me  tua  nipote  come  ostaggio. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Soltanto! 

DONA  SOL  {interdetta  e  spaventata)  -  Me,  signore? 

DON  CARLOS  -  Si,  VOÌ. 

DON  RUY  ooMEz  -  Niente  di  piti?  o  che  grande  clemenza!  o  generoso 

vincitore  che  risparmia  la  testa  e  tortura  il  cuore!  Bella  grazia! 
DON  CARLOS  -  ScegH.  Dona  Sol,  o  il  traditore.  Mi  occorre  uno  dei  due. 
DON  RUY  GOMEZ  -  Oh!  voi  siete  il  padrone! 

{Don  Carlos  s'avvicina  a  Dona  Sol  per  portarla  via,  Lei  si  rifugia  pres- 
so Don  Ruy  Gomez) 

DONA  SOL  -  Salvatemi,  mio  signore!  {si  ferma  di  colpo,  A  parte)  Infe- 
lice, bisogna!  La  testa  di  mio  zio  o  l'altra!...  Io  piuttosto!  {d  re) 
Vi  seguo. 

DON  CARLOS  {a  portc)  -  Per  tutti  i  santi!  l'idea  è  brillante!  Bisognerà 
addolcirsi  alla  fine,  bimba  mia! 

{Dona  Sol  va  con  passo  grave  e  misurato  al  cofano  che  racchiude  lo 
scrigno,  lo  apre  e  prende  il  pugnale  che  si  nasconde  in  seno.  Don 
Carlos  va  verso  di  lei  e  le  offre  il  braccio) 

DON  CARLOS  {a  Dofia  Sol)  -  Cosa  portate  via? 

DONA  SOL  -  Nulla. 

DON  CARLOS  -  Un  gioiello  prezioso? 

DONA  SOL  -  Si. 

DON  CARLOS  {sorridendo)  -  Vediamo. 

DONA  SOL  -  Vedrete,  {gli  porge  la  mano  e  si  dispone  a  seguirlo.  Don 
Ruy  Gomez,  che  è  rimasto  immobile  e  profondamente  assorto  nei 
suoi  pensieri,  si  volta  e  fa  alcuni  passi  gridando) 

DON  RUY  GOMEZ  -  Dofia  Sol!  terra  e  cielo!  Dona  Sol!  Poiché  gli  uomi- 
ni qui  non  hanno  cuore,  armi  e  mura  aiutatemi!  crollate!  {corre 
verso  il  re)  Lasciatemi  questa  fanciulla,  non  ho  che  lei,  o  mio  re! 

DON  CARLOS  {lasciando  la  mano  di  Dona  Sol)  -  Allora,  il  mio  prigionie- 
ro! 

{il  duca  abbassa  la  testa  e  sembra  in  preda  ad  un'orribile  esitazione; 
poi  si  rialza  e  guarda  i  ritratti,  volgendosi  a  mani  giunte  verso  di 
loro) 


57 


DON  RUY  GOMEZ  -  Tutti  voi  abbiate  pietà  di  me!  {fa  un  passo  verso  il 
nascondiglio  di  Hernani;  Dona  Sol  lo  segue  con  lo  sguardo,  ansio- 
samente. Si  volge  verso  i  ritratti)  Oh!  velatevi!  il  vostro  sguardo  mi 
trattiene!  (s'avanza  barcollando  fino  al  suo  ritratto,  poi  si  volta  an- 
cora verso  il  re)  \jo  vuoi? 

DON  CARLOS  -  Si.  {il  duca  alza  tremando  la  mano  verso  la  molla) 

DONA  SOL  -  Dio! 

DON  RUY  GOMEZ  {colpcndo  il  muro  col  piede)  -  No!  (si  getta  ai  piedi 
del  re)  Per  pietà,  prendi  la  mia  testa! 

DON  CARLOS  -  Tua  nipote! 

DON  RUY  GOMEZ  (rialzandosi)  -  Prendila,  allora!  e  lasciami  l'onore! 

DON  CARLOS  (afferrando  la  mano  di  Dona  Sol  tutta  tremante)  -  Addio, 
duca. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Arrivederci!  (segue  con  lo  sguardo  il  re,  che  si  ritira 
lentamente  con  Dona  Sol;  poi  mette  la  mano  sul  pugnale)  Dio  vi 
guardi,  signore! 

(ritoma  sul  proscenio,  ansante,  immobile,  senza  vedere  né  sentire  pia 
nulla,  con  lo  sguardo  fisso,  le  braccia  incrociate  sul  petto,  che  le 
solleva  come  se  fossero  scosse  da  movimenti  convulsi.  Intanto  il  re 
esce  con  Dona  Sol,  e  tutto  il  seguito  dei  signori  esce  dopo  di  lui, 
due  a  due,  gravemente,  e  ciascuno  al  proprio  posto.  Parlano  a  bassa 
voce  fra  di  loro) 

DON  RUY  GOMEZ  (a  parte)  -  Re!  mentre  esci  felice  dalla  mia  casa,  la  mia 
vecchia  lealtà  abbandona  il  mio  cuore  che  piange. 

(alza  gli  occhi,  si  guarda  intomo  e  vede  che  è  solo.  Corre  al  muro, 
stacca  due  spade  da  una  panoplia,  le  misura  tutte  e  due,  poi  le 
posa  su  una  tavola.  Fatto  questo,  va  verso  il  ritratto,  spinge  la  molla, 
la  porta  nascosta  si  riapre) 


SCENA   SETTIMA 

DON   RUY   GOMEZ,    HERNANI 

DON  RUY  GOMEZ  -  Esci.  (Hcmani  appare  alla  porta  del  nascondiglio. 
Don  Ruy  gli  indica  le  due  spade  sulla  tavola)  Scegli.  Don  Carlos 
è  andato  via  di  qui.  Si  tratta  ora  di  darmi  soddisfazione.  Scegli! 
£  facciamo  presto.  Suvvia!  la  tua  mano  trema! 

HERNANI  -  Un  duello!  Vecchio,  non  possiamo  combattere  insieme! 


58  VICTOR   HUGO 

DON  RUY  GOMEZ  -  E  pcrché?  Hai  paura?  Non  sci  nobile?  Airinfcmo! 
Nobile  o  no,  qualsiasi  uomo  che  m'offende  è  abbastanza  gentiluomo 
per  incrociare  il  ferro  col  ferro! 

HERNANI  -  Vecchio... 

DON  RUY  GOMEZ  -  Vieni  ad  uccidermi  o  a  morire,  giovanotto! 

HERNANI  -  Morire,  si.  Mi  avete  salvato  contro  la  mia  volontà.  La  mia 
vita  è  dunque  vostra.  Riprendetela. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Lo  vuoi?  {ai  ritratti)  Vedete  che  lo  vuole,  (a  Her- 
nani)  Sta  bene.  Di'  le  tue  preghiere. 

HERNANI  -  Oh!  è  a  te,  signore,  che  rivolgo  l'ultima. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Parla  all'altro  Signore! 

HERNANI  -  No,  no,  a  te!  Vecchio,  colpiscimi.  Tutto  va  bene,  daga,  spada 
o  pugnale!  Ma,  per  pietà,  dammi  questa  gioia  suprema!  Duca!  fa' 
che  la  veda  prima  di  morire. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Vederla! 

HERNANI  -  Concedimi  almeno  ch'io  senta  la  sua  voce  un'ultima  voltai 
nient'altro  che  una  volta! 

DON  RUY  GOMEZ  -  Sentirla! 

HERNANI  -  Oh!  capisco  la  tua  gelosia,  signore!  Ma  la  mia  giovinezza  è 
già  ghermita  dalla  morte,  perdonami.  Dimmi,  vuoi  che,  senza  ve- 
derla,  se  necessario,  la  senta?  e  morirò  stasera.  Sentirla  soltanto! 
esaudisci  il  mio  desiderio!  Ma,  oh!  come  morirei  serenamente,  se 
tu  mi  concedessi  che,  prima  di  fuggire  in  cielo,  la  mia  anima  rive- 
desse la  sua  nei  suoi  occhi!  Non  le  dirò  niente,  tu  sarai  presente, 
padre  mio!  Mi  prenderai  dopo! 

DON  RUY  GOMEZ  {indicando  il  nascondiglio  ancora  aperto)  -  Santi  del 
cielo!  Quel  rifugio  è  dunque  cosi  profondo,  cosi  sordo,  cosi  sper- 
duto, da  non  far  sentire  nulla? 

HERNANI  -  Non  ho  Sentito  nulla. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Souo  stato  obbligato  a  consegnare  o  Dona  Sol,  o  te. 

HERNANI  -  Consegnarla  a  chi? 

DON  RUY  GOMEZ  -  Al  re! 

HERNANI  -  Vecchio  stupido!  l'ama! 

DON  RUY  GOMEZ  -  L'ama! 

HERNANI  -  Ce  la  porta  via!  è  nostro  rivale! 

DON. RUY  GOMEZ  -  Maledizione!  O  miei  vassalli!  a  cavallo,  a  cavallo  in- 
seguiamo il  rapitore! 

HERNANI  -  Ascolta.  La  vendetta  dal  passo  sicuro  è  quella  che  fa  meno 
rumore  per  la  strada.  Io  t'appartengo.  Puoi  uccidermi.  Ma  vuoi  in- 
vece adoperarmi  a  vendicare  tua  nipote  e  la  sua  virtù?  Dammi  la 
mia  parte  nella  tua  vendetta!  oh!  fammi  questa  grazia  e,  se  devo 


HERNANI  59 

baciarti  i  piedi,  io  te  li  bacio!  Seguiamo  il  re  tutti  e  due!  Vieni,  io 
sarò  il  tuo  braccio,  ti  vendicherò,  duca.  Dopo  mi  ucciderai! 
DON  Ruy  GOMEZ  -  Sarai  allora  cosi  consenziente  come  oggi? 

HERNANI  -  Si,   duca. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Su  cHc  cosa  lo  giuri? 

HERNANI  -  Sulla  testa  di  mio  padre! 

DON  RUY  ooMEZ  -  Vorrai  un  giorno  ricordartene  da  te  stesso? 

HERNANI  (offrendogli  il  corno  che  si  stacca  dalla  cintura)  -  Senti.  Pren- 
di questo  corno.  Qualunque  cosa  accada,  quando  tu  vorrai,  signore, 
in  qualsiasi  luogo,  a  qualsiasi  ora,  se  ti  verrà  in  mente  che  è  tempo 
ch'io  muoia,  vieni,  suona  questo  corno  e  non  ti  preoccupare  d'altro. 
Tutto  sarà  compiuto! 

DON  RUY  GOMEZ  {tendendogli  la  mano)  -  La  tua  mano,  {si  stringono  la 
mano.  Ai  ritratti)  Voi  tutti,  siate  testimoni! 


ATTO    QUARTO 


LA     TOMBA 

Aquisgrana. 

I  sotterranei  che  contengono  la  tomba  di  Carlomagno  ad  Aquisgrana.  Gran- 
di volte  d'architettura  romanica.  Grossi  pilastri  bassi,  archi  a  tutto  sesto,  capi- 
telli raffiguranti  uccelli  e  fiori.  A  destra,  la  tomba  di  Carlomagno  con  una  por- 
ticina di  bronzo,  bassa  e  a  volta.  Una  sola  lampada  sospesa  a  una  chiave  di  volta 
ne  rischiara  l'iscrizione:  «  Carolo  Magno  ».  È  notte.  Non  si  vede  il  fondo  del 
sotterraneo;  lo  sguardo  si  perde  fra  le  arcate,  le  scale  e  i  pilastri  che  s'incro- 
ciano nell'ombra. 

SCENA   PRIMA 

DON  CARLOS,  DON  RicARDo  DE  ROXAS,  contc  di  CasafHtlma,  con  una  lan- 
terna in  mano.  Grandi  mantelli,  cappelli  calati  sugli  occhi 

DON  RicARDo  {col  Cappello  in  mano)  -  È  qui. 

DON  CARLOS  -  È  qui  che  si  riunisce  la  lega!  È  qui  che  li  terrò  in  pugno, 
tutti  insieme!  Ah!  signor  elettore  di  Treviri,  è  qui!  Voi  prestate 
loro  questo  luogo!  Certo,  e  scelto  bene!  Un  nero  complotto  pro- 
spera all'aria  delle  catacombe!  Torna  bene  affilare  gli  stiletti  sulle 


60  VICTOR   HUGO 

tombe!  Eppure  giocano  grosso.  La  testa  è  in  gioco,  signori  assas- 
sini! e  vedremo.  Perdio!  Fanno  bene  a  scegliere  un  sepolcro  per 
un  simile  affare,  avranno  poi  da  percorrere  meno  cammino,  {a 
Don  Ricardo)  Fin  dove  si  estendono  questi  sotterranei? 

DON  RicARDo  -  Sino  alla  fortezza. 

DON  CARLOS  -  È  piu  del  necessario. 

DON  RicARDo  -  Altri,  da  questa  parte,  vanno  fino  al  monastero  di  Al- 
tenheim... 

DON  CARLOS  -  Dovc  Rodolfo  Sterminò  Lotario.  Bene.  Conte,  ripetetemi 
ancora  una  volta  i  nomi  e  le  colpe,  e  dove,  come,  perché. 

DON   RICARDO   -   GotHa. 

DON  CARLOS  -  Lo  SO  perché  il  coraggioso  duca  cospira.  Vuole  un  tedesco 
di  Germania  alla  testa  dell'Impero. 

DON  RICARDO  -  Hohenbourg. 

DON  CARLOS  -  Hohcnbourg  preferirebbe,  credo,  Tinferno  con  Francesco  * 
che  il  cielo  con  me. 

DON  RICARDO  -  Don  Gii  Tellez  Giron. 

DON  CARLOS  -  CastigHa  e  Nostra  Signora!  Si  rivolta  dunque  contro  il  suo 
re,  rinfame! 

DON  RICARDO  -  SÌ  dice  che  vi  abbia  trovato  con  sua  moglie,  la  sera  in 
cui  lavete  fatto  barone.  Vuol  vendicare  l'onore  della  sua  tenera 
compagna. 

DON  CARLOS  -  Vuol  dire  allora  che  si  rivolta  contro  la  Spagna.  Chi  c*è 
ancora? 

DON  RICARDO  -  Insieme  a  questi,  si  parla  del  reverendo  Vasqucz,  vesco- 
vo di  Avila. 

DON  CARLOS  -  Anche  lui  per  vendicare  la  virtù  di  sua  moglie? 

DON  RICARDO  -  Poi  Guzman  de  Lara,  scontento  perché  reclama  il  col- 
lare del  vostro  ordine. 

DON  CARLOS  -  Ah!  Guzman  de  Lara!  Se  non  vuole  altro  che  un  collare, 
l'avrà. 

DON  RICARDO  -  Il  duca  di  Lutzelbourg.  Quanto  ai  piani  che  gli  si  attri- 
buiscono... 

DON  CARLOS  -  Il  duca  di  Lutzelbourg  è  troppo  alto  di  tutta  quanta  la 
sua  testa. 

DON  RICARDO  -  Juan  de  Haro,  che  vuole  Astorga. 

DON  CARLOS  -  Questi  Haro  hanno  sempre  fatto  raddoppiare  la  paga 
del  carnefice. 

DON  RICARDO  -  Non  ce  ne  sono  altri. 


*  Francesco  I,  re  di  Francia.  (N.  d.  T.). 


HERNANI  61 

DON  CARLOS  -  Ma  noii  sono  tutti.  Ne  avete  nominati  solo  sette,  conte,  e 
il  mio  conto  non  torna. 

DON  RicARDO  -  Ah!  non  parlo  di  qualche  bandito  ingaggiato  dall'elettore 
di  Treviri  o  dalla  Francia... 

DON  CARLOS  -  Uomini  senza  pregiudizi,  col  pugnale  sempre  pronto  e 
che  si  volta  dalla  parte  di  chi  offre  di  più,  come  Tago  della  bussola 
verso  il  polo! 

DON  RicARDo  -  Ho  notato  tuttavia  due  tipi  arditi,  arrivati  da  poco  tutti 
e  due.  Uno  giovane,  uno  vecchio. 

DON  CARLOS  -  I  loro  nomi?  (Don  Ricardo  si  stringe  nelle  spalle,  per 
indicare  che  non  li  conosce)  L*età? 

DON  RicARDo  -  Il  più  giovane  ha  vent'anni. 

DON  CARLOS  -  Peccato. 

DON  RicARDo  -  Il  vecchio,  almeno  sessanta. 

DON  CARLOS  -  Uno  nou  ha  ancora  Tetà  e  l'altro  non  l'ha  più.  Poco  im- 
porta. Me  ne  occuperò.  Il  boia  può  contare  sul  mio  aiuto,  se  sarà 
necessario.  Ah!  conte,  la  mia  spada  non  vuol  certo  mostrarsi  mite 
verso  i  faziosi,  e  gliela  presterò,  se  la  sua  scure  dovesse  smussarsi; 
e,  se  sarà  necessario  allargare  il  lenzuolo  del  patibolo,  cucirò  ad  esso 
il  mio  manto  imperiale.  Ma  riuscirò  veramente  ad  essere  impera- 
tore? 

DON  RicARDo  -  A  quest'ora  il  collegio,  riunito  in  assemblea,  delibera. 

DON  CARLOS  -  Nomineranno  Francesco  I,  che  so?  o  il  loro  sassone,  il 
loro  Federico  il  Saggio!  Ah!  Lutero  ha  ragione,  tutto  va  male!  Bei 
coniatori  di  sacre  maestà!  che  non  accettano  per  ragioni  che  le  ra- 
gioni dorate!  Un  sassone  eretico!  un  conte  palatino  imbecille!  un 
primate  di  Treviri  libertino!  Quanto  al  re  di  Boemia,  lui  è  dalla  mia 
parte.  Dei  principi  d'Assia,  ancor  più  piccoli  dei  loro  principati! 
dei  giovani  idioti!  dei  vecchi  sibariti!  Delle  corone,  certo,  ce  ne  soho; 
ma  delle  teste?  cercatele!  È  un'assemblea  ridicola  di  nani,  che  potrei 
portar  via  nella  mia  pelle  di  leone  come  fece  Ercole!  e  che,  privi 
del  mantello  violaceo,  mostrebbero  un  cervello  che  varrebbe  ancor 
meno  di  quello  di  Triboulet.  Mi  mancano  tre  voti,  Ricardo!  mi 
manca  tutto!  Oh!  darei  Gand,  Toledo  e  Salamanca,  amico  mio,  tre 
città  a  loro  scelta  per  tre  voti,  se  accettassero!  Vedi,  per  questi  tre 
voti,  SI,  darei  tre  delle  mie  città  di  Castiglia  o  di  Fiandra!  salvo, 
poi,  riprendermele!  {Don  Ricardo  saluta  profondamente  il  re  e 
si  mette  il  cappello  in  testa)  Vi  coprite? 

DON  RicARDo  -  Signore,  mi  avete  dato  del  tu.  (salutando  di  nuovo)  Ec- 
comi grande  di  Spagna. 

DON  CARLOS  (a  portc)  '  Ah!  mi  fai  pietà,  misero  ambizioso!  Genia  ve- 


62  VICTOR   HUGO 

naie!  Anche  mentre  ci  ascoltano,  seguono  sempre  il  loro  pensiero! 
Pollaio,  in  cui  il  re  sbriciola  a  tutti  questi  famelici  una  grandezza 
ch'essi  vanno  mendicando  senza  pudore!  (pensoso)  Solo  Dio  e  l'im- 
peratore sono  grandi!  e  il  santo  padre!  Il  resto,  re  e  duchi,  cosa 
sono? 

DON  RicARDo  -  Spero  che  sceglieranno  vostra  Altezza! 

DON  CARLOS  (a  pOTte)  -  Altezza,  altezza  io!  Ho  sfortuna  in  tutto.  Se  do- 
vessi rimanere  re! 

DON  RicARDo  (a  poTtc)  -  Pace!  imperatore  o  no,  eccomi  grande  di  Spa- 
gna! 

DON  CARLOS  -  Appena  avranno  nominato  l'imperatore  di  Germania,  qua- 
le segnale  annuncerà  il  suo  nome  alla  città? 

DON  RicARDo  -  Se  Sarà  il  duca  di  Sassonia,  un  solo  colpo  di  cannone. 
Se  sarà  il  Francese,  due.  Tre,  se  sarà  vostra  Altezza. 

DON  CARLOS  -  E  questa  Dona  Sol!  Tutto  m'irrita  e  mi  ferisce!  Conte,  se 
per  caso  sarò  nominato  imperatore,  corri  a  cercarla.  Forse  accet- 
terà un  Cesare! 

DON  RicARDO  (sorrìdendo)  -  Vostra  Altezza  e  molto  buona! 

DON  CARLOS  (interrompcndo  con  sussiego)  -  Ah!  su  questo,  silenzio! 
Non  ho  ancora  detto  che  cosa  voglio  che  si  pensi.  Quando  si  saprà 
il  nome  dell'eletto? 

DON  RicARDo  -  Ma,  al  più  tardi  fra  un'ora,  credo. 

DON  CARLOS  -  Oh!  tre  voti!  solo  tre!  Ma  schiacciamo  prima  questo  bran- 
co di  cospiratori,  e  vedremo  poi  di  chi  sarà  l'impero,  (conta  sulle 
dita  e  batte  i  piedi)  Sempre  tre  voti  di  meno!  Ah!  son  loro  che  han- 
no in  mano  la  decisione!  Eppure,  quel  Cornelio  Agrippa  la  sa  lun- 
ga! Ha  visto  nell'oceano  celeste  tredici  stelle  venire  dal  Nord  verso 
la  mia,  a  vele  spiegate.  Avrò  l'impero,  via!  Ma  d'altra  parte  si  dice 
che  l'abate  Giovanni  Tritheim  l'abbia  predetto  a  Francesco.  Avrei 
dovuto,  per  chiarir  meglio  la  mia  sorte,  aiutare  la  profezia  con 
qualche  armamento!  Tutte  le  predizioni  del  più  abile  mago  si  av- 
verano più  facilmente,  e  meglio,  quando  un  buon  esercito  con 
cannoni  e  picche,  fanteria,  cavalleria,  fanfara  e  musica,  è  pronto  a 
mostrar  la  strada  ad  una  sorte  che  vacilla,  serve  loro  da  levatrice 
e  la  fa  partorire.  Chi  è  più  bravo,  Cornelio  Agrippa?  o  Giovanni 
Tritheim?  È  colui  che  spiega  il  suo  sistema  con  un  esercito,  che 
mette  un  ferro  di  lancia  in  cima  alle  sue  parole,  ed  ha  migliaia 
di  soldatacci,  lanzichenecchi  o  banditi,  il  cui  stocco,  aggiustando  la 
fortuna  imperfetta,  crea  i  fatti  secondo  il  desiderio  del  profeta. 
Poveri  pazzi,  quelli  che  con  lo  sguardo  ardito,  la  fronte  alta,  pun- 
tano dritto  all'impero  del  mondo  e  dicono:   È  mio  diritto!  Hanno 


HERNANI  63 

tanti  cannoni,  allineati  su  lunghe  file,  le  cui  bocche  infuocate  fa- 
rebbero fondere  delle  città;  hanno  vascelli,  soldati,  cavalli,  e  siete 
convinti  che  marceranno  dritti  allo  scopo,  schiacciando  le  popola- 
zioni annientate...  Basta!  Al  grande  incrocio  della  fortuna  umana 
che  ci  porta  nell'abisso  più  facilmente  che  sul  trono,  appena  fatti 
tre  passi,  eccoli  invece  indecisi,  incerti;  esitano,  poco  sicuri  di  loro 
stessi,  cercando  invano  di  leggere  nel  libro  del  destino,  e  nel  dub- 
bio vanno  a  chiedere  al  negromante  dell'angolo  quale  sia  la  loro 
strada!  (a  Don  Ricardo)  Vattene.  È  Torà  in  cui  devono  arrivare  i 
congiurati.  Ah!  la  chiave  della  tomba? 

DON  RiCARDo  (conscgnondo  la  chiave  al  re)  -  Signore,  ricordatevi  del 
conte  di  Limburgo,  guardiano  del  capitolo,  che  me  l'ha  confidata  e 
ha  fatto  tanto  per  compiacervi. 

DON  CARLOS  {congedandolo)  -  Fa*  tutto  ciò  che  ho  detto!  tutto! 

DON  RicARDo  {inchinandosi)  -  Subito,  Altezza! 

DON  CARLOS  -  Ci  vogliouo  tre  colpi  di  cannone,  vero? 

{Don  Ricardo  s'inchina  ed  esce,  Don  Carlos,  rimasto  solo,  cade  in  una 
profonda  meditazione.  Incrociando  le  braccia,  reclina  la  testa  sul  pet- 
to; poi  la  rialza  e  si  volge  verso  la  tomba) 


SCENA   SECONDA 

DON   CARLOS,   SOlo 

Perdono,  Carlomagno!  queste  volte  solitarie  dovrebbero  riecheg- 
giare solo  parole  austere.  Tu  sei  senza  dubbio  indignato  del 
brusio  che  fanno  sul  tuo  monumento  le  nostre  ambizioni.  Carlo- 
magno  è  qui!  Come  puoi,  o  cupo  sepolcro,  racchiudere  un'ombra 
COSI  grande  senza  spezzarti?  Sei  proprio  qui,  gigante  creatore  di 
un  mondo,  e  puoi  entrarci  tutto  quanto?  Ah!  è  uno  spettacolo  da 
far  sognare,  l'Europa  fatta  cosi  e  da  lui  lasciata  cosi!  Un  edificio, 
con  alla  testa  due  uomini,  due  capi  eletti  ai  quali  s'inchina  ogni  re. 
Quasi  tutti  gli  stati,  ducati,  feudi  militari,  regni,  marchesati,  tutti 
sono  ereditari;  ma  il  popolo  ha  talvolta  il  suo  papa  o  il  suo  cesare; 
tutto  procede  e  il  caso  corregge  il  caso.  Da  ciò  viene  l'equilibrio  e 
ovunque  risplende  l'ordine.  Elettori  in  veste  d'oro,  cardinali  in 
scarlatto  —  un  doppio  senato  sacro,  dinanzi  a  cui  si  commuove  tut- 
ta la  terra  —  non  sono  là  che  in  parata,  e  Dio  vuole  ciò  che  vuole. 


64  VICTOR   HUGO 

Se  un'idea  si  manifesta  un  giorno,  per  necessità  dei  tempi,  ingran- 
disce, va,  corre,  si  mescola  ad  ogni  cosa,  si  fa  uomo,  s'impadronisce 
dei  cuori,  scava  un  solco;  parecchi  re  la  calpesteranno,  oppure  la 
imbavaglieranno.  Ma  fate  che  essa  entri  un  giorno  alla  dieta  o  al 
conclave,  e  tutti  i  re  vedranno  improvvisamente  quell'idea  prima 
schiava  sorgere,  con  il  glolx)  in  mano  o  con  la  tiara  in  fronte,  so- 
pra le  loro  teste  di  re,  che  i  suoi  piedi  faranno  curvare.  Il  papa 
e  l'imperatore  sono  tutto.  Non  c'è  niente  sulla  terra  che  non  sia 
fatto  per  loro  o  per  mezzo  di  loro.  Un  mistero  supremo  vive  in 
essi,  e  il  cielo,  di  cui  godono  tutti  i  diritti,  prepara  loro  un  gran 
festino  di  popoli  e  di  re,  e  li  tiene  soli,  sotto  la  sua  nuvola  in  cui 
rumoreggia  il  tuono,  seduti  ad  una  tavola  su  cui  Iddio  serve  loro 
il  mondo.  Essi  sono  là,  uno  di  fronte  all'altro,  a  regolare  e  a  divi- 
dere, sistemando  l'universo  come  fa  il  contadino  per  il  suo  campo. 
Tutto  viene  deciso  fra  loro.  I  re  stanno  alla  porta,  a  respirare  l'odo- 
re delle  vivande  che  vengono  portate  e  a  guardare  attraverso  i  vetri, 
attenti,  annoiati,  alzandosi  sulla  punta  dei  piedi  per  vedere.  Il 
mondo  si  ripartisce  o  si  raggruppa  sotto  di  loro.  Essi  fanno  e  disfan- 
no. L'uno  scioglie  e  l'altro  taglia.  L'uno  è  la  verità,  l'altro  è  la 
forza.  Hanno  la  loro  ragione  in  se  stessi,  e  sono  perché  sono.  Quan- 
do escono  dal  santuario,  tutti  e  due  uguali,  l'uno  avvolto  nella  sua 
porpora,  l'altro  nella  sua  bianca  veste,  l'universo  abbagliato  con- 
templa con  terrore  le  due  metà  di  Dio,  il  papa  e  l'imperatore. 
L'imperatore,  l'imperatore,  essere  l'imperatore!  Che  rabbia  non  es- 
serlo! e  sentirsi  il  cuore  pieno  di  coraggio!  Quanto  fu  felice  colui 
che  dorme  in  questa  tomba!  Come  fu  grande!  Ai  suoi  tempi  era 
ancora  più  bello!  Il  papa  e  l'imperatore!  Non  erano  piò  due  uomini! 
Pietro  e  Cesare!  riunire  in  essi  le  due  Rome,  fecondare  l'una  e 
l'altra  in  un  mistico  accoppiamento,  ridare  al  genere  umano  una 
forma,  un'anima,  rifondere  i  popoli  in  blocco  e  i  regni  alla  rin- 
fusa, per  farne  un'Europa  nuova,  e  tutti  e  due,  con  le  loro  mani, 
ridar  forma  a  quel  bronzo  che  ancora  restava  del  vecchio  mondo 
romano!  oh  che  destino!  Eppure  questa  tomba  è  la  sua!  Tutto,  dun- 
que, è  cosi  poca  cosa  che  debba  sempre  finire  qui?  Come!  essere 
stato  principe,  imperatore  e  re!  Essere  stato  la  spada,  essere  stato  la 
legge!  Gigante,  aver  avuto  per  piedistallo  la  Germania!  Come!  avere 
avuto  il  titolo  di  cesare  ed  essersi  chiamato  Carlomagno!  essere  stato 
più  grande  di  Annibale,  più  grande  di  Attila,  grande  quanto  il 
mondo!...  ed  esser  ridotto  qui.  Ah!  ambite  pure  l'impero,  ma  guar- 
date la  polvere  che  fa  un  imperatore!  Coprite  la  terra  intera  di 


Una  scena  del  terzo  alto  di  Ruy  Bios,  di  Victor  Hugo,  al  Thcàtrc  de  la  Renaissance. 


HERNANI  65 

grida  e  di  tumulti;  create,  costruite  il  vostro  impero,  e  non  dite 
mai:  Basta  cosi!  Sbozzate  a  larghe  falde  un  edifìcio  immenso!  Sape- 
te che  cosa  ne  rimarrà  un  giorno?  o  follia!  questa  pietra!  £  del 
titolo,  e  del  nome  pieno  di  trionfi?  Qualche  lettera,  per  far  silla- 
bare i  bambini!  Per  quanto  alto  sia  lo  scopo  a  cui  orgogliosamente 
aspirate,  ecco  qual  è  la  fine!  Oh!  l'impero,  l'impero!  che  m'impor- 
ta! L'ho  vicino  e  lo  trovo  di  mio  gradimento.  Qualcosa  mi  dice: 
L'avrai!  L'avrò.  Se  l'avessi!...  O  cielo!  essere  l'inizio  di  tutto!  Solo, 
in  piedi,  sul  punto  più  alto  dell'enorme  spirale!  Essere  la  chiave  di 
volta  di  una  folla  di  Stati  posti  l'uno  sull'altro,  e  vedere  allineati 
sotto  di  sé  i  re,  e  poggiare  i  piedi  sulle  loro  teste;  e  sotto  i  re  vedere 
le  casate  feudali,  margravi,  cardinali,  dogi,  duchi  blasonati;  poi  ve- 
scovi, abati,  capi  di  clan,  grandi  baroni,  poi  uomini  di  cultura  e 
soldati;  poi,  lontano  dalla  cima  su  cui  ci  troviamo,  nell'ombra,  pro- 
prio in  fondo  all'abisso,  gli  uomini.  Gli  uomini!  cioè  una  folla,  un 
mare,  un  gran  rumoreggiare,  pianti  e  grida,  a  volte  una  risata 
amara  oppure  una  supplica  che,  risvegliando  la  terra  spaventata, 
quando  ci  giunge  attraverso  tanti  echi,  è  fanfara!  gli  uomini!  Del- 
le città,  delle  torri,  un  grande  sciame,  degli  alti  campanili  per 
suonare  a  stormo!  {pensieroso)  Base  di  nazioni  che  portano  sulle 
sue  spalle  l'enorme  piramide  appoggiata  ai  due  poli;  flutti  viventi 
che,  stringendola  sempre  nel  loro  seno,  la  fanno  ondeggiare,  bar- 
collante, col  loro  vasto  rollio,  fanno  cambiar  posto  a  tutto,  e  sa, 
nelle  alte  sfere,  fanno  vacillare  i  troni  come  se  fossero  sgabelli,  tan- 
to che  tutti  i  re,  ponendo  fine  alle  loro  vane  querele,  alzano  gli  oc- 
chi al  cielo...  Re!  guardate  in  basso!  Ah!  il  popolo!  oceano!  onda 
sempre  in  movimento,  in  cui  non  si  può  gettar  nulla  senza  che 
tutto  si  agiti!  Onda  che  stritola  un  trono  e  culla  una  tomba!  Spec- 
chio in  cui  raramente  i  re  si  vedono  belli!  Ah!  se  si  guardasse  qual- 
che volta  in  quest'onda  cupa,  si  vedrebbero  sul  suo  fondo  innu- 
merevoli imperi,  come  grandi  vascelli  naufragati  che  il  flusso  e 
riflusso  rotola  inerti,  essi  che  un  tempo  la  molestavano  e  che  ora 
invece  non  conosce  più!  Governare  tutto  questo!  Salire,  se  si  è  no- 
minati, fino  a  quella  vetta!  Salirvi,  sapendo  che  non  si  è  altro  che 
un  uomo!  Avere  l'abisso,  là!...  Che  almeno  non  mi  prenda  un  ca- 
pogiro in  quel  momento!  Oh!  piramide  oscillante  di  stati  e  di  re, 
quanto  è  stretta  la  tua  cima!  Guai  al  piede  esitante!  A  chi  m'aggrap- 
però? Oh!  se  vacillassi  sentendo  trasalire  il  mondo  sotto  i  miei 
piedi,  sentendo  vivere  e  palpitare  la  terra  nelle  sue  scaturigini! 
E  poi,  quando  avrò  questo  globo  in  mano,  che  ne  farò?  Riuscirò 


5.  •  Teatro  frar4:ese 


66  VICTOR   HUGO 

almeno  a  portarlo?  Che  cosa  ho  in  me?  Essere  imperatore,  mio 
Dio!  era  già  troppo  essere  re!  Certo,  solo  un  mortale  di  stirpe  poco 
comune  può  render  grande  la  sua  anima  quanto  è  grande  la  sorte. 
Ma  io!  chi  mi  farà  grande?  chi  sarà  la  mia  legge?  chi  mi  consi- 
glierà? (si  getta  in  ginocchio  dinanzi  alla  tomba)  Carlomagno!  tu 
lo  puoi!  Ah!  giacché  Iddio,  di  fronte  al  quale  si  appiana  ogni  osta- 
colo, prende  le  nostre  due  maestà  e  le  pone  faccia  a  faccia,  met- 
timi in  cuore,  dal  profondo  di  questa  tomba,  qualcosa  di  grande,  di 
sublime  e  di  bello!  Oh!  fammi  vedere  tutti  gli  aspetti  di  ogni  cosa, 
mostrami  la  piccolezza  del  mondo,  perché  non  oso  toccarlo!  Mo- 
strami che  su  questa  Babele,  che,  dal  pastore  a  Cesare,  s'innalza 
fino  al  cielo,  ciascuno  si  compiace  ed  è  felice  del  proprio  stato,  guar- 
da Taltro  dal  basso  e  si  trattiene  dal  riderne.  Insegnami  ì  tuoi  se- 
greti per  vincere  e  per  regnare,  e  dimmi  che  è  meglio  punire  che 
perdonare!  Non  è  vero?  Se  talvolta  una  grande  ombra  si  sve- 
glia nel  suo  letto  solitario  al  rumore  che  fa  la  terra,  e  se  la  sua 
tomba  si  apre  improvvisamente  grande  e  luminosa  tanto  che  nel- 
la notte  illumina  il  mondo  con  un  lampo,  se  questo  è  vero,  oh! 
dimmi,  imperatore  di  Germania,  dimmi  che  cosa  si  può  fare  dopo 
Carlomagno!  Parla!  anche  se,  parlando,  il  tuo  soffio  sovrano  dovesse 
spezzarmi  questa  porta  di  bronzo  sulla  fronte!  O  piuttosto,  lasciami 
entrar  solo  nel  tuo  santuario,  lasciami  vedere  la  tua  maschera  mor- 
tuaria, non  respingermi  con  un  soffio  possente,  sollevati  sul  tuo 
capezzale  di  pietra.  Parliamo.  Si,  anche  se,  con  la  tua  voce  fatale, 
tu  dovessi  dirmi  cose  che  rendono  cupo  lo  sguardo  e  pallida  la 
fronte!  Parla  e  non  accecare  questo  tuo  figlio  spaventato,  perché 
la  tua  tomba  è  certamente  piena  di  luce!  Oppure,  se  non  vuoi  dir 
nulla,  lascia  che  in  questa  tua  pace  profonda  Carlos  studi  la  tua 
testa  come  studierebbe  un  mondo;  lascia  che  ti  misuri  con  comodo, 
o  gigante,  perché  niente  quaggiù  è  più  grande  del  tuo  nulla.  Che 
in  mancanza  della  tua  ombra,  sia  la  tua  cenere  a  consigliarmi!  [av- 
vicina la  chiave  alla  serratura)  Entriamo,  (indietreggia)  Dio!  se 
mi  parlasse  all'orecchio!  Se  fosse  là,  in  piedi,  e  camminasse  a  passi 
lenti!  Se  uscissi  di  qui  con  i  capelli  bianchi!  Entriamo  lo  stesso! 
(rumore  di  passi)  Viene  qualcuno.  Chi  mai  osa,  all'infuori  di  me, 
svegliare  a  quest'ora  il  sepolcro  d'un  simile  morto?  Chi  mai?  (il 
rumore  s'avvicina)  Ah  dimenticavo!  sono  i  miei  assassini.  Entriamo. 

(apre  la  porta  della  tomba  che  poi  si  richiude  alle  spalle.  Entrano  pa- 
recchi uomini,  che  camminano  a  passi  felpati,  nascosti  sotto  i  loro 
mantelli  e  cappelli) 


HERNANI  ^ 


SCENA   TERZA 

1    CONGIURATI 

(vanno  gli  uni  verso  gli  altri,  stringendosi  la  mano  e  scambiando  qual- 
che parola  a  bassa  voce) 

PRIMO  CONGIURATO  {Tunico  chc  porti  una  torcia  accesa^  -  Ad  augusta, 

SECONDO  CONGIURATO  -  Per  angusta. 

PRIMO  CONGIURATO  -  Chc  Ì  Santi  ci  proteggano. 

TERZO  CONGIURATO  -  Che  i  moiti  ci  aiutino. 

PRIMO  CONGIURATO  -  Dio  ci  assista.  {rumore  di  passi  nell'ombra) 

SECONDO  CONGIURATO  -  Chi  va  là? 

VOCE  nell'ombra  -  Ad  augusta, 

SECONDO  CONGIURATO  -  Per  angusta,  {entrano  altri  congiurati.  Rumore 

di  passi) 
PRIMO  CONGIURATO  {ol  tcrzo)  -  Guarda;  arriva  qualcun  altro. 
TERZO  CONGIURATO  -  Chi  va  là? 
VOCE  nell'ombra  -  Ad  augusta. 

TERZO  CONGIURATO  -  Per  angusta  {entrano  altri  congiurati  che  scambia- 
•    no  dei  segni  con  tutti  gli  altri) 
PRIMO  CONGIURATO  -  Benc.  Eccoci  tutti.  Gotha,  fa'  il  rapporto.  Amici, 

l'ombra  attende  la  luce. 

(tutti  i  congiurati  si  siedono  in  semicerchio  sulle  tombe.  Il  primo  con- 
giurato passa,  uno  dopo  l'altro,  davanti  a  tutti  e  ciascuno  accende 
alla  sua  torcia  un  cero  che  tiene  in  mano.  Poi  il  primo  congiurato 
va  a  sedersi  in  silenzio  su  una  tomba  che  si  trova  in  mezzo  al 
cerchio  ed  è  più  alta  delle  altre) 

IL  DUCA  DI  GOTHA  (olzandosì)  -  Amici,  Carlo  di  Spagna,  straniero  da 

parte  di  madre,  pretende  al  sacro  impero. 
PRIMO  CONGIURATO  -  Avrà  la  tomba. 
IL  DUCA  DI  GOTHA  (getta  per  terra  la  torcia  e  la  schiaccia  col  piede)  - 

Tocchi  alla  sua  fronte  quel  che  tocca  a  questa  fiaccola! 
TUTTI  -  Cosi  sia! 
PRIMO  CONGIURATO  -  A  mortc! 
IL  DUCA  DI  GOTHA  -  Che  muoia! 
TUTTI  -  Immoliamolo! 
DON  JUAN  DE  HARo  -  Suo  padre  è  tedesco. 
IL  DUCA  DI  LUTZELBOURG  -  Ma  sua  madre  è  spagnola. 
IL  DUCA  DI  GOTHA  -  Non  è  piu  Spagnolo  e  non  è  tedesco.  A  morte! 


68  VICTOR   HUGO 

UN  CONGIURATO  -  Sc  gli  clcttorì  lo  lìominassero  imperatore  in  questo 
momento? 

PRIMO  CONGIURATO  -  LofoI  lui!  mai! 

DON  GiL  TELLEZ  GiRON  -  Che  importa,  amici!  colpiamo  la  testa,  e  la 
corona  è  morta! 

PRIMO  CONGIURATO  -  Se  ha  il  sacro  impero  diventa  augusto,  chiunque 
egli  sia,  e  Dio  solo  può  toccarlo. 

IL  DUCA  DI  GoniA  -  La  cosa  più  sicura  è  che  muoia  prima  d'essere  au- 
gusto. 

PRIMO  CONGIURATO  -  Non  lo  eleggeranno! 

TUTTI  -  Non  avrà  l'impero! 

PRIMO  CONGIURATO  -  Quante  braccia  occorrono  per  stenderlo  nella 
tomba? 

TUTTI  -  Uno  solo. 

PRIMO  CONGIURATO  -  Quauti  colpi  al  cuore? 

TUTTI  -  Uno  solo. 

PRIMO  CONGIURATO  -  Chi  colpirà? 

TUTTI  -  Tutti  noi. 

PRIMO  CONGIURATO  -  La  vittima  è  un  traditore.  Loro  eleggono  un  im- 
peratore; noi  scegliamo  il  gran  sacerdote.  Tiriamo  a  sorte,  (tutti  i 
congiurati  scrivono  il  proprio  nome  sulle  loro  tavolette,  staccano  il 
foglio,  lo  arrotolano  e  lo  gettano  uno  dopo  Vdtro  nell'urna  ài  una 
tomba.  Poi  il  primo  congiurato  dice)  Preghiamo,  {tutti  s'inginoc- 
chiano. Il  primo  congiurato  si  alza  in  piedi  e  dice)  Che  l'eletto  cre- 
da in  Dio,  colpisca  come  un  romano,  muoia  come  un  ebreo!  Biso- 
gna che  affronti  ruota  e  tenaglie  mordenti,  canti  quando  sarà  le- 
gato al  cavalletto,  rida  dinanzi  alle  lampade  ardenti;  bisogna  che, 
rassegnato,  faccia  tutto  per  uccidere  e  morire!  {prende  dall'urna 
una  pergamena) 

TUTTI  -  Che  nome? 

PRIMO  CONGIURATO  {al  alta  voce)  -  Hernani. 

HERNANi  {uscendo  dalla  folla  dei  congiurati)  -  Ho  vinto!  Ti  tengo,  o 
vendetta,  dopo  averti  inseguito  per  tanto  tempo! 

DON  RUY  GOMEZ  {fendendo  la  folla  e  prendendo  in  disparte  Hernani)  - 
Oh!  cedimi  questo  colpo! 

HERNANI  -  No,  mai!  Oh!  non  invidiate  la  mia  sorte,  signore!  È  la  pri- 
ma volta  che  mi  capita  una  fortuna. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Tu  uon  hai  nulla.  Ebbene  ti  do  tutto,  feudi,  castelli, 
vassallaggi,  centomila  contadini  nei  miei  trecento  villaggi,  te  li  do, 
amico,  in  cambio  di  quel  colpo  da  assestare. 


HERNANI  69 

HERNANI  -  No! 

IL  DUCA  DI  GOTHA  -  Vccchio,  il  tuo  braccio  sferrerebbe  un  colpo  meno 
sicuro! 

DON  RUY  GOMEZ  -  Indietro,  voi!  in  mancanza  del  braccio,  ho  l'anima! 
Non  giudicate  la  lama  dalla  ruggine  del  fodero,  {a  Hernani)  Tu 
mi  appartieni! 

HERNANI  -  La  mia  vita  è  vostra,  la  sua  è  mia. 

DON  RUY  GOMEZ  {prendendo  il  corno  dalla  cintola)  -  Ebbene,  ascolu, 
amico.  Ti  rendo  questo  corno. 

HERNANI  (scosso)  -  Cosa!  La  vita!  Eh!  che  m'importa!  ho  la  mia  ven- 
detta! In  questo  ho  un'intesa  con  Dio.  Devo  vendicare  mio  padre... 
forse  ancora  di  più!  £  lei,  me  la  rendi? 

DON  RUY  GOMEZ  -  Mai!  Rendo  questo  corno. 

HERNANI  -  No! 

DON  RUY  GOMEZ  -  Rifletti,  ragazzo. 

HERNANI  -  Duca,  lasciami  la  mia  preda. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Ebbene!  che  tu  sia  maledetto  perché  mi  togli  questa 
gioia!  (rinfila  il  corno  nella  sua  cintura) 

PRIMO  CONGIURATO  (a  Hcmant)  -  Fratello!  prima  che  possano  eleggerlo, 
sarebbe  bene  aspettare  Carlos  fin  da  stasera... 

HERNANI  -  Non  temete!  So  come  si  manda  un  uomo  nella  tomba. 

PRIMO  CONGIURATO  -  Che  Ogni  tradimento  ricada  sul  traditore,  e  Dio 
sia  con  voi!  Noi,  conti  e  baroni,  continueremo,  se  lui  dovesse  pe- 
rire senza  uccidere!  Giuriamo  di  colpire  l'uno  dietro  l'altro,  e  sen- 
za tirarci  indietro,  Carlos,  che  deve  morire. 

rum  (sfoderando  le  spade)  -  Giuriamo! 

IL  DUCA  DI  GOTHA  (d  primo  Congiurato')  -  Su  che  cosa,  fratello  mio? 

DON  RUY  GOMEZ  (capovolge  la  spada,  la  prende  per  la  punta  e  la  solleva 
al  di  sopra  della  testa)  -  Giuriamo  su  questa  croce! 

TUTTI  (alzando  le  spade)  -  Che  muoia  impenitente! 

(si  sente  in  lontananza  un  colpo  di  cannone.  Tutti  ammutoliscono. 
La  porta  della  tomba  si  socchiude.  Don  Carlos  appare  sulla  soglia. 
Ascolta,  pallido.  Un  secondo  colpo.  Un  terzo  colpo.  Spalanca  la 
porta  della  tomba,  ma  senza  fare  un  passo,  in  piedi  e  immobile  sul- 
la soglia) 


70  VICTOR  HUGO 


SCENA   QUARTA 

1   CONGIURATI,  DON  CARLOS,  pOÌ  DON  RICARDO,   SIGNORI,  GUARDIE,  IL  RE  DI 
BOEMIA,  IL  DUCA  DI   BAVIERA,  pOt  DONA   SOL 

DON  CARLOS  -  Signori,  andate  più  lontano I  Timpcratorc  vi  sente,  (tutte 
le  fiaccole  si  spengono  nello  stesso  momento.  Silenzio  profondo.  Egli 
si  avanza  di  un  passo  nelle  tenebre,  cosi  profonde  da  distinguervi 
appena  i  congiurati,  muti  e  immobili)  Silenzio  e  buio!  lo  sciame  ne 
esce  e  vi  s'immerge  di  nuovo.  Credete  forse  che  tutto  questo  finirà 
come  un  sogno  e  che  senza  fiaccole  vi  scamhierò  per  statue  di  pie- 
tra, sedute  sulle  proprie  tombe?  Poco  fa  parlavate  abbastanza  forte, 
statue  mie!  Andiamo!  rialzate  le  teste  chine,  eccovi  Carlo  V!  Col- 
pite, fate  un  passo!  Vediamo,  oserete?  No,  voi  non  oserete!  Le  vo- 
stre torce  fiammeggiavano  rosse  come  sangue  sotto  queste  volte. 
Un  solo  mio  respiro  è  stato  dunque  sufficiente  a  spegnerle  tutte! 
Ma  guardate,  volgete  il  vostro  sguardo  incerto:  se  io  ne  spengo 
molte,  ne  accendo  ancora  di  più.  [batte  con  la  chiave  di  ferro  sulla 
porta  di  bronzo  della  tomba,  A  questo  rumore,  tutte  le  profondità 
del  sotterraneo  si  riempiono  di  soldati  con  torce  e  partigiane.  Alla 
loro  testa  sono  il  duca  d'Alcala  e  il  marchese  d*Almunan)  Accor- 
rete, o  miei  falchi!  ho  il  nido,  ho  la  preda!  (ai  congiurati)  Ora  sono 
io  che  illumino.  Il  sepolcro  fiammeggia,  guardate!  (ai  soldati)  Ve- 
nite tutti,  perché  il  delitto  e  flagrante. 

HERNANi  (guardando  i  soldati)  -  Alla  buon'ora!  Solo,  mi  sembrava 
troppo  grande.  Bene.  Prima  credevo  che  fosse  Carlomagno.  Non  e 
che  Carlo  V. 

DON  CARLOS  (al  duca  d'Alcala)  -  Conestabile  di  Spagna!  (al  marchese 
d'Almunan)  Ammiraglio  di  Castiglia,  venite  qui!  Disarmateli.  (/ 
congiurati  vengono  circondati  e  disarmati) 

DON  RicARDo  (accorrcndo  e  inchinandosi  fino  a  terra)  -  Maestà! 

DON  CARLOS  -  Ti  nomino  alcade  di  palazzo. 

DON  RicARDO  (inchinandosi  di  nuovo)  -  Due  elettori,  in  nome  della  ca- 
mera dorata,  vengono  ad  ossequiare  la  vostra  sacra  maestà. 

DON  CARLOS  -  Che  entrino,  (sottovoce  a  Ricardo)  Dona  Sol. 

(Ricardo  saluta  ed  esce.  Entrano  con  fiaccole  e  fanfare  il  re  di  Boe- 
mia e  il  duca  di  Baviera,  tutti  vestiti  di  tessuto  d'oro  e  con  le  corone 
in  testa.  Numeroso  corteo  di  signori  tedeschi,  che  portano  la  bandie- 
ra dell'impero,  con  l'aquila  a  due  teste  e  lo  stemma  di  Spagna  nel 


HERNANI  71 

mezzo,  I  soldati  si  scastano,  fanno  siepe  e  lasciano  un  passaggio  ai 
due  elettori  fino  alV imperatore,  che  essi  salutano  profondamente, 
mentre  lui  ricambia  il  saluto  sollevando  il  cappello) 

IL  DUCA  DI  BAVIERA  -  Carlo!  fc  dci  Romani,  sacra  Maestà,  imperatore  I 
Il  mondo  è  ora  nelle  vostre  mani,  perché  voi  avete  l'impero.  Quel 
trono  a  cui  aspira  ogni  monarca,  è  vostro.  Federico,  duca  di  Sas- 
sonia, vi  fu  dapprima  eletto,  ma  vi  ha  rinunciato,  giudicandovi  più 
degno.  Venite  dunque  a  ricevere  la  corona  e  il  globo.  Il  Sacro  Im- 
pero, o  re,  vi  riveste  del  manto,  vi  arma  della  spada,  e  voi  siete 
grandissimo. 

DON  CARLOS  -  Verrò  a  ringraziare  il  collegio  rientrando.  Andate,  signo- 
ri. Grazie,  fratello  di  Boemia,  cugino  di  Baviera.  Andate.  Verrò  io 
stesso. 

IL  RE  DI  BOEMIA  -  Carlo,  i  nostri  avi  si  chiamavano  col  nome  di  amici. 
Mio  padre  amava  tuo  padre  e  i  loro  padri  si  amavano.  Carlo,  già 
esposto  COSI  giovane  a  sorti  contrarie,  dimmi,  vuoi  ch'io  sia  tuo 
fratello  fra  i  tuoi  fratelli?  Ti  ho  visto  bambino  e  non  posso  di- 
menticare... 

DON  CARLOS  (intcrrompcndolo)  -  Re  di  Boemia!  ebbene,  siete  mio  fa- 
miliare! (gli  dà  a  baciare  la  mano,  e  cosi  al  duca  di  Baviera,  poi 
congeda  i  due  elettori,  che  lo  salutano  profondamente)  Andate!  (i 
due  elettori  escono  col  loro  seguito) 

LA  FOLLA  -  Viva! 

DON  CARLOS  {a  parte)  -  Ci  sono!  e  tutto  mi  ha  aiutato!  Imperatore! 
Grazie  al  rifiuto  di  Federico  il  Saggio! 

(entra  Dona  Sol,  condotta  da  Ricardo) 

DONA  SOL  -  Dei  soldati!  l'imperatore!  o  cielo!  che  colpo  imprevisto! 

Hernani! 
HERNANI  -  Dona  Sol! 
DON  RUY  GOMEZ  (occcnto  ad  Hernani,  a  parte)  -  Non  mi  ha  visto! 

(Dona  Sol  corre  da  Hernani.  Lui  la  fa  indietreggiare  con  un'occhiata 
diffidente) 

HERNANI  -  Signora! 

DONA  SOL  (mostrando  il  pugnale  che  nascondeva  in  seno)  -  Ho  ancora 
il  suo  pugnale! 

HERNANI  (tendendole  le  braccia)  -  Amica  mia! 

DON  CARLOS  -  Silenzio  tutti!  (ai  congiurati)  Vi  siete  ripresi?  Bisogna 
che  dia  una  nuova  lezione  al  mondo.  Lara  il  castigliano  e  Gotha 
il  sassone  e  voi  tutti!  che  venivate  a  fare  qui?  parlate. 


72  VICTOR  HUGO 

HERNANi  {facendo  un  passo)  -  Sire,  la  cosa  è  semplidssima  e  ve  la  pos- 
siamo dire.  Scrivevamo  la  sentenza  sul  muro  di  Baldassarre,  {estrae 
un  pugnale  e  lo  agita)  Noi  rendevamo  a  Cesare  ciò  che  è  di  Cesare. 

DON  CARLOS  -  Bene,  {a  don  Ruy  Gomez)  Voi  siete  un  traditore,  Silva. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Chi  di  noi  due,  sire? 

HERNANi  {volgendosi  verso  i  congiurati)  -  Le  nostre  teste  e  l'impero? 
Ha  quello  che  voleva.  {dV imperatore)  Il  manto  azzurro  dei  re  po- 
teva impacciare  i  vostri  passi.  La  porpora  vi  sta  meglio.  Il  sangue 
non  ci  si  vede. 

DON  CARLOS  {a  don  Ruy  Gomez)  -  De  Silva,  cugino  mio,  è  un  tradi- 
mento tale  da  far  cancellare  la  baronia  dal  tuo  blasone!  È  alto  tra- 
dimento, don  Ruy,  pensaci  bene. 

DON  RUY  GOMEZ  -  I  re  Rodrigo  fanno  i  conti  Giuliano  *. 

DON  CARLOS  {d  duco  d'Alcda)  -  Prendete  solo  quelli  che  sono  duchi  o 
conti.  Il  resto... 

{Don  Ruy  Gomez,  il  duca  di  Lutzelbourg,  il  duca  di  Gotha,  don  Juan 
de  Haro,  don  Guzman  de  Lara,  don  Tellez  Giron,  il  barane  di 
Hohenbourg,  si  separano  dd  gruppo  dei  congiurati,  fra  i  qudi  è 
rimasto  H emani.  Il  duca  d'Alcda  li  circonda  strettamente  di  guar- 
die) 

DONA  SOL  {a  parte)  -  È  salvo! 

HERNANi  {uscendo  dal  gruppo  dei  congiurati)  -  Pretendo  che  si  prenda 
anche  me!  {a  Don  Carlos)  Dato  che  qui  si  tratta  dell'ascia,  e  che 
Hernani,  oscuro  pastore,  passerebbe  impunito  sotto  i  tuoi  piedi, 
poiché  la  sua  fronte  non  è  più  all'altezza  della  tua  spada,  poiché 
bisogna  esser  grandi  per  morire,  allora  io  mi  alzo.  Quel  Dio  che 
dà  gli  scettri,  e  che  lo  dette  a  te,  mi  ha  fatto  duca  di  Segorbia  e 
duca  di  Cardona,  marchese  di  Monroy,  conte  Albatera,  visconte  di 
Gor,  signore  di  luoghi  di  cui  ignoro  il  numero.  Sono  Giovanni 
d'Aragona,  gran  maestro  d'Avis,  nato  in  esilio,  figlio  proscritto  di 
un  padre  assassinato  per  ordine  del  tuo,  re  Carlos  di  Castiglia!  Fra 
noi  due  l'assassinio  è  affare  di  famiglia.  Voi  avete  il  patibolo,  noi 
abbiamo  il  pugnale.  Il  cielo  mi  ha  fatto  duca,  dunque,  e  l'esilio 
montanaro.  Ma  poiché  ho  affilato  invano  la  mia  spada  sulle  mon- 
tagne e  l'ho  ritemprata  invano  nell'acqua  dei  torrenti,  {si  mette 
il  cappello;  agli  dtri  congiurati)  mettiamoci  il  cappello  grandi  di 
Spagna!  {tutti  gK  Spagnoli  si  coprono,  A  Don  Carlos)  Si,  o  re,  le 
nostre  teste  hanno  il  diritto  di  cadere  coperte  dinanzi  a  te!  {ai  pri- 


^  Secondo  una  leggenda,  il  conte  Giuliano,  per  vendicare  un*offesa  fattagli  dal 
re  Rodrigo,  avrebbe  chiamato  gli  arabi  in  Ispagna.  (N.  del  T.). 


HERNANI  73 

gionieri)  Silva,  Haro,  Lara,  gente  che  avete  titoli  e  nobiltà,  fate 
posto  a  Giovanni  d'Aragona!  duchi  e  conti,  datemi  il  mio  posto! 
{ai  cortigiani  e  die  guardie)  Re,  carnefici  e  valletti,  io  sono  Gio- 
vanni d'Aragona!  E  se  i  vostri  patiboli  sono  piccoli,  cambiateli!  (va 
ad  unirsi  al  gruppo  dei  signori  fatti  prigionieri) 

DONA  SOL  -  Cielo! 

DON  CARLOS  -  In  Verità,  avevo  dimenticato  questa  storia. 

HERNANI .  Chi  ha  la  ferita  sanguinante  ha  miglior  memoria.  L'affronto, 
che  l'insensato  offensore  dimentica,  vive  e  si  agita  sempre  nel  cuo- 
re dell'offeso. 

DON  CARLOS  -  Dunque  io  sono  figlio  di  padri  che  fanno  cadere  la  testa 
dei  vostri!  è  un  titolo  tale  da  non  desiderarne  altri! 

DONA  SOL  {gettandosi  in  ginocchio  davanti  all'imperatore)  -  Sire,  per- 
dono! pietà!  Sire,  siate  clemente!  O  colpiteci  tutti  e  due,  perché  è 
il  mio  amante,  il  mio  sposo!  Solo  in  lui  io  respiro.  Oh!  tremo. 
Sire,  abbiate  la  pietà  di  ucciderci  insieme!  Maestà!  mi  trascino  ai 
vostri  sacri  ginocchi!  L'amo!  Egli  è  mio,  come  l'impero  è  vostro! 
Oh!  grazia!  {Don  Carlos  la  gtuarda  immobile)  Qual  sinistro  pensie- 
ro vi  assorbe? 

DON  CARLOS  -  Via!  alzatevi,  duchessa  di  Segorbia,  contessa  Albatera, 
marchesa  di  Monroy...  {a  Hernani)  I  tuoi  altri  titoli,  don  Juan? 

HERNANI  -  Chi  parla  cosi?  il  re? 

DON  CARLOS  -  No,  l'impcratore. 

DONA  SOL  {alzandosi)  -  Gran  Dio! 

DON  CARLOS  {indicandola  ad  Hernani)  -  Duca,  ecco  la  tua  sposa. 

HERNANI  {con  lo  sguordo  rivolto  al  cielo  e  con  DoHa  Sol  fra  le  braccia) 
'  Dio  giusto! 

DON  CARLOS  {a  Don  Ruy  Gomez)  -  Cugino  mio,  la  tua  nobiltà  è  gelosa, 
lo  so.  Ma  un  Aragona  può  sposare  una  Silva. 

DON  RUY  GOMEZ  {cupo)  -  Non  è  la  mia  nobiltà. 

HERNANI  (guardando  con  amore  Dona  Sol  e  tenendola  abbracciata)  - 
Oh!  il  mio  odio  se  ne  va!  (getta  via  il  pugnale) 

DON  RUY  GOMEZ  (a  parte,  guardandoli  tutti  e  due)  -  Esploderò?  oh!  no! 
amore  folle!  dolore  folle!  faresti  loro  pietà,  vecchia  testa  spagnola! 
Brucia  senza  fiamma,  vecchio,  ama  e  soffri  in  silenzio,  lasciati  ro- 
dere il  cuore.  Non  un  grido.  Riderebbero! 

DONA  SOL  (jra  le  braccia  di  Hernani)  -  O  mio  duca! 

HERNANI  -  Non  ho  altro  che  amore  nell'anima,  ormai. 

DONA  SOL  -  O  felicità! 

DON  CARLOS  (a  parte,  con  la  mano)  -  Spegniti,  mio  giovane  cuore  pieno 
di  fiamma!  Lascia  regnare  lo  spirito,  che  turbasti  per  tanto  tempo; 


74  VICTOR  HUGO 

ormai  i  tuoi  amori,  le  tue  amanti,  sono  la  Germania,  le  Fiandre, 
la  Spagna,  (fissa  lo  sguardo  sulla  sua  bandiera)  L'imperatore  è  si- 
mile all'aquila  sua  compagna:  ai  posto  del  cuore  ha  solo  uno  stem- 
ma. 

HERNANi  -  Ah!  voi  siete  veramente  Cesare! 

DON  CARLOS  (a  Hernant)  -  Don  Juan,  il  tuo  cuore  è  degno  della  tua 
nobile  stirpe,  {indicando  Dona  Sol)  Ed  è  degno  anche  di  lei.  In  gi- 
nocchio, duca!  (Hernani  s'inginocchia.  Don  Carlos  si  toglie  il  suo 
toson  d'oro  e  glielo  passa  al  collo)  Ricevi  questo  collare.  {Dan  Car- 
los sfodera  la  spada  e  gliela  posa  tre  volte  sulla  spalla)  Sii  fedele! 
In  nome  di  Santo  Stefano  ti  faccio  cavaliere,  duca!  {l'aiuta  ad  al- 
zarsi e  l'abbraccia)  Ma  tu  hai  il  più  dolce  e  il  più  bello  dei  collari, 
quello  che  io  non  ho,  che  manca  alla  mia  dignità  suprema:  le  brac- 
cia d'una  donna  amata  e  che  ti  ama!  Ah!  tu  sarai  felice;  quanto 
a  me,  io  sono  imperatore,  {ai  congiurati)  Non  so  più  i  vostri  nomi, 
signori.  Odio  e  furore,  voglio  dimenticare  tutto!  Andate,  vi  per- 
dono! È  la  lezione  che  devo  dare  al  mondo.  Non  è  invano  che  a 
Carlo  primo,  re,  succede  l'imperatore  Carlo  V  e  che  agli  occhi  del- 
l'Europa, orfana  in  lacrime, .  l'altezza  cattolica  si  muta  in  maestà 
sacra.  (/  congiurati  si  mettono  in  ginocchio) 

1  CONGIURATI  -  Gloria  a  Carlos! 

DON  RUY  GOMEZ  {a  Don  Carlos)  -  A  me  solo  rimane  la  condanna. 

DON  CARLOS  -  E  a  me! 

DON  RUY  GOMEZ  {a  portc)  -  Ma  io  non  ho  perdonato  come  lui! 

HERNANI  -  Chi  mai  ci  cambia,  tutti,  cosiP 

TUTTI,  SOLDATI,  CONGIURATI,  SIGNORI  -  Viva  la  Germania!  Gloria  a  Car- 
lo Quinto! 

DON  CARLOS  {volgendosi  verso  la  tomba)  -  Gloria  a  Carlo  Magno!  La- 
sciateci soli,  noi  due.  {tutti  escono) 


SCENA   QUINTA 

DON   CARLOS,  SOlo. 

{s'inchina  dinanzi  alla  tomba) 

Sei  contento  di  me?  Ho  saputo  spogliarmi  di  tutte  le  miserie  del 
re,  Carlo  Magno?  Diventato  imperatore,  non  sono  forse  un  altr'uo- 
mo?  Posso  unire  il  mio  casco  alla  mitria  di  Roma?  Ho  diritto  d'in- 


HERNANI  75 

teressarmi  alle  sorti  del  mondo?  Ho  io  un  piede  fermo  e  sicuro,  tale 
da  poter  camminare  per  quel  sentiero,  pieno  di  vandaliche  rovine, 
che  tu  ci  hai  tracciato  con  le  tue  larghe  orme?  Ho  saputo  accendere 
bene  la  mia  fiaccola  alla  tua  fiamma?  Ho  ben  compreso  la  voce 
che  esce  dalla  tua  tomba?  Ah!  ero  solo,  sperduto,  solo  davanti  a 
un  impero,  davanti  a  tutto  un  mondo  che  urla,  e  minaccia,  e  co- 
spira, con  il  Danese  da  punire,  il  Santo  Padre  da  pagare,  Vene- 
zia, Solimano,  Lutero,  Francesco  primo,  mille  pugnali  gelosi  che 
già  luccicavano  nell'ombra,  delle  trappole,  degli  scogli,  dei  ne- 
mici innumerevoli,  venti  popoli  di  cui  uno  solo  farebbe  paura  a 
venti  re,  mentre  tutto  urgeva,  mentre  tutto  era  da  fare  nello  stesso 
tempo,  ed  ho  gridato  verso  di  te:  «Da  dove  devo  cominciare?  » 
Tu  mi  hai  risposto:   «  Dalla  clemenza,  figlio  mio!  ». 


ATTO    QUINTO 


LE    NOZZE 

Saragozza. 

Una  terrazza  dd  palazzo  d'Aragona.  In  fondo,  la  rampa  di  una  scala  che  s'in- 
terna nel  giardino,  A  destra  e  a  sinistra  due  porte  che  danno  sulla  terrazza 
chiusa  da  una  balaustrata  sormontata  da  due  file  di  arcate  moresche,  al  di 
sopra  delle  auali,  come  anche  attraverso  esse,  si  scorgono  i  giardini  del  pa- 
lazzo, i  getti  d'acqua  nell'ombra,  i  boschetti  con  le  luci  che  vi  si  muovono 
in  mezzo,  e  in  fondo  le  parti  più  alte,  in  stile  gotico  e  arabo,  del  palazzo  il- 
luminato. È  notte.  Si  sentono  in  lontananza  delle  fanfare.  Delle  maschere,  dei 
domino,  sparsi,  isolati  o  in  gruppo,  attraversano  qua  e  là  la  terrazza.  Sul  pro- 
scenio, un  gruppo  di  giovani  signori,  con  le  maschere  in  mano,  ride  e  chiac- 
chiera rumorosamente. 


SCENA    PRIMA 

DON   SANCHO   SANCHEZ   DE  ZUNIGA,  COnie  di  MOfltCrey,   DON   MATIAS   CEN- 

TURioN,  marchese  d'Almunan,  don  ricardo  de  roxas,  conte  di  Casaped- 

ma,  don  FRANCISCO  DE  soTOMAYOR,  cofitc  di  VeMcazor,  don  garci 

SUAREZ  DE  carbaja,  cofite  dì  Penaiver 

DON  GARCI  -  In  fede  mia,  viva  la  gioia  e  viva  la  sposa! 
DON  MATIAS  (guordando  dd  balcone)  -  Saragozza  stasera  è  tutta  alle 
finestre. 


76  VICTOR   HUGO 

DON  GARci  -  E  fa  bene!  non  si  videro  mai  delle  nozze  più  allegre  alla 
luce  delle  torce,  né  una  notte  più  serena,  né  sposi  più  belli! 

DON  MATiAS  -  Che  buon  imperatore! 

DON  SANCHo  -  Marchese,  quando  una  certa  sera  andavamo  a  cercar  for- 
tuna tutti  e  due  insieme  a  lui,  chi  avrebbe  detto  che  un  giorno  tutto 
sarebbe  finito  cosi? 

DON  RicARDO  {intetTom  pcndolo)  -  C'ero  anch'io,  {agli  altri)  Ascoltate 
questa  storia:  Tre  innamorati  —  un  bandito  in  attesa  di  salire  sul 
patibolo,  poi  un  duca,  poi  un  re  —  assediano  insieme  il  cuore  di 
una  stessa  donna.  Una  volta  dato  l'assalto,  chi  l'ha  ottenuto?  Il 
bandito. 

DON  FRANCISCO  -  Niente  di  più  semplice.  L'amore  e  la  fortuna,  tanto  in 
Spagna  che  altrove,  sono  come  i  giochi  fatti  con  dadi  truccati.  È 
il  baro  che  vince! 

DON  RicARDo  -  lo  ho  fatto  la  mia  fortuna  stando  a  veder  fare  all'amore. 
Prima  conte,  poi  grande,  poi  alcade  di  corte:  senza  far  chiasso,  ho 
saputo  impiegar  bene  il  mio  tempo. 

DON  SANCHO  -  Il  scgreto  di  questo  signore  è  quello  di  stare  sulla  strada 
del  re... 

DON  RiCARDo  -  Facendo  valere  i  miei  diritti,  i  miei  atti. 

DON  GARci  -  Avete  approfittato  delle  sue  distrazioni. 

DON  MATIAS  -  Che  fa  il  vecchio  duca?  Si  fa  preparare  la  bara? 

DON  sANCHo  -  Non  ridete  marchese!  e  un'anima  orgogliosa.  Amava 
Dona  Sol,  quel  vecchio.  Ci  son  voluti  sessant'anni  per  far  diventar 
grìgi  i  suoi  capelli,  ma  è  bastato  un  giorno  per  imbiancarglieli. 

DON  GARci  -  Si  dice  che  non  si  sia  fatto  più  vedere  a  Saragozza! 

DON  SANCHO  -  Non  vi  Sarete  aspettato  che  portasse  la  sua  bara  alla  festa! 

DON  FRANCISCO  -  E  che  fa  l'imperatore? 

DON  SANCHO  -  Oggi  l'imperatore  è  triste.  Lutero  gli  procura  delle  noie. 

DON  RicARDo  -  Quel  Lutero  è  una  bella  fonte  di  preoccupazioni  e  di 
allarmi.  Io  farei  presto  a  farla  finita  con  quattro  spadaccini! 

DON  MATIAS  -  Anche  Solimano  gli  dà  ombra. 

DON  GARci  -  Ah!  Lutero,  Solimano,  Nettuno,  il  diavolo  e  Giove,  che 
m'importa  di  quella  gente  là?  Le  signore  son  belle,  la  mascherata 
è  ben  riuscita  e  io  ho  detto  mille  follie! 

DON  SANCHO  -  Ecco  Icssenziale! 

DON  RicARDo  -  Garci  non  ha  torto  davvero.  Non  sono  più  lo  stesso,  in 
un  giorno  di  festa,  e  credo  proprio  che  basti  mettermi  una  masche- 
ra per  darmi  un'altra  faccia! 

DON  SANCHO  (j  òossa  vocc  a  Matias)  -  Perché  mai  non  è  festa  tutti  i 
giorni,  allora! 


HERNANI  77 

DON  FRANCISCO  {indicando  la  porta  sulla  destra)  -  Signori  miei,  è  quella 

la  camera  degli  sposi? 
DON  GARci  {annuendo)  -  Li  vedremo  arrivare  fra  un  istante. 
DON  FRANCISCO  -  Credete? 
DON  GARci  -   Senaut  dubbio! 

DON  FRANCISCO  -  Meglio  cosi!  La  sposa  è  cosi  bella! 
DON  RicARDo  -  Com'è  buono  l'imperatore!  Dare  il  toson  d'oro  a  quel 

ribelle  di  Hernani!  e  vederlo  sposato!  e  perdonato!  Se  m'avesse 

ascoltato,  l'imperatore  avrebbe  invece  dato  un  letto  di  pietra  all'in- 
namorato e  uno  di  piume  alla  donna. 
DON  SANCHO  {a  voce  bassa  a  Don  Matias)  -  Come  lo  infilzerei  volentieri 

con  la  mia  lama!  Falso  signore,  da  lustrini  ricuciti  con  filo  grosso! 

Farsetto  di  conte,  riempito  di  consigli  da  sbirro! 
DON  RicARDO  (avviànandosi)  -  Cosa  dite  voi? 
DON  MATIAS  (sottovocc  a  Don  Sanchó)  -  Conte,  niente  liti  qui!  (a  Don 

Ricardo)  Mi  sta  recitando  un  sonetto  del  Petrarca  alla  sua  bella. 
DON  GARci  -  Signori,  avete  notato  in  mezzo  ai  fiori,  alle  signore,  agli 

abiti  d'ogni  colore,  quello  spettro  che,  ritto  contro  la  balaustrata, 

faceva  una  macchia  col  suo  domino  nero? 
DON  RicARDo  -  Si,  pcrbacco! 
DON  GARci  -  Chi  è  mai? 
DON  RicARDo  -  Ma,  la  sua  corporatura,  la  sua  aria...  È  don  Pancrazio, 

l'ammiraglio. 

DON   FRANCISCO  -  No. 

DON  GARCi  -  Non  s'è  mai  tolto  la  maschera. 

DON  FRANCISCO  -  Non  faccva  attenzione  a  nessuno.  È  il  duca  di  Soma 

che  vuol  essere  notato.  Nient'altro. 
DON  RicARDo  -  No,  il  duca  mi  ha  parlato. 
DON  GARci  -  Chi  è  allora  quella  maschera?  Guardate,  eccola. 

(entra  un  domino  nero  che  attraversa  lentamente  la  terrazza  in  fondo. 
Tutti  si  voltano  e  lo  seguono  con  lo  sguardo,  senza  che  egli  sem- 
bri notarlo) 

DON  SANCHO  -  Sc  Ì  morti  camminano,  quello  è  il  loro  passo. 

DON  GARci  {correndo  verso  il  domino  nero)  -  Bella  maschera!...  {il  do- 
mino nero  si  volta  e  si  ferma:  Garci  indietreggia)  Sull'anima  mia, 
signori  miei,  ho  visto  brillare  una  fiamma  nei  suoi  occhi! 

DON  SANCHO  -  Sc  è  il  diavolo,  ora  trova  con  chi  parlare,  {va  verso  il 
domino  nero,  sempre  immobile)  Maligno!  Vieni  dall'inferno? 

LA  MASCHERA  -  Non  vcngo,  ci  vado.  {continua  la  sua  strada  e  sparisce 
oltre  la  rampa  della  scala.  Tutti  lo  seguono  con  lo  sguardo  in  cui  è 
una  specie  di  terrore) 


78  VICTOR   HUGO 

DON  MATiAs  -  La  vocc  è  veramente  sepolcrale! 

DON  GARci  -  Oh  basta!  ciò  che  altrove  fa  paura,  al  ballo  fa  ridere. 

DON  SANCHo  -  È  qualchc  bel  tipo  di  cattivo  gusto! 

DON  GARci  -  O,  se  è  Lucifero  che  viene  a  vederci  ballare  in  attesa  del- 
l'inferno, balliamo! 

DON  SANCHO  -  È  certamente  qualche  buffonata. 

DON  MATIAS  -  Domani  lo  sapremo. 

DON  SANCHO  (a  Dofi  Mattas)  -  Guardate,  ve  ne  prego.  Che  sta  facendo? 

DON  MATIAS  {ajjocciandosi  dia  balaustrata  della  terrazza)  -  Ha  sceso  la 
scala.  Non  si  vede  più. 

DON  SANCHO  -  È  un  bel  tipo!  (pensoso)  Strano! 

DON  GARci  (a  una  dama  che  passa)  -  Marchesa,  facciamo  questo  ballo? 
{la  saluta  e  le  presenta  il  braccio) 

LA  DAMA  -  Mio  caro  conte,  sapete  bene  che  quando  si  tratta  di  voi,  mio 
marito  li  conta. 

DON  GARci  -  Ragione  di  più.  A  quanto  pare,  la  cosa  lo  diverte.  Gli  pia- 
ce. Lui  canta  e  noi  balliamo,  (la  dama  appoggia  la  mano  sul  suo 
braccio  ed  escono) 

DON  SANCHO  (pcnsicToso)  -  È  veramente  strano! 

DON  MATIAS  -  Ecco  gli  sposì.  Silenzio! 

(entrano  Hernani  e  Dona  Sol  tenendosi  per  mano.  Dona  Sol  ha  un 
magnifico  abito  da  sposa;  Hernani  è  completamente  vestito  di  vel- 
luto nero,  con  il  toson  d'oro  al  collo.  Dietro  di  loro,  una  folla  di 
maschere,  di  dame  e  di  signori,  in  corteo.  Due  alabardieri  vestiti 
d'una  livrea  sfarzosa,  li  seguono  e  quattro  paggi  li  precedono.  Tut- 
ti si  schierano  e  s'inchinano  al  loro  passaggio.  Fanfara) 


SCENA   SECONDA 

GLI    STESSI,    HERNANI,    DONA    SOL,    IL    SEGUITO 

HERNANI  (salutando)  -  Cari  amici! 

DON  RicARDO  (avvicinandosi  e  inchinandosi)  -  La  tua  felicità  è  la  nostra, 

eccellenza! 
DON  FRANCISCO  (contemplando  Dona  Sol)  -  Per  San  Giacomo!  è  Venere 

che  costui  ha  per  mano! 
DON  MATIAS  -  Parola  d'onore,  si  e  felici  la  notte  d'un  simile  giorno! 
DON  FRANCISCO  (indicando  a  Don  Matias  la  camera  nuziale)  -  Che  belle 


HERNANI  79 

cose  accadranno  là!  Essere  fata,  e  veder  tutto  a  luci  spente  e  porte 
chiuse,  non  sarebbe  meraviglioso? 
DON  SANCHO  {u  Doit  Mattos)  '  È  tardi.  Ce  n'andiamo? 

{tutti  vanno  a  salutare  gli  sposi  ed  escono,  alcuni  dalla  porta,  altri  dal- 
la scala  in  fondo) 

HERNANI  (accompagnandoli)  -  Dio  vi  protegga! 

DON  SANCHO  {ckc  cscc  pcf  ultimo,  gli  Stringe  la  mano)  -  Siate  felice! 

(esce.  Hernani  e  Dona  Sol  rimangono  soli.  Rumore  di  passi  e  di  voci 
che  scdlontanano,  per  cessare  poi  completamente.  Durante  l'inizio 
della  scena  seguente,  le  fanfare  e  le  luci  in  lontananza  si  smor- 
zano le  une  dopo  le  altre.  Pian  piano  tutto  ritorna  buio  e  silen- 
zioso) 


SCENA   TERZA 

HERNANI,  DONA  SOL 

DONA  SOL  -  Se  ne  sono  andati  tutti,  finalmente! 

HERNANI  (cercando  di  attirarla  fra  le  sue  braccia)  -  Amor  mio! 

DONA  SOL  (arrossendo  e  indietreggiando)  -  È...  che  è  tardi,  mi  sembra. 

HERNANI  -  Angelo!  È  sempre  tardi  per  essere  soli  insieme! 

DoffA  SOL  -  Tutto  quel  chiasso  mi  stancava.  Non  è  forse  vero  che  tutto 
questo  gioioso  movimento  turba  la  nostra  felicità? 

HERNANI  -  Dici  bene.  La  felicità  è  una  cosa  grave,  amica  mia.  Vuole 
dei  cuori  di  bronzo  e  vi  s'imprime  lentamente.  Il  piacere  la  spa- 
venta coi  gettarle  dei  fiori.  Il  suo  sorriso  è  meno  vicino  al  riso  che 
alle  lacrime. 

DONA  SOL  -  Questo  sorriso  è  una  luce  nei  vostri  occhi.  (Hernani  cerca 
di  farla  avvicinare  alla  porta.  Lei  arrossisce)  Fra  poco. 

HERNANI  -  Oh!  io  sono  tuo  schiavo!  Si,  rimani,  rimani!  Fa'  ciò  che 
vuoi.  Non  ti  chiedo  nulla.  Lo  sai  tu  quel  che  fare!  e  quello  che  fai 
e  fatto  bene!  Riderò,  se  vuoi,  canterò.  La  mia  anima  brucia...  Eh! 
di'  al  vulcano  di  soffocare  la  sua  fiamma,  e  il  vulcano  chiuderà  i 
suoi  abissi  semiaperti,  non  avrà  sui  suoi  pendii  che  fiori  e  prati 
verdi.  Giacché  il  gigante  e  preso,  il  Vesuvio  è  schiavo!  E  che  t'im- 
porta, a  te,  il  suo  cuore  roso  dalla  lava?  Vuoi  dei  fiori?  va  bene! 
Bisogna  che  il  vulcano  arso  dal  fuoco  faccia  del  suo  meglio  per 
abbellirsi  dinanzi  ai  tuoi  occhi! 


80  VICTOR  HUGO 

DONA  SOL  -  Oh!  come  siete  buono  per  una  povera  donna,  Hernani  del 
mio  cuore! 

HERNANI  -  Che  nome  è  questo,  signora?  Ah!  per  pietà,  non  chiamarmi 
più  con  questo  nome!  Tu  mi  fai  ricordare  d'aver  tutto  dimenticato! 
So  che  esisteva  una  volta,  in  un  sogno,  un  Hernani  che  aveva  nello 
sguardo  un  balenio  di  spade,  un  uomo  della  notte  e  dei  monti,  un 
proscritto  che  portava  scritta  ovunque  la  parola  vendetta,  un  di- 
sgraziato che  trascinava  dietro  di  sé  l'anatema!  Ma  non  conosco 
questo  Hernani.  Io  amo  i  prati,  i  fiori,  i  boschi,  il  canto  dell'usi- 
gnolo. Sono  Giovanni  d'Aragona,  marito  di  Dona  Sol.  Sono  felice! 

doi5a  sol  -  Sono  felice! 

HERNANI  -  Che  m'importa  degli  stracci  lasciati  alla  porta  entrando! 
Eccomi  di  ritorno  nel  mio  palazzo  in  lutto.  Un  angelo  del  Signore 
m'aspettava  sulla  soglia.  Entro  e  rimetto  in  piedi  le  colonne  spez- 
zate, riaccendo  il  fuoco,  riapro  le  finestre,  faccio  strappar  l'erba  dal 
selciato  del  cortile,  non  sono  più  che  gioia,  felicità,  amore.  Una 
volta  resemi  le  mie  torri,  i  miei  torrioni,  le  mie  fortezze,  il  mio 
pennacchio,  il  mio  posto  al  consiglio  di  Castiglia;  una  volta  venuta 
la  mia  Dona  Sol,  soffusa  di  rossore  e  con  lo  sguardo  chino;  una 
volta  lasciatici  insieme,  tutto  il  resto  e  passato!  Non  ho  visto  nulla, 
non  ho  detto  nulla,  non  ho  fatto  nulla.  Ricomincio  tutto,  cancello 
tutto,  dimentico!  Sia  saggezza  o  follia,  vi  ho,  vi  amo;  e  voi  siete 
il  mio  bene! 

DONA  SOL  {esaminando  il  suo  toson  d'oro)  -  Come  sta  bene  questa  col- 
lana d'oro  sul  velluto  nero! 

HERNANI  -  Voi  avete  visto  i  re  vestiti  cosi,  prima  di  me. 

DONA  SOL  -  Non  ci  ho  fatto  caso.  Gli  altri,  che  m'importa!  E  poi  e  il 
velluto  o  il  raso,  forse?  No,  duca  mio,  è  il  tuo  collo  che  fa  risal- 
tare questa  collana.  Siete  nobile  e  fiero,  mio  signore,  {lui  vuole 
portarla  via)  Fra  poco!  Un  momento!  Vedi,  son  piena  di  gioia!  e 
piango!  Vieni  a  vedere  che  bella  notte,  {si  avvicina  alla  balaustrata) 
Duca  mio,  un  momento  solo!  Solo  il  tempo  di  respirare  e  di  guar- 
dare. Tutto  si  e  spento,  fiaccole  e  musica  allegra.  Non  c'è  nient'al- 
tro  che  la  notte  e  noi.  Felicità  perfetta!  Di',  ci  credi?  la  natura, 
pur  immersa  nel  sonno,  veglia  con  amore  su  di  noi.  Il  cielo  è  senza 
una  nuvola.  Tutto  è  in  pace,  come  noi.  Vieni,  respira  insieme  a  me 
l'aria  profumata  di  rose!  Guarda.  Nessuna  luce,  nessun  rumore. 
Tutto  tace.  Poco  fa,  la  luna  spuntava  all'orizzonte;  mentre  parlavi, 
la  sua  tremula  luce  e  la  tua  voce  scendevano  insieme  nel  mio  cuore; 
e  mi  sentivo  felice  e  calma,  o  mio  innamorato,  e  avrei  desiderato 
morire  in  quel  momento! 


HERNANI  81 

HERNANi  -  Ah!  chi  non  dimenticherebbe  tutto  al  suono  di  questa  voce 
celeste!  La  tua  parola  è  un  canto  in  cui  non  rimane  nulla  d'umano. 
E  come  chi,  navigando  su  un  fiume,  scivola  sulle  acque  in  una 
bella  sera  d'estate,  e  vede  fuggire  sotto  il  suo  sguardo  mille  pia- 
nure fiorite,  il  mio  pensiero  rapito  vaga  fra  le  tue  fantasticherie! 

Dof^A  SOL  '  Questo  silenzio  è  troppo  fosco,  questa  calma  è  troppo  pro- 
fonda. Dimmi,  non  ti  piacerebbe  vedere  una  stella  laggiù  o  sentir 
cantare  nella  notte  una  voce  tenera  e  deliziosa,  che  s'innalzi  im- 
provvisamente? 

HERNANI  (sorridendo)  -  Capricciosa!  Un  momento  fa  rifuggivi  le  luci 
e  le  canzoni! 

Dof^A  SOL  -  Il  ballo,  si!  ma  un  uccello  che  canti  nei  campi!  un  usignolo 
perduto  nell'ombra  e  nel  muschio,  o  qualche  flauto  in  lontananza!... 
Poiché  la  musica  è  dolce,  rende  l'anima  armoniosa,  e,  come  un 
coro  divino,  risveglia  mille  voci  che  cantano  nel  cuore!  Ah!  sarebbe 
meraviglioso!  (risuona  nell'ombra  il  suono  lontano  d'un  corno)  Dio! 
sono  esaudita! 

HERNANI  (trasalendo,  a  parte)  -  Ah!  infelice! 

DONA  SOL  -  Un  angelo  ha  capito  il  mio  pensiero,  il  tuo  angelo,  certo! 

HERNANI  (con  amarezza)  -  Si,  il  mio  angelo!  (il  suono  del  corno  rico- 
mincia. A  parte)  Ancora! 

DONA  SOL  (sorridendo)  -  Don  Juan,  riconosco  il  suono  del  vostro  corno! 

HERNANI  -  Vero? 

DofiA  SOL  -  Entrereste  forse  un  po'  in  questa  serenata? 

HERNANI  -  Un  po',  hai  detto  bene. 

DONA  SOL  -  Il  ballo  è  noioso!  Oh!  Mi  piace  di  più  il  suono  del  corno 
nel  folto  dei  boschi!  E  poi  è  il  vostro  corno,  è  come  la  vostra  voce. 

(il  corno  ricomincia  a  suonare) 

HERNANI  (a  parte)  -  Ah!  la  tigre  è  laggiù  che  urla,  e  reclama  la  sua 

preda. 
Dof^A  SOL  -  Don  Juan,  quest'armonia  mi  riempie  il  cuore  di  gioia. 
HERNANI    (drizzandosi,  terribile)  -  Chiamatemi  Hernani!  chiamatemi 

Hernani!  Non  ho  ancora  finito  con  questo  nome  fatale! 
DONA  SOL  (tremante)  -  Che  avete? 
HERNANI  -  Il  vecchio! 

DoffA  SOL  -  Dio!  che  sguardo  funereo!  Che  avete? 
HERNANI  -  Il  vecchio,  che  ride  nelle  tenebre!  Non  lo  vedete? 
DONA  SOL  -  Perdete  la  ragione?  Cos'è  questo  vecchio? 
HERNANI  -  Il  vecchio! 
DONA  SOL   (buttandosi  in  ginocchio)  -  Ti  supplico  in  ginocchio,  oh! 

dimmi,  quale  segreto  ti  strazia?  Cos'hai? 


4.  •  Tetro  francete 


82  VICTOR  HUGO 

HERNANi  -  L'ho  giurato! 

DONA  SOL  -  Giurato?  (segue  ansiosamente  tutti  i  suoi  movimenti.  Her- 
nani  si  ferma  improvvisamente  e  si  passa  la  mano  sulla  fronte) 

HERNANi  {a  parte)  -  Che  stavo  dicendo?  Risparmiamola,  {ad  alta  voce) 
Io,  nulla.  Di  cosa  t'ho  parlato? 

DONA  SOL  -  Avete  detto... 

HERNANi  -  No,  no.  NoH  sapevo  cosa  dicevo...  Mi  sento  un  po'  male,  sai. 
Non  ti  spaventare. 

DONA  SOL  '  Ti  occorre  qualche  cosa?  ordina  alla  tua  serva,  (ricomincia 
il  suono  del  corno) 

HERNANi  (a  parte)  -  Lo  vuole!  lo  vuole!  ha  il  mio  giuramento!  (porta 
la  mano  atta  cintola  senza  spada  e  senza  pugnale)  Nulla!  E  avreb- 
be dovuto  esser  già  fatto!... 

DONA  SOL  -  Soffri  molto? 

HERNANi  -  Una  vecchia  ferita,  che  sembrava  chiusa,  si  apre...  (a  parte) 
Allontaniamola,  (ad  alta  voce)  Dona  Sol,  amor  mio,  senti.  Quel 
cofanetto  che  —  in  giorni  meno  felici  —  portavo  con  me... 

DONA  SOL  -  So  che  cosa  vuoi.  Ebbene,  che  vuoi  farne? 

HERNANi  .  C'è  rinchiuso  un  flacone  con  un  elisir  che  potrà  far  cessare 
il  male  che  provo.  Va'! 

Dof^A  SOL  -  Vado,  mio  signore,  (esce  dalla  porta  della  camera  nuziale) 


SCENA   QUARTA 

HERNANI,   solo 

Ecco  che  cosa  lui  viene  a  fare  della  mia  felicità!  Ecco  il  dito 
fatale  che  brilla  sul  muro!  Oh!  il  destino  si  beffa  amaramente  di 
me!  (rimane  assorto  in  una  meditazione  profonda  e  agitata,  poi  si 
volge  bruscamente)  Ebbene?...  Ma  tutto  tace.  Non  sento  avvicinarsi 
niente.  Se  mi  fossi  sbagliato!... 

(la  maschera  in  domino  nero  appare  in  cima  alla  scalinata.  Hernani  si 
ferma  impietrito) 


HERNANI  83 


SCENA   QUINTA 

HERNANI,  LA   MASCHERA 

LA  MASCHERA  -  ((  Qualunque  cosa  accada,  quando  tu  vorrai,  vecchio,  in 
qualsiasi  luogo,  a  qualsiasi  ora,  se  ti  verrà  in  mente  che  è  tempo 
ch'io  muoia,  vieni,  suona  questo  corno  e  non  ti  preoccupare  d'al- 
tro. Tutto  sarà  compiuto!  ».  Questo  patto  ebbe  per  testimoni  i  mor- 
ti. Ebbene,  tutto  è  fatto? 

HERNANI  {a  bassa  voce)  -  È  lui! 

LA  MASCHERA  -  Veugo  in  casa  tua  a  dirti  che  è  tempo.  Questa  è  la  mia 
ora.  Ti  trovo  in  ritardo. 

HERNANI  -  Bene.  Cosa  vuoi  fare?  Che  farai  di  me?  Parla. 

LA  MASCHERA  -  Puoi  Scegliere  tra  il  ferro  o  il  veleno.  Ho  con  me  il  ne- 
cessario. Partiremo  tutti  e  due.  , 

HERNANI  -  Sia  come  vuoi. 

LA  MASCHERA  -  Preghiamo? 

HERNANI  -  Che  importa? 

LA  MASCHERA  -  Che  cosa  scegli? 

HERNANI  -  Il  veleno. 

LA  MASCHERA  -  Bene!  Dammi  la  mano,  {porge  una  fiala  a  Hernani,  che 
la  prende  impallidendo)  Bevi,  perché  io  la  possa  finire. 

(Hemani  avvicina  la  fiala  alle  labbra,  poi  indietreggia) 

HERNANI  -  oh!  per  pietà,  domani.  Oh!  se  ti  resta  un  cuore,  duca,  o  al- 
meno un'anima,  se  non  sei  uno  spettro  sfuggito  alle  fiamme  in- 
fernali, un  dannato,  ormai  fantasma  o  demonio,  se  Iddio  non  ha 
ancora  scritto  sulla  tua  fronte:  giammai!  se  tu  sai  cos'è  quella  su- 
prema felicità  di  amare,  di  aver  vent'anni,  e  sposarsi  quando  si  è 
innamorati,  se  mai  donna  amata  ha  tremato  fra  le  tue  braccia, 
aspetta  fino  a  domani!  Domani  ritornerai! 

LA  MASCHERA  -  Ingenuo  chi  parla  cosi!  Domani!  domani!  Tu  scherzi! 
Le  campane  stamani  suonavano  per  i  tuoi  funerali!  Che  farei,  io, 
stanotte?  Ne  morrei.  E,  dopo,  chi  verrebbe  a  prenderti  e  a  portarti 
via?  Scendere  solo  nella  tomba!  Giovanotto,  bisogna  seguirmi. 

HERNANI  -  Ebbene,  no!  e  io  mi  sbarazzo  di  te,  demonio!  Non  obbedirò. 

LA  MASCHERA  -  Me  Timmagiuavo.  Benissimo.  Su  che  m'hai  fatto  que- 


84  VICTOR   HUGO 

Sto  giuramento?  Ah!  su  nulla!  su  poca  cosa,  dopotutto!  La  testa  di 
tuo  padre!  Questo  si  può  dimenticare.  La  giovinezza  è  incostante. 

HERNANi  -  Mio  padre!  Mio  padre!...  Ah!  impazzirò! 

LA  MASCHERA  -  No,  non  si  tratta  che  di  uno  spergiuro  e  di  un  tradi- 
mento. 

HERNANI  -  Duca! 

LA  MASCHERA  -  Dato  che  i  capi  delle  casate  spagnole  si  divertono  ormai 
a  non  mantenere  la  parola  data,  addio!  {fa  un  passo  per  andarsene) 

HERNANI  -  Non  andartene. 

LA  MASCHERA  -  Allora... 

HERNANI  -  Vecchio  Crudele!  {prende  la  fiala)  Tornare  indietro  quan- 
d'ero giunto  fino  alla  porta  del  cielo! 

(rientra  Dona  Sol  senza  vedere  la  maschera  che  è  in  piedi,  in  fondo) 


SC^NA   SESTA 

GLI   STESSI,  DONA   SOL 

Dof^A  SOL  -  Non  son  riuscita  a  trovarlo,  quel  cofanetto. 

HERNANI  {a  parte)  -  Dio!  è  lei!  in  che  momento! 

DONA  SOL  -  Che  cos'ha?  La  mia  voce  lo  spaventa,  lo  fa  vacillare!  Cos'hai 
in  mano?  che  orribile  sospetto!  che  cos'hai  in  mano?  rispondi.  (// 
domino  s'è  avvicinato  e  si  toglie  la  maschera,  Lei  getta  un  grido  e 
riconosce  don  Ruy)  È  un  veleno! 

HERNANI  -  Gran  Dio! 

DONA  SOL  {a  Hernani)  -  Che  t'ho  fatto?  che  orribile  mistero!  Voi  m'in- 
gannavate, Don  Juan! 

HERNANI  -  Ah!  ho  dovuto  tacere  con  te!  Ho  promesso  di  morire  al 
duca  che  mi  salvò!  Aragon  deve  pagar  questo  debito  a  Silva. 

DONA  SOL  -  Voi  non  siete  suo,  ma  mio.  Che  m'importa  di  tutti  gli  altri 
giuramenti!  {a  don  Ruy  Gomez)  Duca,  l'amore  mi  rende  forte.  Lo 
difenderò  contro  voi,  duca,  contro  tutti. 

DON  RUY  GOMEZ  {immobile)  '  Difendilo  contro  un  giuramento,  se  puoi. 

DONA  SOL  -  Quale  giuramento? 

HERNANI  -  Ho  giurato. 

DONA  SOL  -  No,  no,  non  sei  legato  da  niente.  Non  può  essere!  È  un  de- 
litto! un  attentato!  una  pazzia! 


HERNANI  85 

DON  RUY  GOMEZ  -  Andiamo,  duca. 

{Hernani  fa  un  gesto  come  per  obbedire.  Dona  Sol  cerca  di  trasci- 
narlo via) 

HERNANI  -  Lasciatemi,  Dona  Sol.  È  necessario.  Il  duca  ha  la  mia  parola 
e  mio  padre  è  lassù! 

Dof5A  SOL  {a  don  Ruy  Gomez)  -  Sarebbe  meglio  per  voi  andare  a  por- 
tar via  i  loro  cuccioli  alle  tigri  piuttosto  che  portar  via  a  me  l'uo- 
mo che  amo!  Sapete  chi  è  Dona  Sol?  Ho  fatto  per  tanto  tempo  la 
fanciulla  dolce,  innocente  e  timida  perché  avevo  pietà  della  vostra 
età,  dei  vostri  sessant*anni;  ma  vedete  questi  occhi  umidi  di  lacrime 
di  rabbia?  {estrae  un  pugnale  nascosto  in  seno)  Vedete  questo  pu- 
gnale? Ah!  vecchio  insensato,  non  avete  paura  della  lama  quando 
lo  sguardo  è  minaccioso?  Fate  attenzione,  Don  Ruyl  Sono  della 
stessa  famiglia,  zio!  Ascoltatemi.  Anche  se  fossi  vostra  figlia,  guai 
a  voi  se  metteste  le  mani  sul  mio  sposo!  (getta  via  il  pugnale  e  cade 
in  ginocchio  dinanzi  al  duca)  Ah!  mi  getto  ai  vostri  piedi!  Abbiate 
pietà  di  noi!  Grazia!  Ahimé!  mio  signore,  non  sono  che  una  don- 
na, sono  debole,  la  mia  forza  si  esaurisce  tutta  dentro  di  me,  e 
crollo  facilmente.  Cado  in  ginocchio  di  fronte  a  voi!  Ah!  Ve  ne 
supplico,  abbiate  pietà  di  noi! 

DON  RUY  GOMEZ  -  Dona  Sol! 

DONA  SOL  -  Perdonatemi!  In  noi  spagnoli  il  dolore  s'esprime  con  parole 
pungenti,  voi  lo  sapete.  Ahimé!  non  eravate  cattivo!  Pietà!  Se  lo  uc- 
cidete, mi  uccidete,  zio!  Pietà!  lo  amo  tanto! 

DON  RUY  GOMEZ  (cupo)  -  Lo  amate  troppo! 

HERNANI  -  Tu  piangi! 

DONA  SOL  -  No,  no,  non  voglio  che  tu  muoia,  amor  mio.  No!  non  vo- 
glio, (a  Don  Ruy)  Fate  grazia!  Vorrò  bene  anche  a  voi. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Dopo  di  lui!  Con  questi  avanzi  d'amore,  di  amicizia^ 
meno  ancora,  credete  forse  di  calmare  la  sete  che  mi  brucia?  (indi- 
cando Hernani)  Lui  è  il  solo!  Lui  è  tutto!  Ma  io,  bella  pietà!  Che 
me  ne  faccio  io  della  vostra  amicizia?  O  rabbia,  lui  avrebbe  il  vo- 
stro cuore,  il  vostro  amore,  il  trono,  e  a  me  farebbe  l'elemosina 
d'un  vostro  sguardo!  E  se  i  miei  desideri  insensati  reclamassero 
una  parola,  sarebbe  lui  a  dirvi:  «  Di'  cosf,  basta!  »  maledicendo 
sottovoce  l'avido  mendicante  a  cui  bisogna  gettare  il  fondo  del  bic- 
chiere vuoto!  Vergogna!  derisione!  No.  Bisogna  finirla.  Bevi. 

HERNANI  -  Ha  la  mia  parola  e  io  devo  mantenerla. 

DON  RUY  GOMEZ  -  SuVvia! 


86  VICTOR  HUGO 

{Hernani  avvicina  la  fiala  alle  labbra.  Dona  Sol  si  butta  sul  suo  brac- 
cio) 

DONA  SOL  -  Ohi  non  ancora!  Degnatevi  ascoltarmi  tutti  e  due. 

DON  RUY  GOMEZ  -  Il  sepolcfo  è  aperto  e  io  non  posso  aspettare. 

DONA  SOL  -  Un  istante!  Mio  signore!  Mio  Don  Juan!  Ah!  siete  davvero 
crudeli  tutti  e  due!  Che  cosa  voglio  da  voi?  Un  istante!  Ecco  tutto 
quello  che  reclamo!  Laciate  dire  finalmente  a  questa  povera  donna 
quello  che  ha  nel  cuore!...  oh!  lasciatemi  parlare! 

DON  RUY  GOMEZ  {a  Hernani)  -  Ho  fretta. 

DONA  SOL  -  Miei  signori,  mi  fate  tremare!  Ma  che  cosa  vi  ho  fatto? 

HERNANI  -  Ah!  le  sue  grida  mi  straziano. 

DONA  SOL  {trattenendogli  sempre  il  braccio)  -  Vedete  bene  che  ho  mille 
cose  da  dire! 

DON  RUY  GOMEZ  {a  Hcmani)  -  Bisogna  morire. 

DONA  SOL  (sempre  aggrappata  al  braccio  di  Hernani)  -  Don  Juan, 
quando  avrò  parlato  tu  farai  tutto  ciò  che  vorrai,  (gli  strappa  di 
mano  la  fiala)  L'ho  io!  (alza  la  fida  fino  agli  occhi  di  Hernani  e 
del  vecchio  sbalordito) 

DON  RUY  GOMEZ  -  Don  Juan,  poiché  qui  ho  a  che  fare  solo  con  due  don- 
ne, bisogna  che  vada  altrove  a  cercare  un  uomo.  Tu  fai  dei  bei  giura- 
menti sul  sangue  da  cui  esci;  vado  dai  morti  a  parlarne  con  tuo 
padre!  Addio!  {fa  alcuni  passi  per  uscire.  Hernani  lo  trattiene) 

HERNANI  -  Duca,  fermatevi!  (a  Dona  Sol)  Ahimé!  Vuoi  farmi  diven- 
tare menzognero,  traditore  e  spergiuro?  Vuoi  che  mi  trascini  do- 
vunque con  il  tradimento  scritto  sulla  fronte?  Per  pietà,  rendimi 
quel  veleno!  In  nome  del  nostro  amore,  della  nostra  anima  immor- 
tale!... 

DONA  SOL  (cupa)  -  Lo  vuoi?  (beve)  Tieni,  ora. 

DON  RUY  GOMEZ  (a  parte)  -  Ah!  l'avevo  dunque  lasciata  per  lei! 

DofiA  SOL  (restituendo  a  Hernani  la  fiala  semivuota)  -  Prendi,  ti  dico. 

HERNANI  (a  don  Ruy)  -  Guarda,  miserabile  vecchio! 

DONA  SOL  -  Non  lamentarti  di  me,  ti  ho  lasciato  la  tua  parte. 

HERNANI  (prendendo  la  fiala)  -  Dio!  Dio! 

DONA  SOL  -  Tu  non  m'avresti  lasciato  la  mia  parte  come  ho  fatto  io. 
Tu!  Tu  non  hai  il  cuore  di  una  sposa  cristiana.  Tu  non  sai  amare 
come  ama  una  Silva.  Ma  ho  bevuto  per  prima  e  sono  tranquilla. 
Va'!  Bevi,  se  vuoi! 

HERNANI  -  Ahimé!  Che  hai  fatto  mai,  infelice? 

DONA  SOL  -  Sci  tu  che  l'hai  voluto. 

HERNANI  -  È  una  morte  orribile! 


HERNANI  87 

DONA  SOL  -  No.  Perché  mai? 

HERNANI  -  Questo  fUtTo  coiiduce  alla  tomba. 

DONA  SOL  -  Non  dovevamo  forse  dormire  insieme  stanotte?  Che  im- 
porta in  quale  letto? 

HERNANI  -  Padre  mio,  ti  vendichi  su  di  me  che  dimenticavo!  {porta  la 
fida  alla  bocca) 

DONA  SOL  {gettandosi  su  dì  luì)  -  Cielo!  che  strani  dolori!...  Ah!  getta 
via  quel  filtro!  Perdo  la  ragione.  Fermati!  Ahimé,  mio  Don  Juan, 
quel  veleno  è  cosa  viva!  quel  veleno  fa  nascere  in  cuore  un'idra 
con  mille  denti  che  rosicchiano  e  divorano!  Oh!  non  sapevo  che 
si  soffrìsse  fino  a  questo  punto!  Ma  cos*è  mai  codesto  veleno?  è 
fuoco!  Non  bere!  Oh!  soffriresti  troppo! 

HERNANI  {a  Don  Ruy)  -  Oh  !  hai  un'anima  crudele.  Non  potevi  scegliere 
un  altro  veleno  per  lei?  {beve  e  getta  via  la  fiala) 

DONA  SOL  -  Che  fai? 

HERNANI  -  E  tu,  che  hai  fatto? 

DONA  SOL  -  Vieni  fra  le  mie  braccia,  o  mio  giovane  amante,  {si  siedono 
uno  vicino  ali* altra)  Non  è  vero  che  si  soffre  terribilmente? 

HERNANI  -  No. 

DofJA  SOL  -  Ecco  incominciata  la  nostra  notte  di  nozze!  Dimmi,  sono 
troppo  pallida  per  una  fidanzata? 

HERNANI  -  Ah! 

DON  RUY  GOMEZ  -  Il  destino  si  compie. 

HERNANI  -  Oh  disperazione!  oh  tormento!  Dona  Sol  soffre  e  io  devo 
vederlo! 

Dof^A  SOL  -  Calmati.  Sto  meglio.  Fra  poco  apriremo  insieme  le  nostre 
ali  verso  una  nuova  luce.  Partiamo  con  un  volo  uguale  verso  un 
mondo  migliore.  Un  bacio  solo,  un  bacio!  {si  baciano) 

DON  RUY  GOMEZ  -  Che  tortura! 

HERNANI  {con  vocc  flebile)  -  Oh!  benedetto  il  cielo  che  m'ha  dato  una 
vita  circondata  di  abissi  e  accompagnata  da  spettri,  ma  che  mi 
permette  di  addormentarmi,  stanco  d'un  si  duro  cammino,  con  le 
labbra  sulla  tua  mano! 

DON  RUY  GOMEZ  -  Come  sono  felici! 

HERNANI  (con  vocc  scmpTc  piti  debole)  -  Vieni,  vieni...  Dona  Sol...  tutto 
è  buio...  Soffri? 

doSa  SOL  {anche  lei  con  voce  spenta)  -  Niente,  più  niente. 

HERNANI  -  Vedi  delle  luci  nell'ombra? 

DofiA  SOL  -  Non  ancora. 

HERNANI  {con  un  saspiro)  -  Ecco...  {cade) 


VICTOR  HUGO 


DON  RUY  GOMEZ  {sollevandogli  la  testa  che  ricade)  -  Morto  I 
Dof^A  SOL  (scarmigliata,  rialzandosi  un  foco)  -  Morto!  no!  noi  dor- 
miamo. Dorme.  È  il  mio  sposo,  vedi.  Ci  amiamo.  Siamo  sdraiati 
qui.  È  la  nostra  notte  di  nozze,  {con  voce  che  va  spegnendosi)  Non 
lo  svegliate,  signor  duca  di  Mendoza.  È  stanco,  {pra  verso  di  sé 
il  volto  di  Hernant)  Amor  mio,  stai  voltato  verso  di  me...  Piò  vi- 
cino... ancora  più  vicino...  (cade) 
DON  RUY  ooMEZ  -  Morta!  Oh!  sono  dannato,  (si  uccide) 


La  presente  traduzione  è  a  cura  di  Liano  Petroni, 


ALFRED  DE  MU8SET 


Intorno  al  1830,  Alfred  de  Mussct  è  un  giovane  brillante  (è 
nato  a  Parigi  TU  novembre  1810)  che  frequenta  i  caffé  e  i  cenacoli 
alla  moda,  discute  di  musica  e  di  pittura,  scrive  versi  sulla  Spa- 
gna e  sull'Italia  (che  non  ha  ancora  vista),  si  sente  già  ricco  di  scet- 
tica esperienza  e  vittima  felice  «de  ce  dieu  fainéant  qu'on  nom- 
me  fantaisie  >.  Il  precoce  saggio,  che  resterà  sempre  immaturo,  ser- 
ve pure  il  demone  della  contraddizione  e  dei  travestimenti  senza 
maschera,  mostrando  un  certo  compiacimento  nel  vedersi  doppio 
e  confuso  nelle  proprie  illusioni.  «  C'est  qu'on  pleure  en  riant; 
c'est  qu'on  est  innocent  -  Et  coupable  à  la  fois;  c'est  qu'on  se 
croit  parjure  -  Lorsqu'on  n'est  qu'abusc...  >  :  cosi  filosofeggia  in 
Namouna  (1832)  il  mistificato  «enfant  terrible>  dell'ironia  e  del 
fervore  che  adora  tutto  con  giovanile  entusiasmo  fingendo  di  non 
prendere  sul  serio  nessuno.  Romantico  fino  alla  cima  dei  capelli 
e  dichiarato  nemico  di  lune  e  laghi,  classico  per  capriccio  e  per  di- 
spetto, Musset  piange  e  ride,  e  ride  piangendo,  davanti  allo  spet- 
tacolo roseo  ed  air«océan  hideux>  del  mondo,  si  dissipa  nelle 
taverne  dorate  fra  le  facezie  di  Mardochc  e  le  malinconie  dei 
Voetix  stérilcs  (1831),  si  esalta  con  Manon  e  con  don  Giovanni, 
disserta  su  Lovelace  «roué  san  coeur>  e  su  Valmont,  folleggia 
con  la  musa  erratica  di  Namouna  o  si  porta  col  fatale  Rolla  in  una 
casa  di  prostituzione  dove,  gemendo  sull'angelo  contaminato,  in- 
veisce contro  l'orrido  sorriso  di  Voltaire  e  versa  lagrime  sulla  muta 
cenere  del  Golgota. 

«Je  ne  crois  pas,  6  Christ,  à  ta  parole  sainte»:  tuttavia  «il 
meno  credulo  figlio  di  un  secolo  senza  fede  >  ha  una  mistica  ado- 
razione per  un  idolo  che  gli  promette  infinite  beatitudini.  «  Heu- 
reux  un  amoreux!  —  sospira  il  diciannovenne  Mardoche,  —  ...sa 
folie  au  front  lui  met  une  couronne,  -  A  l'épaule  une  pourpre...  ». 


92  ALFRED   DE    MUSSET 

«  Doutez  de  tout  au  monde  et  jamais  de  Tamourl  >,  grida  qualche 
anno  dopo  in  una  epistola  poetica  premessa  alla  Coupé  et  les  Le- 
vres.  Ma  Rolla-Alfredo,  che  nella  realtà  della  vita  ha  finora  cono- 
sciuto soltanto  il  volto  triviale  dell'idolo,  comincia  a  sentire  il  vuoto 
del  €  flacone  >  (o  della  donna  qualunque)  che  dà  l'ebbrezza,  ha  il 
presentimento  —  come  scrive  il  fratello  Paolo  —  e  magari  la  spe- 
ranza di  un  vero  grande  amore  e  di  una  buona  grande  sventura. 
L'uno  e  l'altra  lo  aspettano  a  Venezia,  nell'infausto  1834,  con  la 
malattia  e  il  memorabile  tradimento  che  trasforma  la  vanessa  Mar- 
doche-Hassan  in  querulo  «  pellicano  >. 

Dal  '35  al  '38  Musset  non  farà  che  allargare  «la  saintc  bles- 
surc  >,  donde  sgorgano  le  declamate  Confessions  d*un  enfant  du 
siede,  il  torrente  lirico  delle  NuitSy  una  lettera  d'amore  a  Lamar- 
tine,  dal  quale  avrà  un'insolente  risposta,  una  lettera  di  speranza 
a  Dio,  dal  quale  non  spera  nessuna  risposta.  «Me  voilà  seuI,  er- 
rant,  fragile  >  :  il  troppo  debole  cuore  perdona  all'infedele,  ma  re- 
sterà fedele  alla  cara  sventura,  della  quale  porta  con  ostentazione 
il  lutto.  Nel  1840  l'uomo  di  trent'anni  si  sente  ormai  finito  («  J'ai 
perdu  ma  force  et  ma  vie...  >),  mentre  si  fanno  sempre  più  rare 
le  visite  della  Musa  al  poeta  stanco  che  divaga  fra  gl'incontri  con 
il  sepolcro  imbiancato  del  morto  amore  e  i  pellegrinaggi  del  ricor- 
do negli  splendidi  luoghi  del  sinistro.  «  Tu  l'as  vu,  ce  cicl  enchan- 
té?...  Linceul  d'or  sur  des  ossements!  -  Ci-git  Venise...  Là  mon  pau- 
vre  coeur  est  reste!  >.  Poi  sono,  fra  le  distrazioni  e  le  tardive  sod- 
disfazioni offerte  dal  teatro,  i  lunghi  silenzi  rotti  da  qualche  gra- 
ziosa canzone  e  da  tristi  «  complaintes  »,  gl'incubi  e  le  allucina- 
zioni dell'infermo,  la  grande  pietà  di  una  vita  dissipata,  con  l'an- 
goscia «  dell'ora  della  morte  che  suona  da  ogni  parte  »,  e  che  viene 
il  primo  maggio  1857,  quando  da  un  pezzo  «  il  principe  della  gio- 
ventù »  non  era  che  la  squallida  ombra  di  se  stesso. 

Gli  amici  e  i  biografi,  le  donne  che  in  tempi  diversi  lo  conob- 
bero più  da  vicino  (la  fredda  George  Sand,  la  buona  Louise  Al- 
lan-Despréaux)  sono  concordi  nel  dirci  che  in  Musset  c'erano  due 
uomini,  il  cinico  e  l'entusiasta,  il  tenero  e  il  violento,  il  delizioso 
«causeur»  e  il  nevrastenico  insopportabile.  Lo  stesso  poeta,  del 
resto,  non  ha  mai  cessato  di  fare  il  processo  a  porte  aperte  al  Nar- 
ciso bifronte,  traducendo  in  stile  settecentesco  e  in  romantici  fiori 


PRESENTAZIONE  93 

di  dubbio  gusto  quello  che  sarà  il  baudelairiano  conflitto<olloquio 
di  Spleen  e  Ideale,  riducendo  in  «  marivaudage  >  e  in  ambigua  mi- 
niatura, il  «doublé»  ncrvaliano,  Tangelo-demone  di  Rimbaud^ 
il  Pierrot  patetico  e  vizioso  di  Verlaine.  «  Figlio  del  secolo  >,  dun- 
que, nel  vivere  e  soprattutto  nel  portare  alla  ribalta  il  dramma  in- 
timo dell'*  homo  duplex  >,  Musset  è  in  anticipo  (o  in  ritardo)  sul 
tempo  per  le  ingenue  sfide  allo  scandalo  e  per  la  sua  imprudente 
maniera  di  mettere  nello  stesso  trasparente  sacco  Mardoche  e  Rolla, 
la  tragedia  di  Leporello  e  la  farsa  di  don  Giovanni,  il  melodram- 
ma che  «  fa  piangere  Margot  »  e  la  fiaba  di  una  Notte  di  mezza 
estate. 

Dandy  allo  specchio  e  clown  in  continua  esibizione,  l'eroe 
della  propria  commedia  lagrimosa  ha  la  naturale  vocazione  del 
teatro,  sembrerebbe  il  più  legittimo  rappresentante  di  quel  teatro 
grottesco  di  cui  Hugo  s'è  fatto  il  rumoroso  banditore.  Può  quindi 
sorprendere  allorché,  nelle  Lettere  de  Dupuis  et  de  Cotonnet 
(1836),  lo  si  trova  a  deridere  il  «guazzabuglio»  della  prefazione 
di  Cromwell  e  il  dramma  che  sposa  il  comico  con  il  tragico,  che 
si  veste  di  bianco  e  di  nero,  che  agita  con  una  mano  il  pugnale  e 
con  l'altra  la  «  marotte  >  del  buffone.  E  l'atteggiamento  di  Musset 
è  tanto  più  singolare  in  quanto  il  suo  teatro  è  all'insegna  del  «  folle 
o  triste  dio  »  della  fantasia  che  tira  e  imbroglia  i  fili  di  personaggi 
che  passano  con  volubilità  dal  riso  al  pianto,  che  maneggiano  il 
pugnale  di  Lorenzino  de'  Medici  (o  di  Belcolore)  e  la  buffonesca 
lenza  di  Fantasio,  che  vivono  di  capricci,  di  sbadigli,  di  finte  e  di 
giuochi,  ma  che  sono  pure  capaci  di  morire  d'amore.  Il  che  non 
toglie  che  il  teatro  di  Musset  sia  effettivamente  agli  antipodi  di 
quello  di  Hugo,  appaia  nel  romantico  mare  come  la  romantica  iso- 
la dell'anacronismo,  dove  s'incontrano  in  paradossale  convivenza 
le  ombre  piti  o  meno  vaghe  di  Racine  e  di  Shakespeare,  di  Walter 
Scott  e  di  Casanova,  del  Boccaccio  e  del  Leopardi  (il  cui  «  libret- 
to vale  un'epopea  >),  di  Marivaux,  di  Beaumarchais  e  di  Carmon- 
telle. 

Gli  esordi  del  Mardoche  che  si  sognava  Shakespeare  non  fu- 
rono brillanti.  La  grottesca  parodia  dei  Marrons  du  feu  (pubbli- 
cata nei  Contes)  passa  inosservata,  la  puerile  fantasia  satanica  della 
Quittance  du  diable  resta  fra  le  carte  inedite,  mentre  la  comme- 


94  ALFRED   DE   MUSSET 

diola  La  Nuit  vénitienne^  rappresentata  il  1830,  scatena  un  uragano 
di  fischi.  Disgustato  del  pubblico,  il  giovane  poeta  decide  di  riser- 
vare i  prodotti  del  suo  estro  dranunatico  al  libro  ed  ai  lettori  della 
Rcpue  des  Deux  Mondes.  Il  1832  Amleto  e  Ariele  si  trovano  an- 
cora uniti  e  divisi  nello  e  Spectacle  dans  un  fauteuil  >,  l'uno  gros- 
solanamente mascherato,  nella  Coupc  et  Ics  Lèvres,  da  Mefistofele 
e  da  eroe  byroniano,  l'altro  folleggiarne  nei  graziosi  travestimenti 
settecenteschi  della  commedia  A  quoi  révent  les  jeuncs  filles.  Mus- 
set  lavora  alacremente  cercando  in  varia  direzione  la  sua  strada. 
Il  1833  tenta  con  Andrea  del  Sarto  la  tragedia  familiare  del  genio 
tradito,  scrive  la  brillante  commedia  lagrimosa  dei  Caprices  de 
Marianne,  inizia  —  utilizzando  un  canovaccio  della  Sand  e  le 
Cronache  fiorentine  del  Varchi  —  il  draminone  Lorenzaccio,  che 
sarà  finito  Tanno  dopo  e  che  sarà  rappresentato  con  successo  sol- 
tanto il  1896.  Prima  di  partire  per  l'Italia  ha  scritto  Fantasio  (piace- 
vole farsa  dove  l'impertinente  Mardoche,  travestito  da  buffone,  fa 
volare  in  aria  «au  bout  d'un  hame9on>  la  parrucca  del  duca  di 
Mantova),  dopo  il  triste  ritorno  pubblica,  nel  luglio  del  1834,  il 
piccolo  capolavoro  On  ne  badine  pas  avec  l'amour^  dove  il  «  felice 
stratagemma  »  finisce  in  tragedia  di  cuori. 

€  En  se  plaignant  on  se  console  >,  pretende  la  Musa  delle  ì^otti, 
E  il  figlio  del  secolo  si  sottrae  al  e  severo  dio  del  silenzio  >  di- 
straendosi  a  modo  suo  —  e  in  frequente  compagnia  dell'autore  del 
]eu,  àcìVEpreuve,  dcìVHeureux  stratagème  —  in  una  serie  di  com- 
medie e  di  <  proverbi  >  sceneggiati  che  traggono  materia  da  varia 
fonte  e  dalla  duplice  immagine  di  Narciso.  Dopo  La  Quenouille 
de  Barbarine  (1835),  ispirata  da  una  novella  del  Bandelle,  vengono 
Le  Chandelier  (1835)  che  abbellisce  un'avventura  personale,  //  ne 
faut  jurer  de  rien  (1836),  Un  Caprice  (1837),  //  faut  qu'une  porte 
soit  ouverte  ou  fermée  (1845),  On  ne  saurait  penser  à  tout  (1849; 
imitato  dal  Distratto  di  Carmontelle),  Louison  (1849,  in  versi), 
Carmosine  (1850)  tratto  da  una  novella  del  Boccaccio,  Bettine 
(1851),  L'Ane  et  le  ruisseau  (1855).  Frammenti  e  progetti  dimo- 
strano il  continuo  interesse  di  Musset  per  il  teatro. 

Tutti  sanno  —  scriveva  Paolo  de  Musset  nella  biografia  del 
fratello  —  che  Alfredo  rassomigliava  ai  due  personaggi,  che  sem- 
brano agli  antipodi,  di  Ottavio  e  di  Celio.  Ed  è  pure  evidente  che 


PRESENTAZIONE  95 

Musset  scherza  o  declama  con  i  suoi  piccoli  Casanova  e  con  i  suoi 
don  Giovanni  sentimentali,  vive  con  loro  le  sue  avventure  reali  o 
immaginarie,  dà  qualcosa  del  suo  carattere  al  traviato  redento  Lo- 
renzaccio,  al  cinico  benefico  Parnasio,  al  candido  malizioso  Fortu- 
nio,  al  falso  scettico  Valentino  (//  ne  jaut  jurer  de  rien),  allo  scet- 
tico punito  Perdicano  (On  ne  badine  pus  uvee  l'amour)  e  ad  altri 
eroi  di  costante  incostanza.  Una  cosi  frequente  intrusione  dell'au- 
tore nel  personaggio  —  e  di  un  autore  che  non  pecca  per  eccesso 
di  controllo  —  farebbe  temere  il  pericolo  della  monotonia  e  i  ri- 
schi degli  straripamenti  lirici.  Accade  invece  che,  «rappresentan- 
dosi »,  la  personalità  doppia  si  sdoppia,  o  risolve  le  proprie  contrad- 
dizioni nei  legittimi  contrasti  di  commedia  e  dramma,  si  diversifi- 
ca nella  varietà  delle  situazioni,  trova  nel  giuoco  immaginario  il 
correttivo  della  materia  e  dell'esigenza  scenica.  Il  lirico  Musset,  in- 
somma, possiede  il  dono  del  teatro  :  e  nel  teatro  —  nel  brillante  del- 
la prima  età,  come  nel  grigio  malinconico  della  matura  stagio- 
ne —  la  divulgazione  resta  per  lo  pid  nella  grazia  della  favola  e 
nell'economia  della  storia,  lo  spirito  paradossale  incontra  la  misura 
nella  fantasia,  il  poeta  dà  il  meglio  di  se  stesso  —  e  del  teatro 
romantico  —  nella  sobria  eleganza  di  una  classicheggiante  prosa. 
Singolari  anche  gli  infortuni  e  le  fortune  del  poeta  e  del  dram- 
maturgo. I  «  grandi  >  del  suo  tempo  non  lo  presero  sul  serio  («  Oh! 
malheur  à  celui  qui  joue  avec  sa  lyre  »,  esclamava  lo  scandalizzato 
Lamartine;  «  C'est  un  des  artistes  éphcmères,  —  scriveva  Hugo,  — 
avec  qui  la  gioire  n'a  rien  à  faire  >),  gli  artisti  puri  della  seconda 
generazione  lo  coprirono  di  insulti  e  si  vergognavano  di  averlo  ado- 
rato, il  pubblico  ne  ignorò  per  lungo  tempo  commedie  e  Proverbi. 
Verso  il  1845  qualcuno  pensò  di  portare  sulla  scena  Un  Caprice, 
ma  solo  nel  1847  l'attrice  Allan-Despréaux  reduce  dalla  Russia 
(dove  la  commediola  era  rappresentata  da  un  pezzo)  potè  farla 
conoscere  al  pubblico  parigino.  Fu  un  grande  successo  che  appare 
tanto  più  sorprendente  in  quanto  era  cominciato  il  regno  di  Au- 
gier  e  di  Dumas  figlio.  Musset  si  dà  allora  a  rimaneggiare  le  vec- 
chie opere  per  adattarle  alla  scena  (nel  '48  sono  rappresentati  An- 
drea del  Sarto,  Le  Chandelier,  Il  ne  jaut  jurer  de  rien.  Il  faut 
qu'une  porte  soit  ouverte  ou  fermée;  e  quindi,  nel  1851,  Les  Capri- 
ces  de  Marianne,  pubblicati  nella  nuova  versione  il  1853)  e  si  met- 


96  ALFRED  DB  MUSSET 

te  a  scrivere  per  il  teatro.  Ma  egli  è  ormai  stanco  e  il  pubblico 
distratto.  Molti  dei  vecchi  lavori  rifatti  e  dei  nuovi  non  vedono  la 
luce  della  ribalta  che  dopo  la  sua  morte.  Ai  nostri  giorni,  mentre  il 
poeta  lirico  continua  a  suscitare  riserve  e  diffidenze,  il  dramma- 
turgo è  in  continua  ascesa.  La  critica  parla  di  Lorenzaccio  come 
di  un  capolavoro,  registi  ed  attori  (Baty,  Copcau,  Barrault,  Escan- 
de)  gareggiano,  dal  1918,  nel  mettere  in  scena  le  fantasie  dram- 
matiche del  figlio  del  secolo  —  e  di  un  vecchio  mondo  —  che  sem- 
bra parlare  il  linguaggio  <  attuale  »  di  Marivaux  e  di  Giraudoux. 


Non  è  possibile  fare  cenno  delle  molte  edizioni  comparse  in  vita 
e  dopo  la  morte  di  Musset.  Ci  limitiamo  a  indicare  le  Opere  comple- 
te dell'edizione  Charpentier  (1865-'66,  dicci  volumi  in  quarto)  e  so- 
prattutto recccUente  edizione  di  M.  Allem  {Poésies  complètes,  1951; 
Théàtre  compiei,  1952;  Bibl.  de  la  Pleiade).  Per  Les  Caprices  de  Ma- 
rianne  si  veda  l'edizione  critica  datane  nel  1910  da  G.  Michaut. 

Per  la  critica  cfr.  LcmaiUc,  Introduction  au  théàtre  d'A.  de  A/., 
1889;  L.  Lafoscadc,  Le  Théàtre  d'A  de  A/.,  1901;  J.  Pommier,  A  prò- 
pos  de  Lorenzacào,  1927;  P.  Dimoff,  La  genèse  de  Lorenzaccio,  1936; 
H.  Lefebvre,  A,  de  M,  dramaturge,  1955. 


I  eaprìeeì  di  Narìaima 


7.  •  Tetro  friuietBe 


PERSONAGGI 


CLAUDIO,  podestà 

OTTAVIO 
CELIO 

TIBIA,  servitore  di  Claudio 

PIPPO,  servitore  di  Celio 

MALVoLio,  sovrintendente  di  Hermia 

UN    GARZONE   d'oSTERIA 
DOKCESTICI   DI    MARIANNA 
DOMESTICI  DI   HERMIA 
DUE   SPADACCINI 

MARIANNA,  tnogUe  di  Caudio 
HERMIA,  madre  di  Celio 

La  scena  è  a  "Napoli,  Costumi  iudiani  dell'epoca  di  Francesco  l. 


I  CAPRICCI  DI  MARIANNA 


ATTO    PRIMO 

Una  piazza  di  fronte  alia  casa  di  Claudio, 

SCENA  PRIMA 

CELIO,   PIPPO 

CELIO  -  Ebbene,  Pippo,  hai  visto  Marianna? 

PIPPO  -  Sf,  Signore. 

CELIO  -  Che  t'ha  detto? 

PIPPO  -  È   sempre   più   piena  di   devozione  e   d'orgoglio.   Dice   che 

informerà  suo  marito,  se  si  continua  a  tormentarla. 
CELIO  -  Ah!  quanto  sono  infelice!  non  mi  resta  che  morire!  Ah!  la  piò 

crudele  di  tutte  le  donne!...  E  tu,  Pippo,  che  mi  consigli?  Quali 

espedienti  posso  ancora  escogitare? 
PIPPO  -  Intanto,  vi  consiglio  di  non  restare  costi,  perché  ecco  il  marito 

che  arriva,  (si  allontanano  ambedue  verso  il  fondo  della  scena) 


SCENA   SECONDA 

CLAUDIO,  TIBIA 

CLAUDIO  -  Sei  tu  un  mio  fedele  servitore?  il  mio  cameriere  devoto? 
Sappi  che  devo  vendicarmi  di  un  oltraggio. 

TIBIA  -  Voi,  Signore? 

CLAUDIO  -  Proprio  io,  giacché  quelle  impudenti  chitarre  non  la  smet- 
tono di  sussurrare  sotto  le  finestre  di  mia  moglie.  Ma,  pazienza! 
non  è  finito  tutto,  (scorge  Celio  e  Pippo)  Avvicinati  un  po'  qui: 


100  ALFRED   DE   MUSSET 

c'è  là  della  gente  che  potrebbe  sentirci.  Stasera  andrai  a  cercarmi  lo 
spadaccino  di  cui  t'ho  parlato. 

TIBIA  -  Per  far  che? 

CLAUDIO  -  Credo  che  Marianna  abbia  degli  amanti. 

TIBIA  -  Credete,  Signore? 

CLAUDIO  -  Si,  c'è  odore  d'amanti,  intorno  a  casa  mia;  nessuno  passa 
con  naturalezza  davanti  alla  mia  porta;  ci  piovono  chitarre  e  bi- 
glietti segreti. 

TIBIA  -  E  voi  potete  impedire  che  si  facciano  delle  serenate  a  vostra 
moglie? 

CLAUDIO  -  No;  ma  posso  appostare  un  uomo  dietro  il  cancello,  e  sba- 
razzarmi del  primo  che  entri. 

TIBIA  -  Eh  via!  vostra  moglie  non  ha  degli  spasimanti...  È  come  se  di- 
ceste che  io  ho  delle  amanti. 

CLAUDIO  -  E  perchè  non  dovresti  averne,  Tibia?  Sei  brutto,  si,  ma 
non  sei  davvero  uno  sciocco. 

TIBIA  -  D'accordo,  d'accordo. 

CLAUDIO  -  Vedi,  Tibia,  lo  riconosci  anche  tu;  non  c'è  alcun  dubbio  e 
il  mio  disonore  è  pubblico. 

TIBIA  -  Perché  pubblico? 

CLAUDIO  -  Te  lo  dico  io  che  è  pubblico. 

TIBIA  -  Ma,  Signore,  vostra  moglie  è  additata  in  tutta  la  città  come 
un  esempio  di  virtó.  Non  vede  nessuno,  non  esce  di  casa  altro  che 
per  andare  a  messa. 

CLAUDIO  -  Lasciami  fare;  sono  fuori  di  me  dalla  rabbia.  Dopo  tutti  i  re- 
gali che  lei  ha  ricevuto  da  mei...  S(,  Tibia,  sto  tramando  una 
macchinazione  terribile,  e  quasi  mi  sento  morir  di  dolore. 

TIBIA  -  Oh,  ma  no! 

CLAUDIO  -  Quando  ti  dico  qualcosa,  fammi  il  piacere  di  credermi. 

{escano) 


SCENA   TERZA 

CELIO,    solo 

Infelice  chi,  nel  pieno  della  sua  giovinezza,  s'abbandona  a  un 
amore  senza  speranza!...  Infelice  chi  si  lascia  andare  a  un  dolce 
sogno,  prima  di  sapere  dove  lo  porti  la  sua  chimera,  e  se  può  essere 
ricambiato!  Mollemente  steso  entro  una  barca,  lui  s'allontana  pian 
piano  dalla  riva;  scorge  in  lontananza  pianure  incantate,  verdi 


I   CAPRICCI   DI   MARIANNA  101 

praterie,  e  il  vago  miraggio  del  suo  Eldorado.  Le  onde  lo  portan 
via  silenziose,  e  quando  la  Realtà  lo  sveglia,  egli  è  tanto  lontano  dal 
luogo  agognato,  quanto  dalla  riva  lasciata.  Non  può  più  continuar 
la  sua  strada,  né  ritornar  sui  suoi  passi.  (//  sente  un  suonar  di  stru- 
menti) Che  mascherata  è  questa?  Non  è  forse  Ottavio  quello  che 
vedo? 


SCENA   QUARTA 

CELIO,  OTTAVIO,  che  ha  sul  suo  abito  un  lungo  domino  aperto,  con  una 
maschera  sul  viso  e  una  spatola  da  Arlecchino  in  mano 

OTTAVIO  (rivolgendosi  al  gruppo  di  maschere  che  non  si  vede)  -  Basta, 
amici,  tornate  a  casa.  Per  oggi  avete  strimpellato  abbastanza,  [a 
Celio,  togliendosi  la  maschera)  Mio  caro  signore,  come  sta  la  vostra 
graziosa  malinconia? 

CELIO  -  Ottavio!...  Pazzo  che  sei!  Hai  un  palmo  di  rosso  sulle  gote. 
Dov'hai  preso  codesto  strano  abbigliamento?  Non  ti  vergogni,  in 
pieno  giorno? 

OTTAVIO  -  O  Celio!  pazzo  che  sei!  hai  un  palmo  di  bianco  sulle  gote! 
Dov*hai  preso  codesto  strano  abbigliamento?  Non  ti  vergogni,  in 
pieno  carnevale? 

CELIO  -  Andavo  a  casa  tua. 

OTTAVIO  -  E  anch'io  andavo  a  casa  mia.  Come  sta  la  mia  casa?  Non 
la  vedo  da  otto  giorni. 

CELIO  -  Ho  da  chiederti  un  favore. 

OTTAVIO  -  Parla,  Celio,  ragazzo  mio.  Vuoi  dei  quattrini?  non  ne  ho 
più.  Vuoi  la  mia  spada?  eccoti  una  spatola  da  Arlecchino.  Parla, 
parla,  disponi  di  me. 

CELIO  -  Per  quanto  tempo  la  durerai  cosi...  Otto  giorni  fuori  di  casa!... 
T'ammazzerai,  Ottavio. 

OTTAVIO  -  Mai  di  mia  mano,  amico  mio,  mai,  preferirei  morire  piuttosto 
che  attentare  ai  miei  giorni. 

CELIO  -  E  non  è  forse  un  suicidio  come  un  altro,  la  vita  che  fai? 

oiTAVio  '  Immagina  di  vedere  un  funambolo  sulla  sua  corda,  calzato 
di  stivaletti  d'argento,  con  bilanciere  in  pugno,  sospeso  fra  il  cielo 
e  la  terra;  a  destra  e  a  sinistra  delle  vecchie  figurine  incartapeco- 
rite,  dei  magri  e  pallidi  fantasmi,  degli  agili  creditori,  dei  parenti 
e  delle  cortigiane,  tutta  una  legione  di  mostri  s'aggrappano  al 
suo  mantello  e  lo  stiracchiano  da  tutte  le  parti  per  fargli  perdere 


102  ALFRED  DE  MUSSET 

Tequilibrio.  Frasi  ridondanti,  paroloni  ben  montati  gli  cavalcano 
tutt'intorno;  un  nugolo  di  predizioni  sinistre  Taccieca  con  le  sue 
ali  nere.  Lui  continua  la  sua  corsa  leggera  da  Oriente  a  Occidente. 
Se  guarda  in  basso,  gli  gira  la  testa;  se  guarda  in  alto,  gli  manca 
il  piede.  Va  piti  veloce  del  vento,  e  tutte  le  mani  tese  intorno  a  lui 
non  riusciranno  a  fargli  versare  una  goccia  della  coppa  gioiosa  che 
tiene  in  mano.  Ecco  la  mia  vita,  amico  mio;  quella  che  vedi  è  la 
mia  immagine  fedele. 

CELIO  -  Quanto  sei  felice  d'esser  pazzo! 

OTTAVIO  -  Quanto  sei  pazzo  a  non  esser  felice!  Dimmi  un  po',  tu,  cos*c 
che  ti  manca? 

CEUO  -  Mi  manca  il  riposo,  la  dolce  spensieratezza  che  fa  della  vita  uno 
specchio  in  cui  ogni  oggetjo  si  riflette  un  istante  e  su  cui  tutto  sci- 
vola. Per  me,  un  debito  diventa  un  rimorso.  L'amore,  che  per 
voi  altri  è  un  passatempo,  sconvolge  tutta  la  mia  vita.  Amico  mio, 
tu  ignorerai  sempre  che  cosa  significa  amare  come  io  amo!  Il  mio 
studio  è  abbandonato;  da  un  mese  erro  giorno  e  notte  intorno  a 
quella  casa.  Quale  incanto  provo,  col  sorger  della  luna,  a  guidare 
sotto  quegli  alberelli,  in  fondo  alla  piazza,  il  mio  modesto  coro  di 
musicisti,  a  battere  il  tempo  io  stesso,  a  sentirli  cantare  la  bellez2» 
di  Marianna!  £  lei  non  è  mai  apparsa  alla  finestra,  non  è  mai  ve- 
nuta ad  appoggiare  la  sua  fronte  incantevole  alla  persiana. 

OTTAVIO  -  Chi  è  codesta  Marianna?  È  forse  la  mia  cugina? 

CELIO  -  Proprio  lei;  la  moglie  del  vecchio  Claudio. 

OTTAVIO  -  Non  l'ho  mai  vista;  ma  è  certamente  mia  cugina.  Claudio  è 
fatto  apposta.  Confidami  quel  che  t'interessa.  Celio. 

CELIO  -  Tutti  i  mezzi  da  me  tentati  per  parlarle  del  mio  amore  sono 
stati  inutili.  È  uscita  dal  convento,  ama  suo  marito  e  rispetta  i 
propri  doveri;  la  sua  porta  è  chiusa  per  tutti  i  giovani  della  città  e 
nessuno  può  avvicinarla. 

OTTAVIO  -  Bah!  È  carina?  Quanto  sono  sciocco!  Tu  l'ami,  il  resto  non 
ha  importanza.  Cosa  potrenmio  escogitare? 

CELIO  -  Posso  parlarti  francamente?  Non  riderai  di  me? 

OTTAVIO  -  Lasciami  rider  di  te  e  parla  francamente. 

CELIO  '  Nella  tua  qualità  di  parente,  tu  devi  esser  ricevuto  in  casa  sua. 

OTTAVIO  -  Ricevuto,  io?  non  lo  so.  Ammettiamo  che  io  sia  ricevuto.  A 
dirti  la  verità,  nella  mia  illustre  famiglia  'non  formiamo  davvero  un 
gruppo  molto  unito,  e  manteniamo  rapporti  fra  noi  solo  per  iscrìtto. 
Tuttavia  Marianna  conosce  il  mio  nome.  Dovrei  parlarle  in  tuo 
favore? 

CELIO  -  Venti  volte  ho  tentato  di  andarle  incontro;  venti  volte  mi  son 


I   CAPRICCI  DI   MARIANNA  103 

sentito  tremar  le  ginocchia  mentre  mi  avvicinavo  a  lei.  Quando 
la  vedo,  mi  sento  stringer  la  gola  'e  mi  sembra  di  soffocare,  come  se 
il  cuore  mi  venisse  in  gola. 

OTTAVIO  -  L'ho  provato.  Ed  è  proprio  cosi  che  nel  cuore  della  foresta, 
quando  una  cerva  avanza  lentamente  sulle  foglie  secche  e  il  caccia- 
tore sente  i  cespugli  scivolarle  lungo  i  fianchi  inquieti,  quasi  fosse 
il  fruscio  di  una  stoffa  leggera,  gli  comincia  a  battere  il  cuore  suo 
malgrado;  lui  alza  Tarma  in  silenzio,  senza  muovere  un  passo,  sen- 
za fiatare. 

CELIO  -  Perché  mai  io  sono  cosi?  Perché  non  so  amar  questa  donna 
come  la  sapresti  amare  tu,  Ottavio,  o  come  ne  amerei  un'altra? 
Perché  tutto  ciò  che  ti  farebbe  felice  e  premuroso,  tutto  ciò  che  atti- 
rerebbe te  come  Tago  della  calamita  attira  il  ferro,  rende  me  triste 
e  inmiobile?  Chi  potrebbe  dire:  questa  cosa  è  allegra  o  triste?  La 
realtà  non  è  che  un'ombra.  Chiama  fantasia  o  follia  ciò  che  la  divi- 
nizza. Allora  la  follia  diventa  la  bellezza  stessa.  Ogni  uomo  cam- 
mina avvolto  in  un  velo  trasparente  che  lo  copre  dalla  testa  ai  pie- 
di; egli  crede  di  vedere  dei  boschi  e  dei  fiumi,  dei  volti  divini,  e 
l'universale  natura  si  colora  sotto  i  suoi  sguardi  delle  sfumature  in- 
finite di  quel  tessuto  magico.  Ottavio!  Ottavio,  aiutami I 

OTTAVIO  -  Mi  piace  il  tuo  amore,  Celio!  Fa  divagare  il  tuo  cervello  come 
una  bottiglia  di  vino  siracusano.  Dammi  la  mano,  ti  vengo  in  aiuto; 
aspetta  un  po'.  L'aria  mi  sferza  la  faccia  e  mi  fa  tornare  le  idee.  Co- 
nosco codesta  Marianna:  mi  detesta,  molto,  senz'avermi  mai  visto. 
È  una  bambola  delicata  che  segue  solo  il  suo  capriccio,  una  vera  ra- 
gazza viziata. 

CELIO  -  Fa'  quello  che  vuoi,  ma  non  m'ingannare,  te  ne  supplico.  Non 
è  difficile  ingannar  me:  non  riesco  a  diffidare  di  un'azione  che  io 
non  vorrei  fare. 

OTTAVIO  -  Se  tu  scalassi  il  muro? 

CELIO  -  A  che  servirebbe,  se  lei  non  mi  ama? 

OTTAVIO  -  Se  tu  le  scrivessi? 

CELIO  -  Strappa  le  mie  lettere,  o  me  le  rimanda. 

OTTAVIO  -  Se  tu  ne  amassi  un'altra? 

CELIO  -  La  mia  vita  appartiene  a  Marianna;  una  sola  parola  che  esca 
dalle  sue  labbra  può  annientarla  o  farla  ardere  d'amore.  Vivere  per 
un'altra  mi  sarebbe  più  difficile  che  morire  per  lei.  Silenzio!  Eccola 
che  esce. 

OTTAVIO  -  Allontanati;  vado  ad  attaccar  discorso. 

CELIO  -  Dici  sul  serio?  nello  stato  in  cui  sei!  Pulisciti  il  viso;  hai  l'aria 
di  un  pazzo. 


104  ALFRED   DE  MUSSET 

OTTAVIO  {togliendosi  il  domino)  -  Ecco  fatto...  La  follia  ed  io,  mio 
caro  Celio,  siamo  troppo  cari  Tuno  all'altra  per  accapigliarci;  lei  fa 
la  mia  volontà,  come  io  faccio  la  sua.  Non  temere  per  questo;  è  da 
studente  in  vacanza,  che  balla  in  un  giorno  di  gran  festa,  perder 
la  testa  e  cercar  la  ragione;  io  non  ho  altra  ragione  che  il  mio 
capriccio;  il  mio  modo  di  pensare  è  quello  d'abbandonarmi  a  me 
stesso,  e  parlerei  al  re,  in  questo  momento,  come  parlerò  alla  tua 
bella. 

CELIO  -  Non  so  che  cosa  provo.  No,  non  parlarle. 

OTTAVIO  -  Perché? 

CELIO  -  Non  posso  dire  perché,  ma  mi  sembra  che  tu  debba  ingan- 
narmi. 

OTTAVIO  -  Qua  la  mano.  Da  quando  sono  al  mondo  non  ho  ancora  in- 
gannato nessuno,  e  non  comincerò  certo  dal  mio  migliore  amico. 

(Celio  esce) 


SCENA   QUINTA 

OTTAVIO,    MARIANNA 

OTTAVIO  -  Non  allontanatevi,  principessa  di  beltà!  Lasciate  cadere  uno 
dei  vostri  sguardi  sul  più  umile  dei  vostri  servitori. 

MARIANNA  -  Chi  siete? 

OTTAVIO  -  Il  mio  nome  è  Ottavio;  sono  cugino  di  vostro  marito. 

MARIANNA  -  Venite  a  trovarlo?  entrate  in  casa,  sta  per  tornare. 

OTTAVIO  -  Io  non  vengo  a  trovarlo  e  non  entrerò  affatto  in  casa,  per  ti- 
more di  esserne  scacciato  da  voi  fra  poco,  quando  vi  avrò  detto 
perché  sono  venuto. 

MARIANNA  -  Dispensatevi  dunque  dal  dirmelo  e  non  trattenetemi  oltre. 

OTTAVIO  -  Non  saprei  dispensarmene,  e  vi  supplico  di  fermarvi  per 
ascoltarlo.  Crudele  Marianna!  I  vostri  occhi  hanno  causato  un  gran 
male,  e  le  vostre  parole  non  sono  fatte  per  guarirlo.  Che  vi  aveva 
fatto  Celio? 

MARIANNA  -  Di  chi  parlate  e  che  male  ho  causato? 

OTTAVIO  -  Un  male  più  crudele  di  tutti  gli  altri,  perché  è  un  male  sen- 
za speranza;  il  più  terribile,  perché  è  un  male  che  si  compiace  di 
se  stesso  e  respinge  la  coppa  salutare  anche  quando  gli  è  porta  dalle 
mani  dell'amicizia;  un  male  che  fa  impallidire  le  labbra  sotto  ve- 
leni più  dolci  dell'ambrosia,  e  scioglie  in  una  pioggia  di  lacrime  il 


I   CAPRICCI   DI   MARIANNA  105 

cuore  più  duro,  come  la  perla  di  Cleopatra;  un  male  che  tutti  gli 
aromi,  tutta  la  scienza  umana  non  riuscirebbero  ad  alleviare,  e  che 
si  nutre  del  vento  che  passa,  del  profumo  di  una  rosa  appassita, 
del  ritornello  d'una  canzone,  e  che  attinge  l'eterno  alimento  delle 
sue  sofferenze  in  tutto  ciò  che  lo  circonda,  come  l'ape  succhia  il 
miele  da  tutti  i  cespugli  d'un  giardino. 

MARIANNA  -  Potrete  dirmi  il  nome  di  questo  male? 

OTTAVIO  -  Possa  dirvelo  colui  che  è  degno  di  pronunciarlo!  Ve  lo  inse- 
gnino i  sogni  delle  vostre  notti,  i  vostri  verdi  aranceti,  la  prima- 
vera! Possiate  voi  cercarlo  una  bella  sera,  lo  troverete  sulle  vostre 
labbra.  Il  suo  nome  non  esiste  senza  di  lui. 

MARIANNA  -  È  COSI  pericoloso  dirlo,  cosf  terribile  nel  suo  contagio,  da 
spaventare  una  lingua  che  parla  in  suo  favore? 

OTTAVIO  -  È  COSI  dolce  a  sentirlo  dire,  cugina,  da  spingervi  a  chiederlo? 
Voi  l'avete  insegnato  a  Celio. 

MARIANNA  -  È  Stato  ccrto  senza  volerlo;  io  non  conosco  né  l'uno  né 
l'altro. 

OTTAVIO  -  Che  voi  possiate  conoscerli  insieme  e  non  separarli  mai,  ecco 
l'augurio  del  mio  cuore. 

MARIANNA  -  Veramente? 

OTTAVIO  -  Celio  è  il  mio  migliore  amico;  se  volessi  destarvene  il  deside- 
rio, vi  direi  che  è  bello  come  il  sole,  giovane,  nobile,  e  non  men- 
tirei; ma  voglio  destare  in  voi  solo  la  pietà,  e  vi  dirò  che  è  triste 
come  là  morte  dal  giorno  in  cui  vi  ha  vista. 

MARIANNA  -  È  colpa  mia  se  è  triste? 

OTTAVIO  -  È  forse  colpa  sua  se  siete  bella?  Non  pensa  che  a  voi;  s'aggi- 
ra intorno  a  questa  casa  in  ogni  momento.  Non  avete  mai  sen- 
tito cantare  sotto  le  vostre  finestre?  Non  avete  mai  sollevato  a  mez- 
zanotte la  vostra  persiana  e  la  tenda? 

MARIANNA  -  Chiunque  può  cantare  la  sera,  e  questa  piaz2»  è  di  tutti. 

OTTAVIO  -  Tutti  possono  amarvi  ma  nessuno  può  dirvelo.  Che  età  ave- 
te, Marianna? 

MARIANNA  -  Che  bella  domanda!  E  se  non  avessi  ancora  diciott'anni, 
cosa  vorreste  che  ne  pensassi? 

OTTAVIO  -  Dunque  vi  restano  ancora  cinque  o  sei  anni  per  essere  amata, 
otto  o  dieci  per  esser  voi  ad  amare,  e  il  resto  per  pregare  Iddio. 

MARIANNA  -  Davvcro?'  Ebbene,  per  non  perder  tempo,  amo  Claudio,  vo- 
stro cugino  e  mio  marito. 

OTTAVIO  -  Mio  cugino  e  vostro  marito  non  faranno  mai,  in  due,  più  di 
un  pedante  da  villaggio.  Voi  non  amate  affatto  Claudio. 

MARIANNA  -  Né  CcHo;  potete  dirglielo. 


106  ALFRED  DE  MUSSET 

OTTAVIO  -  Perché? 

MARIANNA  -  Mi  direte  anche  perche  vi  ascolto?  Addio,  signor  Ottavio; 
lo  scherzo  è  durato  abbastanza. 


SCENA  SESTA 

OTTAVIO,  solo 

In  fede  mia,  in  fede  mia!  che  begli  occhi!  Ah!  ecco  Claudio. 
Non  è  proprio  la  stessa  cosa,  e  non  mi  curo  davvero  di  continuare 
la  conversazione  con  lui. 


SCENA  SETTIMA 

TIBIA,   CLAUDIO,   OTTAVIO 

CLAUDIO  (a  Tibia)  -  Hai  ragione... 
OTTAVIO  {a  Claudio)  -  Buonasera,  cugino. 
CLAUDIO  -  Buonasera,  {a  Tibia)  Hai  ragione. 
OTTAVIO  -  Cugino,  buonasera. 
CLAUDIO  -  Buonasera,  buonasera. 


SCENA    OTTAVA     . 

TIBIA,    CLAUDIO 

CLAUDIO  -  Hai  ragione  tu,  e  mia  moglie  è  un  tesoro  di  purezza.  Che 
dirti  di  più?  è  una  virtó  solida. 

TIBIA  -  Credete,  signore? 

CLAUDIO  -  Può  forse  impedire  che  cantino  sotto  le  sue  finestre?  Gli 
scatti  d'impazienza  che  può  fare  quand*è  in  casa  dipendono  dal  suo 
carattere.  Hai  notato  che  sua  madre,  quando  ho  toccato  questo  ta- 
sto, è  stata  subito  del  mio  stesso  parere? 

TIBIA  -  A  che  proposito? 


I   CAPRICCI   DI   MARIANNA 


107 


CLAUDIO  -  A  proposito  di  quello  che  cantano  sotto  le  sue  finestre. 

TIBIA  -  Cantare  non  è  un  delitto;  anch'io  canticchio  sempre. 

CLAUDIO  -  Ma  cantar  bene  è  difficile. 

TIBIA  -  È  difficile  per  voi  e  per  me,  che,  non  avendo  ricevuto  in  dono 
dalla  natura  una  bella  voce,  non  l'abbiamo  mai  coltivata;  ma  guar- 
date come  se  la  cavano  bene  gli  attori  di  teatro. 

CLAUDIO  -  Quella  è  gente  che  passa  la  sua  vita  sul  palcoscenico. 

TIBIA  '  Quanto  credete  che  diano  all'anno... 

CLAUDIO  -  A  chi?  a  un  consigliere? 

TIBIA  -  No,  a  un  cantante. 

CLAUDIO  -  Non  lo  so...  A  un  consigliere  danno  un  terzo  di  quello  che 
vale  la  mia  carica;  gli  arciconsiglieri  hanno  il  doppio. 

TIBIA  -  Se  io  fossi  podestà  qui,  avessi  moglie,  e  mia  moglie  avesse  de- 
gli amanti,  li  condannerei  io  stesso. 

CLAUDIO  -  A  quanti  anni  di  galera? 

TIBIA  -  Alla  pena  di  morte.  È  una  cosa  superba  leggere  ad  alta  voce 
una  sentenza  di  morte. 

CLAUDIO  -  Non  è  il  podestà  che  la  legge;  è  il  cancelliere. 

TIBIA  -  Il  cancelliere  del  vostro  tribunale  ha  una  bella  moglie. 

CLAUDIO  -  No,  è  il  presidente  che  ha  una  bella  moglie.  Sono  stato  a 
cena  con  loro,  ieri. 

TIBIA  -  Anche  il  cancelliere!  Lo  spadaccino  che  deve  venire  stasera  è 
l'amante  della  moglie  del  cancelliere. 

CLAUDIO  -  Quale  spadaccino? 

TIBIA  -  Quello  che  avete  chiesto. 

CLAUDIO  -  È  inutile  che  venga,  dopo  quel  che  t'ho  detto  poco  fa. 

TIBIA  -  A  proposito  di  che? 

CLAUDIO  -  A  proposito  di  mia  moglie. 

TIBIA  -  Eccola  che  viene. 


SCENA   NONA 

TIBIA,   MARIANNA,   CLAUDIO 

MARIANNA  -  .Sapete  che  cosa  mi  è  capitato  mentre  voi  andate  a  zonzo? 
Ho  avuto  la  visita  di  vostro  cugino. 

CLAUDIO  -  Chi  può  mai  essere?  Chiamatelo  col  suo  nome. 

MARIANNA  -  Ottavio,  che  mi  ha  fatto  una  dichiarazione  d'amore  da  par- 
te del  suo  amico  Celio.  Chi  è  questo  Celio?  Conoscete  quest'uomo? 


108  ALFRED   DE   MUSSET 

Fate  in  modo  che  né  lui  né  Ottavio  mettano  piede  in  casa  nostra. 

CLAUDIO  -  Lo  conosco;  è  il  figlio  di  Hermia,  la  nostra  vicina.  E  voi  che 
cosa  avete  risposto? 

MARIANNA  -  Non  si  tratta  di  quello  che  ho  risposto.  Capite  quel  che 
dico?  Date  ordini  ai  vostri  servitori  di  non  lasciare  entrare  que- 
st'uomo né  il  suo  amico.  Mi  aspetto  qualche  noia  da  parte  loro,  e 
sarei  ben  lieta  di  evitarla. 


SCENA   DECIMA 

TIBIA,    CLAUDIO 

CLAUDIO  -  Che  cosa  pensi  di  quest'avventura,  Tibia?  C'è  qualche  tra- 
nello, là  sotto. 

TIBIA  -  Credete,  signore? 

CLAUDIO  -  Perché  non  ha  voluto  dire  che  cosa  ha  risposto?  La  dichia- 
razione è  impertinente,  è  vero,  ma  la  risposta  meritava  d'esser  co- 
nosciuta. Ho  il  sospetto  che  il  figlio  di  Hermia  sia  l'organizzatore 
di  tutte  queste  chitarre. 

TIBIA  -  Proibire  l'accesso  di  casa  vostra  a  questi  due  uomini  è  un  mez- 
zo eccellente  per  allontanarli. 

CLAUDIO  -  Conta  pure  su  me.  Bisogna  che  metta  mia  suocera  al  cor- 
rente di  questa  scoperta. 

TIBIA  -  Signore,  eccola  qua. 

CLAUDIO  -  Chi?  mia  suocera? 

TIBIA  -  No,  Hermia,  la  nostra  vicina.  Non  parlavate  forse  di  lei,  un 
momento  fa? 

CLAUDIO  -  Si,  dicevo  che  era  la  madre  di  quel  Celio,  ed  è  la  verità. 
Tibia. 

TIBIA  -  Ebbene,  signore,  viene  verso  di  noi  con  uno,  due,  tre  valletti; 
è  una  donna  degna  di  rispetto. 

CLAUDIO  -  Si,  ha  dei  possessi  considerevoli. 

TIBIA  -  Dicono  anche  che  sia  di  buoni  costumi.  Se  l'avvicinaste,  si- 
gnore? 

CLAUDIO  -  Ma  che  dici?  La  madre  di  un  giovane  che  forse  sarò  ob- 
bligato a  far  pugnalare  proprio  stasera!  Sua  madre,  Tibia!  Andiamo, 
via!  Non  riconosco  più  la  tua  abitudine  alle  convenienze.  Vieni, 
Tibia,  rientriamo  in  casa. 


I   CAPRICCI  DI   MARIANNA  109 


SCENA   UNDECIMA 

MALVOLIO,   HEIÌMIA,   DUE   VALLETTTI 

HERMiA  -  Sono  Stati  eseguiti  i  miei  ordini?  È  stato  detto  ai  musicisti  di 
venire? 

MALvoLio  -  Si,  signora,  saranno  ai  vostri  ordini  stasera,  o  per  meglio 
dire... 

HERMiA  -  Che  c'è  da  dire?  È  stato  fatto  tutto  come  ho  detto,  per  la 
cena?  Direte  a  mio  fìgio  che  mi  dispiace  di  non  averlo  visto.  A  che 
ora  è  uscito? 

MALvoLio  -  Per  essere  uscito,  bisognerebbe  che  prima  fosse  rientrato. 
Ha  passato  la  notte  fuori. 

HERMiA  -  Non  sapete  quel  che  dite.  Ha  cenato  ieri  sera  con  me  e  mi  ha 
riaccompagnata  a  casa.  È  stato  portato  nello  studio  il  quadro  che 
ho  comprato  stamani? 

MALVOLio  -  Se  fosse  vivo  suo  padre,  le  cose  non  andrebbero  cosi. 

HERMiA  -  Ma  mentre  è  viva  sua  madre,  vanno  cosi,  Malvolio.  Chi  vi 
ha  incaricato  di  sorvegliare  la  sua  condotta?  Ascoltate  bene:  che  Ce- 
lio non  incontri  sui  suoi  passi  un  volto  di  cattivo  augurio;  che  non  vi 
senta  brontolare  cosi  fra  i  denti,  o,  santo  cielo!,  non  uno  di  voi 
passerà  la  notte  sotto  il  suo  tetto. 

MALVOLIO  -  Io  npn  brontolo;  il  mio  volto  non  è  di  cattivo  augurio.  Voi 
mi  chiedete  a  che  ora  è  uscito  il  mio  padrone,  ed  io  vi  rispondo 
che  non  è  rientrato.  Da  quando  ha  l'amore  per  la  testa,  non  lo  si 
vede  quattro  volte  in  una  settimana. 

HERMiA  -  Perché  i  libri  di  Celio  sono  coperti  di  polvere?  Perché  ì  suoi 
mobili  sono  in  disordine?  Perché  devo  esser  io  ad  occuparmi  di  tut- 
to nella  casa  di  mio  figlio,  se  voglio  ottenere  qualcosa?  Fate  pro- 
prio bene  ad  alzare  gli  occhi  su  quello  che  non  vi  riguarda,  quan- 
do invece  il  vostro  lavoro  è  fatto  solo  a  metà,  e  le  incombenze  as- 
segnate a  voi  ricadono  sugli  altri.  Andate,  e  tenete  a  freno  la 
lingua. 


110  ALFRED   DE    MUSSET 


SCENA  DODICESIMA 

HERMIA,     CELIO 

HERMiA  -  Ebbene,  ragazzo  mio,  quali  saranno  i  vostri  svaghi  oggi? 

CELIO  -  I  vostri,  madre  mia. 

HERMiA  [prendendolo  sottobraccio)  -  Come!  i  piaceri  in  comune,  e  non 
le  pene  in  comune?  È  una  divisione  ingiusta,  Celio.  Abbiate  pure 
dei  segreti  per  me,  ragazzo  mio,  ma  non  di  quelli  che  vi  rodono 
il  cuore,  e  vi  rendono  insensibile  a  tutto  ciò  che  vi  circonda. 

CELIO  -  Non  ho  segreti;  e,  se  ne  avessi,  piacesse  a  Dio  che  fossero  tali 
da  cambiarmi  in  una  statua. 

HERMiA  -  Quando  avevate  dieci  o  dodici  anni,  tutte  le  vostre  pene, 
tutti  i  vostri  piccoli  affanni  facevano  capo  a  me;  da  uno  sguardo 
severo  o  indulgente  di  questi  miei  occhi  dipendeva  la  tristezza  o  la 
gioia  dei  vostri;  e  la  vostra  testolina  bionda  era  legata  con  un  filo 
ben  sottile  al  cuore  della  vostra  mamma.  Ora,  ragazzo  mio,  sono 
solo  una  vostra  sorella,  incapace  forse  di  consolare  le  vostre  pene, 
ma  non  incapace  di  condividerle. 

CELIO  -  Madre  mia!  Anche  voi  siete  stata  bella!  sotto  questo  lungo 
velo  che  vi  avvolge,' lo  sguardo  riconosce  il  portamento  maestoso 
di  una  regina.  O  madre  mia!  voi  avete  ispirato  l'amore!  sotto 
le  vostre  finestre  socchiuse  ha  sussurrato  il  suono  della  chitarra;  su 
queste  piazze  rumorose,  nel  turbine  di  queste  feste,  voi  avete  por- 
tato la  vostra  spensierata  e  superba  giovinezza.  Voi  non  avete  ama- 
to; un  parente  di  mio  padre  è  morto  d'amore  per  voi. 

HERMiA  -  Qual  ricordo  mi  fai  tornare  in  mente? 

CELIO  -  Ah!  se  il  vostro  cuore  può  sopportarne  la  tristezza,  se  ciò  non 
significa  spingervi  al  pianto,  raccontatemi  questa  vicenda,  madre 
mia;  fatemene  conoscere  i  particolari. 

HERMiA  -  Ahimè!  ragazzo  mio,  a  qual  scopo?  Che  triste  capriccio  vi 
prende? 

CELIO  -  Ve  ne  supplico,  e  ascolto. 

HERMiA  -  Lo  volete?  Vostro  padre  non  mi  aveva  mai  vista  allora.  Si 
incaricò,  perché  imparentato  con  la  mia  famiglia,  di  fare  accettare 
la  domanda  del  giovane  Orsini,  che  voleva  sposarmi.  Dal  vostro 
nonno  fu  ricevuto  come  meritava  il  suo  ceto,  e  fu  ammesso  nella 
nostra  intimità.  Orsini  era  un  partito  eccellente,  e  ciò  nonostante 


I   CAPRICCI  DI  MARIANNA  111 

io  rifiutai.  Vostro  padre,  parlando  in  suo  favore,  aveva  cancellato 
dal  mio  cuore  quel  po'  d'amore  che  lui  mi  aveva  ispirato  in  due 
mesi  di  costanti  assiduità.  Non  avevo  sospettato  la  forza  della  sua 
passione  per  me.  Quando  gli  fu  riferita  la  mia  risposta,  cadde, 
privo  di  sensi,  fra  le  braccia  di  vostro  padre.  Tuttavia  una  lunga 
assenza,  un  viaggio  che  fece  allora  e  durante  il  quale  aumentò  il 
suo  patrimonio,  dovevano  aver  cancellato  il  suo  dolore.  Vostro  pa- 
dre mutò  la  sua  posizione  e  domandò  per  sé  quello  che  non  aveva 
potuto  ottenere  per  Orsini.  L'amavo  di  un  amore  sincero,  e  la  sti- 
ma che  aveva  ispirato  ai  miei  genitori  non  mi  permise  di  esitare, 
n  matrimonio  fu  deciso  il  giorno  stesso,  e  la  chiesa  si  apri  per  noi 
qualche  settimana  piò  tardi.  Orsini  ritornò  in  quell'epoca.  Venne 
a  trovare  vostro  padre,  lo  coprf  di  rimproveri,  l'accusò  d'aver  tra- 
dito la  sua  fiducia  e  dì  esser  stato  la  causa  del  rifiuto  ricevuto.  I>el 
resto,  aggiunse,  se  avete  desiderato  la  mia  morte,  sarete  soddisfatto. 
Spaventato  da  queste  parole,  vostro  padre  si  precipitò  dal  mio  e 
gli  chiese  la  sua  testimonianza  per  disingannare  Orsini.  Ahimé, 
era  troppo  tardi;  trovarono  il  povero  giovane  in  camera  sua  tra- 
fitto da  un  colpo  di  spada. 

CELIO  -  È  finito  COSI? 

HERMiA  -  S{,  una  morte  crudele. 

CELIO  -  No,  madre  mia,  non  è  crudele  una  morte  che  viene  in  aiuto 
ad  un  amore  senza  speranza.  La  sola  cosa  di  cui  lo  compiango  è 
l'aver  creduto  d'essere  stato  ingannato  dal  suo  amico. 

HERMiA  -  Che  avete.  Celio?  voi  voltate  la  testa. 

CELIO  -  E  voi,  madre  mia,  siete  commossa.  Ah!  questo  racconto  vi  è 
costato  troppo,  lo  vedo  bene.  Ho  fatto  male  a  chiedervelo. 

HERMiA  -  Non  pensate  alle  mie  pene,  sono  solo  dei  ricordi.  Le  vostre 
mi  rattristano  di  più.  Se  rifiutate  di  combatterle,  vivranno  a  lun- 
go nel  vostro  giovane  cuore.  Non  vi  chiedo  di  dirmele,  ma  le  vedo; 
e  poiché  voi  prendete  parte  alle  mie,  venite,  cerchiamo  di  difender- 
ci. Abbiamo  a  casa  dei  buoni  amici,  andiamo  a  tentare  di  distrar- 
ci. Cerchiamo  di  vivere,  ragazzo  mio,  e  di  guardare  allegramente 
insieme,  io  il  passato,  voi  l'avvenire.  Venite,  Celio,  datemi  la  mano. 


112  ALFRED  DE   MUSSET 

ATTO     SECONDO 
SCENA   PRIMA 

PIPPO,    OTTAVIO 

OTTAVIO  -  Che  dite?  ci  rinuncia? 

PIPPO  -  Ahimé!  povero  giovane!  è  piò  che  mai  innamorato!  mi  sembra 

quasi  che  diffidi  di  voi,  di  me,  di  tutto  ciò  che  io  circonda. 
OTTAVIO  -  No,  in  nome  del  cielo,  io  non  ci  rinuncerò.  Mi  sento  come 

se  fossi  un'altra  Marianna,  e  c'è  gusto  a  fare  i  testardi.  O  Celio  riu' 

scirà,  o  ci  perderò  la  lingua. 
PIPPO  •  E  voi  agireste  contro  la  sua  volontà? 
OTTAVIO  -  S(,  per  agire  secondo  la  mia,  che  è  la  sua  sorella  maggiore, 

e  per  mandare  all'inferno  messer  Claudio,  il  podestà,  che  detesto, 

disprezzo  e  aborro,  dalla  testa  ai  piedi. 
PIPPO  -  Dategli  dunque  voi  stesso  la  risposta,  poiché  sta  arrivando; 

io,  io  me  ne  lavo  le  mani. 

SCENA   SECONDA 

OTTAVIO,    CELIO 

OTTAVIO  -  Come,  Celio,  abbandoni  la  partita? 

CELIO  (con  un  libro  in  mano)  -  Che  vuoi  che  faccia? 

OTTAVIO  -  Diffidi  forse  di  me?  Sei  bianco  come  la  neve.  Da  dove 
vieni? 

CELIO  -  Ero  da  mia  madre. 

OTTAVIO  -  Perché  tutta  questa  tristezza? 

CELIO  -  Non  lo  so.  Perdona,  perdonami,  fa'  quello  che  vuoi;  vai  a 
trovare  Marianna,  dille  che  ingannarmi  significa  uccidermi,  e  che 
la  mia  vita  è  nei  suoi  occhi. 

OTTAVIO  -  Eh!  che  diamine  hai  a  che  fare  tu  con  la  morte?  A  propo- 
sito di  che  cosa  ci  pensi? 

CELIO  -  Amico  mio,  l'ho  davanti  agli  occhi. 

OTTAVIO  -  La  Morte? 


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*"  n^j^ 


/  Capricci  di  Marianna,  di  De  Mussct.  Interpreti:   Marguerite  Jamois  e  Lucicn  Nat. 
Théàtrc  de  Montparnasse.  Spettacolo  di  Gaston  Baty. 


I   CAPRICCI   DI   MARIANNA  113 

CELIO  -  Si,  l'Amore  e  la  Morte. 

OTTAVIO  -  Sarebbe  a  dire? 

CELIO  -  L'Amore  e  la  Morte,  Ottavio,  si  tengono  per  mano:  uno  è  la 
sorgente  della  più  grande  felicità  che  l'uomo  possa  incontrare  quag- 
giù; l'altra  pone  fine  a  tutti  i  dolori,  a  tutti  i  mali. 

OTTAVIO  -  È  un  libro  quello  che  hai  li? 

CELIO  -  Sì,  un  libro  ^  che  probabilmente  tu  non  hai  mai  letto. 

OTTAVIO  -  Molto  probabilmente.  Quando  se  ne  legge  uno,  non  c'è  ra- 
gione per  non  leggere  tutti  gli  altri. 

CELIO  (leggenda)  -  a  Quando  il  cuore  prova  sinceramente  un  profondo 
sentimento  d'amore,  sente  anche  come  una  fatica  ed  un  languore 
che  gli  fanno  desiderar  di  morire.  Perché?  non  so». 

OTTAVIO  -  Neanch'io. 

CELIO  (leggendo)  -  «Forse  è  l'effetto  d'un  primo  amore,  forse  questo 
vasto  deserto  in  cui  siamo  spaventa  gli  sguardi  di  colui  che  ama, 
forse  questa  terra  non  gli  sembra  più  abitabile,  se  non  può  trovarvi 
quella  felicità  nuova,  unica,  infinita,  che  il  suo  cuore  gli  mostra  ». 

OTTAVIO  -  Ah!  senti,  ma,  con  chi  ce  l'hai? 

CELIO  (leggendo)  -  «Il  contadino,  il  rozzo  artigiano  che  non  sa  nulla, 
la  giovinetta  timida,  che  generalmente  freme  al  solo  pensiero  della 
morte,  si  rincuora  quando  ama  fino  a  volger  lo  sguardo  su  una 
tomba».  Ottavio,  la  morte  ci  conduce  a  Dio,  e  i  miei  ginocchi  si 
piegano  quando  ci  penso.  Buonasera,  mio  caro  amico. 

OTTAVIO  -  Dove  vai? 

CELIO  -  Ho  da  fare  in  città  stasera;  addio,  fa'  quel  che  vuoi. 

OTTAVIO  -  Hai  tutta  l'aria  di  andarti  ad  affogare.  Ma  questa  morte  di 
cui  parli,  ne  avresti  paura,  per  caso? 

CELIO  -  Ah!  se  avessi  potuto  farmi  un  nome  nei  tornei  e  nelle  batta- 
glie! se  mi  fosse  stato  concesso  di  portare  i  colori  di  Marian- 
na e  tingerli  del  mio  sangue!  se  mi  fosse  stato  dato  un  rivale  da 
combattere,  un  esercito  intero  da  sfidare!  se  il  sacrificio  della  mia 
vita  avesse  potuto  esserle  utile!  io  so  agire,  ma  non  so  parlare.  La 
mia  lingua  non  aiuta  il  mio  cuore,  ed  io  morrò  senza  essermi  fatto 
capire,  come  un  muto  in  una  prigione. 

OTTAVIO  -  Andiamo,  Celio,  a  che  pensi?  Ci  sono  altre  Marianne  sotto 
il  cielo;  ceniamo  insieme,  stasera,  alla  barba  di  codesta  Marianna. 

CELIO  -  Addio,  addio,  non  posso  trattenermi  di  più.  Ci  vedremo  doma- 
ni, amico  mio. 


^  I  Canti  del  Leopardi.  I  passi  citati  da  Celio  sono  tradotti  da  Amore  e  Mor- 
(N.  d.  T.). 


Teatro  francese 


114  ALFRED   DE   MUSSET 


SCENA   TERZA 


OTTAVIO,  solo 

Celio,  stammi  bene  a  sentirei  ti  troveremo  una  Marianna  ben 
gentile,  dolce  come  un  agnello.  A  dir  la  verità,  è  una  cosa  strana! 
Non  importa,  non  cederò.  Son  come  uno  che  tenesse  il  banco  al 
giuoco  del  faraone  per  conto  di  un  altro,  ed  avesse  la  fortuna  con- 
traria: piuttosto  di  cedere  affogherebbe  il  suo  migliore  amico,  e  la 
rabbia  di  perdere  col  denaro  di  un  altro  lo  eccita  cento  volte  piò 
di  quel  che  non  farebbe  la  sua  propria  rovina.  Ah!  ecco  Marianna 
che  esce.  Va  certamente  al  vespro.  Si  avvicina  lentamente. 


SCENA   QUARTA 

OTTAVIO,   MARIANNA 

OTTAVIO  -  Bella  Marianna,  potete  dormire  tranquilla.  Il  cuore  di  Celio 
è  di  un'altra,  e  non  sari  pid  sotto  le  vostre  finestre  che  lui  verrà 
a  fare  le  sue  serenate. 

MARIANNA  -  Che  peccatol  e  che  gran  disgrazia  non  aver  potuto  condi- 
videre un  tale  amore.  Guardate  un  po'  come  la  sorte  m'è  contraria! 
io  che  stavo  per  amarlo. 

OTTAVIO  -  Veramente? 

MARIANNA  -  Si,  suU'anima  mia,  stasera  o  domattina,  al  più  tardi  dome- 
nica, ve  lo  giuro.  Chi  potrebbe  non  riuscire  con  un  ambasciatore 
come  voi?  Bisogna  credere  che  la  sua  passione  per  me  fosse  qual- 
cosa di  simile  al  cinese  o  all'arabo,  se  aveva  bisogno  di  un  inter- 
prete, e  non  poteva  spiegarsi  da  sola. 

OTTAVIO  -  Burlatevi,  burlatevi  pure  di  noi!  non  vi  temiamo  più. 

MARIANNA  -  O  forse  qucst'amore  non  era  ancora  che  un  povero  lattante 
e  voi,  che  da  saggia  nutrice  lo  sostenevate  con  le  dande,  l'avrete 
lasciato  cadere  a  testa  in  giù,  mentre  lo  portavate  a  spasso  per  la 
città. 

OTTAVIO  -  La  saggia  nutrice  s'è  accontentata  di  fargli  bere  un  certo  latte 
che  la  vostra  vi  ha  dato  senza  dubbio,  e  generosamente;  ne  avete 


I   CAPRICCI  DI   MARIANNA  115 

ancora  sulle  labbra  una  goccia  che  si  mescola  a  tutte  le  vostre  pa- 
role. 

MARIANNA  -  CoHie  si  chiama  questo  latte  meraviglioso? 

OTTAVIO  -  L'indifferenza.  Voi  non  sapete  né  amare  né  odiare,  e  siete 
come  le  rose  del  Bengala,  Marianna,  senza  spine  e  senza  profumo. 

MARIANNA  -  Ben  detto.  Avevate  preparato  il  paragone  in  anticipo?  Se 
non  avete  l'abitudine  di  bruciare  la  brutta  copia  delle  vostre  arrin- 
ghe, fatemi  il  favore  di  darmela,  ed  io  le  insegnerò  al  mio  pappa- 
gallo. 

OTTAVIO  -  Cosa  ci  trovate  che  possa  ferirvi?  Un  fiore  senza  profumo 
non  è  meno  bello;  anzi,  sono  proprio  i  più  belli  che  Dio  ha  fatto 
cosi;  e  mi  sembra  che  su  questo  punto  non  abbiate  il  diritto  di 
risentirvi. 

MARIANNA  -  Mio  caro  cugino,  perché  non  compiangete  il  destino  delle 
donne?  Guardate  un  pò*  cosa  mi  capita:  è  stato  stabilito  dalla  sorte 
che  Celio  mi  ami,  o  creda  di  amarmi,  il  quale  Celio  l'ha  detto  ai 
suoi  amici,  i  quali  amici  stabiliscono  a  loro  volta  che  io  l'amerò, 
pena  la  morte.  La  gioventù  napoletana  si  degna  inviarmi  nella  vo- 
stra persona  un  suo  degno  rappresentante,  incaricato  di  farmi  sa- 
pere che  devo  amare  il  suddetto  signor  Celio  entro  otto  giorni. 
Considerate  bene  tutto  ciò,  ve  ne  prego.  Non  sarebbe  la  piò  spre- 
gevole delle  donne  quella  che  obbedisse  a  data  fissa,  all'ora  stabi- 
lita, a  una  simile  proposta?  Non  finirebbero  forse  per  tagliarle  i 
panni  addosso,  additarla  a  tutti,  e  fare  del  suo  nome  il  ritornello 
d'una  canzone  licenziosa?  Se  invece  rifiuta,  esiste  un  mostro  che 
le  si  possa  paragonare?  c'è  una  statua  più  fredda  di  lei?  E  l'uomo 
che  le  parla,  che  osa  fermarla  sulla  pubblica  piazza  mentre  ha  in 
mano  il  libro  da  messa,  non  ha  forse  il  diritto  di  dirle:  —  Voi 
siete  una  rosa  del  Bengala,  senza  spine  e  senza  profumo? 

OTTAVIO  -  Cugina,  cugina,  non  arrabbiatevi. 

MARIANNA  -  Son  cose  ben  ridicole,  vero?,  l'onestà  e  la  fedeltà?  l'edu- 
cazione di  una  fanciulla,  la  fierezza  di  un  cuore  che  s'è  immagi- 
nato di  valer  qualcosa,  e  che,  per  meritare  il  rispetto  degli  altri, 
comincia  col  rispettare  se  stesso?  Tutto  ciò  è  un  sogno,  vero?,  una 
bolla  di  sapone,  che  al  primo  sospiro  d'un  cavaliere  alla  moda,  deve 
svanire  nell'aria? 

OTTAVIO  -  Voi  v'ingannate  sul  mio  conto  e  su  quello  di  Celio. 

MARIANNA  -  Che  cos'è  dopo  tutto  una  donna?  L'occupazione  di  un 
momento,  im'ombra  vana  che  si  fa  finta  d'amare,  per  il  piacere  di 
dire  che  si  ama.  Una  donna!  è  una  distrazione.  E  non  si  potrebbe 
anche  dire,  quando  se  ne  incontra  una:  Ecco  un  bel  capriccio  che 


116  ALFRED  DE   MUSSET 

passa!  E  non  sarebbe  certo  un  bravo  scolaro  in  tale  materia,  colui 
che  abbassasse  gli  occhi  davanti  a  lei,  e  dicesse  a  se  stesso  sottovoce: 
«Ecco  forse  la  felicità  di  tutta  una  vita»,  e  la  lasciasse  passare? 

{esce) 


SCENA   QUINTA 

OTTAVIO,  poi  UN  GARZONE   d'oSTERIA 

OTTAVIO  -  Ta,  ta,  pum!  pumi  trallerallera,  trallerallà!  Che  strana  don- 
netta! {chiamando  qualcuno  dell'osteria)  Ehi!  olà!  {a  un  garzone 
che  accorre)  Portatemi  qui,  sotto  questa  pergola,  una  bottiglia  di 
qualche  cosa. 

IL  GARZONE  -  Quel  che  desiderate.  Eccellenza.  Volete  del  lacrimacristi? 

OTTAVIO  -  S{,  sL  {scrive  poche  parole  a  lapis)  Andate  un  po'  a  cercare 
per  le  strade  qui  d'intorno  il  signor  Celio,  vestito  d'un  mantello 
scuro  e  con  un  farsetto  ancora  più  scuro.  Gli  direte  che  c'è  qui  un 
suo  amico  che  beve  solo  del  lacrimacristi.  Dopo  di  che  andrete  in 
piazza  grande  e  consegnerete  questo. da  parte  mia  {gfi  dà  un  fo- 
glietto del  suo  taccuino)  a  una  certa  Rosalinda,  una  rossa  che  è 
sempre  alla  finestra. 


SCENA  SESTA 

OTTAVIO,    poi    CLAUDIO    C   TIBIA 

OTTAVIO  {solo)  -  Non  SO  cos'ho  qua  dentro;  sono  triste  come  un  lunedi 
di  festa.  Farei  meglio  a  cenar  qui.  Ho  forse  voglia  di  dormire?  mi 
sento  tutto  di  pietra,  {entrano  Claudio  e  Tibia)  Ah  !  cugino  Claudio, 
siete  un  bel  giudice;  dove  ve  ne  andate  cosi  in  fretta? 

CLAUDIO  -  Che  cosa  intendete  dire,  signor  Ottavio? 

OTTAVIO  -  Intendo  dire  che  siete  un  podestà  che  ha  delle  belle  forme. 

CLAUDIO  -  Di  linguaggio  o  di  costituzione  fisica? 

OTTAVIO  -  Di  linguaggio,  di  linguaggio.  La  vostra  toga  è  piena  d'elo- 
quenza e  le  vostre  braccia  sono  due  parentesi  incantevoli. 

CLAUDIO  -  Sia  detto  di  sfuggita,  signor  Ottavio,  mi  sa  che  il  battente 
della  mia  porta  vi  abbia  bruciato  le  dita. 

OTTAVIO  -  In  che  modo,  cugino  pieno  di  scienza? 


I   CAPRICCI   DI   MARIANNA  117 

CLAUDIO  -  Volendo  bussare,  cugino  pieno  di  finezza. 

OTTAVIO  -  Aggiungi  pure  pieno  di  rispetto,  Claudio,  per  il  battente 

della  tua  porta;  ma  puoi  farlo  pur  dipingere  di  fresco,  senza  che 

io  abbia  a  temere  di  sporcarmi  le  dita. 
CLAUDIO  -  In  che  modo,  cugino  pieno  di  facezie? 
OTTAVIO  -  Non  bussandoci  mai,  cugino  pieno  di  causticità. 
CLAUDIO  -  Eppure  v'è  capitato,  visto  che  mia  moglie  ha  ordinato  ai 

suoi  servitori  di  chiudervi  la  porta  in  faccia  alla  prima  occasione. 
OTTAVIO  -  I  tuoi  occhiali  sono  miopi,  giudice  pieno  di  grazia;  sbagli 

indirizzo  nel  fare  i  tuoi  complimenti. 
CLAUDIO  -  I  miei  occhiali  sono  eccellenti,  cugino  pieno  di  rimbeccate. 

Non  sei  tu  che  hai  fatto  a  mia  moglie  una  dichiarazione  d'amore? 
OTTAVIO  -  A  che  proposito,  acuto  magistrato? 
CLAUDIO  -  A  proposito  del  tuo  amico  Celio,  o  compiacente  messaggero; 

disgraziatamente,  ho  sentito  tutto. 
OTTAVIO  -  Con  quale  orecchio,  senatore  incorruttibile? 
CLAUDIO  -  Con  quello  di  mia  moglie  che  mi  ha  raccontato  tutto,  mio 

caro  bellimbusto. 
OTTAVIO  -  Proprio  tutto,  sposo  idolatrato!  non  c'è  rimasto  nulla  in  quel 

grazioso  orecchio? 
CLAUDIO  -  C'è  rimasta  la  sua  risposta,  grazioso  pilastro  di  bettole,  che 

io  sono  incaricato  di  darti. 
OTTAVIO  -  Ma  io  non  sono  incaricato  di  ascoltarla,  caro  processo  ver- 
bale. 
CLAUDIO  -  E  allora  sarà  la  mia  porta  in  persona  che  te  la  darà,  gentile 

biscazziere,  se  ti  venisse  in  mente  di  consultarla. 
OTTAVIO  -  È  una  cosa  di  cui  non  mi  preoccupo  affatto,  cara  sentenza 

di  morte;  vivrò  felice  lo  stesso. 
CLAUDIO  -  Che  tu  lo  possa  fare  in  pace,  caro  bussolotto  da  dadi!  ti  au- 
guro mille  prosperità,  {esce,  seguito  da  Tibia) 
OTTAVIO  -  Rassicurati  a  tal  proposito,  caro  chiavaccio  di  prigione;  e 

dormi  tranquillo  come  alle  udienze. 


SCENA  SETTIMA 

OTTAVIO,   IL  GARZONE 

IL  GARZONE  -  Signore,  la  signorina  dai  capelli  rossi  non  è  alla  finestra; 

non  può  accettare  il  vostro  invito. 
OTTAVIO  -  Che  il  diavolo  se  la  porti,  e  te  con  lei! 


118  ALFRED   DE  MUSSET 

IL  GARZONE  -  E  il  signofe  dal  mantello  scuro  non  c'è  nelle  strade  qui 
vicine;  ma  ho  incontrato  il  suo  valletto  e  gli  ho  detto  di  andarlo 
a  cercare,  {entra  nell'osteria) 

OTTAVIO  -  Peste  su  tutto  l'universo!  È  destino  che  io  debba  cenar  solo 
stasera?  Che  diavolo  mi  sta  succedendo?  (//  garzone  porta  una  bot- 
tiglia di  vino  e  una  coppa,  le  mette  sul  tavolino  e  rientra  nell'oste- 
ria) Bene!  bene!  è  quello  che  ci  vuole,  {si  siede  e  si  versa  da  bere) 
Sono  capace  di  affogare  la  mia  tristezza  in  questo  vino,  o  almeno 
questo  vino  nella  mia  tristezza.  Ah!  ah!  il  vespro  è  finito;  ecco 
Marianna  che  ritorna. 


SCENA   OTTAVA 

OTTAVIO,  seduto,  MARIANNA 

MARIANNA  -  Ancora  qui,  signor  Ottavio,  e  già  a  tavola?  È  un  po'  triste 
ubriacarsi  da  solo. 

OTTAVIO  -  Il  mondo  intero  m'ha  abbandonato.  Cerco  di  vederci  doppio, 
per  far  compagnia  a  me  stesso. 

MARIANNA  -  Come!  nemmeno  uno  dei  vostri  amici,  nessuno  che  vi  sol- 
levi da  questo  peso  terribile,  la  solitudine? 

OTTAVIO  -  Devo  dirvi  proprio  tutto?  avevo  invitato  una  certa  Rosalinda, 
una  delle  mie  amiche;  ma  cena  in  città  come  una  gran  signora. 

MARIANNA  -  È  indubbiamente  una  cosa  incresciosa,  e  il  vostro  cuore 
deve  risentirne  un  vuoto  spaventoso. 

OTTAVIO  -  Un  vuoto  che  non  so  dirvi,  e  che  invano  cerco  di  comuni- 
care a  questa  coppa.  Lo  scampanìo  del  vespro  mi  ha  rotto  i  timpani 
per  tutta  la  serata. 

MARIANNA  -  Ditemi,  cugino,  bevete  un  vino  da  quindici  soldi  la  bot- 
tiglia? 

OTTAVIO  -  Non  ridete;  è  lacrimacristi,  né  più  ne  meno,  e  delizioso. 

MARIANNA  -  Mi  stupisco  che  voi  non  beviate  del  vino  da  quindici  soldi; 
bevetene,  ve  ne  supplico. 

OTTAVIO  -  Perche  mai  dovrei  berne,  se  è  lecito? 

MARIANNA  -  Assaggiatelo;  son  sicura  che  non  c'è  alcuna  differenza  con 
codesto. 

OTTAVIO  -  Ce  n'è  una  altrettanto  grande  quanto  fra  à  sole  e  una  lan- 
terna. 

MARIANNA  -  No,  vi  dico,  è  la  stessa  cosa. 


I   CAPRICCI   DI   MARIANNA  119 

OTTAVIO  -  Dio  me  ne  guardi!  Vi  burlate  di  me? 

MARIANNA  -  Trovatc  che  c'è  una  grande  differenza? 

OTTAVIO  -  Certamente. 

MARIANNA  -  Crèdevo  che  fosse  la  stessa  cosa  per  il  vino  come  per  le 
donne.  Il  vostro  cuore  è  dunque  cosi  meschino  che  debbano  essere 
le  labbra  a  fargli  la  lezione?  Voi  non  vi  degnereste  di  bere  il  vino 
che  beve  il  popolo;  ma  amate  le  donne  che  quello  ama.  Lo  spirito 
generoso  e  poetico  di  questa  bottiglia  dorata,  questi  meravigliosi 
succhi  che  la  lava  del  Vesuvio  ha  fatto  fermentare  sotto  il  sole  ar- 
dente, vi  condurranno  a  qualche  banale  apparenza  di  piacere;  voi 
vi  vergognereste  di  bere  un  vino  qualunque,  il  vostro  palato  lo  rifiu- 
terebbe. Ah!  avete  le  labbra  delicate,  ma  il  vostro  cuore  invece  si 
inebria  a  buon  mercato I  Buonasera,  cugino;  vi  auguro  che  Rosa- 
linda  venga  a  consolare  la  vostra  tristezza! 

OTTAVIO  -  Due  parole,  vi  prego,  bella  Marianna,  e  la  mia  risposta  sarà 
breve.  Quanto  tempo  pensate  che  occorra  a  far  la  corte  a  questa 
bottiglia  per  ottenerne  una  buona  accoglienza?  Come  voi  dite,  essa 
è  tutta  piena  di  uno  spirito  celeste,  e  il  vino  del  popolo  le  rasso- 
miglia cosi  poco,  quanto  un  contadino  al  suo  padrone.  Eppure, 
guardate  che  brava  persona  è  questa!  È  bastata  una  sola  parola  per 
farla  uscire  dalla  cantina;  ne  è  uscita  ancor  tutta  polverosa,  per 
darmi  un  quarto  d'ora  d'oblio,  e  morire!  La  sua  corona,  tutta  im- 
porporata di  cera  odorosa,  s'è  lasciata  sgretolar  subito,  e  non  posso 
nascondervelo,  ha  rischiato  di  scorrere  tutta  quanta  fra  le  mie  lab- 
bra, nell'ardore  del  suo  primo  bacio. 

MARIANNA  -  Siete  sicuro  che  vale  di  più?  E  se  voi  siete  uno  dei  suoi 
veri  amanti,  e  la  ricetta  fosse  perduta,  andreste  a  cercarne  l'ultima 
goccia  fin  nel  cratere  del  vulcano? 

OTTAVIO  -  Non  vale  di  più  né  di  meno.  Dio  non  ne  ha  nascosto  la 
sorgente  in  cima  a  un  picco  inaccessibile,  in  fondo  a  una  caverna 
profonda;  l'ha  sospesa  in  grappoli  dorati  sui  nostri  fertili  poggi.  È 
rara  e  preziosa,  è  vero,  ma  non  impedisce  a  nessuno  di  avvicinarsi. 
Si  lascia  vedere  sotto  i  raggi  del  sole,  e  tutta  una  corte  di  api  e  di 
calabroni  le  ronza  intorno  dalla  mattina  alla  sera.  Il  viandante  arso 
dalla  sete  può  riposarsi  sotto  i  suoi  tralci  verdi;  e  lei  non  l'ha  mai 
lasciato  languire,  non  gli  ha  mai  rifiutato  le  dolci  lacrime  di  cui 
è  pieno  il  suo  cuore.  Ah!  Marianna,  la  bellezza  è  un  dono  fatale! 
La  saggezza  di  cui  si  vanta  è  sorella  dell'avarizia,  ed  esiste  talvolta 
più  misericordia  per  le  sue  debolezze  che  per  la  sua  crudeltà.  Buo- 
nasera, cugina,  che  Celio  possa  dimenticarvi,    {entra  nell'osteria) 


120  ALFRED  DE   MUSSET 


SCENA   NONA 

CLAUDIO,    MARIANNA 

CLAUDIO  -  Pensate  che  io  sia  un  fantoccio,  e  che  mi  muova  su  questa 
terra  per  servire  da  spaventapasseri? 

MARIANNA  -  Dove  avcte  trovato  questa  graziosa  idea? 

CLAUDIO  -  Pensate  che  un  uomo  della  mia  importanza  ignori  il  valore 
delle  parole,  e  che  ci  si  possa  prender  gioco  della  sua  credulità 
come  se  fosse  un  danzatore  ambulante? 

MARIANNA  -  Con  chi  cc  l'avctc,  stasera? 

CLAUDIO  -  Pensate  che  non  abbia  sentito  le  vostre  stesse  parole:  «Se 
quell'uomo,  o  il  suo  amico,  si  presentano  alla  mia  porta,  gli  venga 
chiusa  in  faccia!  ».  E  credete  che  io  trovi  ben  fatto  il  vedervi  conver- 
sare liberamente  con  lui  sotto  un  pergolato? 

MARIANNA  -  Voi  m'avctc  vista  sotto  un  pergolato? 

CLAUDIO  '  Si,  SI,  con  questi  occhi,  sotto  il  pergolato  di  queirosteria  là. 
Il  pergolato  di  un'osteria  non  è  davvero  un  luogo  di  conversazione 
adatto  alla  moglie  di  un  magistrato,  ed  è  inutile  far  chiudere  la 
propria  porta,  quando  fuori  si  tien  testa  ai  propri  interlocutori  con 
cos{  poco  ritegno! 

MARIANNA  -  Da  quando  in  qua  mi  si  proibisce  di  parlare  con  uno  dei 
vostri  parenti? 

CLAUDIO  -  Quando  uno  dei  miei  parenti  è  uno  dei  vostri  spasimanti, 
sarebbe  molto  bene  astenersene. 

MARIANNA  -  Ottavio,  uno  dei  mici  spasimanti!  Perdete  la  testa?  In  vita 
sua  non  ha  fatto  mai  la  corte  a  nessuno. 

CLAUDIO  -  È  un  vizioso,  un  frequentatore  di  luoghi  malfamati. 

MARIANNA  -  Ragione  di  più  perché  non  sia,  come  dite  molto  gentilmen- 
te, ((  uno  dei  miei  spasimanti  ».  Mi  fa  piacere  chiacchierare  con 
Ottavio  sotto  il  pergolato  di  un'osteria. 

CLAUDIO  -  Non  spingetemi  a  qualche  increscioso  eccesso  con  le  vostre 
stravaganze,  e  riflettete  a  quello  che  fate. 

MARIANNA  -  A  qualc  eccesso  volete  che  vi  spinga?  Son  curiosa  di  sa- 
pere quel  che  fareste. 

CLAUDIO  -  Vi  impedirei  di  vederlo  e  di  scambiare  con  lui  anche  una 
sola  parola,  sia  in  casa  mia,  sia  in  un'altra  casa,  o  fuori. 

MARIANNA  -  Ah!  ah!  davvero!  questa  è  una  novità!  Ottavio  è  parente 
mio  come  vostro;  e  pretendo  di  parlargli  quando  mi  pare  e  piace. 


J    CAPRICCI   DI    MARIANNA  121 

per  la  strada  o  altrove,  e  anche  in  casa  nostra,  se  gli  fa  piacere  ve- 
nirci. 

CLAUDIO  -  Ricordatevi  deirultima  frase  che  avete  pronunciato.  Vi  pre- 
parerò un  castigo  esemplare  se  andrete  contro  la  mia  volontà. 

MARIANNA  -  Permettete  che  invece  segua  la  mia,  e  preparatemi  quel 
che  vorrete;  non  me  ne  importa  proprio  nulla. 

CLAUDIO  -  Marianna,  basta  cosi.  O  voi  vi  accorgerete  della  sconvenien- 
za di  fermarvi  sotto  un  pergolato,  o  mi  obbligherete  ad  un  atto  di 
violenza  che  ripugna  alla  mia  veste,  (esce) 


SCENA  DECIMA 

MARIANNA,   SOla 

Olà!  qualcuno!  {a  un  domestico  che  entra)  Vedete  là,  in  quel- 
la casa,  quel  giovane  seduto  a  un  tavolino?  Andate  a  dirgli 
che  gli  devo  parlare  e  che  abbia  la  cortesia  di  venire  fin  qui.  (il 
domestico  entra  nell'osteria)  Questa  è  una  novità!  Per  chi  mi  pren- 
dono? Che  male  c'è?  In  che  stato  sono  oggi?  che  brutto  vestito! 
Che  linguaggio  è  questo?  mi  ridurrete  alla  violenza!  che  violenza? 
Vorrei  che  mia  madre  fosse  qui.  Ah!  bah!  è  subito  del  suo  parere, 
non  appena  lui  dice  una  parola.  Ho  una  voglia  matta  di  picchiare 
qualcuno.  Ma  davvero  son  troppo  buona!  Ah!  è  dunque  questo 
l'inizio?  Me  l'avevano  predetto,  lo  sapevo,  me  l'aspettavo!  Pazien- 
za! pazienza!  Mi  prepara  una  punizione,  e  quale  mai?  Mi  piace- 
rebbe proprio  sapere  che  cosa  intende  dire. 


SCENA   UNDECIMA 


OTTAVIO,  MARIANNA 

MARIANNA  -  Avvicinatevi,  Ottavio,  devo  parlarvi.  Ho  riflettuto  a  quello 
che  m'avete  detto  a  proposito  del  vostro  amico  Celio.  Ditemi,  per- 
ché non  si  spiega  da  sé? 

OTTAVIO  -  Per  una  ragione  molto  semplice:  vi  ha  scritto  e  voi  avete 
strappato  le  lettere;  vi  ha  inviato  una  persona,  e  voi  le  avete  im- 


122  ALFRED   DE   MUSSBT 

pcdito  di  parlare;  vi  ha  fatto  dei  concerti,  e  voi  l'avete  lasciato  in 
mezzo  alla  strada.  In  fede  mia!  s*è  dato  al  diavolo,  e  ci  si  darebbe 
a  lui  per  meno. 
MARIANNA  -  Questo  Vorrebbe  dire  che  ha  pensato  a  voi? 

OTTAVIO  -  Si. 

MARIANNA  -  Ebbene!  parlatemi  di  lui. 

OTTAVIO  -  Sul  serio? 

MARIANNA  -  Si,  SI,  sul  serìo;  eccomi,  ascolto. 

OTTAVIO  -  Voi  volete  ridere. 

MARIANNA  -  Che  misero  avvocato  siete  mai?  Parlate,  che  io  voglia  ri- 
dere o  no. 

OTTAVIO  -  Perché  mai  guardate  a  destra  e  a  sinistra?  Dovete  esser  pro- 
prio arrabbiata. 

MARIANNA  -  Voglio  cominciare  a  seguir  la  moda,  Ottavio,  voglio  pren- 
dere un  cavalier  servente.  Non  si  chiama  forse  cosi?  Se  poco  fa 
vi  ho  ben  capito,  voi  mi  rimproveravate,  con  la  vostra  bottiglia,  di 
far  troppo  la  severa  e  di  allontanare  quelli  che  mi  amano,  non  è 
vero?  E  sia,  accetto  di  ascoltarli.  Mi  si  minaccia,  mi  si  offende,  e, 
lo  chiedo  a  voi,  Tho  meritato? 

OTTAVIO  -  Certissimamente,  no;  tutt'altro! 

MARIANNA  -  Nou  SO  mentire  né  ingannar  nessuno,  ed  è  proprio  per 
questo  che  non  voglio  costrizioni;  e,  che  si  tratti  d'un  Cicisbeo  o 
d'un  Patito,  quale  donna  in  Italia  non  accoglie  intorno  a  sé  quelli 
che  cercano  di  parlarle  d'amore,  senza  che  in  ciò  si  veda  un  delitto 
od  una  menzogna?  Voi  dite  che  mi  fanno  dei  concerti  e  che  io 
lascio  la  gente  in  mezzo  alla  strada?  Ebbene,  continuerò  a  lasciar- 
cela, ma  la  mia  persiana  sarà  socchiusa,  ed  io  sarò  là  dietro  ad 
ascoltare. 

OTTAVIO  -  Posso  ripeterlo  a  Celio?... 

MARIANNA  -  Celio,  o  un  altro,  poco  m'importa!  Che  cosa  mi  consigliate, 
Ottavio?  Vedete,  mi  rimetto  a  voi.  Ebbene,  non  parlate?  Vi  dico 
che  lo  voglio.  Stasera,  si,  stasera  stessa,  ho  voglia  di  farmi  fare  una 
serenata,  e  sarò  felice  di  sentirla.  Sono  curiosa  di  vedere  se  me  lo 
impediranno,  (gii  porge  un  fiocco  che  si  toglie  dal  vestito)  Pren- 
dete, ecco  i  miei  colori.  Li  porti  chi  voi  vorrete. 

OTTAVIO  -  Marianna!  qualunque  sia  la  ragione  che  ha  potuto  ispirarvi 
un  minuto  di  condiscendenza,  poiché  mi  avete  chiamato,  poiché 
acconsentite  ad  ascoltarmi,  in  nome  del  cielo,  rimanete  la  stessa  un 
minuto  ancora;  permettetemi  di  parlarvi. 

MARIANNA  -  Che  volete  dirmi? 


I   CAPRICCI   DI    MARIANNA  123 

OTTAVIO  -  Se  c'è  mai  stato  al  mondo  un  uomo  degno  di  comprendervi, 
degno  di  vivere  e  di  morire  per  voi,  quest'uomo  è  Celio.  So  di 
non  valere  un  gran  che,  e  sono  il  primo  a  riconoscere  che  la  pas- 
sione di  cui  faccio  l'elogio  trova  un  ben  misero  interprete.  Voi, 
COSI  bella,  cosi  giovane!  se  sapeste  qual  tesoro  di  felicità  è  in  voi, 
in  lui!  in  questa  fresca  aurora  di  giovinezza,  in  questa  celeste  ru- 
giada della  vita,  in  questo  primo  accordo  di  due  anime  gemelle! 
Non  vi  parlo  della  sua  sofferenza,  di  quella  dolce  e  tenera  malin- 
conia che  non  s'è  mai  stancata  della  vostra  durezza,  e  che  ne  mo- 
rirebbe senza  lamentarsi!  Si,  Marianna,  ne  morirà.  Che  posso  dirvi? 
Cosa  inventare  per  dare  alle  mie  parole  la  forza  che  manca  loro? 
Io  non  conosco  il  linguaggio  dell'amore.  Guardate  nella  vostra 
anima;  è  lei  che  può  parlarvi  della  sua.  Esiste  una  potenza  capace 
di  commuovervi?  Voi  che  sapete  supplicare  Iddio,  esiste  una  preghie- 
ra che  possa  esprimere  ciò  di  cui  è  pieno  il  mio  cuore?  {si  butta 
in  ginocchio) 

MARIANNA  -  Alzatevi,  Ottavio.  Davvero,  se  qualcuno  venisse,  non  cre- 
derebbe forse,  a  sentirvi,  che  è  per  voi  che  parlate? 

OTTAVIO  -  Marianna!  Marianna!  in  nome  del  cielo,  non  sorridete!  non 
chiudete  il  vostro  cuore  al  primo  lampo  che  forse  l'ha  attraversato! 

MARIANNA  -  Siete  proprio  sicuro  che  non  mi  sia  permesso  di  sorridere? 

OTTAVIO  (rialzandosi)  -  Si,  avete  ragione,  conosco  tutto  il  danno  che 
può  fare  la  mia  amicizia.  So  chi  sono;  lo  sento:  sulle  mie  labbra 
un  simile  linguaggio  ha  l'aria  di  una  burla.  Voi  dubitate  della  sin- 
cerità delle  mie  parole;  mai  forse  come  in  questo  momento  ho  sen- 
tito con  maggiore  amarezza  quanta  poca  fiducia  io  possa  ispirare. 

MARIANNA  -  Perché  dite  cosi?  vedete  che  ascolto.  Celio  non  mi  piace; 
non  ne  voglio  sapere.  Parlatemi  di  qualcun  altro,  di  chi  volete. 

OTTAVIO  -  O  donna  tre  volte  donna!  Celio  non  vi  piace,  ma  il  primo 
venuto  forse  vi  piacerà.  L'uomo  che  vi  ama,  che  segue  sempre  le 
vostre  orme,  che  morirebbe  volentieri  per  una  parola  uscita  dalle 
vostre  labbra,  quello  non  vi  piace!  È  giovane,  bello,  ricco  e  degno 
in  tutto  di  voi;  ma  non  vi  piace!  e  il  primo  venuto  vi  piacerà. 

MARIANNA  -  Fate  quel  che  vi  dico,  o  non  mi  rivedrete  più.  (entra  in 
casa) 


124  ALFRED   DE    MUSSET 


SCENA   DODICESIMA 


OTTAVIO,   solo 

Siete  molto  carina,  Marianna,  e  questo  capriccetto  dettato  dalla 
collera  è  un  delizioso  trattato  di  pace.  Non  mi  ci  vorrebbe  molto 
orgoglio  per  capirlo;  basterebbe  un  po'  di  perfidia.  Ma  sarà  Celio 
ad  avvantaggiarsene. 


SCENA   TREDICESIMA 

CELIO,  OTTAVIO 

CELIO  -  Mi  hai  mandato  a  chiamare,  amico  mio;  ebbene,  quale  novità? 

OTTAVIO  -  Appunta  questo  nastro  al  tuo  berretto.  Celio;  prendi  chitarra 
e  spada;  la  nostra  causa,  è  vinta  per  metà. 

CELIO  -  In  nome  del  cielo,  non  prenderti  giuoco  di  me. 

OTTAVIO  -  La  notte  sarà  bella,  la  luna  sta  per  spuntare  all'orizzonte.  Ma- 
rianna sarà  sola  stasera  dietro  la  sua  persiana;  acconsente  ad  ascol- 
tarti. 

CELIO  -  È  proprio  vero?  è  proprio  vero?  o  tu  sei  la  mia  vita,  Ottavio, 
o  sei  senza  pietà. 

OTTAVIO  -  Se  ti  dico  che  tutto  è  stabilito.  Una  canzone  sotto  la  finestra; 
un  lungo,  lungo  mantello,  un  pugnale  in  tasca,  una  maschera  sul 
viso...  hai  una  maschera? 

CELIO  -  No. 

OTTAVIO  -  Non  hai  maschera?  Sei  innamorato,  e  siamo  in  carnevale! 
Questo  ragazzo  non  pensa  a  nulla.  Va'  a  procurarti  tutto  il  necessa- 
rio, alla  svelta. 

CELIO  -  Ah!  mio  Dio!  mi  sento  mancare! 

OTTAVIO  >  Coraggio,  amico  mio!  Cammina!  al  tuo  ritorno  mi  abbrac- 
cerai. Va'!  Va'!  la  notte  è  vicina.  {Celio  esce)  Si  sente  mancare,  dice 
lui,  ma  anch'io,  giacché  ho  cenato  solo  a  metà.  In  ricompensa  delle 
mie  pene,  m'offro  da  cena,  (chiama)  Eh!  olà!  Giovanni!  Beppo!... 
(entra  neirosteria) 


I   CAPRICCI  DI  MARIANNA  125 

SCENA   QUATTORDICESIMA 

TIBIA,   CLAUDIO,   MARIANNA,  Sul  bolcone,  DUE   SPADACCINI 

CLAUDIO  (agU  Spadaccini)  -  Lasciatelo  entrare,  e  gettatevi  su  di  lui,  non 
appena  sarà  arrivato  a  questo  boschetto,  {uno  degli  spadaccini  esce) 

MARIANNA  {sul  balconc,  a  parte)  -  Che  vedo?  mio  marito  e  Tibia. 

TIBIA  {a  Claudio)  -  E  se  entra  dall'altra  parte? 

CLAUDIO  -  Come,  Tibia,  dall'altra  parte!  cosi  vedrei  andare  a  monte  il 
mio  piano? 

MARIANNA  (fl  poTte)  -  Cosa  dicono? 

TIBIA  -  Questa  piazza  è  un  incrocio,  ci  si  può  arrivare  da  destra  come 
da  sinistra. 

CLAUDIO  -  Hai  ragione;  non  ci  avevo  pensato. 

TIBIA  -  Che  si  deve  fare,  signore,  se  arriva  da  sinistra? 

CLAUDIO  -  Allora,  aspettatelo  all'angolo  del  muro. 

MARIANNA  {a  pOTte)  -  Cielo!  cosa  ho  sentito? 

TIBIA  -  E  se  appare  da  destra? 

CLAUDIO  *  Aspettate  un  momento.  Farete  la  stessa  cosa,  {l'altro  spadac- 
cino esce) 

MARIANNA  {a  parte)  -  Come  avvertire  Ottavio? 

TIBIA  -  Eccolo  che  arriva.  Ecco,  signore,  guardate  com'è  grande  la  sua 
ombrai  è  un  uomo  d'una  bella  statura. 

CLAUDIO  -  Mettiamoci  in  disparte,  e  colpite  quando  sarà  giunto  il  mo- 
mento. 


SCENA   QUINDICESIMA 

CELIO,  mascherato,  Marianna,  sul  balcone 

CELIO  {avvicinandosi  al  balcone)  -  Marianna,  Marianna!  siete  li? 

MARIANNA  -  Fuggite,  fuggite,  Ottavio! 

CELIO  -  Signore,  mio  Dio!  che  nome  ho  sentito? 

MARIANNA  -  La  casa  è  circondata  da  assassini;  mio  marito  ha  ascoltato 

la  nostra  conversazione,  e  la  vostra  morte  è  sicura,  se  restate  qui 

un  minuto  di  più. 
CELIO  -  È  forse  un  sogno?  io  son  proprio  Celio? 


126  ALFRED   DE   MUSSET 

MARIANNA  -  Ottavio,  Ottavio,  in  nome  del  ciclo,  non  rimanete  là!  Pos- 
siate avere  ancora  il  tempo  di  fuggire!  Domani,  trovatevi  a  mezzo- 
giorno dietro  il  giardino,  ci  sarò,  {si  ritira) 


SCENA   SEDICESIMA 

CELIO,  TIBIA  che  lo  scguc  e  si  nasconde 

CELIO  {togliendosi  la  maschera  e  sfoderando  la  spada)  -  O  morte!  poi- 
ché sei  qui,  vieni  dunque  in  mio  aiuto.  Ottavio,  Ottavio  traditore! 
possa  il  mio  sangue  ricader  su  di  te!  A  che  scopo,  per  quale  motivo 
mi  hai  spinto  in  questo  spaventoso  traneUo,.  non  riesco  a  capirlo, 
ma  lo  saprò,  poiché  son  venuto;  e  magari  a  rìschio  della  vita,  saprò 
sciogliere  quest'orribile  enigma,  {esce,  Tibia  lo  segue) 


SCENA  DICIASSETTESIMA 

OTTAVIO,  solo,  mentre  esce  dall'osteria 

Ah!  dove  andare  ora?  ho  fatto  qualche  cosa  per  la  felicità  de- 
gli altri,  che  posso  inventare  per  il  piacere  mio?  In  fede  mia! 
ecco  una  bella  notte,  e  a  dir  la  verità  deve  essere  messa  al  mio 
attivo.  Quella  donna  era  bella  davvero,  e  quel  pizzico  di  stizza  le 
stava  proprio  bene!  Da  che  cosa  era  causata?  lo  ignoro.  Che  im- 
porta sapere  come  fa  la  pallina  d'avorio  a  cadere  sul  numero  che 
abbiamo  puntato?  Portar  via  l'amante  a  un  amico,  è  una  birbonata 
troppo  comune  per  me.  La  cosa  veramente  importante  era  quella 
di  cenare!  È  chiaro  che  Celio  è  digiuno.  Come  mi  avresti  detestato, 
Marianna,  se  ti  avessi  amato!  Come  mi  avresti  messo  alla  porta!  e 
il  tuo  gaglioffo  di  marito  ti  sarebbe  sembrato  un  Adone,  un  Sil- 
vano, in  confronto  a  me!  Qual  è  la  ragione  di  tutto  questo?  La 
ragione  di  tutto  questo  è  il  caso.  In  questo  mondo  tutto  è  questione 
di  fortuna  o  di  sfortuna.  Non  era  forse  afflitto.  Celio,  stamani,  e 
ora...  {si  sente  un  rumore  sordo  e  un  ticchettio  di  spade)  Che  sento? 
Cos'è  questo  rumore? 


I   CAPRICCI   DI   MARIANNA  127 

CELIO  (con  voce  soffocata)  -  Aiuto! 

OTTAVIO  -  Celio!  è  la  voce  di  Celio,   {correndo  al  cancello)  Aprite,  o 
sfondo  il  cancello! 


SCENA  DICIOTTESIMA 

OTTAVIO,   CLAUDIO 

CLAUDIO  {mostrandosi)  -  Che  volete? 

OTTAVIO  -  Dov'è  Celio? 

CLAUDIO  -  Non  credo  che  abbia  l'abitudine  di  dormire  in  questa  casa. 

OTTAVIO  -  Se  l'hai  assassinato,  Claudio,  bada  a  te;  ti  torcerò  il  collo  con 
queste  mie  mani. 

CLAUDIO  -  Siete  pazzo  o  sonnambulo?  Cercate  in  giardino,  se  volete; 
io  non  ho  visto  entrare  nessuno;  e  se  qualcuno  l'avesse  voluto  fare, 
mi  sembra  che  avrei  ben  avuto  il  diritto  di  non  aprirgli.  {Ottavio 
entra,  Claudio  va  incontro  a  Tibia  e  gli  dice)  Tutto  è  finito  secondo 
ì  miei  ordini? 

TIBIA  -  Si,  signore,  state  tranquillo;  possono  cercare  quanto  vogliono. 

CLAUDIO  -  Ora  pensiamo  a  mia  moglie,  e  andiamo  ad  avvertire  sua  ma- 
dre. 

{escano) 


SCENA  DICIANNOVESIMA 

MARIANNA,  Sola 

La  cosa  è  certa;  non  m'inganno,  ho  visto  bene,  ho  sentito  be< 
ne.  Dietro  la  casa,  attraverso  gli  alberi,  ho  visto  delle  ombre  sparse 
qua  e  là,  unirsi  all'improvviso  e  gettarsi  su  di  lui.  Ho  sentito  il 
rumore  delle  spade,  poi  un  grido  soffocato,  la  più  sinistra,  l'ultima 
invocazione!  Povero  Ottavio!  coraggioso  com'è  (perché  è  coraggio- 
so) l'hanno  preso  di  sorpresa,  l'hanno  trascinato  via.  È  mai  possi- 
bile, è  mai  credibile,  che  un  simile  sbaglio  sia  pagato  cosi  caro? 
È  possibile  che  cosi  poco  buon  senso  possa  provocare  tanta  crudeltà? 
E  io  che  ho  agito  cosi  leggermente,  cosi  stoltamente,  per  puro  gioco, 
per  puro  capriccio!  Bisogna  che  lo  veda,  bisogna  che  io  sappia... 


128  ALFRED  DE   MUSSET 


SCENA   VENTESIMA 

MARIANNA,  OTTAVIO 

{entra  Ottavio  con  la  'spada  sguainata,  guardando  da  tutte  le  pard) 

MARIANNA  -  Ottavio,  siete  voi? 
OTTAVIO  -  Sono  io,  Marianna.  Celio  è  morto! 
MARIANNA  -  Cclio,  ditc?  Comc  può  csscrc?... 
OTTAVIO  -  È  morto! 

MARIANNA  -  O  ciclo! 

OTTAVIO  -  È  morto!  Non  andate  da  quella  parte. 

MARIANNA  -  Dovc  volctc  chc  Vada?  Sono  perduta!  Bisogna  partire,  Ot- 
tavio, bisogna  fuggire!  Certamente,  Claudio  non  è  in  casa! 

OTTAVIO  -  No;  hanno  preso  le  loro  precauzioni  e  mi  hanno  lasciato 
prudentemente  solo. 

MARIANNA  >  Lo  conosco,  souo  perduta,  ed  anche  voi  forse...  Partiamo! 
stanno  per  tornare,  e  presto! 

OTTAVIO  -  Partite  se  volete;  io  resto.  Se  devono  ritornare  mi  troveranno, 
e,  qualunque  cosa  accada,  li  aspetterò.  Voglio  vegliare  accanto  a  lui 
nel  suo  ultimo  sonno. 

MARIANNA  -  Ma  me,  mi  abbandonerete?  Sapete  a  quale  pericolo  vi  espo- 
nete, e  fin  dove  può  giungere  la  loro  vendetta? 

OTTAVIO  -  Guardate  laggiù,  dietro  quegli  alberi,  quel  piccolo  punto 
scuro,  all'angolo  del  muro;  là  giace  il  mio  unico  amico;  di  tutto  il 
resto,  non  mi  curo. 

MARIANNA  -  Neppure  della  vostra  vita,  né  della  mia. 

OTTAVIO  -  Neppure  di  ciò.  Guardate  laggiù!...  Solo  io,  al  mondo,  Tho 
conosciuto.  Posate  sulla  sua  tomba  un'urna  d'alabastro  coperta  da 
un  lungo  velo  funebre,  sarà  quella  la  sua  perfetta  immagine.  È 
COSI  che  una  dolce  malinconia  velava  le  perfezioni  di  quell'anima 
tenera  e  delicata...  Sarebbe  stata  felice,  la  donna  che  l'avesse  amato. 

MARIANNA  -  L'avrebbe  difesa,  se  si  fosse  trovata  in  pericolo? 

OTTAVIO  -  Si,  l'avrebbe  fatto  senza  alcun  dubbio.  Lui  solo  era  capace 
di  una  devozione  senza  limiti;  lui  solo  avrebbe  consacrato  la  vita 
intera  alla  donna  amata,  con  la  stessa  facilità  con  cui  ha  affrontato 
la  morte  per  lei. 

MARIANNA  -  E  VOI,  Ottavio,  uon  lo  fareste? 

orrAVio  -  Io?  io  non  sono  che  un  dissoluto  senza  cuore;  non  ho  nes- 
suna stima  delle  donne.  L'amore  che  ispiro  è  come  quello  che  sen- 


I   CAPRICCI   DI   MARIANNA  129 

to,  l'ebrezza  passeggera  di  un  sogno.  La  mia  allegria  è  solo  una 
maschera;  il  mio  cuore  è  troppo  vecchio!  Ah!  non  sono  che  un  vi- 
gliacco! la  sua  morte  non  è  vendicata!   {getta  per  terra  la  spada) 

MARIANNA  -  Comc  avrcbbc  potuto  esserlo?...  Claudio  è  troppo  vecchio 
per  accettare  un  duello,  e  troppo  potente  in  questa  città  per  temer 
qualche  cosa  da  voi. 

OTTAVIO  -  Celio  mi  avrebbe  vendicato,  se  fossi  morto  per  lui,  come  lui 
è  morto  per  me.  La  sua  tomba  m'appartiene;  sono  io  quello  che 
loro  hanno  ammazzato  in  quel  cupo  viale;  è  per  me  che  avevano 
affilato  le  loro  spade;  hanno  ucciso  me!...  È  finita  l'allegria  della 
mia  giovinezza,  le  spensierate  follie,  la  vita  libera  e  gioconda  ai 
piedi  del  Vesuvio!  Son  finiti  i  rumorosi  banchetti,  le  chiacchierate 
serali,  le  serenate  sotto  i  balconi  dorati.  Finita  è  Napoli  e  le  sue 
donne,  le  mascherate  alla  luce  delle  torce,  le  lunghe  cene  all'ombra 
delle  foreste!  Finito  è  l'amore  e  l'amicizia!  Il  mio  posto  sulla  terra 
e  vuoto. 

MARIANNA  -  Ne  siete  proprio  sicuro,  Ottavio?  Perche  dite:  finito  è 
l'amore? 

OTTAVIO  -  Io  non  vi  amo,  Marianna;  era  Celio  che  vi  amava. 


La  presente  traduzione,  condotta  sul  testo  del  1851,  è  a  cura  di 
Uano  Petroni. 


9.  •  Teatro  francese 


MAURICE  MAETERLIRCK 


Nato  a  Gand  il  1862,  morto  a  Nizza  il  1949,  Maurice  Macter- 
liiick  ^  è  venuto  alla  sua  ora  e  passato  col  suo  tempo.  Figlio  felice 
della  fine  del  secolo  e  fortunato  volgarizzatore  di  idee  comuni,  è 
forse  il  più  caratteristico  rappresentante  della  e  belle  epoque»,  o 
della  zona  crepuscolare  nella  quale  —  fra  eccessi  vitalistici  e  vacan- 
ze di  buon  gusto  —  vivono  in  lieta  tolleranza  gli  Spettri  di  Ibsen 
e  i  fantasmi  di  Eusapia  Paladino,  il  messianismo  tolstoiano  e  la 
borghese  euforia,  l'estetica  decadente  e  lo  stile  liberty.  Dotato  del- 
le antenne  e  della  straordinaria  fecondità  dei  suoi  insetti,  passa 
una  lunga  ed  onorata  esistenza  a  captare  i  riunori  del  mondo  e  le 
armonie  delle  celesti  sfere,  a  interrogare  le  tenebre  e  a  tradurre  in 
piacevoli  simboli  e  in  lucidi  diagrammi  le  incognite  e  i  problemi 
del  conscio  e  dell'inconscio,  della  vita,  dalla  fauna  e  della  flora. 

Il  giovane  ammiratore  di  Emerson  e  di  Novalis  ebbe  anche 
lui  il  suo  periodo  (che  va  grosso  modo  dal  1890  al  1896,  d2Ìil*Intruse 
al  Trésor  des  humbles)  di  moderata  angoscia  metafìsica,  ma  l'in- 
nato ottimismo  e  il  successo  letterario  lo  aiutarono,  insieme  con 
Marco  Aurelio  e  con  J.  H.  Fabre,  a  risolvere  la  crisi  del  «tra- 
gico quotidiano  >  (a  vincere,  cioè,  il  panico  delle  oscure  forze  che 
opprimono  l'uomo)  nell'affermazione  delle  forze  umane  e  nella 
fede  in  un  «ignoto  forse  necessario  alla  nostra  felicità»  e  di  un 
infinito  «  qui  ne  saurait  nous  vouloir  du  mal  ». 

Già  nel  1898,  in  La  Sagesse  et  la  Destinée,  Maeterlinck  può 
piacevolmente  dissertare  «  de  sagesse,  de  fatalité,  de  justice,  de  bon- 
heur  et  d'amour».  Poi,  nel  1901,  il  grande  successo  della  Vie 
des  Abeilles  —  e  la  vena  sarà  sfruttata  con  minor  fortuna  nell'/»- 


^  Cfr.  «  Panorama  dd  Teatro  francese  »,  voi.  I,  pag.  53. 


134  MAURICE   MAETERLINCK 

telligence  des  Fleurs  (1907),  nella  Vie  des  Termites  (1926),  nella 
Vie  des  Fourmis  (1930),  eccetera  —  dove  sono  rivelati  i  misteri  e 
le  meraviglie  dell'istinto  e  dell'oscuro  ma  infallibile  ordine  della  na- 
tura. Quindi,  per  circa  mezzo  secolo,  è  il  romanzo  della  filosofia, 
della  morale,  della  immanenza  e  della  trascendenza,  in  una  serie 
di  saggi  che  parlano  della  coscienza  del  bene  e  del  male  {Le  tem- 
pie enseveliy  1902),  del  caso,  dell'eflSmero,  dell'eterno,  dei  pasca- 
liani -spazi  e  silenzi,  dell'infinitamente  piccolo  e  dell'infinitamente 
grande,  della  morte  e  dell'immortalità,  della  guerra,  della  boxe  e 
di  svariate  altre  cose  che  si  leggevano,  e  non  si  leggono  più,  nel 
Doublé  jardin  (1904),  nella  Mort  (1913),  nell'H<5^  inconnu  (1917) 
che  è  il  Subcosciente,  nel  Grand  Secret  (1921),  che  è  il  segre- 
to delle  dottine  esoteriche,  nella  Vie  de  VEspace  (1928)  dove  si 
trova  la  quarta  dimensione,  nella  Grande  Féerie  (1929)  che  è 
quella  degli  astri,  nella  Grande  loi  (1933)  che  è  quella  della  gra- 
vitazione, in  Avant  le  Grand  Silence  (1934,  nel  Sablier  (1935), 
TitWOmbres  des  Ailes  (1936),  in  Devant  Dieu  (1937),  nella  Gran- 
de porte  (1938),  ncìVAutre  Monde  ou  le  Cadran  stellaire  (1942). 
Maeterlinck  invecchia  vedendo  tutto  in  grande  e  in  rosa.  Le  sue 
memorie,  pubblicate  nel  1948,  un  anno  prima  della  morte,  portano 
il  titolo  di  Bulles  bleues,  souvenir s  heureux. 

Il  teatro  è  press'a  poco  della  stessa  qualità  ed  ha  la  stessa  for- 
tuna dei  saggi.  Il  meglio  si  trova  ancora  nelle  prime  opere,  nel- 
Vlntruse  (1890)  negli  Aveugles  (1890)  e  in  Intérieur  (1894).  Il  re- 
sto è  melodramma  che  trionfa  negli  orrori  della  Princesse  Maleine 
(1889)  e  nell'oratoria  amorosa  di  Pelléas  et  Mélisande  (1891),  deca- 
de nella  confusa  banalità  della  Mort  de  Tintagiles  (1894)  e  negli 
arbitri  pseudoeroici  di  Monna  Vanna  (1902),  filosofeggia  in  Aria- 
ne et  Barbe  Bleue  (1901),  in  Joyzelle  (1903)  e  in  altre  minute  cose: 
e  dappertutto  la  presenza  delle  enormi  potenze  «  dont  nul  ne  sait 
les  intentions  >  si  riduce  all'azione  del  caso  ed  alle  sorprese  della 
sventura,  nel  e  tragico  quotidiano  >  del  fatto  di  cronaca,  della  mor- 
te di  una  puerpera  o  della  morte  improvvisa  di  un  vecchio  prete, 
nell'annegamento  di  una  ragazza,  nel  dranmia  di  amori  contra- 
stati e  di  adulteri  virtuosi.  In  questo  nuovo  teatro,  nel  quale  la 
materia  naturalista  si  accoppia  alla  fumata  simbolista,  l'Ignoto  gè- 


PRESENTAZIONE  135 

sticola  fra  le  quinte  o  resta  nel  vago  del  paesaggio  e  nel  vago  di 
anime  che  lo  ignorano,  mentre  il  mistero  continua  a  portare  sulla 
scena  la  doppia  maschera  del  dio  delle  macchine  e  dei  luoghi  co- 
muni parlando  volentieri  il  linguaggio  di  un  oracolo  che  Maeter- 
linck  interpreta  «  ad  hbitum  >  e  secondo  gli  umori  del  momento. 
Cosicché,  mentre  al  tempo  del  pessimismo  l'interrogatorio  aveva 
luogo  sotto  il  segno  crudele  òAYlntruse  e  di  Intérieur,  nel  periodo 
del  buon  uso  della  saggezza  le  risposte  confortanti  vengono  attra- 
verso le  candide  allegorie  della  fiaba.  NeH'Oiseau  bleu  (1909)  il 
diamante  della  Verità  è  infatti  affidato  ai  due  pargoli  Tyltyl  e  My- 
tyl  che,  in  compagnia  dell'anima  del  Cane,  della  Gatta,  dello  Zuc- 
chero, del  Pane,  eccetera,  partono  alla  ricerca  dell'Uccello  Azzurro 
(o  Felicità),  lo  trovano  e  lo  perdono  continuamente  nel  Paese  dei 
Ricordi  (dove  vivono  i  cari  morti),  nel  Cimitero  (dove  le  tombe 
scoprono  che  e  non  vi  sono  morti  >),  nel  Palazzo  della  Notte  (dove 
regnano  Fantasmi,  Guerre,  Stelle,  Sogni),  nella  Foresta  degli  Alberi 
in  rivolta  contro  gli  uomini,  nel  Paese  delle  Gioie  o  della  Buona 
Salute,  dell'Aria  pura,  del  Lavoro,  dell'Intelligenza,  e  cosi  via  di- 
cendo, finiscono  per  trovarlo  definitivamente,  al  risveglio,  nel  cor- 
tile familiare,  fra  le  parvenze  rassicuranti  del  quotidiano  e  la  fede 
nell'Avvenire. 

È  COSI  che,  quasi  nello  stesso  periodo  in  cui  Mallarmé  sfiorava 
la  demenza  nella  ricerca  della  «  spiegazione  orfica  della  Terra  >,  il 
buon  Maeterlinck  risolveva  i  grandi  problemi  dell'essere  nella  be- 
nevola contemplazione  delle  Costellazioni  e  con  l'ingegnoso  ri- 
corso alla  lanterna  magica.  È  il  solo  simboUsta  —  si  dice  —  che 
abbia  avuto  fortuna  al  teatro.  Ebbe  infatti  grandi  successi  (e  il 
premio  Nobel),  ispirò  Debussy,  che  mise  in  musica  Pelléas  et  Me- 
lisandcy  riusci  per  qualche  tempo  a  suscitare  entusiasmi  di  critica 
e  di  pubblico.  Che  avesse  fatto  scendere  nella  vita  «  reale  >  e  nel 
teatro  «  l'idea  dell'Ignoto  >  era  una  sua  illusione,  ma  nella  finzio- 
ne scenica  —  e  nei  momenti  migliori  —  riuscì  a  portare  l'ombra, 
o  la  contraffazione,  della  poesia  nel  discorso  prosaico,  il  brivido 
della  €  suspense  >  nel  dramma  del  luogo  comune,  l'ansia  sugge- 
stiva della  ripetizione  ossessionante  delle  interrogazioni  e  delle 
usuali  parole.  L'attuale  teatro  della  vuota  angoscia  e  dell'assurda 


136  MAURICE   MAETERLINGK 

attesa  (del  genere  En  attendant  Godot  e  Fin  de  panie  del  Bcckett) 
deve  qualcosa  al  mondo  realistico  ed  allucinante  dclVIntrusey  degli 
Aveugles  e  di  Intérieur. 

Cfr.  A.  Bailly,  Maeterlinck,,  1931;  G.  Harry,  La  vie  et  l'oeuvre  de 
Maeterlincì^,  1932;  M.  Lecat,  Maurice  Maeterlinc\  et  son  oeuvre,  1950. 


L'intrusa 


PERSONAGGI 
IL  NONNO  (è  cieco) 

IL  PADRE 

LO  ZIO 

LE  TRE  FIGLIE 

LA  SUORA  DI  CARITÀ 

LA  SERVA 

La  scena  è  ai  nostri  tempi. 


L'INTRUSA 


Una  saia  piuttosto  buia  in  un  vecchio  castello.  Una  porta  a  destra,  una  porta  a 
sinutra  e  una  porticina  mascherata  in  un  ang<do.  In  fondo,  finestre  e  vetrate 
in  cut  domina  il  verde,  e  una  porta  a  vetri  che  si  apre  sul  terrazzo.  Un  grande 
pendolo  fiammingo  in  un  angolo.  Una  lampada  accesa. 

LE  TRE  FIGLIE  .  Veiìitc  qui,  fioniio,  sedetevi  sotto  la  lampada. 

IL  NONNO  '  Mi  pare  che  non  faccia  troppo  chiaro  qui. 

IL  PADRE  -  Andiamo  sul  terrazzo  o  restiamo  in  questa  stanza? 

LO  ZIO  -  Non  sarebbe  meglio  restare  qui?  È  piovuto  tutta  la  settimana 
e  le  notti  sono  umide  e  fredde. 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Ci  sono  delle  stelle,  però. 

LO  ZIO  -  Oh,  le  stelle!  Questo  non  significa  niente. 

IL  NONNO  -  È  meglio  restare  qui,  non  si  sa  che  cosa  possa  accadere. 

IL  PADRE  -  Non  bisogna  aver  timori.  Non  c'è  più  pericolo,  è  salva... 

IL  NONNO  -  Credo  che  non  stia  troppo  bene... 

IL  PADRE  -  Perché  dite  questo? 

IL  NONNO  -  Ho  sentito  la  sua  voce. 

IL  PADRE  -  Ma  dal  momento  che  i  medici  affermano  che  possiamo  star 
tranquilli... 

LO  ZIO  -  Sai  bene  che  a  tuo  suocero  piace  allarmarci  inutilmente. 

IL  NONNO  -  Non  ci  vedo  come  voi. 

LO  ZIO  -  Allora  dovete  fidarvi  di  chi  ci  vede.  Aveva  una  bellissima  cera, 
questo  pomerìggio.  Dorme  profondamente,  e  non  dobbiamo  avve- 
lenarci la  prìma  buona  serata  che  il  destino  ci  accorda...  Mi  sem- 
bra che  abbiamo  il  diritto  di  riposarci,  e  anche  di  ridere  un  po' 
senza  paura,  questa  sera. 

IL  PADRE  -  È  vero,  è  la  prima  volta  che  mi  sento  in  casa  mia,  fra  i  miei 
cari,  dopo  quel  parto  terribile. 

LO  ZIO  -  Quando  la  malattia  è  entrata  in  una  casa,  si  direbbe  che  c'è  un 
estraneo  nella  famiglia. 

IL  PADRE  -  Ma  allora,  si  vede  pure  che  fuori  della  famiglia  non  si  può 
fare  assegnamento  su  nessuno. 


140  MAURICE   MAETERLINCK 

LO  ZIO  -  Hai  perfettamente  ragione. 

IL  NONNO  -  Perché  non  ho  potuto  vedere  la  mia  povera  figlia  oggi? 
LO  ZIO  -  Sapete  bene  che  il  medico  Tha  proibito. 
IL  NONNO  -  Non  so  che  cosa  devo  pensare... 
LO  ZIO  -  È  inutile  che  vi  allarmiate... 

IL  NONNO  (indicando  la  porta  a  sinistra)  -  Non  può  sentirci? 
IL  PADRE  -  Parleremo  sottovoce;  del  resto  la  porta  è  molto  spessa,  e  poi 
con  lei  c'è  la  suora  e  ci  avvertirebbe  se  facessimo  troppo  rumore. 
IL  NONNO  (indicando  la  porta  a  destra)  -  E  lui  non  può  sentirci? 
IL  PADRE  -  No,  no. 
IL  NONNO  -  Dorme? 

IL  PADRE  -  Penso  di  SI. 

IL  NONNO  -  Bisognerebbe  andare  a  vedere. 

LO  ZIO  -  Mi  preoccuperebbe  più  di  tua  moglie,  il  piccolo.  È  nato  da 
parecchie  settimane  e  appena  s'è  mosso;  finora  non  ci  ha  fatto  sen- 
tire il  più  piccolo  strillo;  lo  si  direbbe  un  bambino  di  cera. 

IL  NONNO  -  Credo  che  sarà  sordo,  e  forse  muto...  Ecco  il  frutto  dei  ma- 
trimoni fra  consanguinei... 

(silenzio  di  riprovazione) 

IL  PADRE  -  Ce  rho  quasi  con  lui  per  il  male  che  ha  fatto  a  sua  madre. 
LO  ZIO  '  Bisogna  essere  ragionevoli;  non  è  colpa  sua,  poverino...  È  solo, 

in  quella  camera? 
IL  PADRE  -  Si.  Il  dottore  non  vuole  più  che  resti  nella  camera  della 

madre. 
LO  ZIO  -  Ma  la  balia  è  con  lui? 
IL  PADRE  -  No,  è  andata  un  momento  a  riposare;  se  Tè  ben  meritato 

dopo  questi  ultimi  giorni.  Orsola,  va  un  po'  a  vedere  se  dorme. 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Si,  papà. 

(le  tre  sorelle  si  alzano  e,  tenendosi  per  mano,  entrano  nella  camera  a 
destra) 

IL  PADRE  -  A  che  ora  verrà  nostra  sorella? 

LO  ZIO  -  Credo  verso  le  nove. 

IL  PADRE  -  Sono  le  nove  passate.  Vorrei  che  venisse  stasera;  mia  moglie 

d  tiene  molto  a  vederla. 
LO  ZIO  -  Ma  certo  che  verrà.  È  la  prima  volta  che  viene  qui? 
IL  PADRE  -  Non  è  mai  entrata  in  questa  casa. 
LO  ZIO  -  Le  riesce  molto  difficile  lasciare  il  convento. 
IL  PADRE  -  Sarà  sola? 
LO  ZIO  -  Penso  che  un'altra  suora  l'accompagnerà.  Non  possono  uscir 

sole. 


l'intrusa  141 

IL  PADRE  '  Eppure  è  la  superiora. 

LO  ZIO  -  La  regola  è  uguale  per  tutte. 

IL  NONNO  -  Non  siete  più  preoccupati? 

LO  ZIO  -  Perché  dovremmo  esserlo?  Non  bisogna  parlarne  pid.  Non  c'è 

più  da  temere. 
IL  NONNO  -  Vostra  sorella  è  più  vecchia  di  voi? 
LO  ZIO  .  È  la  nostra  sorella  maggiore! 
IL  NONNO  -  Non  so  che  cosa  ho;  non  sono  tranquillo.  Vorrei  che  vostra 

sorella  fosse  qui. 
LO  ZIO  -  Verrà;  l'ha  promesso. 
IL  NONNO  -  Vorrei  che  questa  sera  fosse  trascorsa! 

(le  tre  figlie  rientrano) 

IL  PADRE  '  Dorme? 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Si,  papà;  profoudamcnte. 

LO  ZIO  -  Che  faremo  nell'attesa? 

IL  NONNO  -  Nell'attesa  di  che? 

LO  ZIO  -  Di  nostra  sorella. 

IL  PADRE  -  Non  vedi  venire  nessuno,  Orsola? 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  {ofjocciata  dia  finestra)  -  No,  papà. 

IL  PADRE  -  E  nel  viale?  Lo  vedi  il  viale? 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  S{,  papà;  c'è  il  chiaro  di  luna  e  vedo  il  viale  fino 

al  bosco  dei  cipressi. 
IL  NONNO  -  E  non  vedi  nessuno? 
LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Ncssuno,  nonno. 
LO  ZIO  -  Che  tempo  fa? 
LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  BelUssimo.  Sentite  gli  usignoli? 

LO  ZIO  -  Si,  SI. 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  lira  un  po'  di  vcnto  nel  viale. 

IL  NONNO  -  Un  po*  di  vento  nel  viale? 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Si,  gli  alberi  tremano  un  poco. 

LO  ZIO  -  Strano  che  mia  sorella  non  sia  ancora  qui. 

IL  NONNO  -  Non  sento  più  gli  usignoli. 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Crcdo  chc  qualcuno  sia  entrato  nel  giardino, 

nonno. 
IL  NONNO  -  Chi  è? 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Non  lo  so;  non  vedo  nessuno. 
LO  ZIO  -  Vuol  dire  che  non  c'è  nessuno. 
LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Dev'csserci  qualcuno  in  giardino,  gli  usignoli 

hanno  taciuto  di  colpo. 
IL  NONNO  -  Eppure  non  sento  camminare. 


142  MAURICE   MAETERLINCK 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Qualcuno  devc  Star  passando  vicino  allo  stagno 

perché  i  cigni  hanno  paura. 
IL  PADRE  -  Non  vedi  nessuno? 

LA   FIGLIA   MAGGIORE  -  NcSSUnO,   papà. 

IL  PADRE  -  Eppure  lo  stagno  è  nel  chiaro  di  luna... 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Si,  vcdo  chc  i  cigni  hanno  paura. 

LO  ZIO  -  Sono  sicuro  che  è  mia  sorella  a  spaventarli.  Sarà  entrata  per 

la  porticina. 
IL  PADRE  -  Non  mi  spiego  perché  i  cani  non  abbaiano. 
LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Vedo  il  Cane  da  guardia  in  fondo  alia  sua  cuccia. 

I  cigni  vanno  verso  Taltra  riva!... 
LO  ZIO  -  Hanno  paura  di  mia  sorella.  Vado  a  vedere,  {chiama)  Sorella! 

Sorella!  Sei  tu?  Non  c'è  nessuno. 
LA  FIGLIA  MAGGIORE  .  Sono  sicura  che  è  entrato  qualcuno  nel  giardino. 

Vedrete! 
LO  ZIO  -  Ma  essa  mi  risponderebbe! 
IL  NONNO  -  Gli  usignoli  ricominciano  a  cantare,  Orsola? 
LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Non  ue  sento  più  uno  solo  in  tutta  la  campagna. 
IL  NONNQ  -  Eppure  non  c'è  nessun  rumore. 
IL  PADRE  '  C'è  un  silenzio  di  morte. 
IL  NONNO  -  Dev'essere  uno  sconosciuto  a  spaventarli,  perché  se  fosse 

qualcuno  della  casa,  non  tacerebbero. 
LO  ZIO  -  Adesso  vi  occupate  degli  usignoli? 
IL  NONNO  -  Tutte  le  finestre  sono  aperte,  Orsola? 
LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  La  porta  a  vetri  è  aperta,  nonno. 
IL  NONNO  -  Mi  sembra  che  il  freddo  entri  nella  stanza. 
LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  C'è  un  po'  di  vcnto  nel  giardino,  nonno,  e  le  rose 

si  sfogliano. 
IL  PADRE  -  Ebbene,  chiudi  la  porta.  È  tardi. 
LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  S(,  papà.  Non  posso  chiudere  la  porta. 
LE  ALTRE  DUE  FIGLIE  -  Non  possiamo  chiuderla. 
IL  NONNO  -  Che  cosa  c'è,  figlie  mie? 

LO  ZIO  -  Non  bisogna  dir  questo  con  una  voce  strana.  Le  aiuterò  io. 
LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Nou  riusciamo  a  chiuderla  completamente. 
LO  ZIO  -  Colpa  dell'umidità.  Spingiamo  tutti  insieme.  Ci  deve  essere 

qualcosa  tra  i  battenti. 
IL  PADRE  -  Il  falegname  l'aggiusterà,  domani... 
IL  NONNO  -  Verrà  il  falegname  domani? 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Si,  nonno,  verrà  per  dei  lavori  in  cantina. 
IL  NONNO  -  Farà  molto  rumore  nella  casa!... 
LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Gli  dirò  di  aver  riguardo. 


l'intrusa  143 

(st  sente  di  colpo  il  rumore  di  una  jdce  che  stanno  affilando  fuori) 

IL  NONNO  (trasalendo)  -  Oh! 

LO  ZIO  -  Che  cosa  c'è? 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Noii  lo  SO  esattamente;  credo  sia  il  giardiniere. 
Non  ci  vedo  bene,  è  nellombra  della  casa. 

IL  PADRE  -  È  il  giardiniere  che  dovrà  falciare. 

LO  ZIO  -  Falciare  di  notte? 

IL  PADRE  -  Domani  non  è  domenica?  Sf.  Ho  notato  che  Terba  era  mol- 
to alta  intorno  alla  casa. 

IL  NONNO  '  Mi  sembra  che  la  sua  falce  sia  ben  rumorosa... 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Falcia  intomo  alla  casa. 

IL  NONNO  -  Lo  vedi,  Orsola? 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  No,  nonno,  è  nel  buio. 

IL  NONNO  -  Temo  che  svegli  mia  figlia. 

LO  ZIO  -  Lo  sentiamo  appena  appena. 

IL  NONNO  -  Io  lo  sento  come  se  falciasse  dentro  la  casa. 

LO  ZIO  -  La  malata  non  lo  sentirà;  non  c'è  pericolo. 

IL  PADRE  -  Mi  pare  che  la  lampada  bruci  male  stasera. 

LO  ZIO  -  Bisognerebbe  aggiungere  olio. 

IL  PADRE  -  Ho  visto  chc  ne  hanno  messo  stamattina.  Brucia  male  da 
quando  hanno  chiuso  la  finestra. 

LO  ZIO  '  Credo  che  il  tubo  sia  appannato. 

IL  PADRE  -  Brucerà  meglio  fra  poco. 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Il  nonno  s'è  assopito.  Non  dorme  da  tre  notti. 

IL  PADRE  -  Ha  avuto  molte  preoccupazioni. 

LO  ZIO  -  Si  allarma  sempre  troppo.  Ci  sono  momenti  in  cui  non  vuol 
sentire  ragioni. 

IL  PADRE  -  È  perdonabile,  alla  sua  età. 

LO  ZIO  '  Dio  sa  come  saremo  alla  sua  età! 

IL  PADRE  -  Ha  quasi  ottant'anni. 

LO  ZIO  -  Alla  sua  età,  si  ha  il  diritto  di  essere  strambi. 

IL  PADRE  -  È  come  tutti  i  ciechi. 

LO  ZIO  '  Riflettono  un  po'  troppo. 

IL  PADRE  -  Hanno  troppo  tempo  da  perdere. 

LO  ZIO  -  Non  hanno  nient'altro  da  fare. 

IL  PADRE  -  £  poi  non  hanno  distrazioni. 

LO  ZIO  -  Dev'essere  terribile! 

IL  PADRE  -  Sembra  che  ci  si  abitui. 

LO  ZIO  -  Non  posso  immaginarmelo. 

IL  PADRE  .  Certo  sono  da  compiangere. 

LO  ZIO  -  Non  sapere  dove  si  è,  non  sapere  da  dove  si  viene,  non  sapere 


144  MAURICE   MAETERLINCK 

dove  si  va,  non  distinguere  più  il  mezzogiorno  dalla  mezzanotte, 
né  Testate  dalTinverno...  e  sempre  quelle  tenebre...  preferirei  non 
vivere  più...  È  assolutamente  incurabile? 

IL  PADRE  -  Pare  di  sf. 

LO  ZIO  -  Ma  è  completamente  cieco? 

IL  PADRE  -  Distingue  le  luci  molto  forti. 

LO  zio  -  Dobbiamo  aver  cura  dei  nostri  poveri  occhi! 

IL  PADRE  -  Spesso  ha  strane  idee. 

LO  ZIO  -  In  certi  momenti  non  è  affatto  divertente. 

IL  PADRE  -  Dice  tutto  quello  che  pensa. 

LO  ZIO  -  Ma  prima,  non  era  cosi? 

IL  PADRE  -  No,  una  volta  ragionava  come  noi;  non  diceva  niente  di 
straordinario.  È  vero  che  Orsola  gli  dà  un  po'  troppa  corda;  ri- 
sponde a  tutte  le  sue  domande... 

LO  ZIO  -  Sarebbe  meglio  non  rispondergli;  gli  si  rende  un  cattivo  ser- 
vizio. 

(suonano  le  undici) 

IL  NONNO  (svegliandosi)  -  Sono  rivolto  verso  la  porta  a  vetri? 
LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Avete  dormito  bene,  nonno? 
IL  NONNO  -  Sono  rivolto  verso  la  porta  a  vetri? 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Si,  nonnO. 

IL  NONNO  -  Non  c*è  nessuno  sulla  porta  a  vetri? 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Ncssuno,  nonno. 

IL  NONNO  (allo  zio  ed  al  padre)  -  E  vostra  sorella  non  è  venuta? 

LO  ZIO  -  È  troppo  tardi;  non  verrà  più.  Non  è  stata  molto  gentile. 

IL  PADRE  -  Incomincia  a  preoccuparmi. 

(si  sente  un  rumore  come  se  qualcuno  entrasse  nella  casa) 

LO  ZIO  -  È  qui!  Avete  sentito? 

IL  PADRE  -  Si,  qualcuno  è  entrato  dall'interrato. 

LO  ZIO  -  Deve  essere  nostra  sorella.  Ho  riconosciuto  il  passo. 

IL  NONNO  -  Ho  sentito  camminare  lentamente. 

IL  PADRE  -  È  entrata  adagio  adagio. 

LO  ZIO  -  Sa  che  c'è  un  malato. 

IL  NONNO  -  Non  sento  più  niente,  ora. 

LO  ZIO  -  Salirà  immediatamente,  le  diranno  che  siamo  qui. 

IL  PADRE  -  Sono  contento  che  sia  venuta. 

LO  ZIO  -  Ero  sicuro  che  sarebbe  venuta  stasera. 

IL  NONNO  -  Tarda  molto  a  salire. 

LO  ZIO  -  Dev'essere  per  forza  lei,  però. 

IL  PADRE  -  Non  aspettiamo  altre  visite. 


La  morte  di  Tintagiles,  di  Mactcrlinck,  al  Teatro  dei  Mathurins  di  Parigi. 


l'intrusa  145 

IL  NONNO  -  Non  sento  nessun  rumore  nell'interrato. 
IL  PADRE  -  Chiamerò  la  serva;  sapremo  che  cosa  pensare,  {tira  un  cor- 
done di  campanello) 
IL  NONNO  -  Già  sento  rumore  sulla  scala. 
IL  PADRE  -  È  la  serva  che  sale. 
IL  NONNO  -  Mi  sembra  che  non  sia  sola. 
IL  PADRE  -  Sale  lentamente. 
IL  NONNO  -  Sento  il  passo  di  vostra  sorella! 
IL  PADRE  -  Io  sento  soltanto  la  serva. 
IL  NONNO  -  È  vostra  sorella!  È  vostra  sorella! 

{bussano  alla  porticina) 

LO  ZIO  -  Bussa  alla  porta  della  scala  di  servizio. 

IL  PADRE  '  Andrò  io  stesso  ad  aprire,  perché  questa  porta  fa  troppo  ru- 
more; serve  solo  per  entrare  nella  camera  senza  esser  visti,  {soc- 
chiude la  porticina,  la  serva  resta  fuori,  nel  vano)  Dove  siete? 

LA  SERVA  -  Qui,  signore. 

IL  NONNO  -  Vostra  sorella  è  alla  porta? 

LO  ZIO  -  Vedo  solo  la  serva. 

IL  PADRE  -  Non  c'è  che  la  serva,  {alla  serva)  Chi  è  entrato  in  casa? 

LA  SERVA  -  Entrato  in  casa? 

IL  PADRE  -  Si,  non  è  venuto  qualcuno  poco  fa? 

LA  SERVA  -  Nessuno  e  venuto,  signore. 

IL  NONNO  •  Chi  sospira  cosi? 

LO  ZIO  -  La  serva.  È  tutta  ansante. 

IL  NONNO  -  E  piange  anche? 

LO  ZIO  -  Ma  no,  perché  dovrebbe  piangere? 

IL  PADRE  {alla  serva)  -  Nessuno  è  entrato? 

LA  SERVA  -  No,  signore. 

IL  PADRE  -  Ma  noi  abbiamo  sentito  aprire  la  porta! 

LA  SERVA  -  Sono  io  che  Tho  chiusa,  la  porta! 

IL  PADRE  -  Era  aperta? 

LA  SERVA  -  Si,  signore. 

IL  PADRE  -  Come  mai  era  aperta  a  quest'ora? 

LA  SERVA  -  Non  lo  SO,  signore.  Io  l'avevo  chiusa. 

IL  PADRE  -  Ma  allora,  chi  l'ha  aperta? 

LA  SERVA  -  Non  so,  signore.  Bisogna  che  qualcuno  sia  uscito  dopo  di 
me... 

IL  PADRE  -  Bisogna  stare  molto  attenta.  Ma  non  spingete  la  porta  cosi; 
sapete  pure  che  fa  rumore! 

LA  SERVA  -  Ma  signore,  io  non  l'ho  toccata,  la  portai 


10.  •  Teatro  francete 


146  MAURICE   MAETERLINCK 

IL  PADRE  -  Ma  si,  spingete  come  se  voleste  entrare  nella  camera! 

LA  SERVA  .  Ma,  signore,  sono  a  tre  passi  dalla  porta! 

IL  PADRE  -  Parlate  a  voce  più  bassa. 

IL  NONNO  -  Qualcuno  sta  spegnendo  la  luce? 

LA   FIGLIA   MAGGIORE  -  No,   nonnO. 

IL  NONNO  -  Mi  sembra  faccia  buio  di  colpo. 

IL  PADRE  {alla  serva)  -  Scendete,  ma  cercate  di  non  far  rumore  per  la 

scala. 
LA  SERVA  -  Io  non  ho  fatto  rumore. 
IL  PADRE  -  Vi  dico  che  ne  avete  fatto;  scendete  piano  piano;  svcglicretc 

la  signora.  E  se  venisse  qualcuno  dite  che  non  ci  siamo. 
LO  ZIO  -  Si,  dite  che  non  ci  siamo. 
IL  NONNO  (trasalendo)  -  Non  bisognava  dire  questo! 
IL  PADRE  -  Salvo  per  mia  sorella  e  per  il  medico. 
LO  ZIO  -  A  che  ora  verrà  il  dottore? 
IL  PADRE  -  Non  potrà  venire  prima  di  mezzanotte,   {chiude  la  porta. 

Si  sente  suonare  la  mezza) 
IL  NONNO  -  È  entrata? 
IL  PADRE  -  Chi? 
IL  NONNO  -  La  serva. 
IL  PADRE  -  Ma  no,  è  scesa  ora. 
IL  NONNO  -  Credevo  che  si  fosse  seduta  al  tavolo. 
LO  ZIO  -  La  serva? 

IL  NONNO  -  Si. 

LO  ZIO  -  Ci  mancherebbe  anche  questa! 
IL  NONNO  -  Nessuno  è  entrato  nella  stanza? 
IL  PADRE  -  Ma  no,  nessuno  e  entrato. 
IL  NONNO  -  E  vostra  sorella  non  è  qui? 
LO  ZIO  -  Nostra  sorella  non  è  venuta. 
IL  NONNO  -  Volete  ingannarmi! 
LO  ZIO  -  Io,  ingannarvi? 

IL  NONNO  -  Orsola,  dimmi  la  verità,  in  nome  di  Dio! 
LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Nonno,  nonno!  Che  avete? 
IL  NONNO  -  È  successo  qualche  cosa!  Sono  sicuro  che  mia  figlia  sta  peg- 
gio!... 
LO  ZIO  -  Sognate? 

IL  NONNO  -  Non  volete  dirmelo!...  Vedo  bene  che  c'è  qualche  cosa! 
LO  ZIO  -  In  questo  caso  ci  vedete  meglio  di  noi. 
IL  NONNO  -  Orsola,  dimmi  la  verità! 
LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Ma  ve  la  diciamo  la  verità,  nonno! 
IL  NONNO  -  Non  hai  la  tua  solita  voce! 


l'intrusa  147 

IL  PADRE  -  È  perché  la  spaventate. 

IL  NONNO  -  Anche  la  vostra  voce  è  cambiata! 

IL  PADRE  -  Ma  diventate  pazzo! 

(//  padre  e  lo  zio  si  fanno  segni  d'intesa  per  persuadersi  che  il  nonno 
ha  perduto  la  ragione) 

IL  NONNO  -  Sento  bene  che  avete  paura! 

IL  PADRE  -  Ma  di  che  cosa  dovremmo  avere  paura? 

IL  NONNO  -  Perché  volete  ingannarmi? 

LO  ZIO  -  Chi  pensa  d'ingannarvi? 

IL  NONNO  -  Perchè  avete  spento  la  luce? 

LO  ZIO  -  Ma  non  abbiamo  spento  la  luce;  c*è  chiaro  come  prima. 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Mi  Sembra  che  la  lampada  si  sia  abbassata. 

IL  PADRE  -  Ci  vedo  chiaro  come  sempre. 

IL  NONNO  -  Ho  dei  macigni  sugli  occhi!  Figlie  mie,  ditemi  dunque  che 
cosa  sta  succedendo,  qui!  Ditemelo,  in  nome  di  Dio,  voi  che  ve- 
dete! Sono  qui  solo,  in  tenebre  senza  fondo!  Non  so  chi  venga  a 
sedersi  accanto  a  me!  Non  so  più  che  cosa  succeda  a  due  passi  da 
me!...  Perché  discorrevate  a  bassa  voce? 

IL  PADRE  -  Nessuno  ha  parlato  a  bassa  voce. 

IL  NONNO  -  Avete  parlato  a  bassa  voce,  vicino  alla  porta. 

IL  PADRE  -  Tutto  quello  che  ho  detto  lo  avete  sentito. 

IL  NONNO  -  Avete  fatto  entrare  qualcuno  nella  stanza!... 

IL  PADRE  -  Ma  vi  assicuro  che  nessuno  è  entrato! 

IL  NONNO  -  Vostra  sorella  o  un  prete?  Non  bisogna  cercare  d'ingannar- 
mi. Orsola,  chi  è  entrato? 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Nessuuo,  nonno. 

IL  NONNO  -  Non  bisogna  cercare  d'ingannarmi;  so  quel  che  so!  In 
quanti  siamo  qui? 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Sianio  in  sei,  intorno  al  tavolo,  nonno. 

IL  NONNO  -  Siete  tutti  intorno  al  tavolo? 

LA    FIGLIA   MAGGIORE  -   Si,   nonnO. 

IL  NONNO  -  Siete  qui,  Paolo? 

IL  PADRE  -   Si. 

IL  NONNO  -  Siete  qui,  Oliviero? 

LO  ZIO  -  Ma  si,  ma  si;  sono  qui  al  mio  solito  posto.  Ma  non  è  serio, 

non  vi  pare? 
IL  NONNO  -  Sci  qui,  Genoveffa? 
UNA  FIGLIA  -  Si,  nonno. 
IL  NONNO  -  Sei  qui,  Geltrudc? 
un'altra  FIGLIA  -  Si,  nonno. 
IL  NONNO  -  Sci  qui,  Orsola? 


148  MAURICE   MAETERLINCK 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Si,  noiino,  accanto  a  voi. 

IL  NONNO  -  Chi  è  seduto  là? 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Dovc,  nonno?  Non  c*è  nessuno. 

IL  NONNO  -  Là,  là,  in  mezzo  a  noi! 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Nessuno,  proprio  nessuno,  nonno. 

IL  PADRE  -  Vi  dicono  che  non  c*è  nessuno! 

IL  NONNO  -  Ma  non  ci  vedete,  voialtri! 

LO  ZIO  -  Andiamo,  volete  scherzare? 

IL  NONNO  -  Non  ho  nessuna  voglia  di  ridere,  ve  l'assicuro. 

LO  ZIO  -  Allora,  credete  a  quelli  che  ci  vedono. 

IL  NONNO  {indeciso)  -  Credevo  che  ci  fosse  qualcuno...  Credo  che  non 

camperò  ancora  molto... 
LO  ZIO  -  Perché  vi  dovremmo  ingannare?  A  che  servirebbe? 
IL  PADRE  -  Bisognerebbe  pur  dirvi  la  verità! 
LO  ZIO  -  A  che  scopo  ingannarsi  Tun  Taltro? 
IL  PADRE  -  Non  potreste  vivere  a  lungo  nell'errore. 
IL  NONNO  (cercando  di  cdzarsi)  -  Vorrei  forzare  queste  tenebre!... 
IL  PADRE  -  Dove  volete  andare? 
IL  NONNO  -  Da  quella  parte... 
IL  PADRE  -  Non  turbatevi  cosi... 
LO  ZIO  -  Siete  strano,  stasera. 
IL  NONNO  -  Voialtri  mi  sembrate  strani! 
IL  PADRE  -  Che  cosa  cercate  cosi? 
IL  NONNO  -  Non  so  che  cosa  ho! 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Nonno,  nonno,  che  cosa  vi  occorre,  nonno? 
IL  NONNO  -  Datemi  le  vostre  manine,  figlie  mie. 
LE  TRE  FIGLIE  -  Si,  nonno. 
IL  NONNO  -  Perché  tremate  tutte  e  tre,  figlie  mie? 
LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Non  tremiamo  quasi,  nonno. 
IL  NONNO  -  Credo  che  siate  pallide  tutte  e  tre. 
LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  È  tardi,  nonno,  e  siamo  stanche. 
IL  PADRE  -  Dovreste  andare  a  letto.  £  anche  il  nonno  farebbe  meglio  a 

riposarsi  un  po'. 
IL  NONNO  -  Non  riuscirei  a  dormire,  questa  notte. 
LO  ZIO  -  Aspetteremo  il  dottore. 
IL  NONNO  -  Preparatemi  alla  verità! 
LO  ZIO  -  Ma  non  c'è  verità! 
IL  NONNO  -  Allora  non  so  che  cosa  c'è! 
LO  ZIO  -  Vi  ripeto  che  non  c'è  niente,  assolutamente  niente! 
IL  NONNO  -  Vorrei  vedere  la  mia  povera  figlia! 


l'intrusa  149 

IL  PADRE  -  Sapete  bene  che  non  è  possibile.  Non  bisogna  svegliarla 
inutilmente. 

LO  ZIO  -  La  vedrete  domani. 

IL  NONNO  -  Non  si  sente  rumore  nella  sua  camera. 

LO  ZIO  -  Mi  preoccuperei  se  sentissi  rumore. 

IL  NONNO  -  È  molto  tempo  che  non  vedo  mia  figlia!...  Le  ho  preso  le 
mani  ieri  sera  e  non  la  vedevo!...  Non  so  più  che  diventi...  non  so 
più  come  sia...  non  conosco  più  il  suo  viso...  dev'essere  molto  cam- 
biata in  queste  settimane!...  Ho  sentito  le  piccole  ossa  delle  sue 
guance  sotto  le  mie  mani...  Nient'altro  che  le  tenebre  fra  lei  e  me 
e  tutti  voi!  Non  posso  più  vivere  cosi...  non  è  un  vivere  questo!... 
Voi  siete  qui,  tutti,  con  gli  occhi  aperti  a  guardare  i  miei  occhi 
spenti;  e  nessuno  di  voi  ha  pietà!...  Non  so  che  cosa  ho...  non  si 
dice  mai  quello  che  si  dovrebbe  dire...  è  tutto  spaventoso  quando 
ci  si  pensa...  Ma  perché  non  parlate  più? 

LO  ZIO  -  Che  dobbiamo  dire  dal  momento  che  non  volete  crederci? 

IL  NONNO  -  Avete  paura  di  tradirvi! 

IL  PADRE  -  Ma  siate  ragionevole,  una  buona  volta! 

IL  NONNO  -  Da  molto  tempo  mi  si  nasconde  qualche  cosa!...  Qualche 
cosa  è  accaduto  in  questa  casa...  Ma  comincio  a  comprendere,  ora... 
da  troppo  tempo  mi  s'inganna!...  Credete  proprio  che  non  saprò 
mai  niente?  In  certi  momenti  sono  meno  cieco  di  voi,  sapete?... 
Non  vi  sento  forse  bisbigliare  da  parecchi  giorni,  come  se  foste 
nella  casa  di  un  impiccato?  Non  oso  dire  quello  che  so  stasera... 
Ma  saprò  la  verità!...  Attenderò  che  diciate  la  verità;  ma  da  molto 
tempo  la  so,  a  vostro  dispetto!...  Ed  ora,  sento  che  siete  più  pallidi 
dei  morti! 

LE  TRE  FIGLIE  -  Nonuo!  Nonuo!  che  avete  dunque,  Nonno? 

IL  NONNO  -  Non  parlo  di  voi,  figlie  mie,  no,  non  di  voi.  So  bene  che 
mi  fareste  conoscere  la  verità  se  quelli  non  fossero  intorno  a  voi!... 
E  del  resto  sono  sicuro  che  ingannano  anche  voialtre...  Vedrete, 
figlie  mie,  vedrete!...  Non  vi  sento  forse  singhiozzare  tutte  e  tre? 

IL  PADRE  -  Mia  moglie  è  veramente  in  pericolo? 

IL  NONNO  -  Non  bisogna  più  cercare  d'ingannarmi;  è  troppo  tardi,  or- 
mai, e  conosco  la  verità  meglio  di  voi! 

LO  ZIO  -  Ma  insomma,  non  siamo  mica  ciechi,  noi! 

IL  PADRE  -  Volete  entrare  nella  camera  di  vostra  figlia?  Qui  c'è  un  ma- 
linteso, un  errore  che  deve  finire.  Volete? 

IL  NONNO  (improvvisamente  indeciso)  -  No,  non  ora...  non  ancora! 

LO  ZIO  -  Vedete  pure  che  non  siete  ragionevole. 

IL  NONNO  -  Non  si  conosce  mai  tutto  quello  che  un  uomo  non  ha  pò- 


150  MAURICE  MAETERLINCK 

tuto  dire  nella  sua  vita!  Chi  fa  questo  rumore? 
LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  È  la  luoeroa  che  palpita  cos(,  nonno. 
IL  NONNO  '  Mi  sembra  che  sia  piuttosto  inquieta...  piuttosto  inquieta... 
LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  È  il  vcuto  freddo  chc  la  tormenta... 
LO  ZIO  -  Non  c*è  freddo;  le  imposte  sono  chiuse. 
LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Credo  ctie  SÌ  Spegnerà. 
IL  PADRE  -  Non  c'è  più  olio. 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  SÌ  Spegne  proprìo  completamente. 
IL  PADRE  -  Non  possiamo  restare  cos{,  al  buio. 
LO  ZIO  -  Perché  no?  Io  ci  sono  già  abituato. 
IL  PADRE  -  C*è  luce  nella  camera  di  mia  moglie. 
LO  ZIO  -  Ne  prenderemo  fra  un  istante;  quando  il  dottore  sarà  venuto. 
IL  PADRE  -  È  vero  che  ci  si  vede  abbastanza;  c'è  il  chiaro  di  fuori. 
IL  NONNO  -  C'è  chiaro  fuori? 
IL  PADRE  -  Più  di  qui. 

LO  ZIO  -  A  me  non  dispiace  parlare  al  buio. 
IL  PADRE  -  Neanche  a  me. 

(siUnzio) 

IL  NONNO  -  Mi  sembra  che  il  pendolo  sia  molto  rumoroso! 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  È  pcrché  non  parliamo  più,  nonno. 

IL  NONNO  -  Ma  perché  tacete  tutti? 

LO  ZIO  -  Di  che  cosa  volete  che  parliamo?  Stasera  non  siete  serio. 

IL  NONNO  -  C'è  molto  buio  nella  camera? 

LO  ZIO  -  Non  ci  fa  molto  chiaro. 

{silenzio) 

IL  NONNO  -  Non  sto  troppo  bene,  Orsola;  apri  un  po'  la  finestra. 
IL  PADRE  -  Si,  figlia  mia,  apri  un  po'  la  finestra;  comincio  anch'io  ad 
aver  bisogno  d'aria. 

{la  figlia  apre  la  finestra) 

LO  ZIO  -  Credo  davvero  che  siamo  rimasti  troppo  tempo  al  chiuso. 

IL  NONNO  -  È  aperta  la  finestra? 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Si,  uonno,  è  Spalancata. 

IL  NONNO  -  Non  la  si  direbbe  aperta;  non  viene  nessun  rumore  da  fuori. 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  No,  nouno,  non  c'è  il  minimo  rumore. 

IL  PADRE  '  C'è  un  silenzio  straordinario. 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  •  SÌ  Sentirebbe  camminare  un  angelo. 

LO  ZIO  -  Ecco  perché  non  mi  piace  la  campagna. 

IL  NONNO  -  Vorrei  tanto  sentire  un  po'  di  rumore.  Che  ora  è,  Orsola? 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Quasi  mezzanotte,  nonno. 


l'intrusa  151 

(lo  zio  incomincia  a  camminare  su  e  giù  per  la  camere^ 

IL  NONNO  -  Chi  cammina  cosi,  intorno  a  noi? 

LO  ZIO  -  Sono  io,  sono  io,  non  abbiate  paura.  Ho  bisogno  di  camminare 
un  po',  (silenzio)  Ma  ora  mi  siederò;  non  vedo  dove  metto  i  piedi! 

(silenzio) 

IL  NONNO  -  Vorrei  essere  altrove! 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Dove  vorreste  andare,  nonno? 

IL  NONNO  -  Non  so  dove,  in  un'altra  camera,  non  importa  dove!  non 

importa  dove! 
IL  PADRE  -  Dove  potremmo  andare? 
LO  ZIO  -  È  troppo  tardi  per  andare  altrove.  . 

(silenzio.  Stanno  seduti,  immobili,  intorno  al  tavolo) 

IL  NONNO  -  Che  cos'è  quello  che  sento,  Orsola? 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Niente,  nonno,  sono  foglie  che  cadono;  s(,  sono 

foglie  che  cadono  sul  terrazzo. 
IL  NONNO  -  Va  a  chiudere  la  finestra,  Orsola. 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Si,  nonno.  (chiudc  la  finestra  e  torna  a  sedersi) 
IL  NONNO  -  Ho  freddo,  (silenzio.  Le  tre  sorelle  si  abbracciano)  Che  cos'è 

quello  che  sto  sentendo  ora? 
IL  PADRE  -  Sono  le  tre  sorelle  che  si  abbracciano. 
LO  zio  -  Mi  sembrano  molto  pallide  stasera. 

(silenzio) 

IL  NONNO  -  Che  cosa  sento  ancora? 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Niente,  nonno;  sono  le  mie  mani;  le  ho  giunte. 

(silenzio) 

IL  NONNO  -  E  questo?... 

LA  FIGLIA  MAGGIORE  -  Non  SO,  nonno...  forse  le  mie  sorelle  che  tre- 
mano un  po'. 
IL  NONNO  -  Anch'io  ho  paura,  figlie  mie. 

(ora  un  raggio  di  luna  penetra  da  un  angolo  delle  vetrate  e  spande, 
qua  e  là,  alcuni  strani  bagliori  nella  camera.  Mezzanotte  suona  e, 
all'ultimo  rintocco,  sembra,  a  qualcuno,  di  sentire,  molto  vagamen- 
te, un  rumore  come  di  uno  che  si  alzi  in  fretta) 

IL  NONNO  (trasalendo  con  particolare  spavento)  -  Chi  si  è  alzato? 

LO  ZIO  -  Nessuno  s'è  alzato! 

IL  PADRE  -  Io  non  mi  sono  alzato! 

LE  TRE  FIGLIE  -  Neanch'io!  Neanch'io!  Neanch'io! 


152  MAURICE    MAETERLINCK 

IL  NONNO  -  Qualcuno  si  è  alzato  dal  tavolo! 
LO  ZIO  -  Luce!... 

{di  colpo  si  sente  un  vagito  di  spavento,  a  destra,  nella  camera  del 
bambino;  ed  il  vagito  continua  con  gradazioni  di  terrore,  fino  alla 
fine  della  scena) 

IL  PADRE  -  Ascoltate!  Il  bambino! 
LO  ZIO  •  Non  ha  mai  pianto! 
IL  PADRE  -  Andiamo  a  vedere! 
LO  ZIO  -  Luce!  Luce! 

{ora  si  sente  un  correre  a  passi  precipitati  e  sordi  nella  camera  a  si- 
nistra. Poi,  un  silenzio  di  morte.  Tutti  ascoltano  in  muto  terrore, 
fino  a  quando  la  porta  di  questa  camera  si  apre  lentamente,  la  luce 
da  essa  irrompe  nella  sala  e  la  Suora  di  Carità  appare  sulla  soglia, 
nerovestita,  e  s'inchina  facendo  il  segno  di  croce,  per  annunciare  la 
morte  della  donna.  Tutti  comprendono  e,  dopo  un  istante  di  esita- 
zione e  spavento,  entrano  in  silenzio  nella  camera  mortuaria,  men- 
tre lo  zio,  sulla  soglia  della  porta,  si  tira  educatamente  in  disparte 
per  lasciar  passare  le  tre  figlie.  Il  cieco,  rimasto  solo,  si  alza  e  si 
agita,  a  tentoni,  intorno  al  tavolo,  nel  buio) 

IL  NONNO  -  Dove  andate?  Dove  andate?  Mi  hanno  lasciato  solo,  com- 
pletamente solo. 


La  presente  traduzione  è  a  cura  di  Gianni  Montagna. 


PAUL  CLAUDEL 


Nato  il  6  agosto  1868  in  un  piccolo  villaggio  dell'Aisne,  mor- 
to a  Parigi  il  23  febbraio  1955  in  piena  apoteosi,  Paul  Claudel 
ha  in  comune  con  Maeterlinck  l'origine  simbolista,  la  straordinaria 
fecondità  e  la  vocazione  dei  problemi  cosmici.  Per  il  resto,  e  per 
l'essenziale,  un  abisso  divide  la  piana  enigmistica  del  fiammingo 
dal  concitato  sermo  durus  e  dalle  sontuose  ambagi  di  cui  si  serve 
la  Pizia  claudeliana  per  rivelare  l'etimo,  l'esegesi,  il  senso  occulto 
e  la  grande  ode  del  creato. 

Uomo  d'azione  (console  e  ambasciatore,  passò  molti  anni  in 
Cina,  nel  Giappone,  svolse  le  sue  funzioni  nelle  due  Americhe, 
in  Germania,  in  Danimarca,  in  Italia,  percorse  in  lungo  e  in  largo 
il  mondo,  conobbe  gente  ed  esperienze  di  ogni  genere)  Claudel 
restò  sempre  in  contatto  e  in  polemica  con  il  temporale  e  in  ispirato 
commercio  con  l'eterno,  fra  l'orgogliosa  torre  d'avorio  e  lo  smi- 
surato amore  dell'esibizione  e  del  successo.  Il  quale  venne  tardi 
—  ma  fu  completo  —  con  onori  accademici,  riprese  e  rappresen- 
tazioni nei  teatri  mondiali,  messaggi  radiofonici,  recite  in  Vati- 
cano, serate  di  gala,  funerali  nazionali. 

Ebbe  la  grazia  e  il  genio  precoci.  Dopo  una  breve  sosta  nei 
cenacoli  profani  del  momento  (e  in  particolare  nella  cappella  Mal- 
larmé) egli  trova  di  buon'ora  la  sua  strada  —  o  l'iter  sacro  che 
va  dalla  Bibbia  all'  Apocalisse  —  sulla  quale  incontra  diversi  e 
fortuiti  compagni  (Pascal,  Bossuet,  Aristotele,  Dante,  Eschilo,  Do- 
stoievski)  e  soprattutto  il  battista  che  sarebbe  stato  il  veggente 
della  Saison  en  enfer.  «Rimbaud  a  eu  sur  moi  une  ìnfluence 
seminale»,  continuerà  a  proclamare  il  vecchio  Claudel  dei  Mi- 
moires  improvisés.  Ad  ogni  modo,  dalla  prima  rivelazione,  che 
risale  al  1896  (e  dalla  conferma,  che  e  del  1900)  fino  agli  ultimi 
giorni  della  sua  vita,  il  poeta,  che  ha  scoperto  nel  cattolicesimo 


156  PAUL    CLAUDEL 

€  le  monde  total  >,  legge  chiaro  nella  e  grande  Nuit  de  la  Foi  >  e 
parla  volentieri  oscuro,  traducendo  in  versetti  biblici,  in  maiuscole 
e  in  magnificenza  il  cartesiano  «  gran  libro  del  mondo  »  e  il  verbo 
dello  Spirito  Santo,  il  coro  delle  Muse  —  «  aucune  n'est  de  trop 
pour  moi  >  —  e  l'inno  alla  matematica  equazione  tra  la  cifra  Clau- 
del e  €  l'immense  octave  de  la  Création  >. 

Per  circa  sessant'anni  di  mirabile  costanza  e  di  servizio  senza 
crisi,  l'ambasciatore  munito  di  divine  credenziali  divide  il  tempo 
fra  l'invio  di  rapporti  ed  elogi  al  Signore  che  l'ha  assunto  nella 
sua  celeste  corte  («  Soyez  beni,  mon  Dieu  qui  m'avez  délivré  de 
moi-méme  et  qui  vous  étes  vous-méme  place  entre  mes  bras...») 
e  le  istruzioni  alla  tribó  dei  fedeli  e  degli  e  sfigurati  >  che  si  cre- 
dono eroi  e  superuomini  :  e  fra  la  cima  e  la  pianura  (e  nelle  varie 
avventure  di  una  lingua  nuova:  «  les  mots  que  j'emploie  -  Ce 
som  les  mots  de  tous  les  jours,  et  ce  ne  sont  point  les  mémes  >)  e 
l'ininterrotto  fiume  di  cantici,  «  cantate  a  tre  voci  >  e  odi  giubilari, 
messe  pontificali  e  calendari  liturgici  (o  «corone  di  benignità >), 
<  parabole  del  festino  >  e  mistici  trattati  di  pietre  preziose,  arti 
poetiche  dell'universo,  agiografie,  salmi,  sequenze,  «  processiona- 
li >.  Come  voleva,  ma  non  seppe,  Mallarmé,  Ode  e  Teatro  danno 
l'orfica  (e  cattolica)  spiegazione  del  creato  nell'abolizione  dei  mon- 
di separati  e  nella  restaurata  fede  nell'oracolo  e  nel  miracolo. 

Teatro  barocco,  dunque,  nel  quale  si  accalca  gente  che,  ve- 
nuta da  ogni  tempo  e  luogo,  parla  lo  stesso  esperanto  fatto  di 
voci  ascetiche  e  di  termini  brutali,  oscillante  fra  il  parlato  e  il 
canto,  la  monodia,  il  salmo  e  la  cantilena.  Nel  complesso,  lo  spet- 
tacolo che  il  teatro  claudeliano  offre  dell'universo  è  una  specie  di 
immenso  mistero  medievale  nelle  cui  «  mansioni  >  sono  rappre- 
sentati il  paradiso  e  l'inferno,  la  breve  passione  di  Cristo  e  le 
nuove  mondanità  delle  cosmopolitiche  maddalene,  le  parabole 
delle  vergini  sagge  e  delle  folli,  i  conflitti  e  le  congiunzioni  degli 
emisferi  insieme  con  la  tragedia,  la  moralità  e  la  farsa  del  buono 
e  del  cattivo  seme  di  Adamo.  Al  centro  della  scena,  fra  emblemi 
sacri  e  simboli  profani,  è  sempre  Claudel  con  le  sue  lezioni  e  le 
sue  svariate  esperienze  umane. 

Come  dicevamo,  il  cercar  Dio  fu  corto.  In  Téte  d'or  (prima 
versione  1899,  seconda  versione  1894-'95)  il  tumultuoso  dramma 


PRESENTAZIONE 


157 


del  conquistatore  Simon  Agnel  e  deiradolescente  Cebès  minato 
da  esistenziale  angoscia,  della  bellezza  femminile,  della  barbarie 
asiatica  e  della  civiltà  occidentale  si  conchiude  nello  sfacelo  e  nel 
nulla  della  morte  perché  il  mondo  è  ancora  avvolto  nelle  tenebre. 
Ma  già  nel  caos  della  fantomatica  Ville  (prima  versione  1890,  se- 
conda versione  1897)  s'è  fatta  la  luce.  Alla  società  di  uomini  fal- 
liti o  smarriti  nella  solitudine  della  materia  e  dello  spirito  (al 
mondo,  cioè,  dello  scienziato  Isidoro  de  Besme  che  scopre  la  morte 
in  fondo  al  nulla  delle  cose,  del  fratello  —  il  politico  Lamberto 
—  che  non  riesce  ad  avere  Tamore  che  perpetua  la  vita,  del  ribelle 
Avaro  che  non  trova  il  senso  delle  sue  distruzioni,  del  giovane 
Yvors  che  cerca  la  legge  per  ricostruire)  la  rivelazione  è  portata 
del  poeta  Coeuvre  che,  sparito  nelle  regioni  sotterranee,  torna  sulla 
scena  vestito  da  vescovo  per  affidare  al  figlio  Yvors  il  messaggio 
che  farà  della  città  terrena  la  Città  di  Dio. 

Fin  dalle  due  opere  giovanili,  Claudel  ha  dunque  posto  il  suo 
problema  in  termini  universali  risolvendone  le  incognite  nell'atto 
totalitario  della  fede.  Il  teatro  diventa  cattedra  donde  il  poeta  spie- 
ga Tunica  e  vera  lezione  nella  varietà  degli  e  exempla  >  umani,  in 
vivaci  allegorie  e  prolisse  parabole.  Nel  1892  dà  la  prima  versione 
della  Jeune  fille  Violarne  (la  seconda  è  del  1898)  che  sarà  rima- 
neggiata ncìV Annonce  faite  à  Marie  (prima  versione  1910;  seconda 
versione  1939;  terza  versione,  per  la  scena,  1948)  «mistero  della 
fine  di  un  Medio  Evo  convenzionale»  e  opera  moderna  nella 
quale  la  cristiana  concezione  del  riscatto  concesso  al  peccatore 
pentito  tocca  la  romantica  teologia  del  colpevole  innocente  (la 
malvagia  Bibiane-Mara  è  stata  privata  di  tutto  quello  che  l'amore 
umano  e  la  grazia  divina  hanno  elargito  a  Violaine)  e  del  male 
necessario  antagonista  e  collaboratore  del  bene.  Hugo  affermava 
che  Satana  amava  il  Creatore  e  ne  avrebbe  avuto  il  perdono.  Pa- 
scal diceva  che  Gesù  continua  ad  essere  crocefisso  ogni  giorno, 
Vigny  o  Musset  continuavano  a  porsi  la  vecchia  domanda  sull'esi- 
stenza del  dubbio  e  del  male,  ma  per  Claudel  le  parti  e  le  fun- 
zioni sono  ormai  distinte  e  chiare.  <Tout  est  bien!  —  dirà  un 
imperatore  cinese,  —  le  Mal  est  dans  le  monde  comme  un  esclave 
qui  fait  monter  l'eau;  la  Justice  maintient  tout  et  la  Miséricorde 
recrée  tout  >.  Nel  mondo  errano  sempre  Satana  e  Mammone,  ma 


158  PAUL   CLAUDEL 

terra  e  cielo  «  enarrant  gloriam  Dei  >,  e  basta  che  l'uomo  sappia 
leggere  nelle  Scritture  Sacre  e  nel  libro  aperto  delle  seimila  Ple- 
iadi. 

La  cattedra  si  sposta  con  l'ufficio  consolare  in  paesi  stranieri, 
ma  il  poeta  sacerdote  non  farà  che  cercare  dappertutto  prove  e 
conferme  della  stessa  Legge.  Mentre  nel  paesaggio  «western» 
dclVEchange  (1893-'94)  uomini  senza  scrupoU  che  si  scambiano  le 
donne  (l'onesta  francese  Marthe  e  la  folle  americana  Lechy)  peri- 
scono nella  loro  miseria,  nella  favolosa  Cina  del  Repos  du  Sepùè- 
me  Jour  (1896)  l'imperatore  di  un  paese  invaso  dai  morti  scende 
nel  regno  dei  morti  per  cercare  la  ragione  del  disordine,  trova  la 
Verità  nei  colloqui  con  il  Demonio  e  con  l'Angelo  dell'Impero, 
risale  alla  luce,  come  Coeuvre,  portando  il  messaggio  che  ristabi- 
lisce l'ordine  insieme  con  lo  scettro  trasformato  in  Croce.  Anche 
un  giusto  come  il  Mesa  del  Partage  de  Midi  (1905:  tre  versioni) 
può  cedere  al  peccato  di  Eva  (o  di  una  Ysé  debole  di  carne)  e 
trovarsi  coinvoko  nel  duro  giuoco  di  avventurieri  e  di  sinistri 
eventi,  ma  si  salva  con  la  donna  in  articulo  mortis,  nel  mistico 
matrimonio  davanti  a  Dio.  <  La  chair  ignoble  frémit,  —  canta  il 
morituro  Mesa,  —  mais  l'esprit  demeure  inextinguible  >.  «  Me  voi- 
ci  prete  à  étre  libérée  >,  risponde  la  donna  prigioniera  dei  sensi.  E 
la  gloria  di  Dio  vince  la  tenebra  della  notte  «  dans  la  transfigura- 
tion  de  Midi». 

Finora  Claudel  ha  visto  il  mondo  dall'interno,  come  dice  lui, 
liricamente  traducendo  nel  teatro  il  proprio  «  dramma  interiore  ». 
È  venuto  il  tempo  in  cui  egli  cerca  di  guardare  dall'esterno  per 
tentarne  una  rappresentazione  oggettiva.  Nell'Otó^tf  (1909),  la  cui 
azione  si  svolge  verso  il  1812  nell'abbazia  di  Coùfontaine  (dove 
si  nasconde  Pio  VII  sfuggito  alla  prigionia  di  Napoleone),  e  il 
fatale  urto  fra  la  vecchia  società  e  il  nuovo  mondo  ed  è  il  sacrificio 
della  nobile  Sygne  che  per  salvare  l'Ostaggio  si  dà  all'odiato  e 
potente  plebeo  Toussaint  Turelure.  Il  dramma  continua  nella 
Francia  di  Luigi  Filippo,  con  Le  Pain  dur  (1914),  evolvendo  nella 
trista  commedia  del  denaro  e  dei  torbidi  intrighi  della  famiglia 
Turelure,  per  risolversi  nella  Roma  del  1869-71,  con  la  moralità 
del  Pére  humilié  (1916).  Amata  dai  due  nipoti  del  Santo  Padre  — 
dai  fratelli  Orian  e  Orso  de  Homodarmes,  egualmente  generosi 


PRESENTAZIONE  159 

c  di  indole  diversa  —  Pensee,  figlia  cieca  dell'ambasciatore  fran- 
cese Louis  Turelure,  si  dà  all'idealista  Orian  e,  morto  questo,  si 
unisce  in  spirituali  nozze  con  il  fratello  Orso,  affinché  l'anima 
della  sposa  vada  al  morto  attraverso  il  vivo.  cO  frères  inscpara- 
bles,  —  canta  una  Voce,  —  l'un  amène  Pensee  et  l'autre  l'a  rejue  ». 
Il  traduttore  di  Eschilo  ha  tentato  la  sua  moderna  trilogia.  E  nel 
complesso  l'ha  fallita.  Storia,  realismo  borghese.  Grand  Guignol 
ed  enfasi  eroica  fanno  un  grezzo  tessuto  nel  quale  il  corso  forzoso 
dell'azione  s'intreccia  con  il  cursus  oratorio  di  un  lirismo  restato 
nel  disagio  della  materia  prosaica. 

Fra  viaggi,  missioni  ed  opere  di  edificazione,  Claudel  si  di- 
strae intanto  con  «nugae»  drammatiche:  con  il  grosso  comico 
del  dramma  satiresco  Protée  (1913)  messo  in  musica  da  Darius 
Milhaud,  con  la  patetica  favola  realistica  de  La  Nuit  de  Noci  1914 
(1915),  con  la  farsa  lirica  de  L'Ours  et  la  Lune  (1917),  con  scenari 
di  balletti  e  mimodrammi  composti  per  Nijinsky.  Inoltre,  dal  1919 
al  1924,  fra  Parigi,  Copenaghen  e  Tokio  (e  fra  Positions  et  Propo- 
sitions,  Odi  giubilavi  per  Dante  e  per  Santa  Genoveffa,  «  sguardi 
sull'anima  giapponese»)  va  scrivendo  Le  Soulier  de  Satin  (nel 
1943  ridotto  da  Barrault  per  la  scena)  e  opus  mirandum»  (Clau- 
del dixit)  e  dramma  fiume  che  ha  per  scena  «le  monde  et  plus 
spécialement  l'Espagne  à  la  fin  du  XVIe  siècle»  (o  press'a  poco), 
rapsodia  epica,  tragicommedia  e  romanzo  d'avventura,  dove,  in 
quattro  giornate  e  in  innumerevoli  episodi,  sono  «  compresi  di- 
versi paesi  ed  epoche»  che  debbono  formare  un  solo  orizzonte. 
«Le  Pire  n'est  pas  toujours  sur»  è  il  sottotitolo  annunciato  dal- 
l'Annoncier.  Ed  infatti  dal  meglio  di  stupende  scene  e  dal  peggio 
di  lunghi  sonni  d'Omero,  dagli  intrighi  della  terra  e  del  cielo,  dei 
tempi  e  dei  contrattempi  (vi  sono  lettere  che  mettono  dieci  anni 
per  giungere  a  destinazione),  dall'assurdo  di  eventi  fatali  e  dal- 
l'impossibile di  amori  colpevoli,  nasce  il  torrente  poetico  che,  per- 
correndo ancora  una  volta  gli  oscuri  sotterranei  dei  dolori  e  dei 
peccati  umani,  risale  come  sempre  verso  l'Oceano  della  luce  di- 
vina. 

«  L'ordre,  —  scrive  Claudel,  —  est  le  plaisir  de  la  raison  :  mais 
le  désordre  est  le  délice  de  l'imagination  ».  E  mai,  come  in  questo 
immenso  e  caotico  affresco,  l'immaginazione  s'è  abbandonata  con 


160  PAUL   CLAUDEL 

tanto  ardore  ai  propri  disordini  e  alle  delizie  del  verbo  per  rac- 
contare la  storia  di  Dona  Merveille  Prouhèze  (Isotta  che,  presa 
per  «  volonté  intervenante  >  della  Vergine  da  un  amore  adultero, 
lascia  alla  Vergine,  «  grande  Maman  efirayante  »,  la  sua  scarpetta 
di  seta  per  correre  incontro  al  male  con  un  piede  zoppicante)  e 
di  Don  Rodrigue  (Tristano  conquistatore  che  fa  dipingere  e  fcuil- 
Ics  de  saints  >,  che  sarà  venduto  come  schiavo  e  deriso  dagli  aguz- 
zini come  Cristo),  amanti  nell'anima  e  non  nella  carne,  che  dalla 
Spagna  e  dall'Africa  all'America  si  cercano  per  mare  e  per  terra, 
si  incontrano,  si  rifiutano,  consumano  in  vita  il  dramma  del  tem- 
po, dell'amore  e  della  morte,  aspettando  di  ricongiungersi  nel- 
l'eternità dei  cieli.  «C'est  le  resumé,  —  dichiara  ancora  Claudel, 
—  de  toutc  mon  oeuvre  poétique  et  dramatique»:  ed  in  verità 
vecchi  temi  e  nuove  fantasie  s'incrociano  nello  scintillante  ed 
opaco  arazzo,  nella  confusione  di  lingue  familiari  ed  esotiche,  nel 
dissonante  e  suggestivo  coro  di  voci  alterne  e  diverse,  in  pesanti 
facezie  e  in  tirate  sublimi,  in  angeliche  e  diaboliche  disquisizioni, 
in  sermoni  di  santi  e  in  preghiere  di  frati  crocefissi,  in  sottili  col- 
loqui con  l'Angelo  Guardiano  e  in  allegoriche  farneticazioni  di 
Dona  Musica,  in  graziose  chiacchiere  di  Maria  dalle  Sette  Spade, 
in  filosofici  colloqui  con  servi  cinesi. 

Dopo  la  grande  fatica  viene  lo  stanco  riposo  del  settimo  gior- 
no, o  la  rimasticatura  della  lezione  nelle  varianti  della  singolare 
fantasia:  La  Sagesse  ou  la  Parabole  du  Festin  (la  Saggezza  che 
in  compagnia  delle  virtù  teologali  raccoglie  gli  sfigurati  del  corpo 
e  dell'anima  con  i  quali  costruisce  la  Città  evangelica),  Le  Livre 
de  Christophe  Colomb  (1927;  il  navigatore  è  visto  dal  suo  «  dop- 
pio >  nell'atto  di  riunire  il  globo  sotto  la  Croce),  Jeanne  d'Are  au 
bàcher  (1933;  San  Domenico  spiega  alla  Pulzella  il  senso  del  mar- 
tirio e  il  piano  divino),  UHistoire  de  Tobie  et  de  Sara,  moralità 
in  tre  atti,  la  burlesca  «  extravaganza  radiophonique  >  de  Z^  Lune 
à  la  recherche  d'elle-méme, 

«Le  genie,  —  è  scritto  nel  Lipre  de  Christophe  Colomb,  — 
est  comme  un  miroir  dont  un  coté  re^oit  la  lumière  et  l'autre  est 
toujours  rugueux  et  rouillc».  Lo  specchio  Claudel  presenta  con- 
temporaneamente le  due  facce  nella  confusione  di  accecanti  ba- 


PRESENTAZIONE  1 6 1 

glìori  e  di  scorie  rugginose,  di  figure  sfocate  e  di  immagini  mai 
viste.  Fin  dal  1890  il  giovane  Maeterlinck  si  chiedeva  se  Téte  d'or 
era  l'opera  di  un  pazzo  furioso  o  di  un  genio  eccezionale.  Sessan- 
t'anni  dopo,  lo  stesso  Claudel  diceva  a  un  giornalista  :  «  Il  f  aut  me 
prendre  comme  je  suis  >.  E  prenderlo  com'è  significa  accettare  un 
fenomeno  letterario  (o,  come  dicono,  una  «forza  della  natura») 
sottratto  alla  comune  legge  e  misura:  creatore  e  vittima  di  una 
sintassi  spirituale  e  verbale  a  carattere  «  eruttivo  >  (il  termine  e 
suo)  e  «lourd  compcre»  delle  Muse,  profeta  rapito  in  poetiche 
estasi  e  demiurgo  della  città  divina  in  colloquio  e  in  diverbio  con 
l'Angelo  petulante  e  con  il  Lucifero  delle  vanità  puerili.  «  Poèmes 
de  Paul  Claudel  qu'il  composa  en  Asie  >,  <  Paul  Claudel  interroge 
l'Apocalypse  »,  Paul  Claudel  che  interpreta  il  Cantico  dei  Cantici, 
che  restaura  o  rifa  la  creazione  e  che  detta  legge  a  mezzo  mondo 
(a  Gide,  a  Valéry,  come  a  Budda,  a  Tao):  lo  specchio  mirabile  e 
irritante  dei  traslati  e  delle  analogie  non  fa  che  riflettere  l'imma- 
gine iperbolica  del  Narciso  solitario. 

A  un  siffatto  teatro  —  ricco  di  eroici  imperativi  e  indicativi, 
ma  privo  di  patetici  condizionali  —  è  naturalmente  inutile  cercare 
precedenti  e  chiedere  rispetto  delle  comuni  norme.  <  Ce  n'est  pas 
le  cierge  qui  fait  la  flamme,  —  e  detto  in  Positions  et  Prepositions 
II,  —  c'est  la  flamme  qui  a  fait  le  cierge  ».  E  nel  teatro  di  Claudel 
è  lo  Spirito  che  impasta  la  sconnessa  materia  senza  curarsi  della 
sostanza  e  della  verosimiglianza,  che  trasforma  l'atto  gratuito  in 
massiccia  azione,  che  soffia  caoticamente  in  anime  liberate  dalla 
servitù  del  «  carattere  >,  che  scrive  prezioso  —  e  spesso  illeggibile 
—  in  allegorie  e  simboli,  che  parla  con  un  superbo  disprezzo  delle 
convenienze,  del  limite  e  del  senso  del  ridicolo:  e  l'intrepido  Ver- 
bo va  con  la  stessa  disinvoltura  dal  grottesco  sillabario  del  rito 
magico  cinese  («Orni  a,  a,  i  i,  u,  u,  ri,  ri,  li,  li,  e,  ai,  o  ou!  >)  e 
dalla  biblica  Voce  della  moglie  di  Tobia  («Kha  kha  kha  kha 
kha!  >)  al  canto  gregoriano,  alla  cantata  straripante,  allo  stupendo 
adagio. 

Il  fenomeno  Claudel  continua  a  restare  sospeso  nel  suo  enig- 
ma, fra  l'intronizzazione  e  l'acerbo  giudizio  della  critica.  Ma  e 
certo  che  con  lui  è  scomparsa  l'ultima  grande  figura  della  straor- 


11.  •  Teatro  francese 


162  PAUL   CLAUDEL 

dinaria  stagione  che  ha  conosciuto  l'opera  di  Francis  Jammes  e 
di  Charles  Pcguy,  di  Valéry,  Gide,  Proust,  Giraudoux. 

Fra  le  molte  edizioni,  cfr.  quella  di  Jacques  Madaule  (Théàtre, 
Bibl.  de  la  Plèiade  2  voi.,  1951.'52). 

Fra  le  opere  critiche  più  recenti,  vedasi  Madaule  J.,  L^  gènte  de  P. 
C,  1933;  Le  dram  e  de  P.  C,  1934;  Chaigne  L.,  La  rencontre  de  P,  C, 
1942;  Truc  G.,  P.  C,  1945;  Chonez  C,  Introducùon  à  P,  C,  1947; 
Perche  L.,  P.  C,  1948;  Guillcmin  H.,  C.  et  son  art  d'écrire,  1955;  Fu- 
mct  S.,  C,  1958. 


rannniizio  a  Nana 


PERSONAGGI 


ANNE  VERCORS 
GIACOMO  HURY 
PIETRO  DI  CRAON 
LA  MADRE 
VIOLAINE 
MARA 

Comparse 


La  messa  in  scena  è  la  stessa  per  i  primi  due  atti  e  per  il  prologo:  si  ispira  alla 

hall  di  un  costalo  inglese  del  1240  e  restato  da  allora  intatto:  Stoc^sey  Hall. 

Sul  muro,  dalla  parte  della  corte,  c'è  un  crocifisso. 

Per  il  111  atto  saranno  date  indicazioni  speciali. 


(Redazione  definitiva  per  il  teatro,  1948) 


L'ANNUNZIO  A  MARIA 


PROLOGO 


(PIETRO  DI  CRAON,  COTI  ufìu  lontcma  in  mano,  traversa  la  scena  e  si  di- 
rige verso  la  porta  che  dà  sulla  corte) 

vioLAiNE  (scendendo  dalla  scala)  -  Piano,  piano,  mastro  Pietro! 

È  COSI  che  si  scappa  dalla  casa,  come  un  ladro,  senza  salutare 
come  si  deve  le  signore? 

(Violaine  va  a  prendere  del  fuoco  dal  caminetto  e  se  ne  serve  per  ac- 
cendere il  cero  davanti  al  Crocifisso) 

PIETRO  DI  CRAON  -  Violaine,  rientrate.  È  ancora  notte  fonda  e  noi  due 
siamo  qui  soli. 

E  voi  sapete  che  non  sono  un  uomo  di  cui  si  possa  essere 
troppo  sicuri. 

VIOLAINE  -  Io  non  ho  paura  di  voi,  muratore!  Non  basta  volerlo  per 
essere  malvagi! 

Non  si  riesce  a  fare  di  me  quel  che  si  vuole! 
Povero  Pietro!  Non  siete  nemmeno  riuscito  ad  uccidermi 
con  il  vostro  pessimo  coltello!  Nient'altro  che  un  piccolo  taglio  al 
braccio,  di  cui  nessuno  s'è  accorto. 

PIETRO  DI  CRAON  -  Violaine,  bisogna  perdonarmi. 

VIOLAINE  -  È  proprio  per  questo  che  sono  qui. 

PIETRO  DI  CRAON  -  Voi  siete  la  prima  donna  che  abbia  toccata.  Il  dia- 
volo, che  approfitta  delle  occasioni,  mi  ha  afferrato  tutt'a  un  tratto. 

VIOLAINE  -  Ma  avete  visto  che  son  piò  forte  di  lui. 

PIETRO  DI  CRAON  -  Violaine,  qui  io  sono  piò  pericoloso  di  allora. 

VIOLAINE  -  Dovremo  dunque  batterci  di  nuovo? 

PIETRO  DI  CRAON  -  La  mia  sola  presenza  è  per  se  stessa  funesta. 

VIOLAINE  -  Non  vi  capisco. 

(silenzio) 

PIETRO  DI  CRAON  -  Non  avevo  io  forse  abbastanza  pietre  da  assembrare 
e  legname  da  commettere  e  metalli  da  foggiare? 


166  PAUL   CLAUDEL 

La  mia  opera,  la  sola  mia  opera,  perché  tutt'a  un 
tratto 

Mettessi  la  mia  mano  sull'opera  di  un  altro  ed  em- 
piamente desiderassi  un'anima,  un'anima  viva? 
vioLAiNE  -  Nella  casa  di  chi  è  mio  padre  e  vostro  ospite!  Signore!  Che 
avrebbero  detto  se  avessero  saputo?  Ma  io  vi  ho  ben  protetto. 

E,  tutti,  come  prima,  vi  credono  un  uomo  sincero  e  irre- 
prensibile. 
PIETRO  DI  CRAON  -  Dio  giudica.  Ì  cuori  al  di  là  delle  apparenze. 
VIOLAINE  -  Questo  resterà  dunque  un  segreto  fra  noi  tre. 
PIETRO  DI  CRAON  -  Violaine! 
VIOLAINE  -  Mastro  Pietro? 

PIETRO  DI  CRAON  -  Mettetevi  là  presso  il  candelabro  perché  possa  guar- 
darvi bene. 

{ella  fi  mette  sorridendo  sotto  il  Crocifisso.  Egli  la  guarda  a  lungo) 

VIOLAINE  -  Mi  avete  ben  guardata? 

PIETRO  DI  CRAON  -  Chi  siete  voi,  fanciulla,  e  qual  è  dunque  la  parte 
che  Dio  in  voi  s'è  riservata 

Perché  la  mano  che  vi  tocca  con  desiderio  e  la  stes- 
sa carne  sia  cosi 

Colpita  come  se  si  fosse  accostata  al  mistero  della 
sua  sede? 
VIOLAINE  -  Che  vi  è  accaduto  dunque  in  quest'anno? 
PIETRO  DI  CRAON  -  Proprìo  all'indomani  di  quel  giorno  che  voi  sapete... 
VIOLAINE  -  Ebbene? 

PIETRO  DI  CRAON  -  ...  ho  scoperto  sul  mio  fianco  l'orribile  male. 
VIOLAINE  -  Il  male,  voi  dite?  Che  male? 
PIETRO  DI  CRAON  -  La  lebbra  di  cui  si  parla  nel  libro  di  Mosè. 
VIOLAINE  -  Che  cos'è  la  lebbra? 

PIETRO  DI  CRAON  -  Non  vi  hanno  mai  parlato  di  quella  donna  che  vi- 
veva sola  fra  le  rocce  del  Geyn 

Tutta  velata  dalla  testa  ai  piedi  e  che  portava  in 
mano  le  castagnette? 
VIOLAINE  -  È  quel  male,  mastro  Pietro? 
PIETRO  DI  CRAON  -  Esso  è  di  tal  natura 

Che  colui  che  ne  è  contagiato  in  tutta  la  sua  mali- 
gna forza 

Deve  essere  subito  isolato 

Che  non  vi  è  un  essere  vivente  per  quanto  sano  al 
quale  la  lebbra  non  possa  attaccarsi. 
VIOLAINE  -  Come  potete  dunque  restare  fra  di  noi  in  libertà? 


l'annunzio  a  maria  167 

PIETRO  DI  CRAON  -  Il  Vcscovo  mi  ha  accordato  questo  privilegio,  e  voi 
vedete  che  mi  mostro  brevemente  e  di  rado 

E  solo  ai  miei  operai  per  dare  ordini,  e  il  mio  male 
è  ancora  coperto  e  nascosto. 

E  chi  senza  me  porterebbe  alle  loro  mistiche  nozze 
queste  nascenti  chiese  che  Dio  mi  ha  commesso? 
vioLAiNE  -  Perciò  non  siete  venuto  questa  volta  a  Combernon? 
PIETRO  DI  CRAON  -  Non  potevo  esimermi  dal  ritornare  qui, 

Che  il  mio  compito  è  quello  di  aprire  il  fianco  di 
Monsanvergine 

E  di  fendere  la  parete  ogni  volta  che  un  nuovo  volo 
di  colombe  vi  vuole  entrare  dall'alta  Arca  le  cui  finestre  sono  solo 
verso  il  cielo  aperte  I 

E  questa  volta  portavamo  all'altare  una  illustre 
ostia,  un  insigne  incensiere. 

La  Regina  stessa,  madre  del  Re,  che  vi  saliva,  pro- 
prio lei. 

Per  suo  figlio,  privato  del  suo  regno. 
Ed  ora  me  ne  torno  a  Reims. 
VIOLAINE  -  Costruttore  di  porte,  lasciate  che  vi  apra  questa. 
PIETRO  DI  CRAON  -  Non  c'cra  alla  fattoria  nessun  altro  per  rendermi 

questo  servigio? 
VIOLAINE  -  Alla  fantesca  piace  dormire  e  perciò  m'ha  consegnato  le 

chiavi  facilmente. 
PIETRO  DI  CRAON  -  Non  avete  timore  e  orrore  del  lebbroso? 
VIOLAINE  -  Dio  è  là  che  mi  sa  proteggere. 

(Violaine  apre  la  porta;  ella  e  Pietro  di  Craon  guardano  a  lungo  la 
campagna) 

VIOLAINE  -  Questa  pioggerella  è  stata  per  tutti  una  benedizione. 
PIETRO  DI  CRAON  -  La  polvere  della  strada  si  sarà  abbassata. 
VIOLAINE  (a  bassa  voce,  affettuosamente)  -  Pace  a  voi,  Pietro! 

{a  Monsanvergine  suona  L'Ave  Maria:   il  Coro  canta  Regina  coeli, 
laetare,  laetare.  Intanto  Violaine  si  fa  lentamente  il  segno  della  cro- 
ce, mentre  Pietro  ne  traccia  rapidamente  la  figura  sul  suo  petto) 
PIETRO  DI  CRAON  -  È  tempo  di  partire. 
VIOLAINE  -  Conoscete  bene  la  strada?  Questa  siepe  prima 

E  poi  quella  casa  bassa  nella  macchia  di  sambuchi  dove 
vedrete  cinque  o  sei  alveari. 

E  cento  passi  più  in  là  raggiungete  la  strada  Reale. 

(pausa) 


168  PAUL   CLAUDEL 

PIETRO  DI    CRAON   -  PaX  tibi. 

Come  tutta  la  creazione  è  con  Dio  in  un  mistero 
profondo! 

Ciò  che  era  nascosto  ritorna  visibile  con  Lui  ed  io 
sento  sul  mio  viso  un  soffio  di  una  freschezza  di  rosa. 

Loda  il  tuo  Dio,  terra  benedetta,  nelle  lacrime  e  nel- 
l'oscurità! 

Il  frutto  è  per  luomo,  ma  il  fiore  è  per  Dio,  e  il 
buon  odore  di  tutto  ciò  che  nasce. 

Cosi,  al  pari  della  foglia  di  menta,  l'odore  della 
santa  anima  nascosta  ha  svelato  la  sua  virtù. 

Violaine  che  mi  avete  aperto  la  porta,  addio!  io  non 
tornerò  piò  verso  di  voi. 

O  giovane  albero  della  scienza  del  Bene  e  del  Ma- 
le, ecco  che  io  comincio  a  disfarmi  perche  ho  portato  la  mano  su 
voi. 

£  digià  la  mia  anima  e  il  mio  corpo  si  dividono 
come  il  vino  nel  tino,  mischiato  al  grappolo  calpestato! 

Che  importa?  Io  non  avevo  bisogno  di  donna.  Io 
non  ho  posseduto  una  donna  corruttibile. 

L'uomo  che  ha  preferito  Dio  nel  suo  cuore,  quan- 
do muore,  vede  l'Angelo  che  lo  custodiva. 

Verrà  ben  presto  il  tempo  in  cui  un'altra  porta  si 
dissolva. 

Quando  colui  che  è  piaciuto  a  pochi  in  questa  vita, 
si  addormenta^  avendo  condotto  a  termine  la  sua  opera,  fra  le  brac- 
cia dell'Uccello  eterno: 

Quando  digià  attraverso  i  muri  diafani  da  tutti  i 
lati  appare  l'oscuro  Paradiso. 

E  gli  incensieri  della  notte  si  mescolano  all'odore 
del  sozzo  lucignolo  che  si  spegne. 
VIOLAINE  -  Pietro  di  Craon,  io  so  che  voi  non  vi  aspettate  da  me  dei 
« Pover'uomo »  e  dei  falsi  sospiri  e  dei  «Povero  Pietro». 

Giacché  per  chi  soffre  le  consolazioni  di  un  consolatorc 
felice  non  hanno  grande  importanza  e  il  suo  male  non  è  per  noi 
quello  che  è  per  lui. 

Soffrite  con  Nostro  Signore. 

Ma  sappiate  che  la  vostra  cattiva  azione  è  cancellata; 
Per  quel  che  dipende  da  me,  e  io  sono  in  pace  con  voi. 
E  che  io  non  vi  disprezzo  e  non  vi  aborrisco  perché  siete 
colpito  e  malato 


l'annunzio  a  maria  169 

Ma  vi  tratterò  come  un  uomo  sano  e  come  Pietro  di  Craon, 
il  nostro  vecchio  amico  che  onoro,  amo  e  temo. 

Io  ve  lo  dico.  È  vero. 
PIETRO  DI  CRAON  -  Grazic,  Violaine. 
vioLAiNE  -  Ed  ora  vi  devo  domandare  qualcosa. 

PIETRO  DI  CRAON  -  Dite. 

VIOLAINE  -  Che  cos'è  questa  bella  storia  che  mio  padre  ci  ha  raccon- 
tata? Che  cos'è  questa  «giustizia»  che  costrutte  a  Reims  e  che 
sarà  pili  bella  di  S.  Remigio  o  di  Nostra  Signora? 
PIETRO  DI  CRAON  -  È  la  chiesa  che  le  corporazioni  di  Reims  mi  hanno 
dato  da  costruire  sul  luogo  dell'antico  Parc-aux-Ouilles, 

Là  dove  l'antico  Marc-de-l'Evéque  è  stato  bruciato 
Tanno  passato. 
VIOLAINE  -  E  donde  proviene  il  nome  che  è  dato  alla  nuova  chiesa? 
PIETRO  DI  CRAON  -  Non  avetc  mai  sentito  parlare  di  Santa  Giustizia 
che  fu  martirizzata  al  tempo  dell'imperatore  Giuliano  in  un  campo 
di  anice? 

(Quei  grani  che  si  mettono  nel  nostro  pan  pepato 
per  la  fiera  di  Pasqua) 

Tentando  di  deviare  l'acqua  di  una  sorgente  sotter- 
ranea per  le  nostre  fondamenta, 

Abbiamo  trovato  la  sua  tomba  con  questa  iscrizio- 
ne su  una  lastra  spez2Uita  in  due:  lustitia  ancilla  Domini  in  pace. 

Il  fragile  piccolo  cranio  era  fracassato  come  una 
noce,  era  una  bambina  di  otto  anni, 

E  alcuni  denti  di  latte  sono  ancora  confitti  nella 
mascella, 

E  tutta  Reims  è  piena  di  stupore  e  infiniti  segni  e 
prodigi  si  accomjpagnano  al  corpo 

Che  abbiamo  posto  in  una  cappella  aspettando  la 
fine  dell'opera. 

Ma  abbiamo  lasciato  i  piccoli  denti  come  una  se- 
mente sotto  il  grande  blocco  del  basamento. 
VIOLAINE  -  Che  bella  storia!  E  il  padre  ci  diceva  anche  che  tutte  le 
dame  di  Reims  donano  i  loro  gioielli  per  la  costruzione  della  Giu- 
stizia? 
PIETRO  DI  CRAON  -  Ne  abbiamo  un  gran  mucchio,  e  molti  Ebrei  intor- 
no, come  mosche. 

(Violaine  tiene  gli  occhi  bassi,  girando  con  fare  esitante  un  grosso 
anello  d'oro  che  porta  all'anulare) 


170  PAUL   CLAUDEL 

PIETRO  DI  CRAON  -  Chc  anello  è  questo,  Violainc? 
vioLAiNE  -  Un  anello  che  mi  è  stato  dato  da  Giacomo. 

(silenzio) 

PIETRO  DI  CRAON  -  Mi  coHgratulo  con  voi. 

(ella  gli  porge  l'anello) 

VIOLAINE  -  Non  è  ancora  deciso.  Mio  padre  non  ha  detto  nulla. 
Ebbene!  proprio  questo  vi  volevo  dire. 
Prendete  il  mio  bell'anello  :  è  tutto  quello  chc  ho  e  Giaco- 
mo me  rha  dato  in  segreto. 
PIETRO  DI  CRAON  -  Ma  io  non  lo  voglio! 

VIOLAINE  -  Prendetelo  subito,  che  io  non  avrei  piò  la  forza  di  staccar- 
mene. 

{egli  prende  l'anello) 

PIETRO  DI  CRAON  -  Che  dirà  il  vostro  fidanaato? 

VIOLAINE  -  Non  è  ancora  veramente  il  mio  fidanzato. 

La  mancanza  dell'anello  non  cambia  il  cuore.  Egli  mi  co- 
nosce. 

Me  ne  darà  un  altro  d'argento. 
Questo  era  troppo  bello  per  me. 

PIETRO  DI  CRAON  {esaminandolo)  -  È  d'oro  vegetale,  come  ne  sapevano 
fare  un  tempo,  mescolandolo  al  miele. 

È  malleabile  come  la  cera  e  niente  può  romperlo. 

VIOLAINE  -  Giacomo  l'ha  trovato  mentre  arava,  in  un  luogo  dove  si 
trovano  spesso  vecchie  spade  tutte  verdi  e  graziosi  pezzi  di  vetro. 
Mi  impauriva  portare  questo  oggetto  pagano  che  appartie- 
ne ai  morti. 

PIETRO  DI  CRAON  -  Accetto  quest'oro  puro. 

VIOLAINE  -  E  baciate  per  me  mia  sorella  Giustizia. 

PIETRO  DI  CRAON  {guardandola  improvvisamente  e  come  colpito  da  una 
idea)  -  È  tutto  quello  che  voi  potete  donarmi  per  lei?  Un  po'  d'oro 
tolto  dal  vostro  ditoP 

VIOLAINE  -  Non  basta  a  pagare  una  piccola  pietra? 

PIETRO  DI  CRAON  -  Ma  Giustizia  è  essa  stessa  una  grande  pietra. 

VIOLAINE  {ridendo)  -  Ma  io  non  sono  della  stessa  cava. 

PIETRO  DI  CRAON  -  Quella  che  occorre  per  la  base  non  è  certo  quella 
che  occorre  per  il  fastigio. 

VIOLAINE  -  Una  pietra,  se  mai  io  ne  sono  una,  che  sia  quella  pietra  la- 
boriosa chc  macina  il  grano,  accoppiata  alla  mola  gemella. 


l'annunzio  a  maria  171 

PIETRO  DI  CRAON  -  Ed  anchc  Giustizia  non  era  che  un'umile  fanciulla 
accanto  alla  madre 

Fino  all'istante  in  cui  Dio  la  chiamò  al  martirio. 
vioLAiNE  -  Ma  nessuno  mi  vuol  male!  Bisogna  ch'io  vada  a  predicare 

il  Vangelo  ai  Saraceni? 
PIETRO  DI  CRAON  -  Non  tocca  alla  pietra  scegliersi  il  posto,  ma  al  Mae- 
stro dell'opera  che  l'ha  scelta. 
VIOLAINE  -  Lodato  dunque  sia  Dio  che  mi  ha  dato  subito  il  mio  senza 
che  io  debba  più  cercarlo.  E  non  gliene  domando  un  altro. 

Io  sono  Violaine,  ho  diciotto  anni,  mio  padre  si  chiama 
Anne  Vercors,  mia  madre  si  chiama  Elisabetta, 

Mia  sorella  si  chiama  Mara,  il  mio  fidanzato  si  chiama 
Giacomo.  Ecco,  è  finito,  non  c'è  piti  nulla  da  sapere. 

Tutto  è  perfettamente  chiaro,  tutto  è  stabilito  in  precedenza 
ed  io  sono  molto  contenta. 

Sono  libera,  non  mi  devo  preoccupare  di  nulla,  è  un  altro 
quello  che  mi  guida,  pover'uomo,  e  che  sa  tutto  ciò  che  si  deve 
fare. 

Seminatore  di  campanili,  venite  a  Combernon!  Vi  daremo 
e  pietre  e  legname,  ma  non  avrete  la  ragazza  della  casa! 

E  d'altra  parte,  non  è  già  questa  casa  di  Dio,  terra  di  Dio, 
servizio  di  Dio? 

E  il  nostro  compito  non  è  forse  quello  di  nutrire  e  custo- 
dire il  solo  Monsanvergine,  fornendo  il  pane,  il  vino  e  la  cera. 

Dipendendo  da  questo  solo  nido  di  angeli  dalle  ali  a  metà 
dispiegate? 

Cosi  come  i  grandi  signori  hanno  la  loro  colombaia  noi 
abbiamo  la  nostra,  che  si  riconosce  da  lontano. 
PIETRO  DI  CRAON  -  Un  tempo,  passando  per  la  foresta  di  Fisme,  ho 
udito  due  belle  querce  che  parlavano  fra  loro 

Lodando  Dio  che  le  aveva  create  incrollabili  là  do- 
ve erano  nate. 

Ora,  alla  prua  d'una  galera,  una  fa  la  guerra  ai 
Turchi  sull'Oceano, 

L'altra,  fatta  tagliare  da  me,  attraverso  la  Torre  di 
Laon, 

Sorregge  Giovanna  la  buona  campana,  la  cui  voce 
s'ode  a  dieci  leghe  di  distanza. 

Fanciulla,  nel  mio  mestiere  non  si  tengon  gli  occhi 
in  tasca.  Riconosco  la  buona  pietra  sotto  i  ginepri  e  il  buon  legno 
come  il  più  abile  picchio: 


172  PAUL   CLAUDEL 

E  cosi  gli  uomini  e  le  donne. 
vioLAiNE  -  Ma  non  le  fanciulle,  mastro  Pietro!  È  troppo  sottile  per 
voi. 

E  del  resto  non  c'è  proprio  nulla  da  conoscere. 
PIETRO  DI  c^AON  (sottovocc)  -  L'amate  mdto,  Violaine? 
VIOLAINE  {con  gli  occhi  bassi)  -  È  un  gran  mistero  fra  noi  due. 
PIETRO  DI  CRAON  -  Benedetta  sii  tu  nel  tuo  casto  cuore! 

La  santità  non  consiste  nell'andare  a  farsi  lapidare 
dai  Turchi  o  nel  baciare  un  lebbroso  sulla  bocca, 

Ma  nell'obbedire  al  comando  del  Signoi^e,  subito, 
Sia  che  si  tratti 

Di  restare  al  nostro  posto,  o  di  salire  più  in  alto. 
VIOLAINE  -  Ah!  come  il  mondo  è  bello  e  come  sono  felice! 
PIETRO  DI  CRAON  (sottovocc)  -  Ah!  come  il  mondo  è  bello  e  come  sono 

infelice! 
VIOLAINE  {tendendo  un  dito  verso  il  cielo)  -  Uomo  della  città,  ascol- 
tate! 

{pausa) 

Sentite  là  in  alto,  in  alto,  quella  piccola  anima  che  canta? 
PIETRO  DI  CRAON  -  È  l'allodola. 

VIOLAINE  -  È  l'allodola.  Alleluia!  L'allodola  della  terra  cristiana;  alle- 
luia, alleluia! 

La  sentite  gridare  quattro  volte  di  seguito  hi!  hi!  hi!  hi! 
più  alto,  più  alta! 

La  vedete,  con  le  ali  distese,  piccola  croce  veemente,  come 
i  serafini  che  son  tutt'ali,  senza  piedi  e  una  voce  acuta  davanti  al 
trono  di  Dio? 
PIETRO  DI  CRAON  -  La  seuto. 

E  cosi  l'ho  sentita  una  volta  sul  far  dell'aurora,  il 
giorno  in  cui  consacrammo  mia  figlia,  Nostra  Signora  della  Ci- 
catrice. 

E  brillava  un  po'  d'oro,  alla  punta  estrema  di  quella 
grande  cosa  che  avevo  fatto,  come  una  stella  nuova! 
VIOLAINE  -  Pietro  di  Craon,  se  voi  aveste  fatto  di  me  a  vostra  voglia, 
Forse  che  ne  sareste  più  lieto,  ora,  o  forse  che  io 
ne  sarei  più  bella? 
PIETRO  DI  CRAON  -  No,  Violaiue. 

VIOLAINE  -  Forse  che  io  sarei  quella  stessa  Violaine  che  voi  amavate? 
PIETRO  DI  CRAON  -  Nou  lei,  ma  un'altra. 

VIOLAINE  -  E  che  cosa  vale  di  più,  Pietro?  Che  vi  dia  parte  della  mia 
gioia  o  che  prenda  parte  del  vostro  dolore? 


l'annunzio  a  maria  173 

pi£TRO  DI  CRAON  -  Canta  nel  piti  alto  dei  cieli,  allodola  di  Francia! 
vioLAiNE  -  Perdonatemi  perché  son  troppo  felice  1  Perché  colui  ch'io 
amo 

Mi  ama  e  io  sono  sicura  di  lui,  e  so  che  mi  ama  e  tutto  è 
uguale  fra  noii 

E  perché  Dio  mi  ha  creata  affinché  fossi  felice  e  non  per 
il  male  e  per  la  pena. 
PIETRO  DI  CRAON  -  Sali  al  cielo  d'un  solo  slancio! 

Quanto  a  me,  per  salire  un  po',  mi  è  necessaria  tut- 
ta la  mole  di  una  cattedrale  e  le  sue  profonde  fondamenta. 
VIOLAINE  -  E  ditemi  che  perdonate  a  Giacomo  di  sposarmi. 
PIETRO  DI  CRAON  -  No,  non  gli  perdono.' 
VIOLAINE  -  L'odio  non  vi  fa  bene,  Pietro,  e  a  me  fa  male. 
PIETRO  DI  CRAON  -  Siete  voi  che  mi  fate  parlare. 

Perché  costringermi  a  mostrare  l'orrenda  piaga  che 
non  si  vede? 

Lasciatemi  partire  e  non  chiedetemi  altro.  Noi  non 
ci  rivedremo  più. 

E  tuttavia  io  porto  con  me  il  suo  anello! 
VIOLAINE  -  Lasciate  il  vostro  odio  al  suo  posto  ed  io  ve  lo  renderò  quan- 
do ne  avrete  bisogno. 
PIETRO  DI  CRAON  -  Auchc  io,  Violaiuc,  sono  molto  infelice! 

È  duro  esser  lebbroso  e  portare  in  sé  l'infame  piaga 
e  sapere  che  non  si  guarirà  e  che  niente  la  vince. 

Ma  che  ogni  giorno  essa  si  allarga  e  penetra,  ed 
essere  solo  a  sopportare  il  proprio  veleno  e  sentirsi  corrompere  tut- 
to vivo! 

E  assaporare  non  solo  la  morte,  non  solo  una  volta 
o  dieci  volte,  ma,  senza  perderne  niente  fino  alla  fine,  la  spaven- 
tosa alchimia  della  tomba! 

Voi  mi  avete  fatto  questo  male  con  la  vostra  bel- 
lezza, che  prima  di  vedervi  ero  puro  e  lieto. 

Dedito  soltanto  al  mio  lavoro  e  ai  miei  progetti 
agli  ordini  di  un  altro, 

E  ora  che  sono  io  a  comandare  a  mia  volta  e  da 
me  si  viene  per  i  piani  di  lavoro, 

Ecco  che  vi  volgete  verso  di  me  con  quel  sorriso 
pieno  di  veleno! 
VIOLAINE  -  Il  veleno  non  era  in  me,  Pietro. 

PIETRO  DI  CRAON  -  Lo  so;  era  in  me  e  c'è  sempre  e  questa  carne  ma- 
lata non  ha  guarito  l'anima  corrotta. 


174  PAUL   CLAUDEL 

O  piccola  mia,  era  mai  possibile  che  vi  vedessi  sen- 
za amarvi? 

vioLAiNE  -  £  certo  avete  mostrato  che  mi  volevate  benel 

PIETRO  DI  CKAON  -  È  colpa  mia  se  il  frutto  è  attaccato  al  ramo? 

E  chi,  amando,  non  vuole  avere  tutto  di  ciò  che 
ama? 

VIOLAINE  -  Ed  è  per  questo  che  avete  cercato  di  distruggermi? 

PIETRO  DI  CRAON  -  L'uomo  oltraggiato  ha  anch'egli  le  sue  tenebre,  co- 
me la  donna. 

VIOLAINE  -  In  che  cosa  io  vi  ho  offeso? 

PIETRO  DI  CRAON  -  O  immagine  della  Bellezza  eterna,  tu  non  sei  mia! 

VIOLAINE  -  Io  non  sono  un'immagine  1  Non  è  una  maniera,  questa,  di 
dir  le  cosel 

PIETRO  DI  CRAON  -  Un  altro  prende  in  voi  quello  che  mi  apparteneva. 

VIOLAINE  -  Resta  l'immagine. 

PIETRO  DI  CRAON  -  Un  altro  mi  prende 

Violaine  e  mi  lascia  questa  carne  colpita  e  questo 
spirito  devastato. 

VIOLAINE  -  Siate  uomo,  Pietro!  Siate  degno  della  fiamma  che  vi  consu- 
ma. E  se  bisogna  esser  divorati,  che  ciò  sia  su  un  candelabro  d'oro, 
come  il  Cero  Pasquale  in  pieno  coro  per  la  gloria  di  tutta  la  Chiesa! 

PIETRO  DI  CRAON  -  Tanti  fastigi  sublimi!  Non  vedrò  io  mai  quello  del- 
la mia  casetta  fra  gli  alberi? 

Tanti  campanili  la  cui  ombra,  girando,  scrìve  l'ora 
su  tutta  la  città!  Non  farò  io  mai  il  disegno  di  un  forno  e  della 
camera  per  i  bimbi? 

VIOLAINE  -  Io  non  dovevo  prendere  per  me  sola  quello  che  appartiene 
a  tutti. 

PIETRO  DI  CRAON  -  A  quando  le  nozze^  Violaine? 

VIOLAINE  -  A  San  Michele,  suppongo,  quando  la  mietitura  è  finita. 

PIETRO  DI  CRAON  -  Quel  giorno,  quando  le  campane  di  Monsanvergine 
avran  fatto  silenzio,  tendete  l'orecchio  e  mi  sentirete  ben  lontano 
da  Reims  rispondere. 

VIOLAINE  -  Chi  avrà  cura  di  voi  laggiù? 

PIETRO  DI  CRAON  -  Son  Sempre  vissuto  come  un  operaio;  una  manciata 
di  paglia  mi  basta,  fra  due  pietre,  un  abito  di  cuoio,  un  po'  di 
lardo  sul  pane. 

VIOLAINE  -  Povero  Pietro! 

PIETRO  DI  CRAON  -  NoD  è  per  questo  che  mi  si  deve  compiangere:  noi 
siamo  di  un'altra  razza. 


l'annunzio  a  maria  175 

Io  non  vivo  sullo  stesso  piano  degli  altri  uomini, 
ma  sempre  sottoterra  con  le  fondamenta  o  nel  cielo  con  il  cam- 
panile. 
vioLAiNE  -  Ebbene  1  non  avremmo  potuto  vivere  insieme!  Io  non  posso 

salire  nel  granaio  senza  sentirmi  girare  la  testa. 
PIETRO  DI  CRAON  -  Quella  chiesa  sola  sarà  la  mia  donna  che  sarà  tratta 
dal  mio  costato  come  un'Eva  di  pietra,  nel  sonno  del  dolore. 

Possa  io  ben  presto  sotto  di  me  sentire  innalzarsi 
la  mia  vasta  opera,  posare  la  mano  sulla  cosa  indistruttibile  che  io 
ho  fatto  e  che  è  ben  connessa  in  tutte  le  sue  parti,  opera  compatta 
che  ho  costruita  di  solida  pietra  affinché  il  principio  vi  abbia  inizio, 
opera  mia  che  Dio  abitai 

Non  scenderò  più. 
VIOLAINE  -  Dovete  scendere.  Chi  sa  se  io  non  avrò  bisogno  di  voi,  un 

giorno? 
PIETRO  DI  CRAON  -  Addio,  Violaine,  anima  mia,  non  vi  rivedrò  piò. 
VIOLAINE  -  Chi  sa  se  non  mi  rivedrete  piò? 
PIETRO  DI  CRAON  -  Addio,  Violaine. 

Quante  cose  ho  già  fatto!  Quali  cose  mi  restano  da 
fare 

Dell'ombra  con  Dio, 

Eguale  a  quella  dell'anima  umana  perché  l'ostia  ri- 
sieda nel  centro. 

Porto  con  me  il  vostro  anello.  E  chi  sa  se  io  non 
porto  insieme  l'anima  di  Violaine? 

L'anima  di  Violaine,  mia  amica,  nella  quale  il  mio 
cuore  si  compiace, 

L'anima  di  Violaine,  mia  fanciulla,  perch'io  ne  fac- 
cia una  chiesa. 

(MARA  VERCORS  è  entrata  e  li  osserva  dalla  sommità  della  seda  senza 
che  essi  la  vedano) 

VIOLAINE  -  Addio  Pietro! 

PIETRO  DI  CRAON  -  Addio,  Violaine! 

VIOLAINE  -  Povero  Pietro! 

(a  questo  punto  il  bado,  che  deve  essere  dato  con  grande  solennità, 
Violaine  stando  in  basso  prende  la  testa  di  Pietro  fra  le  mani  e  ne 
aspira  l'anima,  Mara  fa  un  gesto  di  sorpresa  ed  esce) 


176  PAUL    CLAUDEL 


ATTO    PRIMO 

SCENA   PRIMA 

In  mezzo  alla  stanza  una  grande  tavola  sulla  quale  la  madre  sta  stirando  un 
pezzo  di  tela,  anne  vercors  è  seduto  voltando  te  spalle  alla  tavola,  con  un 
libro  di  conti  sulle  ginocchia. 

ANN£  VERCORS  -  Ehi,  Madfc;  se  credi  che  sia  facile  raccapezzarsi  in 
mezzo  alle  tue  croci  e  ai  tuoi  cerchi! 

LA  MADRE  -  Canzonami  pure,  gran  canzonatore,  che  tu  sei  proprio  bra- 
vo per  tenere  i  conti!  È  la  paletta,  come  si  dice...  Giusto,  come  si 
dice? 

ANNE  VERCORS  -  È  la  paletta  che  si  burla  dell'attizzatoio. 

LA  MADRE  -  Proprìo  COSI...  È  la  paletta... 

{essa  spruzza  la  tela  con  la  punta  delle  dita  prendendo  l'acqua  da  un 
recipiente  sulla  tavola) 

È  la  paletta  che  si  burla  dell'attizzatoio. 
ANNE  VERCORS  -  E  tu  che  cosa  stai  attizzando? 

LA  MADRE  -  Vorrcsti  Saperlo,  eh,  mio  furbacchione?...  È  un  mio  se- 
greto. 
ANNE  VERCORS  -  Anch'io  ho  forse  un  segreto. 

(si  è  alzato  e  la  guarda) 

LA  MADRE  (scnza  guordorlo)  -  Perché  mi  guardi  cosi? 
ANNE  VERCORS  -  O  donna!  ecco  da  quando  ci  siamo  sposati 

Con  Fanello  che  ha  la  forma  di  Si,  un  mese, 
Un  mese  di  cui  ciascun  giorno  è  un  anno. 
E  per  lungo  tempo  tu  mi  sei  restata  sterile 
Come  un  albero  che  produce  solo  ombra, 
E  un  giorno  noi  ci  siamo  come  oggi 
Considerati  nel  mezzo  della  nostra  vita, 
Elisabetta!  E  io  ho  visto  le  prime  rughe  sulla  tua  fron- 
te e  intorno  ai  tuoi  occhi. 

E,  come  nel  giorno  del  nostro  matrimonio. 
Noi  ci  siamo  abbracciati  e  presi,  non  più  nell'alle- 
grezza. 

Ma  nella  tenerezza  e  nella  compassione  e  nel  rispetto 
della  nostra  fede  reciproca. 


Scenografia  di  Jean  Variot  per  L'Annunzio  a  Maria,  di  Paul  Claudel  (1912). 


significa 


l'annunzio  a  maria  177 

Ed  ecco  fra  noi  la  bimba  e  la  gentilezza 

Di  questo  dolce  narciso,  Violai  ne. 

E  poi,  la  seconda  ci  nasce, 

Mara  la  nera.  Un'altra  figlia  e  non  era  un  figlio. 

(pausa) 

Suvvia,  dimmi,  ora,  quel  che  devi  dire  perché  so  che 


Quando  tu  ti  metti  a  parlare  senza  guardare,  dicendo 
qualche  cosa  e  niente.  Sentiamo! 
LA  madre  -  Sai  bene  che  non  ti  si  può  dir  nulla.  Ma  tu  non  sei  mai 
qui,  ma  bisogna  che  ti  afferri  a  volo  per  attaccarti  un  bottone. 

Ma  tu  non  ci  ascolti.  Ma  tu  sei  sempre  qui,  come  un  cane, 
a  sbirciare  e  a  spiare  attendendo  non  so  che  cosa. 
Gli  uomini  non  capiscono  niente! 
ANNE  VERCORS  -  Le  bambine,  eccole  grandi  ormai! 
LA  MADRE  -  Non  sono  poi  cosi  grandi! 
ANNE  VERCORS  -  A  chi  Ic  mariteremo? 
LA  MADRE  -  Abbiamo  tutto  il  tempo  di  pensarci. 
ANNE  VERCORS  -  O  falsità  femminile!  Dimmi  quand'è  che  tu  pensi 

una  cosa  senza  dire  prima  il  contrario,  malizia!  Io  ti  conosco. 
LA  MADRE  -  Non  dirò  più  niente. 
ANNE  VERCORS  -  Giacomo  Hury. 
LA  MADRE  -  Ebbene? 
ANNE  VERCORS  -  Ecco.  Gli  darò  Violaine. 

E  prenderà  il  posto  del  figlio  che  non  ho  avuto.  È  un 
uomo  retto  e  coraggioso. 

Lo  conosco  da  quando  era  bambino,  da  quando  sua 
madre  ce  l'ha  affidato.  Sono  io  che  gli  ho  tutto  insegnato, 

Le  sementi,  le  bestie,  gli  uomini,  le  armi,  gli  arnesi, 
i  vicini,  i  superiori,  le  usanze  —  Dio  — 

Il  tempo  che  fa,  le  consuetudini  di  questa  terra  antica. 
Il  modo  di  riflettere  prima  di  parlare. 
L'ho  visto  diventare  uomo  mentre  mi  guardava. 
E  non  era  di  quelli  che  contraddicono,  ma  di  quelli 
che  riflettono,  come  una  terra  che  accetta  tutte  le  sementi. 
E  ciò  che  è  falso,  non  mettendo  radici,  muore; 
E  COSI  per  quel  che  e  vero  non  si  può  dire  ch'egli  vi 
creda,  ma  ciò  cresce  in  lui,  avendo  trovato  nutrimento. 
LA  MADRE  -  Bisognerebbe  sapere  se  davvero  si  piacciono. 
ANNE  VERCORS  -  Violaine 


12.  -  Teatro  francese 


178  PAUL   CLAUDEL 

Farà  quello  che  io  le  avrò  detto. 
E  in  quanto  a  lui,  so  che  l'ama  e  che  lo  sai  bene  an- 
che tu. 

Tuttavia  lo  sciocco  non  osa  dirmi  niente.  Ma  io  gliela 
darò  se  vuole.  £  sarà  questo  e  cosi  sarà. 
LA  MADRE  -  Bene,  bene,  s(,  be',  si. 

Certamente  va  bene  cosi.  Certamente  sarà  bene  cosL 
ANNE  VERCORS  -  È  tutto?  Non  hai  altro  da  dire? 
LA  MADRE  -  Che  devo  dire? 
ANNE  VERCORS  -  Ebbene!  vado  a  cercarlo. 
LA  MADRE  -  Come,  a  cercarlo?  Come,  a  cercarlo?  Anne! 
ANNE  VERCORS  -  Bisogna  che  tutto  sia  sistemato  immediatamente.  Avrò 

qualcosa  da  dirti  fra  poco. 
LA  MADRE  -  Da  dirmi?  Che  cosa  da  dirmi?  Anne,  ascoltami  un  po'... 

Ho  paura... 
ANNE  VERCORS  -  Ebbene? 
LA  MADRE  -  Mara 

Dormiva  nella  mia  camera  quest'inverno,  quando  tu  eri 
malato  e  si  parlava  la  sera  nei  nostri  letti. 

Sicuro  che  è  un  bravo  ragazzo  e  io  l'amò  come  un  figlio, 
quasi. 

Non  possiede  nulla,  è  vero,  ma  è  un  buon  lavoratore  e  di 
buona  famiglia. 

A  loro  due  potremmo  dare 

Le  nostre  rendite  dei  Demi-Muids  con  le  terre  di  sotto  che 
son  troppo  lontane  per  noi.  Volevo  parlarti  anche  di  lui. 
ANNE  VERCORS  -  Ebbene? 
LA  MADRE  -  Ebbene!  niente. 

Certamente  Violainc  è  la  maggiore. 
ANNE  VERCORS  -  Sentiamo,  e  poi? 
LA  MADRE  -  E  poi?  Come  sai  tu  di  sicuro  se  egli  l'ama? 

—  Il  nostro  compare,  mastro  Pietro, 

(Perché  s'è  tenuto  in  disparte  stavolta  senza  vedere  nes- 
suno?) 

Tu  l'hai  visto  l'anno  scorso  quand'è  venuto. 

E  come  la  guardava  mentre  lei  ci  serviva.  —  Certamente 
non  ha  terre,  ma  guadagna  molto  denaro. 

—  E  lei,  mentre  lui  parlava, 

Come  lo  ascoltava,  con  gli  occhi  spalancati  come  una  scc- 


l'annunzio  a  maria  179 

Dimenticandosi  di  versare  da  bere,  tanto  che  mi  son  do- 
vuta arrabbiare! 

—  £  Mara,  tu  la  conosci!  Tu  sai  com'è  ostinata! 
Se  si  è  messa  in  testa,  dunque, 

Di  sposare  Giacomo,  eh,  eh,  —  lei  è  dura  come  il  ferro. 
Io,  non  sol  Forse  sarebbe  meglio... 
ANNE  VEROORS  -  Che  cosa  sono  queste  sciocchezze? 
LA  MADRE  -  Bene!  Bene!  Si  può  parlare  tanto  per  parlare.  Non  c'è  bi- 
sogno di  adirarsi. 
ANNE  VERcoRS  -  lo  lo  voglio.  E  Sarà  cosi. 
Giacomo  sposerà  VicJaine. 
LA  MADRE  -  Ebbene,  cari  miei,  sta  bene;  la  sposerà,  dunque. 
ANNE  VERCORS  -  E  adesso,  povera  mamma,  ho  altro  da  dirti,  vecchia 

mia.  Io  parto. 
LA  MADRE  -  lo  parto?  Tu  parti? 

Ma  che  vai  dicendo?  Tu  parti,  tu  parti,  vecchio  mio? 
ANNE  VERCORS  -  Proprio  per  questo  è  necessario  che  Giacomo  sposi  Vio- 

laine  senza  tardare  e  ch'egli  sia  l'uomo,  qui,  al  mio  posto. 
LA  MADRE  -  Signore!  Tu  parti?  Davvero?  E  dove  vai? 
ANNE  VEROORS  (jocendo  un  vago  cenno  verso  il  sud)  -  Laggiù. 

LA  MADRE  -  A  ChàtCau? 

ANNE  VERCORS  -  Piu  lontano  di  Chàteau. 

LA  MADRE  (obbossando  la  voce)  -  A  Bourges,  dall'altro  Re?  * 

ANNE  VERCORS  -  Dal  Re  dei  Re,  a  Gerusalemme. 

LA  MADRE  -  Santa  Vergine,  mio  dolce  Gesd! 

(si  siede) 

Forse  che  la  Francia  non  è  più  abbastanza  buona  per  te? 
ANNE  VEROORS  -  C'è  troppo  dolore  in  Francia. 
LA  MADRE  -  Ma  uoi  Stiamo  bene  e  nessuno  tocca  Reims. 
ANNE  VEROORS  -  Proprio  per  questo. 
LA  MADRE  -  Comc  proprìo  per  questo? 
ANNE  VERCORS  -  Proprìo  per  questo,  noi  siamo  troppo  felici. 

E  gli  altri  non  abbastanza. 
LA  MADRE  -  Anne,  la  colpa  non  è  nostra. 
ANNE  VERCORS  -  E  nemmeno  loro. 


^  Durante  la  guerra  dei  Cent'anni,  quando  gli  Inglesi  occupavano  Parigi,  Car- 
lo  Vn  aveva  trasportato  la  corte  a  Bourges.  Lo  chiamavano  ironicamente  «  Le  Roi 
de  Bourges  ». 


180  PAUL   CLAUDEL 

LA  MADRE  -  lo  Don  lo  SO.  lo  SO  chc  tu  sci  quì  c  che  ho  due  figlie. 
ANNE  V£Rcx)RS  -  Ma  vedi  almeno  che  tutto  è  sconvolto  e  tratto  fuor 
dal  suo  posto,  e  come  ciascuno  cerchi  disperatamente  dove  esso  sia. 
E  il  fumo  che  si  vede  talvolta  in  lontananza,  non  è 
vuota  paglia  che  brucia. 

E  quelle  grandi  schiere  di  poveri  che  ci  arrivano  da 
tutte  le  parti. 

Non  c'è  più  un  Re  sulla  Francia,  secondo  quanto  è 
stato  predetto  dal  Profeta. 
LA  MADRE  -  È  quello  che  ci  leggevi  Taltro  giorno? 
ANNE  VERcoRs  -  Al  posto  del  Re  abbiamo  due  ragazzi. 
Uno,  ringlese,  nella  sua  isola 

E  Taltro,  cosi  piccolo  che  non  lo  si  vede  più,  fra  i 
canneti  della  Loira. 

Al  posto  del  Papa,  ne  abbiamo  tre  e  al  posto  di  Ro- 
ma, non  so  quale  concilio  in  Isvizzera. 
Tutto  è  in  lotta  e  fermento 

Non  essendo  più  tenuto  saldo  dalla  mano  superiore. 
LA  MADRE  -  E  anche  tu,  ecco  che  ora  te  ne  vuoi  andare? 
ANNE  VERcoRS  -  Non  posso  piu  restare  qui. 
LA  MADRE  -  Anne,  ti  ho  dato  qualche  dispiacere? 
ANNE  VERCORS  -  No,  Elisabetta  mia. 
LA  MADRE  -  Ecco  che  tu  m'abbandoni  nella  mia  vecchiaia. 
ANNE  vERCORs  -  Dammi  congedo  tu  stessa. 
LA  MADRE  -  Tu  non  mi  ami  più  e  non  sei  più  felice  con  me. 
ANNE  VERCORS  -  Sono  stanco  di  essere  felice. 
LA  MADRE  -  Non  disprezzare  il  dono  che  il  Buon  Dio  ha  fatto. 
ANNE  VERCORS  -  Sia  lode  a  Dio  che  m'ha  colmato  dei  suoi  beni! 

Fanno  ora  trent'anni  dacché  possiedo  questo  feudo  di 
mio  padre  e  dacché  Dio  fa  piovere  sui  miei  solchi. 

E  da  dieci  anni  non  c'è  un'ora  del  mio  lavoro 
Ch'egli  non  abbia  pagata  quattro  volte  e  un'altra  an- 
cora, 

Come  se  egli  non  volesse  lasciare  nulla  in  sospeso  fra 
me  e  Lui,  ma  regolare  tutti  i  conti. 

Tutto  perisce  e  io  sono  risparmiato. 
Cosicché  io  comparirò  davanti  a  Lui  vuoto  e  senza 
merito,  fra  quelli  che  hanno  ricevuto  la  loro  ricompensa. 
LA  MADRE  -  È  abbastanza,  un  cuore  riconoscente. 
ANNE  VERCORS  -  Ma  io  non  sono  sazio  dei  suoi  beni. 


l'annunzio  a  maria  181 

E  perche  ho  ricevuto  questi,  dovrei  lasciare  ad  altri 
quelli  più  grandi? 

LA  MADRE  -  Noil  ti  CapisCO. 

ANNE  VERCORS  -  Chi  riceve  di  più,  il  vaso  pieno  o  quello  vuoto? 

£  chi  ha  bisogno  di  maggior  copia  d'acqua,  la  cister- 
na o  la  sorgente? 
LA  MADRE  -  La  nostra  è  quasi  inaridita,  con  un'estate  cosi  calda. 
ANNE  VERCORS  -  Tale  è  il  male  del  mondo  che  ognuno  ha  voluto  go- 
dersi i  suoi  beni,  come  se  fossero  stati  creati  per  lui. 
LA  MADRE  -  Tu  hai  un  dovere  da  compiere  verso  di  noi. 
ANNE  VERCORS  -  No,  se  tu  me  ne  sciogli. 
LA  MADRE  -  lo  non  te  ne  scioglierò. 
ANNE  VERCORS  -  Tu  vedì  che  la  parte  che  mi  spettava  è  stata  fatta. 

Le  due  ragazze  sono  grandi,  Giacomo  sta  per  pren- 
dere il  mio  posto. 
LA  MADRE  -  Chi  ti  chiama  lontano  da  noi? 
ANNE  VERCORS  (sorridendo)  -  Un  angelo  che  suona  la  tromba. 
LA  MADRE  -  Quale  tromba? 

ANNE  VERCORS  -  La  tromba  senza  suono  che  tutti  sentono. 
LA  MADRE  -  Gerusalemme  è  cosf  lontana! 
ANNE  VERCORS  -  Il  Paradiso  lo  è  ancor  di  più. 
LA  MADRE  -  Dio  nel  tabernacolo  è  con  noi  anche  qui. 
ANNE  VERCORS  -  Ma  non  quella  gran  buca  nella  terra! 
LA  MADRE  -  Quale  buca? 
ANNE  VERCORS  -  Quclla  fatta  dalla  Croce  quando  vi  fu  confitta. 

Eccola  attirare  tutto  a  sé. 

Là  è  il  punto  che  non  può  essere  disfatto,  il  nodo  che 
non  può  essere  disciolto. 
LA  MADRE  -  Che  può  UD  solo  pellegrino? 
ANNE  VERCORS  -  Non  sono  solo! 

Eccoli  tutti  in  cammino  con  me;  tutte  queste  anime, 
alcune  che  mi  spingono  e  altre  che  mi  trascinano  e  altre  che  mi 
tengono  la  mano. 
LA  MADRE  -  Chi  sa  se  non  avremo  bisogno  di  te,  qui? 
ANNE  VERCORS  -  Chi  sa  se  non  vi  è  bisogno  di  me  altrove? 

Tutto  è  in  movimento,  chi  sa  se  non  turbo  l'ordine 
di  Dio  restando  a  questo  posto 

Dove  il  bisogno  che  c'era  di  me  è  cessato? 
LA  MADRE  -  So  che  Sei  un  uomo  inflessibile. 
ANNE  VERCORS  {teneramente,  cambiando  tono  di  voce)  -  Tu  sei  sempre 


182  PAUL   CLAUDEL 

giovane  e  bella  per  me  e  Tamore  che  provo  per  la  mia  dolce  Eli- 
sabetta dai  capelli  neri  è  grande. 

LA  MADRE  -  I  miei  Capelli  sono  grìgi! 

ANNE  VERCORS  -  Di'  di  sC,  Elisabetta... 

LA  MADKE  -  Annc,  tu  non  m'hai  lasciata  durante  questi  trent'anni.  Che 
diverrò  io  senza  il  mio  capo  e  il  mio  compagno? 

ANNE  VERCORS  -  ...  il  SI  che  ci  divide,  in  quest'ora,  a  bassa  voce, 

Pieno  come  quello  che  ha  fatto  di  noi  un  tempo  un 
solo  essere. 

{silenzio) 

LA  MADRE  {a  bossa  voce)  -  Si,  Anne. 

ANNE  VERCORS  -  Pazienza,  Zabiletta!  Presto  sarò  di  ritorno. 

Non  puoi  avere  fede  in  me  per  un  po'  di  tempo, 
senza  che  io  sia  qui? 

Presto  verrà  un'altra  separazione. 
—  Suvvia,  mettimi  nella  sacca  il  cibo  per  due  giorni. 
Devo  partire. 
LA  MADRE  -  Ma  comel  oggi,  oggi  stesso? 
ANNE  VERCORS  -  Oggi  stesso.  Addio,  Elisabetta! 

{le  mette  la  mano  sulla  testa.  La  Madre  gli  prende  la  mano  e  la  bacia) 

ANNE  VERCORS  -  Ebbene,  vado  a  dire  alle  nostre  genti  di  venire,  gli 
uomini,  le  donne,  i  bambini;  vado  a  suonare  la  campana.  Bisogna 
che  tutti  siano  qui,  ho  qualcosa  da  annunziare. 

{esce) 


SCENA   SECONDA 

Durante  questa  scena  si  sente  sonare  la  campana  che  convoca  tutti  alla  fattoria. 
Entra  mara. 

MARA  {alla  Madre)  -  Va'  e  dille  che  non  lo  sposi. 

LA  MADRE  -  Mara!  come,  tu  eri  li? 

MARA  -  Vattene,  ti  dico,  a  dirle  che  non  lo  sposi! 

LA  MADRE  -  Chi,  lei?  Chi,  lui?  Che  ne  sai  tu,  se  non  la  sposa? 

MARA  -  Ero  li,  ho  sentito  tutto. 

LA  MADRE  -  Ebbene,  figlia  mia!  È  tuo  padre  che  lo  vuole. 

Hai  visto  che  ho  fatto  quello  che  ho  potuto  e  non  si  riesce 
a  fargli  cambiare  idea. 


l'annunzio  a  maria  183 

MARA  -  Vai  a  dirle  che  non  lo  sposi  o  mi  ammazzo! 

LA  MADRE  -  Mara! 

MARA  -  M'impiccherò  nella  legnaia, 

Là  dove  è  stato  trovato  il  gatto  impiccato. 
LA  MADRE  -  Mara!  cattiva! 
MARA  -  Ecco  che  ancora  lei  viene  a  prendermelo! 

Eccola  che  viene  a  prendermelo  proprio  ora!  Sono  io 
Che  dovevo  da  sempre  essere  sua  moglie,  non  lei.    . 
Lei  sa  benissimo  che  sono  io. 
LA  MADRE  -  Lei  è  la  maggiore. 
MARA  -  E  che  cosa  importa  questo? 
LA  MADRE  -  È  tuo  padre  che  lo  vuole. 
MARA  -  Non  m'interessa. 
LA  MADRE  -  Giacomo  Hury 

L'ama. 
MARA  -  Non  è  vero!  So  bene  che  voi  non  mi  amate! 

L'avete  sempre  preferita!  Oh!  quando  parlate  della  vostra  Vio- 
laine,  è  tutto  zucchero, 

È  come  ima  ciliegia  che  si  succhia,  nel  momento  in  cui  si  spu- 
ta il  nocciolo! 

Mara  invece  la  irrita!  È  dura  come  il  ferro  e  aspra  come  la 
marasca. 

E  per  di  più,  è  cosi  bella,  la  vostra  Violaine! 
Ed  ecco  che  ora  avrà  Combernon! 

Che  cosa  sa  fare,  la  bietolona?  Chi  è  fra  noi  due  che  fa  andare 
avanti  la  carretta? 

Lei  si  crede  la  santa  Undicimilavergini!  Ma  io,  io  sono  Mara 
Vercors  che  non  ama  l'ingiustizia  e  darla  a  bere, 

Mara  che  dice  la  verità  ed  è  questo  che  fa  andare  la  gente  in 
collera! 

Che  provino  un  po'!  Io  gli  faccio  le  fiche.  Non  c'è  una  di 
queste  donne  che  si  muova  davanti  a  me,  le  sciocche!  Tutto  va 
come  in  un  mulino. 

—  Ed  ecco  che  tutto  è  per  lei  e  niente  per  me. 
LA  MADRE  -  Tu  avrai  la  tua  parte. 
MARA  -  Sicuro!  I  ciottoli  di  lassù!  Dei  pantani  che  a  lavorarli  ci  vo- 

glion  cinque  bestie!  Le  cattive  terre  di  Chinchy. 
LA  MADRE  -  Ma  rcndono  bene  lo  stesso. 
MARA  -  Certo. 

E)ella  gramigna  e  delle  codedivolpe,  della  senna  e  del  verbasco! 


184  PAUL   CLAUDEL 

Avrò  di  che  farmi  delle  tisane. 
LA  MADRE  -  Sai  bene  che  non  è  vero! 

Sai  bene  che  non  ti  si  fa  torto  in  nulla! 

Ma  sei  tu  che  sei  stata  sempre  cattiva.  Quando  eri  piccola. 

Non  gridavi  quando  ti  si  picchiava, 

Di',  neraccia,  cattiva! 

Forse  che  lei  non  è  la  maggiore?  Che  cos'hai  da  rimpro- 
verarle, 

Gelosa!  Ma  lei  fa  sempre  quello  che  tu  vuoi. 

Ebbene!  lei  si  mariterà  per  prima  e  tu  ti  mariterai,  anche 
tu,  dopo! 

E  del  resto  è  troppo  tardi,  perché  il  padre  se  ne  va,  oh! 
come  sono  triste! 

È  andato  a  parlare  a  Violaine  e  poi  andrà  a  cercare  Gia- 
como. 
MARA  -  È  vero.  Va*  subito!  Vattene  subito! 

LA  MADRE  -  E  dove? 

MARA  -  Madre,  via...  Tu  sai  bene  che  son  io... 

Dille  che  non  lo  sposi,  mamma! 
LA  MADRE  -  Non  lo  farò  certamente. 

MARA  -  Ripetile  soltanto  quello  che  t'ho  detto.  Dille  che  mi  ammaz- 
zerò. Mi  hai  ben  capita? 

{la  guarda  fisso) 

LA  MADRE  -  Ah! 

MARA  -  Credi  forse  che  non  lo  farò? 
LA  MADRE  -  Si,  SI,  mio  Dio! 
MARA  -  E  va'  allora! 

LA   MADRE   -   O 

Testa! 
MARA  -  Tu  non  c'entri  affatto. 

Ripetile  solamente  quel  che  ho  detto. 
LA  MADRE  -  E  lui,  che  Sai  tu  se  lui  ti  vorrà  sposare? 
MARA  -  Certamente  non  vorrà. 
LA  MADRE  -  E  allora... 
MARA  -  E  allora? 

LA  MADRE  -  NoD  credcre  che  io  le  consigli  di  fare  quello  che  vuoi  tu! 
Al  contrario! 

Ripeterò  solamente  quello  che  hai  detto.  Certo 
Che  non  sarà  cosi  sciocca  da  cedere  davanti  a  te,  se  mi 
crede. 

(esce) 


l'annunzio  a  maria  185 


SCENA   TERZA 

Entrano  anxe  vercors  e  Giacomo  hury.  Quest'ultimo  spinge  davanti  a  sé  un 
uomo  dall'aspetto  spiacevole,  con  le  mani  legate  dietro  la  schiena.  È  seguito  da 
due  servitori,  uno  dei  quali  porta  un  fascio  di  legna  verde,  mentre  l'altro, 
dietro  di  lui.  tiene  un  cane  al  guinzaglio. 

ANNE  VERCORS  (fermandosi)  -  Eh!  che  cosa  mi  vai  raccontando? 
GIACOMO  HURY  -  Tale  e  quale  come  vi  dico!  Questa  volta  Tho  colto  sul 
fatto,  con  la  roncola  in  mano! 

Io  gli  camminavo  dietro  piano  piano  e  tutt'a  un  tratto 
Flac!  mi  son  gettato  su  di  lui  con  tutto  il  mio  corpo, 
A  tutta  forza,  come  ci  si  getta  su  una  lepre  nel  covo 
al  tempo  della  mietitura. 

E  venti  giovani  pioppi  in  fascio  accanto  a  lui,  quelli 
che  vi  stavano  tanto  a  cuore! 
ANNE  vERcx>RS  -  Perché  non  era  venuto  da  me?  Gli  avrei  dato  il  legno 

che  ci  vuole. 
GIACOMO  HURY  -  Il  legno  che  gli  ci  vuole  è  quello  della  mia  frusta! 
Non  è  il  bisogno,  è  la  malvagità,  è  il  gusto  di  fare 
il  male! 

Sono  quei  brutti  tipi  di  Chevoche,  sempre  pronti  a 
fare  non  importa  che  cosa 

Per  bravata,  per  sfidare  la  gente! 
Ma  a  questo  qui,  gli  tagliere  le  orecchie  con  il  mio 
coltelluccio. 

ANNE  VERCORS  -  No. 

GIACOMO  HURY  -  Lasciatemelo  legare  all'erpice  per  i  polsi  davanti  alla 

Grande  Porta. 

Con  il  viso  voltato  contro  i  denti  dell'erpice,  con  il 

cane  Faraud  a  fargli  la  guardia. 
ANNE  VERCORS  -  Neppure  questo. 
GIACOMO  HURY  -  Che  cosa  dunque  bisogna  fare? 
ANNE  VERCORS  -  Rimandarlo  a  casa  sua. 
GIACOMO  HURY  -  Con  il  SUO  carico? 

ANNE  VERCORS  -  E  con  un  altro  che  tu  gli  darai.  Va'  a  prenderlo  presto. 
GIACOMO  HURY  -  Padre,  cosi  non  va  bene. 


186  PAUL   CLAUDEL 

ANNE  VERCORS  (strìzzando  rocchio)  '  Potrai  legarlo  in  mezzo  alla  sua 

legna,  perché  non  la  perda. 

Ciò  l'aiuterà  a  passare  il  guado  di  Saponay. 
GIACOMO  HURY  (scoppiando  a  ridere)  -  Ah,  padrone  nostro!  non  ci  siete 

che  voi  per  avere  delle  idee  come  questa! 

{si  legano  i  carichi  sulla  schiena  e  sul  petto  dell'uomo.  Corteo  comico. 
Un  servitore  apre  la  marcia  fingendo  di  suonare  la  tromba.  Gli  al- 
tri seguono.  Il  cane  salta  e  abbaia) 

ANNE  VERCORS  -  Ecco,  ho  amministrato  la  giustizia. 

GIACOMO  HURY  -  E  bene,  padrone  nostro! 

ANNE  VERCORS  -  Sei  tu,  Giacomo,  che  ora  dovrai  amministrarla  al  mio 

posto. 
GIACOMO  HURY  -  Che  cosa  dite? 
ANNE  VERCORS  -  Sei  tu  Giacomo  che  ora  dovrai  amministrarla  al  mio 

posto.  Sei  tu  quello  che  ho  scelto.  Sei  tu  ch'io  metto  a  Combernon 

al  mio  posto. 
GIACOMO  HURY  -  Che  cosa  dice,  voi  sentite.  Madre?  Che  cosa  dice?  che 

cosa  dice? 
LA  MADRE  {gridando  con  tutte  le  sue  forze)  -  Se  ne  va  in  Palestina  a 

Gerusalemme. 
GIACOMO  HURY  -  Gerusalemme? 
ANNE  VERCORS  -  È  vcro.  E  parto  immediatamente. 
GIACOMO  HURY  -  Parto?  Gerusalemme?  Cosa  vuol  dir  questo? 
ANNE  VERCORS  -  Hai  capito  benissimo. 

GIACOMO  HURY  -  E  COSI,  tutt'a  un  tratto,  nel  colmo  del  lavoro,  ci  la- 
sciate? 
ANNE  VERCORS  -  Non  sono  necessari  due  capi  a  Combernon. 
GIACOMO  HURY  -  Padre  mio,  io  non  sono  che  vostro  figlio. 
ANNE  VERCORS  -  Sei  tu  che  sarai  il  padre,  qui,  al  posto  mio. 
GIACOMO  HURY  -  Non  vi  capisco. 
ANNE  VERCORS  -  lo  me  ne  vado.  Abbi  Combernon  al  posto  mio. 

Come  io  l'ho  da  mio  padre,  e  questi  dal  suo, 

E  Radolfo  il  Franco,  primo  della  nostra  stirpe,  da  San  Remigio  di 

Reims, 

Che  a  sua  volta  da  Genoveffa  di  Parigi 

Ebbe  questa  terra  allora  pagana  tutta  orrida  di  cattivi  alberi  e  di 

spine  avvelenate. 

Cosi  questa  terra  è  libera  che  a  noi  viene  da  San  Remigio  che  è  in 

cielo,  pagando  decima  lassò  come  cimiero  al  volo 

un  istante  qui  posato  di  colombe  gementi. 


l'annunzio  a  maria  187 

Le  bestie  qui  non  sono  mai  malate,  le  poppe,  i  pozzi 
non  inaridiscono  mai,  il  grano  è  duro  come  oro,  la  paglia  rigida 
come  ferro. 

E  contro  i  predoni  abbiamo  armi,  e  le  mura  di  Com- 
bernon  e  il  Re,  nostro  vicino. 

Raccogli  questa  messe  che  ho  seminato,  come  io  stes- 
so un  tempo  ho  ribattuto  la  zolla  sul  solco  che  mio  padre  aveva 
tracciato. 

O  buon  lavoro  dell'agricoltore,  dove  il  sole  è  come 
il  nostro  bove  lucente  e  la  pioggia  il  nostro  banchiere,  e  Dio  tutti 
i  giorni  nella  fatica  è  il  nostro  compagno,  operando  fra  tutti  me- 
glio di  tutti  I 

Gli  altri  attendono  il  loro  bene  dagli  uomini  ma  noi 
lo  riceviamo  direttamente  dal  cielo. 

Cento  per  uno,  la  spiga  per  un  granello,  e  l'albero 
per  un  seme. 

Che  tale  è  la  giustizia  di  Dio  verso  di  noi,  e  la  mi- 
sura con  la  quale  egli  ci  ripaga. 

Tieni  la  stiva  dell'aratro  in  vece  mia,  libera  la  terra 
di  quel  pane  che  Dio  stesso  ha  desiderato. 

Offrì  da  mangiare  a  tutte  le  creature,  agli  uomini  e 
agli  animali,  e  agli  spinti  e  ai  corpi,  e  alle  anime  immortali. 

Voialtre,  donne,  servi,  guardate!  Ecco  il  figlio  che  ho 
scelto,  Giacomo  Hury. 

Io  me  ne  vado  e  lui  resta  al  mio  posto.  Prestategli 
obbedienza. 
GIACOMO  HURY  -  Che  sia  fatto  secondo  la  vostra  volontà. 
ANNE  vERooRs  -  Violaine! 

Figlia  mia  nata  per  prima  al  posto  di  quel  figlio  che 
non  ho  avuto! 

Erede  del  mio  nome,  in  cui  sto  per  essere  dato  ad 
un  altro! 

Violaine,  quando  tu  avrai  un  marito,  non  disprezzare 
l'amore  di  tuo  padre 

Che  non  puoi  rendere  al  padre  quel  ch'egli  t'ha  do- 
nato, anche  se  tu  lo  volessi. 

Tutto  è  uguale  fra  gli  sposi,  quel  ch'essi  ignorano, 
lo  accettano  l'uno  dall'altro  nella  fede. 

Ecco  il  mutuo  dovere,  ecco  il  vincolo  grazie  al  quale 
il  seno  della  donna  si  gonfia  di  latte! 


188  PAUL    CLAUDEL 

Ma  il  padre  vede  i  suoi  figli  fuori  di  lui  e  conosce 
quel  ch'era  in  lui  deposto.  Conosci,  figlia  mia,  tuo  padre! 
L'amore  del  Padre 

Non  domanda  contraccambio  e  il  figlio  non  ha  biso- 
gno di  guadagnarlo  o  meritarlo; 

Come  era  con  lui  prima  del  principio,  egli  resta 
Il  suo  bene  e  la  sua  eredità,  il  suo  rifugio,  il  suo 
onore,  il  suo  tìtolo,  la  sua  giustificazione! 

La  mia  anima  non  si  separa  affatto  da  quell'anima 
che  io  ho  trasmesso. 

—  E  adesso  l'ora,  l'ora,  l'ora  è  venuta  per  noi  di  se- 
pararci. 
vioLAiNE  -  Padre!  non  dite  questa  cosa  crudele! 
ANNE  VERCORS  -  Giacomo,  tu  sei  l'uomo  che  io  amo.  Prendila.  Io  ti  do 
mia  figlia  Violaine.  Toglile  il  mio  nome. 

Amala:  essa  e  pura  come  l'oro. 
Tutti  i  giorni  della  tua  vita,  come  il  pane  di  cui  non 
ci  si  sazia. 

Essa  è  semplice  ed  obbediente,  e  sensibile  e  riservata. 
Non  le  arrecare  dispiacere  e  trattala  con  bontà. 
Tutto  qui  è  tuo,  eccetto  la  parte  che  sarà  data  a  Ma- 
ra, secondo  quanto  ho  stabilito. 
GIACOMO  HURY  -  E  che,  padre  mio,  vostra  figlia,  il  vostro  bene... 
ANNE  VERCORS  -  lo  te  li  dono  tutti  insieme,  come  son  miei. 
GIACOMO  HURY  -  Ma  chi  sa  se  lei  mi  vuole  ancora? 
ANNE  VERCORS  -  Chi  lo  sa? 

(ella  guarda  Giacomo  e  fa  si  senza  dire  niente  con  la  bocca) 

GIACOMO  HURY  -  Voi  mi  volctc,  Violaine? 
VIOLAINE  -  È  il  padre  che  lo  vuole. 
GIACOMO  HURY  -  Ma  anche  voi  volete? 
VIOLAINE  -  Anche  io  voglio. 
GIACOMO  HURY  -  Violaine! 

Come  dovrò  comportarmi  con  voi? 
VIOLAINE  -  Pensateci  finché  siete  ancora  in  tempo! 
GIACOMO  HURY  -  Allora  io  vi  prendo  in  nome  di  Dio  e  non  vi  lascio 
più! 

(la  prende  con  le  due  mani) 

Vi  tengo  per  davvero,  la  vostra  mano  e  con  essa  il  braccio  e  tutto 
ciò  che  al  braccio  si  accompagna. 


l'annunzio  a  maria  189 

Genitori!  vostra  figlia  non  vi  appartiene  più!  è  mia 
soltanto! 
ANNE  VERcoRs  -  Ebbene;  essi  sono  sposati,  è  fatto.  Che  dici,  madre? 
LA  MADRE  -  Sono  bcn  felice! 

(piange) 

ANNE  VERCORS  -  Piange,  la  donna! 

Va*,  ecco  che  ci  prendono  i  figli  e  noi  resteremo  soli. 

La  vecchia  donna  che  si  nutre  d'un  po'  di  latte  e  d'un 
pezzetto  di  focaccia, 

E  il  vecchio  dalle  orecchie  piene  di  peli  bianchi  co- 
me un  cuore  di  carciofo. 

—  Che  si  prepari  il  vestito  nuziale! 

—  Figliuoli,  io  non  assisterò  al  vostro  matrimonio. 
vioLAiNE  -  Come,  padre! 

LA  MADRE  -  Anne! 

ANNE  VERCORS  -  Parto.  Adesso. 

VIOLAINE  -  O  padre,  come  mai!  prima  che  noi  siamo  sposati? 

ANNE  VERCORS  -  È  necessario.  Tua  madre  ti  spiegherà  tutto. 

LA  MADRE  -  Quanto  tempo  resterai  laggiù? 

ANNE  VERCORS  -  Non  SQ.  Poco,  forse.  Presto  sarò  di  ritorno. 

(pausa) 

VOCE  DI  RAGAZZO  IN  LONTANANZA  -  Compare  rigogolo 

Che  mangia  le  marasche  e  lascia  il  nocciolo! 
ANNE  VERCORS  -  Il  rigogolo  Canta  tra  le  fronde  dell'albero  rosa  e  do- 
rato! 

Che  cosa  dice?  Che  la  pioggia  di  questa  notte  è  stata 
come  oro  per  la  terra 

Dopo  questi  lunghi  giorni  di  calura.  Che  cosa  dice? 
Dice  che  è  bene  arare  i  campi. 

Che  cosa  dice  ancora?  Che  il  tempo  è  bello,  che  Dio 
è  grande,  che  ancora  mancano  due  ore  a  mezzogiorno. 

Che  cosa  dice  ancora,  l'uccellino? 

Che  è  tempo  che  il  vecchio  se  ne  vada 

Altrove  e  lasci  il  mondo  alle  sue  occupazioni. 

—  Giacomo,  ti  lascio  i  miei  beni,  proteggi  queste 
donne. 

GIACOMO  HURY  -  Come?  Voi  partite? 


190  PAUL   CLAUDEL 

A2WE  VERCORS  -  Crcdo  chc  non  abbia  capito  niente. 
GIACOMO  HURY  -  Cosi,  tutt*a  un  tratto? 

ANNE  VERCORS  -  È  l'oia. 

LA  MADRE  -  Tc  nc  Val  piìma  di  aver  mangiato? 

(frattanto  le  serve  hanno  fre parato  la  tavola  grande  per  il  pranzo  della 
fattoria) 

ANNE  VERCORS  (a  Una  serva)  -  Suvvia,  la  mia  sacca,  il  mio  cappello. 
Portami  anche  le  scarpe,  porta  il  mantello. 
Non  ho  tempo  di  prendere  questo  pasto  con  voi. 
LA  MADRE  -  Anne,  quanto  tempo  resterai  laggiù!  Un  anno,  due  anni? 

Piò  di  due  anni? 
ANNE  VERCORS  -  Un  auno,  due  anni.  Sì,  proprio  cosi. 
Per  la  prima  volta  io  ti  lascio,  o  casa! 
Combernon,  alta  dimora! 
Vigila  bene  su  tutti!  Giacomo 
Prenderà  qui  il  mio  posto. 

Ecco  il  camino  ov'è  sempre  il  fuoco,  ecco  la  grande 
tavola  dove  do  da  mangiare  alla  mia  gente. 

Prendete  tutti  posto!  Per  l'ultima  volta  vi  distribuirò 
il  pane. 

(si  siede  a  un  capo  della  lunga  tavola  avendo  la  Madre  alla  sua  destra. 
I  servi  e  le  serve  sono  in  piedi,  ciascuno  al  proprio  posto.  Egli  pren- 
de il  pane,  vi  fa  un  segno  di  croce  con  il  coltello,  lo  taglia  e  lo 
fa  distribuire  da  mara  e  da  Violaine.  Tiene  per  sé  l'ultimo  pezzo. 
Poi  si  volta  con  solennità  verso  la  Madre  e  apre  le  braccia) 

Addio,  Elisabetta! 
LA  MADRE  (piangendo,  fra  le  sue  braccia)  -  Non  mi  rivedrai  più. 
ANNE  VERCORS  (a  vocc  piu  bassa)  -  Addio,  Elisabetta. 

(si  volta  verso  Mara  e  la  guarda  a  lungo  e  gravemente,  poi  le  tende  la 
mano) 

Addio,  Mara!  sii  buona. 
MARA  (baciandogli  la  mano)  -  Addio,  padre! 

(silenzio.  Anne  Vercors  sta  in  piedi,  guardando  davanti  a  sé,  come  se 
non  vedesse  Violaine  che  gli  sta,  tutta  turbata,  a  fianco.  Infine  si 
volta  un  po'  verso  di  lei  e  lei  gli  getta  le  braccia  al  collo,  piangendo 


l'annunzio  a  maria  191 

con  il  viso  contro  il  suo  petto,  Anne  Vercors,  come  se  non  se  ne 
accorgesse,  ai  servitori) 

A  voi  tutti,  addio! 

Sono  sempre  stato  giusto  con  voi.  Se  qualcuno  dice 
il  contrario,  mente. 

Io  non  sono  come  gli  altri  padroni.  Ma  approvo  quan- 
do è  giusto  e  rimprovero  quand'è  necessario. 

Ora  che  me  ne  vado,  fate  come  se  io  fossi  qui. 

Perché  tornerò.  Tornerò  quando  voi  non  mi  aspettate. 

{dà  a  tutti  la  mano) 

Che  si  porti  il  mio  cavallo! 

{silenzio.  Piegandosi  verso  Violaine  che  lo  tiene  sempre  abbracciato) 

Che  c'è,  bambina? 

Tu  hai  un  marito  al  posto  di  tuo  padre. 
violaine  -  Ahimé!  padre!  ahimé! 

{egli  le  scioglie  dolcemente  le  mani) 

LA  MADRE  -  Di'  quaudo  ritornerai. 

ANNE  VERCX)RS    -   Non   pOSSO  dirfo. 

Forse  una  mattina,  forse  a  mezzogiorno  quando  si 
mangia 

E  forse  la  notte,  svegliandovi,  sentirete  il  mio  passo 
sulla  strada.  Addio. 

{esce.  Tutti  i  presenti  restano  come  impietriti,  Giacomo  Hury  prende 
la  mano  di  Violaine,  Si  sente  in  lontananza  il  cuculo  che  dice: 
«  mee-zo-di  mez-zo-di  lag-giù  lag-giù  ») 


ATTO    SECONDO 

Quindici  giorni  piti  tardi.  Primi  di  luglio.  Mezzogiorno.  Un  grande  verziere 
piantato  a  intervalli  regolari  d'alberi  tondeggianti.  Più  in  alto,  e  un  po'  in 
disparte,  la  cinta  e  le  torri,  e  le  lunghe  costruzioni  dea  tetti  di  tegole  di  Com- 
bernon.  Poi  il  fianco  della  collina  che  s'innalza.  E  dominante  in  alto  la  for- 
midabile arca  di  pietra  di  Pietro  di  Monsanvergine  senza  nessuna  apertura  con 


192  PAUL   CLAUDEL 


le  sue  cinque  torri  sul  tipo  della  cattedrale  di  Laon,  e,  nel  fianco,  la  grande 
cicatrice  bianca  della  breccia  per  la  qtude  è  entrata  la  Regina  Madre  di  Francia. 
Tutto  vibra  nel  sole. 


UNA  VOCE  DI  DONNA  NEL  CIELO  (dall'alto  della  più  alta  torre  di  Mon- 
sant/erginé)  - 

Salve  Regina  mater  misericordiae 
Vita  dtdcedo  et  spes  nostra  salve 
Ad  te  damamus  exides  jilii  Hevae 

Ad  te  suspiramus  gementes  et  flentes  in  hac  lacrymarum  valle. 
Eia  ergo  advocata  nostra  illos  tuos  misericordes  oculos  ad  nos  con- 

[converte 
Et  fesum  benedictum  fructum  ventris  tui  nobis  post  hoc  exilium 

[ostende 
O  clemens 
O  pia 
O  dtdcis  Virgo  Maria! 


Lunga  pausa  durante  la  quale  la  scena  resta  vuota. 


SCENA   PRIMA 

{entrano  la  madre  e  mara) 

MARA  -  Che  cosa  ha  detto? 

la  madre  -  Le  ho  parlato  della  cosa.  Tu  vedi  che  da  un  po'  di  giorni 

ha  perduto  la  sua  gaiezza. 
MARA  -  Lei  non  parla  mai  molto. 
LA  MADRE  -  Ma  Don  fide  più.  Questo  mi  addolora. 

Forse  è  perché  Giacomino  non  è  qui,  ma  ritorna  oggi. 

—  E  anche  il  padre  e  partito. 
MARA  -  È  tutto  quello  che  le  hai  detto? 

LA  MADRE  -  È  quello  che  le  ho  detto,  e  il  resto,  senza  cambiare  nulla, 
come  me  l'hai  fatto  ripetere  tu: 

Giacomino  e  te:  che  tu  l'ami,  e  tutto, 

E  che  questa  volta  non  bisogna  essere  stupidi  e  lasciarsi 
imporre,  questo  l'ho  aggiunto  e  ripetuto  due  e  tre  volte; 


l'annunzio  a  maria  193 

E  rompere  il  matrimonio,  che  è  come  fatto,  contro  la  vo- 
lontà del  padre. 

E  la  gente,  dunque,  che  cosa  penserebbe? 
MARA  -  E  lei  cos'ha  risposto? 

LA  MADRE  -  Lei  s'è  messa  a  ridere  e  io,  io  mi  son  messa  a  piangere. 
MARA  -  La  farò  ridere  io! 

LA  MADRE  -  Non  è  il  riso  che  mi  piace  della  mia  bambina  e  anch'io 
mi  son  messa  a  piangere. 

E  dicevo:  «  No,  no,  Violaine,  figlia  mia!  ». 
Ma  lei  con  la  mano  senza  parlare  mi  ha  fatto  segno  che 
voleva  restare  sola. 

Oh!  quanta  pena  si  ha  con  i  figli! 
MARA  -  Zitta! 
LA  MADRE  -  Che  cosa  c'è? 

Mi  rincresce  quel  che  ho  fatto. 
MARA  -  Bene!  La  vedi  là  in  fondo  al  chiuso?  Cammina  dietro  agli  al- 
beri. Non  la  si  vede  più. 

{silenzio.  Si  ode  dietro  la  scena  un  suono  di  corno) 

LA  MADRE  -  Ecco  Giacomino  che  ritorna.  Riconosco  il  suono  del  suo 

corno. 
MARA  -  Andiamo  via. 

(escono) 


SCENA   SECONDA 

{entra  Giacomo  hury) 

GIACOMO  HURY  {guarda  intorno  a  sé)  -  Non  la  vedo. 
Eppure  mi  aveva  fatto  dire 
Che  voleva  vedermi  questa  mattina  stessa 
Qui. 

{entra  mara.  Si  dirige  verso  Giacomo  e  a  sei  passi  di  distanza  gli  fa 
una  cerimoniosa  riverenza) 

GIACOMO  HURY  -  Buongiomo,  Mara! 
MARA  -  Monsignore,  son  serva  vostra! 


13.  -   Teatro  francese 


194  PAUL   CLAUDEL 

GIACOMO  HUKY  -  Chc  cosa  SODO  qucstc  smorfie  r 

UARA  -  Non  vi  òe\o  forse  rendere  omagpor  Non  siete  ve»  il  padrone 
dd  luogo,  dipendendo  62  Dio  solunco.  oxne  3  Re  di  Franda,  per 
l'appunto,  e  llmperatorc  CaHomagnor 
GiAomo  Hu»y  -  Scherzate  pure,  ma  questo  e  pur  tctoI  Su  Mara,  è 

bello!  Cara  sorella*  sono  troppo  felice* 
MAKA  '  Io  non  sono  la  vostra  «  cara  sorella  »'  Sono  la  vostra  serva  poi- 
ché bisogna  chc  sia  cosL 

Uomo  di  Braine!  Figlio  della  gleba!  io  non  sono  vostra  sorel- 
la, voi  non  siete  del  nostro  sangue! 
GiAOOMo  ifiTET  -  lo  sono  lo  sposo  di  Violai  ne. 
MAKA  -  Non  lo  siete  ancora. 
GIACOMO  HUKT  -  Lo  sarò  domani. 
MAKA  -  Chi  lo  sa? 
GIACOMO  HUKY  -  Mara,  d  ho  pensato  a  lungo 

E  credo  chc  avete  sognato  qudla  storia  che  mi  avete 
raccontato  l'altro  giorno. 
MAKA  -  Quale  storia? 
GIACOMO  HUKY  -  Non  fatc  la  meravigliata. 

Quella  storia  del  muratore,  qud  bacio  clandestino  sul 
far  dell'alba. 
MAKA  -  È  possibile.  Ho  visto  male.  Ho  buoni  occhi,  tuttavia. 
GIACOMO  HUKY  -  E  mlian  detto  in  gran  segreto  che  lui  è  lebbroso. 
MAKA  -  Io  non  vi  amo,  Giacomo. 

Ma  voi  avete  il  diritto  di  saper  tutto.  Bisogna  che  tutto  sia 
limpido  e  chiaro  a  Monsanvergine  chc  è  in  vista  di  tutto  il  Regno. 
GIACOMO  HUKY  -  Tutto  Sarà  chiarito  subito. 
MAKA  -  Voi  siete  fino  e  niente  vi  sfugge. 
GIACOMO  HUKY  -  Vcdo  per  lo  meno  che  voi  non  mi  amate. 
MAKA  -  Ah!  Ah!  Che  dicevo?  Che  dicevo? 
GIACOMO  HUKY  -  Noo  tutti  qui  la  pensano  come  voi. 
MAKA  -  Parlate  di  Violaine?   Arrossisco  per  quella  ragazzina. 
È  vergognoso  darsi  cosi, 

Anima,  carne,  cuore,  pelle,  il  fuori,  il  dentro,  e  la  radice. 
GIACOMO  HURY  -  So  chc  mi  appartiene  interamente. 
MARA  -  Si. 

Come  lo  dice  bene!  Come  e  sicuro  di  quello  chc  gli  appartiene! 
Tanghero  di  Braine! 

Solo  ci  appartiene  quel  che  si  è  fallo,  o  preso,  o  guadagnato. 


l'annunzio  a  maria  195 

GIACOMO  HURY  -  Ma  a  me,  Mara,  voi  mi  piacete  e  io  non  ho  niente 
contro  di  voi. 

MARA  -  Come  tutto  quello  che  è  qui,  senza  dubbio? 

GiA€x>Mo  HURY  -  Non  è  colpa  mia  se  non  siete  un  uomo  e  se  io  vi  pren- 
do i  vostri  benil 

MARA  -  Com'è  fiero  e  contento!  Guardatelo  che  non  può  trattenersi  dal 
rìderei 

Suvvia!  che  non  v'abbia  a  far  male!  ridete! 

(egli  ride) 

So  ben  leggere  nel  vostro  viso,  Giacomo. 
GIACOMO  HURY  -  Vi  secca  non  potermi  far  dispiacere. 
MARA  -  Come  l'altro  giorno,  mentre  il  padre  parlava. 

Ridevate  con  un  occhio  e  piangevate  senza  lacrime  con  l'altro. 
GiA€X>Mo  HURY  -  Non  sono  forse  padrone  di  un  bel  possedimento? 
MARA  -  E  il  padre  era  vecchio,  nevvero?  £  voi  sapete  una  o  due  cose 

più  di  lui? 
GiA€X>Mo  HURY  -  Ad  Ogni  uomo  la  sua  stagione. 
MARA  -  È  vero,  Giacomo,  siete  un  gran  bel  giovane. 

Ecco  che  diventa  tutto  rosso. 
GIACOMO  HURY  -  Non  mi  tormentate. 
MARA  -  E  tuttavia,  è  peccato! 
GIACOMO  HURY  -  Che  cos'è  che  è  peccato? 
MARA  -  Addio,  sposo  di  Violaine!  Addio,  padrone  di  Monsanvergine, 

ah,  ah! 
GIACOMO  HURY  -  Vi  farò  vedere  che  lo  sono. 

MARA  -  Prendete  i  modi  ed  il  carattere  di  qui,  allora,  tanghero  di 
Braine! 

Lui  crede  che  tutto  sia  suo,  come  un  contadino;  vi  si  farà  ve- 
dere il  contrario! 

Come  un  contadino  che  è  lui  solo  ciò  che  vi  è  di  più  alto  nel 
mezzo  del  suo  piccolo  campo  tutto  piatto! 

Ma  Monsanvergine  è  di  Dio  e  il  padrone  di  Monsanvergine 
è  l'uomo  di  Dio,  che  non  ha  nulla 

Di  suo,  avendo  tutto  ricevuto  per  un  altro. 
Questa  è  la  lezione  che  ci  viene  fatta  qui,  di  padre  in  figlio. 
Non  vi  è  posto  piti  altero  del  nostro. 

Prendete   i   modi  e   il   carattere   dei   vostri   padroni,   villano, 
villano! 

(falsa  uscita) 


196  PAUL   CLAUDEL 

Ah! 

Violaine  che  ho  incontrata,  m*ha  incaricato  di  un'ambasciata 
per  voi. 
GIACOMO  HURY  -  Pcrchc  noH  dirmelo  prima? 
MARA  -  Vi  aspetta  presso  la  fontana. 


SCENA    TERZA 

GIACOMO  HURY  -  O  mia  fidanzata  fra  i  rami  in  fiore,  salve! 
(violaine  è  fuori,  invisibile) 

Violaine,  come  siete  bella! 
violaine  -  Giacomo!  buongiorno,  Giacomo! 

Ah!  quanto  siete  restato  laggiù! 
GIACOMO  HURY  -  Dovevo  tutto  svincolarc  e  vendere,  rendermi  del  tut- 
to libero 

Per  essere  l'uomo  di  Monsanvergine  soltanto 

E  il  vostro. 

—  Che  cos'è  questo  meraviglioso  abito? 
VIOLAINE  -  L'ho  messo  per  voi.  Ve  ne  avevo  parlato.  Non  lo  ricono- 
scete? 

È  l'abito  delle  monache  di  clausura  di  Monsanvergine,  pres- 
s'a  poco,  eccetto  la  sola  manopola,  l'abito  che  portano  nel  coro, 

La  dalmatica  del  diacono  che  esse  hanno  il  privilegio  di 
portare,  qualche  cosa  del  sacerdote,  ostie  esse  stesse, 

E  che  le  donne  di  Combernon  hanno  il  diritto  di  mettere 
due  volte: 

La  prima  volta  il  giorno  del  fidanzamento, 

(entra) 

La  seconda  volta  il  giorno  della  morte. 
GIACOMO  HURY  -  È  dunque  vero,  e  il  giorno  del  nostro  fidanzamento, 

Violaine? 
VIOLAINE  -  Giacomo,  siamo  ancora  in  tempo,  ancora  non  siamo  sposati! 
Se  avete  voluto  soltanto  far  piacere  a  mio  padre,  potete 
ritirarvi  ancora,  è  di  noi  che  si  tratta.  Dite  una  parola  solamente: 
non  ve  ne  vorrò,  Giacomo. 

Che  non  ci  sono  ancora  promesse  fra  noi  due  e  io  non  so 
se  vi  piaccio  ancora. 


l'annunzio  a  maria  197 

GIACOMO  HURY  -  Comc  sictc  bclU,   Violainc!   e  come  è  bello  questo 

mondo  dove  siete  voi, 

La  parte  che  mi  era  stata  riservata! 
vioLAiNE  -  Siete  voi,  Giacomo,  quel  che  c'è  di  meglio  al  mondo. 
GiAcx)Mo  HURY  -  È  vero  che  voi  accettate  di  essere  mia? 
VIOLAINE  -  Si,  è  vero,  buongiorno,  mio  amato! 

Io  sonp  vostra. 
GIACOMO  HURY  -  Buougiomo  mio  sposa!  Buongiorno,  dolce  Violaine! 
VIOLAINE  -  Son  cose  dolci  a  udirsi,  Giacomo! 
GIACOMO  HURY  -  Nou  bisognerà  più  smettere  di  esser  qui!  Dite  che  non 

smetterete  mai  di  essere  la  stessa  e  l'angelo  che  mi  è  mandato! 
VIOLAINE  -  Sempre  quello  che  è  mio  non  cesserà  d'essere  vostro. 
GIACOMO  HURY  -  E  quauto  a  me,  Violaine... 
VIOLAINE  -  Non  dite  niente.  Non  vi  domando  niente.  Voi  siete  qui 

e  questo  mi  basta. 

Buongiorno,  Giacomo! 

Ah,  come  quest'ora  è  bella  e  io  non  ne  chiedo  altre. 
GIACOMO  HURY  -  Domani  sarà  ancora  più  bello. 
VIOLAINE  -  Domani  non  avrò  più  il  meraviglioso  vestito. 
GIACOMO  HURY  -  Ma  Sarete  cosi  vicina  a  me  che  io  non  vi  vedrò  più. 
VIOLAINE  -  Molto  vicina  a  voi,  davvero! 
GIACOMO  HURY  -  Ma  domani  davanti  a  tutti  prenderò  questa  Regina 

fra  le  mie  braccia. 
VIOLAINE  -  Prendila  e  non  la  lasciare  andar  via. 

Ah!  prendete  la  vostra  piccola  con  voi  che  non  la  si  trovi 

più  e  che  non  le  si  faccia  alcun  male! 
GIACOMO  HURY  -  E  voi  non  rimpiangerete  allora  il  lino  e  l'oro? 
VIOLAINE  -  Ho  avuto  torto  a  farmi  bella  per  una  povera  piccola  ora? 
GIACOMO  HURY  -  No,  mio  bel  giglio,  non  posso  stancarmi  di  contem- 
plarti in  tutta  la  tua  gloria. 
VIOLAINE  -  O  Giacomo!  dite  ancora  che  mi  trovate  bella! 
GIACOMO  HURY  -  SÌ,  Violaine! 
VIOLAINE  -  La  più  bella  di  tutte  le  donne  e  le  altre  non  sono  niente 

per  voi? 
GIACOMO  HURY  -  SÌ,  Violaiue! 
VIOLAINE  -  E  che  voi  mi  amate  unicamente  come  lo  sposo  più  tenero 

ama  il  povero  essere  che  si  è  dato  a  lui? 
GIACOMO  HURY  -  SÌ,  Violaine! 
VIOLAINE  -  Che  si  dà  a  lui  con  tutto  il  suo  cuore,  Giacomo,  credetelo,  e 

che  nulla  si  riserva. 
GIACOMO  HURY  -  E  voi,  Violaine,  non  mi  credete  dunque? 


198  PAUL   CLAUDEL 

vioLAiNE  -  Vi  credo,  vi  credo,  Giacomo I  Credo  in  voi!  Ho  fiducia  in 
voi,  mio  amato  1 

GIACOMO  HURY  -  Pcrché  dunque  quest'aria  di  inquietudine  e  di  spa- 
vento? 

Mostratemi  la  mano  sinistra. 

{ella  la  mostra) 

Il  mio  anello  non  c'è  pió« 
VIOLAINE  -  Vi  spiegherò  subito.  Sarete  soddisfatto. 
GIACOMO  HURY  -  Lo  sono,  Violaine.  Ho  fede  in  voi. 
VIOLAINE  -  Io  sono  piti  che  un  anello,  Giacomo.  Io  sono  un  grande 

tesoro. 
GIACOMO  HURY  -  Ecco  che  dubitate  ancora  di  me. 
VIOLAINE  -  Giacomo!  Dopo  tutto  non  faccio  niente  di  male  amandovi. 
È  la  volontà  di  Dio  e  di  mio  padre. 

Siete  voi  che  dovete  avere  cura  di  me!  £  chi  sa  se  voi  non 
saprete  ben  difendermi  e  preservarmi? 

Basta  che  io  mi  dia  a  voi  completamente.  E  il  resto  è  affare 
vostro,  e  non  più  mio. 
GIACOMO  HURY  -  Ed  è  cos(  che  vi  siete  data  a  me,  mio  fiore  di  sole? 
VIOLAINE  -  S{,  Giacomo. 

GIACOMO  HURY  -  Chi  dunque  potrà  togliervi  dalle  mie  braccia? 
VIOLAINE  -  Ah!  com'è  grande  il  mondo  e  come  noi  vi  siamo  soli! 
GIACOMO  HURY  -  Povera  bambina!  So  che  vostro  padre  è  partito. 

Ed  anch'io  non  ho  più  nessuno  con  me  a  dirmi  ciò  che 
bisogna  fare  e  ciò  che  è  bene  e  male. 

Bisognerà  che  voi  mi  aiutiate,  Violaine,  come  io  vi  amo. 
VIOLAINE  -  Mio  padre  mi  ha  abbandonata. 
GIACOMO  HURY  -  Ma  io,  Violainc,  io  vi  resto. 

VIOLAINE  -  Né  mia  madre  mi  vuol  bene,  né  mia  sorella,  benché  non 
abbia  fatto  loro  alcun  male. 

E  non  mi  resta  piò  che  questo  grande  terribile  uomo  che 
non  conosco. 

{egli  fa  il  gesto  di  prenderla  fra  le  braccia.  Ella  lo  respinge  pronta- 
mente) 

Non  mi  toccate,  Giacomo! 
GIACOMO  HURY  -  Sono  forse  un  lebbroso? 
VIOLAINE  -  Giacomo,  vi  voglio  parlare,  ah!  com'è  difficile! 

Non  mi  abbandonate,  non  ho  che  voi  solo! 
GIACOMO  HURY  -  Ma  chi  vi  vuol  male? 
VIOLAINE  -  Sappiate  bene  quel  che  fate  prendendomi  come  moglie! 


l'annunzio  a  maria  199 

Lasciate  che  vi  parli  in  piena  umiltà,  Giacomo  mio  Signore, 

Che  state  per  ricevere  la  mia  anima  ed  il  mio  corpo  affi- 
dativi dalla  mano  di  Dio  e  di  mio  padre  che  li  hanno  fatti 

E  considerate  la  dote  che  vi  porto,  che  non  è  quella  delle 
altre  donne, 

Ma  questa  santa  montagna  in  preghiera  giorno  e  notte  da- 
vanti a  Dio,  come  un  altare  sempre  fumante, 

E  questa  lampada  sempre  accesa  di  cui  è  nostro  compito 
alimentare  Tolio. 

E  testimone  non  è  al  nostro  sposalizio  alcun  uomo,  ma 
quel  Signore  del  quale  noi  teniamo  solo  il  feudo, 

Che  è  rOnnipotente,  il  Dio  degli  Eserciti. 

E  non  è  il  sole  di  luglio  che  ci  rischiara,  ma  la  luce  stessa 
del  Suo  Volto. 
GIACOMO  HURY  -  Violainc,  no,  io  non  sono  chierico,  né  monaco,  né 
santo. 

Non  sono  il  padre  guardiano  e  il  converso  di  Monsanver- 
gine. 

Ho  un  incarico  e  l'eseguirò 

Che  è  quello  di  nutrire  quegli  uccelli  mormoranti 

E  riempire  quel  paniere  che  fanno  calare  dal  cielo  ogni 
mattina. 

Cosi  è  scritto.  Cosi  sta  bene. 

Ho  ben  capito  questo  e  me  lo  son  messo  in  testa,  e  non 
bisogna  chiedermi  di  più. 

Non  bisogna  chiedermi  ciò  che  è  al  di  sopra  di  me  e  per- 
ché quelle  sante  donne  si  sono  murate  là  in  alto  in  quella  colombaia. 

Agli  esseri  celesti  il  cielo,  e  la  terra  ai  terrestri. 

Che  il  grano  non  cresce  da  solo  e  c'è  bisogno  di  un  buon 
lavoratore  per  quello  di  qui. 

E  per  questo  posso  dire  senza  vantarmi  che  io  lo  sono,  e 
nessuno  m'insegnerà  nulla,  nemmeno  vostro  padre,  forse. 

Che  egli  era  vecchio  e  attaccato  alle  sue  idee. 

A  ciascuno  il  suo  posto,  in  ciò  è  la  giustizia. 

E  vostro  padre  dandovi  a  me 

Insieme  a  Monsanvergine,  ha  saputo  quel  che  faceva  e  ciò 
era  giusto. 
vioLAiNE  -  Ma  io,  Giacomo,  io  non  vi  amo  perché  ciò  è  giusto! 

E  anche  se  non  lo  fosse,  vi  amerei  lo  stesso  e  di  più. 
GIACOMO  HURY  -  Non  vi  capìsco,  Violaine. 

VIOLAINE  -  Giacomo,  non  mi  costringete  a  parlare!  Voi  mi  amate  tan- 
to ed  io  non  posso  che  farvi  male. 


200  PAUL    CLAUDEL 

Lasciatemi!  Non  ci  può  essere  giustizia  fra  noi  due!  ma  la 
fede  solamente  e  la  carità.  Allontanatevi  da  me  quando  è  ancora 
possibile. 
GIACOMO  HURY  -  Non  capisco,  Violainc. 

vioLAiNE  -  Mio  diletto,  non  mi  costringete  a  dirvi  il  mio  grande  se- 
greto. 
GIACOMO  HURY  -  Un  grande  segreto,  Violaine? 

VIOLAINE  -  Cosi  grande  che  tutto  è  consumato  e  voi  non  mi  doman- 
derete più  di  sposarvi. 
GIACOMO  HURY  -  Non  vi  capisco. 

VIOLAINE  -  Non  sono  forse  abbastanza  bella  in  questo  momento,  Gia- 
como? Che  mi  domandate  di  più? 

Che  cosa  si  domanda  a  un  fiore 

Se  non  che  sia  bello  e  odoroso  per  un  attimo,  povero  fiore, 
e  poi  sarà  finito. 

Il  fiore  ha  breve  vita,  ma  la  gioia  che  ha  dato  per  un  attimo 
Non  è  di  quelle  cose  che  han  principio  e  fine. 
Non  sono  bella  abbastanza?  Manca  qualche  cosa? 
Ah!  io  vedo  i  tuoi  occhi,  mio  diletto!  C'è  forse  niente  in 
te  che  in  questo  momento  non  mi  ami  e  che  dubiti  di  me? 

Forse  che  la  mia  anima  non  basta?  Prendila,  io  sono  an- 
cora qui  e  aspirala  fino  alle  radici  perché  e  tua! 

Basta  un  momento  per  morire,  e  la  morte  stessa  Tuno  nel- 
l'altro 

Non  ci  annienterà  più  dell'amore,  e  c'è  forse  bisogno  di 
vivere  quando  si  è  morti? 

Che  cos'altro  vuoi  fare  di  me?  Fuggi,  allontanati!  Perché 
vuoi  sposarmi?  perché  vuoi  tu 

Prendere  per  te  quel  che  appartiene  a  Dio  solo? 
La  mano  di  Dio  è  su  me  e  tu  non  puoi  difendermi! 
O  Giacomo,  noi   non  saremo  marito  e  moglie  in  questo 
mondo! 
GIACOMO  HURY  -  Violaine,   che   voglion   dire   queste   parole   strane,   si 
tenere,  si  amare?  per  quali  sentieri  insidiosi  e  funesti  mi  conducete? 
Credo  che  vogliate  mettermi  alla  prova  e  prendervi 
giuoco  di  me  che  sono  un  uomo  semplice  e  rozzo. 

Ah,  Violaine,  come  siete  bella  cosi!  e  tuttavia  ho  pau- 
ra e  vi  vedo  in  questa  veste  che  mi  atterrisce! 

Che  non  è  l'abbigliamento  di  una  donna,  ma  la  veste 
del  Sacrificatore  all'altare, 


l'annunzio  a  maria  201 

Di  colui  che  assiste  il  sacerdote,  lasciando  il  fianco 
scoperto  e  le  braccia  libere' 

Ah!  lo  vedo,  è  lo  spirito  di  Monsanvcrgine  che  vive 
in  voi  e  il  fiore  supremo  al  di  fuori  di  quel  giardino  sigillato! 

Ah,  non  volgere  verso  di  me  quel  viso  che  non  è  più 
di  questo  mondo!  non  è  più  la  mia  cara  Violaine. 

Abbastanza  angeli  servon  la  messa  in  cielo! 
Abbiate  pietà  di  me  che  sono  un  uomo  senza  ali  e 
gioivo  di  questa  compagna  che  Dio  mi  aveva  data  e  che  io  avrei 
sentita  sospirare  con  la  testa  sulla  mia  spalla! 

Dolce  uccello!  il  cielo  è  bello,  ma  è  una  bella  cosa 
anche  Tesser  presi! 

E  il  cielo  è  bello!  ma  è  una  bella  cosa,  anche,  e  degna 
di  Dio  stesso,  un  cuore  d'uomo  che  si  riempie  senza  lasciarvi  alcun 
vuoto. 

Non  mi  dannate  con  la  privazione  del  vostro  viso! 
£  senza  dubbio  sono  un  uomo  senza  luce  e  senza 
bellezza 

Ma  io  vi  amo,  mio  angelo,  mia  regina,  mia  diletta! 
VIOLAINE  -  Cosi  vi  ho  inutilmente  avvertito  e  voi  volete  prendermi  in 

isposa  e  non  vi  lascerete  distogliere  dal  vostro  proposito? 
GIACOMO  HURY  -  Si,  Violainc. 
VIOLAINE  -  Chi  ha  preso  una  sposa  non  e  piti  con  lei  che  un'anima  e 

una  sola  carne  e  niente  li  separerà  più. 
GIACOMO  HURY  -  Si,  Violainc. 
VIOLAINE  -  Voi  lo  volete! 

Non  conviene  più  dunque  che  io  riservi  qualcosa  e  che 
conservi  per  me  più  oltre 

Il  grande,  l'ineffabile  segreto. 
GIACOMO  HURY  -  Ancora  questo  segreto,  Violaine? 
VIOLAINE  -  Cosi  grande,  Giacomo,  in  verità, 
Che  il  vostro  cuore  ne  sarà  saziato 
E  che  voi  non  mi  domanderete  più  nulla 
E  che  noi  non  saremo  più  strappati  l'uno  all'altra. 
Una  comunione  cosi  profonda 

Che  né  la  vita,  Giacomo,  né  l'inferno,  né  il  cielo  stesso 
La  faranno  più  cessare,  né  faranno  cessare  mai  questo 
Momento  in  cui  ve  l'ho  rivelato  nella 
Fornace  di  questo  terribile  sole  che  quasi  c'impedisce  di 
vederci  in  viso! 
GIACOMO  HURY  -  Parla,  dunque! 


202  PAUL   CLAUDEL 

vioLAiNE  -  Ma  ditemi  prima  ancora  una  volta  che  mi  amate. 

GIACOMO  HURY  -  Vi  amo! 

VIOLAINE  -  E  che  io  sono  la  vostra  signora  e  il  vostro  solo  amore? 

GIACOMO  HURY  -  Mia  signora,  mio  solo  amore. 

VIOLAINE  -  Conosci  dunque  il  fuoco  dal  quale  sono  divorata! 

Conoscila  dunque  questa  carne  che  hai  tanto  amata! 

Venite  più  vicino  a  me. 

{egli  si  avviano) 

Più  vicino!  piò  vicino  ancora!  proprio  contro  il  mio  fianco. 
Sedetevi  su  questo  banco. 

(silenzio) 

E  datemi  il  vostro  coltello. 

(egli  le  dà  il  coltello.  Ella  incide  la  stoffa  di  lino  su  un  fianco,  nel  po- 
sto che  è  sul  cuore  e  sotto  la  mammella  sinistra,  e,  (negata  su  lui, 
scostando  con  le  mani  i  lembi,  gli  mostra  la  carne  dove  appare  il 
primo  segno  della  lebbra.  Silenzio) 

GIACOMO  HURY  {distogliendo  un  poco  il  viso)  -  Datemi  il  coltello. 

Violaine,  non  mi  sono  sbagliato?  che  cos*è  questo  fiore 

d'argento  di  cui  la  vostra  carne  è  stemmata? 
VIOLAINE  -  Non  vi  siete  sbagliato. 
GIACOMO  HURY  -  È  il  male?  è  il  male,  Violaine? 
VIOLAINE  -  Si,  Giacomo. 
GIACOMO  HURY  -  La  lebbra! 
VIOLAINE  -  Certo  siete  difficile  da  convincere. 

E  vi  è  necessario  aver  visto  per  credere. 
GIACOMO  HURY  -  E  quale  lebbra  è  più  ripugnante, 

Quella  dell'anima  o  quella  del  corpo? 
VIOLAINE  -  Non  posso  dire  niente  dell'altra.  Non  conosco  se  non  quella 

del  corpo  che  è  un  male  assai  grande. 
GIACOMO  HURY  -  No,  tu  non  conosci  l'altra,  dannata? 
VIOLAINE  -  Io  non  sono  una  dannata. 
GIACOMO  HURY  -  Infame,  dannata. 

Dannata  nella  tua  anima  e  nella  tua  carne! 
VIOLAINE  -  Allora  non  domandate  più  di  sposarmi,  Giacomo? 
GIACOMO  HURY  -  Non  Scherzare,  figlia  del  diavolo! 
VIOLAINE  -  Questo  è  il  grande  amore  che  avevate  per  me. 
GIACOMO  HURY  -  Questo  è  il  giglio  che  avevo  scelto. 
VIOLAINE  -  Questo  è  l'uomo  che  è  al  posto  di  mio  padre. 
GIACOMO  HURY  -  Questo  è  l'angelo  che  Dio  mi  aveva  mandato. 


l'annunzio  a  maria  203 

vioLAiNE  -  «  Ah,  chi  ci  strapperà  l'uno  all'altra?  Io  ti  amo,  Giacomo, 
ed  io  so  che  non  ho  niente  da  temere  fra  le  tue  braccia  ». 

GIACOMO  HURY  -  Non  Scherzare  con  queste  orribili  parole! 

VIOLAINE  -  Di', 

Ho  mancato  alla  mia  parola?  La  mia  anima  non  ti  basta- 
va? Ne  hai  abbastanza  del  mio  corpo,  ora? 

Dimenticherai  la  tua  Violaine  e  il  cuore  che  ti  ha  rivelato? 

GiA€x>Mo  HURY  -  Allontanati  da  me! 

VIOLAINE  -  Va',  sono  abbastanza  lontana,  Giacomo,  e  non  hai  niente 
da  temere. 

GIACOMO  HURY  -  Si,   SI. 

Più  lontana  di  quanto  tu  non  sia  stata  dal  tuo  porco 
lebbroso! 

Quel  fabbricante  d'ossa  dalla  carne  marcia. 
VIOLAINE  -  È  di  Pietro  di  Craon  che  parlate? 

GIACOMO  HURY  -  Proprio  di  lui  parlo,  che  voi  avete  baciato  sulla  bocca. 
VIOLAINE  -  E  chi  ve  l'ha  raccontato? 
GIACOMO  HURY  -  Mara  vi  ha  visti  con  i  suoi  occhi 

E  mi  ha  detto  tutto,  com'era  suo  dovere. 
E  io,  miserabile,  io  non  le  credevo! 
Suvvia,  dillo,  ma  dillo  dunque.  È  vero?  Di'  che  è  vero! 
VIOLAINE  -  È  vero,  Giacomo. 

Mara  dice  sempre  la  verità. 
GIACOMO  HURY  -  Ed  è  vero  che  voi  l'avete  baciato  in  viso? 
VIOLAINE  -  È  vero. 
GIACOMO  HURY  -  O  dannata!  Le  fiamme  dell'inferno  vi  attirano  tanto 

da  farvele  desiderare  cosi  da  viva? 
VIOLAINE  (a  voce  bassissima)  -  Non  dannata. 

Ma  dolce,  dolce  Violaine!  dolce,  dolce  Violaine! 
GIACOMO  HURY  -  E  non  negate  che  quest'uomo  vi  abbia  avuta  e  posse- 
duta? 
VIOLAINE  -  Non  nego  niente,  Giacomo. 

GIACOMO  HURY  -  Ma  io  ti  amo  ancora,  Violaine!  Ah,  questo  è  troppo 
crudele!  Di'  qualche  cosa,  se  tu  hai  qualcosa  da  dire,  e  io  ti  cre- 
derò! Parla,  te  ne  supplico!  dimmi  che  non  è  vero! 
VIOLAINE  -  Non  posso  diventare  nera  in  un  attimo,  Giacomo,  ma  fra 
qualche  mese  digià,  qualche  mese  ancora. 
Non  mi  riconoscerete  più. 
GIACOMO  HURY  -  Ditemi  che  tutto  questo  non  è  vero. 
VIOLAINE  -  Mara  dice  sempre  la  verità  ed  anche  questo  fiore  su  me,  che 
voi  avete  veduto. 


204  PAUL   CLAUDEL 

GIACOMO  HURY  -  Addio,  Violainc! 

vioLAiNE  -  Addio,  Giacomo. 

GIACOMO  HURY  -  Dite,  che  cosa  intendete  fare,  miserabile? 

VIOLAINE  -  Lasciare  queste  vesti.  Lasciare  questa  casa.  Adempiere  la 

legge.  Presentarmi  al  sacerdote.  Andare... 
GIACOMO  HURY  -  Ebbene? 
VIOLAINE  -  ...  nel  luogo  che  è  riservato  alla  gente  della  mia  specie. 

Nel  lebbrosario  laggiù  del  Geyn. 
GIACOMO  HURY  -  Quando? 
VIOLAINE  -  Oggi.  Stasera  stesso. 

(lungo  silenzio) 

Non  c'è  altro  da  fare. 
GIACOMO  HURY  -  Bisogna  evitare  lo  scandalo. 

Andate  a  svestirvi  e  a  mettervi  un  abito  da  viaggio  e 
vi  dirò  che  cosa  si  deve  fare. 

(escono) 


SCENA   QUARTA 

La  sala  del  Primo  Atto. 

Tutta  questa  scena  può  essere  rappresentata  in  modo  che  il  pubblico  non  veda 
che  i  gesti  e  non  senta  le  parole. 

MARA  (entrando  di  furia)  -  Vengono  qui.  Credo  che  il  matrimonio  sia 
andato  allaria.  Mi  senti? 
Sta'  zitta, 
E  non  dire  nulla. 

LA   MADRE   -   Come? 

O  cattiva!  brutta!  hai  ottenuto  quello  che  volevi! 
MARA  -  Lascia  fare.  Non  è  che  un  momento. 
In  nessun  modo 
Si  sarebbe  fatto.  Giacché  son  io 

Che  lui  deve  sposare,  non  lei.  Sarà  meglio  anche  per  lei.  Bi- 
sogna che  sia  cosi.  Intendi? 
Sta'  zitta! 
LA  MADRE  -  Chi  te  l'ha  detto? 

MARA  -  Ho  forse  bisogno  che  mi  si  dica  qualcosa?  Ho  tutto  visto  ben 
chiaro  nei  loro  visi.  Li  ho  acchiappati  caldi  caldi.  Ho  sbrogliato 
tutto  in  un  battibaleno. 


l'annunzio  a  maria  205 

E  Giacomo,  poveretto,  mi  fa  pena. 

la  madr£  -  Ho  rimorso  di  quello  che  ho  detto. 

MARA  -  Tu  non  hai  detto  niente,  tu  non  sai  niente,  sta*  zitta! 

E  se  ti  dicono  qualcosa,  e  non  importa  che  cosa  ti  raccontino. 
Di'  come  loro,  fa'  quello  che  vorranno.  Non  c'è  più  nulla  da 
fare. 

LA  MADRE  -  Spero  che  tutto  sia  per  il  meglio. 


SCENA   QUINTA 

(entrano  Giacomo  hury  e  poi  violaine,  tutta  in  nero,  vestita  come  per 
un  viaggio) 

LA  madre  -  Che  c'è,  Giacomo?  Che  c'è,  Violaine? 

Perché  ti  sei  messa  quest'abito  come  se  stessi  per  partire? 
VIOLAINE  -  Sto  per  partire  anch'io. 
LA  madre  -  Partire?  partire  anche  tu? 

Giacomo!  che  cos'è  successo  fra  voi  due? 
GIACOMO  HURY  -  Non  è  successo  niente. 

Ma  sapete  che  sono  andato  a  vedere  mia  madre  a 
Braìne  e  ne  ritorno  in  quest'istante. 
LA  MADRE  -  Ebbene? 
GIACOMO  HURY  -  Sapete  che  è  vecchia  e  inferma. 

Essa  dice  che  vuol  vedere  e  benedire 

La  nuora  prima  di  morire. 
LA  MADRE  -  Non  può  aspettare  il  matrimonio? 
GIACOMO  HURY  -  È  malata,  non  può  aspettare. 

E  il  tempo  della  mietitura,  inoltre,  quando  c'è  tanto 
da  fare, 

Non  è  adatto  per  sposarsi. 

Abbiamo  parlato  di  questo  poco  fa,  Violaine  ed  io, 
poco  fa,  molto  gentilmente, 

E  abbiamo  deciso  ch'era  preferibile  attendere 

L'autunno. 

Nel  frattempo  lei  starà  a  Braine  da  mia  madre. 
LA  MADRE  -  Sei  tu  che  vuoi  cosi,  Violaine? 
VIOLAINE  -  Si,  madre. 
LA  MADRE  -  Ma  come?  vuoi  partire  oggi  stesso? 


206  PAUL   CLAUDEL 

vioLAiNE  -  Stasera  stesso. 

GIACOMO  HURY  -  L'accompagiierò  io. 

Il  tempo  urge  ed  anche  il  lavoro,  in  quest'epoca  di 
fienagione  e  di  mietitura.  Son  già  restato  troppo  a  lungo  assente. 
LA  MADRE  -  Rcsta,  Violaine!  Non  andartene  da  questa  casa,  anche  tu! 
VIOLAINE  -  È  solo  per  un  po'  di  tempo,  madre! 
LA  MADRE  -  Un  po'  di  tcmpo,  me  lo  prometti? 
GIACOMO  HURY  -  Un  po'  dì  tempo,  e  quando  verrà  l'autunno, 

Eccola  con  noi  di  nuovo,  per  non  lasciarci  piti. 
LA  MADRE  -  Ah,  Giacomo!  perché  la  lasciate  partire? 
GIACOMO  HURY  -  Credete  forse  che  per  me  non  sia  penoso? 
MARA  -  Madre,  quel  che  dicono  tutti  e  due  è  ragionevole. 
LA  MADRE  -  È  peuoso  Vedere  mia  figlia  abbandonarmi. 
VIOLAINE  -  Non  siate  triste,  madre! 

Che  importa  se  aspettiamo  qualche  giorno?  Si  tratta  solo 
di  lasciar  passare  un  po'  di  tempo. 

Non  sono  io  sicura  del  vostro  affetto?  e  di  quello  di  Mara? 
e  di  quello  di  Giacomo,  mio  fidanzato? 

Giacomo,  non  è  vero?  Egli  è  mio  come  io  son  sua  e  niente 
può  separarci!  Guardatemi,  caro  Giacomo.  Ecco  che  piange  a  ve- 
dermi partire! 

Non  è  il  momento  di  piangere,  madre!  Non  sono  giovane  e 
bella,  e  amata  da  tutti? 

Mio  padre  è  partito,  è  vero,  ma  mi  ha  lasciato  lo  sposo  piò 
tenero,  l'amico  che  mai  mi  abbandonerà. 

Non  è  dunque  il  momento  di  piangere,  ma  di  rallegrarsi. 
Ah,  cara  madre,  come  la  vita  è  bella  e  come  sono  felice! 
MARA  -  E  voi,  Giacomo,  che  dite  voi?  Non  avete  un'aria  lieta. 
GIACOMO  HURY  -  NoD  è  naturale  che  sia  triste? 
MARA  -  Suvvia!  è  solo  una  separazione  di  qualche  mese. 
GIACOMO  HURY  -  Troppo  luuga  per  il  mio  cuore. 
MARA  -  Senti,  Violaine,  come  l'ha  detto  bene! 

E  che,  sorella  mia,  cosi  triste  anche  voi?  Sorridetemi  con  quel 
la  bocca  graziosa!  Alzate  quegli  occhi  azzurri  che  tanto  piacevano 
a  nostro  padre.  Guardate,  Giacomo!  Guardate  vostra  moglie,  co- 
m'è bella  quando  sorride! 

Non  ve  la  prenderanno!  Chi  sarebbe  triste  quando  c'è  a  ri- 
schiarare la  casa  questo  piccolo  sole? 

Amatela  molto,  cattivo!  Ditele  di  farsi  coraggio. 
GIACOMO  HURY  -  Coraggio,  Violaine! 


l'annunzio  a  maria  207 

Non  mi  avete  perduto,  non  siamo  perduti  l'uno  per 
l'altra! 

Vedete  che  io  non  dubito  del  vostro  amore,  forse  che 
voi  dubitate  del  mio? 

Forse  che  io  dubito  di  voi,  Violaine?  Forse  che  io 
non  sono  sicuro  di  voi, 
Violaine? 

Ho  parlato  di  voi  a  mia  madre,  pensate  ch'essa  è 
cosi  felice  di  vedervi. 

È  duro  lasciare  la  casa  dei  vostri  genitori.  Ma  dove 
andrete  troverete  un  rifugio  sicuro,  che  nessuno  violerà. 

Né  il  vostro  amore  né  la  vostra  innocenza,  cara  Vio- 
laine, hanno  nulla  da  temere. 
LA  MADRE  -  Sono  parole  ben  gentili. 

Eppure  c'è  in  esse,  e  in  quelle  che  tu  ora  mi  hai  dette, 
bambina  mia. 

Non  so  cosa  di  strano  e  che  non  mi  piace. 
MARA  -  Io  non  vedo  niente  di  strano,  madre  mia. 
LA  MADRE  -  Violaine!  se  ti  ho  fatto  dispiacere,  poco  fa,  bambina  mia. 

Dimentica  quel  che  t'ho  detto. 
VIOLAINE  -  Non  mi  avete  fatto  dispiacere. 
LA  MADRE  -  Lascia  allora  che  ti  abbracci. 

(le  apre  le  braccia) 

VIOLAINE  -  No,  madre. 
LA  MADRE  -  Ma  comc? 

VIOLAINE  -  No. 

MARA  -  Violaine,  è  brutto,  questo!  Hai  paura  che  ti  tocchino?  perché 

ci  tratti  come  dei  lebbrosi? 
VIOLAINE  -  Ho  fatto  un  voto. 
MARA  -  Che  voto? 
VIOLAINE  -  Che  nessuno  mi  tocchi. 
MARA  -  Fino  al  tuo  ritorno  qui? 

(silenzio.  Violaine  abbassa  la  testa) 

GiA€X>Mo  HURY  -  Lasciatela.  Vedete  che  è  addolorata. 
LA  MADRE  -  Allontanatevi  un  istante. 

(si  allontanano) 

Addio,  Violaine! 

Tu  non  m'ingannerai,  bambina  mia,  tu  non  ingannerai 
la  madre  che  t'ha  fatto. 


208  PAUL    CLAUDEL 

Quel  che  t'ho  detto  è  duro,  vedimi  che  son  piena  di  do- 
lore, che  sono  vecchia. 

Tu,  tu  sei  giovane  e  dimenticherai. 

Il  mio  uomo  è  partito  ed  ecco  mia  figlia  che  si  allontana 
da  me. 

La  pena  che  si  ha  non  è  nulla,  ma  quella  che  si  è  fatta 
agli  altri, 

Impedisce  di  mangiare  il  proprio  pane. 

Pensa  a  questo,  mio  agnello  sacrificato,  e  di'  a  te  stessa: 
Cosi  io  non  ho  fatto  pena  a  nessuno. 

T'ho  consigliato  quel  che  ho  creduto  il  meglio!  Non  vo- 
lermene, Violaine,  salva  tua  sorella.  Bisogna  forse  lasciare  che  si 
perda? 

E  c'è  il  buon  Dio  con  te,  che  è  la  tua  ricompensa. 

Questo  è  tutto. 

Non  rivedrai  più  la  mia  vecchia  faccia.  Che  Dio  sia  con  te' 

E  tu  non  vuoi  abbracciarmi,  ma  io  posso  almeno  bene- 
dirti, dolce,  dolce  Violaine! 
VIOLAINE  -  Si,  madre!  si,  madre! 

(s'inginocchia  e  la  madre  traccia  su  di  lei  il  segno  della  croce) 

GIACOMO  HURY  {rientrando)  -  Venite,  Violaine,  e  ora. 

MARA  -  Va'  e  prega  per  noi. 

VIOLAINE  {gridando)  -  Ti  do  le  mie  vesti,  Mara,  e  tutte  le  mie  cose! 

Non  aver  paura,  sai  che  non  le  ho  toccate. 

Non  sono  entrata  in  quella  camera. 

—  Ah,  ah!  la  mia  povera  veste  di  sposa,  che  era  cosi  bella! 

{allarga  le  braccia  come  per  cercare  un  appoggio.  Tutti  restano  lontani 
da  lei.  Essa  esce  vacillando  seguita  da  Giacomo) 


ATTO    TERZO 


SCENA   PRIMA 

Il  paese  dt  Chevoche.  ha  vigilia  di  "Natale.  Dei  contadini,  uomini  »  donne  e  ra- 
gazzi, sono  al  lavoro  nella  foresta.  Nel  mezzo  è  acceso  un  fuoco  sopra  il  quale 
è  sospesa  una  pentola.  Da  ciascun  lato  della  scena  due  specie  di  colossi  fatti  dt 
fascine,  con  un  collarino  e  un  camiciotto  di  tela  bianca  con  una  croce  rossa  sul 
petto,  e  per  testa  un  barile  i  cui  bordi  sono  intagliati  come  i  denti  di  una  sega. 


l'annunzio  a  maria  209 

come  se  volesse  rappresentare  una  corona,  con  una  specie  di  viso  grossolana- 
mente dipinto  di  rosso;  una  lunga  tromba  è  inserita  nel  cocchiume,  tenuta  fer- 
ma da  un'asse,  come  se  fosse  un  braccio. 
È  il  crepuscolo.  Neve  in  terra  e  cielo  di  neve. 

IL  SINDACO  DI  cHEvocHE  -  Ecco.  Il  Re  può  vcnirc. 

UN  OPERAIO  -  Può  venire  ormai.  Noi  abbiamo  ben  fatto  la  nostra  parte. 

IL  SINDACO  DI  CHEVOCHE  (guordando  soddisfatto)  -  È  molto  bello.  È 
vero  che  ci  si  son  messi  tutti,  quanti  erano,  uomini  donne  e  ra- 
gazzini, 

E  che  era  la  più  sporca  parte  con  tutto 
quel  ciarpume  e  gli  spini  e  il  pantano. 

Non  saran  certo  quei  furbacchioni  di  Bru- 
yères  a  farci  la  barba. 

UN  OPERAIO  -  È  la  loro  strada  che  ce  Tha,  la  barba,  e  con  i  denti  per 
giunta,  con  tutti  quei  mozziconi  che  han  lasciato! 

{ridono) 

l'apprendista  (pedantescamente,  con  una  voce  orribilmente  aspra  e 
stridula)  -  «  Vox  clamantis  in  deserto:  Parate  vias  Domini  et  erunt 
prava  in  directa  et  aspera  in  vias  planas  ». 

—  È  vero  che  avete  ben  lavorato.  Mi  congratulo  con 
voi,  brava  gente.  È  come  la  strada  per  la  Processione  del  Corpus 
Domini. 

{indicando  i  Giganti)  E  chi  sono,  Signori,  quelle  belle 
e  reverende  persone? 
UN  OPERAIO  -  Nevvero  che  son  belle?  È  babbo  Vincenzo,  quel  vecchio 
ubriacone,  che  l'ha  fatte. 

Lui  dice  che  e  il  gran  Re  d'Abissinia  e  sua  moglie  Bei- 
lotte. 

{gli  manda  un  bacio) 

l'apprendista  -  Per  me  credevo  che  fossero  Gog  e  Magog. 
IL  SINDACO  DI  CHEVOCHE  -  Sono  i  duc  Angeli  di  Chevoche  che  ven- 
gono a  salutare  il  Re  loro  signore. 

Gli  daremo  fuoco  quando  passerà. 

—  Ascoltate! 

{ascoltano  tutti) 

UN  OPERAIO  -  Oh!  no,  non  è  ancora  lui.  Si  sentirebbero  suonare  le  cam- 
pane di  Bruyères. 
UN  ALTRO  -  Non  sarà  qui  prima  di  mezzanotte.  Ha  cenato  a  Fismes. 
UN  ALTRO  -  Saremo  ben  qui  a  vedere.  Io  non  mi  muovo  certo. 


14.  -  Teatro  francese 


210  PAUL   CLAUDEL 

UN  ALTRO  -  Hai  qualcosa  da  mangiare,  Pierotto?  Io  non  ho  più  che 

un  pezzo  di  pane  che  e  tutto  gelato. 
IL  SINDACO  DI  CHE  VOGHE  -  Non  avcf  paura,  c'è  un   quarto  di   porco 

nella  pentola,  e  salsicce,  e  il  capriolo  che  abbiamo  ucciso. 

£  tre  braccia  di  sanguinaccio,  e  un  buon 

botticello  di  vino  della  Marna. 
l'apprendista  -  Resto  con  voi. 

UNA  DONNA  -  PropHo  quel  che  si  dice  un  buon  Nataluccio. 
l'apprendista  -  E  il  giorno  di  Natale  che  il  re  Clodoveo  fu  in  Reims 

battezzato. 
un'altra  donna  -  È  il  giorno  di  Natale  che  il  nostro  re  Carlo  ritorna 

a  farsi  consacrare. 
un'altra  -  È  una  semplice  ragazza,  inviata  da  Dio,  che  lo  riconduce 

nella  sua  casa. 
un'altra  -  Giovanna,  la  chiamano. 
un'altra  -  La  Pulzella! 
un'altra  -  Che  è  nata  la  notte  dell'Epifania. 

un'altra  -  Che  ha  scacciato  gli  Inglesi  da  Orléans  che  assediavano. 
UN  ALTRO  -  E  che  li  caccerà  anche  di  Francia  tutti  quanti.  Cosi  sia! 
UN  ALTRO  (canticchiando)  -  Natale!  Ki  Ki  Ki  Ki  Ki  Natale!  Natale  no- 
vellino! Brr!  Come  fa  freddo! 

(si  stringe  addosso  il  mantello) 

UNA  DONNA  -  Bisogna  ben  guardare  se  ci  sarà  un  ragazzetto  tutto  in 

rosso  accanto  al  Re.  È  lei. 
un'altra  -  Su  di  un  grande  cavallo  nero. 

LA  PRIMA  -  Sei  mesi  fa  pascolava  ancora  le  vacche  di  suo  padre. 
un'altra  -  E  ora  porta  uno  stendardo  dov'è  Gesù  in  iscritto. 
UN  operaio  -  E  gli  Inglesi  scappano  davanti  a  lei  come  sorci. 
UN  ALTRO  -  Attenzione  ai  cattivi  Borgognoni  di  Saponay! 
UN  ALTRO  -  Che  cosa  fanno  quelli  di  laggiù? 

l'apprendista  -  Le  due  campane  della  Cattedrale,  Baldone  e  Baldo, 
Cominciano  a  suonare  al  «  Gloria  »  di  Mezzanotte  e 
fino  all'arrivo  dei  Francesi  non  smetteranno  più  di  scampanare. 

Tutti  tengono  in  casa  un  cero  acceso  fino  al  mattino. 
Si  aspetta  che  il  Re  sia  qui  per  la  messa  dell'Aurora 
che  è  «  Lux  fulgebit  ». 

Tutto  il  clero  gli  andrà  incontro,  trecento  preti  con 
l'Arcivescovo,  in  cappe  d'oro,  e  i  monaci,  e  il  Sindaco,  e  il  comune. 
Sarà  davvero  bello  sulla  neve  sotto  il  sole  limpido  e 
forte  e  con  tutto  il  popolo  che, canta  gli  inni  di  Natale! 


l'annunzio  a  makia  211 

E  dicono  che  il  Re  vuole  scendere  da  cavallo  ed  en- 
trare nella  sua  buona  città  su  un  asino,  come  Nostro  Signore. 

IL  sindaco  -  Come  mai  dunque  non  siete  restato  laggiù? 

l'apprendista  -  È  mastro  Pietro  di  Craon  che  m'ha  mandato  a  pren- 
dere della  sabbia. 

il  sindaco  -  Toh!  guarda!  Di  questo  s'occupa  in  questo  momento? 

l'apprendista  -  Dice  che  il  tempo  è  breve. 

IL  sindaco  -  Ma  a  che  cosa  impiegarlo  meglio  che  a  fare  questa  strada, 
come  noialtri? 

l'apprendista  -  Dice  che  il  suo  mestiere  non  è  di  fare  delle  strade  per 
il  Re,  ma  una  dimora  per  Dio. 

IL  sindaco  -  Ma  a  che  serve  Reims,  se  il  Re  non  può  andarci? 

l'apprendista  -  A  che  serve  la  strada,  se  in  fondo  non  c'è  una  chiesa? 

IL  SINDACO  -  Non  e  un  buon  Francese... 

l'apprendista  -  Lui  dice  che  non  sa  altro  che  il  suo  mestiere.  Chi  par- 
la di  politica  da  noi,  gli  tingiamo  il  naso  col  fondo  della  padella. 

IL  sindaco  -  Non  ha  potuto  nemmeno  condurre  a  termine  la  sua  Giu- 
stizia dopo  dieci  anni  che  ci  lavorano. 

l'apprendista  -  Si,  invece!  Tutta  la  parte  muraria  è  finita  e  l'armatura 
è  completata,  non  manca  più  che  la  guglia  che  non  ha  ancora  fi- 
nito di  crescere. 

il  sindaco  -  Dicono  ch'è  lebbroso. 

l'apprendista  -  Non  è  vero!  L'ho  visto  tutto  nudo,  l'estate  scorsa,  che 
si  bagnava  nell'Aisne  a  Soissons.  Io  posso  dirlo! 

Ha  la  carne  sana  come  quella  di  un  bambino. 

IL  sindaco  -  È  strano,  però.  Perché  s'è  tenuto  nascosto  tanto  tempo? 

l'apprendista  -  È  una  menzogna! 

IL  sindaco  -  So  io,  io  sono  più  vecchio  di  voi.  Non  dovete  arrabbiarvi, 
ragazzino.  Non  fa  niente  che  sia  malato  nel  corpo. 
Non  è  col  corpo  che  lavora. 

l'apprendista  -  Non  vi  fate  sentir  dire  cosi  da  lui!  Mi  ricordo  come 
ha  punito  uno  di  noi  che  restava  tutto  il  tempo  nel  suo  cantuccio 
a  disegnare: 

L'ha  mandato  per  tutta  la  giornata  sulle  impalcature 
con  i  muratori  per  servirli  e  passar  mastelli  e  pietre, 

Dicendo  che  alla  fine  della  giornata  avrebbe  impara- 
to COSI  due  cose  meglio  che  per  regolo  e  disegno;  il  peso  che  un 
uomo  può  portare  e  l'altezza  del  suo  corpo. 

E  come  la  grazia  di  Dio  moltiplica  ognuna  delle  no- 
stre buone  azioni, 

Cosi  egli  ci  ha  insegnato  quello  che  chiama  «  il  Siclo 


212  PAUL   CLAUDEL 

del  Tempio»  e  questa  dimora  di  Dio  della  quale  ogni  uomo  che 
fa  quel  che  può 

Con  il  suo  corpo,  è  come  un  fondamento  segreto; 
Quello  che  sono  il  pollice  e  la  mano  e  il  cubito  della 
nostra  ampiezza  e  il  braccio  teso  e  il  cerchio  che  si  fa  con  esso 
E  il  piede  e  il  passo; 

£  come  niente  di  tutto  questo  è  mai  lo  stesso. 
Credete  voi  che  del  corpo  non  importasse  al  padre 
Noè  quando  fece  Tarca?  e  che  non  importi 

Il  numero  dei  passi  che  c'è  dalla  porta  all'altare,  e  l'al- 
tezza alla  quale  è  permesso  all'occhio  di  innalzarsi,  e  il  numero 
d'anime  che  i  due  lati  della  Chiesa  contengono  raccolte?  Che  l'ar- 
tista pagano  faceva  tutto  dall'esterno,  e  noi  facciamo  tutto  dall'in- 
terno come  le  api, 

E  come  l'anima  fa  per  il  corpo:  niente  è  inerte,  tutto 
vive. 

Tutto  è  ((  azione  »  di  grazia. 
IL  SINDACO  -  Parla  bene,  il  giovanotto. 
UN  OPERAIO  -  Ascoltatelo  come  una  pica  tutto  pieno  delle  parole  del 

suo  maestro. 
l'apprendista  -  Parlate  con  rispetto  di  Pietro  di  Craon! 
IL  SINDACO  -  È  vero  che  è  un  cittadino  di  Reims  e  lo  chiamano  il 
Maestro  del  Compasso, 

Come  un  tempo  chiamavano  Messer  Loys 
Il  Maestro  del  Regolo. 
UN  ALTRO  -  Getta  legna  nel  fuoco,  Pierotto,  ecco  che  comincia  a  ne- 
vicare. 
{nevica  infatti.  La  notte  è  del  tutto  scesa.  Entra  mara,  vestita  di  nero, 
portando  una  specie  di  pacco  sotto  il  mantello) 

MARA  -  È  qui  la  gente  di  Chevoche? 

IL  SINDACO  -  Siamo  noi. 

MARA  -  Sia  lodato  Gesù  Cristo. 

IL  SINDACO  -  Così  sia. 

MARA  -  È  dalle  vostre  parti  la  celletta  del  Gcyn? 

IL  SINDACO  -  Dove  abita  la  lebbrosa? 

MARA  -  Si. 

IL  SINDACO  -  Non  è  proprio  dalle  nostre  parti,  ma  vicino. 
UN  ALTRO  -  Volete  vedere  la  lebbrosa? 

MARA  -  Si. 

l'uomo  -  Non  è  possibile  vederla;  ha  sempre  un  velo  sulla  faccia  com'è 
prescritto. 


l'annunzio  a  maria  213 

UN  ALTRO  -  E  ben  prescritto!  Non  sarò  certo  io  ad  aver  voglia  di  guar- 
darla! 

MARA  -  È  da  molto  tempo  che  l'avete  fra  voi? 

l'uomo  -  Ora  fanno  ott'anni,  e  vorremmo  bene  non  averla. 

MARA  -  Forse  che  fa  del  male  a  qualcuno? 

l'uomo  -  No,  ma  porta  male  lo  stesso  avere  vicino  questa  gente  ver- 
minosa. 

IL  SINDACO  -  £  poi  è  il  comune  che  la  mantiene. 

MARA  -  E  vive  cosi  sola  sola,  nei  boschi  come  una  bestia? 

l'uomo  a  -  Ehi,  dite  dunque,  ne  avete  delle  belle  voi!  Non  ci  man- 
cherebbe altro  che  vi  attaccasse  la  malattia! 

l'uomo  b  -  Ce  il  prete  che  va  a  dirle  la  messa  di  tanto  in  tanto. 

l'uomo  c  -  Ma  non  c'è  pericolo  che  entri,  voi  lo  capite!  Gli  hanno 
fatto  di  fuori  una  specie...  Come  si  dice?  una  specie  di  leggio. 

l'apprendista  -  Un  palco. 

l'uomo  c  -  Ecco,  un  palco.  E  lei  se  ne  serve  per  dire  la  messa  alle 
bestie  selvatiche. 

MARA  -  Che  dice? 

UNA  DONNA  -  È  la  Verità  nuda  e  cruda,  come  vi  si  sta  dicendo,  lei  pre- 
dica ai  caprioli  e  ai  conigli  al  chiaro  di  luna. 

È  il  nostro  Thibaut  la  miseria  che  Tha  vista  una  volta 
la  notte  che  ritornava  dalla  festa  a  Coincy. 

un'altra  DONNA  -  Tutti  i  conigli  lui  diceva  che  erano  seduti  per  be- 
nino tutti  in  cerchio  sui  loro  sederini  per  ascoltarla. 

un'altra  DONNA  -  È  la  volpe  che  faceva  da  guardaportone  e  il  grande 
lupo  bianco  da  fabbriciere. 

L*uoMo  B  -  È  piacevole  avere  una  roba  simile  nel  comune! 

IL  SINDACO  -  Nel  comune  che  ha  l'obbligo  di  mantenerla  per  colmo  di 
disgrazia. 

l'uomo  a  -  Toh!  giust 'appunto  che  ci  siam  dimenticati  di  portarle  da 
mangiare  da  tre  giorni,  con  'st'affare  della  strada. 

UNA  DONNA  -  E  che  volete  da  'sta  donna? 

{Mara  non  rispande  e  resta  in  piedi  a  guardare  il  fuoco) 

UNA  DONNA  -  È  come  chi  direbbe  un  bambino  quello  che  portate  nelle 

braccia? 
un'altra  -  Fa  troppo  freddo  per  portare  in  giro  i  marmocchi  a  'st'ora. 
MARA  -  Lui  non  ha  freddo. 

{silenzio.  Si  sente  nella  notte  sotto  gli  alberi  il  rumore  delle  casta- 
gnette) 


214  PAUL   CLAUDEL 

UNA  VECCHIA  -  Guardate!  eccola  per  l'appunto I  Queste  sono  le  sue  ca- 
stagnette! Santa  Vergine!  Che  peccato  che  non  sia  morta! 

UNA  DONNA  -  Viene  a  chiedere  il  suo  mangiare.  Non  c'è  pericolo  che 
si  dimentichi! 

UN  UOMO  -  Che  disgrazia  dover  nutrire  questo  verme. 

UN  ALTRO  -  Gettatele  qualche  cosa.  Non  deve  avvicinarsi  a  noi.  Ci 
mancherebbe  altro  che  ci  attaccasse  il  veleno. 

UN  ALTRO  -  Niente  carne,  Pierotto!  È  di  magro,  oggi,  è  la  vigilia  di 
Natale! 

{ridono) 

Gettatele  questo  tozzo  di  pane  ch'è  gelato. 
È  anche  troppo  per  lei. 
l'uomo  (gridando)  -  Ehi,  Senza-£accia!  Ehi,  Giovanna,  ti  dico!  Ehi  là, 
rosicchiata! 

{si  vede  la  figura  nera  della  lebbrosa  sulla  neve,  Mara  la  guarda) 

To'! 

{le  getta  a  tutta  forza  un  pezzo  di  pane,  violaine  si  china  per  raccat- 
tarlo, poi  si  allontana.  Mara  s'incammina  per  segtùrla) 

un  uomo  -  Ma  dov'è  che  va? 

UN  ALTRO  -  Ehi,  quella  donna!  dove  diavolo  andate,  ma  che  vi  piglia? 

{esse  si  allontanano) 

Il  sipario  si  abbassa  un  momento.  Violaine  velata  e  facendo  risuonare  le  casta- 
gnette passa  sul  davanti  della  scena  seguita  da  Mara. 


SCENA   SECONDA 

La  messa  in  scena  è  la  stessa  degli  altri  atti  ma  senza  le  scale.  Nel  vano  in  alto 
è  stata  messa  una  campana,  in  quello  in  basso  una  specie  di  statua  mutila. 
Davanti,  una  specie  di  predella  abbastanza  larga  alla  quale  si  accede  per  mezzo 
di  due  o  tre  gradini  sormontati  da  una  grande  croce  di  legno  alla  quale  è 
addossato  un  sedile. 
Davanti,  un  leggio  sormontato  da  una  lampada  sospesa  ad  un  gancio. 

VIOLAINE  -  Chi  è  qui, 

Che  non  ha  temuto  di  unire  i  suoi  passi  a  quelli  della 
Lebbrosa? 

E  sappiate  che  la  sua  vicinanza  è  un  pericolo  e  il  suo  fiato 
pernicioso. 


l'annunzio  a  maria  215 

MARA  -  Sono  io,  Violainc. 

vioLAiNE  -  O  voce  da  lungo  tempo  non  più  udita! 

Siete  voi,  madre  mia? 
MARA  -  Sono  io,  Violaine. 
VIOLAINE  -  È  la  vostra  voce  ed  un'altra. 

Lasciatemi  accendere  questo  fuoco,  perché  fa  molto  freddo. 

£  questa  torcia  anche. 

{accende  un  fuoco  di  torba  e  di  felci  con  braci  conservate  in  un  vaso, 
e  poi  la  torcia) 

MARA  -  Sono  io,  Violaine,  Mara  tua  sorella. 

VIOLAINE  -  Cara  sorella,  salute!  Com'è  bello  che  tu  sia  venuta! 

Ma  non  hai  paura  di  me? 
MARA  -  Non  ho  paura  di  niente  al  mondo. 

VIOLAINE  -  Come  la  tua  voce  è  diventata  simile  a  quella  della  mamma! 
MARA  -  Violaine,  la  nostra  cara  madre  non  è  più. 

{silenzio) 

VIOLAINE  -  La  pezza  di  tela  che  aveva  tessuta  con  le  sue  mani  perché 

le  servisse  da  lenzuolo  funebre... 
MARA  -  Non  aver  paura,  ce  ne  siamo  serviti. 
VIOLAINE  -  Povera  mamma!  Dio  abbia  la  sua  anima! 
MARA  -  E  il  padre  non  è  tornato  ancora. 
VIOLAINE  -  E  voi  due? 
MARA  -  Noi  due  bene. 
VIOLAINE  -  Tutto  va  come  voi  volete,  a  casa? 
MARA  -  Tutto  va  bene. 
VIOLAINE  -  So  che  non  può  essere  altrimenti 

Con  te  e  Giacomo. 
MARA  -  Tu  vedessi  quel  che  abbiamo  fatto!  Abbiamo  tre  aratri  di  più. 
Non  riconosceresti  Combernon. 

E  noi  abbatteremo  quelle  vecchie  mura. 

Ora  che  il  Re  è  ritornato. 
VIOLAINE  -  E  voi  siete  felici  insieme,  Mara? 
MARA  -  Si.  Siamo  felici.  Mi  ama 

Come  io  l'amo. 
VIOLAINE  -  Sia  lodato  Dio. 
MARA  -  Violaine! 

Tu  non  vedi  quel  che  tengo  fra  le  braccia? 
VIOLAINE  -  Non  vedo. 
MARA  -  Leva  dunque  codesto  velo. 
VIOLAINE  -  Ne  ho  sotto  questo  un  altro. 


216  PAUL   CLAUDEL 

MARA  -  Tu  non  vedi  più? 

vioLAiNE  -  Non  ho  più  occhi. 

L'anima  sola  resiste  nel  corpo  distrutto. 

MARA  -  Cieca! 

Come  dunque  cammini  cosi  dritto? 

VIOLAINE  -  Io  sento. 

MARA  -  Che  senti? 

VIOLAINE  -  Le  cose  esistere  con  me. 

MARA  {con  tono  profondo)  -  E  me,  Violaine,  mi  senti? 

VIOLAINE  -  Dio  m'ha  dato  l'intelligenza 

Che  e  con  tutti  noi  nel  medesimo  tempo. 

MARA  -  Mi  senti  tu,  Violaine? 

VIOLAINE  -  Ah!  povera  Mara! 

MARA  -  Mi  senti,  Violaine? 

VIOLAINE  -  Che  vuoi  da  me,  cara  sorella? 

MARA  -  Lodare  con  te  quel  Dio  che  t'ha  fatta  appestata. 

VIOLAINE  -  Lodiamolo  dunque  in  questa  vigilia  della  sua  Natività. 

MARA  -  È  facile  essere  una  santa  quando  la  lebbra  ci  serve  di  aiuto. 

VIOLAINE  -  Non  lo  so,  giacché  non  lo  sonò. 

MARA  -  Bisogna  bene  rivolgersi  a  Dio  quando  non  resta  altro. 

VIOLAINE  -  Lui  almeno  non  mancherà. 

MARA  {piano)  -  Forse,  chi  lo  sa  di  sicuro,  Violaine,  di'? 

VIOLAINE  -  La  vita  manca  e  non  la  morte  dove  ormai  io  sono! 

MARA  -  Eretica!  sei  sicura  della  tua  salvezza? 

VIOLAINE  -  Lo  sono  della  Sua  bontà,  che  ha  provveduto. 

MARA  -  Ne  vediamo  le  arre. 

VIOLAINE  -  Ho  fede  in  Dio  che  mi  ha  fatta  la  mia  parte. 

MARA  -  Che  sai  tu  di  Lui  che  è  invisibile  e  che  niente  rivela? 

VIOLAINE  -  Egli  non  lo  è  diventato  per  me  più  di  quanto  non  lo  sia  il 
resto. 

MARA  (ironicamente)  -  Egli  è  con  te,  colombella,  e  t'ama? 

VIOLAINE  -  Come  con  tutti  i  miseri.  Lui  stesso. 

MARA  -  Certo  il  suo  amore  è  grande! 

VIOLAINE  -  Come  quello  del  fuoco  per  il  legno  quando  prende. 

MARA  -  Egli  t'ha  duramente  castigata. 

VIOLAINE  -  Non  più  di  quanto  avessi  meritato. 

MARA  -  E  digià  quello  a  cui  tu  hai  dato  il  tuo  corpo  ti  ha  dimenticata. 

VIOLAINE  -  Io  non  ho  dato  il  mio  corpo! 

MARA  -  Dolce  Violaine!  Mentitrice  Violaine!  Non  t'ho  forse  vista  te- 
neramente baciare  Pietro  di  Craon  quel  mattino  di  un  bel  giorno 
di  giugno? 


l'annunzio  a  makia  217 

vioLAiNE  -  Hai  visto  tutto  e  non  c'è  altro. 

MARA  -  Perché  allora  lo  baciavi  cosi  preziosamente? 

VIOLAINE  -  Il  poveretto  era  lebbroso  ed  io  ero  così  felice  quel  giorno  I 

MARA  -  In  tutta  innocenza,  ncvvcro? 

VIOLAINE  -  Come  una  bambina  che  abbraccia  un  povero  bambino. 

MARA  -  Devo  crederlo,  Violainc? 

VIOLAINE  -  È  la  verità. 

MARA  -  Non  vorrai  certo  dire  che  di  tua  spontanea  volontà  m'hai  la- 
sciato Giacomo. 

VIOLAINE  -  No,  non  di  mia  spontanea  volontà,  io  l'amavo!  Io  non  sono 
COSI  buona! 

MARA  -  Doveva  amarti  ancora,  lebbrosa  com'eri? 

VIOLAINE  -  Non  me  l'aspettavo. 

MARA  -  Chi  amerebbe  una  lebbrosa? 

VIOLAINE  -  Il  mio  cuore  è  puro. 

MARA  -  Ma  che  cosa  ne  poteva  sapere  Giacomo?  Egli  ti  crede  colpevole. 

VIOLAINE  -  Nostra  madre  mi  aveva  detto  che  tu  l'amavi. 

MARA  -  Non  dirai  che  è  stata  lei  a  renderti  lebbrosa. 

VIOLAINE  -  Dio  mi  ha  prevenuta  con  la  sua  grazia. 

MARA  -  Cosicché  quando  la  madre  ti  ha  parlato... 

VIOLAINE  -  Era  Lui  stesso  ancora  che  udivo. 

MARA  -  Ma  perché  lasciarti  credere  spergiura? 

VIOLAINE  -  Non  avrei  dovuto  dunque  far  niente  per  parte  mia? 

Povero   Giacomino!    Dovevo   lasciargli   qualche   rimpianto 
di  me? 

MARA  -  Di'  che  non  lo  amavi. 

VIOLAINE  -  Io  non  lo  amavo,  Mara? 

MARA  -  Ma  io,  io  non  lo  avrei  cosi  abbandonato! 

VIOLAINE  -  Ed  io  forse  l'ho  lasciato? 

MARA  -  Ma  io  sarci  morta! 

VIOLAINE  -  E  forse  che  io  sono  viva? 

MARA  -  Ora  sono  felice  con  lui. 

VIOLAINE  -  La  pace  sia  con  voi. 

MARA  -  E  gli  ho  dato  un  figlio,  Violaine!  Una  cara  bambina.  Una  dol- 
ce bambina. 

VIOLAINE  -  La  pace  sia  con  voi. 

MARA  -  La  nostra  gioia  è  grande.  Ma  la  tua  lo  è  di  più,  con  Dio. 

VIOLAINE  -  Ed  io  pure  ho  conosciuto  la  gioia  or  sono  otto  anni,  e  il 
mio  cuore  ne  era  rapito, 

Tanto  che  domandai  follemente  a  Dio,  ah!  ch'essa  durasse 
e  non  avesse  mai  fine. 


218  PAUL   CLAUDEL 

E  Dio  mi  ha  stranamente  ascoltata!  Forse  che  la  mia  leb- 
bra guarirà?  No  certamente,  finché  vi  sarà  una  particella  di  carne 
mortale  da  divorare. 

Forse  che  l'amore  nel  mio  cuore  guarirà?  Giammai  finche 
vi  sarà  un*anima  immortale  per  fornirgli  alimento. 
Tuo  marito  ti  conosce,  Mara? 
MARA  -  Quale  uomo  conosce  una  donna? 

vioLAiNE  -  Felice  chi  può  esser  conosciuta  a  fondo  e  darsi  tutta  quanta. 
Giacomo,  di  tutto  quello  che  io  potevo  dare,  che  cosa  ne 
avrebbe  fatto? 
MARA  -  Tu  hai  riversato  su  Un  Altro  la  tua  fede? 
VIOLAINE  -  L'amore  ha  fatto  il  dolore  e  il  dolore  ha  fatto  l'amore. 

Il  legno  a  cui  si  è  appiccato  il  fuoco  non  dà  cenere  sol- 
tanto ma  anche  una  fiamma. 
MARA  -  A  che  cosa  serve  questo  fuoco  cieco  che  non  dà  agli  altri 

Né  luce  né  calore? 
VIOLAINE  -  Non  è  già  abbastanza  che  mi  serva? 

Non  rimproverare  questa  luce  alla  creatura  calcinata,  visi- 
tata quasi  fin  nelle  sue  fondamenta,  che  le  fa  vedere  in  se  stessa! 
E  se  tu  passassi  una  sola  notte  nella  mia  pelle  non  diresti 
che  questo  fuoco  non  ha  calore. 

Il  maschio  è  sacerdote,  ma  non  è  proibito  alla  donna  di  es- 
sere vittima. 

Dio  è  avaro  e  non  permette  che  alcuna  creatura  bruci 
Senza  che  un  po'  d'impurità  in  lei  si  consumi, 
La  sua  o  quella  che  la  circonda,  come  la  brace  nel  turibolo 
che  si  attizza! 

E  certo  la  sventura  di  quest'epoca  e  grande. 
Essi  non  hanno  padre.  Guardano  e  non  sanno  più  dov'è  il 
Re  e  il  Papa. 

Ecco  perché  il  mio  corpo  è  qui  travagliato  al  posto  della 
Cristianità  che  si  dissolve. 

Potente  è  la  sofferenza  quand'essa  è  volontaria  come  il 
peccato! 

Tu  m'hai  visto  baciare  quel  lebbroso,  Mara?  Ah!  il  calice 
del  dolore  è  profondo 

E  chi  vi  accosta  una  volta  il  labbro  non  lo  ritrae  più  a 
suo  piacimento! 
MARA  -  Prendi  dunque  con  te  anche  il  mio! 
VIOLAINE  -  L'ho  già  preso. 


l'annunzio  a  maria  219 

MARA  -  Violainc!  se  ce  ancora  qualcosa  di  vivo  e  che  sia  mia  sorella 

sotto  codesto  velo  e  codesta  figura  distrutta, 

Ricordati  che  siamo  state  bambine  insieme!  Abbi  pietà  di  me! 
vioLAiNE  -  Parla,  cara  sorella!  Abbi  fiducia!  Di'  tutto! 
MARA  '  Violaine,  sono  una  sventurata  e  il  mio  dolore  è  più  grande 

del  tuo! 
VIOLAINE  -  Più  grande,  sorella? 
MARA  [con  un  grande  grido  aprendo  il  mantello  e  levando  in  alto  fra 

le  braccia  un  cadaverino)  -  Guarda!  prendilo! 
VIOLAINE  -  Che  cos*è? 
MARA  -  Guarda,  ti  dico!  prendilo!  Prendilo,  te  lo  do. 

(le  mette  il  cadavere  fra  le  braccia) 

VIOLAINE  -  Ah!  sento  un  piccolo  corpo  rigido!  una  povera  piccola  fac- 
cia gelata! 
MARA  -  Ah!  ah!  Violaine!  Mia  figlia,  la  mia  piccola  bimba! 

È  la  sua  piccola  faccia  si  dolce!  è  il  suo  povero  piccolo  corpo! 
VIOLAINE  (a  bassa  voce)  -  Morta,  Mara? 
MARA  -  Prendila,  te  la  do. 
VIOLAINE  -  Calma,  Mara! 

MARA  -  Volevano  strapparmela,  ma  io  non  me  la  son  lasciata  prendere! 
e  son  fuggita  con  lei. 

Ma  tu  prendila,  Violaine!  Tieni,  prendila,  tu  vedi,  te  la  do. 
VIOLAINE  -  Che  cosa  vuoi  che  faccia,  Mara? 
MARA  -  Cosa  voglio  che  tu  faccia?  non  mi  senti? 
Ti  dico  ch'è  morta!  io  ti  dico  ch*è  morta! 
VIOLAINE  -  La  sua  anima  vive  in  Dio.  Ella  segue  l'Agnello.  Ella  è  con 

le  bambine  beate. 
MARA  -  Ma  lei  e  morta  per  me! 

VIOLAINE  -  Tu  mi  dai  pure  il  suo  corpo.  Dà  il  resto  a  Dio. 
MARA  -  No!  No!  No!  tu  non  m'imbroglierai  con  le  tue  parole  di  be- 
ghina! No,  non  mi  lascerò  affatto  calmare. 

Questo  latte  che  mi  brucia  il  petto,  grida  verso  Dio  come  il 
sangue  di  Abele! 

Forse  che  ho  cinquanta  figli  da  strapparmi  dal  corpo?  forse 
che  ho  cinquanta  anime  da  strappare  dalla  mia? 

Sai  tu  che  cosa  sia  spaccarsi  in  due  e  metter  fuori  un  esserino 
che  grida? 

E  la  levatrice  mi  ha  detto  che  non  avrò  più  figli. 
E  quand'anche  ne  avessi  cento,  di  figli,  non  sarebbe  mai  la 
mia  piccola  Aubaine. 


220  PAUL   CLAUDEL 

vioLAiNE  -  Accetta;  rassegnati. 

MARA  -  Violaine,  tu  lo  sai,  io  ho  la  testa  dura.  Sono  quella  che  non 
si  arrende  e  che  non  accetta  niente. 

VIOLAINE  -  Povera  sorella! 

MARA  -  Violaine,  son  si  dolce  cosa,  questi  piccoli,  e  fa  cosi  male,  que- 
sta piccola  bocca  crudele,  quando  vi  morde  dentro! 

VIOLAINE  (carezzando  il  viso)  -  Come  il  suo  visino  è  freddo! 

MARA  (a  bassa  voce)  -  Lui  non  sa  ancora  niente. 

VIOLAINE  (a  bassa  voce)  -  Non  era  in  casa? 

MARA  -  È  a  Reims,  per  vendere  il  grano.  Lei  è  morta  all'improvviso, 
in  due  ore. 

VIOLAINE  -  A  chi  rassomigliava? 

MARA  -  A  lui,  Violaine.  Non  è  nata  soltanto  da  me,  è  nata  anche  da 
lui.  I  suoi  occhi  soltanto  son  miei. 

VIOLAINE  -  Povero  Giacomino! 

MARA  -  Non  e  per  sentirti  dire:   Povero  Giacomino!  ch'io  son  venuta 
qui. 

VIOLAINE  -  Che  cosa  vuoi  dunque  da  me? 

MARA  -  Violaine,  questo  vuoi  vedere?  Di'!  sai  che  cosa  sia  un'anima 
che  si  danna? 

Di  suo  proprio  volere  per  l'eternità? 

Sai  che  cosa  c'è  nel  cuore  quando  si  bestemmia  per  davvero? 
Ho  un  demonio,  mentre  correvo,  che  mi  cantava  una  canzon- 
cina. 
Vuoi  sentire  le  cose  che  mi  ha  insegnato? 

VIOLAINE  -  Non  dire  queste  cose  orribili! 

MARA  -  Rendimi  dunque  la  mia  bambina  che  io  t'ho  dato! 

VIOLAINE  -  Tu  non  mi  hai  dato  che  un  cadavere. 

MARA  -  E  tu  rendimela  viva! 

VIOLAINE  -  Mara,  che  osi  dire? 

MARA  -  Io  non  accetto  che  la  mia  bambina  sia  morta. 

VIOLAINE  -  Forse  che  è  in  mio  potere  risuscitare  i  morti  come  Dio? 

MARA  -  A  che  cosa  servi,  allora? 

VIOLAINE  -  A  soffrire  e  a  supplicare. 

MARA  -  Ma  a  che  cosa  ti  serve  soffrire  e  supplicare  se  non  mi  rendi  la 
mia  bambina? 

VIOLAINE  -  Dio  lo  sa,  a  cui  basta  che  io  lo  serva. 

MARA  -  Ma  io,  io  sono  sorda  e  non  sento!  E  grido  verso  te  dall'abisso 
in  cui  mi  trovo!  Violaine!  Violaine! 

Rendimi  la  bimba  che  t'ho  dato!  Ebbene  io  cedo,  io  mi  umi- 
lio! abbi  pietà  di  me' 


l'annunzio  a  maria  221 

Abbi  pietà  di  me,  Violaine,  e  rendimi  la  bimba  che  m'hai 
preso! 
VIOLAINE  -  Quegli  che  Tha  presa  può  renderla. 
MARA  -  Rendimela  dunque.  Ah!  io  so  che  tutto  questo  è  colpa  tua. 
VIOLAINE  -  Colpa  mia? 
MARA  -  E  sia,  no 

È  colpa  mia,  perdonami!  Ma  rendimela,  sorella  mia! 
VIOLAINE  -  Ma  tu  vedi  che  è  morta. 

MARA  -  Tu  mentisci!  non  e  morta!  Ah!  donnaccia,  ah!  cuore  di  pe- 
cora! Ah!  se  io  potessi  comunicare,  come  te,  col  tuo  Dio, 
Egli  non  mi  strapperebbe  i  miei  piccoli  cosi  facilmente! 
VIOLAINE  -  Domandami  di  creare  nuovamente  il  cielo  e  la  terra! 
MARA  -  Ma  è  scritto  che  tu  puoi  soffiare  su  questa  montagna  e  gettarla 

nel  mare. 
VIOLAINE  -  Lo  potrei,  se  fossi  una  santa. 

MARA  -  Bisogna  essere  una  santa  quando  una  miserabile  ti  supplica. 
VIOLAINE  -  Ah!  tentazione  suprema! 

Io  giuro,  e  dichiaro  e  protesto  davanti  a  Dio  che  non  sono 
una  santa! 
MARA  -  Rendimi  dunque  la  mia  bambina. 
VIOLAINE  -  Mio  Dio,  voi  Vedete  il  mio  cuore! 

Io  giuro  e  protesto  davanti  a  Dio  che  non  sono  una  santa! 
MARA  -  Violaine,  rendimi  la  mia  bambina! 

VIOLAINE  -  Perche  non  mi  lasci  in  pace?  perché  vieni  cosi  a  tormen- 
tarmi nella  mia  tomba? 

Forse  che  io  valgo  qualche  cosa?  forse  che  io  dispongo  di 
Dio,  forse  che  io  sono  come  Dio? 

Tu  non  mi  domandi  altro  che  di  giudicare  Dio  stesso. 
MARA  -  Io  non  ti  domando  altro  che  la  mia  bambina. 

(pausa) 

VIOLAINE  (alzando  il  dito)  -  Ascolta. 

(silenzio.  Campane  in  lontananza,  quasi  impercettibili) 

MARA  -  Non  sento  niente. 

VIOLAINE  -  Sono  le  campane  di  Natale,  le  campane  che  ci  annunziano 
la  Messa  di  Mezzanotte. 

O  Mara,  un  bambino  ci  è  nato! 
MARA  -  Rendimi  dunque  la  mia. 

(trombe  in  lontananza) 

VIOLAINE  -  Cos'è  questo? 


222  PAUL   CLAUDEL 

MARA  -  È  il  Re  che  va  a  Rcims.  Non  hai  sentito  di  quella  strada  che 
i  contadini  tagliavano  attraverso  la  foresta? 
(E  questa  e  anche  tanta  legna  per  loro) 
È  una  pastorella  che  lo  conduce,  attraverso  la  Francia, 
A  Reims  perché  egli  vi  si  faccia  consacrare. 

vioLAiNE  -  Lodato  sia  Iddio  che  fa  queste  grandi  cose! 

(le  campane  di  nuovo,  chiarissime) 

MARA  -  Come  le  campane  suonano  il  Gloria!  Il  vento  sofiSa  verso  di  noi. 

Son  tre  villaggi  che  suonano  insieme. 
VIOLAINE  -  Preghiamo  con  tutto  l'universo!  Non  hai  freddo,  Mara? 
MARA  -  Io  non  ho  freddo  che  al  cuore. 
VIOLAINE  -  Preghiamo.  È  passato  molto  tempo  dacché  abbiamo  fatte 

Natale  insieme. 

Non  temere.  Ho  preso  il  tuo  dolore  con  me.  Guarda!  e 

quel  che  tu  m'hai  dato  è  nascosto  nel  mio  cuore  con  me. 

Non  piangere!  Non  è  il  momento  di  piangere,  quando  la 

salvezza  di  tutti  gli  uomini  è  già  nata. 

(campane  in  lontananza,  meno  distinte) 

MARA  -  Non  nevica  più  e  le  stelle  scintillano. 

VIOLAINE  -  Guarda!  vedi  questo  libro? 

MARA  -  Lo  vedo. 

VIOLAINE  -  Prendilo,  vuoi?  e  leggimi  l'Uffizio  di  Natale,  la  prima  le- 
zione di  ciascuno  dei  tre  Notturni. 

MARA  -  A  chi  dovrei  leggerlo? 

VIOLAINE  -  Leggilo  a  Dio.  Leggilo  agli  Angeli.  Leggilo  a  tutta  la  terra. 
Io  rientro  nella  notte  passando  al  disopra  della  mia  notte  per  ascol- 
tarti. 

(Violai ne  è  scesa  dalla  predella  portando  con  sé  la  bambina.  Si  adden- 
tra nel  fondo  della  cella  sistemata  nella  parete  dell'edificio  in  ro- 
vina che  le  serve  da  ricovero.  Mara  sale  sulla  predella,  s'installa 
davanti  al  leggio  e  di  qui  procede  alla  lettura.  Legge  «  recto  tono  » 
le  prime  righe  della  profezia.  A  poco  a  poco  la  sua  voce  si  affievo- 
lisce mentre  nella  foresta  i  canti  sovrannaturali  si  fanno  sentire) 

MARA  (leggendo)  - 

PROFEZIA    d'iSAIA 

Nel  primo  tempo  fu  alleviata  la  terra  di  Zàbulon  e  la  terra  dt 
Nephtali  e  nell'ultimo  fu  aggravata  la  via  del  mare  al  di  là  del 
Giordano  della  Galilea  delle  Nazioni.  Il  popolo  che  camminava 


l'annunzio  a  maria  223 

nelle  tenebre  ha  visto  una  grande  luce;  a  quelli  che  abitavano  nella 
regione  dell'ombra  della  marte  la  luce  è  nata. 

(silenzio.  Canti) 
MARA  (riprendendo  la  lettura)  - 

SERMONE  DI  SAN  LEONE  PAPA 

//  nostro  Salvatore,  miei  dilettissimi,  è  nato  in  questo  giorno.  Sia- 
mo in  letizia.  E  in  verità  non  vi  è  adito  alla  tristezza,  quando  è 
il  di  natale  della  vita  :  che,  consumato  il  timore  della  morte,  in- 
fonde  in  noi  la  gioia  dell'eternità  promessa.  Nessuno  dalla  par- 
tecipazione a  quest'allegrezza  è  escluso, 
(suono  clamoroso  e  prolungato  di  trombe,  vicinissimo.  Alte  grida  at- 
traverso la  foresta) 

MARA  -  Il  Re!  il  Re  di  Francia! 

(di  nuovo  e  un'altra  volta  ancora  suono  di  trómbe  indicibilmente  lace- 
rante, solenne  e  trionfale) 

MARA  (a  bassa  voce)  -  Il  Re  di  Francia  che  va  a  Reims! 

(silenzio) 
Violainc! 

(ella  grida  con  tutte  le  sue  forze) 

Mi  senti,  Violaine? 

(silenzio.  Ella  riprende  la  lettura) 

. . .  Che  il  peccatore  si  rallegri  perché  è  invitato  al  perdono!  Che 
il  Gentile  speri  perché  è  invitato  alla  vita!  Imperocché  il  Figlio  di 
Dio,  secondo  la  pienezza  del  tempo  che  l'imperscrutabile  profon- 
dità del  divino  consiglio  ha  disposto  . . . 

(silenzio.  Canto  degli  Angeli) 

MARA  -  Violaine!  Io  non  son  degna  di  leggere  questo  libro! 

Violaine>  so  di  essere  troppo  dura  e  me  ne  rammarico;  vorrei 
essere  diversa. 

(silenzio) 

MARA  (con  sforzo,  riprendendo  il  libro,  con  voce  tremante)  - 

LETTURA  DEL  SANTO  VANGELO  SECONDO  SAN  LUCA 

(si  alza) 
In  quel  tempo  appunto  l'editto  fu  promulgato  di  Cesare  Augu- 


224  PAUL   CLAUDEL 

Sto  che    si  facesse    il  censimento  per    tutta  la  terra.    E  il  resto . . . 

OMELIA   DI    SAN   GREGORIO    PAPA 

Perciocché,  per  grazia  del  Signore,  noi  dobbiamo  oggi  tre  volte 

celebrare  la  solennità  della  Messa. 

Cosi.., 

{il  libro  trema  violentemente  fra  le  mani  di  Mara.  Ella  finisce  col  la- 
sciarlo cadere  e  resta  in  piedi  nel  chiaro  di  luna  in  un  atteggiamen- 
to di  panico.  Comincia  a  spuntare  il  giorno) 

vioLAiNE  (improvvisamente  mandando  un  grido  soffocato)  -  Ah! 

{Mara  si  dirige  verso  la  cella,  vi  si  inoltra  e  ne  ritorna  camminando 
dVindietro  e  trascinando  con  sé  Violaine.  La  conduce  fin  sul  da- 
vanti della  scena  e  là,  tutfa  un  tratto,  avendo  visto  la  bimba  muo- 
versi, vivamente  indietreggia) 

MARA  -  Violaine,  che  cose  quel  che  si  muove  su  di  te? 

Che  cose  quel  che  si  muove  su  di  te?  Ti  domando  cosa  si 
muove  cosi  su  di  te! 
VIOLAINE  -  Abbi  pace,  Mara!  ecco  il  giorno  di  Natale  quando  ogni 

gioia  è  nata! 
MARA  -  Quale  gioia  può  esservi  per  me  se  non  che  la  mia  bimba  viva? 
VIOLAINE  -  Ed  anche  a  noi,  anche  a  noi  è  nato  un  bambino! 
MARA  -  Si  muove,  si  muove,  si  muove!  O  mio  Dio,  vedo  che  si  muove 
di  nuovo. 

In  nome  del  Dio  vivente,  che  cosa  mai  dici? 
VIOLAINE  -  Ecco  che  io  vi  annunzio  una  grande  gioia . . . 

Povera  sorella!  piange.  Ha  avuto  .troppo  dolore  anch'ella. 
Prendi,  Mara!  Vuoi  lasciarmi  sempre  questa  bimba? 
MARA  -  Vive! 

{Mara  si  getta  sulla  bambina  e  la  strappa  violentemente  a  sua  sorella) 

VIOLAINE  {sale  sulla  predella  con  le  mani  giunte  e  grida)  -  Gloria  a  Dio! 

MARA  -  Vive! 

VIOLAINE  -  Pace  agli  uomini  sulla  terra! 

MARA  -  Vive!  vive! 

VIOLAINE  -  Ella  vive  e  noi  viviamo. 

E  la  faccia  del  Padre  appare  sulla  terra  risorgente  e  con- 
solata. 
MARA  -  La  mia  bambina  vive! 


L'Annunzio  a  Maria,  di  Claudel,  al  Thcàtre  Hcbertot  di   Parigi   (1948). 
Regia  di  Andre  Barsacq,  scena  e  costumi  di  Mariano  Andreù. 


l'annunzio  a  maria  225 

vioLAiNE  {alzando  il  dito)  -  Ascolta! 

{silenzio) 
Sento  l'Angelus  suonare  a  Monsanvergine. 
{si  fa  il  segno  della  croce  e  prega.  La  bimba  si  desta) 
MARA  {a  voce  bassissima)  -  Sono  io,  Aubaine,  mi  riconosci? 
{la  bimba  si  agita  e  geme) 
Che  gnc  gne,  gioia  mia,  che  gne  gne,  mio  tesoro? 

{la  bimba  apre  gli  occhi,  guarda  la  madre  e  si  mette  a  piangere,  Mara 
la  guarda  attentamente) 
Violaine' 

Che  vuoi  dire  questo?  I  suoi  occhi  erano  neri, 
E  ora  sono  diventati  azzurri  come  i  tuoi. 

(silenzio) 
Ah! 
E  cos'è  questa  goccia  di  latte  che  vedo  sulle  sue  labbra? 

{si  sentono  le  campane  di  Monsanvergine  suonare  in  lontananza) 


ATTO      QUARTO 


SCENA  PRIMA 

La  seconda  metà  della  notte.  La  sala  del  Primo  Atto.  Nel  caminetto  i  tizzoni 
mandano  una  debole  luce»  Nel  mezzo  una  lunga  tavola  sulla  quale  è  una 
stretta  tovaglia  i  cut  lembi  ricadono  in  misura  uguale  alle  due  estremità.  La 
porta  è  aperta  a  due  battenti,  mostrando  una  notte  stellata.  Un  «mdelabro  ac- 
ceso è  posto  nel  mezzo  della  tavola.  Entra  Giacomo  hury,  come  se  cercasse 
qualcuno.  Esce  e  riconduce  mara  tirandola  per  un  braccio. 

GIACOMO  HURV  -  Che  cosa  fai  li? 

MARA  -  Mi  sembrava  di  sentire  un  rumore  di  carri,  laggiù  in  fondo 
alla  valle. 

GIACOMO  HURY  {tendendo  l'orecchio)  -  Non  sento  niente. 

MARA  -  È  vero,  tu  non  senti  niente.  Ma  io  ho  l'orecchio  attento  e  l'oc- 
chio aperto. 


15.  •  Teatro  francese 


226  PAUL   CLAUDEL 

GIACOMO  HURY  -  Farcsti  meglio  a  dormire. 

MARA  -  Di'  un  po',  neanche  tu  dormi  sempre  cosi  bene. 

GIACOMO  HURY  -  Penso,  cerco  di  capire. 

MARA  -  Che  cos'è  che  cerchi  di  capire? 

GIACOMO  HURY  -  Aubaine.  La  bambina  malata  che  stava  per  morire.  E 

un  bel  giorno  io  ritorno  e  mi  dicono  che  tu  sei  fuggita  con  lei, 

come  una  pazza. 

Era  di  Natale.  E  il  giorno  degli  Innocenti,  eccola  che 

torna  con  la  bambina.  Guarita! 

Guarita!  Essa  era  guarita. 
MARA  -  È  un  miracolo. 
GIACOMO  HURY  -  Si,  un  po'  c  la  Santa  Vergine,  se  ti  si  prestasse  fede, 

e  un  po'  è  non  so  quale  anima  santa  non  so  dove  che  ha  fatto  il 

miracolo. 
MARA  -  Né  l'uno  né  l'altro.  Sono  io  che  ho  fatto  il  miracolo. 

(con  un  soprassalto) 
Ascolta! 

(tendono  l'orecchio) 

GIACOMO  HURY  -  Non  sento  niente. 

MARA  (rabbrividendo)  -  Chiudi  codesta  porta.  È  fastidioso. 

(egli  chiude  la  porta) 

GIACOMO  HURY  -  QuA  che  è  sicuro  è  che  il  suo  viso  non  è  più  lo  stesso. 
Lo  stesso,  certamente,  e  non  lo  stesso.  Gli  occhi,  per 
esempio,  son  cambiati. 
MARA  -  Di'  un  po',  furbo,  hai  trovato  questo  da  solo? 

Ecco  che  cosa  capita  quando  il  buon  Dio  si  impiccia  dei  no- 
stri affari. 

E  tu,  impicciati  dei  tuoi! 

(con  violenza) 

E  che  cosa  hai  mai  da  guardare  tutto  il  tempo  'sta  porta? 
GIACOMO  HURY  -  Sei  tu  che  non  smetti  mai  di  stare  in  ascolto. 
MARA  -  Aspetto. 

GIACOMO  HURY  -  Aspetti  chi?  aspetti  cosa? 
MARA  -  Aspetto  mio  padre! 

Mio  padre,  Anne  Vercors,  che  è  partito,  or  son  sctt'anni! 

Parola  mia,  credo  che  l'ha  già  dimenticato! 

Quel  vecchio  galantuomo,  tu  ti  ricordi?  Anne  Vercors  lo  chia- 
mavano. 


l'annunzio  a  maria  227 

Per  quanto  sia,  il  padrone  di  Combernon  non  è  sempre  stato 
Giacomo  Hury. 
GIACOMO  HURY  -  Bene!  Se  ritorna  troverà  le  terre  in  buono  stato. 
MARA  -  £  la  casa  anche.  Sette  anni  già  che  è  partito. 

{a  bassa  voce) 

Lo  sento  che  torna. 
GIACOMO  HURY  -  Non  SÌ  ritorna  spesso  dalla  Terra  Santa. 
MARA  -  E  se  fosse  vivo,  dopo  sette  anni  avrebbe  trovato  modo  di  darci 

sue  notizie. 
GIACOMO  HURY  -  È  lontana,  la  Terra  Santa,  bisogna  passare  il  mare. 
MARA  -  Ci  sono  i  pirati,  ci  sono  i  Turchi,  ci  sono  le  disgrazie,  c'è  la 

malattia,  ci  sono  i  delinquenti. 
GIACOMO  HURY  -  Anche  qui  non  si  sente  parlare  che  di  delinquenza. 
MARA  -  Quella  donna,  per  esempio,  che  mi  dicono  è  stata  ritrovata  in 

fondo  a  una  cava  di  sabbia. 
GIACOMO  HURY  -  Qualc  donna? 
MARA  '  Laggiù.  Una  lebbrosa,  dicono. 

Può  essere  che  è  lei  che  c'è  caduta  da  sola. 
Che  bisogno  aveva  di  mettersi  a  passeggiare? 
Tanto  peggio  per  lei! 

£  può  essere  anche  che  le  abbiano  dato  una  spinta.  Qualcuno... 
GIACOMO  HURY  -  Una  lebbrosa? 

MARA  -  Ah!  ah!  questo  ti  fa  drizzare  le  orecchie?  Anche  una  lieve 
lebbra  dicono  che  rovina  gli  occhi.  E  quando  non  ci  si  vede  bene, 
non  si  deve  passeggiare. 

£  a  nessuno  piace  una  simile  vicinanza.  Una  disgrazia  fa  pre- 
sto a  capitare. 
GIACOMO  HURY  -  Tuttavia,  se  il  padre  ritorna,  non  è  sicuro  che  sarà  poi 

tanto  soddisfatto. 
MARA  -  Mara!  dirà  subito.  Era  Mara  la  sua  preferita. 

Che  piacere  sapere  che  è  proprio  lei  alla  fine  che  ha  acchiap- 
pato il  signor  Giacomo! 

E  che  dorme  tutte  le  notti  al  suo  fianco  come  una  spada  nuda^ 
GIACOMO  HURY  -  E  sua  figlia,  la  sua  nipotina,  non  sarà  forse  contento 

di  abbracciarla? 
MARA  -  «Che  bella  bambina!»,  dirà.  «E  che  begli  occhi  azzurri!  Que- 
sto mi  ricorda  qualcosa!». 
GIACOMO  HURY  (comc  sc  forlossc  al  posto  del  padre)  -  «E  la  madre, 

dov'è?  ». 
MARA   (con  una  riverenza^  -  Non  qui  per  il  momento.  Monsignore! 


228  PAUL   CLAUDEL 

Perbacco,  quando  si  va  a  Gerusalemme  non  bisogna  aspettarsi  di 

ritrovare  tutti  quanti.  Son  lunghi  sette  anni! 

È  Mara  adesso  che  occupa  il  suo  posto  accanto  al  focolare. 
GIACOMO  HURY  (cofite  prima)  -  «  Buongiorno,  Mara  ». 
MARA  -  Buongiorno,  padre! 

(ANNE  VERcoRs  frattanto  è  entrato  dal  lato  della  scena  e  si  trova  dietro 
ad  essi.  Porta  il  corpo  di  Violaine  fra  le  braccia) 

ANNE  VERCORS  -  Buongiomo,  Giacomo! 


SCENA    SECONDA 

ANNE  VERCORS  (fa  il  giro  della  tavola  e  va  a  situarsi  dietro  ad  essa,  là 
dove  si  trova  la  cattedra,  U  guarda  l'uno  dopo  l'altro)  -  Buongior- 
no Mara! 

(MARA  non  risponde  niente) 

GIACOMO  HURY  -  Padre!  cos'è  questa  cosa  che  ci  portate  nel  vostro 
mantello? 

E  che  cos'è  questo  corpo  morto  fra  le  vostre  braccia? 
ANNE  VERCORS  -  Aiutami  a  stenderlo  su  questa  tavola. 

Piano,  piano,  ragazzo  mio! 

(stendono  il  corpo  sulla  tavola  e  Anne  Vercors  lo  copre  col  suo  man- 
tello) 

Eccola!  è  lei!  è  la  tavola  sulla  quale  ho  diviso  il  pane 
a  tutti,  il  giorno  della  mia  partenza. 

Buongiorno,  Giacomo!  Buongiorno,  Mara! 

Tutti  e  due  sono  qui  al  mio  posto  ed  il  mio  regno 
nella  loro  persona  continua. 

La  terra  su  cui,  da  un  estremo  all'altro,  come  un 
grande  pioppo 

Ora  più  lunga  ed  ora  accorciandosi, 

Si  stende  l'ombra  di  Anne  Vercors. 

E  per  quel  che  riguarda  la  Madre,  ho  inteso. 

E  so  ch'ella  mi  aspetta  in  quel  luogo  dove  io  non  tar- 
derò a  raggiungerla. 
GIACOMO  HURY-  Padre!  Io  vi  domando  che  cos'è  quello  che  ci  avete 
portato  fra  le  braccia. 


l'annunzio  a  maria  229 

E  cos'è  il  corpo  morto  che  è  là  steso  sulla  tavola? 
ANNE  VERooRS  -  Non  Hiorto,  Giacomo,  non  morto  del  tutto.  Non  vedi 

che  respira? 
GIACOMO  HURY  -  Padrc,  chi  è? 

ANNE  VERCORS  -  Qualcosa  che  ho  trovato  lungo  il  mio  cammino  ieri, 
in  una  grande  cava  di  sabbia. 

Ho  sentito  la  sua  voce  che  mi  chiamava  debolmente. 
GIACOMO  HURY  -  Una  lebbrosa,  nevvero? 
ANNE  VERCORS  -  Una  lebbrosa.  Chi  te  Tha  detto?  Tu  lo  sapevi  già? 

È  Mara  certamente  che  te  l'ha  detto. 
GIACOMO  HURY  -  E  potrei  domandarvi  perché  mi  riportate  in  questa 

casa  onorata  che  è  la  mia,  una  lebbrosa? 
ANNE  VERCORS  -  Vuoi  metterci  alla  porta  tutt'e  due? 

È  lei  che  me  l'ha  chiesto,  con  la  bocca  contro  il  mio 
orecchio. 

Di  portarla  qui.  Di  riportarla  qui. 
Può  parlare  ancora.  Ma,  ahimé,  che  son  divenuti  i 
begli  occhi  di  Violaine,  la  mia  bambina?  Non  ci  sono  più. 
GIACOMO  HURY  -  Sente  quello  che  diciamo? 

ANNE  VERCORS  -  Non  lo  SO.  Domanda  la  pace.  Domanda  che  tu  non 
sia  più  in  collera  con  lei. 

E  anche  Mara,  se  è  in  collera, 

{egli  guarda  Violtùne  distesa) 

Io  domando  perdono. 
GIACOMO  HURY  -  lo  non  sono  in  collera. 

ANNE  VERCORS  -  I  suoi  occhi,  povera  bambina!  Non  ha  più  occhi!  Ma 
il  cuore  batte  ancora. 

Debolmente,  debolmente! 

Tutta  la  notte  ho  sentito  il  cuore  della  mia  bambina 
che  batteva  contro  il  mio  e  lei  cercava  di  stringermi  forte  a  se: 
Debolmente,  debolmente! 

E  il  cuore  di  tanto  in  tanto  si  fermava  e  poi  ripren- 
deva la  sua  piccola  corsa  malata. 

Pan  pan  pan!  pan  pan  pan!  Padre!  Padre! 
GIACOMO  HURY  -  E  vi  ha  parlato  anche  di  me? 
ANNE  VERCORS  -  Si,  Giacomo. 
GIACOMO  HURY  -  E  di  quell'altro  anche...  lei  era  la  mia  fidanzata!... 

dico  quell'altro  un  mattino  di  maggio... 
ANNE  VERCORS  -  DÌ  chi  VUOI  parlare? 
GIACOMO  HURY  -  Di  Pietro  di  Craon!  Quel  lebbroso,  quel  marcio!  quel 


230  PAUL   CLAUDEL 

ladro!  Quel  muratore,  sette  anni  fa,  che  era  venuto  per  aprire  il 
fianco  di  Monsanvergine! 

(silenzio) 

ANNE  VERCORS  -  Non  c'è  stato  peccato  fra  Violaine  e  Pietro. 
GIACOMO  HURY-  E  che  dite  di  quel  casto  bacio  che  ha  scambiato  con 
lei  un  mattino  di  maggio? 

(silenzio.  Anne  Vercors  fa  lentamente  un  segno  di  diniego  con  la  testa. 
Giacomo  Hury  va  a  prendere  Mara  trascinandola  per  il  polso  e  le 
fa  alzare  la  mano  destra) 

Un  mattino  di  maggio!  Mara  giura  che  un  mattino  di 
maggio,  essendosi  alzata  di  buon'ora, 

Ha  visto  questa  Violaine  qui  presente  che  baciava  te- 
neramente Pietro  di  Craon  sulla  bocca. 

(silenzio) 

ANNE  VERCORS  -  lo  dicO  di  nO. 

GIACOMO  HURY  -  E  allora  la  vostra  Mara  ha  mentito? 

ANNE  VERCORS  -  Non  ha  mentito. 

GIACOMO  HURY  -  lo,  io,  io  SUO  fidanzato!  A  me  non  aveva  mai  permesso 

che  la  toccassi! 
ANNE  VERCORS  -  Ho  visto  Pietro  di  Craon  a  Gerusalemme.  Era  guarito. 
GIACOMO  HURY  -  Guarito? 
ANNE  VERCORS  -  Guarito.  E  per  questo  appunto  era  andato  laggiù  a 

compimento  del  suo  voto. 
GIACOMO  HURY  -  Lui  è  guarito  ed  io  son  dannato! 
ANNE  VERCORS  -  Ed  è  anchc  per  guarirti,  Giacomo  figlio  mio,  che  sono 

venuto  a  portarti  queste  reliquie  viventi. 
GIACOMO  HURY-  Padre!  Padre!  avevo  una  figlia  anche,  che  era  vicina 

a  morire, 

Aubaine,  si  chiama, 

Ed  ecco  che  essa  è  stata  guarita! 

(gesto  di  Anne  Vercors) 

Dio  sia  ringraziato! 

Ma  quella  bocca,  quella  bocca  di  vostra  figlia,  quella 

bocca  che  mi  avevate  dato,  quella  figlia  che  voi  mi  avevate  dato! 

Quella  bocca  non  era  sua,  è  mia!  Io  dico  questa  bocca  e  il  soffio 

di  vita  che  è  dentro  le  labbra! 

ANNE  VERCORS  -  La  bocca  della  donna  prima  che  dell'uomo  è  di  Dio, 


l'annunzio  a  maria  231 

che  nel  giorno  del  battesimo  Tha  salata  con  il  sale.  E  a  Dio  sol- 
tanto ella  dice:  Ch'Egli  mi  baci  con  un  bacio  della  Sua  bocca! 

GIACOMO  HURY  -  Lei  non  mi  apparteneva  piò.  Io  le  avevo  dato  il  mio 
anello! 

ANNE  VERCORS  -  Guardalo  che  brilla  al  suo  dito. 

GIACOMO  HURY    (stUptto)  -  È  VCFo! 

ANNE  VERCORS  -  È  Pietfo  di  Craon  laggiù  che  me  Tha  consegnato  ed  io 

l'ho  messo  di  nuovo  al  dito  della  donatrice. 
GIACOMO  HURY  -  E  il  mioj  non  è  vero,  è  questo  che  pensate,  fa  il  paio 

con  quello  di  Mara! 
ANNE  VERCORS  -  Rispettalo  di  più. 

GIACOMO  HURY  -  Un  mattino  di  maggio!  Padre!  padre!  tutto  rideva  in- 
torno a  lei.  Lei  mi  amava  ed  io  l'amavo!  Tutto  era  suo  ed  io  le 

avevo  tutto  dato! 
ANNE  VERCORS  -  Giacomo,  figlio  mio!  ascolta,  comprendi!  Era  troppo 

bello!  Non  era  possibile. 
GIACOMO  HURY  -  Che  volete  dire? 
ANNE  VERCORS  -  Giacomo,  figlio  mio!  Il  medesimo  appello  che  il  padre 

ha  inteso,  anche  la  figlia  gli  ha  prestato  orecchio! 
GIACOMO  HURY  -  Quale  appello? 
ANNE  VERCORS   (comc  sc  reàtussc)  -  U Angelo  di  Dio  recò  l'annunzio 

a  Maria  ed  ella  ha  concepito  per  opera  dello  Spirito  Santo. 
GIACOMO  HURY  -  Che  cosa  ha  concepito? 
ANNE  VERCORS  -  Tutto  il  grande  dolore  di  questo  mondo  intorno  a  lei, 

e  la  Chiesa  tagliata  in  due,  e  la  Francia  per  cui  Giovanna  è  stata 

bruciata  viva,  lei  l'ha  visto!  Ed  è  per  questo  che  ha  baciato  quel 

lebbroso,  sulla  bocca,  sapendo  quel  che  faceva. 
GIACOMO  HURY  -  Un  attimo!  in  un  attimo  ha  deciso  questo? 
ANNE  VERCORS  -  Ecco  Vancclla  del  Signore . . . 
GIACOMO  HURY  -  Lci  ha  salvato  il  mondo  ed  io  son  perduto! 
ANNE  VERCORS  -  No,  Giacomo  non  è  perduto,  e  Mara  non  è  perduta, 

quand'anche  lo  volesse,  e  Aubaine,  Aubaine  è  viva! 

E  niente  è  perduto  e  la  Francia  non  è  perduta,  ed 

ecco  che  dalla  terra  fino  al  cielo  per  amore  o  per  forza 

Di  speranza  e  di  benedizione  s'innalza  uno  slancio 

irresistibile! 

Il  Papa  è  a  Roma  e  il  Re  è  sul  suo  trono*. 

E  io,  io  mi  ero  scandalizzato  come  un  Giudeo,  per- 


1  È  la  fine  dello  scUma  d'Occidente  (1378-1429). 


232  PAUL   CLAUDEL 

che  il  volto  della  Chiesa  era  oscurato,  e  perché  ella  segue  titubando 
il  suo  cammino  nell'abbandono  di  tutti  gli  uomini. 

E  ho  voluto  di  nuovo  abbracciare  il  sepolcro  vuoto, 
mettere  la  mano  nel  foro  della  croce,  come  l'apostolo  in  quello  del- 
le mani  e  dei  piedi  e  del  cuore. 

Ma  la  mia  piccola  Violaine  è  stata  più  saggia! 

Forse  che  scopo  della  vita  è  il  vivere?  forse  che  i  pie- 
di dei  figli  di  Dio  sono  attaccati  a  questa  terra  miserabile? 

Non  è  il  vivere,  ma  il  morire!  E  non  e  il  costruire  la 
croce,  ma  il  salirvi  e  dare  quello  che  possediamo  in  letizia! 

Qui  è  la  gioia,  qui  è  la  libertà,  qui  la  giovinezza  eter- 
na! e  lode  a  Dio  se  il  sangue  del  vegliardo  sulla  tovaglia  del  sacri- 
ficio accanto  a  quello  del  giovane 

Non  fa  una  macchia  cosi  rossa,  cosi  fresca  come  quel- 
lo dell'agnello  di  un  solo  anno! 

O  Violaine!  figlia  della  grazia!  carne  della  mia  carne! 
Cosi  lontano  quanto  il  fuoco  fumoso  della  fattoria  lo  è  dalla  stella 
del  mattino. 

Quando  quella  bella  vergine  sul  seno  del  sole  posa  la 
sua  testa  illuminata. 

Possa  tuo  padre  vederti  lassù  in  alto  per  l'eternità  al 
posto  che  ti  è  stato  riservato! 

Lode  a  Dio  se  dove  passa  la  sua  piccola,  non  passa 
anche  il  padre! 

Qual  valore  ha  il  mondo  in  confronto  alla  vita?  e 
qual  valore  ha  la  vita  se  non  per  servirsene  e  donarla? 

E  perché  tormentarsi  quando  è  cosi  semplice  obbe- 
dire e  quando  l'ordine  è  li? 

È  COSI  che  Violaine  tutta  sollecita  segue  la  mano  che 
prende  la  sua. 
GIACOMO  HURY  -  O  Violaine!  o  crudele  Violaine!  desiderio  della  mia 
anima,  tu  m'hai  tradito! 

O  detestabile  giardino!  o  amore  inutile  e  disprezzato, 
giardino  nella  mala  ora  piantato! 

Dolce  Violaine,  perfida  Violaine!  o  silenzio  e  abisso 
della  donna! 

Non  mi  dirai  niente?  Non  mi  rispondi?  Continue- 
rai a  tacere? 

Avendomi  ingannato  con  parole  perfide. 

Avendomi  ingannato  con  quel  sorriso  amaro  e  gra- 
zioso. 


l'annunzio  a  maria  233 

Ella  se  ne  va  dove  non  la  posso  seguire, 

E  io  con  questo  dardo  avvelenato  nel  fianco, 

10  dovrò  vivere  e  continuare! 

(rumori  della  fattoria  che  si  sveglia) 

L  allodola  sale  in  alto, 
Prega  Dio  che  faccia  bello! 
Per  il  padre,  per  la  madre 
E  per  tutti  i  suoi  piccini! 

ANNE  VERcoRs  -  Spunta  il  giorno!  Sento  la  fattoria  che  si  risveglia  e 
tutta  la  cavalleria  della  mia  terra  nella  sua  pesante  bardatura  a 
quattro  a  quattro, 

Ix  pesanti  quadrighe  di  cui  parla  la  Bibbia  che  si 
preparano  alFevangelo  del  vomere  e  del  mannello. 

{va  a  spalancare  il  portone.  La  luce  penetra  a  fiotti  nella  grande  sala) 

GIACOMO  HURY-  Padre,  guardate!  guardate  questa  terra  che  è  vostra 
e  che  vi  aspettava,  col  sorriso  sulle  labbra! 

11  vostro  possesso,  questo  oceano  di  solchi,  fino  al 
confine  della  Francia!  Non  ha  demeritato,  affidato  alle  mie  mani! 

La  terra  almeno  non  mi  ha  ingannato,  lei,  ed  io  nem- 
meno la  ho  ingannata,  questa  terra  fedele,  questa  terra  possente! 
C'è  un  uomo  a  Combernon!  La  fede  giurata,  il  matrimonio  che 
c'è  fra  me  e  lei,  io  Tho  rispettato. 
ANNE  vERGORS  -  Non  è  più  il  tcmpo  della  raccolta,  ma  quello  della 
semina.  La  terra  a  lungo  ci  ha  nutriti  ed  è  tempo  che  io  la  nutra 
a  mia  volta. 

(volgendosi  verso  violaine) 

Con  questo  seme  inestimabile. 
GIACOMO  HURY  (torccndosi  le  braccia)  -  Violaine,  Violaine,  mi  senti  tu, 

Violaine? 
MARA  (facendosi  avanti  con  violenza)  -  Non  sente!  La  vostra  voce  non 

arriva  fino  a  lei!  Ma  io,  io  saprò  farmi  sentire. 

(con  voce  bassa  e  intensa) 

Violaine!  Violaine!  sono  tua  sorella!  mi  senti  tu?   Violaine! 
GIACOMO  HURY  -  La  sua  mano!  Ho  visto  la  sua  mano  muoversi! 
MARA  -  Ah  ah  ah!  Lo  vedete?  sente!  ha  sentito! 

Quella  voce,  quella  stessa  voce  di  sua  sorella  che  un  certo  gior- 
no di  Natale  ha  fatto  forza  fino  al  fondo  delle  sue  viscere! 
GIACOMO  HURY  -  Padre,  padre!  è  pazza!  Sentite  che  cosa  dice? 


234  PAUL   CLAUDEL 

Quel  miracolo...  quella  bambina...  io  sono  pazzo...  lei 
è  pazza! 
ANNE  VERCORS  -  Ha  dctto  la  verità.  So  tutto. 

MARA  -  No,  no,  no!  non  sono  pazza!  E  lei,  guardate!  lei  sente;  lei  sa, 
lei  ha  capito! 

Pan  pan  pan!... 

Che  cosa  diceva  il  padre,  poco  fa,  che  cosa  dice  il  primo  tocco 
dell'Angelus? 
ANNE  VERCORS  -  U Angelo  di  Dio  ha  portato  V annunzio  a  Maria  ed 

ella  ha  concepito  per  opera  dello  Spirito  Santo, 
MARA  -  E  che  cosa  dice  il  secondo  tocco? 
ANNE  VERCORS  -  Ecco  VanccUa  del  Signore,  sia  fatto  di  me  secondo  la 

vostra  volontà. 
MARA  -  E  che  cosa  dice  il  terzo  tocco? 

ANNE  VERCORS  -  E  il  Vcrbo  /è  fatto  carne  ed  ha  abitato  fra  noi, 
MARA  -  E  il  Verbo  /è  fatto  carne  ed  ha  abitato  fra  noi. 

E  il  grido  di  Mara,  e  Tappello  di  Mara  e  il  ruggito  di  Mara, 
anch'esso,  anch'esso  s'è  fatto  carne  nel  seno  di  quest'orrore,  nel 
seno  di  questa  nemica,  nel  seno  di  quest'essere  in  disfacimento,  nel 
seno  di  questa  abominevole  lebbrosa! 

E  questa  bimba  che  lei  m'aveva  preso. 

Dal  fondo  delle  mie  viscere  io  ho  gridato  cosi  forte  che  alla 
fine  gliel'ho  strappata,  l'ho  strappata  a  questa  tomba  vivente. 

Questa  bambina  mia  che  io  ho  concepito  ed  è  lei  che  l'ha  mes- 
sa al  mondo. 
GIACOMO  HURY  -  È  lei  che  ha  fatto  questo? 
MARA  -  Tu  sai  tutto!  Si,  quella  notte,  la  notte  di  Natale! 

Aubaine,  t'ho  detto  che  era  malata,  non  è  vero,  era  morta!  un 
corpicino  ghiacciato! 

E  tu  dici  che  e  lei  che  ha  fatto  questo?  È  Dio,  è  Dio  che  ha 
fatto  questo?  Dopo  tutto  sono  stata  io  la  più  forte!  È  Mara,  è  Mara 
che  ha  fatto  questo! 

(Giacomo  Hury  lancia  una  specie  di  urlo,  e,  respingendo  Mara,  si  get- 
ta ai  piedi  di  Violaine) 

MARA  -  Si  mette  in  ginocchio!  Questa  Violaine  che  l'ha  tradito  per  un 
lebbroso, 

(E  questa  terra,  che  basta  a  tutti,  non  era  buona  per  lei!) 
E  quella  parola  che  aveva  giurata,  con  le  sue  labbra  lei  l'ha 
messa  fra  le  labbra  di  un  lebbroso... 
GIACOMO  HURY  -  Taci! 
MARA  -  Violaine!  È  lei  sola  ch'egli  ama.  È  lei  sola  che  amavano  tutti! 


l'annunzio  a  maria  235 

È  lei  sola  che  amavano  tutti!  ed  ecco  suo  padre  che  l'abban- 
dona, e  sua  madre  che  tanto  dolcemente  la  consiglia,  e  il  suo  fidan- 
zato come  ha  creduto  in  lei! 

E  questo  era  tutto  il  loro  amore.  Il  mio  è  di  un'altra  specie! 
GIACOMO  HURY-  È  vcro!  E  so  anche  che  sei  tu  che  hai  condotto  Vio- 
laine  fino  a  quella  cava  di  sabbia, 

Una  mano  che  la  trae  per  mano  e  Taltra  che  la  spinge. 
MARA  -  Lui  sa  questo!  niente  gli  sfugge. 
GIACOMO  HURY  -  Ho  detto  la  verità  o  no? 

MARA  -  E  bisognava  che  quest'uomo  che  mi  appartiene  e  che  è  mio 

fosse  tagliato  in  due?  una  metà  qui  e  l'altra  nel  bosco  di  Chevoche? 

£  bisognava  che  la  mia  bambina  che  è  mia  fosse  tagliata  in 

due  e  che  avesse  due  madri?  Una  per  il  corpo  e  l'altra  per  l'anima? 

Sono  io,  sono  io  che  ho  fatto  questo! 

(accasàata  e  con  voce  sorda,  guardandosi  le  mani) 

Sono  io,  sono  io  che  ho  fatto  questo! 
ANNE  vERcoRs  -  No,  Mara,  non  sci  tu,  e  un  altro  che  si  era  imposses- 
sato di  te.  Mara,  bambina  mia!  tu  soffri  ed  io  vorrei  consolarti! 
È  tornato  alla  fine,  è  tuo  per  sempre  questo  padre 
che  un  tempo  amavi! 

Mara,  Violaine!  o  mie  due  figliuoline,  o  mie  due  pie- 
coline  nelle  mie  braccia!  Tutt'e  due  vi  amavo  e  i  vostri  cuori  uniti 
ne  facevano  uno  solo  con  il  mio. 
MARA  (con  un  grido  straziante)  -  Padre,  padre!  la  mia  bambina  era 
morta  ed  è  lei  che  l'ha  risuscitata! 

VOCE  DI  BAMBINO   {fuort)  - 

Margherita  di  Parigi 
Dammi  i  tuoi  scarpini  grigi 
Per  andare  in  ciel  da  Dio! 
Com'è  caldo,  com'è  bello! 
Sento  il  canto  del  fanello 
Che  fa  ciò  ciò  ciò! 

(a  metà  della  canzone  Violaine  alza  lentamente  il  braccio  e  lo  lascia 
ricadere  accanto  a  Giacomo) 

VIOLAINE  -  Padre,  è  graziosa  questa  canzone,  la  riconosco!  è  quella  che 
cantavamo  un  tempo  quando  andavamo  a  cogliere  le  more  lungo 
le  siepi. 

Noi  due  Mara! 

ANNE  x-ERcoRS  -  Violaine.  è  Giacomo  quello  che  è  vicino  a  te. 


236  PAUL   CLAUDEL 

vioLAiNE  -  È  sempre  in  collera? 

ANNE  VEROORS  -  NoD  è  più  in  Collera. 

VIOLAINE  {gli  mette  una  mano  sulla  testa)  -  Buongiorno,  Giacomo! 

GIACOMO  HURY  {con  voce  sorda)  -  O  mia  fidanzata  tra  i  rami  in  fiore, 

salve! 
VIOLAINE  -  Padre,  ditegli  che  l'amo. 
ANNE  VERcoRS  -  Ascoltalo  chc  non  dice  niente. 
VIOLAINE  -  Pietro  di  Craon... 
ANNE  VERCORS  -  Pietro  di  Craon? 
VIOLAINE  -  Pietro  di  Craon,  ditegli  che  l'amo. 

Quel  bacio  che  gli  ho  dato,  bisogna  che  ne  faccia  una 
chiesa. 
ANNE  VERCORS  -  È  già  incominciata. 

VIOLAINE  -  £  Mara,  lei  mi  ama!  Lei  sola,  lei  sola  ha  creduto  in  me! 
ANNE  VERCORS  -  Giacomo,  ascolta  attentamente! 

VIOLAINE  -  La  bimba  che  lei  m'ha  dato,  la  bimba  che  mi  è  nata  fra  le 
braccia. 

Ah,  gran  Dio  com'era  bello,  ah,  com'era  dolce! 
Mara!  Ah  come  ha  bene  obbedito,  ah,  come  ha  fatto  tutto 
quello  che  doveva  fare! 

Padre!  padre!  ah  com'è  dolce,  ah  com'è  terribile  mettere 
un'anima  al  mondo! 
ANNE  VERCORS  -  Questo  mondo  qui,  vuoi  dire,  o  ce  n'è  un  altro? 
VIOLAINE  -  Ce  n'è  due  e  io  dico  che  non  ce  n'è  che  uno  e  che  basta,  e 

che  la  misericordia  di  Dio  è  immensa! 
GIACOMO  HURY  -  La  felicità  è  finita  per  me. 
VIOLAINE  -  È  finita,  che  cosa  importa? 

Non  ti  è  stata  affatto  promessa  la  felicità,  lavora,  è  tutto 
quello  che  ti  si  domanda. 

Interroga  la  vecchia  terra  e  sempre  essa  ti  risponderà  con 
il  pane  e  il  vino. 

Per  me,  io  ho  finito  e  passo  oltre. 

Di',  che  cos'è  un  giorno  lontano  da  me?  Ben  presto  sarà 
passato. 

E  allora  quando  verrà  la  tua  volta  e  tu  vedrai  la  grande 
porta  scricchiolare  e  muoversi, 

Ci  sarò  io  dall'altra  parte,  vicina. 
GIACOMO  HURY  -  O  mia  fidanzata  tra  i  rami  in  fiore,  salve! 
VIOLAINE  -  Ti  ricordi? 

Giacomo,  buongiorno,  Giacomo! 


l'annunzio  a  maria  237 

{a  questo  punto  entrano  i  servi  della  fattoria,  tenendo  dei  ceri  che  ac- 
cendono) 

vioLAiNE  -  Giacomo,  sei  ancora  qui? 

GIACOMO  HURY  -  SoDO  qiÙ. 

VIOLAINE  -  L'annata  è  stata  buona  e  il  grano  rigoglioso? 
GIACOMO  HURY  -  Tanto  che  non  si  sa  più  dove  metterlo. 
VIOLAINE  -  Ah! 

Che  cosa  bella  una  ricca  messe! 
Si,  anche  ora  mi  ricordo  e  trovo  che  è  bello! 
GIACOMO  HURY  -  Si,  Violainc. 
VIOLAINE  -  Com'è  bello  vivere!  (con  profondo  fervore)  e  come  la  gloria 

di  Dio  è  immensa! 
GIACOMO  HURY  -  Vìvì  dunque  e  resta  con  noi. 
VIOLAINE  (ricade  sul  giaciglio)  -  Ma  com'è  bello  anche 

Morire  quando  è  ben  finito  e  che  si  stende  su  noi  a  poco 
a  poco 

L'oscuramento  come  di  un'ombra  molto  scura. 

(silenzio) 
l'angelus  (voce)'. 

Pax  pax  pax 
Pax  pax  pax 
Pére  ph-e  pére 

(a  distesa) 

Gloria  in  excelsis  Deo  et  in  terra  pax  hominibus  bonae  voluntatis. 

Lae  ta  re 
Lae  ta  re 
Lae  ta  rei 

(Anne  Vercors  va  a  prendere  Mara  e  la  conduce  tenendola  per  mano 
vicino  a  Violaine,  di  fronte  a  Giacomo  Hury,  Con  la  mano  sinistra 
prende  la  mano  di  Giacomo  Hury  e  la  solleva  a  mezz'aria,  A  que- 
sto punto  Mara  libera  la  sua  mano  e  prende  quella  di  Giacomo 
Hury  che  resta  a  testa  bassa  a  guardare  Violaine.  Il  padre  prende 
le  due  mani  con  le  sue  e  fa  con  esse  solennemente  un  atto  di  ele- 
vazione. Solo  a  questo  punto  Giacomo  alza  la  testa  e  guarda  Mara 
che  tiene  gli  occhi  fissi  con  durezza  su  lui.  Le  campane  suonano) 


La  presente  traduzione  è  a  cura  di  Dora  Siciliano. 


JEAN  filRAVDOUX 


Nato  il  1882  a  Bellac,  nel  Limosino,  morto  a  Parigi  al  prin- 
cipio del  1944,  Jean  Giraudoux*  passa  eia  brève  et  pleine»  av- 
ventura della  vita  rappresentandovi  brillantemente  —  cioè  con 
estrema  modestia  e  cortesia  —  la  difficile  parte  del  primo  della 
classe.  Scolaro  nutrito  di  studi  classici,  «normalien»,  giornalista, 
diplomatico,  funzionario,  combattente,  colleziona  menzioni  ono- 
revoli, ferite,  medaglie,  diplomi  di  civiche  benemerenze,  schede 
di  biografie  ideali  e  documenti  di  esemplare  esistenza.  Dalla  pen- 
sosa giovinezza  provinciale  alle  sale  del  Quai  d'Orsay,  da  Bellac 
—  immobile  paese  delle  nostalgie  e  dei  ritorni  —  al  continuo  mo- 
vimento dei  viaggi  che  lo  portano  dall'adorata  Francia  all'amata 
(e  ingrata)  Germania  o  all'c Amica  America»,  dai  paesi  baltici 
all'Australia  (nel  1934  è  nominato  Ispettore  degli  uffici  consolari), 
Giraudoux  attraversa  zone  e  antipodi  in  compagnia  di  Simone  il 
Patetico,  di  Siegfried  ed  il  Limosino,  del  Controllore  di  Pesi  e 
Misure  (e  senza  esclusione  di  Susanne,  Alcmene  ed  altre  e  elette  >) 
distribuendo  strette  di  mano,  buoni  sentimenti,  lezioni  di  borghese 
conformismo  e  felici  paradossi.  Viaggiatore  solitario  in  definitiva, 
egli  mette  un'arte  ed  uno  spirito  di  specie  rara  al  servizio  cordiale 
della  tribù,  cercando  sulP* oceano  profondo»  che  sarebbe  la  vita, 
€  la  schiuma  leggera  della  saggezza  »  :  ed  è  afiar  suo  e  suo  segreto 
quel  correre  da  un  estremo  all'altro  senza  infrazioni  di  limiti  e 
senza  cadute  nell'abisso,  quel  tenere  la  sensibile  bilancia  dei  com- 
pensi e  delle  riparazioni  fra  realtà  e  sogno,  il  trovare  il  comune 
denominatore  umano  fra  Ulisse  e  Ettore  (o  tra  Filippo  Berthelot 
e  Poincaré),  la  misura  fantastica  che  fa  sembrare  giuste  le  piace- 
voli combinazioni  di  atticismo  ed  alessandrinismo,  di  razionale  ele- 


*  Cfr.  e  Panorama  teatro  francese  »  voi.  I,  pag.  59. 


16.  •  Teatro  francete 


242  JEAN   GIRAUDOUX 

ganza  francese  e  di  romanticismo  germanico,  di  abito  provinciale 
e  di  vocazione  europea,  di  vocabolario  ricercato  e  di  sintassi  natu- 
rale. Ed  è,  nel  romanzo  come  nel  teatro,  la  pratica  dclFcà  re- 
bours  >  che  nel  rovescio  della  medaglia  cerca  il  contrappunto  che 
autentifica  la  verità  del  diritto,  che  nell'altro  lato  dello  specchio 
trova  la  lezione  e  il  senso  eterno  della  grandezza  delPeffimera  crea- 
tura umana. 

Non  è  meraviglia  che,  partendo  dagli  esercizi  di  Provinciales 
ed  École  des  indifférents,  costeggiando  i  vaghi  paesi  e  le  cose  viste 
di  Letture  per  un'ombra  e  òtW Adorabile  Clio,  i  romanzi  di  Gi- 
raudoux  —  si  ricordino  Simon  le  Pathétique  (1918),  Suzanne  et 
le  Pacifique  (1921),  Siegfried  et  le  Limousin  (1922),  Juliette  au 
pays  des  hommes  (1924),  Bella  (1926),  Eglantine  (1927),  Aven- 
tures  de  Jerome  Bardini  (1930),  Combat  avec  l'Ange  (1934),  Choix 
des  Blues  (1938)  —  errino  fra  cronaca  e  mito,  fra  e  divagazioni  poe- 
tiche >  e  digressioni  culturali,  fra  il  saggio,  la  tesi,  il  problema  po- 
litico, il  giuoco  con  l'ambigua  Sfinge,  la  raffinata  sofisticazione  e 
il  pezzo  di  bravura.  E  non  sorprende  che  il  romanzo  del  romanzo 
abbia  irritato,  più  che  sedotto,  il  pubblico  del  romanzo  vero,  gli 
affezionati  delle  favole  tradizionali  e  i  nuovi  Ispettori  della  natu- 
ralistica fenomenologia.  Ma  la  scommessa  fra  ragion  poetica  e 
ragione  di  stato  comune,  fra  <  l'idée  refuc  >  e  la  libera  interpreta- 
zione del  paradosso,  sarà  vinta  al  banco  di  prova  del  cosiddetto 
specchio  del  vero  e  del  verosimile  —  sulla  scena  —  quando  Girau- 
doux  trova  in  Jouvet  il  regista  e  l'attore  ideale  che  ha  scoperto  in 
Giraudoux  l'autore  ideale. 

Alla  base  di  questo  teatro  c'è  quasi  sempre  un  semplice  pro- 
blema alla  ricerca  di  dimostrazioni  per  assurdo,  un  luogo  comune 
in  crisi  di  novità,  un  vecchio  tema  in  sommossa  contro  l'ordinaria 
accezione:  e  colloqui,  conflitti,  intese,  malintesi  hanno  luogo  alla 
frontiera  che  unisce  e  divide  la  terra  cognita  degli  uomini  e  il 
mondo  dei  miti  sediziosi,  nella  zona  neutra  dove  le  ombre  e  le 
luci  hanno  eguali  probabilità  di  prendere  corpo  nella  tragica  realtà 
della  circostanza  o-  di  dissolversi  nell'ironia  del  caso;  e  in  ogni 
caso  la  peripezia  delle  alternative  e  dei  contrari  si  risolve  nel  po- 
stulato di  una  morale  superiore  o  nella  catarsi  dì  un  patetico 
miraggio. 


PRESENTAZIONE  243 

Semplice  problema  di  guerra  e  pace  risolto  dall'ottimistica 
avventura  di  Siegfried  (1928)  o  dalle  catastrofiche  manovre  di  giu- 
risti, chauvinisti  e  poetastri  {La  guerre  de  Troie  n'aura  pas  lieu, 
1935),  eterna  lotta  del  Bene  e  del  Male  finita  nella  disfatta  della 
€  coppia»,  {Sodome  et  Gomorrhe,  1943)  o  nella  benefica  vittoria 
dell'angelo  folle  {La  Folle  de  Chaillot,  rappresentata  il  1945),  eter- 
no connubio  del  naturale  col  sovrannaturale  conchiuso  nel  lieto 
incidente  di  Intermezzo  (1933)  o  nel  dramma  di  Ondine  (1939), 
moralità  leggendarie  di  Amphytrion  38  (1929),  di  Judith  {\9Z\\ 
di  Electre  (1937)  che  danno  l'ennesima  —  e  inedita  —  dimostra- 
zione della  permanente  incompatibilità  o  dell'iato  che  esiste  fra 
quello  che  è  scritto  dal  cieco  destino  e  quello  che  leggono  gli  occhi 
umani,  fra  il  vero  e  il  falso  di  <  un  povero  universo  infestato  dagli 
dei  »,  dagli  idoli  e  dagli  aruspici. 

Ed  è. nell'iato  —  o  nel  percorso  che  va  dalla  premessa  nota 
alla  fine  prestabilita  —  che  tragedia  possibile  e  commedia  virtuale 
trovano  le  risorse  dell'ipotesi  eroica  e  la  dignità  del  libero  arbitrio 
che  si  vendica  del  caso  e  del  fato  col  giuoco  delle  sorprese  e  delle 
parole,  che  si  nobilita  col  ricorso  alla  fantasia  della  ragione,  che 
cerca  di  inverarsi  nella  logica  eteronoma  del  paradosso.  Siegfried 
stabilirà  dunque  l'accordo  di  Francesi  e  Tedeschi  sulle  differenze 
e  sui  difetti  dei  due  popoli,  l'immortale  Giove  è  vinto  nella  gara 
di  grandezza  dalla  creatura  nata  per  morire,  il  delitto  inespiabile 
di  Elettra  e  di  Egisto  si  trasforma  nel  processo  di  purificazione 
che  farà  rifiorire  l'aurora  sulla  terra  contaminata  dalla  menzogna, 
Andromaca  e  Penelope,  Ettore  ed  Ulisse  gettano  l'ideale  ponte 
della  solidarietà  umana  sul  mondo  perduto  dei  demagoghi,  Giu- 
ditta uccide  per  amore  un  Oloferne  che  ama  i  giardini,  le  case 
ordinate  e  le  belle  stoviglie,  diviene  suo  malgrado  disperata  santa 
e  vittima  di  un'odiosa  religione.  Tragicommedie  in  sordina  che  si 
svolgono  nella  quarta  dimensione  di  un  universo  sospeso  fra  !'<  hic 
et  nunc  >  del  dato  umano  e  la  necessaria  evasione,  attraverso  l'uso 
di  una  quarta  unità  nella  quale  l'azione  dell'inverso  si  fonde  con 
l'imprevisto  della  seconda  verità,  con  il  verosimile  dell'assurdo, 
con  le  rivelazioni  del  dizionario  dei  lapsus,  con  gli  ozi  di  vna 
Capua  letteraria  dove  la  malinconica  saggezza  della  vita  si  abban- 


244  JEAN  GIRAUDOUX 

dona  alle  delizie  delle  consolanti  metafore  e  delle  metatesi  ripa- 
ratrici. 

Il  teatro  degli  armistizi  in  terre  neutre,  degli  interregni  fra 
la  repubblica  dei  sogni  e  la  dittatura  del  risveglio  dà  in  Intermezzo 
la  pili  caratteristica  rappresentazione  e  forse  la  misura  più  origi- 
nale dello  spirito  di  Giraudoux.  Nella  commedia  di  costumi  pro- 
vinciali e  di  intreccio  eterodosso,  buon  senso  e  ironia  tengono  so- 
spesa fra  il  pieno  e  il  vuoto  la  bilancia  che  pesa  i  valori  della  vita 
e  gl'imponderabili  del  mistero,  facendola  piacevolmente  oscillare 
fra  i  due  poli,  barando  leggermente  per  fissare  l'irreparabile  punto 
esatto:  e  mentre  nel  piatto  delle  antipatie  si  trovano  miopi  signo- 
rine Mangebois  che  vedono  giusto  e  un  grottesco  Ispettore  che  ha 
ragione  avendo  torto,  nel  piatto  delle  simpatie  son  messi  alla  rin- 
fusa uno  speziale  che  vende  lucciole  filosofiche  e  maneggia  dia- 
pason illusori,  delle  bambine  svagate  e  saccenti,  una  brava  ragazza 
afflitta  da  bovarismo  metafisico  e  da  retorici  vapori:  e  fra  l'uno  e 
l'altro  polo  errano  uno  Spettro  di  modesta  immaginazione  che 
dovrebbe  incarnare  le  infinite  seduzioni  dell'irreale  ed  un  goffo 
funzionario  che  si  rivela  estremamente  abile  nell'estrarre  dalla  sua 
banale  realtà  il  lirismo  della  vita  e  la  magia  delle  cose.  Il  dio  delle 
ingegnose  macchine  ristabilirà  l'ordine  dell'Ispettore  con  una  tro- 
vata dello  speziale,  ma  è  nel  disordine  dell'intermezzo  o  nella 
fluidità  del  crepuscolo,  che  linguaggio  poetico  ed  arte  del  para- 
dosso tessono  la  tela  dove  il  filo  d'oro  ed  il  burlesco  s'intrecciano 
nell'incantevole  «distrazione»  della  fatalità  umana. 

È  di  prammatica  imbarcare  Giraudoux  insieme  con  Marivaux 
e  con  Musset,  ma  la  nave  Fantasia  che  veleggia  verso  la  Citerà 
delle  sorprese,  dei  felici  stratagemmi  e  delle  tristi  favole  porta  vi- 
sitatori solitari  che  si  conoscono  appena  e  che  vivono  alla  loro 
inconfondibile  maniera. 


Oltre  i  numeri  speciali  di  Confluences  e  de  L'Arche  (1944),  cfr. 
Magny  C.-E.,  Précicux  G.,  1945;  Bcuclcr  A.,  Les  instants  de  G.,  1948; 
Marker  Chr.,  G.  par  lui-méme,  1952;  Mcrcier  Campiche  M.,  Le  Théà- 
tre  de  G.  et  la  condition  humaine,  1954;  Debidour  V.  H.,  /.  G.,  1955. 


Intermezzo 


PERSONAGGI 

isabella 

armanda  mangebois 

leonide  mangebois 

il  controllore 

l'ispettore 

il  sindaco 

lo  speziale 

cambronne 

CRAPUCE 

LO  SPETTRO 

LUCE 

GISELLA 

DAISY 

GILBERTA 

IRENE 

NICOLETTA 

MARIA  LUISA 

VIOLA 


I  due  boia 


le  bambine 


INTERMEZZO 


ATTO    PRIMO 

SCENA  PRIMA 

La  campagna.  Una  bella  prateria.  Dei  boschetti.  Verso  sera. 

IL  SINDACO,  poi  LO  SPEZIALE 

IL  SINDACO  {entrando  solo  e  parlando  ad  alta  voce)  -  Oh!  Ohi  Eviden- 
temente il  posto  è  strano.  Nessuno  risponde,  nemmeno  l'eco...  Oh! 
Oh! 

LO  SPEZIALE  (entrando  dietro  di  lui)  -  Oh!  Oh! 

IL  SINDACO  -  M  avete  fatto  paura,  caro  Speziale. 

LO  SPEZIALE  -  Vi  chiedo  scusa,  signor  Sindaco,  avete  creduto  che  fos- 
se lui? 

IL  SINDACO  -  Non  scherzate!  So  bene  che  non  esiste,  forse,  che  tutti 
coloro  che  pretendono  di  averlo  incontrato  in  questi  paraggi  sono 
forse  vittime  di  un'allucinazione.  Ma  dovete  ammettere  che  questo 
luogo  è  strano. 

LO  SPEZIALE  -  Perché  l'avete  scelto  per  il  nostro  incontro? 

IL  SINDACO  -  Per  la  stessa  ragione  che  senza  dubbio  lo  fa  scegliere  a 
lui.  Per  essere  lontani  dalla  vista  dei  curiosi.  Non  vi  ci  sentite  a 
disagio? 

LO  SPEZIALE  -  Per  nulla.  Tutto  è  verde  e  calmo.  Sembra  di  essere  su 
un  terreno  di  golf. 

IL  SINDACO  -  Non  se  ne  incontrano  mai,  sui  terreni  di  golf? 

LO  SPAZIALE  -  Forse  se  ne  incontreranno  più  tardi,  quando  sotto  il  va 
e  vieni  di  giocatori  maschi  e  femmine  si  sarà  formata  quell'humus 
di  banali  parole  e  di  sincere  confessioni,  di  cicche  di  sigaro  e  di 
piumini  da  cipria,  di  rivalità  e  di  simpatie  che  è  necessaria  per 
umanizzare  un  suolo  ancora  primitivo.  Per  il  momento,  questi  bei 


248  JEAN   GIRAUDOUX 

terreni  ben  tracciati,  soffici  e  sorvegliati  sono  certamente  i  meno 
malefìci.  Tanto  più  che  sono  coperti  di  erbetta  inglese,  cioè  della 
graminacea  meno  carica  di  misteri...  Niente  giusquiamo,  né  centau- 
rca  ^.  È  vero  che  qui  avete  queste  piante,  a  quel  che  vedo,  e  anche 
la  mandragora. 

IL  SINDACO  -  È  vero  quel  che  si  racconta  della  mandragora? 

LO  SPEZIALE  -  A  proposito  della  stitichezza? 

IL  SINDACO  -  No,  deirimmortalità.  Che  i  bambini  concepiti  da  un  im- 
piccato sotto  una  mandragora  divengono  esseri  demoniaci  e  vivono 
senza  fine? 

LO  SPEZIALE  -  Tutti  i  simboH  hanno  un  senso.  Basta  interpretarli. 

IL  SINDACO  -  Forse  abbiamo  da  fare  con  un  simbolo  di  questo  genere. 

LO  SPEZIALE  -  Come  appare,  di  solito:  mingherlino,  deforme? 

IL  SINDACO  -  No.  Alto,  con  un  bel  viso. 

LO  SPEZIALE  -  Si  ebbero  in  passato  degli  impiccati,  nella  regione? 

IL  SINDACO  -  Da  quando  sono  sindaco,  ho  avuto  in  tutto  due  suicidi. 
Il  mio  vignaiuolo  che  si  fece  saltare  in  aria  con  il  suo  cannone  anti- 
grandine e  la  vecchia  droghiera  che  si  impiccò,  ma  per  i  piedi. 

LO  SPEZIALE  -  Ci  vuole  un  impiccato  uomo,  da  venti  a  quarant'anni... 
Ma  comincio  a  credere  che  quei  signori  si  siano  smarriti.  L'ora 
della  riunione  è  passata. 

IL  SINDACO  -  Nulla  da  temere.  Ho  pregato  il  Controllore  dei  Pesi  e  Mi- 
sure di  far  da  guida  all'Ispettore.  Cosi  saremo  in  quattro  a  for- 
mare la  commissione  incaricata  delle  indagini. 

LO  SPEZIALE  -  Una  commissione  di  tre  membri  sarebbe  stata  più  che 
sufficiente. 

IL  SINDACO  -  Il  nostro  giovane  Controllore  è  tuttavia  molto  simpatico. 

LO  SPEZIALE  -  Simpaticissimo. 

IL  SINDACO  -  E  coraggioso!  Al  nostro  pranzo  del  mercoledì,  dove  prima 
che  venisse  lui  i  discorsi  erano  piuttosto  spinti,  non  si  lascia  sfug- 
gire nessuna  occasione  per  difendere  la  virtù  delle  donne.  Ieri,  in 
due  parole  ci  ha  definitivamente  riabilitata  Caterina  II,  nonostante 
che  l'Ispettore  fosse  molto  mal  disposto  verso  di  lei. 

LO  SPEZIALE  -  Io  intendevo  parlare  dell'Ispettore.  Perché  averlo  fatto 
venire  da  Limogcs?  Si  dice  che  sia  brutale.  Agii  spettri  non  piac- 
ciono gli  uomini  grossolani. 

IL  SINDACO  -  Ma  è  venuto  da  solo.  Vuole  scomodarsi  di  persona  per 
combattere  le  cose  anormali  o  misteriose  che  avvengono  nel  suo 


^  Nel   testo  si  parla   anche  di   vertadine,  parola   probabilmente   inventata   da 
Giraudoux. 


INTERMEZZO  249 

distretto.  Appena  si  manifesta  qualche  fenomeno  inesplicabile  nella 
fauna,  nella  flora  o  nella  stessa  geografìa  della  regione,  arriva 
rispettore  che  riporta  l'ordine.  Conoscete  le  sue  ultime  imprese? 

LO  SPEZIALE  -  Nel  Berry,  con  le  sue  pretese  ondine  ? 

IL  SINDACO  -  Nello  stesso  Limosino!  Prima  a  Rochechouart,  dove  ha 
fatto  murare  dal  genio  militare  la  fonte  che  chiamava.  E  allo  stal- 
laggio di  Pompadour,  dove  impose  i  paraocchi  agli  stalloni  che 
s'erano  messi  ad  usare  gli  occhi  come  uomini,  a  guardarsi  di  tra- 
verso, a  farsi  cenni  con  pupille  e  palpebre.  Potete  immaginare  come 
l'abbia  allettato  quel  che  sta  accadendo  nella  nostra  città...  Mi  stu- 
pisco soltanto  che  sia  in  ritardo. 

LO  SPEZIALE  -  Chiamiamolo! 

IL  SINDACO  -  No,  no.  Non  gridate.  Non  vi  pare  che  l'acustica  di  questo 
prato  abbia  qualcosa  di  torbido,  di  inquietante? 

LO  SPEZIALE  -  Il  Controllore  ha  la  più  bella  voce  di  basso  della  contra- 
da. Lo  sentiremo  da  un  chilometro.  Oh!  Oh!... 


SCENA    SECONDA 

GLI   STESSI,   ISABELLA,   LE   SCOLARE 

(si  sentono  voci  acute  di  bambine  che  rispondono-.  «  Ohi  Ohi  »  e  su- 
bito Isabella  e  le  scolare  entrano  in  scena) 

IL  SINDACO  -  Ah!  È  la  signorina  Isabella.  Buon  giorno,  Signorina  Isa- 
bella. 

ISABELLA  -  Buon  giomo.  Signor  Sindaco. 

LO  SPEZIALE  -  Erborizzate,  bambine  mie? 

IL  SINDACO  -  Da  tre  mesi,  da  quando  la  maestra  è  malata,  la  Signorina 
Isabella  ha  accettato  di  sostituirla.  Essa  vuole  soltanto  tenere  le  le- 
zioni all'aria  aperta,  con  un  tempo  cosi  bello. 

ISABELLA  '  E  raccogliamo  anche  erbe.  Signor  Speziale.  È  necessario  che 
le  piccole  conoscano  la  natura  con  tutti  i  suoi  nomi  e  cognomi.  Ho 
già  un  sacco  pieno  di  erbe  curiose...  Scusateci,  ma  adesso  siamo  alla 
ricerca  di  quella  che  mi  è  pili  necessaria  per  la  lezione...  So  dove 
trovarla. 

LO  SPEZIALE  -  Quale? 

LE  BAMBINE  -  La  mandragora!  La  mandragora! 


250  JEAN   GIRAUDOUX 


SCENA    TERZA 

IL   SINDACO,   LO  SPEZIALE 

LO  SPEZIALE  -  Che  amabile  persona!  E  com'è  commovente  vedere  l'in- 
nocenza che  gira  cosi  senza  sospetto  e  senza  pericolo  attorno  ai 
simboli  del  male! 

IL  SINDACO  -  Vorrei  che  le  Signorine  Mangebois  avessero  su  di  lei  la 
stessa  opinione. 

LO  SPEZIALE  -  Che  vogliono  da  Isabella  quelle  due  talpe? 

IL  SINDACO  -  Lo  sapremo  fra  poco.  Hanno  chiesto  di  essere  sentite  dal- 
l'Ispettore; m'hanno  fatto  supporre  che  si  trattasse  di  Isabella,  e  di 
una  denuncia. 

LO  SPEZIALE  -  Che  hanno  da  denunciare?  Isabella  è  cosi  semplice,  cosi 
pulita,  cosi  differente  da  tutte  le  altre.  Le  altre  le  conoscete,  Signor 
Sindaco:  passano  i  pomeriggi  a  smarrirsi  nei  boschi  al  braccio  del 
cugino,  a  prendere  il  bagno  con  l'impiegato  negro  della  sottopre- 
fettura, a  leggere,  sdraiate  sul  prato,  il  marchese  de  Sade  illustrato... 
Ragazze,  insomma.  Isabella,  al  contrario,  non  soffre  di  languori  e 
di  curiosità  anticipate...  Guardate  l'onestà  della  sua  figura.  Accanto 
ad  ogni  essere,  ad  ogni  oggetto,  essa  sembra  la  chiave  destinata  a 
renderlo  comprensibile.  Guardatela,  a  cavallo  di  quel  querciolo,  a 
far  danzare  quel  somarello  agitando  un  cardo,  mentre  le  scolarette 
fanno  attorno  ad  essi  il  girotondo,  ed  ecco  che  la  necessità  dei  so- 
marelli  in  questo  basso  mondo  vi  appare  folgorante...  Anche  quella 
delle  ragazzine,  d'altronde...  Guardatele,  Signor  Sindaco:  che  gra- 
ziose figurine,  che  graziosi  piccoli  dorsi... 

IL  SINDACO  -  Via,  via,  caro  Speziale! 

LO  SPEZIALE  -  Ah,  ecco  il  Signor  Ispettore. 


SCENA    QUARTA 

GLI   STESSI,  l'ispettore,   IL  CONTROLLORE    . 

l'ispettore  -  La  prova,  caro  Controllore?  La  prova  che  gli  spiriti  non 
esistono,  che  il  mondo  invisibile  non  esiste?  Volete  che  ve  la  serva 
su  due  piedi,  in  un  minuto? 


INTERMEZZO  25 1 

IL  CONTROLLORE  -  Venendomi  da  un  alto  funzionario,  mi  sarà  preziosa. 

l'ispettore  -  Ammettete  che,  se  esistono,  gli  spiriti  debbono  sentirmi? 

IL  CONTROLLORE  -  A  parte  gli  spiriti  sordi,  è  indubbio  che  vi  sentano. 

l'ispettore  -  Che  sentano  dunque  questo:  Spiriti,  forme  di  vuoto  e  di 
bianco  d'uovo  (vedete  che  non  ho  peli  sulla  lingua;  se  hanno  un 
minimo  di  dignità  sanno  quel  che  resta  loro  da  fare),  l'umanità  in 
mia  persona  vi  sfida  a  comparire.  Vi  si  offre  un'occasione  unica, 
data  l'importanza  dei  presenti,  di  riacquistare  un  po'  di  credito  nel 
circondario.  Non  vi  chiedo  di  estrarre  dalla  mia  tasca  una  pappa- 
gallina  viva,  operazione  classica,  a  quanto  sembra,  presso  gli  spi- 
riti. Io  vi  sfido  a  far  si  che  un  volgare  passerotto  prenda  il  volo  da 
quest'albero,  dal  bosco,  dalla  foresta,  quando  avrò  contato  fino  a 
tre...  Conto,  Signor  Controllore:  uno...  due...  tre...  Vedete?  roba 
da  far  pietà,  {gli  vola  il  cappello)  Dio,  che  vento! 

LO  speziale  -  Noi  non  sentiamo  il  minimo  soffio,  Signor  Ispettore. 

l'ispettore  -  Basta.  Pietoso! 

IL  CONTROLLORE  -  Forse  gli  Spiriti  non  credono  agli  uomini. 

IL  SINDACO  -  O  forse  l'evocazione  aveva  un  carattere  un  po'  generale. 

l'ispettore  -  Volete  che  li  chiami  ciascuno  col  proprio  nome?  Volete 
che  chiami  Asflarotte? 

LO  speziale  -  Asflarotte,  il  più  suscettibile  e  il  più  crudele  degli  spi- 
riti, colui  che,  si  dice,  penetra  nell'organismo  umano  e  prova  pia- 
cere a  torturarlo?  Badate,  Signor  Ispettore!  Non  si  sa  mai  dove 
portano  simili  giuochi. 

l'ispettore  -  Tu  mi  senti,  Asflarotte?  I  più  vili  e  i  più  ridicoli  dei 
miei  organi  oggi  ti  sfidano.  Non  i  polmoni,  non  il  cuore,  ma  la 
vescichetta  biliare,  la  glottide  e  la  membrana  starnutatoria.  Colpisci 
uno  di  essi  col  minimo  dolore,  con  la  più  piccola  contrazione,  ed 
io  crederò  in  te:  uno...  due...  tre...  aspetto!...  (scivola)  Com'è 
umido,  qui! 

il  sindaco  -  Non  piove  da  tre  settimane. 

LO  speziale  .  Gli  spiriti  hanno  una  nozione  del  tempo  diversa  dalla 
nostra.  Forse  Asflarotte  ha  risposto  ai  vostri  insulti  con  grande  an- 
ticipo... Posso  chiedervi  la  causa  delle  cicatrici  del  vostro  naso? 

l'ispettore  -  Una  tegola  che  m'è  caduta  sulla  testa  quando  camminavo 
apjpena. 

LO  speziale  -  Ecco  la  spiegazione  del  suo  silenzio.  Vi  ha  già  risposto 
quarant'anni  fa. 

l'ispettore  -  Non  mi  aspettavo  altro  da  lui:  non  esiste  ed  è  vile  e  se 
la  prende  con  i  bambini...  Signori,  la  prova  e  fatta,  inconfutabil- 


252 


JEAN    GIRAUDOUX 


mente...  Mi  permcitcrò  dunque  di  sorridere  quando  mi  dite  che  il 
vostro  borgo  e  infestato  dagli  spettri. 

IL  SINDACO  -  È  infestato,  Signor  Ispettore... 

l'ispettore  -  So  che  cos'è  in  realtà  un  borgo  infestato.  Batterie  di  cu- 
cina che  risuonano  di  notte  negli  appartamenti  dai  quali  si  vuol 
cacciare  il  locatario,  apparizioni  nelle  terre  divise  per  scoraggiare  la 
parte  avversa.  Onde  le  comari  al  lavoro.  Onde  suspicioni  e  agita- 
zioni spinte  alla  calunnia  e  fino  al  delitto.  Voi  dovevate  eleggere 
un  consigliere  generale.  Ne  nacquero  risse  attorno  alle  urne,  evi- 
dentemente, risse  sanguinose.  In  fede  mia,  tanto  peggio:  l'urna,  an- 
che elettorale,  chiama  il  cadavere. 

IL  SINDACO  -  Nient 'affatto.  Signor  Ispettore,  al  contrario. 

l'ispettore  -  Si  è  votato  senza  effusione  di  sangue?  È  appena  demo- 
cratico, e  per  nulla  demoniaco. 

IL  sindaco  -  Non  si  è  votato.  Nessuno  ha  votato,  né  pensato  a  votare. 
Gli  elettori  tuttavia  si  erano  alzati  all'alba,  coscienti  del  loro  dovere, 
e  si  sono  precipitati  verso  i  manifesti.  Ma  splendeva  il  sole  e  tutti 
pretendono  di  aver  letto  sui  cartelli:  per  il  sole,  nessuna  astensione! 
E  sono  andati  a  passeggiare  fino  a  sera. 

l'ispettore  -  Sono  stati  assoldati  dalla  reazione. 

LO  SPEZIALE  -  D'accordo  con  il  sole. 

IL  controllore  -  Certamente  no.  Signor  Ispettore,  e  il  Signor  Sindaco 
non  vi  ha  detto  che,  da  alcune  settimane,  cose  egualmente  strane 
accadono  nella  città.  Un'influenza  ignota,  i  cui  effetti  mi  sembrano 
simpatici,  sovverte  a  poco  a  poco  tutti  i  principi,  d'altronde  falsi, 
sui  quali  si  fonda  la  società  civile. 

l'ispettore  -  Vi  dispenso  dai  commenti  personali  e  vi  invito  a  spie- 
garvi. 

IL  CONTROLLORE  -  Mi  spiego.  I  ragazzi,  per  esempio,  che  son  picchiati 
dai  genitori  abbandonano  la  casa.  I  cani  maltrattati  dai  padroni 
mordono  la  mano  del  padrone.  Le  donne  che  hanno  un  vecchio 
marito  ubriacone,  brutto  e  peloso,  l'abbandonano  senz'altro  per 
qualche  giovane  amante  sobrio  e  dalla  pelle  liscia.  Gli  ercoli  che 
venivano  impunemente  insultati  dai  tisicuzzi  non  esitano  più  a 
romper  loro  la  testa.  In  una  parola,  la  debolezza  ha  cessato  di  essere 
qui  una  forza  e  l'affetto  un'abitudine. 

l'ispettore  -  E  voi  mi  avvertite  cosi  tardi  di  un  simile  stato  di  cose? 

IL  SINDACO  -  Aggiungo  che  diverse  strane  circostanze  rivelano  l'intru- 
sione, nella  nostra  vita  municipale,  di  potenze  occulte.  La  scorsa 
domenica  abbiamo  sorteggiato  la  nostra  lotteria  mensile,  ed  è  stato 
il  più  povero  a  guadagnare  il  primo  premio  in  denaro  e  non  il 


INTERMEZZO  253 

vincitore  abituale,  il  milionario  Signor  Dumas,  che  del  resto  ha 
incassato  molto  bene  il  colpo;  ed  è  stato  il  nostro  giovane  campione 
a  vincere  la  motocicletta  e  non,  come  accadeva  regolarmente,  la 
superiora  delle  buone  monache.  Questa  settimana  abbiamo  avuto 
due  decessi:  i  due  abitanti  più  vecchi,  e  per  di  più  Tuno  era  il 
più  avaro  e  l'altro  il  più  scorbutico.  Per  la  prima  volta  la  sorte  ci 
libera  e  il  caso  va  a  colpo  sicuro. 

l'ispettore  -  è  la  negazione  della  libertà  umana. 

LO  SPEZIALE  -  Voi  potrcstc  forsc  parlargli  del  censimento.  Signor  Sin- 
daco. 

l'ispettore  -  Che  censimento? 

IL  SINDACO  -  Il  censimento  quinquennale.  Non  ho  osato  ancora  tra- 
smettere i  fogli  in  Prefettura. 

l'ispettore  -  I  vostri  amministrati  hanno  scritto  dichiarazioni  menzo- 
gnere? 

IL  siNDAcx)  -  Al  contrario,  tutti  hanno  risposto  con  una  verità  cosi  ec- 
cessiva e  cinica  che  sembra  una  sfida  airamministrazione.  Al  capi- 
tolo famiglia,  per  darvi  un  esempio,  i  più  non  hanno  dichiarato 
come  figli  veri  i  figli  ingrati  o  brutti,  ma  i  loro  cani,  i  loro  appren- 
disti, o  i  loro  uccelli,  insomma  quelli  che  veramente  amavano  co- 
me creature  loro. 

IL  CONTROLLORE  -  Altri  hanno  dichiarato  come  sposa  non  la  moglie  ve- 
ra, ma  la  donna  sconosciuta  che  sognarono,  o  la  vicina  con  la  quale 
intrattengono  rapporti  segreti,  o  addirittura  l'animale  femmina  che 
per  loro  rappresenta  la  compagna  perfetta,  la  gatta  o  la  scoiattola. 

IL  SINDACO  -  Al  capitolo  appartamenti,  i  ricchi  nevrastenici  hanno  pre- 
teso di  abitare  delle  casupole  e  i  poveri  felici  dei  palazzi. 

l'ispettore  -  e  da  quando,  tutti  questi  scandali? 

IL  sindaco  -  Press'a  poco  da  quando  si  incontra  il  fantasma. 

l'ispettore  -  Non  adoperate  questa  stupida  parola.  Non  esiste  nessun 
fantasma. 

il  sindaco  -  Lo  spettro,  se  preferite. 

l'ispettore  -  Lo  spettro  non  esiste. 

LO  speziale  -  Non  e  questo  il  parere  della  scienza.  Esistono  spettri  di 
ogni  cosa,  del  metallo,  dell'acqua.  È  possibile  che  ce  ne  sia  uno 
degli  uomini. 

{si  sentono,  fra  le  quinte,  le  voci  delle  Signorine  Mangebois) 


254  JEAN   GIRAUDOUX 


SCENA   QUINTA 

GLI   STESSI,  LE   SIGNORINE  MANGEBOIS 

{la  maggiore  delle  signorine  è  sorda.  Porta  appeso  al  collo  un  apparec- 
chio con  il  quale  la  sorella  la  tiene  al  corrente  della  conversazione) 

ARMANDA  MANGEBOIS  -  Possiamo  avvicinarci,  Signor  Sindaco? 

IL  SINDACO  -  Venite,  Signorine,  venite!  Signor  Ispettore,  ecco  appunto 

le  Signorine  Mangebois  che  ci  hanno  promesso  delle  rivelazioni. 
ARMANDA  {comporcndo  con  la  sorella)  -  Spero,  Signor  Sindaco,  che  non 

vi  deluderemo. 
IL  SINDACO  -  Le  Signorine  Mangebois  sono  le  figlie  del  nostro  defunto 

giudice  di  pace,  resosi  celebre  per  aver  fatto  tagliare  la  membrana 

di  due  sorelle  siamesi  che  erano  contese  da  due  saltimbanchi. 

{scambiati  i  saluti,  le  due  sorelle  si  seggono  su  degli  sgabelli  portatili) 

l'ispettore  -  I  mici  rallegramenti,  Signorine.  Un  vero  giudizio  di  Sa- 
lomone. Vi  ascolto. 

ARMANDA  -  Dcsidcro  anzitutto  chiedervi.  Signor  Ispettore,  di  scusare 
mia  sorella  Leonide.  È  un  pò*  dura  d'orecchio. 

LEONIDE  -  Che  stai  dicendo? 

ARMANDA  -  Dico  al  Signor  Ispettore  che  sei  un  pò*  dura  d'orecchio. 

LEONIDE  -  Perché  me  lo  dici,  a  me?  Io  lo  so. 

ARMANDA  -  Vediamo,  Leonide,  vuoi  che  ti  ripeta  tutto  quello  che  dico? 

LEONIDE  -  Salvo  che  tu  dica  che  io  sono  sorda. 

l'ispettore  -  Signorine,  se  noi  vi  abbiamo  pregate  di  venire  in  questi 
luoghi,  scelti  in  ragione  della  loro  discrezione... 

LEONIDE  -  Tu  russi,  tu.  Te  lo  dico  io  forse? 

ARMANDA  -  lo  UOU  rUSSO. 

LEONIDE  -  Se  non  russi,  significa  che  hai  cessato  di  russare  proprio  ncl- 

Tistante  in  cui  io  divenivo  sorda... 
l'ispettore  -  Pregate  vostra  sorella  di  tacere.  Signorina,  altrimenti  non 

finiremo  più. 
ARMANDA  -  Ciò  mi  è  difficile.  Signor  Ispettore;  è  la  sorella  maggiore. 
LEONIDE  -  Che  dici? 
ARMANDA  -  Nulla  che  t'interessi. 
LEONIDE  -  Se  è  cosa  che  non  m'interessa  è  che  stai  dicendo  che  sei  la 

sorella  minore. 
ARMANDA  -  Il  Signor  Ispettore  ti  fa  dire  che  desidera  il  silenzio. 


INTERMEZZO  255 

LEONIDE  -  Se  sapesse  cos'è  il  silenzio,  non  lo  desidererebbe.  Starò  zitta. 

l'ispettore  -  Signorine,  mi  si  dice  che  voi  siete  al  corrente  di  tutto 
quello  che  si  racconta  o  accade  nel  circondario. 

ARMANDA  -  Siamo  infatti  le  segretarie  dell'Opera  dei  Corredi. 

l'ispettore  -  E  di  che  cosa  si  parla  attualmente  all'Opera  dei  Corredi  ? 

ARMANDA  -  DÌ  che  cosa  si  parlerebbe  se  non  delio  spettro? 

l'ispettore  -  Voi  ci  credete,  a  questo  spettro?  L'avete  visto? 

ARMANDA  -  Ho  visto  delle  persone  che  l'hanno  visto. 

l'ispettore  -  Testimoni  degni  di  fede? 

ARMANDA  -  Uno  di  essi  è  commendatore  del  Gran  Drago  dell'Annam. 

l'ispettore  -  Se  crede  al  Gran  Drago  dell'Annam  è  già  sospetto.  Fa- 
temi i  loro  nomi. 

ARMANDA  -  Il  nostro  lattaio,  la  bella  Fatma  —  questi  signori  chiamano 
cosi  la  droghiera  —  e  il  comandante  Lescalard.  È  lui  il  commen- 
datore. 

l'ispettore  -  L'avrei  giurato...  E  come  hanno  visto  lo  spettro?  Coperto 
da  un  sudario,  naturalmente,  con  la  testa  fatta  da  una  zucca  vuota 
e  bucata,  nella  quale  è  piazzata  una  lampadina  elettrica? 

ARMANDA  -  Per  nulla,  Signor  Ispettore.  Tutte  le  testimonianze  sono 
concordi  nel  dire  che  è  un  giovane  alto,  vestito  di  nero.  Appare 
quando  comincia  ad  annottare  e  sempre  nei  dintorni  del  lago  di 
cui  scorgete  laggiù  le  canne. 

l'ispettore  -  E  come  spiegate  queste  apparizioni?  Si  sono  avuti  altri 
spettri  nella  regione? 

ARMANDA  -  Mai.  Mai  prima  del  delitto. 

l'ispettore  -  Che  delitto? 

IL  CONTROLLORE  -  Un  delitto  superbo,  Signor  Ispettore,  direi  addirit- 
tura mondano.  Un  giovane  straniero  e  la  moglie  avevatno  affittato 
il  castello,  a  Pasqua.  Un  amico  venne  a  raggiungerli.  Il  mattino  la 
donna  e  l'amico  furono  trovati  uccisi,  selvaggiamente  uccisi,  e,  sulla 
sponda  dello  stagno  fu  trovato  soltanto  il  cappello  del  marito.  Que- 
sto saluto  alla  morte  è  di  grande  classe.  Si  suppone  che  sia  anne- 
gato. 

ARMANDA  -  All'Opera  crediamo  tutte  che  sia  l'annegato  che  torna.  In- 
fatti è  a  capo  scoperto. 

l'ispettore  -  Egli  può  tornare  senza  essersi  annegato.  Il  criminale  tor- 
na sul  luogo  del  delitto,  come  il  boomerang  ai  piedi  del  padrone. 

LEONIDE  -  Che  dice  l'Ispettore? 

ARMANDA  -  Che  il  boomerang  torna  ai  piedi  del  padrone. 

LEONIDE  -  Molto  interessante.  Quando  sarete  arrivati  al  fucile  a  canna 
piegata  fammelo  sapere. 


256  JEAN   GIRAUDOUX 

l'ispettore  -  E  voi  credete  che  gli  eventi  insoliti  che  hanno  per  teatro 
la  vostra  città  abbiano  rapporto  con  lo  spettro? 

ARMANDA  -  Oh  no!  Si  tratta  di  un'altra  storia.  Ma  a  parer  nostro  le  due 
storie  non  tarderanno  a  congiungersi.  È  questo  pericolo  che  ci  ha 
indotte  a  parlare. 

IL  SINDACO  -  Spiegatevi,  Signorina  Mangebois. 

ARMANDA  -  Signor  Ispettore,  non  so  se  questi  signori  vi  hanno  dipinto 
lo  scandalo  in  tutto  il  suo  orrore. 

l'ispettore  -  Si,  SI,  Signorina,  abbreviate.  So  che  nella  vostra  città 
tutta  la  morale  borghese  è  in  questo  momento  a  gambe  in  aria. 

LEONIDE  -  Che  dice  l'Ispettore? 

ARMANDA  -  Nulla  di  speciale. 

LEONIDE  -  Esigo  che  tu  mi  ripeta  le  tre  ultime  parole,  come  al  solito. 

ARMANDA  -  Comc  vuoi...  Come  sei  noiosa...  A  gambe  in  aria. 

LEONIDE  -  Ah!  parlate  della  Signora  Lambert! 

ARMANDA  -  Non  parliamo  della  Signora  Lambert... 

LEONIDE  -  Non  può  essere  che  della  Signora  Lambert  o  della  moglie 
dell'esattore. 

l'ispettore  -  Chi  è  questa  Signora  Lambert? 

ARMANDA  -  La  moglie  dell'orologiaio...  e  di  alcuni  altri... 

IL  CONTROLLORE  -  Come? 

ARMANDA  -  E  di  alcuni  altri. 

IL  CONTROLLORE  [subito  riscaldandosi)  -  Pardon!  Io  non  permetterò  che 
si  sospetti  la  condotta  della  Signora  Lambert. 

l'ispettore  -  Signor  Controllore,  la  nostra  inchiesta  è  già  abbastanza 
difficile.  Qui  non  si  tratta  della  Signora  Lambert. 

il  controllore  -  Ebbene,  se  ne  tratterà.  Voi  non  vi  stupite  a  Parigi, 
quando,  nelle  terrazze  dei  caffé  o  nei  salotti  letterari,  vedete  un 
poeta  alzarsi  improvvisamente  e  fare  l'elogio  della  primavera.  La 
Signora  Lambert  è  la  primavera  della  nostra  città. 

ARMANDA  -  Qucsto  giovanotto  è  matto! 

il  sindaco  -  Signor  Controllore! 

IL  CONTROLLORE  -  Che  noi  si  sfiori  la  Signora  Lambert  in  piedi  sulla 
soglia  della  bottega  fingendo  di  controllare  l'ora  su  cento  quadranti 
che  si  contraddicono,  o  che  la  si  scorga,  attraverso  la  vetrina,  in- 
tenta —  mentre  nello  sforzo  i  suoi  graziosi  denti  mordicchiano  la 
lingua  —  a  legare  un  orologio  al  polso  di  una  comunicanda  o  far 
saltare  con  la  sua  rosea  unghia  la  cassa  dell'orologio  di  un  militare, 
bisogna  convenire  che  la  più  commovente  specialità  della  Francia 
non  sono  le  sue  cattedrali  e  le  sue  locande,  ma  la  donna  il  cui  busto 
teneramente  fasciato  di  raso  o  di  organzino  calamita  in  ogni  cit- 


INTERMEZZO  257 

ladina  e  ad  ogni  ora  della  giornata  l'itinerario  del  sottoprefetto, 
degli  studenti  di  liceo  e  di  tutta  la  guarnigione! 

LEONIDE  -  Che  dice  il  Controllore? 

ARMANDA  -  Assolutamente  nulla! 

IL  CONTROLLORE  -  In  breve,  questa  bellezza  di  provincia,  alla  quale 
nulla  mi  impedirà  in  questo  minuto  di  fare  omaggio  nella  persona 
della  Signora  Lambert,  e  sotto  tutti  i  nomi  e  le  forme  assunti  dalla 
Signora  Lambert  nel  corso  della  mia  pur  breve  carriera,  quand'essa 
si  chiamava  Signora  Merle  ed  era  libraia  a  Rodez,  Signora  I^spi- 
nard  che  faceva  bendaggi  a  Moulins,  o  Signora  Tribourty,  guantaia 
a  Castres...  Questi  guanti  di  capretto  vengono  dalla  sua  bottega... 
Non  il  minimo  strappo...  Io  mi  faccio  garante  della  Signora  Lam- 
bert... 

l'ispettore  -  Signori,  tolgo  la  seduta.  Non  approderemo  a  nulla  con 
tutto  quest'imbroglio.  Una  nota  di  biasimo  per  voi,  Controllore. 

ARMANDA  -  E  la  Signorina  Isabella,  Signor  Controllore,  vi  fareste  ga- 
rante anche  della  Signorina  Isabella? 

LO  speziale  -  Non  vorrete  mica  mescolare  la  Signorina  Isabella  a  que- 
sti scandali? 

IL  controllore  -  Essa  è  la  purezza  e  l'onore  in  persona. 

IL  sindaco  -  Ed  io  mi  compiaccio  di  averle  affidato,  in  assenza  della 
titolare,  la  classe  delle  bambine. 

ARMANDA  •  Come  sono  ciechi  gli  uomini!  La  Signorina  Isabella  è  là,  in 
quel  campo.  Voi  avete  una  nipote  nella  sua  classe.  Signor  Sindaco. 
Chiamatela...  Vedrete  quel  che  viene  insegnato  alla  piccola  Daisy! 

IL  SINDACO  -  Che  cosa  le  viene  insegnato? 

ARMANDA  -  Approfittate  della  presenza  del  Signor  Ispettore  per  farle 
un  esame,  e  vedrete. 

l'ispettore  -  Ma  c'è  dell'altro? 

ARMANDA  -  Noi  sospcttavamo  da  molto  tempo  che  Isabella  avesse  parte 
nelle  macchinazioni  che  corrompono  la  nostra  città.  Da  stamane  ne 
abbiamo  la  certezza. 

IL  CONTROLLORE  -  Calunnie! 

ARMANDA  -  Leonide,  di'  a  questi  signori  perché  noi  siamo  sicure  che 
Isabella  è  colpevole. 

LEONIDE  -  Perché  l'agenda  dov'essa  scrive  tutto  quello  che  ha  fatto  du- 
rante la  giornata  ce  ne  ha  fatto  la  confessione. 

l'ispettore  -  Come  ne  siete  venuta  in  possesso? 

LEONIDE  -  L'ho  trovata  sul  marciapiede. 

LO  speziale  -  E  avete  avuto  l'impudenza  di  leggerla? 

ARMANDA  -  Hai  avuto  l'impudenza  di  leggerla? 


17.  -  Teatro  france$e 


258  JEAN   GIRAUDOUX 

LEONIDE  -  Ti  chiedo  forse  il  tuo  parere?  L*ho  sfogliata  per  trovare  il 
nome  del  proprietario. 

IL  CONTROLLORE  -  Quel  taccuino  apparteneva  alla  Signorina  Isabella. 
Voi  dovevate  restituirglielo. 

ARMANDA  -  Quel  taccuino  apparteneva  alla  Signorina  Isabella.  Tu  do- 
vevi restituirglielo. 

LEONIDE  -  Occupati  dcgli  affari  tuoi.  Eccolo,  Signor  Sindaco.  Apritelo 
a  caso.  Voi  vedrete  la  vostra  protetta  all'opera:  a  darsi  da  fare  per 
separare  gli  sposi  male  accoppiati,  ad  eccitare  con  droghe  i  cavalli 
contro  i  carrettieri  brutali,  a  moltiplicare  le  lettere  anonime  per 
segnalare  ai  mariti  o  alle  mogli  le  virtù  dei  loro  congiunti.  Guar- 
date, per  esempio,  alla  data  del  21  marzo  se  volete  sapere  come  siete 
stato  bene  ispirato  ad  affidarle  una  scolaresca!  Che  cosa?  Che  di- 
cono? 

ARMANDA  -  Ma  Sei  tu  che  parli... 

l'ispettore  -  Leggete,  Signor  Sindaco. 

IL  sindaco  (leggendo)  -  «  21  marzo...  21  marzo!...  Organizzata  piccola 
festa  della  primavera.  Colta  l'occasione  per  fare  alle  mie  scolare 
l'elogio  del  corpo  e  spiegarne  la  bellezza.  Sottolineati  i  benefici  e 
la  sincerità  della  civetteria.  Per  esercitarle,  eleggiamo  l'uomo  più 
bello  della  città.  La  loro  scelta  va  al  sottoprefetto.  Non  c'è  male  ». 

ARMANDA  -  Il  Signor  Controllore  non  era  ancora  fra  noi. 

l'ispettore  -  Ma  è  davvero  un'infamia!  Alla  quale  bisogna  porre 
subito  rimedio.  Controllore,  avvertite  questa  signorina  che  deve 
venire  immediatamente  qui  con  le  sue  scolare.  Farò  «  illieo  »  l'esa- 
me. Ero  sicuro  che  vi  dovevano  essere  delle  donne  all'origine  di 
queste  turpitudini.  Appena  si  concede  a  queste  formiche  un  po'  di 
libertà  nell'edificio  sociale,  tutte  le  travi  ne  sono  corrose  in  un  bat- 
ter d'occhio. 

IL  CONTROLLORE  {sul  putito  di  usàfc,  SI  voito)  -  Vi  chicdo  scusa,  Signor 
Ispettore... 

l'ispettore  -  Vi  rifiutate  di  andare  a  chiamare  la  Signorina  Isabella? 

IL  CONTROLLORE  -  No,  Signor  Ispettore.  Volevo  rispettosamente  conte- 
stare l'esattezza  della  vostra  metafora  e  farvi  osservare  che  c'è  tut- 
tavia una  certa  differenza  fra  le  donne  e  le  formiche. 

l'ispettore  -  Se  voi  trovate  la  minima  differenza  siete  più  furbo  di 
me.  Sbrigatevi,  vi  prego. 

IL  controllore  -  Notate  che  io  non  disprezzo  le  formiche.  Ne  ricono- 
sco le  qualità  eccezionali.  So  che  mungono  le  pulci  e  che  hanno 
dei  soldati.  Ma  che  per  questo  si  possano  paragonare  alle  donne,  a 
tutte  le  donne,  no! 


INTERMEZZO  259 

AUMANDA  -  Per  una  volta,  bravo,  Signor  Controllore... 

IL  CONTROLLORE  -  Voi  avcte  dctto  una  cosa  in  aria,  a  caso.  Quali  sono 

le  caratteristiche  fisiche  della  formica? 
l'ispettore  -  Vi  ho  dato  un  ordine,  Controllore. 
LEONIDE  -  Che  dicono? 
ARMANDA  -  Llspettore  pretende  che  non  è  possibile  distinguere  una 

donna  da  una  formica. 
LEONIDE  -  È  ammogliato? 
l'ispettore  (scattando)  -  No,  non  faccio  nessuna  differenza,  Signorina. 

La  stessa  agitazione,  lo  stesso  chiacchierìo  appena  due  s'incontrano. 

La  stessa  crudeltà  per  chi  penetra  nel  loro  gruppo.  £  la  loro  taglia. 

E  tutti  quei  pacchetti  che  portano.  Son  proprio  formiche,  assoluta- 
mente. 
l'ispettore  -  Vi  ingiungo  per  l'ultima  volta  di  andare  a  chiamare  la 

Signorina  Isabella. 

(//  Controllore  esce) 

IL  sindaco  -  Ma,  insomma.  Signor  Ispettore,  noi  ci  eravamo  riuniti  per 
parlare  dello  spettro  e  non  di  Isabella! 

ARMANDA  -  È  la  stessa  cosa. 

LO  speziale  -  Vorrete  darci  anche  ad  intendere  che  la  Signorina  Isabel- 
la è  una  strega? 

ARMANDA  -  Aprite  il  taccuino  alla  data  del  14  giugno  e  leggete. 

l'ispettore  -  Il  14  giugno  era  ieri.  Oggi  ne  abbiamo  15,  è  vero? 

ARMANDA  -  Noi  ci  chiedevamo  perche  da  qualche  tempo  la  Signorina 
Isabella  scegliesse  le  rive  dello  stagno  per  le  sue  uscite  notturne. 
L'ultima  pagina  del  suo  taccuino  vi  darà  la  spiegazione. 

l'ispettore  -  Leggete,  Signor  Sindaco. 

IL  SINDACO  {leggendo)  -  «  14  giugno.  Sono  sicura  che  quello  spettro  ha 
capito  che  io  credo  in  lui  e  che  posso  aiutarlo.  Com'è  possibile  non 
credere  agli  spettri?  Egli  mi  cerca,  che  il  suo  passaggio  è  segnalato 
in  tutti  i  posti  dove  ho  condotto  le  ragazze  a  passeggio.  Vicino  a 
qualche  bosco,,  sul  cader  del  giorno,  certamente  mi  apparirà,  e  qua- 
li consigli  mi  darà  per  rendere  la  città  alfine  perfetta!  Sono  sicura 
che  sarà  domani». 

l'ispettore  -  E  domani  è  oggi. 

LEONIDE  -  Che  dice  l'Ispettore? 

ARMANDA  -  Che  domani  è  oggi. 

LEONIDE  -  È  un'opinione... 

ARMANDA  -  Andiamo,  Leonide,  Isabella  sta  per  venire. 

l'ispettore  -  Vi  ringrazio,  Signorine.  Spero  che,  grazie  alle  vostre 
indicazioni,  finiremo  per  vedere  la  verità  tutta  nuda 


260  JEAN  GIRAUDOUX 

ARMANDA  -  È  tutto  quclio  che  possiamo  offrire  al  Signor  Ispettore,  dato 

che  non  disponiamo  della  Signora  Lambert... 
l'ispettore  -  Vedo,  Signorina,  che  sapete  maneggiare  la  freccia  dd 

Parto. 
LEONIDE  -  Che  dice? 

ARMANDA  -  L*Ispettore  parla  della  freccia  del  Parto. 
LEONIDE  -  Che  panoplia! 

{le  Signcfrìne  Mangebois  escono) 

IL  CONTROLLORE  (guordondo  Isabella  che  si  avvicina)  -  Se  le  formiche 
che  vanno  nelle  praterie  rassomigliano  alla  Vittoria  di  Samotracia 
con  la  testa,  alla  Venere  di  Milo  con  le  braccia,  se  il  sangue  della 
melagrana  colora  le  loro  gote  e  quello  del  lampone  il  loro  sorrìso, 
allora  si  Signor  Ispettore,  e  soltanto  in  questo  caso.  Isabella  rasso- 
miglia a  una  formica.  Guardatela! 


SCENA    SESTA 

l'ispettore,  il  CONTROLLORE,  LO  SPEZIALE,  IL  SINDACO,    ISABELLA, 
poi  LE    BAMBINE 

ISABELLA  -  M'avete  fatto  chiamare,  Signor  Ispettore? 

l'ispettore  -  Signorina,  le  voci  più  spiacevoli  corrono  sul  vostro  conto. 
Voglio  vedere  subito  se  sono  fondate  e  prendere  i  provvedimenti 
del  caso. 

ISABELLA  -  Non  vi  capisco.  Signor  Ispettore. 

l'ispettore  -  Basta!  Cominciamo  Tesame...  Entrate,  scolare...  {le  ragaz- 
ze ridono)  Perché  ridono? 

ISABELLA  -  Perché  voi  dite  «entrate»,  mentre  non  c*è  nessuna  porta, 
Signor  Ispettore. 

l'ispettore  -  Questa  pedagogia  all'aperto  è  stupida...  Il  vocabolario 
degli  Ispettori  vi  perde  metà  della  sua  efficacia...  {bisbigli)  Si- 
lenzio, laggió...  La  prima  che  chiacchiera  spazzerà  la  scuola,  il 
campo,  voglio  dire,  la  campagna...  {risa)  Signorina,  le  vostre  scolare 
sono  insopportabili! 

IL  SINDACO  -  Sono  tanto  graziose.  Signor  Ispettore,  guardatele. 

l'ispettore  -  Non  hanno  da  essere  graziose.  Con  la  loro  grazia  non  ce 
n'c  una  che  non  pretenda  di  avere  la  sua  maniera  speciale  di  sor- 
ridere o  di  socchiudere  l'occhio.  Io  intendo  che  le  scolare  mostrino 


INTERMEZZO  261 

al  maestro  dei  visi  severi  e  unifonni  come  le  tessere  di  un  dòmino. 

LO  SPEZIALE  -  Non  ci  Huscirete  mai,  Signor  Ispettore. 

l'ispettore  -  E  perché? 

LO  SPEZIALE  -  Perché  sono  gaie. 

l'ispettore  -  Non  hanno  da  essere  gaie.  Nel  programma  c'è  un  diplo- 
ma di  studi  e  non  d'ilarità.  Sono  gaie  perché  la  loro  maestra  non 
le  punisce  abbastanza. 

ISABELLA  -  E  come  potrei  punirle?  Con  queste  scuole  a  cielo  aperto 
non  sussiste  quasi  alcun  motivo  di  punire.  Tutto  quello  che  è  sba- 
glio in  una  scuola  diviene  prova  di  iniziativa  e  di  intelligenza  in 
mezzo  alla  natura.  Punire  uno  scolaro  che  guarda  il  soffitto?  Guar- 
datelo, questo  soffitto! 

IL  CONTROLLORE  -  Giusto!  Guardiamolo. 

l'ispettore  -  Il  soffitto,  nell'insegnamento,  deve  essere  inteso  in  modo 
da  dar  rilievo  alla  figura  dell'adulto  nei  confronti  della  statura  del 
ragazzo.  Un  maestro  che  adotti  l'aria  aperta  ammette  di  essere  piò 
piccolo  dell'albero,  meno  corpulento  del  bue,  meno  mobile  dell'ape, 
e  sacrifica  la  parte  migliore  della  sua  dignità,  {risa)  Che  c'è  ancora? 

il  sindaco  -  C'è  un  bruco  che  vi  sale  addosso,  Signor  Ispettore! 

l'ispettore  -  È  capitato  bene.  Tanto  peggio  per  lui! 

ISABELLA  -  Oh,  Signor  Ispettore,  non  l'uccidete.  È  la  ((  collata  azurea  ». 
Fa  il  suo  ufficio  di  bruco! 

l'ispettore  -  Menzogna.  L'ufficio  della  <(  collata  azurea  »  non  è  di  ar- 
rampicarsi sugli  Ispettori,  (singhiozzi)  Che  hanno  adesso?  Pian- 
gono? 

LUCE  -  Perché  voi  avete  ucciso  la  «  collata  azurea  ». 

l'ispettore  -  Fosse  stato  un  merlo  a  rapire  la  «  collata  azurea»  esse 
avrebbero  trovato  superba  l'impresa,  naturalmente,  e  si  sarebbero 
estasiate. 

LUCE  '  È  che  il  bruco  è  il  nutrimento  del  merlo!... 

IL  CONTROLLORE  -  Giustissimo.  Il  bruco  considerato  come  alimento  per- 
de qualsiasi  simpatia. 

l'ispettore  -  E  così,  ecco,  Signorina,  dove  il  vostro  insegnamento  ha 
portato  le  vostre  scolare:  a  pretendere  che  un  Ispettore  mangi  i 
bruchi  che  uccide!  Ebbene,  no,  saranno  disilluse.  Io  ucciderò  i  miei 
bruchi  senza  mangiarli  e  avverto  tutti  i  vostri  abituali  compagni  di 
scuola,  ragazze  mie,  avverto  insetti,  rettili  e  roditori  che  se  saltasse 
loro  il  ticchio  di  sfiorare  il  mio  collo  o  d'infilarsi  nelle  mie  calze, 
io  li  ucciderei!...  Tu,  la  bruna,  bada  alle  tue  talpe  perché  io  schiac- 
cerò le  talpe,  e  tu,  la  rossa,  se  uno  dei  tuoi  scoiattoli  mi  capita  vi- 
cino gli  romperò  la  sua  nuca  di  scoiattolo,  con  queste  mani,  come 


262  JEAN   GIRAUDOUX 

è  vero  che  quando  sarò  morto  sarò  morto...  (grandi  risate) 

LE  BAMBINE  -  Pff... 

l'ispettore  -  Che  hanno  da  ridere  sgangheratamente? 

ISABELLA  -  Per  ridea  che  quando  sarete  morto,  sarete  morto,  Signor 
Ispettore... 

IL  SINDACO  -  Se  cominciassimo  Pesame? 

l'ispettore  -  Chiamate  la  prima  della  classe,  {movimenti)  Perché  que- 
st'agitazione? 

ISABELLA  '  Perché,  Signor  Ispettore,  non  c'è  la  prima,  né  la  seconda, 
né  la  terza.  Non  state  a  credere  che  io  farei  nascere  in  loro  le  fri- 
zioni dell'amor  proprio.  C'è  la  più  alta,  la  più  chiacchierona,  ma 
sono  tutte  prime. 

l'ispettore  -  O  tutte  ultime,  piuttosto.  Tu,  laggiù,  comincia.  In  che 
materia  sei  più  brava? 

GiLBERTA  -  In  botanica,  Signor  Ispettore. 

l'ispettore  -  In  botanica?  Spiegami  dunque  la  differenza  fra  i  mono- 
cotiledoni e  i  dicotiledoni. 

GILBERTA  -  Ho  detto  in  botanica,  Signor  Ispettore. 

l'ispettore  -  Ma  sentitela  un  po'!  Sa  almeno  che  cos'è  un  albero? 

GILBERTA  -  È  proprio  quello  che  so  meglio.  Signor  Ispettore. 

ISABELLA  -  Se  lo  sai,  dillo,  Gilberta.  Questi  signori  ti  ascoltano. 

GILBERTA  -  L'albcro  è  il  fratello  non  mobile  dell'uomo.  Nel  suo  lin- 
guaggio, gli  assassini  si  chiamano  boscaioli,  i  becchini  carbonai,  le 
pulci  picchi  verdi. 

IRENE  -  Con  i  suoi  rami,  le  stagioni  ci  fanno  dei  segni  sempre  esatti. 
Con  le  sue  radici,  i  morti  sof&ano  fino  alla  sua  cima  i  loro  desideri, 
i  loro  sogni. 

VIOLA  -  I  quali  sono  i  fiori  di  cui  si  coprono  tutte  le  piante  in  prima- 
vera. 

l'ispettore  -  Già,  soprattutto  gli  spinaci...  Dimodoché,  bambina  mia, 
se  ti  capisco  bene,  le  radici  sarebbero  il  vero  fogliame,  mentre  le 
foglie  sarebbero  le  radici. 

GILBERTA  -  Esattamente. 

l'ispettore  -  Zero!...  {la  ragazza  ride)  Perché  quest'allegria,  piccola 
sfacciata? 

isabella  -  Perché  nel  mio  linguaggio  ho  adottato  lo  zero  come  il  pun- 
to migliore,  per  la  sua  rassomiglianza  con  l'infinito. 

IL  controllore  -  Interessante. 

l'ispettore  -  Signor  Sindaco,  proprio  non  ne  posso  più...  Continuate, 
Signorina,  interrogate  voi  stessa. 

ISABELLA  -  Parla  del  fiore,  Daisy. 


INTERMEZZO  263 

DAisY  -  Il  fiore  è  la  più  nobile  conquista  deiruomo. 

l'ispettore  -  Brava.  Promette  bene. 

DAisy  -  Nel  fiore,  la  mia  attenzione  si  ferma  sul  pistillo  e  sugli  stami. 
Sono  essi  che  ricevono  il  polline  degli  altri  fiorì  per  il  tramite  del 
vento.  È  COSI  che  nasce  la  pianta  con  una  procedura  diversa  da 
quella  adottata  dall'uccello. 

GiLBERTA  -  L' Ornitorinco... 

VIOLA  -  E  soprattutto  il  carnivoro!... 

l'ispettore  -  È  uno  scandalo,  Signor  Sindaco,  uno  scandalo!  So  ormai 
quel  che  debbo  pensare  sugli  eventi  del  vostro  borgo. 

IL  SINDACO  -  Passiamo  alla  geografia,  Signor  Ispettore...  Tu,  piccola 
Viola,  chi  produce  le  eruzioni  dei  vulcani? 

VIOLA  -  L'Ordinatore*,  Signor  Sindaco. 

l'ispettore  -  Che  cosa? 

VIOLA  -  L'Ordinatore. 

le  bambine  -  L'Ordinatore! 

l'ispettore  -  L'Ordinatore?  Sono  pazze? 

isabella  -  Signor  Ispettore,  io  bado  a  che  le  ragazze  non  credano  al- 
l'ingiustizia della  natura.  Presento  loro  tutte  le  grandi  catastrofi 
come  particolari,  spiacevoli  certo,  ma  necessari  per  ottenere  un  uni- 
verso soddisfacente  nel  suo  insieme:  ed  è  per  questo  che  chiamiamo 
Ordinatore  lo  spirito,  la  potenza  che  le  provoca. 

IL  controllore  -  Giustissimo!  Ragionevolissimo! 

l'ispettore  -  E  suppongo.  Signorina,  se  ho  ben  capito  il  vostro  metodo, 
che  avete  immaginato,  per  spiegare  i  piccoli  fastidi  e  le  piccole 
sorprese  della  vita,  un  altro  personaggio  invisibile  e  maligno  che  si 
compiace  di  sbattere  di  notte  le  imposte  o  che  porta  un  vecchio 
signore  a  sedersi  sulla  torta  di  prugne  messa  per  negligenza  sopra 
una  sedia... 

VIOLA  -  Si,  Signor  Ispettore!  È  Arturo! 

l'ispettore  -  È  Arturo  oppure  l'Ordinatore  che  fa  salire  i  bruchi  sugli 
Ispettori  in  visita? 

LE  BAMBINE  -  È  Arturo!  È  Arturo! 

l'ispettore  -  Ed  è  Arturo  che  fa  uccidere  il  bruco  dall'Ispettore? 

LE  BAMBINE  -  No,  no,  l'Ordinatore,  l'Ordinatore! 

tutti  gli  altri  -  L'Ordinatore! 

l'ispettore  -  C'è  da  disperare.  Signor  Sindaco.  Non  ho  mai  visto  cose 
simili. 


^  Nel  testo  «  l^ensemblicr  >,  artista  o  arredatore  che  crea  un  insieme  di  cose  e 
di  oggetti  decorativi. 


264  JEAN   GIRAUDOUX 

IL  SINDACO  -  Forse  sono  più  brave  in  storia... 

l'ispettore  -  In  storia?  Ma  non  vedete  a  che  cosa  tende  tutta  questa 
educazione?  Nientemeno  che  a  sottrarre  queste  giovani  menti  alla 
rete  di  verità  che  il  nostro  magnifico  Ottocento  ha  stesa  sul  nostro 
paese.  In  storia!  Sarà  come  in  aritmetica  o  in  geografìa.  Ora  ve- 
drete. Tu,  che  cosa  regna  tra  la  Francia  e  la  Germania? 

IRENE  -  L'amicizia  eterna.  La  pace. 

l'ispettore  -  È  dir  troppo  poco.  Tu,  cos'è  un  angolo  retto? 

LUCE  -  Non  c'è  angolo  retto.  L'angolo  retto  non  esiste  nella  natura.  Il 
solo  angolo  press'a  poco  retto  si  ottiene  prolungando  con  una  linea 
immaginaria  il  naso  greco  fino  al  suolo  greco... 

l'ispettore  -  Naturalmente!  Tu,  quanto  fa  due  più  due? 

DAisY  -  Quattro,  Signor  Ispettore. 

l'ispettore  -  Vedete,  Signor  Sindaco...  Ah!  Pardon!  Queste  piccole 
imbecilli  mi  fanno  perdere  la  testa.  Del  resto  come  mai  anche  per 
loro  due  più  due  fa  quattro?  Per  quale  nuova  aberrazione,  per 
quale  sadica  raffinatezza  questa  donna  ha  immaginato  una  falsa 
tavola  pitagorica  assolutamente  conforme  alla  vera?...  Son  sicuro 
che  il  suo  quattro  è  un  falso  quattro,  un  cinque  svergognato  e  dis- 
simulato. Due  più  due  fa  cinque,  non  è  vero,  piccola? 

DAISY  -  No,  Signor  Ispettore,  quattro. 

l'ispettore  -  Ed  anche  testarde  sono!  Tu,  cantami  la  Marsigliese. 

il  SINDACO  -  È  nel  programma,  Signor  Ispettore? 

l'ispettore  -  Che  canti  la  Marsigliese. 

ISABELLA  -  Ma  la  sa,  Signor  Ispettore.  La  Marsigliese  delle  bambine, 
s'intende. 

DioNiGiA  -  La  so,  Signor  Ispettore,  la  so!  {canta) 

Il  Paese  delle  ragazzine  è  di  avere  più  tardi  un  marito,  che  si  chia- 
mi Paolo,  John  a  Dimitri,  purché  sappia  amare  e  vestirsi  bene, 

ISABELLA  -  Il  ritornello,  piccole  mie. 

LE  BAMBINE  -  A  Marsiglia,  a  Marsiglia,  la  patria  è  il  sole.  Il  vero  14 

luglio  è  Marsiglia  soleggiata. 
l'ispettore  -  Che  vergogna!  E  pettinate  ciascuna  a  suo  modo!  E  quel 

segno  che  hanno  sul  collo,  di  matita  rossa,  è  un  vaccino? 
LUCE  -  No,  Signor  Ispettore,  e  per  gli  spettri. 
l'ispettore  -  Ci  siamo!  Le  Signorine  Mangebois  avevano  ragione.  Gli 

spettri? 
LUCE  -  Gli  spettri,  i  fantasmi.  È  il  segno  che  fa  riconoscere  loro  gli 

amici.  È  la  stessa  signorina  che  ce  lo  traccia  ogni  mattina. 
l'ispettore  -  Cancellatelo! 


INTERMEZZO  265 

LUCE  E  LE  BAMBINE  -  Giammai!  Giammai! 

VIOLA  -  Abbiamo  troppa  paura. 

LE  BAMBINE  -  Abbiamo  troppa  paura.  Lo  spettro  è  nelle  vicinanze! 

l'ispettore  -  Tacete.  Sappiate,  piccole  sfacciate,  che  dopo  la  morte  non 
ci  sono  spettri,  ma  delle  carcasse;  non  fantasmi,  ma  ossa  e  vermi. 
E  ripetete  tutte  quel  che  vi  ho  detto.  Tu,  che  cosa  c*è  dopo  la 
morte? 

LO  SPEZIALE  -  Non  guastatc  loro  Tidea  ch'esse  si  fanno  della  vita,  Si- 
gnor Ispettore. 

l'ispettore  -  Ne  avranno  sempre  un'idea  troppo  favorevole.  Signor 
Speziale.  Ora  insegnerò  a  queste  sciocche  che  cos'è  la  vita:  una 
pietosa  avventura  con  —  per  gli  uomini  —  stipendi  iniziali  mise- 
rabili, promozioni  di  tartaruga,  pensioni  inesistenti,  bottoni  di  col- 
letto in  rivolta;  e  per  le  sciocche  come  loro,  vuota  conversazione  e 
cornifìcazione^  casseruola  e  vitriolo.  Queste  piccole  imbecilli  mi 
fanno  parlare  in  versi  per  la  prima  volta  in  vita  mia.  Ah!  Voi  inse- 
gnate la  felicità  alle  vostre  scolare,  Signorina! 

isabella  -  Insegno  quel  che  Dio  ha  previsto  per  loro. 

l'ispettore  -  Menzogna.  Dio  non  ha  previsto  la  felicità  per  le  sue 
creature:  ha  previsto  solo  delle  compensazioni,  la  pesca  alla  canna, 
l'amore  e  il  rammollimento.  Signor  Sindaco,  la  mia  decisione  è 
presa.  Il  Controllore,  le  cui  occupazioni  non  sono  massacranti,  as- 
sicurerà provvisoriamente  la  condotta  della  classe.  Dove  andate, 
Signorina?  È  l'Ordinatore  che  vi  fa  uscire  senza  salutare? 

isabella  -  Fate  l'inchino,  ragazze. 

l'ispettore  -  Per  due,  e  chiudete  le  bocche;  i  casi  di  aerofagia  pullu- 
lano nel  circondario.  Che  cosa  porti  con  te? 

GiLBERTA  -  La  lavagna  azzurra,  Signor  Ispettore. 

l'ispettore  -  La  lavagna  azzurra  resti  qui.  E  resti  con  il  gesso  dorato, 
con  l'inchiostro  rosa  e  con  la  matita  cacca  d'oca.  Da  ora  in  poi, 
avrete  una  lavagna  nera.  E  inchiostro  nero!  E  vestiti  neri.  Il  nero  è 
stato  sempre  nel  nostro  bel  paese  il  colore  della  gioventù...  E  guar- 
datemi. Alla  buon'ora,  cominciano  a  mettersi  in  ordine.  Un  mese 
di  disciplina  e  non  sarà  piò  possibile  distinguerle  l'una  dall'altra. 
In  quanto  a  voi.  Signorina,  scrivo  immediatamente  ai  vostri  geni- 
tori che  voi  disonorate  la  vostra  famiglia  e  la  nostra  Università. 

ISABELLA  -  Sono  Orfana,  Signor  Ispettore. 

l'ispettore  -  Tanto  meglio  per  loro.  Almeno  non  vi  vedono. 

ISABELLA  -  Mi  vedono.  Signor  Ispettore,  e  mi  approvano. 

l'ispettore  -  Rallegramenti.  Ciò  mi  dà  un'alta  idea  dell'insegnamento 
elementare  che  viene  impartito  agli  Inferi. 


266  JEAN   GIRAUDOUX 

ISABELLA  -  Uscite,  Signof  Ispettore! 

l'ispettore  -  Esco,  Signorina  Isabella.  Non  c'è  porta,  ma  esco.  Ci 

rivedremo.  Resto  qui  fino  a  quando  avrò  liquidato  questo  scandalo... 

Venite,  Signori.  Chi  ha  messo  un  rìccio  al  posto  del  mio  cappello? 
VIOLA  -  È  stato  Arturo,  Signor  Ispettore... 
LE  BAMBINE  -  È  Arturo!  Signor  Ispettore!  Arturo! 

(escono  tutti,  salvo  Isabella  e  lo  Speziale) 


SCENA    SETTIMA 

ISABELLA,  LO  SPEZIALE 

ISABELLA  -  Avete  da  dire  qualcosa,  Signor  Speziale? 

LO  SPEZIALE  -  No.  Non  ho  assolutamente  nulla  da  dire. 

ISABELLA  -  Da  fare,  allora? 

LO  SPEZLVLE  -  No,  non  ho  assolutamente  nulla  da  fare.  Resto  un  minu- 
to, per  la  transizione. 

ISABELLA  -  Che  transizione? 

LO  SPEZIALE  -  Alla  mia  età,  Isabella,  ciascuno  si  rende  conto  della  parte 
che  il  destino  gli  ha  assegnato  sulla  scena  della  vita.  Io  sono  utiliz- 
zato per  le  transizioni. 

ISABELLA  -  Certo,  voi  siete  sempre  il  benvenuto. 

LO  SPEZIALE  -  Non  è  proprio  quel  che  voglio  dire.  Ma  io  sento  che  la 
mia  presenza  serve  sempre  di  cateratta  fra  due  istanti  che  non  sono 
allo  stesso  livello,  di  tampone  fra  due  episodi  che  si  urtano,  fra  la 
felicità  e  la  sventura,  il  preciso  e  il  torbido,  o  inversamente.  È  noto 
in  città...  Sono  sempre  io  che  ho  l'incarico  di  far  sapere  a  delle 
donne  che  giocano  al  brìdge  Tincidente  d'auto  in  cui  è  perito  il  loro 
amico,  o  di  annunziare  a  un  cardiaco  la  vincita  del  milione  alla 
lotteria.  Sono  io  che  ho  portato  la  notizia  della  dichiarazione  di 
guerra  all'Unione  delle  madri  dei  soldati  in  servizio  attivo...  Arri- 
vo, e  per  questa  sola  presenza  il  passato  dà  la  mano  al  presente  più 
inaspettato. 

ISABELLA  -  £  voi  Vedete  la  necessità  di  una  transizione  in  questo  mo- 
mento? 

LO  SPEZIALE  -  In  sommo  grado.  Eccoci  installati,  per  opera  dell'Ispet- 
tore, in  un  presente  ridicolo,  triviale,  crudele,  e  non  c'è  bisogno  di 
essere  gran  dottore  per  sentire  che  tuttavia,  in  questo  minuto,  un 


INTERMEZZO  267 

momento  di  dolcezza  e  di  calma  suprema  cerca,  nella  sera,  di  po- 
sarsi. £  c'è  inoltre  da  regolare  la  transizione  fra  Tlsab^Ua  che  cono- 
sciamo, cosi  viva,  cosi  terrestre,  e  una  non  si  sa  quale  Isabella  in- 
namorata e  sovrannaturale,  che  ci  è  ignota. 

ISABELLA  -  E  come  farete? 

LO  SPEZIALE  -  G)n  voi,  nulla  di  più  facile.  Con  la  donna  del  bridge,  il 
cui  amante  s'era  annegato,  ho  avuto  bisogno  di  un  buon  quarto 
d'ora.  Aveva  cento  d'assi,  tre  re  senza  atout,  e  le  venivano  «con- 
trati))  i  tre  senza  atout  dichiarati.  Èssa  «  surcontrava  »  ^  natural- 
mente. Portarla  da  questo  delirio  al  suo  Emanuele  annegato  non  è 
stato  affar  da  poco...  Ma  con  voi,  Isabella,  per  fare  che  il  mistero 
scenda  sul  momento  più  volgare,  basta  un  nulla,  un  gesto...  questo 
gesto...,  un  silenzio,  questo  silenzio...  {breve  silenzio)  Vedete,  è 
quasi  fatto.  I  miei  colleghi  di  transizione,  il  pipistrello,  la  civetta, 
già  cominciano  piano  il  loro  giro...  Dite  soltanto  il  nome  di  que- 
st'ora: e  tutto  sarà  pronto. 

ISABELLA  -  Ad  alta  voce? 

LO  SPEZIALE  -  Si,  che  sia  inteso. 

ISABELLA  -  Mi  è  stato  detto  altra  volta  che  si  chiamava  crepuscolo. 

LO  SPEZIALE  -  Non  vi  hanno  mentito...  E  al  crepuscolo,  quale  eco  viene 
dalle  piccole  città? 

ISABELLA  -  Quello  delle  trombe  che  fanno  gli  esercizi,  {trombe) 

LO  SPEZIALE  -  Ascoltatele...  Vi  sono  tre  rumori  che  danno  il  diapason 
del  nostro  paese,  il  rastrellamento  dei  viali  nel  sonno  dell'alba,  lo 
sparo  dopo  i  vespri  e  le  trombe  al  crepuscolo... 

ISABELLA  -  Adesso  tacciono. 

LO  SPEZIALE  -  E  quando  tace  l'ultima  tromba,  chi  si  drizza  fra  le  can- 
ne e  i  salici,  chi  indossa  la  sua  cappa  nera  e  circola  attraverso  i 
cipressi  e  i  tassi,  addossandosi  alle  ombre  già  rapprese  della  futura 
notte?... 

ISABELLA  {sorridendo)  -  I/>  spettro!  Lo  spettro! 

LO  SPEZIALE  {uscendo)  -  Ecco...  ho  finito! 


Sono  i  francesismi  di  uso  italiano  ne!  giuoco  del  bridge. 


268  JEAN  GIRAUDOUX 


SCENA    OTTAVA 

ISABELLA,  LO  SPETTRO 

(Isabella  è  seduta  sul  monùcello.  Ha  cavato  lo  specchio,  si  guarda,  si 
guarda  gli  occhi,  i  capelli.  Il  fantasma  sorge  alle  sue  spalle.  Bel- 
l'uomo giovane.  Farsetto  di  velluto.  Viso  pallido  e  nitido.  Un  mo- 
mento di  confronto  come  una  conversazione  muta.  Isabella  abbassa 
lo  specchietto,  lo  rialza,  manda  un  raggio  di  sole,  del  sole  che  tra- 
monta, sullo  spettro  che  sembra  soffrirne) 

ISABELLA  -  Chiedo  scusa  di  questa  macchia  di  sole. 

LO  SPETTRO  -  È  passata.  È  sorta  la  luna. 

ISABELLA  -  Voi  scntitc  quel  che  dicono  i  vivi,  tutti  i  vivi? 

LO  SPETTRO  -  Vi  sento. 

ISABELLA  -  Tanto  meglio.  Desideravo  tanto  parlarvi. 

LO  SPETTRO  -  Parlarmi  di  chi? 

ISABELLA  -  Dei  vostri  amici,  miei  amici  anche,  ne  sono  sicura:  dei 
morti.  Sapete  molte  cose  sui  morti? 

LO  SPETTRO  -  Comincio  adesso. 

ISABELLA  -  Me  le  direte? 

LO  SPETTRO  -  Venite  qui  ogni  sera,  a  questa  stessa  ora,  e  ve  le  dirò. 
Come  vi  chiamate? 

ISABELLA  -  Il  mio  nome  non  ha  nessuna  importanza.  Me  le  direte,  cre- 
do, in  maniera  un  po'  meno  grave.  Non  mi  vorrete  fare  credere 
ch'essi  non  sorridono  mai. 

LO  SPETTRO  -  Chi,  essi? 

ISABELLA  -  Parliamo  dei  morti. 

LO  SPETTRO  -  Perché  dovrebbero  sorridere? 

ISABELLA  -  Che  cosa  fanno  allora  quando  succede  qualcosa  di  buffo  nel 
regno  dei  morti? 

LO  SPETTRO  -  Di  buffo  ncl  regno  dei  morti? 

ISABELLA  '  Di  buffo  o  di  tcnero  o  d'inaspettato.  Vi  saranno  dei  morti 
maldestri,  dei  morti  comici,  dei  morti  distratti... 

LO  SPETTRO  -  Che  cosa  potrebbero  lasciar  cadere?  Su  che  cosa  scivole- 
rebbero? 

ISABELLA  -  Su  quello  che  nel  loro  dominio  corrisponderebbe  al  cristallo 
o  alla  buccia  d'arancia...  Sopra  un  ricordo...  sopra  un  oblio... 

LO  SPETTRO  -  No,  tutti  i  morti  sono  straordinariamente  abili...  Non  in- 


INTERMEZZO  269 

ciampano  mai  contro  il  vuoto,  non  s'agganciano  mai  all'ombra,  non 
s'impigliano  mai  il  piede  nel  nulla...  E  il  loro  viso,  nulla  mai  lo 
rischiara... 

ISABELLA  -  È  una  cosa  che  non  riesco  a  capire,  che  i  morti  stessi  ere- 
dano  alla  morte.  Da  parte  dei  vivi,  si  può  concepire  una  tale  scioc- 
chezza. È  giusto  credere  che  la  stupidità,  la  menzogna,  l'obesità 
avranno  la  loro  fine,  credere  anche  che  la  bontà,  la  bellezza  mor- 
ranno. La  fragilità  è  il  loro  lustro.  Ma  dai  morti  io  mi  aspettavo 
altro!  Ben  altro  mi  aspettavo  da  quei  morti  di  cui  ogni  parte  è  no- 
bile, purificata,  pura! 

LO  SPETTRO  -  Ch'essi  credano  alla  vita,  è  vero? 

ISABELLA  -  Alla  vita  dei  morti,  certo...  Volete  che  vi  parli  francamente? 
Ho  spesso  l'impressione  che  si  lascino  andare.  Non  parliamo  di 
voi,  che  siete  qui,  che  io  ringrazio  di  essere  qui.  Ma  credo  che  ba- 
sterebbe loro  un  po'  più  di  volontà,  di  gaiezza,  per  evadere  e  venire 
verso  di  noi.  Non  c'è  dunque  stato  nessuno  fra  di  loro  che  abbia 
fatto  nascere  questo  desiderio? 

LO  SPETTRO  -  Aspettano  voi... 

ISABELLA  -  Verrò...  Verrò...  Ma  non  ho  l'impressione  che  sarò  partico- 
larmente forte  e  volitiva,  quando  sarò  scomparsa.  Sento  benissimo 
invece  che  quel  che  mi  piacerà  nella  morte  è  la  pigrizia  della 
morte,  quella  fluidità  un  po'  densa  e  appesantita  della  morte,  che 
fa  insomma  che  non  vi  siano  dei  morti,  ma  unicamente  degli  anne- 
gati... Quel  che  posso  per  la  morte  posso  farlo  soltanto  in  questa 
vita...  Ascoltatemi...  Fin  dalla  mia  infanzia  sogno  una  grande  im- 
presa... È  il  sogno  che  mi  rende  degna  della  vostra  visita.  Ditemi: 
non  c'è  stato  ancora  un  morto  di  genio,  un  morto  che  renda  la 
folla  dei  morti  cosciente  della  sua  forza,  della  sua  realtà,  un  im- 
peratore, un  messia  dei  morti?  Non  credete  che  tutto  sarebbe  me- 
ravigliosamente cambiato,  per  voi  e  per  noi,  se  sorgesse  un  giovane 
morto,  una  giovane  morta  —  o  una  coppia,  sarebbe  cosi  bello  — 
che  facesse  amare  ai  morti  il  loro  stato  e  capire  che  sono  immor- 
tali? 

LO  SPETTRO  -  Essi  non  lo  sono. 

ISABELLA  -  Come? 

LO  SPETTRO  -  Muoiono  anch'essi. 

ISABELLA  -  È  curioso  Vedere  come  tutte  le  razze  si  conoscano  male!  La 
razza  degli  Indiani  si  crede  rossa,  la  razza  dei  negri  si  crede  nera, 
la  razza  dei  morti  si  crede  mortale. 

LO  SPETTRO  -  Capita  che  li  prenda  una  specie  di  stanchezza,  che  passi 
su  di  loro  una  peste  dei  morti,  che  un  tumore  del  nulla  li  roda... 


270 


JEAN  CIRAUDOUX 


li  bel  grigio  della  loro  ombra  si  inargenta,  si  liquefa.  Allora  è  ben 
presto  la  fine,  la  Bne  di  tutto... 

ISABELLA  -  Via,  non  vorrete  credere  una  cosa  simile...  Esiste  certamen- 
te una  spiegazione  di  questa  debolezza! 

LO  SPETTRO  -  La  fine  della  morte. 

ISABELLA  -  No,  Certamente.  Non  siate  ostinato...  Raccontatemi  tutto  ed 
io  son  sicura  di  spiegarvi  tutto  nel  migliore  dei  modi... 

LO  SPETTRO  -  Tutto?  Il  vostTo  nome  anzitutto. 

ISABELLA  -  Vi  ripeto  che  il  mio  nome  non  ha  importanza...  Io  mi  chia- 
mo come  tutti...  Parlate...  Abbiate  fiducia! 

LO  SPETTRO  -  Dopo  la  morte  della  morte... 

ISABELLA  -  Benissimo...  È  appunto  adesso  che  la  cosa  comincia  a  diven- 
tare interessante.  Dopo  la  morte  della  morte  che  succede?...  Vi 
ascolto...  Ecco...  {si  volta  a  guardare  indietro)  Nessuno  può  sentir- 
ci... nessuno...  {mentre  si  voltava  lo  Spettro  è  scomparso)  Dove  sie- 
te? Dove  siete?  {si  guarda  attorno  disperata  e  grida)  Isabella!  Mi 
chiamo  Isabella! 


ATTO    SECONDO 


SCENA    PRIMA 

Un  altro  aspetto  della  campagna.  Boschetti  di  faggi.  Siepi.  Crepuscolo  ancora 
lontano. 

IL  CONTROLLORE,  LE  BAMBINE  fornite  di  lampadine  elettriche^ 

poi  LO  SPEZIALE 

IL  CONTROLLORE  -  Formate  il  triangolo,  ragazze  mie. 

(le  bambine  formano  una  specie  di  triangolo,  cantando) 

LE  BAMBINE  {cantano)  -  «Il  grande  brivido  che  provò  Bougainville  fu 
una  sera  a  Numea  quando  vide  le  luci  del  Triangolo  immobile 
inondare  le  buganvillee!...  ». 

IL  CONTROLLORE  -  Benissimo.  Adesso  la  Libra. 

LE  BAMBINE  {cantando  e  formando  una  bilancia,  il  cui  raggio  è  rap- 
presentato dalla  ragazza  pia  alta)  -  «Se  potesse  essere  esaudito  il 
sogno  della  mia  infanzia,  per  pesare  il  peso  della  notte,  nel  cielo 
australe  io  sarei  la  Bilancia,  i  cui  piatti  sono  la  gioia  e  la  noia...  ». 


INTERMEZZO  271 

IL  CONTROLLORE  -   I   QuattTO  Lupi  ^. 

LO  SPEZIALE  {entrando)  -  Buon  giorno,  ragazze.  Giocate  ai  quattro 
cantoni? 

LE  BAMBINE  -  Si,  ai  quattro  cantoni  dei  cielo. 

IL  CONTROLLORE  -  Buona  notte,  Signor  Speziale,  buona  notte. 

LO  SPEZIALE  -  Perché  buona  notte?  Siamo  ancora  in  pieno  giorno.  Che 
fa  quella  li,  con  le  gambe  allargate  e  con  la  sua  lampadina  elettrica? 

GiLBERTA  -  lo  sono  il  Compasso  australe.  Signor  Speziale. 

IL  CONTROLLORE  -  Ci  Cogliete  in  piena  lezione  di  astronomia.  Alza  la 
tua  lampadina,  Gilberta.  Tu  sei  di  prima  grandezza. 

LO  SPEZIALE  -  Avete  scelto  bene  la  sera.  Potete  vedere  le  stelle  sorgere 
Tuna  dopo  l'altra.  Bella  notte  per  le  ragazze  che  vogliano  imparare 
a  contare  fino  al  miliardo.  Avrete  anche  Orione. 

IL  CONTROLLORE  -  Ahimé,  no.  L'Ispettore  esige  che  le  mie  scolare  vada- 
no a  letto  con  il  sole. 

LO  SPEZIALE  -  E  voi  parlate  loro  degli  astri  davanti  a  un  cielo  vuoto? 
Cattivo  sistema,  che  rischia  di  eccitare  la  concupiscenza  di  queste 
fanciulle:  si  daranno  a  desiderare  le  stelle  come  dei  diamanti. 

IL  CONTROLLORE  -  Me  ne  guardo  bene.  So  fin  troppo  che  le  bambine 
credono  solo  quello  che  vedono.  I  loro  occhi  non  consentono  di  di- 
stinguere, in  pieno  giorno  attraverso  l'aria,  la  volta  celeste,  ma  è 
facile  per  la  loro  fantasia  vedere  attraverso  la  terra  tutti  i  particolari 
dell'alta  volta  del  firmamento.  Si,  siamo  in  piena  notte  australe. 

LO  SPEZIALE  -  E  vi  si  raccapezzano  ? 

IL  CONTROLLORE  -  Daisy,  dov'è  la  Bilancia  volante? 

DAisY  -  Precisamente  sotto  il  Signor  Speziale. 

LUCE  -  È  per  questo  che  lo  si  vede  cosi  bene. 

IL  CONTROLLORE  -  Il  Vantaggio  delle  costellazioni  oceaniche  sta  nel  fatto 
che  gli  antichi  non  le  conobbero  e  che  esse  furono  battezzate  da 
qualche  astronomo  fisico  o  frammassone.  È  un  cielo  completamente 
moderno.  Pieno  non  di  eroi,  ma  di  oggetti:  l'orologio,  il  triangolo, 
la  bilancia,  il  compasso.  Si  direbbe  un  laboratorio.  I  ragazzi  ado- 
rano i  laboratori.  Viola,  salta  dal  triangolo  alla  macchina  pneu- 
matica. 

VIOLA  -  Attraverso  la  bussola? 

IL  CONTROLLORE  -  No,  attraverso  il  pesce  australe. 

VIOLA  -  Ma  vi  sono  undici  miliardi  di  leghe. 


'  Si  tratta  sempre  di  costellazioni  dcircmisfero  australe. 


272  JEAN  GIRAUDOUX 

IL  CONTROLLORE  -  Fa'  un  salto  doppio,  grulla.  Molto  bene.  Formate  di 
nuovo  la  Croce  del  Sud,  ragazze. 

(le  bambine  formano  una  croce,  cantando) 

LE  BAMBINE  -  ((  Non  c*è  bisogno,  raccontava  La  Pcrouse,  di  conoscere 
il  Talmud  per  scoprire  l'antipode  gelosa  \  Il  mio  timone  fu  la  Cro- 
ce del  Sud  ». 

IL  CONTROLLORE  -  L*inconveniente  del  mio  sistema,  evidentemente,  è 
che  io  finisco  per  mostrare  loro  il  cielo  come  un  pavimento  e  non 
come  un  soffitto,  la  notte  come  qualcosa  sulla  quale  si  cammina. 

LO  SPEZIALE  -  Non  abbiate  paura.  Al  primo  giro  completo  del  loro 
cuore,  la  ritroveranno  sulle  loro  teste.  Esse  sono  logiche. 

IL  CONTROLLORE  -  Souo  logiche  nel  fatto  che  con  loro  ottengo  sempre 
il  risultato  contrario  al  previsto.  Questa  settimana,  per  esempio,  per 
far  intender  loro  la  nozione  più  utile  all'uomo,  quella  del  volume 
e  del  peso,  ho  fatto  loro  soppesare  della  ghisa,  ho  rotto  un  termo- 
metro per  riempire  di  mercurio  i  loro  ditali.  Esse  hanno  voluto 
portarmi  tutte  insieme  per  vedere  quel  che  pesa  un  uomo.  Risul- 
tato: sono  tutte  innamorate  dello  spettro. 

LO  SPEZIALE  -  Come  la  Signorina  Isabella! 

IL  CONTROLLORE  -  Sarai  punita,  Luce!  Spegni  la  tua  lampada.  Per  dieci 
minuti  sarai  una  stella  morta.  Vuoi  spegnere? 

LUCE  -  Le  stelle  morte  brillano  ancora  due  milioni  d'anni,  dopo  la 
loro  morte. 

IL  CONTROLLORE  -  Si,  e  gli  uomini  due  secondi.  Spegni.  Del  resto,  è  l'ora 
della  ricreazione.  Andate. 

{le  bambine  escono) 

LO  SPEZIALE  -  Vi  interessate  molto  alla  Signorina  Isabella? 

IL  CONTROLLORE  -  Disgrazlatamcnte  non  sono  il  solo.  Da  questa  mat- 
tina ho  l'impressione  che  anche  l'Ispettore  sia  al  corrente. 

LO  SPEZIALE  -  Al  corrente  di  che  cosa? 

IL  CONTROLLORE  -  Non  fate  l'ingenuo.  Sapete  benissimo  che  lo  spettro 
continua  ad  apparire  e  che  la  Signorina  Isabella  si  aggira  troppo 
spesso  nei  luoghi  delle  apparizioni. 

LO  SPEZIALE  -  Ne  ha  il  diritto. 

IL  CONTROLLORE  -  Non  ne  ha  il  diritto.  Essa  che  ci  apparteneva  a  tutti, 
che  è  il  buon  senso  della  città,  della  natura  intera,  non  ne  ha  il 


^  Bisogna  sottintendere  isola,  probabilmente  Vanikoro,  nella  Melanesia,  dove  La 
Pelouse  (1741 -'88)  fu  ucciso  dagli  indigeni. 


Anfitrione  38,  di  Giraudoux,  al  Teatro  Guild  di  New  York   (1938). 


INTERMEZZO  273 

diritto.  Che  non  vorrete  farmi  credere,  caro  Speziale,  che  voi  cre- 
dete davvero  all'esistenza  di  questo  spettro. 

LO  SPEZIALE  -  Che  già  esista  non  sono  sicuro,  infatti.  Ma  è  possibilis- 
simo che  esista  stasera. 

IL  CONTROLLORE  -  Non  vi  capisco. 

LO  SPEZIALE  -  Ho  l'impressione  che  potremmo  benissimo  assistere  que- 
sta sera  alla  nascita  di  uno  spettro. 

IL  CONTROLLORE  -  La  nascita  di  uno  spettro?  Come?  Perché? 

LO  SPEZIALE  -  Come,  non  saprei.  Sarà  la  nostra  sorpresa.  Perché?  Per- 
ché non  riesco  a  credere  che  una  simile  atmosfera  si  sia  addensata 
sulla  nostra  città  scnzai  una  ragione.  Ogni  volta  che  la  natura  ha  pre- 
so verso  gli  uomini  questo  tono  d'ironia,  il  corrugamento  comico  ed 
inquietante  della  fronte  di  un  elefante  irritato  dal  suo  conduttore, 
ne  e  nato  qualche  evento  misterioso,  nascita  di  un  profeta,  crimine 
rituale,  scoperta  di  una  nuova  specie  animale.  È  in  uno  di  questi 
momenti  che  il  cavallo  è  improvvisamente  apparso  davanti  alla  ca- 
verna dei  nostri  antenati.  Noi  non  faremo  eccezione. 

IL  CONTROLLORE  -  In  quanto  a  questo,  è  esatto.  La  nostra  città  è  folle. 

LO  SPEZIALE  -  Essa  è  piuttosto  in  quello  stato  in  cui  tutti  i  voti  sono 
esauditi,  in  cui  tutte  le  divagazioni  si  rivelano  giuste.  Nell'indivi 
duo  ciò  si  chiama  stato  poetico.  La  nostra  città  è  in  delirio  poetico. 
Non  l'avete  constatato  su  voi  stesso? 

IL  CONTROLLORE  -  Appunto.  Questa  mattina,  alzandomi,  ho  pensato,  sa 
Dio  perché,  alla  scimmia  denominata  mandrillo,  il  cui  di  dietro  è 
tricolore.  Che  cosa  ho  urtato  spingendo  la  mia  porta?  Un  mandril- 
lo. Un  mandrillo  addomesticato  tenuto  al  guinzaglio  da  zingari, 
ma,  comunque,  c'era  un  mandrillo  sul  mio  marciapiede. 

LO  SPEZIALE  -  £  se  voi  aveste  pensato  a  un  armadillo  o  ad  una  Marti- 
nicana,  vi  sareste  imbattuto  in  un  armadillo  o  in  una  Martinicana, 
e  tutto  si  sarebbe  spiegato  nel  modo  più  naturale  con  il  passaggio 
di  un  circo  o  con  il  cambiamento  di  casa  di  un  funzionario  colo- 
niale in  pensione.  La  città  è  in  stato  di  fortuna  come  un  giocatore 
di  roulette  che  ad  ogni  colpo  vince  in  pieno. 

IL  CONTROLLORE  -  Ma  allora  non  dobbiamo  vegliare  più  attentamente 
sulla  Signorina  Isabella? 

LO  SPEZIALE  -  Senza  dubbio.  Che  la  natura  non  è  mai  impunemente 
incinta.  Le  montagne  non  hanno  mai  partorito  un  topo  né  i  tem- 
porali un  uccello,  ma  lava  e  fulmini.  Tutto  congiurerà  per  crearci 
uno  spettro,  la  luce,  l'ombra,  la  stupidità,  l'immaginazione,  gli  stes- 
si spettri,  se  esistono,  senza  contare  l'Ispettore. 

IL  CONTROLLORE  -  Abbiamo  il  nostro  «  en  plein  ».  Eccolo... 


18.  •  Teatro  france$e 


274  JEAN  GIRAUDOUX 


SCENA    SECONDA 

IL  CONTROLLORE,  l'iSPETTORE,   IL   SINDACO,   LO  SPEZIALE 

l'ispettore  -  Affare  urgente,  Signori,  ecco  la  lettera  che  il  governo  mi 
manda  con  un  corriere  speciale.  Leggete,  Signor  Sindaco,  la  lettera 
vi  interessa. 

IL  SINDACO  -  Credete  davvero  che  m'interessi? 

l'ispettore  -  Quanto  me,  soprattutto  la  fine. 

IL  SINDACO  -  Il  governo  è  molto  tenero  con  voi,  a  quanto  sembra? 

l'ispettore  -  Lo  è,  per  mia  fortuna. 

IL  SINDACO  -  Esso  dcponc  un  bacio  sulla  vostra  bocca  adorata,  vi  chiede 
cento  franchi  e  firma  «  la  tua  Adele  ». 

l'ispettore  -  Pardon.  Ho  fatto  confusione.  Ecco  la  vera  lettera.  Vi 
chiedo  di  esser  seri,  Signori.  L*ora  è  tragica. 

il  SINDACO  (leggendo)  -  «Il  Consiglio  superiore  ha  preso  nota  degli 
eventi  strani  che  turbano  la  vostra  circoscrizione.  Appassionatamen- 
te laico,  esso  si  rallegra  di  vedere  che  l'isterismo  collettivo  trova  in 
Francia  un  cauterio  ben  diverso  dal  miracolo.  Non  si  aspettava 
meno  dalla  terra  limosina  che  ha  saputo  gettare  fra  il  naturalismo 
dei  druidi  e  il  radicalismo  contemporaneo,  al  disopra  delle  super- 
stizioni clericali  e  pur  avendo  dato  tre  papi  alla  cristianità,  un'arca 
di  credenze  locali  e  poetiche». 

IL  controllore  -  Com'è  scritto  bene!  Da  chi  è  composto  il  Consiglio 
Superiore? 

l'ispettore  -  Il  suo  stesso  nome  lo  dice:  da  spiriti  superiori. 

IL  SINDACO  (leggendo)  -  «Tuttavia  il  carattere  delle  perturbazioni  pro- 
vocate da  codesto  spettro  nella  vita  comunale  non  è  abbastanza  de- 
mocratico per  giustificare  una  tacita  collaborazione  del  governo. 
Pertanto  il  governo  vi  conferisce  pieni  poteri  per  arieggiare  defini- 
tivamente il  circondario  e  mette  a  vostra  disposizione  le  autorità 
civili  e  militari». 

l'ispettore  -  Dunque,  Signori,  all'opera.  Terminiamo  la  nostra  caccia. 

IL  SINDACO  -  Non  vi  sembra  terminata.  Signor  Ispettore?  Dopo  quin- 
dici giorni  di  caccia  agli  esseri  ed  agli  animali  sospettati  di  stra- 
nezza, la  selvaggina  si  esaurisce. 

l'ispettore  -  Davvero,  e  quale  era  il  bilancio  di  ieri? 

IL  SINDACO  -  Insignificante. 

l'ispettore  -  Per  quel  che  riguarda  gli  uomini? 


INTERMEZZO  275 

IL  CONTROLLORE  -  Abbiamo  messo  sotto  sequestro  ii  registro  sul  quale 
il  Conservatore  delle  Ipoteche  scriveva  segretamente  le  ipoteche 
morali  e  demoniache  dei  nostri  concittadini. 

l'ispettore  -  E  per  quello  che  riguarda  gli  animali? 

IL  SINDACO  -  Abbiamo  preso  al  cappio,  e  purtroppo  privato  della  vita, 
un  cane  che  rassomigliava  stranamente  ad  uno  dei  nostri  agenti 
di  pubblicità  piò  in  vista,  ma  che  morendo  ha  ritrovato  l'espressione 
di  umanità  e  di  onestà  caratteristica  della  sua  razza.  Poca  cosa. 

l'ispettore  -  Poca  cosa.  E  che  avete  sognato  questa  notte,  caro  Sindaco? 

IL  SINDACO  -  Che  ho  sognato,  perché? 

l'ispettore  -  Se  l'atmosfera  della  città  è  cosi  purificata,  i  suoi  abitanti 
debbono  godere  i  sogni  più  normali  della  Francia.  Vi  ricordate 
quel  che  avete  sognato? 

IL  sindaco  -  Sicuro.  Mi  dibattevo  contro  due  maggiolini  giganti  che  per 
sfuggirmi  finirono  per  diventare  i  miei  piedi.  Una  cosa  imbaraz- 
zante. Essi  rodevano  l'erbetta  del  prato,  e  non  c'è  nulla  di  piò 
difficile  che  camminare  con  dei  piedi  che  brucano.  Poi  si  trasfor- 
marono in  millepiedi  e  allora  tutto  andò  bene,  troppo  bene! 

l'ispettore  -  E  voi,  caro  Controllore? 

IL  CONTROLLORE  -  È  molto  delicato  da  dire. 

l'ispettore  -  Voi  siete  in  servizio  comandato. 

IL  CONTROLLORE  -  Amavo  alla  follia  una  donna  che  saltava  in  stiffelius 
attraverso  un  cerchio,  col  seno  destro  scoperto,  e  questa  donna  era- 
vate voi. 

l'ispettore  -  Cosi,  miei  Signori,  questo  e  il  sogno,  lusinghiero  per  me, 
ne  convengo,  che  voi  chiamate  un  sogno  francese  normale.  E  se  voi 
lo  moltiplicate  per  quarantadue  milioni,  pretendete  che  questo  resi- 
duo notturno  sia  degno  del  più  sensato  e  pratico  popolo  dell'univer- 
so? 

IL  CONTROLLORE  -  In  rapporto  al  residuo  dei  sessantaquattro  milioni  di 
sogni  tedeschi,  è  abbastanza  probabile. 

LO  SPEZIALE  -  Insomma,  Signor  Ispettore,  voi  cominciate  ad  essere  im- 
pressionato da  questo  sovrannaturale? 

l'ispettore  -  Vengo  a  voi.  Speziale.  Per  quel  che  vi  riguarda,  il  vaso 
e  colmo.  È  grazie  al  vostro  eterno  sorriso  e  al  vostro  perpetuo  si- 
lenzio che  la  nostra  lotta  contro  l'influenza  di  Isabella  non  ha  fatto 
un  passo  nella  sottoprefettura.  Ho  l'impressione  che  voi  non  siate 
estraneo  a  queste  mistificazioni  continue  che  in  altri  tempi  pote- 
vano piacere  in  qualche  residenza  della  Turingia,  ma  che  rivoltano 
lo  stomaco  del  cittadino  colto.  A  mezzanotte,  una  mano  faceta  ag- 
giunge un  tredicesimo  colpo  ai  dodici  colpi  del  campanile.  Basta 


276  JEAN  GIRAUDOUX 

che  un  alto  funzionario  si  segga  sopra  un  banco  perché  questo 
banco  divenga  dipinto  di  fresco,  o  ad  una  terrazza  perché  lo  zuc- 
chero rifiuti  di  sciogliersi  nel  caffè  anche  bollente.  Un  rondone, 
abituato  senza  dubbio  ad  attraversare  i  vostri  spettri,  è  venuto  poco 
fa  a  sferzarmi  in  pieno  petto.  Io  gli  ho  opposto  per  sua  sventura 
la  densità  umana,  ma  intanto  le  mie  lenti  di  ricambio  sono  andate 
in  pezzi.  Io  fremo  all'idea  delle  deroghe  al  buon  senso  che  ci  ver- 
ranno domani  dal  sorteggio  della  vostra  lotteria  mensile.  Perciò  vi 
avverto.  Io  intendo  porre  termine  a  queste  divagazioni  umilianti 
fin  da  questa  sera,  togliendo  di  mezzo  Isabella. 

IL  SINDACO  -  Che  c'entra  Isabella  in  questa  storia? 

l'ispettore  -  Signor  Sindaco,  tutti  meno  voi  sanno  in  città  che  da  due 
settimane  la  Signorina  Isabella  accetta  un  convegno  quotidiano. 

il  controllore  -  È  falso. 

IL  sindaco  -  Che  scherzo  è  mai  questo? 

l'ispettore  -  Non  è  uno  scherzo.  Ogni  sera,  verso  le  sei,  verso  que- 
st'ora. Isabella  si  allontana  attraverso  i  sobborghi  con  l'aria  falsa- 
mente oziosa  di  chi  va  ad  approviggionare  un  evaso  nel  suo  nascon- 
diglio. Ma  essa  è  più  che  mai  rosea,  con  l'occhio  più  che  mai  vi- 
vace e  tenero,  e,  dato  che  le  sue  mani  sono  vuote,  è  indubbio  che 
i  viveri  che  porta  al  suo  protetto  sono  quel  sangue,  quella  vita  e 
quella  tenerezza...  Un  pasto  da  spettro,  insomma,  e  forse  con  le 
frutta. 

IL  controllore  -  Signor  Ispettore! 

il  sindaco  -  Via,  Signor  Ispettore.  Se  questa  mattina  ho  cercato  di 
portarvi  a  colazione  con  lei  è  stato  appunto  per  mostrarvi  come  in 
lei  tutto  è  reale,  vivente.  Avete  mai  visto  un  appetito  più  umano? 

l'ispettore  -  È  quel  che  v'inganna.  Io  l'ho  osservata  bene.  Evidente- 
mente ha  preso  due  volte  la  lepre  alla  salsa  reale  e  causato  seri 
danni  al  clan  dei  dolci.  Ma  ho  notato  che  accanto  alla  vera  cola- 
zione di  carni  e  di  creme  spiluzzicava,  senza  rendersene  conto, 
molliche  di  pane,  granelli  di  riso,  briciole  di  nocciuola,  che  insom- 
ma faceva  uno  di  quei  pasti  che  si  sogliono  mettere  nelle  tombe. 
Chi  nutriva  cosi  in  se  stessa?  E  nel  suo  abbigliamento,  accanto  al 
suo  vestito,  alla  sua  collana,  ho  distinto  un'altra  Isabella,  pallida, 
adornata  e  preparata  per  un  convegno  infernale.  Almeno  cosi  cre- 
de. È  quella  che  in  questo  momento  si  mette  ipocritamente  in  cam- 
mino verso  il  margine  della  foresta  e  della  quale  ci  occuperemo 
senza  indugio. 

il  sindaco  -  Ma  che  cosa  è  opportuno  fare,  secondo  voi? 

il  controllore  -  Signor  Ispettore,  evitiamo  incidenti  e  scandali.  La 


INTERMEZZO  277 

Signorina  Isabella  si  compiace  talvolta  di  fare  quattro  chiacchiere 
con  me.  Lasciate  che  le  parli,  che  le  faccia  intendere  i  pericoli  della 
sua  condotta.  Sono  sicuro  di  convincerla. 

LO  SPEZIALE  -  Ed  è  lecito  chiedervi  con  quali  mezzi  intendete  ridurre 
Isabella  alla  ragione? 

l'ispettore  -  Con  la  forza.  Non  e  senza  motivo  che  ho  aspettato  per 
agire  che  il  governo  mettesse  a  mia  disposizione  le  forze  armate 
della  città.  Bisogna  liquidare  questa  storia  di  spettro.  Cosi  soltanto 
io  posso  colpire  il  prestigio  di  Isabella,  dato  che  la  mia  opinione  dif- 
ferisce dalla  vostra  in  quanto  io  credo  che  abbiamo  da  fare  non 
con  uno  spettro  ma  con  l'assassino  del  castello.  È  qui  ch'essi  s'in- 
contrano, ed  a  quest'ora.  Adesso  son  venuto  a  tendere  la  trappola. 
Nascosti  dietro  questo  boschetto,  gli  agenti  della  forza  pubblica  si 
impadroniranno  di  lui,  al  mio  segnale. 

il  sindaco  -  Non  contate  sulla  guardia  campestre.  Signor  Ispettore.  È 
l'apertura  della  pesca  ed  egli  è  in  giro  d'ispezione. 

l'ispettore  -  Allora  ricorrerò  ai  gendarmi. 

IL  sindaco  -  I  gendarmi  sono  in  quarantena,  sia  per  gli  onesti  che  per 
i  delinquenti.  S'è  verificato  un  caso  di  scarlattina  nella  caserma. 

l'ispettore  -  Poco  importa  che  un  Ispettore  prenda  la  scarlattina. 

IL  sindaco  -  Non  è  dello  stesso  parere  il  tribunale  che,  dall'usciere  al 
sostituto,  sarebbe  contagiato  dal  delinquente.  Una  giustizia  che  vuol 
essere  sana  esige  delinquenti  sani. 

l'ispettore  -  Non  mi  prendete  alla  sprovvista,  Signor  Sindaco.  Preve- 
devo lo  scarso  slancio  che  si  sarebbe  messo  nell'assecondare  i  mici 
sforzi,  e  ho  preso  tutte  le  precauzioni. 

il  sindaco  -  Che  avete  escogitato  ancora? 

l'ispettore  -  Una  cosa  semplicissima.  Ho  saputo  che  la  città  vicina 
ospita  l'uomo  di  Francia  che  meno  teme  di  prendere  per  il  collo 
i  banditi  morti  e  vivi. 

IL  SINDACO  -  L'antico  boia  che  vi  si  è  ritirato  in  pensione? 

l'ispettore  -  Proprio  lui.  E  l'ho  convocato  con  un  annunzio  che  gli 
promette  cinquecento  franchi.  Lo  conoscete? 

IL  sindaco  -  Nessuno  lo  conosce.  Vive  lontano  da  tutti.  Ma  l'effetto  del 
vostro  annunzio  e,  ahimé,  troppo  sicuro!  Dove  devo  raggiungervi? 

l'ispettore  -  Qui  stesso,  e  l'aspetto.  Con  le  armi. 

IL  SINDACO  -  Ma  l'altro  può  resistere,  difendersi! 

IL  CONTROLLORE  -  Signor  Ispettore,  vi  prego,  permettetemi,  prima  che 
sia  troppo  tardi,  che  io  parli  con  la  Signorina  Isabella. 

l'ispettore  -  Zitti,  Signori,  eccola!  Le  mie  previsioni  trovano  confer- 
ma. Signor  Controllore,  vi  do  cinque  minuti  per  convincerla.  Poi 


278  JEAN   GIRAUDOUX 

passo  airazione...  Vi  lascio  con  lei.  Noi  andremo  incontro  al  boia 
che  mi  sembra  in  ritardo. 
LO  SPEZIALE  -  Il  boia  non  è  puntuale  che  all'alba. 

(escono) 


SCENA    TERZA 

IL  CONTROLLORE,  pOt   ISABELLA 

IL  CONTROLLORE  -  Che  andatura  leggera  è  la  vostra,  Signorina  Isabella. 
Che  sia  sulla  ghiaia  o  sulle  foglie,  vi  si  sente  appena.  Come  i  ladri 
che  nelle  case  riescono  a  non  far  scricchiolare  la  scala,  camminando 
giusto  sulla  testa  delle  punte  che  l'hanno  inchiodata,  cosi  voi  por- 
tate i  passi  sulla  costura  stessa  della  provincia. 

ISABELLA  -  Voi  parlate  bene,  Signor  Controllore.  È  assai  piacevole  sen- 
tirvi. 

IL  CONTROLLORE  -  Si,  parlo  bene  quando  ho  qualcosa  da  dire.  Non  che 
io  arrivi  a  dire  precisamente  quel  che  voglio  dire.  Mio  malgrado, 
dico  una  cosa  del  tutto  diversa.  Ma  questa  la  dico  bene...  Non  so 
se  mi  capite. 

ISABELLA  -  Capisco  chc  parlandomi  della  costura  della  provincia  volete 
esprimermi  un  po'  di  simpatia.  Voi  siete  molto  gentile  con  le  don- 
ne... È  molto  bello  quel  che  avete  detto  della  Signora  Lambert! 

IL  CONTROLLORE  -  Giusto!  Parlando  di  lei,  non  pensavo  soltanto  alla 
Signora  Lambert. 

ISABELLA  -  Voi  pensavate  ad  assumere  un  atteggiamento  opposto  a 
quello  dell'Ispettore.  Vi  ringrazio.  Tutto  quello  che  fa  quell'indi- 
viduo mi  riesce  incomprensibile  e  odioso:  lo  sapete  voi  perché 
mi  spia? 

IL  CONTROLLORE  -  Ce  lo  ha  detto  poco  fa.  Egli  pensa  che  sia  anormale 
credere  agli  spettri. 

ISABELLA  -  E  voi.  Signor  Controllore?  Non  credete  mai  a  quello  che  è 
anormale? 

IL  CONTROLLORE  -  Comincio  ad  abituarmi:  è  anormale  che  esista  un  es- 
sere perfetto  come  Isabella. 

ISABELLA  -  Molto  ben  detto.  Certamente  non  è  quello  che  volevate  dire. 

IL  CONTROLLORE  -  Oh!  Signorina  Isabella... 

ISABELLA  (gli  sorride,  commossa)  -  Anormale  credere  agli  spettri!  Quel 
che  a  me  sembra  anormale  è  l'indifferenza  che  i  vivi  hanno  per  i 


INTERMEZZO  279 

morti.  O  noi  viviamo  nell'ipocrisia  —  e  i  miliardi  di  cristiani  che 
proclamano  che  i  morti  hanno  un'altra  vita  lo  dicono  senza  cre- 
derci —  oppure,  appena  si  parla  di  loro,  si  diventa  egoisti  e  miopi. 

IL  CONTROLLORE  -  Non  siete  più  miope,  voi,  Signorina  Isabella?  Voi  li 
vedete? 

ISABELLA  -  Non  vcdo  ancora  molto  chiaro.  Non  ne  vedo  che  uno. 

IL  CONTROLLORE  -  Ma  che  è  bello,  a  quel  che  si  dice  in  città. 

ISABELLA  -  Non  c'c  male. 

IL  CONTROLLORE  -  E  forsc  anchc  giovane? 

ISABELLA  -  Sui  trent'anni.  Tanto  vale  entrare  nell'eternità  a  trent'anni 
piuttosto  che  con  una  barba  bianca,  è  vero? 

IL  CONTROLLORE  -  SÌ  avvicina  a  voi?  Gli  permettete  di  toccarvi? 

ISABELLA  -  Non  si  avvicina.  Io  non  faccio  un  passo  verso  di  lui.  So 
troppo  bene  quello  che  un  soffio  umano  può  appannare. 

IL  CONTROLLORE  -  Restate  lunghe  ore  cosf,  l'una  di  fronte  all'altro? 

ISABELLA  -  Delle  ore. 

IL  CONTROLLORE  -  E  la  cosa  vi  sembra  molto  ragionevole? 

ISABELLA  -  Caro  Signor  Controllore,  per  obbedire  ai  miei  maestri,  io 
mi  sono  ostinata  per  tutta  la  mia  giovinezza  a  rifiutare  tutti  gli  in- 
viti che  non  venissero  da  questo  mondo.  Tutto  quello  che  ci  è  stato 
insegnato,  ai  miei  compagni  ed  a  me,  è  una  civiltà  di  egoisti,  una 
cortesia  da  termiti.  Ragazzine,  giovanette,  noi  dovevamo  chinare 
gli  occhi  davanti  agli  uccelli  dai  colori  troppo  vivaci,  alle  nuvole 
troppo  modellate,  agli  uomini  troppo  uomini,  davanti  a  tutto  quello 
che  nella  natura  è  richiamo  o  segno.  Noi  siamo  uscite  dal  convento 
conoscendo  a  fondo  soltanto  una  parte  molto  ristretta  dell'universo, 
la  fodera  interna  delle  nostre  palpebre.  È  assai  bello,  certo,  con  i 
cerchi  d'oro,  le  stelle,  le  losanghe  porpora  o  azzurre,  ma  è  poco, 
anche  se  si  costringe  la  migliore  amica  a  premere  col  dito  sui  vo< 
stri  occhi. 

IL  CONTROLLORE  -  Ma  voi  sictc  riuscita  prima  nell'esame  di  diploma. 
Signorina  Isabella.  Vi  hanno  insegnato  il  sapere  umano? 

ISABELLA  -  Quello  che  si  chiama  cosi  è  tutt'al  più  la  religione  umana, 
ed  è  un  egoismo  terribile.  Il  suo  dogma  è  di  rendere  impossibile  o 
sterile  qualsiasi  legame  estraneo  agli  uomini,  a  disimparare,  ad  ec- 
cezione^ dell'umana,  tutte  le  lingue  che  sa  già  un  bambino.  In  que- 
sto falso  pudore,  in  questo  stupido  ossequio  ai  pregiudizi,  quante 
meravigliose  offerte  non  abbiamo  rifiutate,  che  ci  venivano  da  tutti 
i  piani  del  mondo  e  da  tutti  i  regni.  Io  sola  ho  osato  rispondere. 
Tardi,  del  resto.  Ma  voglio  rispondere.  La  mia  risposta  ai  morti 
non  è  che  la  prima. 


280  JEAN   GIRAUDOUX 

IL  CONTROLLORE  -  Ed  ai  vìvi,  intcndctc  rispondere,  un  giorno? 

ISABELLA  -  Io  fìspondo  3  tutto  quello  che  m'interroga. 

IL  CONTROLLORE  -  Risponderete  al  vivo  che  vi  chiederà  di  vivere  con 
lui,  di  essere  vostro  marito? 

ISABELLA  -  Risponderò  che  accetterò  soltanto  un  marito  che  non  mi 
proibisca  di  amare  insieme  la  vita  e  la  morte. 

IL  CONTROLLORE  -  La  vita  e  la  morte,  ciò  può  ancora  andare,  ma  un 
vivo  e  un  morto  è  molto,  dato  che,  se  ho  ben  capito,  voi  continue- 
reste a  ricevere  lo  spettro. 

ISABELLA  -  Senza  dubbio;  dal  momento  che  ho  la  fortuna  di  contare 
degli  amici  fuori  dei  domini  della  terra,  intendo  approfittarne. 

IL  CONTROLLORE  -  E  non  temete  che  i  rapporti  della  vita  comune  ne 
siano  diminuiti  o  turbati? 

ISABELLA  -  In  che  cosa?  In  che  cosa  potrebbe  sentirsi  diminuito  o  umi- 
liato un  marito  che  tornando  dalla  caccia  o  dalla  pesca  trovasse  una 
moglie  che  crede  alla  vita  suprema  o  che  rientrando  la  sera,  da  una 
riunione  politica,  chiudesse  le  imposte  su  una  donna  che  crede  al- 
l'altra luce?  L'ora  vuota  della  giornata,  che  le  altre  spose  danno  a 
visitatori  ben  più  pericolosi,  ai  loro  ricordi,  alle  loro  speranze,  allo 
spettro  della  propria  vita,  al  loro  amante,  perché  non  dovrebbe  es- 
sere per  lei  l'ora  di  una  amicizia  invisibile? 

IL  CONTROLLORE  -  Perché  vostro  marito  potrebbe  non  voler  ammettere 
fra  voi  e  lui  nemmeno  l'invisibile  e  l'impalpabile. 

ISABELLA  -  Vi  sono  già  tante  cose  impalpabili  fra  due  sposi.  Una  più 
o  una  meno... 

IL  CONTROLLORE  -  Fra  due  sposi? 

ISABELLA  -  Non  foss'altro  che  i  loro  sogni...  Non  foss'altro  che  la  loro 
ombra.  Voi  non  vi  divertite  mai  a  calpestare,  a  loro  insaputa,  l'om- 
bra delle  persone  che  amate,  a  introdurvi  in  essa,  ad  accarezzarla? 

IL  CONTROLLORE  -  L'ombra  di  vostro  marito  è  sua  e  non  sente  nulla. 

ISABELLA  -  Allora,  la  sua  voce? 

IL  CONTROLLORE  -  I^  SUa  VOCe? 

ISABELLA  -  Ci  sarà  certamente  nella  voce  di  mio  marito  un  timbro  che 
mi  piacerà  e  che  non  sarà  lui,  e  che  amerò  senza  dirglielo.  £  le  sue 
pupille?  Credete  voi  che  penserò  sempre  a  mio  marito,  caro  Signor 
Controllore,  guardando  le  sue  pupille?  Io  vorrei  un  marito  come 
vorrei  un  diamante,  per  le  gioie  e  le  luci  che  mi  darà  senza  ren- 
dersene conto.  Mille  cose  sue  mi  faranno  continuamente  dei  segni 
che  .lo  tradiscono,  e  lo  spettro  sarà  per  lui  certamente  più  leale  che 
la  sua  propria  apparenza. 

IL  CONTROLLORE  -  Tutto  qucl  che  si  sa  degli  spettri  è  che  sono  terribil- 


INTERMEZZO  281 

mente  fedeli.  La  mancanza  d'occupazioni  lo  permette  loro.  Voi  ve- 
drete apparire  la  sua  macchia  grigia  nelle  ore  in  cui  egli  non  sarà 
che  un  importuno,  e  alla  fine  voi  non  avrete  guadagnato,  a  guar- 
dare la  morte  in  faccia,  che  i  disturbi  di  vista  che  si  hanno  quando 
si  guarda  fissamente  il  sole. 

ISABELLA  -  Vi  sono  due  soli.  L'oscuro  non  è  per  me  meno  tiepido  e 
meno  necessario. 

IL  CONTROLLORE  -  Badate,  Isabella,  badate! 

ISABELLA  -  A  chi?  A  che  cosa? 

IL  CONTROLLORE  -  Diffidate  dei  morti  o  dei  pretesi  morti  che  si  aggirano 
intorno  ad  una  ragazza.  Le  loro  intenzioni  non  sono  pure. 

ISABELLA  -  E  quelle  dei  vivi  lo  sono  di  più? 

IL  CONTROLLORE  -  Il  loro  giuoco  è  ben  noto.  Essi  si  danno  da  fare  per 
separare  un  essere  dalla  massa  degli  uomini.  Lo  attirano  con  la 
pietà  o  con  la  curiosità  lontano  dal  gregge  che  si  compiace  di  ve 
stiti  e  di  cravatte,  che  ama  il  pane  e  il  vino,  e  lo  assorbono.  Il  vostro 
spettro  non  fa  altro. 

ISABELLA  -  Non  insistete,  caro  Signor  Controllore.  Pensate  che  dalla 
folla  innumerevole  dei  morti,  il  mio  spettro,  come  dite  voi,  è  il  solo 
che  sia  potuto  pervenire  fino  a  me.  E  siate  sicuro  ch'egli  non  sarà 
stato  il  solo  ad  essere  tentato  da  questo  viaggio...  Spesso  sento  che 
dall'oceano  delle  ombre  si  formano  delle  correnti,  si  orientano  dei 
marosi  verso  questa  giovane  donna  che  crede  in  loro.  Io  sento  il 
desiderio  che  ciascuna  prova  di  separarsi  dalle  altre,  di  ritrovare  un 
corpo,  un'apparenza.  Io  sento  che  esse  mi  hanno  capita  e  che  mi 
segnalano  alle  miriadi  delle  altre.  Tutte  sanno  che  non  le  accoglie- 
rei con  tremori  e  scongiuri,  ma  umanamente,  semplicemente.  Quel 
che  vogliono  i  morti,  nella  loro  visita,  è  che  si  dica:  «  Riposatevi  del 
vostro  eterno  riposo.  Sedete!  Farò  come  se  voi  non  foste  qui».  È 
come  vedere  un  pezzo  di  pane,  come  sentire  un  canarino  nella  sua 
gabbia,  come  sfiorare  quel  modello  di  suprema  attività  che  dev'es- 
sere per  loro  un  funzionario  in  pensione,  come  respirare  addosso 
ad  una  ragazza  il  piò  nuovo  dei  profumi  ottenuti  dai  vivi  con  es- 
senze e  fiorì...  ((  Andiamo  a  vedere  Isabella,  »  dicono  laggiù  miliardi 
di  silenzi,  «  essa  ci  aspetta...  Andiamo...  Forse  avremo  anche  la  for- 
tuna di  vedere  l'ispettore  stradale,  il  ricevitore...  ».  Ma  non  hanno 
la  forza  per  un  tal  viaggio:  e,  a  portata  di  voce  dalla  ricevitorìa, 
ma  senza  voce,  in  vista  della  sottoprefettura  ma  ciechi,  essi  esitano 
e  un'ondata  li  disperde  o  li  riporta  via...  Solo  il  mio  spettro,  per  un 
prodigio  di  forza  o  di  volontà,  ha  potuto  restare  a  galla  sul  gorgo. 
Avrei  io  il  coraggio  di  rigettar  velo? 


282  JEAN  GIRAUDOUX 

IL  CONTROLLORE  -  IsabcUa!  Non  toccate  i  confini  della  vita  umana  ed 
i  suoi  limiti.  La  grandezza  della  vita  è  nell'esser  breve  e  piena  fra 
due  abissi.  Il  suo  miracolo  è  nell'essere  varia,  sana,  stabile  fra  dei 
vuoti  e  degl'infiniti.  Introducete  in  essa  una  goccia,  una  sola  goc- 
cia del  sangue  delle  ombre  e  il  vostro  gesto  diventa  gravido  di  con- 
seguenze come  quello  di  un  abitante  del  nostro  sistema  solare  che 
un  bel  giorno,  per  una  disgraziata  esperienza,  per  la  sintesi  di  un 
metallo  più  pesante  o  per  una  maniera  inedita  di  ridere  o  di  star- 
nutire, falsasse  la  nostra  gravitazione.  Che  intervenga  il  minimo 
giuoco  nella  ragione  umana,  ed  essa  è  perduta.  Ogni  uomo  non 
dev'essere  che  una  sentinella  alle  sue  porte.  Voi  forse  tradite  apren- 
do, cedendo  alla  spinta  del  primo  venuto. 

ISABELLA  -  Uno  solo  ha  forzato,  ma  dei  miliardi  spingevano. 

IL  CONTROLLORE  -  Appunto,  dci  miliardi  possono  tener  dietro. 

ISABELLA  -  E  che  male  ci  sarebbe?  Non  insistete,  caro  Signor  Control- 
lore. Voi  avete  chiesto  il  mio  parere  sull'uomo  che  vorrà,  un  gior- 
no, a  prendermi  nelle  sue  braccia.  Ve  l'ho  detto.  Se  è  per  sottrarmi 
a  tutto  quello  che  mi  chiama,  per  chiudere  le  mie  parole  con  la  sua 
bocca,  i  miei  sguardi  con  i  suoi  occhi,  se  è  per  aiutare  tutte  quelle 
altre  coppie,  delle  quali  non  si  vede  che  il  dorso,  a  formare  il  mi- 
serabile blocco  umano,  che  allora  egli  non  si  avvicini.  Se  voi  lo 
conoscete,  avvertitelo.  Io  rivedrò  lo  spettro.  Bisogna  scegliere...  Ad- 
dio: egli  mi  aspetta! 

IL  ooNTROLLORE  -  Vi  asf)etta?  Vi  supplico.  Signorina  Isabella!  In  ogni 
caso,  evitate  d'incontrarlo  oggi. 

ISABELLA  -  Vado. 

IL  CONTROLLORE  -  Vi  scongiuro.  Per  il  bene  suo,  non  andate.  L'Ispet- 
tore vi  tende  un  agguato.  Non  cercatelo  oggi. 

ISABELLA  -  Lo  rivedrò,  e  oggi  stesso  e  in  questo  stesso  istante.  E  vi 
prego  di  allontanarvi,  caro  Signor  Controllore,  perché  si  avvicina 
l'ora. 

IL  CONTROLLORE  -  Ebbene,  io  resto.  Lo  vedrò  anch'io. 

ISABELLA  -  Ne  dubito.  Egli  mi  darebbe  una  grande  delusione  se  si  ren- 
desse visibile  ad  altri. 

IL  CONTROLLORE  -  lo  lo  vcdrò,  lo  toccherò,  vi  darò  una  prova  della  sua 
mistificazione. 

ISABELLA  -  Voi  non  lo  vedrete  mai. 

IL  CONTROLLORE  -  Perché? 

ISABELLA  -  Perché?  Perché  è  già  qui. 

IL   CONTROLLORE   -  DoVC,   qui? 

ISABELLA  -  Qui,  vicino  a  noi.  Ci  guarda  sorridendo.. 


INTERMEZZO 


283 


IL  CONTROLLORE  -  Noii  Scherzate.  Il  momento  e  serio.  L'Ispettore  sta 
appostando  degli  uomini  armati  per  prenderlo  vivo  o  morto. 

ISABELLA  -  Uno  Spettro  vivo  o  morto,  è  abbastanza  divertente...  Ah! 
ecco  la  luna.  Ed  è  l'autentica,  Signor  Controllore,  come  potete  ve- 
dere da  tutti  quei  punzoni!  (esce) 


SCENA    QUARTA 

IL  CONTROLLORE,  l'iSPETTORE,  IL  SINDACO,  LO  SPEZIALE,  pOÌ  1  BOIA 

l'ispettore  -  Ebbene,  caro  Controllore?  Dalla  vostra  faccia  non  si  di- 
rebbe che  la  vostra  impresa  abbia  avuto  successo. 

IL  CONTROLLORE  -  Avrò  pili  fortuna  domani. 

l'ispettore  -  Già,  domani!  Per  oggi  fatemi  il  piacere  di  raccogliere  le 
vostre  scolare  che  errano  nella  foresta  e  che  rischiano  di  smarrirsi 
con  la  notte. 

(//  Controllore  esce) 

l'ispettore  {fa  segno  ai  due  boia  che  sono  dietro  le  quinte)  -  A  noi 
due,  giovanotti.  Tu,  tu  pretendi  di  essere  l'antico  boia? 

IL  primo  boia  -  Lo  sono. 

l'ispettore  -  Allora  quest'altro  che  cos'è? 

IL  secondo  boia  -  Io?  Sono  io  l'antico  boia! 

l'ispettore  -  Uno  di  voi  due  mente.  Uno  di  voi  due  è  un  impostore 
che  vuole  incassare  il  premio  di  cinquecento  franchi. 

(/  due  protestano  contemporaneamente) 

I  documenti!  Ah,  ecco  il  falso.  I  tuoi  documenti  ti  tradiscono.  Tu 
sei  l'antico  fagotto  del  Casinò  d'Enghien. 

il  primo  boia  -  Potete  bene  immaginare  che  la  Polizia  non  mette  la 
vera  professione  sulle  nostre  carte.  Per  evitarci  delle  noie,  indica 
una  professione  inoffensiva,  per  lo  piiS  nel  campo  della  musica. 

IL  secondo  boia  -  Esatto.  Io  sono  dichiarato  come  piccolo  flauto. 

l'ispettore  -  Fatemi  vedere  quel  che  avete  nelle  tasche...  Signor  Sin- 
daco, cerchiamo  in  questi  indizi  il  vero  boia. 

il  sindaco  -  Questo  ha  un  cavatappi  regalo,  una  vecchia  conchiglia  di 
San  Giacomo  e  due  stuzzicadenti. 

l'ispettore  -  Normale. 

il  sindaco  -  Quest'altro  ha  un  pezzo  di  matita  copiativa,  due  confetti 
e  un  pettinino  da  donna. 


284  JEAN   GIRAUDOUX 

l'ispettore  -  È  press'a  poco  quello  che  si  trova  nelle  perquisizioni  im- 
provvise. 

IL  SINDACO  -  Mi  sembra  tuttavia  che  non  dovrebbe  essere  difficile  distin- 
guere un  boia  da  un  pacifico  cittadino. 

l'ispettore  -  Provate  voi. 

LO  SPEZIALE  -  Pare  che  il  pelo  dei  cani  si  rizzi  davanti  ad  un  boia. 
Cerchiamo  qualche  cane  pastore. 

IL  CONTROLLORE  -  Non  abbiamo  tempo.  Fate  piuttosto  delle  domande 
sul  loro  mestiere.  Gli  esami  sono  la  vostra  specialità. 

l'ispettore  -  E  sia,  preferisco  Tcsame  dei  boia  a  quello  delle  ragaz- 
zine. Tu,  di  che  legno  è  fatta  la  ghigliottina? 

IL  PRIMO  BOIA  -  Del  legno  della  croce  cristiana,  di  quercia,  eccetto  il 
quadrato  della  scanalatura... 

IL  SECONDO  BOIA  -  Che  è  fatta  del  legno  della  croce  indiana,  di  legno 
di  teck... 

l'ispettore  -  Tu,  che  cosa  disse  la  Dubarry  salendo  sul  patibolo? 

IL  PRIMO  BOIA  -  Disse:  «Ancora  un  momentino.  Signor  boia,  ancora 
un  momentino...  ». 

l'ispettore  -  E  te  adesso!  Chi  disse  al  boia:  «Fa'  attenzione  alla  mia 
barba,  boia.  Voglio  che  resti  intatta,  che  io  sono  condannato  ad 
avere  la  testa  tagliata  e  non  la  barba  ». 

IL  SECONDO  BOIA  -  Tommaso  Moro  o  Morus,  Tanno  1535. 

l'ispettore  -  Non  riuscirò  a  pizzicarli!  Tu,  che  cos'è  il  decreto  del 
gennaio  1847? 

il  primo  boia  -  è  il  decreto  Dunoyer  de  Segonzac  con  il  quale  si  ricor- 
da ai  condannati  a  morte  che  un'esecuzione  è  un  avvenimento  serio. 

IL  SECONDO  BOIA  -  E  chc  proibisce  di  ridere  o  scherzare  sul  palco  per 
provocare  l'allegria  del  pubblico. 

l'ispettore  -  Tu,  qual  è  la  canzone  (Jel  boia? 

IL  PRIMO  boia  -  Quale?  Quella  del  boia  damerino? 

IL  SECONDO  BOIA  -  Quella  della  donna  boia? 

l'ispettore  -  Quella  del  boia  damerino.  Tu  la  sai? 

IL  primo  BOIA  -    Canzone  del  boia  damerino 

Sulla  piazza  del  mercato 
Quando  manovro  la  ghigliottina 
Un'aurora  fior  di  pesco 
Mi  unge  di  brillantina. 

IL  SECONDO  BOIA  - 

Niente  Houbigant,  niente  Guerlain 
Qualche  condannato  senza  brio 
Direbbe  che  gli  do  alla  testa. 


INTERMEZZO  285 


IL  PRIMO  BOIA  - 

Ma  che  l'Aurora  fior  di  pesco 

IL  SECONDO  BOIA  - 

Tinga  di  rosa  le  mie  mani 

IL  PRIMO  BOIA  - 

Maria  Stuarda  me  Tha  rimproverato 

IL  SECONDO  BOIA  - 

E  non  Ravachol  lo  scellerato. 

l'ispettore  -  Al  diavolo  l'esame.  Giacche  vi  ostinate  a  essere  in  due, 
vi  dividerete  il  compenso.  Va  bene?  (apffrovazioni)  Avete  le  armi? 
(affermazioni)  Delle  pistole?  Benissimo.  Preparatele  e  nascondetevi 
dietro  il  boschetto. 

il  primo  boia  -  Non  ci  sarà  da  aspettar  molto?  Se  veglio,  dopo  mezza- 
notte, io  vomito. 

l'ispettore  -  Tutto  sarà  finito  fra  un  quarto  d'ora...  Da  questa  strada 
sta  per  venire  una  ragazza... 

il  secondo  foia  -  Salute  al  solo  vero  boia,  all'amore! 

l'ispettore  -  Di  fronte  al  boschetto  si  vedrà  apparire  immediatamente 
un  giovanotto... 

IL  primo  boia  -  Salute  al  solo  vero  condannato,  all'amante! 

l'ispettore  -  Lasciateli  parlare  cinque  minuti.  Poi  stabilite  un  segnale 
per  far  fuoco  su  di  lui.  È  un  assassino  pericoloso.  Il  governo  ve  ne 
dà  l'autorizzazione. 

il  secondo  boia  '  Sarà  quando,  per  esempio,  pronuncerà  la  frase:  Obe- 
lisco e  Piramide? 

l'ispettore  -  Perché? 

IL  secondo  boia  -  Sono  parole  che  si  sentono  bene.  Con  il  mio  aiutante, 
per  i  nostri  segnali,  erano  quelle  le  parole  convenute. 

l'ispettore  -  È  possibile  ch'egli  non  abbia  nessuna  ragione  di  pronun- 
ciare per  degli  anni  le  parole  Obelisco  e  Piramide.  Ma  c'è  una  pa- 
rola che  piace  a  questo  genere  di  personaggi  e  che  torna  spesso 
nella  loro  conversazione. 

IL  sindaco  -  Quale? 

l'ispettore  -  La  parola:  vivo! 

IL  PRIMO  BOIA  -  Inteso,  appena  pronuncerà  la  parola  vivo. 

IL  secondo  boia  -  Vivo! 

LO  speziale  -  Metteteli  in  guardia,  Signor  Ispettore. 

l'ispettore  -  Ho  infatti  da  mettervi  in  guardia.  Con  un'ultima  do- 
manda. Chi  fu  Axel  Petersen,  amici  miei? 

il  primo  boia  -  Fu  il  boia  macellaio  di  Goteborg. 

il  secondo  boia  -  Che  ghigliottinò  né  più  né  meno  che  uno  spettro. 


286  JEAN  GIRAUDOUX 

l'ispettore  -  Adesso  siete  avvertiti...  Non  perdiamo  tempo.  Andiamo 
alla  ricerca  di  Isabella  che  ci  porterà  certamente  a  lui.  {risa  dello 
Speziale)  Quanto  a  voi,  Speziale,  al  lavoro  anche  voi. 

LO  SPEZIALE  -  Che  posso  fare  per  voi? 

l'ispettore  -  Se  è  vero  che  in  questo  basso  mondo  la  vostra  specialità 
consiste  nel  cambiar  con  una  frase  o  con  un  gesto  il  diapason  del- 
l'atmosfera e  nel  rendere  naturali  gli  avvenimenti  meno  previsti,  al 
lavoro!  Voi  potete  attaccare  un  buon  bemolle  o  un  buon  diesis! 

LO  speziale  -  Contate  su  di  me. 

(l'Ispettore  e  i  boia  escono) 


SCENA    QUINTA 

il  sindacx),  lo  speziale 

il  sindaco  -  Voi  sorridete  in  un  momento  simile,  Speziale? 

LO  speziale  -  Sorrido  perche  in  questo  momento  li  ho  ritrovati. 

il  sindaco  -  Che  avete  ritrovato? 

LO  speziale  -  I  miei  diapason.  Guardateli.  Questo  modello  nel  quale 
si  sofiSa  —  non  soffiate  ancora,  amico  mio  —  e  che  si  direbbe  il 
flauto  di  Pan,  il  vero,  quello  di  una  nota  unica,  io  lo  preferisco 
a  quest'altro  in  metallo  che  non  rassomiglia  che  alla  lira  e  alla  ca- 
lamita. Non  prendetelo  cosi,  caro  amico,  voi  lo  tenete  come  un 
ferro  da  ricci. 

IL  sindaco  -  Ciò  mi  stupisce.  Non  ho  mai  tenuto  un  ferro  da  ricci.  È 
in  giuoco  la  vita  di  un  uomo  e  voi  scherzate,  Speziale. 

LO  SPEZIALE  -  Credevo  di  averli  perduti  e  li  avevo  con  me.  Se  per  caso 
due  monete  da  un  soldo  si  fossero  smarrite  nella  fodera  della  mia 
tasca,  avrei  tintinnato  come  una  mula  con  i  suoi  sonagli,  mentre 
tutta  la  musica  del  mondo  vi  si  nascondeva  in  silenzio.  Eccoci  salvi! 

IL  SINDACO  -  Voi  contate  su  questi  diapason  per  salvare  Isabella? 

LO  SPEZIALE  -  Mio  caro  Sindaco,  credete  che  sia  veramente  necessario 
proteggere  Isabella?  La  rabbia  dell'Ispettore  contro  di  lei  non  vi 
ricorda  nulla? 

IL  SINDACO  -  Si,  quella  degli  insetti  da  preda  in  prigionia  che  vogliono 
divorarsi  attraverso  una  parete  di  vetro. 

LO  SPEZIALE  -  L'avete  detto.  Tutti  e  due  si  muovono  in  mondi  troppo 
diversi  perché  l'uno  possa  nuocere  all'altro.  Non  sono  separati  sol- 


INTERMEZZO  287 

tanto  da  un  vetro.  Essi  vivono  in  due  registri  della  vita  del  tutto 
differenti,  dove  quello  che  è  spettrale  per  Tuna  è  carne  per  l'altro, 
e  viceversa.  L'unico  pericolo  è  che,  con  la  sua  agitazione  irragio- 
nevole  e  con  la  sua  voce  stonata,  l'Ispettore  abbia  lasciato  qui  ab- 
bastanza dissonanze  per  turbare,  quando  essa  arriverà,  l'atmosfera 
d'Isabella.  Bisogna  evitare  che  tutta  questa  natura,  donde  lei  trac 
la  verità  intima,  suoni  improvvisamente  falso  sotto  le  sue  dita.  Ma 
il  pericolo  non  è  tanto  grande. 

IL  SINDACO  -  Vi  capisco;  basta  un  accordatore. 

LO  SPEZIALE  -  Non  vi  preoccupate  di  ciò.  Piace  assai  alla  natura  che 
proprio  da  questo  essere  che,  parlando  e  camminando  dà  ordina- 
riamente un  suono  cosi  falso  —  dall'uomo  —  parta  l'armonia  su- 
prema. 

IL  SINDACO  -  Credete  davvero  che  io  possa  andare  senza  che  Isabella 
corra  alcun  rischio? 

LO  SPEZIALE  -  Il  mio  diapason  ve  ne  dà  la  garanzia. 

IL  SINDACO  -  Ad  ogni  modo,  starò  a  sorvegliarli. 

(esce) 

LO  SPEZIALE  {solo)  -  Sopra  una  nota  giusta  l'uomo  è  più  sicuro  che  su 
una  nave  da  guerra. 

{lo  Speziale  soffia  nel  diapason.  La  natura  si  accorda  sulla  sua  nota  e 
risuona  tutta  intera  mentre  egli  si  allontana) 


SCENA    SESTA 

LO  SPETTRO,  ISABELLA 

LO  SPETTRO  -  Mi  aspettavate? 

ISABELLA  -  Non  avete  da  scusarvi.  Anch'io,  se  fossi  spettro,  indugerei 
in  questo  crepuscolo  e  in  questi  valloni  dove  finora  non  ho  potuto 
portare  che  un  corpo  opaco.  Cespugli,  ruscelli,  mi  sentirei  tratte- 
nuta da  tutto  quello  che  non  mi  fermerebbe  più.  Non  sarei  ancora 
qui  se  potessi,  come  voi,  avviluppare  con  la  mia  ombra  quello  che 
posso  soltanto  toccare  o  vedere,  se,  secondo  i  miei  umori,  potessi 
darmi  per  scheletro  un  uccello  immobile  sul  ramo,  o  un  bambino 
o,  di  sbieco,  una  pianta  di  rosa  canina  con  tutti  i  suoi  fiori.  Conte- 
nere è  il  solo  modo  di  avvicinare...  Ma  il  rimprovero  che  vi  faccio 


288  JEAN  GIRAUDOUX 

è  di  essere  tornato  anche  questa  sera  solo,  sempre  solo.  Nessuno  dei 
vostri  ha  potuto  ancora  essere  toccato  da  voi,  unirsi  a  voi? 

LO  SPETTRO  -  Nessuno. 

ISABELLA  -  Ieri,  dopo  tutti  i  nostri  tentativi  falliti,  abbiamo  pensato  che 
il  mezzo  più  efficace  per  attirare  la  loro  attenzione,  per  commuo- 
verli, per  svegliare  quelli  che  possono  essere  i  nervi  di  un'ombra, 
di  una  nebbia,  dovesse  essere  un  grido  lungo,  un  lungo  lamento 
uniforme,  ripetuto  a  lungo:  come  il  grido,  vero  o  sognato,  di  una 
locomotiva  che  talvolta  ci  sveglia  all'alba  fra  i  vivi.  Oppure  il  grido 
della  sirena  dei  battelli  che  di  notte,  negli  estuari,  colpisce  iìnanco 
le  molli  meduse.  Questo  grido  l'avete  voi  lanciato?  Avete  passato 
tutta  la  vostra  veglia  a  lanciarlo? 

LO  SPETTRO  -  Si. 

ISABELLA  -  Voi  stesso?  Solo?  E  alla  vostra  voce  non  si  sono  unite  a 
poco  a  poco  migliaia  di  eguali  lamenti?... 

LO  SPETTRO  -  Mi  sono  urtato  contro  il  sonno  dei  morti. 

ISABELLA  -  Essi  dormono? 

LO  SPETTRO  -  È,  il  loro,  un  dormire?  Il  più  delle  volte,  nel  luogo  do- 
v'essi si  ammucchiano,  regna  un  fremito.  Li  prende  un'agitazione 
cosi  intensa  che  talvolta  potrebbe  nascerne  un  riflesso  o  un  suono. 
I  nuovi  arrivati,  in  quei  momenti,  cadono  in  una  specie  di  felice 
vibrazione  nella  quale  si  placa  l'ultimo  riflusso  della  loro  vita.  Li 
culla  per  sempre  il  dolce  movimento  della  terra.  Ma  talvolta,  inve- 
ce, tutta  la  loro  massa  si  condensa  come  un  blocco  di  ghiaccio,  è 
vinta  da  un  letargo  invernale  nel  quale  gli  arrivati,  morti  sulla  terra, 
affondano  con  la  fioca  luce  che  resta  del  sonno  dei  vivi,  che  e  splen- 
dore e  sole. 

ISABELLA  -  Ed  erano  cosi,  ieri?  E  ciò  durerà  a  lungo? 

LO  SPETTRO  -  Dei  secoli...  dei  secondi... 

ISABELLA  -  E  non  c'è  da  sperare  nessun  soccorso? 

LO  SPETTRO  -  Da  loro  non  credo... 

ISABELLA  -  Non  dite  COSI.  Fra  coloro  che  la  morte  ha  preso  attorno  a 
me,  ve  ne  furono  di  quelli  che  fin  dal  primo  momento  sentii  scom- 
parsi per  sempre,  cancellati  ormai  da  ogni  specie  di  vita  e  di  morte. 
Li  ho  lasciati  cadere  come  una  pietra  nel  nulla.  Ma  vi  furono  altri 
che  diedi  alla  morte  come  ad  una  missione,  a  un  tentativo,  e  la  cui 
morte  m'è  sembrata  invece  un  accesso  di  fiducia.  Attorno  al  cimi- 
tero vagava  l'atmosfera  del  viaggio  e  del  continente  sconosciuto. 
Non  si  era  tentati  a  dir  loro  addio  con  delle  parole  ma  con  dei 
gesti.  Per  tutto  il  pomeriggio  li  sentivo  occupati  a  scoprire  un  nuo- 
vo clima,  una  nuova  flora.  Se  c'era  il  sole  li  vedevo  laggiù  inon- 


INTERMEZZO  289 

dati  improvvisamente  dal  nuovo  sole.  Se  pioveva,  su  di  loro  cade- 
vano le  prime  gocce  della  pioggia  infernale.  Non  vorrete  farmi 
credere  che,  una  volta  arrivati,  anche  quelli  dimenticano  e  deca- 
dono? 

LO  SPETTRO  -  Quelli  non  sono  arrivati,  io  non  li  ho  visti. 

ISABELLA  -  Ma  voi,  voi  rinunciate?  Basta  alle  vostre  aspirazioni,  ai 
vostri  desideri  errare  da  spettro  sopra  una  cittadina? 

LO  SPETTRO  -  Essi  hanno  talvolta  i  loro  sonnambuli.  Certamente  io  ne 
sono  uno. 

ISABELLA  -  Non  lo  Credete.  Sono  io  che  vi  ho  attirato,  preso  in  trappola. 

LO  SPETTRO  -  Che  trappola? 

ISABELLA  -  Posseggo  una  trappola  per  attirare  i  morti. 

LO  SPETTRO  -  Siete  una  maga? 

ISABELLA  -  La  mia  magia  è  del  tutto  naturale.  Quando  immaginavo 
quel  che  possono  pensare  i  morti,  non  davo  loro  dei  ricordi,  delle 
visioni,  ma  soltanto  la  coscienza  del  luccichio,  dei  frammenti  di 
luci  posate  sull'angolo  di  un  caminetto,  sul  naso  di  un  gatto,  sopra 
una  foglia  di  aro,  dei  minuscoli  relitti  colorati  che  galleggiavano 
sul  loro  diluvio... 

LO  SPETTRO  -  E  allora? 

ISABELLA  -  Allora,  la  mia  camera  è  in  apparenza  una  camera  per  vivi, 
per  una  piccola  viva  provinciale,  ma  se  si  osserva  bene,  ci  si  accorge 
che  tutto  è  calcolato  affinché  questa  impronta  di  luce  su  degli  og- 
getti familiari,  sul  ventre  di  un  vaso  giapponese,  sul  pomello  di  un 
cassetto  sia  costantemente  mantenuta,  di  giorno  con  il  sole  o  con  il 
fuoco,  di  notte  con  la  lampada  o  la  luna.  In  questo  consiste  la  mia 
trappola,  ed  io  non  mi  sono  stupita  la  sera  in  cui  vidi  il  vostro  volto 
alla  mia  finestra.  Voi  guardavate  il  riflesso  della  fiamma  sul  para- 
scintille, la  luna  sulla  tartaruga  della  sveglia,  voi  guardavate  il  dia- 
mante delle  ombre:  voi  eravate  preso. 

LO  SPETTRO  -  Io  ero  preso. 

ISABELLA  -  Adesso  si  tratta  solo  di  sapere  quel  che  vi  ha  trattenuto. 

LO  SPETTRO  -  Quel  chc  mi  ha  trattenuto?  La  vostra  voce,  anzitutto,  il 
chiacchierio  della  vostra  voce,  grazie  al  quale  ogni  sera,  nel  crepu- 
scolo, ce  adesso  per  le  ombre  quel  che  per  gli  uomini  corrisponde 
all'allodola  nel  sole.  Ma  soprattutto  questa  vostra  fiducia  cosi  gene- 
rosa, che  non  vi  ha  fatto  mai  sfiorare  dal  sospetto  che  io  possa 
avervi  ingannata,  che  io  sia... 

ISABELLA  -  Che  voi  siate... 

LO  SPETTRO  -  Che  io  sia  vivo! 

(si  odono  due  colpi  di  pistola.  Lo  Spettro  cade  a  terra) 


19.  -  Teatro  francese 


290  JEAN   GIRAUDOUX 


SCENA    SETTIMA 

ISABELLA,  l'ispettore,   LO  SPEZIALE,   IL   SINDACO,  I   BOIA,  fH>Ì  LO  SPETTRO 

IL  SINDACO  -  Chi  ha  tirato?  Chi  è  li  a  terra? 

l'ispettore  -  Lo  vedete:  un  falso  spettro  e  un  vero  morto. 

LO  SPEZIALE  -  Che  avete  fatto,  sciagurati? 

l'ispettore  -  Dovete  ringraziarci.  Abbiamo  liberato  Isabella  dalla  sua 

follia,  la  città  dall'ossessione,  la  provincia  da  un  delinquente. 
LO  speziale  -  Nessuno  credeva  sul  serio  allo  spettro,  Ispettore.  Ma  che 

uomo  siete  per  non  aver  capito  che  una  ragazza  ha  il  diritto  di 

alzarsi  al  disopra  della  vita  cittadina,  di  concedere  un  po'  di  svago 

alla  sua  ragione! 
IL  sindaco  -  Venite,  mia  piccola  Isabella.  Questo  povero  giovane  ha 

pagato  a  caro  prezzo  la  commedia  che  vi  recitava. 
IL  PRIMO  BOIA  -  Il  suo  cuorc  non  batte  più. 
l'ispettore  -  Perfetto.  Nulla  di  più  preoccupante,  in  un  morto,  di  un 

cuore  che  batte. 
LO  speziale  -  Com'è  bello!  Che  bel  regalo  è  per  Dio  un  bel  cadavere! 

Non  avete  vergogna  davanti  a  lui  d'aver  visto  giusto.  Ispettore?... 

(s'inginocchia)  Perdonate,  Isabella.  Perdonate,  bel  cadavere... 
l'ispettore  -  Siete  matto?  Perdonare  che  cosa? 
LO  speziale  -  Che  la  volgarità  indovini  sempre  giusto,  che  soltanto  i 

miopi  vedano  chiaro,  che  esistano  dei  cadaveri  e  non  degli  spettri. 

{di  fronte  al  bota,  identico  al  corpo  steso  a  terra,  si  leva  uno  spettro. 
Tutti  i  presenti  lo  scorgono,  uno  dopo  l'altro.  Isabella  e  il  Sindaco 
si  fermano.  Soltanto  lo  Speziale,  che  è  chinato,  non  vede  nulla) 

LO  speziale  -  ...che  il  mondo  non  sia  degno  di  voi  e  che  non  offra  con 
larghezza  che  la  sua  crudeltà  e  la  sua  stupidaggine:  che  l'Ispettore 
abbia  ragione. 

[lo  Spettro  è  al  suo  apogeo) 

UN  BOIA  -  Signor  Ispettore... 

l'ispettore  -  Speziale,  ho  le  traveggole?  Non  c'è  nessuno  davanti  a 
noi? 

{lo  Speziale  alza  la  testa) 

LO  SPEZIALE  -  Si. 
IL  SINDACO  -  Si. 


INTERMEZZO  291 

l'ispettore  -  Un  giovane  abete,  senza  dubbio,  mosso  dal  vento  e  alte- 
rato dalla  nostra  emozione. 

IL  SINDACO  -  No.  Lui. 

I  BOIA  {insieme)  -  Viene  avanti. 

l'ispettore  -  Calma,  ragazzi.  È  un  fenomeno  molto  frequente.  È  il 
miraggio.  È  semplicemente  il  miraggio.  Speziale,  lo  vedete  normale 
o  con  i  piedi  in  aria? 

LO  speziale  -  Con  la  fronte  alta. 

l'ispettore  -  Allora  è  un  alone.  È  il  ben  noto  alone  di  Chevreul  *.  La 
sua  composizione  è  più  fluida  dell'acqua.  Il  minimo  gesto  basta  per 
dissolverlo. 

(gesticola.  Lo  Spettro  non  scompare) 

l'ispettore  -  Questa  ragazza  insensata  può  essere  soddisfatta.  L'allu- 
cinazione collettiva  ha  preso  fìnanco  i  funzionari  distrettuali. 

LO  spettro  -  A  domani,  Isabella! 

l'ispettore  -  Ed  è  accompagnata  da  follia  auditiva.  Che  cosa  racconta, 
con  il  suo  bicchiere  di  sangue? 

IL  primo  boia  -  Non  parla  di  sangue.  Parla  di  ghigliottina. 

LO  SPETTRO  -  A  domani,  da  te,  alle  sei.  Verrò.  Con  loro,  con  tutti  loro... 

l'ispettore  -  Un'embolia!  Da  dove  sa  che  avrò  un'embolia? 

IL  SECONDO  BOIA  -  Ed  io  un'amputaziouc? 

l'ispettore  -  Mi  volete  accompagnare,  Signor  Sindaco? 

IL  sindaco  -  Andiamo,  Isabella.  Cade  la  notte,  e  tutto  è  finito! 

{escono  tutti) 
LO  spettro  -  Si,  domani,  tutto  comincia. 


SCENA    OTTAVA 

LO  SPEZIALE,  IL  CONTROLLORE,  LE  BAMBINE 

(si  vede  a  tratti  lo  Spettro,  lo  Speziale  si  prepara  ad  andare  quando  si 
odono  le  voci  delle  bambine  che  entrano,  accompagnate  dal  Con- 
trollore) 

IL  CONTROLLORE  -  Manca  Luce,  naturalmente.  Luce! 
LE  BAMBINE  -  Luce!  Luce! 

(arriva  Luce) 

^  Chimico  francese  famoso  per  i  suoi  studi  sugli  acidi  e  sui  corpi  grassi. 


292  JEAN  GIltAUDOUX 

IL  CONTROLLORE  -  Pcrché  ti  sci  fermata? 

LUCE  -  Perché  cercavo  lucciole  con  la  mia  lampadina  elettrica. 

IL  CONTROLLORE  -  Tu  menti.  Il  solo  modo  di  non  vedere  la  luce  delle 

lucciole  è  di  illuminarle. 
LUCE  -  Perché  avevo  perduto  una  giarrettiera. 
IL  CONTROLLORE  -  Guarda  la  tua  fionda.  La  ritroverai. 
LUCE  -  Perché... 
IL  CONTROLLORE  -  Perché  che  cosa  ancora?  Come,  caro  Speziale,  mi 

aspettavate? 
LO  SPEZIALE  -  Vi  aspettavo. 
IL  CONTROLLORE  -  Per  darmi  qualche  brutta  notizia?  Abbiamo  sentito 

un  colpo  di  pistola. 
LO  SPEZIALE  -  Per  dirvi  che  la  vostra  ora  è  vicina. 
IL  CONTROLLORE  -  Qualc  delle  mie  ore?  Ne  ho  di  ogni  specie. 
LO  SPEZIALE  -  L  ora  in  cui  potrete  combattere  il  vostro  rivale  davanti 

a  colei  che  voi  amate. 
IL  CONTROLLORE  -  Amo  qualcuno? 

LE  BAMBINE  -  La  Signorina  Isabella!  La  Signorina  Isabella! 
IL  CONTROLLORE  -  E  ho  un  rivale? 
LE  BAMBINE  -  Lo  Spettro!  Lo  spettro! 

{lo  Spettro  è  ricomparso  alle  loro  spalle) 

LO  SPEZIALE  -  Andate  avanti,  ragazze  mie...  {prendendo  il  braccio  del 
Controllore  ed  avviandosi  con  lui)  Ascoltatemi  bene,  mio  caro  Con- 
trollore. Io  credo  che  voi  esageriate  le  complicazioni  di  tutto  que- 
st'intrigo. Quel  che  accade  qui  accade  ogni  giorno  in  uno  dei  tren- 
tottomila  comuni  della  Francia...  Voi  sapete  che  cos*è  una  ragazza?... 

IL  CONTROLLORE  -  lo  SO,  SI,  scnza  sapcrc... 

{escono  discorrendo.  Sulla  scena  resta  soltanto  Luce) 

LUCE  {terminando  lentamente  la  sua  frase)  -  Perché  mi  piace  restare 
sola  la  sera  nelle  foreste. 

LA  VOCE  DEL  CONTROLLORE  -  LuCc! 

LUCE  -  Ho  perduto  il  berretto. 

{lanciando  il  berretto  in  aria,  scorge  lo  Spettro.  Si  diverte  a  imitarne 
l'ondeggiamento,  le  braccia  cadenti,  le  gambe  molli) 

LA  VOCE  DEL  CONTROLLORE  -  L'hai  trovato,  il  tuo  berretto? 

{Luce  lancia  in  alto  il  berretto,  lo  prende  d  volo) 

LUCE  -  L'ho  trovato!  L'ho  trovato! 

{fa  marameo  dio  Spettro  ed  esce) 


INTERMEZZO  293 


ATTO    TERZO 

La  camera  d'Isabella,  Un  balcone  che  lascia  vedere  la  piazza,  sulla  quale  dà 
anche  una  porta  chiusa.  La  filarmonica  prova  in  una  sala  vicina  durante  tutto 
Vasto. 

SCENA    PRIMA 


IL  SINDACO,  L  ISPETTORE,  LE  BAMBINE 

{si  apre  una  porta  del  fondo.  L'Ispettore,  il  Sindaco,  le  bambine  en- 
trano, gli  uni  dopo  gli  altri,  in  punta  di  piedi) 

IL  siNDAcx)  -  Ma  è  un'effrazione! 

l'ispettore  -  Non  vi  pare  che,  alla  nostra  età,  solo  per  effrazione  si 
può  penetrare  nella  camera  o  nel  cuore  di  una  ragazza?  Che  ora  è? 

il  sindaco.-  Le  cinque  e  mezzo,  al  sole. 

l'ispettore  -  Dubito  che  gli  spettri  prendano  l'ora  dal  sole. 

IL  sindaco  -  Se  la  prendono  all'Osservatorio,  sono  le  cinque  e  tren- 
totto. 

l'ispettore  -  Ci  restano  allora  ventidue  minuti,  dato  che  ha  annunzia- 
to la  sua  visita  per  le  sei.  Abbiamo  tutto  il  tempo  per  organizzare 
la  nostra  trincea. 

IL  SINDACO  -  Anche  le  trincee,  adesso? 

l'ispettore  -  Non  vi  rendete  forse  conto,  mio  caro  Sindaco,  che  abbia- 
mo l'onore,  in  questo  momento  d'angoscia  in  cui  un'invasione  di 
carattere  tutto  speciale  minaccia  la  città,  di  occupare  le  trincee  più 
vicine  a  quelle  del  nostro  nemico? 

IL  SINDACO  -  Alle  tombe? 

l'ispettore  -  Bisogna  pure  cedere  davanti  all'evidenza.  Ieri,  dopo  che 
siamo  venuti  via,  Cambronne  e  Crapuce  hanno  cercato  invano  il 
corpo.  Non  hanno  trovato  che  un  cerchio  d'erba  bruciata  a  raso  di 
terra.  Allucinazione  o  spettro,  l'azione  continua  oggi. 

IL  SINDACO  -  Ma  che  dirà  Isabella  quando  ci  troverà  qui? 

l'ispettore  -  Isabella  non  ci  troverà  qui.  Ho  fatto  ritardare  di  un'ora 
l'orologio  sul  quale  si  regola  la  città.  Del  resto  Gilberta  si  apposterà 
nel  vano  della  finestra  per  dare  l'allarme  appena  si  vedrà  qualcuno. 

GILBERTA  -  Vedo  le  Signorine  Mangcbois. 

l'ispettore  -  Annunzia  tutto,  salvo  le  Signorine  Mangebois.  Tu  avre- 
sti troppo  da  fare.  Tu  puoi  segnalare  anche  gli  animali.  Tutto  è 
sospetto  oggi. 


294  JEAN   GIRAUDOUX 

GiLBERTA  -  Vcdo  il  bassotto  del  farmacista. 

l'ispettore  (sedendosi)  -  Quel  che  ti  ho  detto  per  le  Signorine  Man- 
geboìs  vale  anche  per  il  bassotto  del  farmacista...  Mio  caro  Sindaco, 
ho  sempre  deplorato  che,  accanto  all'esorcismo  religioso,  il  nostro 
illuminato  secolo  non  abbia  ancora  istituito  una  specie  di  benedi' 
zione  laica  che  interdica  alla  superstizione  il  locale  che  fosse  una 
volta  consacrato.  È  ad  una  cerimonia  del  genere  che  assisterete,  ed 
io  ho  composto  stamane  il  testo  di  uno  scongiuro  che  adesso  vi 
leggerò. 

GILBERTA  -  Debbo  annunziare  anche  gli  alberi? 

l'ispettore  -  Gli  alberi  non  camminano,  merla. 

GILBERTA  [retrocedendo  a  poco  a  poco)  -  È  perché  credevo...  Ma!  È 
perche  credevo...  Ma...  Ma... 

l'ispettore  -  Viola,  sostituisci  Gilberta.  È  nervosa. 

il  SINDACO  -  Non  c'è  da  meravigliarsi. 

l'ispettore  -  Lo  sareste  anche  voi,  Signor  Sindaco? 

IL  SINDACO  -  Lo  sono,  Signor  Ispettore.  Tanto  più  che  voi  mi  fate  man- 
care al  sorteggio  della  nostra  lotterìa  mensile  che  ha  luogo  in  que- 
sto momento  nella  sede  municipale  ed  al  quale  finora  ho  sempre 
presieduto. 

l'ispettore  -  Non  vi  occupate  della  lotteria.  La  sorte  vi  riserverà  le 
sorprese  delle  altre  volte.  Rendetemi  conto  piuttosto  dell'inchiesta 
che  vi  ho  incaricato  di  fare  presso  i  vostri  concittadini.  Non  siamo 
noi  i  loro  rappresentanti,  qui?  Non  avete  il  loro  mandato? 

IL  sindaco  -  Lo  abbiamo. 

l'ispettore  -  Avete  spiegato  loro  il  pericolo  che  li  minacciava  per  colpa 
di  Isabella?  Avete  chiesto  loro  quel  che  pensavano  nel  vedere  al 
seguito  di  questo  spettro  —  e  come  l'ha  annunziato  lui  stesso  ieri 
sera  —  tutti  i  loro  defunti  di  ogni  età  ritornare,  vivere  con  loro  e 
non  lasciarli  più? 

IL  SINDACO  -  Alla  borghesia  soltanto,  compresi  i  funzionari. 

l'ispettore  -  Naturalmente.  La  risposta  dei  settori  alimentazione  e 
edilizia  era  nota  in  anticipo.  Che  cosa  ha  detto  il  presidente  del 
Tribunale? 

IL  sindaco  -  Che  già  non  può  soffrire  la  radio. 

l'ispettore  -  Il  notaio? 

IL  sindaco  -  Che  conosceva  già  abbastanza  morti  per  averli  conosciuti 
da  vivi.  Che  non  erano  tanto  raccomandabili. 

l'ispettore  -  Il  comandante  dei  pompieri? 

IL  sindaco  -  Che  si  cominciava  appena  adesso  a  star  tranquilli,  dopo  la 
guerra... 


INTERMEZZO  295 

l'ispettore  -  L'archivista  municipale? 

IL  SINDACO  -  Nutre  dei  timori  per  la  verità  ch'egli  ha  cos{  faticosamente 
strappata  ai  suoi  archivi.  I  morti  gli  imbroglieranno  tutto  con  la 
loro  cattiva  memoria  o  con  le  loro  menzogne. 

l'ispettore  -  Insomma,  l'unanimità  contro  di  loro.  Non  mi  resta  ormai 
che  conoscere  il  vostro  parere,  Signor  Sindaco. 

IL  SINDACO  -  Signor  Ispettore,  la  mia  sola  passione  è  di  collezionare 
maioliche  provenzali  con  soggetti  licenziosi  e  francobolli  non  den- 
tellati delle  Antille.  Io  dedico  le  mie  veglie  a  questa  occupazione 
e  non  mi  vedo  intento  a  classificare  le  mie  Veneri  di  terra  squamata 
o  a  preparare  la  colla  sotto  gli  sguardi  congiunti  dei  miei  ascen- 
denti fino  ad  Eva.  Sotto  gli  occhi  dei  Merovingi,  per  esempio,  è 
vero,  Daisy?  Avrei  l'aria  di  un  perfetto  imbecille. 

l'ispettore  -  Troppo  giusto.  Bisogna  che  ci  siano  i  vivi  per  apprez- 
zare la  gravità  delle  occupazioni  dei  vivi... 

il  SINDACO  -  Naturalmente,  nelle  Antille  io  comprendo  le  isole  Baha- 
ma... 

VIOLA  -  Ecco  le  case.  Signor  Ispettore! 

l'ispettore  -  Le  case  non  camminano,  idiota. 

VIOLA  -  È  perche  credevo...  Ma...  Perché  credevo...  Ma... 

l'ispettore  -  Daisy,  sostituisci  Viola;  e  venite  in  circolo  nel  centro 
della  stanza,  ragazze  mie!  Sapete  che  dovete  ripetere  con  me  l'ul- 
tima parola  di  ogni  frase  importante. 

LE  BAMBINE  -  Importante! 

l'ispettore  -  Non  ancora...  Adesso  comincio,  (si  mette  in  mezzo  alle 
bambine  e  legge  la  sua  invocazione)  Si,  sono  io.  Superstizione.  Chi 
io?  Io  l'Umanità. 

le  bambine  -  L'Umanità. 

l'ispettore  -  Che  cos'è  l'umanità?  Sono  qui  appunto  per  dirvelo:  e 
questa  sola  rivelazione  sbarrerà  la  strada  a  voi  ed  ai  vostri...  L'uma- 
nità è...  è  un'impresa  sovrumana. 

LE  bambine  -  Sovrumana! 

l'ispettore  -  Che  ha  per  oggetto  di  isolare  l'uomo  dalla  torba  che  è 
il  Cosmo... 

LE  bambine  -  Il  Cosmo! 

l'ispettore  -  Merce  due  forze  invincibili  che  si  chiamano  Amministra- 
zione e  Istruzione  obbligatoria. 

le  bambine  -  Obbligatoria. 

l'ispettore  -  L'Amministrazione  isola  il  suo  corpo  sottraendolo  a  tutti 
i  luoghi  troppo  carichi  di  virtù  primitive...  Bisogna  vederla,  aiu- 
tata dai  consigli  municipali  e  dal  genio  militare... 


296  JEAN   GIRAUDOUX 

LE  BAMBINE  -  Dal  gcnio  militare... 

l'ispettore  -  Occupata  a  frazionare  i  parchi,  a  demolire  i  chiostri,  ad 
erigere  edicole  di  ardesia  e  di  maiolica  ai  piedi  di  ogni  cattedrale 
o  di  ogni  monumento  storico,  a  fare  delle  fogne  le  vere  arterie 
della  civiltà,  a  combattere  l'ombra  sotto  ogni  forma  e  soprattutto 
sotto  quella  degli  alberi.  Chi  non  Tha  vista  abbattere  le  file  dei 
platani  centenari  sui  lati  delle  strade  nazionali  non  ha  visto  nulla! 

LE  BAMBINE  -  Non  ha  visto  nulla! 

l'ispettore  [continuando  a  recitare)  -  E  l'Istruzione  obbligatoria  isola 
la  sua  anima,  e  ogni  volta  che  l'Umanità  si  libera  di  una  delle  sue 
pelli  artificiali,  essa  le  accorda,  come  premio,  una  scoperta  perfet- 
tamente corrispondente.  L'Umanità  ha  cessato  al  diciottesimo  se- 
colo di  credere  al  fuoco  ed  allo  zolfo  dell'Inferno  e  in  dieci  anni 
essa  ha  scoperto  il  vapore  e  il  gas... 

LE  BAMBINE  -  Il  gaS. 

l'ispettore  -  Ha  cessato  di  credere  agli  spiriti,  e  nella  decade  seguente 
ha  inventato  l'elettricità... 

le  bambine  -  Cita! 

l'ispettore  -  Alla  parola  divina,  e  ha  inventato  il  tele... 

LE  bambine  -  ...fono! 

l'ispettore  -  Ch'essa  cessi  di  credere  allo  stesso  principio  divino,  e 
all'Istruzione  Obbligatoria  succederà  naturalissimamente  la  Luce 
obbligatoria,  che  spazzerà  dalla  terra  il  sogno  e  l'inconscio,  renderà 
i  mari  trasparenti  fino  in  fondo  alle  Curili,  renderà  la  parola  delle 
ragazze  finalmente  sensata,  e  la  notte.  Signor  Spettro,  simile  al  sole. 

l'ispettore  e  le  bambine  -  Al  sole! 

DAisY  -  Eccolo,  Signor  Ispettore. 

l'ispettore  -  Ecco  chi? 

DAisY  -  Lo  Spettro! 

l'ispettore  -  Che  cosa  dice?  Che  cosa  chiami  tu  spettro,  piccola  idiota? 

DAISY  -  Viene  da  questa  parte. 

l'ispettore  -  Troverà  con  chi  parlare:  dev'essere  qualche  complice 
d'Isabella  che  mi  prende  per  un  imbecille! 

LE  bambine  (in  coro,  molto  serie)  -  Un  imbecille! 

(rispettore  esce  in  fretta) 

il  sindaco  -  Andiamo,  ragazze  mie,  andiamo. 

DAISY  -  È  una  burla,  Signor  Sindaco.  È  la  Signorina  Isabella  che  entra 

con  lo  Speziale  dal  portone... 
IL  SINDACO  -  Una  ragione  di  piò! 

{tutti  escono  dalla  porta  che  dà  sulla  piazza) 


INTERMEZZO  297 


SCENA    SECONDA 

ISABELLA,   LO   SPEZIALE 

ISABELLA  -  Grazie,  caro  Speziale,  mercé  vostra  arrivo  a  tempo.  Ma  era 
proprio  necessario  arrivare  a  tempo?  Credete  davvero  ch'egli  ri- 
torni? 

LO  SPEZIALE  -  Verrà,  ne  sono  sicuro. 

ISABELLA  -  Voi  restate  con  me,  vero? 

LO  SPEZIALE  -  Non  voletc  riceverlo  sola? 

ISABELLA  -  E  lui  desidera  essere  ricevuto  solo?  Da  ieri  ha  creduto  op- 
portuno rendersi  visibile  ad  altri.  Non  è  più  lo  spettro  di  Isabella, 
ma  lo  spettro  della  città.  Voi  avete  visto  tutte  le  vecchie  alle  finestre. 
Le  Signorine  Mangebois  tengono  in  permanenza  consiglio  sul  sa- 
grato. Tutte  le  bocche  oggi  non  hanno  che  un  soggetto  di  conver- 
sazione: il  nostro  segreto.  Gli  occhi  si  preparano  a  vedere  un  solo 
spettacolo:  lo  spettro.  La  nostra  relazione  non  aveva  senso  che  nella 
sua  intimità.  Perché  dovrebbe  tornare? 

LO  SPEZIALE  -  Perché  ha  bisogno  di  voi. 

ISABELLA  -  Per  restare  su  questa  terra? 

LO  SPEZIALE  -  No,  per  sparire  da  essa. 

ISABELLA  -  Non  vi  capisco. 

LO  SPEZIALE  -  Cara  Isabella,  non  vi  sono  due  specie  di  dannazioni  e 
due  specie  di  spettri.  Vi  sono  soltanto  quelli,  che  privati  della  vita, 
non  trovano  modo  di  raggiungere  i  morti.  Io  mi  convinco  sempre 
più  che  il  vostro  amico  appartenga  a  questa  specie. 

ISABELLA  -  Tuttavia  egli  non  ha  nulla  di  comune,  di  volgare.  Voi  stesso 
lo  credevate  un  poeta. 

LO  SPEZIALE  -  Proprio  per  questo,  forse.  Quella  sopravvivenza  che  è  la 
morte  non  è  aperta  d'uflScio  a  quelli  che  parlano  bene  o  pensano 
profondo.  La  gente  crede  che  Tingegno,  il  genio  diano  diritto  alla 
morte.  È  piuttosto  il  contrario.  Essi  sono  un*esasperazione  della 
vita.  Essi  consumano  in  quelli  che  ne  sono  dotati  tutta  l'immor- 
talità. I  poeti  sono  coloro  che  si  sacrificano  per  morire  interamente, 
per  assicurare  l'esistenza  futura  alla  silenziosa  sorella  del  poeta, 
all'umile  domestica.  Ricordatevi  di  quello  che  è  venuto  il  mese 
scorso  da  Parigi  a  parlarci  della  sua  opera:  che  eloquenza!  Egli 
rimava  anche  nella  prosa  senza  volerlo  come  un  cavallo  che  si  rag- 


298  JEAN   GIRAUDOUX 

giunge  ^;  ma  tutto  ciò  era  caduco.  Salvo  un  breve  momento  in  cui, 
durante  il  discorso,  si  distrasse  improvvisamente;  egli  sorrìdeva  a 
se  stesso.  Pensava  senza  dubbio  alla  sua  collezione  di  bastoni,  alla 
sua  gatta  che  beveva  il  latte  troppo  caldo...  Era  per  lui  la  sola  pos- 
sibilità di  raggiungere  un  giorno  i  morti. 

ISABELLA  -  Ma  in  che  cosa  potrei  guidarlo,  io,  una  ragazza? 

LO  SPEZIALE  -  Conoscete  voi  avventure  di  spettro  senza  ragazze?  È  ap- 
punto, la  loro,  l'età  che  conduce  naturalmente  alla  morte.  Solo  le 
ragazze  pensano  ad  essa  senza  diminuirla  o  senza  amplificarla.  Sol- 
tanto loro  l'avvicinano,  non  nel  pensiero  o  in  teoria,  ma  fisicamente, 
con  il  loro  vestito  o  con  la  loro  carne.  Vi  sono  in  voi  dei  passi  che 
menano  alla  morte  e  che  voi  intrecciate  nelle  vostre  stesse  danze. 
Esistono  nelle  vostre  più  allegre  conversazioni  delle  frasi  del  voca- 
bolario infernale.  Un  giorno,  davanti  a  lui,  il  caso  vi  farà  dire  la 
parola  che  gli  aprirà  la  porta  del  sotterraneo:  a  meno  che  non  ve 
lo  spingiate  con  uno  di  quegli  slanci  o  di  quegli  abbandoni  che 
conducono  i  vivi  alla  passione  o  all'entusiasmo.  Credetemi,  egli  non 
è  lontano...  Addio. 

ISABELLA  -  Restate,  vi  supplico.  Non  c'è  vista  per  me  che  la  vostra 
presenza  non  renda  più  preziosa. 

LO  SPEZIALE  -  Se  volete...  Che  ora  e? 

ISABELLA  -  È  l'ora. 

{tutti  e  due  vanno  alla  finestra.  Suona  l'orologio.  Si  bussa  un  colpo  alla 
porta.  Non  si  muovono.  Un  secondo  colpo.  Soltanto  lo  Speziale  si 
volta) 

LO  SPEZIALE  -  Ah,  è  il  Controllore!  Vi  lascio.  Isabella. 
ISABELLA  -  Il  Controllore?...  Si,  caro  Speziale,  a  più  tardi. 


^   Cheval  qui  jorge^  «  cavallo  che  si  raggiunge  »  o  «  che  si  batte  »  è  il  cavallo 
che  galoppando  urta  i  ferri  degli  zoccoli  anteriori  con  i  ferri  dei  posteriori. 


INTERMEZZO  299 


SCENA    TERZA 


ISABELLA,   IL    CONTROLLORE 


{la  porta  si  apre  piano  ed  entra  il  Controllore,  Questi  è  in  tight  e  in 
guanti  gidlo  canarino.  Porta  in  mano  la  bombetta  e  un  bastone  con 
il  pomo  d'oro) 

IL  CONTROLLORE  -  Noii  Una  paroU,  Signorina!  Non  una  parola,  ve  ne 
supplico!  Per  il  momento,  io  non  vi  vedo  e  non  vi  sento.  Non  po- 
trei sopportare  in  una  volta  queste  due  voluttà;  primo:  essere  nella 
camera  della  Signorina  Isabella;  secondo:  trovarvi  la  stessa  Signo- 
rina Isabella.  Lasciate  che  io  le  goda  una  dopo  l'altra. 

ISABELLA  -  Caro  Signor  Controllore... 

IL  CONTROLLORE  -  Voi  uou  siete  nella  vostra  camera  ed  io  ci  sono.  Sono 
solo  con  questi  mobili  e  questi  oggetti  che  mi  hanno  già  fatto  tanti 
segni  attraverso  la  finestra  aperta:  questo  secrétaire  che  riprende 
qui  il  suo  nome,  che  rappresenta  per  me  l'essenza  del  segreto  (il 
piede  destro  è  rifatto,  ma  la  cassa  è  intatta),  questa  stampa  di  Rous- 
seau a  Ermenoville  (tu  hai  messo  alla  pubblica  Assistenza  i  tuoi 
figli,  o  ambiguo  Elveta,  ma  a  me  tu  sorridi),  e  questo  portaliquori 
dove  l'acqua  di  cotogna  aspetta  impazientemente  l'ora  della  dome- 
nica che  la  porterà  alle  sue  labbra...  Del  vero  Baccarat...  Della  vera 
cotogna...  Che  tutto  è  vero,  da  lei,  e  senza  mescolanze. 

ISABELLA  -  Signor  Controllore,  non  so  davvero  che  cosa  pensare! 

IL  CONTROLLORE  -  Che  tutto  è  vero,  da  Isabella.  Se  le  teste  cattive  la 
giudicano  complicata  è  appunto  perché  essa  è  sincera.  Di  semplice 
non  esistono  che  l'ipocrisia  e  la  routine.  Se  essa  vede  i  fantasmi  è 
perché  è  anche  la  sola  a  vedere  i  vivi.  Perché  nella  nostra  provincia 
è  la  sola  pura.  È  il  nostro  Parsifal. 

ISABELLA  -  Posso  dirvi  che  aspetto  qualcuno.  Signor  Controllore? 

IL  CONTROLLORE  -  Ecco,  ho  fìuito.  Volevo  soltauto  concedermi  una  volta 
nella  vita  il  lusso  di  dirmi  quel  che  pensavo  di  Isabella,  di  dirmelo 
ad  alta  voce.  Ci  si  parla  troppo  poco  ad  alta  voce.  Si  ha  senza  dub- 
bio paura  di  sapere  quei  che  si  pensa.  Ebbene,  adesso  io  lo  so. 

ISABELLA  -  Anch'io,  e  ne  sono  commossa. 

IL  CONTROLLORE  -  Ah!  sicte  qui,  Signorina  Isabella? 

ISABELLA  -  Siamo  seri!  Si,  eccomi  qui. 

IL  CONTROLLORE  -  Tauto  peggio.  Signorina,  tanto  peggio!  Bisogna  dun- 
que che  vi  parli... 


300  JEAN   GIRAUDOUX 

ISABELLA  -  Parlarmi  di  chi? 

IL  CONTROLLORE  -  DÌ  mc,  scmpHcemente  di  me. 

ISABELLA  -  Vi  siete  fatto  molto  bello  per  parlare  di  voi,  Signor  Con- 
trollore. 

IL  CONTROLLORE  -  Non  vi  burlate  del  mio  vestito.  Esso  solo  mi  sostiene 
in  questo  momento.  O  piuttosto  Tidea  di  colui,  di  coloro  che  do- 
vrebbero indossare  questo  vestito.  Si,  insomma,  coloro  che  dovreb- 
bero essere  qui  sono  appunto  i  possessori  di  questi  indumenti:  mio 
nonno  al  quale  apparteneva  questo  bastone,  il  mio  prozio  del  quale 
vedete  la  catena  d'orologio,  e  mio  padre  che  giudicò  questo  tight 
ancora  troppo  nuovo  per  portarselo  nella  tomba.  Soltanto  questa 
bombetta  è  mia.  Perciò  m'imbarazza,  soprattutto  moralmente.  Per- 
mettetemi che  la  lasci. 

ISABELLA  -  Vostro  padre?  Vostro  nonno?  Che  cosa  vengono  a  chie- 
dermi? 

IL  CONTROLLORE  -  Non  Ti ndo vinate?...  La  vostra  mano,  Signorina  Isa- 
bella, essi  hanno  l'onore  di  chiedere  la  vostra  mano. 

ISABELLA  -  La  mia  mano? 

IL  CONTROLLORE  -  Non  mi  rispondete.  Signorina.  Io  vi  chiedo  la  mano 
e  non  una  risposta.  Io  vi  chiedo  di  concedermi,  rispondendomi  sol- 
tanto doman  l'altro,  il  giorno  piò  felice  della  mia  vita,  le  ventiquat- 
tro ore  durante  le  quali  io  mi  dirò  che  alfine  voi  sapete  tutto,  che 
non  mi  avete  ancora  detto  no,  che  voi  siete  commossa,  malgrado 
tutto,  di  sapere  che  qualcuno  quaggiù  non  vive  che  per  voi...  Qual- 
cuno che  si  chiama  Roberto,  che  mio  padre  vi  avrebbe  detto  il  mio 
nome.  Questo  nome  almeno;  ed  io  ne  ho  altri  due  meno  confessa- 
bili.  Qualcuno  che  è  coraggioso,  lavoratore,  onesto,  modesto,  che 
mio  nonno  non  vi  avrebbe  fatto  grazia  di  nessuna  delle  mie  virtù... 
Oppure  non  rispondetemi  mai  e  lasciatemi  fuggire  tappandomi  le 
orecchie. 

ISABELLA  -  No,  uo,  restate,  Signor  Roberto...  Ma  sono  cosf  sorpresa  e 
voi  capitate  in  un  momento! 

IL  CONTROLLORE  -  Ho  scelto  io  questo  momento.  L'ho  scelto  perché  non 
ne  sono  indegno,  perché  d'un  colpo  m'è  venuto  in  mente  che,  più 
fortunato  di  quello  spettro  che  vi  porterà  soltanto  confusione  ed  an- 
goscia, potevo  combatterlo  davanti  a  voi,  mostrargli  la  sua  inca- 
pacità di  aiutarvi,  ed  offrir\'i  poi  la  sola  strada,  il  solo  incammi- 
namento normale  verso  la  morte  e  i  morti... 

ISABELLA  -  Come!  Ne  esistono  altri,  oltre  a  quello  di  andare  loro  in- 
contro? 


INTERMEZZO  301 

IL  CONTROLLORE  -  Quello  di  CUI  parlo  conduce  a  loro  lentamente  e  pia- 
no, ma  sicuramente.  Esso  ci  porta... 
ISABELLA  -  £  qual  è? 

IL  CONTROLLORE  -   La   vita. 

ISABELLA  -  La  vita  con  voi.^ 

IL  CONTROLLORE  -  Con  me?  Non  parliamo  di  me,  Signorina...  Io  c'en- 
tro ben  poco.  No...  È  la  vita  con  un  funzionario.  Che  quel  che 
conta,  in  quest'affare,  è  il  mio  mestiere.  Mi  capite? 

ISABELLA  -  S(,  vi  capisco.  Voi  volctc  dire  che  soltanto  il  funzionario 
può  guardare  la  morte  in  faccia,  da  compagno;  ch'egli  non  è  come 
il  banchiere,  il  negoziante,  il  filosofo;  ch'egli  non  ha  fatto  nulla  per 
sottrarsi  ad  essa  o  per  mascherarla? 

IL  CONTROLLORE  -  EsattO. 

ISABELLA  -  La  contraddizione  fra  la  vita  e  la  morte  è  creata  dall'agita- 
zione umana.  Ora,  il  funzionario  ha  lavorato,  ma  appunto  senza 
agitazione... 

IL  CONTROLLORE  -  Si,  scnza  troppo  grave  eccesso. 

ISABELLA  -  Egli  ha  vissuto,  ma  senza  sfruttamento  forsennato  della  sua 
personalità. 

IL  CONTROLLORE  -  Troppo  forsennato,  no. 

ISABELLA  -  E  ha  disprezzato  le  ricchezze,  perché  il  suo  stipendio  gli 
arriva  senza  attesa,  senza  particolare  sforzo,  come  se  degli  alberi  gli 
dessero  frutti  mensili  in  monete  d'oro. 

IL  CONTROLLORE  -  Proprio  così,  frutti  mensili,  se  non  monete  d'oro.  E 
se  non  ha  avuto  il  lusso,  egli  si  è  purificato  in  tutto  quello  che  il 
mestiere  comporta  d'immaginazione. 

ISABELLA  -  D'immaginazione?  Vi  confesso  che  su  questo  punto  avevo 
dei  dubbi.  Su  questo  punto  la  vita  con  un  funzionario  mi  sgomen- 
tava un  po'.  Il  mestiere  di  un  Controllore  di  Pesi  e  Misure  richiede 
molta  immaginazione? 

IL  CONTROLLORE  -  Potctc  dubitarne? 

ISABELLA  -  Datemi  qualche  esempio. 

IL  CONTROLLORE  -  Mille,  sc  volctc.  Ogni  sera,  quando  il  sole  tramonta 
ed  io  rientro  dal  mio  giro,  mi  basta  vestire  il  paesaggio  con  il  vo- 
cabolario dei  controllori  del  medio  evo,  misurare  le  strade  in  leghe, 
gli  alberi  in  piedi,  i  prati  in  arpenti,  financo  le  lucciole  in  pollici, 
ed  ecco  che  i  fumi  e  le  nebbie  che  salgono  dalle  torri  e  dalle  case 
fanno  della  nostra  città  una  di  quelle  borgate  saccheggiate  durante 
le  guerre  di  religione,  mentre  io  mi  sento  l'anima  di  un  raitro  o 
di  un  lanzichenecco. 

ISABELLA  -  Ah!  Capisco! 


302  JEAN   GIRAUDOUX 

IL  CONTROLLORE  -  E  il  ciclo  stcsso,  Signorina,  la  stessa  volta  celeste... 

ISABELLA  -  Lasciate  che  finisca  io:  basta  che  voi  applichiate  a  questo 
cielo,  a  questa  volta,  la  nomenclatura  greca  o  moderna,  che  voi  cal- 
coliate in  dracme  o  in  tonnellate  il  peso  degli  astri,  in  stadi  o  in 
metri  la  loro  corsa,  perché  esse  divengano,  a  vostra  volontà,  il  fir- 
mamento di  Pericle  o  quello  di  Pasteur. 

IL  CONTROLLORE  -  Ed  è  cosf  che  il  lirismo  di  un  funzionario  non  è  egua- 
gliato che  dal  proprio  imprevisto. 

ISABELLA  -  Per  rimprcvisto  vi  confesso  che  non  vedo  troppo  chiaro.  E 
mi  spiace,  che  l'imprevisto  è  la  cosa  che  adoro  più  di  ogni  altra. 
Nella  vostra  vita  esiste  l'imprevisto? 

IL  CONTROLLORE  -  Un  imprevisto  di  una  qualità  rara,  discreta,  ma  com- 
movente. Pensate,  Signorina,  che  noi  cambiamo  residenza  press'a 
poco  ogni  tre  anni... 

ISABELLA  -  Appunto,  son  lunghi,  tre  anni. 

IL  CONTROLLORE  -  Ma  ecco  dove  interviene  l'imprevisto:  fin  dall'inizio 
di  questi  tre  anni,  la  previdente  Amministrazione  ci  ha  dato  il 
nome  delle  due  città  fra  le  quali  sceglierà  il  nostro  futuro  posto... 

ISABELLA  -  Sapete  già  in  quale  città  andrete  quando  ci  lascerete? 

IL  CONTROLLORE  -  So  e  nou  SO.  So  soltanto  che  andrò  a  Gap  o  a  Bres- 
suire.  Una  mi  sfuggirà,  ahimé,  ma  avrò  l'altra!  Capite  la  delica- 
tezza e  la  voluttà  di  questa  incertezza? 

ISABELLA  -  Oh,  certo!  Capisco  che  durante  tre  anni,  e  al  disopra  delle 
nostre  brughiere  e  dei  nostri  castagneti,  il  vostro  pensiero  vi  farà 
fare  l'altalena  fra  Gap... 

IL  CONTROLLORE  -  Cioè  gli  abeti,  la  neve,  le  passeggiate  dopo  l'ufficio 
in  mezzo  alle  operaie  che  hanno  passato  la  giornata  a  fare  spille 
con  le  stelle  alpine... 

ISABELLA  -  E  Bressuirc... 

IL  CONTROLLORE  -  Cioc  Ì  pascoU,  cioè  —  voi  Capite  che  so  già  a  memo- 
ria il  Joanne  *  —  la  bella  fiera  del  27  agosto,  e  quando  settembre 
arrossa  financo  le  canne  delle  anguillaie  nell'acqua  delle  paludi  di 
Vandea,  la  partenza  in  carrozza  scoperta  per  le  corse  al  trotto  al- 
l'incrocio delle  strade  Duguesclin  e  Generale-Picquart.  È  del  previ- 
sto, tutto  ciò?  Fra  il  vostro  metodo  e  il  mio,  fra  Gap,  Bressuire  e 
la  morte  immediata,  confessate  che  non  c'è  da  esitare! 

ISABELLA  -  Io  iguoravo  tutto  ciò.  È  meraviglioso!  Ed  a  Gap  voi  dovrete 
aspettare  cosi  fra  due  altre  città? 

IL  CONTROLLORE  -  Si,  fra  Vitry-lc-Fran^ois  e  Domfront... 

ISABELLA  -  Fra  la  pianura  e  la  collina... 

^  Autore  di  guide  e  di  dizionari  geografici. 


INTERMEZZO  303 

IL  CONTROLLORE  -  Fra  lo  Sciampagna  naturale  e  il  sidro  in  bottiglia... 

ISABELLA  -  Fra  la  cattedrale  Luigi  XIV  e  il  torrione... 

IL  CONTROLLORE  -  E  cosf  via  di  scguito,  attraverso  una  serie  di  oscilla- 
zioni e  di  meravigliosi  crocicchi  —  dove  saranno  inclusi,  nel  giuoco 
delle  contrade,  la  caccia  al  fagiano  di  montagna  o  la  pesca  \  la  par- 
tita di  bocce  o  le  vendemmie,  le  gare  di  pallone  o  la  rappresenta- 
zione alle  Arene  dcW Avventuriera  con  la  Commedia  Francese  — 
arriverò  un  bel  giorno  alla  cima  della  piramide. 

ISABELLA  -  A  Parigi?... 

IL  CONTROLLORE  -  Siete  voi  che  Tavete  detto. 

ISABELLA  -  A  Parigi! 

IL  CONTROLLORE  -  Che  è  11,  per  una  contraddizione  inesplicabile,  il  col- 
mo dell'imprevisto  nelle  carriere  dei  funzionari:  che  cioè  esse  fini- 
scano tutte  a  Parigi.  E  nemmeno  a  Parigi,  Signorina,  c*è  da  temere 
l'infiacchimento,  che,  a  seconda  dell'assegnazione  al  primo  o  al  se- 
condo distretto,  avrò  da  oscillare  fra  Belleville  con  la  sua  prateria 
Saint-Gervais  e  il  suo  Saint-Fargeau  o  Vaugirard  con  i  suoi  pozzi 
artesiani. 

ISABELLA  -  Che  bel  viaggio  è  la  vostra  vita!  Se  ne  vede  la  scia  fin  nei 
vostri  occhi. 

IL  CONTROLLORE  -  Nei  miei  occhi?  Non  mi  dispiace.  Si  parla  sempre 
degli  ufficiali  di  marina.  Signorina  Isabella.  Ciò  accade  perché  i 
contribuenti  nel  versare  le  loro  imposte  non  guardano  mai  gli  oc- 
chi dell'esattore.  Perché  gli  automobilisti,  dichiarando  la  loro  sel- 
vaggina, non  si  tuffano  nelle  pupille  dei  doganieri.  Perché  i  liti- 
ganti non  pensano  mai  di  prendere  fra  le  mani  la  testa  del  presi- 
dente del  tribunale  e  di  voltarla  lentamente,  teneramente  verso  di 
loro,  in  piena  luce.  Che  allora  vedrebbero  il  riflesso  e  la  schiuma 
di  un  oceano  piò  profondo  di  ogni  altro,  la  saggezza  della  vita. 

ISABELLA  -  È  vero,  io  la  vedo  nei  vostri. 

IL  CONTROLLORE  -  E  che  cosa  vi  ispira? 

ISABELLA  -  La  fiducia. 

IL  CONTROLLORE  -  Allora,  non  esito  più. 

{si  precipita  verso  la  porta) 

ISABELLA  -  Che  cosa  fate,  Signor  Controllore? 

IL  CONTROLLORE  -  Mctto  il  catcnaccio  a  questa  porta.  Chiudo  questa  fi- 
nestra. Abbasso  la  saracinesca  del  caminetto.  Calafato  ermeticamen- 
te questa  campana  da  palombaro  che  è  una  casa  umana.  Ecco,  cara 


^  Nel  testo,  péche  à  la  tnosteUe.  La  e  mostelle  »  è  una  specie  di  nasello  che  si 
trova  sulle  coste  francesi  del  Mediterraneo. 


304  JEAN   GIRAUDOUX 

Isabella.  L'aldilà  è  ricacciato  al  di  là  della  vostra  camera.  Non  ab- 
biamo che  da  aspettare  pazientemente  che  Torà  sia  passata.  Guar- 
datevi soltanto  dall'avere  un  desiderio,  dall'esprimere  un  rimpianto, 
che  il  nostro  spettro  non  mancherebbe  di  vedervi  un  richiamo  e  di 
precipitarsi  qui! 
ISABELLA  -  Il  nostro  povero  spettro! 

{la  porta  chiusa  si  apre.  Compare  lo  Spettro,  già  più  trasparente  e  più 
pallido) 


SCENA    QUARTA 

LO  SPETTRO,  ISABELLA,  IL  CONTROLLORE 

LO  SPETTRO  -  Posso  entrare? 

IL  CONTROLLORE  -  No.  Questa  porta  e  chiusa  a  chiave  e  a  chiavistello. 
Non  sembra,  ma  lo  è. 

LO  SPETTRO  -  Io  ti  porto  la  chiave  dell'enigma,  Isabella.  Che  quest'uo- 
mo mi  lasci  solo  con  te. 

IL  CONTROLLORE  -  Mi  dispiace,  ma  è  impossibile. 

LO  SPETTRO  -  Io  paHo  ad  Isabella. 

IL  CONTROLLORE  -  Ma  sono  io  che  rispondo.  Io  sono  di  guardia  presso 
di  lei. 

LO  SPETTRO  -  La  guardate  da  che  cosa? 

IL  CONTROLLORE  -  Non  lo  SO  ancora  molto  bene  nemmeno  io.  Tanto  più 
debbo  stare  attento. 

LO  SPETTRO  -  Non  abbiate  alcun  timore.  Io  sono  inoffensivo. 

IL  CONTROLLORE  -  Lo  è  forsc  mcno  quella  che  vi  manda. 

LO  SPETTRO  -  Di  chi  volctc  parlare?  Della  morte? 

IL  CONTROLLORE  -  Vedete?...  Se  si  fa  chiamare  così  nel  proprio  regno 
significa  proprio  che  non  c'è  altro  nome  per  lei. 

LO  SPETTRO  -  E  voi  Credete  che  basterebbe  la  vostra  presenza  ad  allon- 
tanarla? 

IL  CONTROLLORE  -  Infatti  essa  non  è  qui. 

LO  SPETTRO  -  Che  ne  sapete?  Essa  è  forse  qui.  Forse  voi  solo  non  la 
scorgete.  Guardate  il  viso  di  Isabella:  certamente  lei  vede  qualcosa 
di  strano  in  questo  momento. 

IL  CONTROLLORE  -  Poco  importa.  Attorno  ad'  una  donna  si  aggirano 
sempre  delle  figure  e  delle  persone  invisibili  a  suo  marito  o  al  suo 


INTERMEZZO  305 

fidanzato.  Ma  se  il  marito  o  il  fidanzato  è  là,  non  c'è  nulla  da 
temere. 

LO  SPETTRO  -  Tu  m'hai  nascosto  il  tuo  fidanzamento,  Isabella?  Un  re- 
galo di  nozze  di  tutti  i  morti  riuniti  non  ti  tentava?  Allora  mi  trovo 
in  presenza  del  fidanzato  di  Isabella? 

IL  CONTROLLORE  -  Fidanzato  è  dir  troppo.  Io  ho  chiesto  la  sua  mano 
e  lei  non  ha  ancora  detto  no.  Non  so  con  precisione  come  si  chiami 
questo  legame. 

LO  SPETTRO  -  Lx)  si  chiama  fragile. 

IL  CONTROLLORE  -  È  l'uiiico  ad  Ogni  modo  che  leghi  Isabella  alla  terra. 
Perciò  nulla  mi  sloggerà  da  qui  finché  voi  sarete  qui. 

LO  SPETTRO  -  E  voi  Credete  che  non  potrei  ritornare  durante  la  vostra 
assenza,  questa  notte  o  domani? 

IL  CONTROLLORE  -  Sono  quasi  sicuro  di  no.  Se  le  forze  invisibili  che  ci 
assediano  fossero  eapaci  di  aspettare  o  di  perseverare  per  un  quarto 
d'ora  di  seguito,  da  molto  tempo  non  resterebbe  più  traccia  degli 
uomini.  Ma  non  c'è  nulla  di  più  impaziente  dell'eternità.  Voi  siete 
tornato  per  effetto  di  un  vecchio  residuo  di  energia  o  dell'ostina- 
zione umana.  Ne  avrete  ancora  per  qualche  ora.  Datemi  ascolto, 
andatevene.  Se  voi  non  potete  passare  che  attraverso  le  porte  chiuse, 
io  posso  chiudere  anche  quest'altra. 

LO  SPETTRO  -  È  la  tua  volontà,  Isabella? 

ISABELLA  -  Caro  Signor  Controllore,  vi  prego.  Apprezzo  la  vostra  devo- 
zione, la  vostra  amicizia.  Domani  vi  darò  ascolto.  Ma  lasciatemi 
questo  minuto,  quest'ultimo  minuto. 

IL  CONTROLLORE  -  Domani  voi  mi  disprezzereste  se  io  abbandonassi  la 
mia  consegna. 

ISABELLA  -  Non  Vedete  dunque  che  questo  visitatore  mi  porta  quello 
che  ho  desiderato  per  tutta  la  mia  infanzia,  la  parola  di  un  segreto? 

IL  CONTROLLORE  -  Non  è  affar  mio  conoscere  i  segreti.  Un  segreto  non 
spiegato  tiene  spesso  in  voi  un  posto  più  nobile  e  più  arieggiato 
della  sua  spiegazione.  È  la  vescichetta  d'aria  nei  pesci.  Noi  ci  diri- 
giamo con  sicurezza  nella  vita  in  virtù  delle  cose  che  ignoriamo  e 
non  delle  nostre  rivelazioni.  La  parola  di  quale  segreto? 

ISABELLA  -  Lo  sapetc,  della  morte! 

IL  CONTROLLORE  -  I>ella  morte  di  chi  o  di  che  cosa?  I>ei  vulcani,  degli 
insetti? 

ISABELLA  -  Degli  uomini. 

IL  CONTROLLORE  -  È  molto  modesto,  come  problema.  Voi  vi  divertite 
con  questi  particolari?  E  d'altronde  dove  vedete  un  segreto  in  tutto 
ciò?  Noi  sappiamo  tutti,  nei  Pesi  e  Misure,  che  cos'è  la  morte.  È 


20,  -  Teatro  frmncese 


306  JEAN   GIRAUDOUX 

il  riposo  definitivo.  Torturarsi  per  un  riposo  definitivo  e  piuttosto 
incoerente.  E  chi  vi  dice  che  i  morti  posseggano  questo  segreto? 
Se  essi  sanno  che  cos*è  la  morte  come  i  vivi  sanno  che  cos'è  la  vita, 
mi  rallegro  con  loro,  sono  proprio  bene  informati...  Dunque  io 
resto. 

ISABELLA  -  Che  il  nostro  visitatore  lo  dica  davanti  a  voi  allora.  Forse 
acconsentirà. 

LO  SPETTRO  -  Giammai.  Conosco  troppo  questa  specie  di  uomini.  Da- 
vanti a  loro  il  segreto  più  denso  evapora  e  si  sventa. 

ISABELLA  -  Può  tapparsi  le  orecchie. 

IL  CONTROLLORE  -  Mi  dispiacc,  ma  è  proprio  quel  che  non  posso.  Le 
mie  dita,  anche  congiunte,  non  sono  sufficientemente  impermeabili. 
Se  le  mie  orecchie  si  chiudessero  per  mezzo  di  una  membrana  na- 
turale, come  gli  occhi,  potrei.  Ma  non  è  il  caso... 

LO  SPETTRO  -  È  questo  Tessere  di  cemento  armato  con  il  quale  il  de- 
stino è  costretto  a  fabbricare  delle  ombre! 

IL  CONTROLLORE  -  Rassicuratevi.  Se  ho  una  certezza,  è,  al  contrario, 
che  quando  sarà  venuta  la  mia  volta,  farò  un'ombra  perfetta  di 
controllore... 

LO  SPETTRO  -  Davvero? 

IL  CONTROLLORE  -  Divenendo,  come  nei  miei  cambiamenti  di  residenza, 
in  capo  a  pochi  giorni,  indispensabile  ai  miei  nuovi  colleghi. 

LO  SPETTRO  -  Si  può  sapere  perché? 

IL  CONTROLLORE  -  Perché  sarò  stato  coscienzioso.  Perché  i  morti  voglio- 
no essere  raggiunti  da  noi  soltanto  dopo  una  vita  coscienziosa.  È  di 
questa  ch'essi  ci  chiedono  conto.  «  Come,  —  dicono,  —  tu  hai  avuto 
una  guerra  magnifica  e  non  ne  hai  esaurito  tutti  i  tormenti  e  le  gio- 
ie, tu  hai  avuto  un'esposizione  coloniale  ed  hai  trascurato  di  visitare 
Angkor,  di  sederti  sul  bacino  dell'acqua  della  Guadalupa?...  ».  Per 
me,  non  avrò  da  temere  rimproveri  del  genere.  Quanti  giri  avrò 
fatto  sulla  mia  strada  per  andare  ad  accarezzare,  in  omaggio  agli 
spettatori  invisibili,  un  gatto  sulla  finestra  o  per  sollevare,  a  carne- 
vale, la  maschera  di  un  bambino.  E  qui  stesso,  avrò  visto  Isabella 
in  ogni  giorno  dei  tre  anni  passati  nel  borgo  di  Isabella.  Avrò  una 
volta,  a  mezzanotte,  cancellato  con  la  gomma  e  grattato  col  tempe- 
rino gli  scostumati  graffiti  tracciati  sulla  pietra  della  sua  porta;  avrò 
una  mattina,  all'alba,  raddrizzato  il  coperchio  del  bricco  del  latte,  e 
un  pomeriggio  spinto  in  fondo  alla  cassetta  la  lettera  ch'essa  vi 
aveva  introdotta  male;  avrò  in  minima  misura  attenuato  attorno  a 
lei  la  malizia  del  destino...  Avrò  diritto  alla  morte! 

ISABELLA  -  Caro  Signor  Roberto! 


INTERMEZZO  307 

LO  SPETTRO  -  Che  dicì,  Isabclla? 

ISABELLA  -  Non  dico  nulla. 

LO  SPETTRO  -  Perché  hai  detto:  caro  Signor  Roberto? 

ISABELLA  -  Perché  sono  commossa  della  devozione  del  Signor  Control- 
lore. Ho  forse  torto? 

LO  SPETTRO  -  Tu  hai  ragione  ed  io  ti  ringrazio.  Stavo  per  commettere 
la  pili  grande  delle  sciocchezze.  Stavo  per  tradire  per  una  ragazza. 
Per  fortuna,  lei  ha  tradito  prima  di  me. 

ISABELLA  -  Che  cosa  ho  tradito? 

LO  SPETTRO  -  E  tutte  Saranno  sempre  cosi.  Ed  è  questa  tutta  l'avven- 
tura delle  ragazze. 

IL  CONTROLLORE  -  Perché  mescolare  le  ragazze  a  questa  storia? 

LO  SPETTRO  -  Sedute  nelle  praterie,  con  rombrellino  aperto  ma  accanto 
a  loro,  appoggiate  alle  barriere  dei  passaggi  a  livello  e  auguranti  il 
benvenuto  al  viaggiatore  con  un  gesto  d*addio,  oppure  sotto  la  lam- 
pada dietro  alla  finestra,  con  un'ombra  per  la  strada  ed  un'altra 
per  la  camera,  eguali  ai  fiori  in  estate,  eguali  in  inverno  al  pensiero 
che  si  ha  dei  fiorì,  esse  si  dispongono  cosi  abilmente  in  mezzo  alla 
folla  degli  uomini,  la  generosa  nella  famiglia  degli  avarì,  l'indoma- 
bile fra  genitori  infiacchiti,  che  le  divinità  del  mondo  le  prendono, 
non  per  l'umanità  in  infanzia,  ma  per  la  suprema  fioritura,  per  il 
coronamento  di  questa  razza  i  cui  veri  prodotti  sono  i  vecchi.  Ma 
improvvisamente... 

IL  CONTROLLORE  -  È  molto  Semplicista. 

LO  SPETTRO  -  Ma  improvvisamente  arriva  l'uomo.  Allora  esse  tutte  lo 
contemplano.  Egli  ha  trovato  delle  ricette  per  rialzare  ai  loro  occhi 
la  sua  dignità  sulla  terra.  Egli  si  tiene  dritto  sulle  zampe  posteriori 
per  prendere  meno  pioggia  e  per  appuntarsi  delle  medaglie  sul 
petto.  Esse  fremono  davanti  a  lui  di  ipocrita  ammirazione  e  di  una 
paura  che  non  provano  nemmeno  di  fronte  ad  una  tigre,  perché 
non  sanno  che,  fra  tutti  i  carnivori,  solo  questo  bipede  ha  denti 
che  si  sbriciolano.  Allora  è  fatta.  Tutte  le  pareti  della  realtà,  nelle 
quali  vedevano  in  trasparenza  mille  filigrane  e  mille  blasoni,  di- 
vengono opache,  e  tutto  è  finito. 

IL  CONTROLLORE  -  Finito?  Se  voi  alludete  al  matrimonio,  tutto  comincia. 

LO  SPETTRO  -  E  comincia  il  piacere  delle  notti,  e  l'abitudine  del  piacere. 
E  comincia  la  ghiottoneria.  E  la  gelosia. 

IL  CONTROLLORE  -  Cara  Isabella  I 

LO  SPETTRO  -  E  la  vendetta.  E  comincia  l'indifferenza.  Sul  petto  degli 
uomini  la  sola  collana  di  perle  che  essi  abbiano  perde  la  sua  lumi- 
nosità. Tutto  è  finito. 


308  JEAN  CntAUDOUX 

ISABELLA  -  Perché  tanta  crudeltà?  Salvatemi  dalla  felicità,  se  la  ritenete 
cosi  spregevole! 

LO  SPETTRO  -  Addio,  Isabella.  Il  tuo  controllore  ha  ragione.  Quel  che 
amano  gli  uomini,  quello  che  tu  ami,  non  è  conoscere,  non  è  sapere, 
ma  oscillare  fra  due  verità  o  due  menzogne,  fra  Gap  e  Bressuire. 
Io  ti  lascio  sull'altalena,  dove  la  mano  del  tuo  fidanzato  ti  spingerà, 
per  il  piacere  dei  suoi  occhi,  fra  le  tue  due  idee  della  morte,  fra 
Tinferno  di  ombre  mute  e  l'inferno  dei  rumori,  fra  la  pace  e  il 
nulla.  Io  non  ti  dirò  altro.  Nemmeno  il  nome  del  fiore  delizioso  e 
comune  che  punteggia  la  nostra  prateria,  il  cui  profumo  mi  ha 
accolto  alle  porte  della  morte  e  il  cui  nome  dirò,  fra  quindici  anni, 
all'orecchio  delle  tue  figlie.  Prendila  nelle  braccia.  Controllore!  Pren- 
dila nella  trappola  da  lupi  che  sono  le  tue  braccia  e  che  mai  piti 
essa  ne  sfugga. 

ISABELLA  -  Si,  una  volta  ancora! 

{si  precipita  verso  lo  Spettro  che  la  stringe  e  scompare.  Essa  impallidi- 
sce e  viene  meno) 

IL  CONTROLLORE  (cercundo  soccorso)  -  Speziale!  Speziale! 


SCENA    QUINTA 

ISABELLA,   svenuta,    l'ispettore,    il   CONTROLLORE 

IL  CONTROLLORE  -  Sìamo  ancora  in  tempo.  Respira. 

l'ispettore  -  La  testa  è  tiepida,  le  mani  fredde,  le  gambe  gelate.  Il  no- 
stro visitatore  d'oltretomba  ha  commesso  l'errore  di  afferrarla  dai 
piedi.  È  una  fortuna. 

ISABELLA  -  Dove  sono? 

IL  controllore  -  Nelle  mie  braccia...  Ah!  Ispettore,  sviene  di  nuovo... 

l'ispettore  -  Perché  la  vostra  risposta  è  stata  insuflSciente,  giovanotto. 
Il  paese  donde  torna  Isabella  non  è  lo  svenimento,  ma  la  disincar- 
nazione,  forse,  l'oblio  supremo.  Quello  ch'essa  richiede  sono  le  ve- 
rità universali  e  non  piccoli  fatti  di  ordine  particolare. 

ISABELLA  -  Dove  sono? 

l'ispettore  -  Vedete!  Voi  siete  sul  pianeta  Terra,  ragazza  mia,  satellite 
del  Sole.  E  se  voi  vi  sentite  girare,  come  si  vede  dal  vostro  sguardo 
siete  voi  ad  aver  ragione  e  noi  torto,  perché  essa  gira... 

ISABELLA  -  Chi  sono? 


INTERMEZZO  309 

IL  CONTROLLORE  -  Voi  sictc  IsabcUa! 

l'ispettore  -  Voi  siete  un  essere  umano  femmina,  Signorina,  una  delle 
due  foime  dello  sviluppo  dell'embrione  umano.  £  molto  ben  riu- 
scita... 

ISABELLA  -  Che  chiasso! 

IL  CONTROLLORE  -  È  la  fanfara  che  fa  le  prove... 

l'spettore  -  Sono  vibrazioni  di  onda,  piccola  femmina  umana,  che 
agiscono  su  delle  parti  differenziate  del  vostro  derma  o  del  vostro 
endoderma  chiamate  sensi...  Ecco...  Il  suo  volto  diviene  roseo.  La 
scienza  è  ancora  il  migliore  flacone  di  sali.  Passate  gli  atomi  e  gli 
ioni  sotto  il  naso  di  una  giovane  maestra  svenuta  ed  essa  rinasce 
immediatamente. 

IL  controllore  -  Ma  niente  affatto!  Eccola  di  nuovo  morta!  Speziale! 
Aiuto! 


SCENA    SESTA 

GLI  STESSI,  LO  SPEZIALE,  scguito  du  Ulta  foUa  di  curiosi 

LO  SPEZIALE  -  Eccomi,  c  rassicuratcvì:  porto  il  rimedio. 

IL  signor  ADRIANO  -  Sì  son  vistc  dcUc  fìanmie.  È  un  incendio? 

LO  SPEZIALE  -  Voi  arrivate  al  momento  giusto.  Signor  Adriano.  Sedete 

a  questa  tavola. 
IL  VECCHIO  TELLiER  -  La  portiamo  all'aria?  È  asfissiata? 
LO  SPEZIALE  -  Lasciatela  qui,  e  sedetevi.  Ecco  delle  carte.  Appena  ve  lo 

dirò,  mettetevi  a  giocare  a  briscda  ^. 
LE  BAMBINE  -  Vivc  ancora.  Signor  Speziale,  vive  ancora? 
l'ispettore  -  Vogliate  uscire,  Signorine. 
LO  SPEZIALE  -  Al  contrario.  Che  entrino.  Non  saremo  mai  in  troppi 

per  la  mia  esperienza.  E  che  recitino  la  lezione  quando  darò  il 

segnale. 
l'ispettore  -  Voi  siete  matto,  Speziale.  Si  direbbe  che  mettiate  a  posto 

un  coro. 
ARMANDA  -  È  carboiùzzata,  a  quanto  pare? 
IL  CONTROLLORE  -  Soltanto  svenuta. 


^  Nel  testo  €  mauille  »,  giuoco  popolare  che  presenta  qualche  analogia  con  la 
briscola. 


310  JEAN   GIRAUDOUX 

ARMANDA  -  Avctc  bisogno  di  sanguisughe? 

LO  SPEZIALE  -  Niente  sanguisughe,  Signorina  Mangebois.  Entrate  con 
vostra  sorella  e  chiacchierate  quando  ve  lo  ordino  io. 

ARMANDA  -  Chiacchierare?  Noi  chiacchieriamo? 

LEONIDE  -  Offri  dunque  le  nostre  sanguisughe.  E  non  dimenticare  che 
la  grigia  è  febbricitante. 

ARMANDA  -  Non  Ic  vuole.  Vuole  noi. 

LO  SPEZIALE  -  Perfetto.  L'inizio  è  buono. 

l'ispettore  -  Vorrete  spiegarci  la  vostra  condotta,  Speziale? 

LO  speziale  -  È  davvero  necessario  ch'io  mi  spieghi,  Ispettore?  La  Si- 
gnorina Isabella  non  è  né  una  bagnante  annegata  né  un'alpinista 
congelata.  Essa  è  caduta,  per  crisi  o  per  distrazione,  in  un'anestesia 
di  cui  voi  indovinate  al  pari  di  me  il  principio.  Il  solo  massaggio, 
la  sola  circolazione  artificiale  che  noi  possiamo  praticare  in  questo 
caso  è  di  avvicinare  quanto  più  è  possibile  alla  sua  coscienza  addor- 
mentata il  rumore  della  sua  vita  abituale.  Non  si  tratta  di  richia- 
marla a  se  stessa,  ma  di  richiamarla  a  noi.  Proviamo.  Ci  siamo? 
Avete  capito? 

l'ispettore  -  No,  Speziale. 

IL  SINDACO  -  In  realtà,  non  siete  chiaro. 

IL  SIGNOR  ADRIANO  -  Tu  hai  Capitò,  Tellier? 

IL  VECCHIO  tellier  -  lo,  niente  affatto. 

LEONIDE  -  Che  cosa  dice  lo  Speziale? 

ARMANDA  -  Che  sì  leggerà  il  dizionario  per  trovarvi  una  parola  che  ri- 
svegli Isabella. 

LE  bambine  -  Per  nulla.  Essa  non  ha  capito. 

IL  SINDACO  -  E  tu  hai  capito.  Luce? 

LE  BAMBINE  -  Noi  abbiamo  tutte  capito. 

VIOLA  -  È  molto  semplice.  Bisogna  rendere  la  vita  attorno  alla  Signo- 
rina Isabella  più  forte  della  morte. 

LUCE  -  Il  Signor  Speziale  vuol  condensare  attorno  a  lei  tutti  i  rumori 
della  città  e  tutti  quella  delta  primavera. 

GiLBERTA  -  Come  un  fascio  di  raggi  X. 

DAisY  -  Come  una  sinfonia. 

IRENE  '  E  quando  sarà  perfetto,  quando  questa  musica... 

LUCE  -  Quando  questo  calore  l'avranno  di  nuovo  penetrata... 

DAisY  -  Una  semplice  parola,  un  semplice  rumore  la  colpirà  al  cuore. 

VIOLA  -  E  il  cuore  tornerà  a  battere. 

LO  SPEZIALE  -  Brave,  ragazze.  Credo  che  adesso  abbiate  capito  tutti. 
Signor  Sindaco,  andate  dunque  fuori  ad  occuparvi  dei  suoni. 

IL  SINDACO  -  Il  maniscalco?  I  battitoi? 


INTERMEZZO 


311 


LO  SPEZIALE  -  ()  un  pistonc  in  lontananza.  E  voi,  Signor  Ispettore, 
pronunciate  a  intervalli  regolari  alcuni  dei  termini  astratti  che  so- 
no così  frequenti  nel  vostro  linguaggio. 

l'ispettore  -  Io  non  innpiego  altre  parole  astratte  che  quelle  richieste 
dalla  Giustizia  e  dalla  Verità. 

LO  SPEZIALE  -  Molto  bene...  molto  bene... 

IL  CONTROLLORE  -  lo  vi  amo,  Isabella. 

l'ispettore  -  E  la  I>emocrazia.  * 

LO  SPEZIALE  -  L'«io  vi  amo ))  è  un  po'  debole,  il  «democrazia»  un 
po'  forte.  Cominciamo.  Prima  un  secondo  di  silenzio.  Uno...  due... 
tre... 

(/  giocatori  si  mettono  a  giocare,  le  donne  a  chiacchierare,  l'Ispettore 
a  monologare.  Al  posto  dei  rumori  fittizi,  i  rumori  della  vita.  Una 
tromba  d'auto.  Un  passante  che  fischia.  La  filarmonica  che  suona, 
un  fringuello  che  canta.  Isabella  comincia  a  fremerei 


FUGA  DEL  CORO  PROVINCIALE 


LO  SPEZIALE 
LE  BAMBINE 
ADRIANO 

le  bambine 

il  vecchio  tellier 

le  bambine 

l'ispettore 

le  bambine 

ARMANDA 

IL  controllore 

le  bambine 

il  signor  adriano 

le  bambine 

il  vecchio  tellier 

le  bambine 

il  vecchio  tellier 

le  bambine 

l'ispettore 

le  bambine 

l'ispettore 

le  bambine 


Uno,  due,  tre! 

La  Vienne  ingrossata  dalla  Creuse. 

Papà  Tellier,  cuore! 

II  Cher  ingrossato  dall' Auron. 

Chi  ne  è  malato  ne  muore. 

L'Allier  ingrossato  dalla  Sioule. 

Laboriose  popolazioni...  Paludi  stagnanti. 

La  Vienne  ingrossata  dalla  Creuse. 

C'è  sgrassatore  e  c'è  tintore. 

10  vi  amo. 

11  Cher  ingrossato... 
La  dama  di  picche. 
Dall' Auron 

L'è  buona... 

L'Allier  ingrossato... 

...e  nuda 

...  dalla  Siuole.  La  Vienne  ingrossato 

Paludi  stagnanti... 

...  dalla  Creuse.  Il  Cher  ingrossato... 

mentalità... 

...  dall'Auron. 


312 


JEAN   GIRAUDOUX 


LEONIDE 

IL    SIGNOR    ADRIANO 

ARMANDA 

IL    CONTROLLORE 

LE    BAMBINE 


-  La  margarina  non  è  mai  stata  burro... 

-  Due  bitter  al  limone  1 

-  È  una  donna  ch'egli  ha  trovato  nel  rigagnolo. 

-  Io  vi  adoro. 

-  La  Vienne. 


{intanto  lo  Speziale  continua  a  dirigere  con  la  sua  bacchetta  il  coro 
che  si  gonfia  e  si  smorza  a  suo  piacere) 

uo  SPEZIALE  -  Ed  ecco  che  si  avvicina  lo  scioglimento  di  questo  nuovo 
episodio  di  Faust  e  Margherita.  Naturalmente  ci  manca  il  coro  dei 
Serafini,  ma  il  rumore  dei  giocatori,  delle  Mangebois  e  delle  ragaz- 
ze costituisce  oggi  il  coro  che  nella  sua  curiosità,  nella  sua  indif- 
ferenza supplica  per  lei;  e  non  lo  credo  meno  potente. 

{mentre  lo  Speziale  recita) 


IL    CORO 

LE  BAMBINE  -  Il  Cher  ingrossato  dall*Auron. 

ARMANDA  -  SÌ  diviene  cuoco  ma  si  nasce  rosticciere. 

LE  BAMBINE  -  L'AlHer  ingrossato  dalla  Sioule. 

l'ispettore  -  mentalità...  distribuzioni  salubri. 

{lo  Speziale  fa  segno  di  ampliare) 


le  bambine 

il  signor  adriano 

le  bambine 

il  vecchio  tellier 

l'ispettore 

ARMANDA 
LE    BAMBINE 
ARMANDA 


IL     CORO 

-  Il  Cher  ingrossato  dall' Auron. 

-  Papà  Tellier,  cuore! 

-  L'Allier  ingrossato  dalla  Sioule. 

-  Chi  è  malato  ne  muore. 

-  Superstizione...  freudismo... 

-  È  come  la  mia  mantellina 

-  La  Vienne  ingrossata  dalla  Creuse. 

-  Vi  metterò  una  fodera  di  velluto! 


LEONIDE  -  Ah,  no,  per  esempio! 

ISABELLA  {fremendo)  -  Ah,  no,  per  esempio! 

TUTTI  -  Come?  Che  c'è?  Ha  parlato? 

LO  SPEZIALE  -  Non  mi  aspettavo  meno  dalla  parola  velluto.  Va  bene 

così.  Signorina  Armanda,  parlate  come  a  vostra  sorella.  Uno  strato 

di  silenzio  ci  separa  anche  da  Isabella. 


INTERMEZZO  313 

LE  BAMBINE  -  Il  Chef  ingrossato  dall' Auron. 

IL  SIGNOR  ADRIANO  -  La  dama  di  picche. 

l'ispettore  -  laboriose  popolazioni. 

LE  BAMBINE  -  L'AlHer  ingrossato  dalla  Sioule. 

ARMANDA  -  Pensavo  velluto  di  seta. 

ISABELLA  (svegliandosi  a  poco  a  poco)  -  Per  foderare  la  vita  velluto 
di  seta...  per  foderare  la  morte...  Ma  che  cosa  dico? 

l'ispettore  -  Povera  ragazza! 

LEONIDE  -  E  perchè  non  dovrei  prendere  crespo  di  Cina? 

ISABELLA  -  E  perchè  non  dovreste  prendere  crespo  di  Cina?  Il  ne- 
gozio è  ancora  aperto,  la  filarmonica  prova...  Ah,  siete  qui,  caro 
Signor  Roberto...  La  vostra  mano! 

l'ispettore  -  È  perduta! 

LO  SPEZIALE  -  È  salvata! 

LEONIDE  -  Che  dicono  questi  signori? 

ARMANDA  -  Che  la  Signorina  Isabella  è  perduta  e  salvata. 

LEONIDE  -  Ha  fatto  tutto  quello  che  poteva  per  finire  così. 

IL  SINDACO  {entrando  con  Viola)  -  Signor  Ispettore,  Signor  Ispettore! 
La  lotteria. 

l'ispettore  -  Che  cos'ha,  la  vostra  lotteria? 

IL  SINDACO  -  È  stata  sorteggiata. 

l'ispettore  -  Perché  tanta  emozione?  Lo  scandalo  continua? 

IL  SINDACO  -  Al  contrario,  tutto  è  rientrato  nella  normalità  al  momen- 
to in  cui  cominciavamo  a  disperare.  Parla,  Viola,  non  ho  piò 
fiato. 

l'ispettore  -  Normale?  Chi  ha  vinto  la  motocicletta? 

VIOLA  -  L'uomo  senza  gambe  dell'orfanotrofio. 

l'ispettore  -  e  il  primo  premio  in  denaro? 

VIOLA  -  Il  signor  Dumas,  il  milionario. 

l'ispettore  -  Vittoria,  Signori,  vittoria!  Le  nostre  pene  non  sono  state 
inutili.  Grande  è  la  nostra  gioia,  cari  concittadini,  nel  constatare 
che,  in  una  città  dove  le  nozioni  umane  erano  in  disaccordo,  è 
bastata  la  nostra  presenza  per  ridurre  le  più  diverse  fantasie  al 
comune  denominatore  della  democrazia  illuminata.  Permettetemi 
ch'io  mi  congedi  da  voi.  L'episodio  Isabella  è  chiuso.  L'episodio 
Luce  non  si  produrrà  che  fra  tre  o  quattr'anni.  Io  posso  filare  su 
Saint- Yrìeix  dove  è  segnalata  una  guardia  notturna  sonnambula, 
la  forma  peggiore  di  sonnambulismo,  perchè,  date  le  funzioni  del 
malato,  agisce  in  pieno  giorno  e  in  mezzo  a  gente  sveglia.  Addio, 


314  JEAN  GIRAUDOUX 

Signor  Sindaco,  io  vi  restituisco  un  paese  in  ordine.  Il  denaro  va 
di  nuovo  ai  ricchi,  la  felicità  ai  felici,  la  donna  al  seduttore.  La 
mia  missione  presso  di  voi,  cari  concittadini,  è  terminata. 

IL  SINDACO  -  £  guarita  Tanima  di  Isabella. 

ARMANDA  -  E  incoronato  come  si  deve  il  lirismo  dei  funzionari! 

LO  SPEZIALE  -  E  finito  Tintermezzo! 


Lm  presente  traduzione  è  a  cura  di  Italo  Siciliano. 


JEAN  ANOUILH 


Nato  a  Bordeaux  il  23  giugno  1910,  venuto  in  giovane  età  a 
Parigi,  iscrittosi  per  poco  più  di  un  anno  alla  Facoltà  di  Giuri- 
sprudenza, impiegato  per  due  anni  in  un'agenzia  di  pubblicità, 
segretario  per  altri  due  anni  di  Louis  Jouvet,  Jean  Anouilh  *  è  vis- 
suto e  vive  quasi  esclusivamente  nel  teatro  e  per  il  teatro.  La  cro- 
naca non  sa  nulla,  o  quasi,  dell'uomo  discreto  (e  di  scialba  appa- 
renza) e  di  una  vita  nella  quale  non  accadde  probabilmente  nulla. 
I  critici  che  credono  ai  rapporti  fra  biografìa  e  creazione  d'arte 
sono  perplessi  davanti  al  fenomeno  di  un'opera  che  sembra  de- 
nunciare una  lunga  e  sofferta  conoscenza  delle  cose  insieme  con 
una  specie  di  complesso  ossessivo  e  di  senile  stanchezza  dell'esi- 
stenza. €  Il  me  parait  impossible,  —  scrive  l'eccellente  Gabriel 
Marcel,  —  de  ne  pas  sentir  à  chaque  instant  que  le  tragique  de  ce 
théàtre  est  enracinc  dans  une  expcrience  vécue  >.  Ma  il  fatto  è  che 
LHermine  (1931),  Jizabel  (1932),  La  Sauvage  (1934),  drammi  che 
già  denunciano  l'orrore  della  vita  in  tutto  l'orrido  sfacelo  morale, 
sono  scritti  da  un  uomo  che  aveva  poco  più  di  vent'anni.  Scienza 
infusa  o  precoce  vocazione  della  tavola  anatomica?  Realtà  vissuta 
oppure  respirata  nell'anonimo  ambiente,  trovata  nel  libro,  artifi- 
cialmente coltivata  fra  il  vero  delle  quinte  e  il  fittizio  della  ri- 
balta? Problema  vano,  per  il  quale  bisogna  ammettere  la  molte- 
plicità delle  ipotesi  e  dei  fattori:  la  particolare  ricettività  dello 
spirito,  il  grande  potere  assimilativo  dei  temi  erratici,  la  capacità 
di  far  tesoro  e  sapiente  uso  di  cose  viste  e  di  apporti  letterari,  l'im- 
moderato  amore  per  una  viscida  realtà  spietatamente  denudata 


^  Cfr.  «  Panorama  del  Teatro  francese  »,  voi.  I,  pag.  64. 


318  JEAN    ANOUILH 

e  travestita  da  una  immaginazione  incredibilmente  fertile.  E  bi- 
sogna pure  registrare  la  rara  padronanza  del  mestiere  e  la  facoltà 
poetica  che  apre  nel  iniserabile  groviglio  o  nell'ironica  rivolta  uno 
spiraglio  sul  mondo  degli  illusori  riscatti  e  delle  tragiche  catarsi. 
Fin  dai  primi  saggi,  Anouilh  si  rivela  maestro  in  ogni  genere. 
Dopo  la  rivelazione  di  Hermine  è  il  trionfo  della  Saut/age.  Lo 
stesso  anno  in  cui  scrive  l'atroce  Jézabel  (1932)  egli  compone  l'esila- 
rante commedia-balletto  del  Bai  des  voleurs.  E  poi  è  l'ininterrotto 
fiume  delle  «pièces  noires»  (Le  Voyageur  sans  bagages,  1936; 
Eurydice,  1941;  Antigone,  1942;  Romèo  et  Jeannette,  1945;  Médée, 
1946)  che  si  alternano  con  le  «  pièces  roses  >  o  quasi  (Le  Rendez- 
vous  de  Senlis,  1937;  Léocadia,  1939;  L'invitation  au  chàteau, 
1947).  In  questo  primo,  ed  approssimativo,  periodo  il  nero  sembra 
dare  la  nota  dominante.  È  il  tempo  amaro  o  variabile  delle  educate 
proteste  alla  Giraudoux,  dei  travestimenti  dei  miti  alla  maniera 
di  Laforgue  e  di  Cocteau,  delle  ultime  ondate  dello  scettico  deter- 
minismo di  Pirandello,  delle  triviali  sommosse  dell'inconscio  e 
dell'assurdo.  Nel  retroscena  —  dicevamo  —  si  possono  trovare 
tutte  le  guide  e  le  «  ficelles  >  che  si  vogliono.  Sulla  scena  i  perso- 
naggi di  Anouilh  sembrano  figli  di  nessuno,  parlano,  anche  quan- 
do pretendono  di  essere  Antigone  («  Pas  assez  coquette,  toujours 
avec  la  méme  robe  et  mal  peignée  >)  o  Medea,  una  lingua  prolissa 
e  incisiva  che  «  fa  naturale  >  e  li  differenzia  da  tutti.  Buffoni  ve- 
stiti da  Ubu-roi,  pellicani  in  maniaca  esibizione  delle  proprie 
<  trippe  >,  poveri  Cristi  abbandonati  in  eterno  nella  notte  umana, 
gli  eroi  di  questo  teatro  della  disfatta  appaiono  come  dei  condan- 
nati ai  lavori  forzati  dell'esistenza,  dei  criminali  senza  grandi  de- 
litti o  degli  equivoci  innocenti  che  si  aggirano  senza  posa  e  senza 
ragione  fra  le  quattro  mura  del  comune  reclusorio.  Che  l'uomo 
di  ogni  classe  e  razza  è  il  prigioniero  e  la  vittima  di  qualcosa  o 
di  qualcuno:  della  luce  e  dell'ombra,  della  realtà  e  del  sogno,  del 
proprio  sistema  glandolare  e  dell'altrui  bestialità,  del  passato  o 
dell'ambiente,  della  nausea  della  vita  e  dell'orrore  della  mor- 
te. In  tanto  fatalistico  disordine,  la  presenza  di  un'ambigua  sete 
di  purezza  rende  più  disperate  sia  l'inutile  rivolta  che  la  triste 
acquiescenza. 


PRESENTAZIONE  319 

Pareva  ormai  un  mondo  esaurito  nei  suoi  angusti  limiti,  son- 
dato in  tutti  gli  angoli  della  tenebra  e  della  cloaca.  Ma  Anouilh 
è  instancabile  nello  scoprire  nuovi  mostricciattoli  e  nel  manipo- 
lare salse  nuove  con  vecchi  ingredienti.  Altre  cpièces  noires», 
quindi,  e  e  picces  brillantes  >  nelle  quali  lo  sporco  si  fa  una  cinica 
ragione  e  il  grottesco  romantico  mescola  in  naturali  dosi  lagrime 
e  risa  disgustose.  E  vengono  Ardete  ou  la  Marguerite  (1949)  com- 
media tragica  dell'amore  restato  puro  soltanto  nell'anima  di  una 
gobba  folle,  La  Répétition  ou  l'amour  punì  (1949)  «  marivaudagc  > 
della  Doublé  inconstance  inserito  negli  intrighi  di  un  bel  mondo 
vuoto  e  tarato,  Colombe  (1951)  traduzione  in  chiave  farsesco-na- 
turalistica  dell'eterna  lotta  fra  «la  bonté  d'Homme»  e  «la  Fcm- 
me  enfant  malade  et  douze  fois  impur  >,  La  Valse  des  Toréadors 
(1952)  allegra  parodia  di  squallidi  amori  senili,  Ornijle  ou  le  cou- 
rant  d'air  (1955)  scintillante  farsa  di  un  maturo  don  Giovanni 
fulminato  da  una  crisi  cardiaca  al  momento  in  cui  sta  perpetrando 
l'ennesima  cinica  prodezza,  Cécile  (1955),  altro  «giuoco»  alla 
maniera  di  Marivaux  (e  di  Beaumarchais)  travestito  alla  maniera 
di  Anouilh,  Pauvre  Bitos  (1956)  imprevista  satira  politica  accolta 
con  «  movimenti  diversi  >.  L'arco  che  sembra  stanco  scopre  nuove 
corde.  Nel  1955  è  il  grande  successo  AéMAlouette,  apoteosi  di  una 
Pulzella  d'Orléans  in  panni  parigini  e  patriottica  allodola  che  con- 
tinua a  salire  nel  cielo  dell'eterna  gloria.  Secondo  le  ultime  notizie, 
L'Hurluberlu  ou  le  riactionnaire  amoureux,  vaudeville  nero  e  ca- 
ricatura della  quarta  repubblica,  fa  attualmente  il  grande  diverti- 
mento dei  Francesi.  Anouilh  ha  quarantanove  anni.  È  sempre 
brillante  e  sembra  inesauribile.  «Di  che  cosa  e  fatto  il  suo  do- 
mani? ». 

Del  tormentato  ieri,  Eurydice  è  a  parer  nostro  (non  riusciamo 
a  partecipare  al  quasi  unanime  entusiasmo  per  Antigone)  l'opera 
dove  il  patetico  nero  di  realtà  e  fantasia,  l'arte  e  il  felice  espediente 
si  saldano  meglio  e  servono  con  maggior  fortuna  i  motivi  fonda- 
mentali e  la  filosofìa  spicciola  di  un  teatro  nel  quale,  diremmo, 
un  Racine  dei  poveri  ed  un  Pirandello  della  nausea  esistenziale  si 
incontrano  con  un  Baudelaire  dei  miserabili  paradisi  infantili  e 
delle  angosciose  albe  spirituali.  I  luoghi  —  una  stazione  aperta. 


320  JEAN   ANOUILH 

una  camera  d'albergo  —  forniscono  gli  scenari  adatti  agli  appun- 
tamenti  dei  predestinati  ed  agli  urti  dei  prigionieri  del  sordido 
e  del  sogno;  la  peripezia  si  svolge  rapida  e  ricca  di  colpi  di  scena 
fra  il  giuoco  cieco  della  vita  e  la  lucida  regia  del  Destino,  pietoso 
commesso  viaggiatore  della  morte;  i  personaggi  sono  i  soliti  inco- 
municabili vasi  nella  cui  vile  creta  un  dio  ironico  ha  nascosto  la 
particella  nobile  delle  dolorose  scissure  e  delle  disgregazioni. 
Ognuno  ha  la  sua  verità  che  è  una  mezza  verità  che  confina  con 
la  menzogna.  Ognuno  vede  e  si  vede  a  modo  suo  (ed  ha  ragione 
Orfeo,  ha  ragione  Euridice  e  non  ha  torto  nemmeno  Dulac), 
ognuno  può  essere  uno  o  due,  ma  è  sempre  solo  o,  peggio,  è 
sempre  con  se  stesso.  E  come  se  tutto  ciò  non  bastasse  ci  sono  le 
complicazioni  delle  parole  e  delle  illusioni,  i  mali  della  gelosia, 
gl'incubi  del  passato,  le  offese  brutali  degli  uomini  e  del  caso.  <  È 
troppo  difficile»,  geme  la  piccola  Euridice.  Sembra  soprattutto 
impossibile  risalire  il  fiume,  fare  indossare  il  vestito  pulito  al  corpo 
contaminato  dalla  vita.  Il  vestito  candido  e  incorruttibile  sarebbe 
dall'altra  parte:  ma  questo  lo  dice  il  Signor  Enrico  che  fa  il  suo 
mestiere  e  vende  la  sua  merce  ad  uomini  come  Orfeo  che  gli  cre- 
dono solo  per  disperazione. 

Problemi  grossi,  temi  venerabili  che  rischiano  di  ingombrare 
sia  il  patetico  delle  anime  adolescenti  in  muda  che  il  grottesco 
delle  vecchie  marionette:  ed  invero  la  dimostrazione  non  sempre 
evita  la  punta  declamatoria  e  l'eccesso  della  caricatura.  Ma  filoso- 
femi e  farsa  costituiscono  l'humus  e  lo  strame  donde,  insieme  con 
la  larva  del  disfacimento,  nasce  il  gracile  fiore  azzurro  della  com- 
passione e  magari  della  poesia.  La  grande  abilità  dell'oratore,  il 
dimesso  discorrere  e  la  stessa  ingenuità  delle  umili  vittime  salvano 
il  melodramma  romantico  e  il  dramma  naturalistico  portandolo 
nell'alone  leggendario  e  nell'umana  semplicità  di  una  umana  tra- 
gedia senza  coturno  e  senza  grida.  Il  piccolo  suonatore  ambulante 
e  la  sua  tenera  compagna  non  sospettano  la  fatalità  che  è  legata 
al  loro  nome,  entrano  nel  mito  come  in  una  sala  cinematografica, 
non  sanno  nulla  di  Kierkegaard  e  di  Sartre,  credono  di  vivere  la 
loro  «storia»  piena  di  «cose  dolci  e  terribili»,  non  s'accorgono 
nemmeno  che  il  buon  Signor  Enrico  sta  facendo  loro  un  corso  di 


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Su/jnncf  Fli>n  ndi'J/af/r/?r,  di  Annuilk.  Thcàifi:  i!c  Mo ti tpiir nasse. 


PRESENTAZIONE  321 

assurdo  esistenziale  dove  la  vita  è  rappresentata  come  un  vivaio  di 
impassibili  o  schifose  <  mosche  »  e  il  suicidio  come  il  coerente  atto 
liberatorio. 


Sul  teatro  di  Anouilh  si  sono  scritti  e  si  continuano  a  scrivere  in- 
numerevoli articoli  di  riviste  e  di  giornali,  ma  non  esiste  uno  studio 
di  insieme  e  comunque  approfondito.  Si  segnalano  tuttavia  Gignoux 
H.,  /.  A„  1946;  Marcel  G.,  «De  Jézabel  à  Médéc,  Le  tragique  chez 
A.»,  in  Ret/ue  de  Paris,  giugno  1949;  De  Boisdcffre  P.,  Métamor- 
phose  de  la  Uttérature,  11,  1951. 


21.  •  Teatro  francese 


Enridiee 


PERSONAGGI 


ORFEO  ,  .  ,     ,        . 

suonatori  ambulanti 

IL  PADRE 
EURIDICE 
LA  MADRE 

attori 

VINCENZO 
MATTIA 

DULAC,  impresario 

IL  PICCOLO  SEGRETARIO 

DUE  RAGAZZE  DELLA  COMPAGNIA 

IL  SIGNOR  ENRICO 

IL  CAMERIERE  d'aLBERGO 

LO  CHAUFFEUR  DELl'aUTOBUS 

IL  SEGRETARIO  DEL  COMMISSARIATO 

IL  CAMERIERE  DEL  BUFFET 

LA  BELLA  CASSIERA 


EURIDICE 


ATTO    PRIMO 

Buffet  di  una  stazione  di  provincia.  Mobili  pomposi,  logori  e  sporchi.  TavoUnt 
di  marmo,  specchi,  panchette  di  velluto  rosso,  liso.  Alla  cassa  troppo  alta  tro- 
neggia come  un  Budda  sull'altare  la  cassiera  dalla  grande  chioma  e  dai  seni 
prepotenti.  Camerieri  calvi  e  dignitosi.  Strofinacci  puzzolenti  in  sfere  di  metallo. 
Prima  che  si  alzi  il  sipario  si  sente  un  violino.  È  orfeo  che  suona  piano  in  un 
angolo  vicino  al  padre,  assorto  in  sordidi  conti,  davanti  a  due  bicchieri  vuoti. 
In  fondo  alla  scena,  un  solo  cliente,  un  giovane  con  impermeabile  e  còl  cap- 
pello abbassato  sugli  occhi,  dall'aria  assente.  Un  momento  di  musica,  poi  il 
padre  lascia  i  suoi  conti  e  guarda  Orfeo. 

IL  PADRE  -  Figliolo... 

ORFEO  {continuando  a  suonare)  -  Papà. 

IL  PADRE  -  Non  vorrai  mica  costringere  il  tuo  vecchio  padre  a  fare  la 
questua  in  un  buffet  di  stazione? 

ORFEO  -  Io  suono  per  me. 

IL  PADRE  -  Un  buffet  di  stazione  dove  non  c'è  che  un  solo  cliente  che 
finge  di  non  ascoltare.  Conosco  il  trucco.  Fingono  di  non  ascoltare 
e  poi  fingono  di  non  vedere  il  piattino.  Ma  io  fingo  di  non  vedere 
ch'essi  fingono.  {Orfeo  continua  a  suonare)  Ma  ti  diverte  proprio 
tanto  suonare  il  violino?  Mi  chiedo  come  puoi,  facendo  il  musi- 
cista, amare  ancora  la  musica.  Io,  quando  ho  ben  grattato  per  de- 
gli imbecilli  che  giocano  a  carte  in  una  birreria,  non  ho  che  un 
solo  desiderio... 

ORFEO  {continuando)  -  Andare  a  giocare  a  carte  in  un'altra  birreria. 

IL  PADRE  {sorpreso)  -  Vero...  Chi  te  Tha  detto? 

ORFEO  -  Immagina  che  son  vent'anni  che  lo  sospetto. 

IL  PADRE  -  Vent'anni.  Tu  esageri.  Vent'anni  fa  ero  ancora  qualcuno. 
Come  passa  il  tempo...  Vent'anni  fa,  ai  bei  tempi  dei  concerti,  chi 
l'avrebbe  detto  a  tuo  padre  che  sarebbe  finito  a  pizzicare  l'arpa 
nei  caffé,  chi  gli  avrebbe  detto  che  si  sarebbe  ridotto  a  fare  la 
questua  con  un  piattino? 

ORFEO  -  La  mamma,  ogni  volta  che  ti  facevi  mandar  via  da  un  posto... 


326  JEAN   ANOUILH 

IL  PADRE  -  Tua  madre  non  mi  ha  mai  amato.  Nemmeno  tu,  del  resto. 

Tu  non  fai  che  umiliarmi.  Ma  non  credere  che  sopporterò  in 

eterno.  Lo  sai  che  mi  hanno  offerto  il  posto  di  arpista  nel  Casinò 

di  Palavas-les-Flots? 
ORFEO  -  Si,  papà. 
IL  PADRE  -  E  che  ho  rifiutato  perche  il  posto  di  violino  non  era  libero 

per  te? 
ORFEO  -  Si,  papà,  cioè  no,  papà. 
IL  PADRE  -  No,  papà?  E  perché  no,  papà? 
ORFEO  -  Hai  rifiutato  perché  sai  che  suoni  molto  male  Tarpa  e  che  ti 

avrebbero  cacciato  il  giorno  dopo. 
IL  PADRE  (indignato)  -  Non  ti  rispondo  nemmeno. 

{Orfeo  riprende  il  violino) 

IL  PADRE  -  Continui? 

ORFEO  -  Si,  ti  dà  noia? 

IL  PADRE  -  Mi  confonde  le  idee.  Otto  per  sette? 

ORFEO  -  Cinquantasei. 

IL  PADRE  -  Ne  sei  sicuro? 

ORFEO  -  Si. 

IL  PADRE  -  Com'è  buffo,  avrei  sperato  che  facesse  sessantatré.  Otto  per 
nove  fa  tuttavia  subito  settantadue...  Sai  che  ci  resta  pochissimo 
denaro,  figliolo... 

ORFEO  -  Si. 

IL  PADRE  -  È  tutto  quello  che  trovi  da  dirmi? 

ORFEO  -  Si  papà. 

IL  PADRE  -  Ci  pensi,  ai  miei  capelli  bianchi? 

ORFEO  -  No,  papà. 

IL  PADRE  -  Bene.  Ci  sono  abituato,  (torna  alle  sue  operazioni)  Otto  per 
sette? 

ORFEO  -  Cinquantasei. 

IL  PADRE  (amaro)  -  Cinquantasei...  Non  avresti  dovuto  ripetermelo. 
(chiude  il  libercolo  e  rinuncia  ai  suoi  conti)  Non  abbiamo  man- 
giato male  questa  sera  per  dodici  franchi  e  settantacinque. 

ORFEO  -  No,  papà. 

IL  PADRE  -  Hai  fatto  male  a  prendere  il  piatto  di  legumi.  Se  sai  sce- 
gliere, li  puoi  trovare  nei  piatti  con  contorno  ed  avere  in  cambio 
un  secondo  «  dessert  »  \  Nei  pasti  a  prezzo  fisso  è  più  conveniente 
prendere  i  due  «  desserts  ».  La  cassata  napoletana  era  una  delizia. 
In  un  certo  senso,  abbiamo  mangiato  meglio  questa  sera  per  do- 


li «  dessert  »  può  essere  formaggio,  dolce  o  frutta. 


EURIDICE  327 

dici  franchi  e  settantacinque  che  ieri  a  Montpellier  per  tredici 
franchi  e  cinquanta  alla  carta...  Mi  dirai  che  c'erano  veri  tovaglioli 
e  non  tovaglioli  di  carta.  Era  un  locale  che  aveva  delle  pretese,  ma 
in  fondo  non  si  stava  meglio.  Hai  visto  che  ci  hanno  fatto  pagare 
il  formaggio  tre  franchi?  Ci  avessero  almeno  servito  il  vassoio,  co- 
me nelle  grandi  trattorie!  Una  volta,  figliolo,  fui  invitato  da  Poe- 
cardi,  sai,  al  Boulevard  des  Italiens.  Mi  portano  il  vassoio... 

ORFEO  -  Me  rhai  già  raccontato  dieci  volte,  papà. 

IL  PADRE  (offeso)  -  Bene,  bene,  non  insisto. 

(Orfeo  /è  rimesso  a  suonare.  Dopo  un  pò*  il  padre  si  annoia  e  ri- 
nuncia a  tenergli  il  broncio) 

Lo  sai,  figliolo,  che  è  triste  quel  che  suoni? 

ORFEO  -  È  anche  triste  quel  che  penso. 

IL  PADRE  -  A  che  cosa  pensi? 

ORFEO  -  A  te. 

IL  PADRE  -  A  me?  Sentiamo,  che  cosa  stai  per  dirmi  ancora? 

ORFEO  (smettendo  di  suonare)  -  A  te  e  a  me. 

IL  PADRE  -  Certo,  la  situazione  non  è  brillante,  ma  facciamo  quel  che 
possiamo. 

ORFEO  -  Penso  che  da  quando  la  mamma  è  morta,  io  ti  seguo  nei  caffé 
con  il  violino  e  la  sera  ti  guardo  alle  prese  con  i  tuoi  conti.  Sto  a 
sentirti  parlare  di  pasti  a  prezzo  fisso  e  poi  vado  a  letto  e  mi  rialzo 
la  mattina  dopo. 

IL  PADRE  -  Quando  avrai  la  mia  età  saprai  che  cos'è  la  vita. 

ORFEO  -  Penso  pure  che  tu,  solo  con  la  tua  arpa,  non  potresti  vivere. 

IL  PADRE  (improvvisamente  preoccupato)  -  Vuoi  lasciarmi? 

ORFEO  -  No.  È  probabile  che  non  potrò  mai  lasciarti.  Sono  più  bravo 
di  te,  sono  giovane  e  son  sicuro  che  la  vita  mi  serba  dell'altro,  ma 
non  potrei  vivere  se  sapessi  che  tu  crepi  non  si  sa  dove. 

IL  PADRE  -  È  giusto,  figliolo,  pensare  al  proprio  padre. 

ORFEO  -  È  giusto,  si,  ma  anche  gravoso.  Talvolta  penso  a  come  po- 
tremmo separarci... 

IL  PADRE  -  Ma  via,  noi  andiamo  cosi  bene  d'accordo... 

ORFEO  -  Avere  un  posto  molto  buono  che  mi  facesse  guadagnare  ab- 
bastanza per  passarti  una  pensione.  Ma  è  un  sogno.  Un  musicista 
non  guadagna  mai  tanto  da  avere  due  camere  e  quattro  pasti  al 
giorno. 

IL  PADRE  -  Oh,  tu  sai,  io  sono  molto  modesto.  Un  pasto  da  dodici 
franchi  e  settantacinque  come  oggi,  il  caffé,  il  cicchetto  e  un  siga- 
ro da  tre  soldi,  e  sarei  l'uomo  più  felice  di  questo  mondo,  (una 
pausa)  Magari  potrei  rinunciare  al  cicchetto. 


328  JEAN   ANOUILH 

ORFEO  -  Ci  sarebbe  anche  il  passaggio  a  livello  dove  il  treno  potrebbe 
metter  sotto  uno  di  noi  due... 

IL  PADRE  -  Eh,  eh,  quale  dei  due,  figliolo? 

ORFEO  (piano)  -  Oh,  per  me  fa  lo  stesso. 

IL  PADRE  (sussultando)  '  Sei  proprio  divertente.  Ma  io  non  ho  nessuna 
voglia  di  morire,  io.  Stasera  hai  delle  idee  lugubri,  mio  caro. 
(emette  un  rutto  elegante)  Eppure  quel  coniglio  era  buono.  Ah! 
perbacco,  mi  fai  ridere.  Alla  tua  età,  la  vita  mi  sembrava  magnifi- 
ca, (adocchia  la  cassiera)  E  l'amore?  Hai  pensato  che  c'è  l'amore? 

ORFEO  -  L'amore?  Che  cosa  credi  che  sia  l'amore?  Le  donne  che 
posso  incontrare  con  te? 

IL  PADRE  -  Ah,  mio  caro,  si  può  mai  sapere  dove  s'incontrerà  l'amore? 
(si  avvicina)  Di*  un  po',  non  sembro  troppo  spelato?  Graziosa,  la 
cassiera.  Un  po'  grassa  forse.  Andrebbe  meglio  per  me  che  per  te. 
Quanti  anni  daresti,  a  quella  bambina,  quaranta,  quarantacinque? 

ORFEO  (ha  un  triste  sorriso,  gli  dà  un  colpetto  sulla  spalla)  -  Vado  un 
po'  fuori;  abbiamo  ancora  un'ora  per  il  treno. 

(quando  è  uscito,  il  padre  si  alza,  va  a  girare  attorno  alla  cassiera  che 
fulmina  con  lo  sguardo  quel  miserabile  cliente.  Il  padre  si  sente 
improvvisamente  brutto,  povero  e  calvo.  Si  passa  una  mano  sulla 
testa  e  s'avvia  mortificato  a  prendere  gli  strumenti  per  uscire) 

EURIDICE  (entrando  di  furia)  -  Scusi,  signore.  C'era  qui  qualcuno  che 

suonava  il  violino? 
IL  PADRE  -  Sf,  signorina,  era  mio  figlio.  Mio  figlio  Orfeo. 
EURIDICE  -  Com'era  bello  quello  che  suonava! 

(//  padre  saluta,  lusingato,  ed  esce  con  gli  strumenti,  la  madre  di  Eu- 
ridice fa  un'entrata  trionfale.  Boa,  cappello  con  piume.  Non  ha 
smesso  di  ringiovanire  dal  1920) 

LA  MADRE  -  Euridice,  sei  qui...  Che  caldo!...  Non  posso  soffrire  di 
aspettare  nelle  stazioni.  Questa  a  tournée  »  è  male  organizzata,  co- 
me al  solito.  Il  segretario  dovrebbe  fare  in  modo  che  almeno  le 
prime  parti  non  dovessero  aspettare  per  delle  ore  la  coincidenza. 
Che  cosa  puoi  dare  la  sera  quando  hai  passato  la  giornata  ad  esa- 
sperarti in  una  sala  d'aspetto? 

EURIDICE  -  C'è  un  solo  treno,  mamma,  per  i  primi  e  i  secondi  attori, 
e  c'è  un'ora  di  ritardo  a  causa  del  temporale  di  ieri.  Il  segretario 
non  può  farci  nulla. 

LA  MADRE  -  Ah,  tu,  tu  difendi  sempre  gl'imbecilli! 

IL  CAMERIERE  (chc  si  è  avvictnoto)  -  Che  cosa  posso  servire  alle  si- 
gnore? 


EURIDICE  329 

LA  MADRE  -  Crcdi  chc  prendiamo  qualcosa? 

EURIDICE  -  Sarebbe  bene,  dal  momento  che  ti  sei  trionfalmente  seduta 
in  questo  caffé. 

LA  MADRE  -  Avete  un  eccellente  pippermint?  Allora  un  pippermint.  In 
Argentina  o  al  Brasile,  quando  il  caldo  era  insopportabile,  ricor- 
revo sempre  al  pippermint  al  momento  di  entrare  in  scena.  È  Sara  ^ 
che  mi  ha  insegnato  il  segreto.  Allora  un  pippermint. 

IL  CAMERIERE  -  E  per  U  signorina? 

EURIDICE  -  Un  caffé. 

LA  MADRE  -  Sta'  dritta.  Come  mai  non  sei  con  Mattia?  Erra  come 
un'anima  in  pena. 

EURIDICE  -  Non  ti  occupare  di  lui. 

LA  MADRE  -  Fai  male  ad  esasperare  quel  ragazzo.  Egli  ti  adora.  Anzi- 
tutto hai  sbagliato  a  prendertelo  per  amante.  Allora  te  lo  dissi, 
ma  ormai  quel  che  è  fatto  è  fatto.  Del  resto,  è  destino  di  noialtre 
cominciare  e  finire  con  degli  attori.  Alla  tua  età  ero  più  bella  di 
te,  potevo  avere  la  pretesa  di  essere  mantenuta  da  chicchessia,  e 
stavo  a  perder  tempo  con  tuo  padre...  Tu  vedi  con  quale  risulta- 
to... Sta'  dritta. 

IL  CAMERIERE  (chc  hu  pOTtato  le  consumazioni)  -  Un  po'  di  ghiaccio, 
Signora? 

LA  MADRE  -  Mai  ghiaccio,  amico  mio,  per  la  voce.  Pessimo,  questo  pip- 
permint. Detesto  la  provincia,  detesto  le  «  tournées  ».  Ma  Parigi  fa 
pazzie  solo  con  le  piccole  imbecilli  prive  di  seno,  che  sono  incapaci 
di  dire  tre  parole  senza  impappinarsi...  Ma  che  cosa  t'ha  fatto 
quel  ragazzo?  Non  siete  saliti  nello  stesso  scompartimento,  alla 
partenza  da  Montélimar?  Mia  piccola  Euridice,  una  madre  è  una 
confidente,  soprattutto  quando  ha  la  vostra  età,  voglio  dire  quando 
è  una  madre  molto  giovane.  Allora,  dimmi,  che  cosa  ti  ha  fatto?... 

EURIDICE  -  Nulla,  mamma. 

LA  MADRE  -  «  NuUa  mamma  »  non  vuol  dire  nulla.  Quel  che  è  certo 
è  che  ti  adora.  È  forse  per  questo  che  tu  non  l'ami.  Siamo  fatte 
tutte  COSI  e  nessuno  può  cambiarci.  È  buono,  il  tuo  caffé? 

EURIDICE  -  Te  lo  do,  non  lo  voglio  più. 

LA  MADRE  -  Grazie.  A  me  piace  molto  zuccherato.  Cameriere,  un'al- 
tra zolla  di  zucchero  per  la  signorina.  Non  lo  ami  più? 

EURIDICE  -  Chi? 

LA  MADRE  -  Mattia. 

EURIDICE  -  Perdi  il  tempo,  mamma. 


^  Si  tratta  della  famosa  Sara  Bernhard t. 


330  JEAN   ANOUILH 

{il  cameriere  porta  lo  zucchero,  di  cattiva  voglia) 

LA  MADRE  -  Gfazic,  amico  mio.  È  pieno  di  cacature  di  mosca,  che 
allegria!  Io  che  ho  fatto  il  giro  del  mondo  in  alberghi  di  lusso 
sono  arrivata  a  questo  punto.  Pazienza.  Si  scioglierà,  {beve  il  caf- 
fé) Del  resto,  tu  hai  ragione.  Bisogna  anzitutto  seguire  il  proprio 
istinto  come  la  vera  bestia  da  teatro  che  sono  io.  È  vero  che  tu  sci 
poco  artista.  Sta'  dritta.  Ah,  ecco  Vincenzo.  Caro!  Sembra  fuori 
di  sé.  Sii  gentile  con  lui,  ti  prego.  Sai  che  è  un  ragazzo  al  quale 
tengo  molto. 

VINCENZO  {entra.  Capelli  argentati.  Bello  e  molle  sotto  apparenze  ener- 
giche. Gesto  largo,  sorriso  amaro,  occhio  vago.  Baciamano)  -  Mia 
buona  amica,  ed  io  che  ti  cercavo  dappertutto. 

LA  MADRE  -  Ero  qui,  con  Euridice. 

VINCENZO  -  Quel  piccolo  segretario  è  troppo  impossibile.  Sembra  che 
si  debba  aspettare  qui  più  di  un'ora.  Reciteremo  ancora  senza  aver 
pranzato,  è  la  regola.  È  una  cosa  irritante,  mia  cara,  si  ha  un  bei- 
Tessere  pazienti  come  angeli,  è  estremamente  irritante. 

EURIDICE  -  Non  è  colpa  del  segretario  se  ieri  sera  c'è  stato  un  tem- 
porale. 

LA  MADRE  -  Vorrei  proprio  sapere  perche  prendi  sempre  le  difese  di 
quel  piccolo  idiota. 

VINCENZO  -  Un  deficiente,  è  un  deficiente!...  Non  capisco  come  Dulac 
possa  tenere  a  quel  posto  un  simile  incapace.  Secondo  le  ultime 
notizie,  ha  smarrito  il  baule  dei  posticci.  E  domani  si  danno  Les 
Burgraves,  in  diurna...  Li  vedi,  senza  barbe? 

EURIDICE  -  Ma  lo  ritroverà,  questo  baule.  Sarà  restato  a  Montélimar... 

VINCENZO  -  Nel  qual  caso  lo  ritroverà  forse  per  domani,  ma  per  sta- 
sera, per  il  Disonore  di  Genoveffa,.,  tanti  saluti.  Pretende  che  la 
cosa  non  abbia  importanza  perché  si  tratta  di  un'opera  moderna, 
ma,  ad  ogni  buon  conto,  ho  avvertito  Dulac:  senza  pizzo  non 
faccio  la  parte  del  dottore. 

IL  CAMERIERE  {chc  /è  avvicinato)  -  Che  cosa  prende? 

VINCENZO  -  Nulla,  amico  mio.  Un  bicchiere  d'acqua,  {il  cameriere  si 
dlontana,  vinto)  Per  il  primo  e  per  il  secondo  atto  potrà  andare 
ancora,  ma  tu  capisci,  amica  mia,  che  con  tutta  la  buona  volontà 
di  questo  mondo  non  posso  recitare  la  grande  scena  dei  rimpro- 
veri del  terzo  senza  il  pizzo.  Che  figura  ci  farci? 

{Euridice  si  allontana  irritata) 

LA  MADRE  -  Dovc  vai,  bambina  mia? 
EURIDICE  -  Esco  un  po',  mamma. 


EURIDICE  331 

{esce  bruscamente.  Vincenzo  Vha  guardata,  olimpico.  Quando  è 
uscita..,) 

VINCENZO  -  Mia  buon'amica,  tu  sai  che  non  è  mia  abitudine  dare  in 
escandescenze,  ma  l'atteggiamento  di  tua  figlia  nei  miei  riguardi 
è,  per  parlar  chiaro,  proprio  scandaloso. 

LA  MADRE  (faccndo  la  vezzosa  e  cercando  di  prendergli  la  mano)  -  Mio 
grosso  gatto... 

VINCENZO  -  La  nostra  situazione  e  forse  delicata,  lo  riconosco  —  ben- 
ché, dopo  tutto,  tu  sia  libera,  dato  che  sei  separata  da  suo  padre 
—  ma  si  direbbe  proprio  ch'essa  ci  prenda  gusto  a  invelenirla. 

LA  MADRE  -  È  una  piccola  oca.  Tu  sai  che  protegge  quel  ragazzo  come 
protegge,  sa  Dio  perché,  tutti  quelli  che  sono  mal  messi  su  questa 
terra,  i  vecchi  gatti,  i  cani  smarriti,  gli  ubriachi.  L'idea  che  tu 
possa  indurre  Dulac  a  licenziarlo  l'ha  messa  fuori  di  sé. 

VINCENZO  -  Si  può  essere  fuori  di  sé,  ma  c'è  sempre  la  maniera. 

LA  MADRE  -  Ma  Sai  che  è  proprio  quel  che  le  manca.  Ha  un  buon  ca- 
rattere, ma  è  un  piccolo  animale,  (mattia  entra  bruscamente.  Ha 
la  barba  lunga,  è  cupo,  teso)  Guarda,  buon  giorno,  Mattia. 

MATTIA  -  Dov'è  Euridice? 

LA  MADRE  -  È  uscìta  proprio  adesso. 

{Mattia  esce.  La  madre  lo  guarda  allontanarsi) 

Povero  ragazzo.  Ha  perduto  la  testa.  Lei  è  stata  molto  carina  con 
lui  fino  a  qualche  giorno  fa,  e  poi  non  so  che  cosa  le  è  successo, 
si  direbbe  che  cerchi,  che  aspetti  qualcosa...  Che  cosa,  non  saprei... 
{si  sente  in  lontanaza  il  molino  di  Orfeo)  E  che  cos'ha  quell'idiota 
a  grattare  sempre  il  suo  violino?  Mi  dà  sui  nervi. 

VINCENZO  -  Aspetta  il  treno. 

LA  MADRE  -  Non  è  una  buona  ragione.  Lui,  le  mosche...  E  questo 
caldo! 

(/'/  violino  s'è  avvicinato.  I  due  ascoltano.  Durante  questo  tempo  Eu- 
ridice passa  in  fondo  alla  scena  come  se  cercasse) 

LA  MADRE  (improvvisamcnte,  cambiando  voce)  -  Ti  ricordi  il  grande 

Casinò  di  Ostenda? 
VINCENZO  -  Era  l'anno  in  cui  fu  lanciato  il  tango  messicano... 
LA  MADRE  -  Com'cri  bcUol 

VINCENZO  -  In  quel  tempo  portavo  ancora  le  basette... 
LA  MADRE  -  E  avcvi  uDa  maniera  di  fare...  Ti  ricordi  il  primo  giorno: 

((Signora,  vorrebbe  accordarmi  questo  tango?  ». 
VINCENZO  -  <(  Ma,  Signore,  non  ballo  il  tango  messicano  ». 


332  JEAN   ANOUILH 

LA  MADRE  -  «  Nulla  di  più  sempUce,  Signora.  La  condurrò  io,  non 
avrà  che  da  lasciarsi  guidare».  Come  m'hai  detto  queste  parole!... 
Poi  mi  hai  presa^  e  allora  tutto  s'è  confuso,  la  testa  del  vecchio  im- 
becille che  mi  manteneva  e  che  è  restato  a  friggere  sulla  sedia, 
la  faccia  del  barman  che  mi  faceva  la  corte  —  era  un  Corso,  di- 
ceva che  mi  avrebbe  uccisa  —  i  baflB  incerottati  degli  tzigani,  i 
grandi  giaggioli  malva  e  i  ranuncoli  verde  pallido  che  decoravano 
le  pareti...  Ah,  era  delizioso.  Era  il  tempo  in  cui  si  usavano  i  ri- 
cami inglesi...  Io  avevo  un  vestito  tutto  bianco... 

VINCENZO  -  Io  un  garofano  giallo  all'occhiello  e  un  vestito  a  quadrettini 
verde  e  marrone... 

LA  MADRE  -  Tu  mi  avevi  stretta  cosi  forte  ballando  che  il  vestito  mi  si 
era  stampato  in  rosso  sulla  pelle...  Il  vecchio  imbecille  se  ne  ac- 
corse, mi  fece  una  scenata,  io  gli  diedi  uno  schiaffo  e  mi  son  tro- 
vata senza  un  soldo  sulla  strada.  Ma  tu  avevi  affittato  una  carrozza 
con  le  nappe  rosa  ed  abbiamo  passeggiato  lungo  il  mare  fino  a 
sera... 

VINCENZO  -  Ah!  incertezze  e  turbamenti  del  primo  giorno!  Ci  si  cerca, 
ci  si  sente,  ci  si  indovina,  non  ci  si  conosce  ancora  e  tuttavia  si  sa 
già  che  sarà  per  tutta  la  vita... 

LA  MADRE  (camìnondo  improvvisamente  tono)  -  Perché  ci  siamo  la- 
sciati quindici  giorni  dopo? 

VINCENZO  -  Non  so.  Non  ricordo. 

{Orfeo  ha  smesso  di  suonare,  Euridice  è  di  fronte  a  lui.  Si  guardano) 

EURIDICE  -  Era  lei  che  suonava  poco  fa? 

ORFEO  -  Si,  ero  io. 

EURIDICE  -  Come  suona  bene! 

ORFEO  -  Le  pare? 

EURIDICE  -  Come  si  chiama  quello  che  suonava? 

ORFEO  -  Non  so.  Invento... 

EURIDICE  (suo  malgrado)  -  Peccato! 

ORFEO  -  Perche? 

EURIDICE  -  Non  saprei.  Mi  sarebbe  piaciuto  che  avesse  un  nome. 

(una  RAGAZZA  possa  sul  marciapiede,  vede  Euridice,  la  chiama) 

LA  RAGAZZA  -  Euridicc,  sci  lì? 

EURIDICE  (continuando  a  guardare  Orfeo)  -  Si. 

LA  RAGAZZA  -  Ho  visto  adesso  Mattia.  Ti  cerca,  mia  cara... 

EURIDICE  -  Si.  (guarda  Orfeo)  I  suoi  occhi  sono  azzurro  chiaro. 

ORFEO  -  Si.  Ma  non  si  capisce  bene  il  colore  dei  suoi. 

EURIDICE  -  Dicono  che  dipenda  da  quello  che  penso. 


EURIDICE  333 

ORFEO  -  In  questo  momento  sono  verde  scuro  come  l'acqua  profonda 
vicino  alle  pietre  delle  banchine. 

EURIDICE  -  Dicono  che  sono  cosi  quando  sono  molto  felice. 

ORFEO  -  Chi  «  dicono  »? 

EURIDICE  -  Gli  altri. 

LA  RAGAZZA  (rtpossa  c  grida  dai  maràapiedé)  -  Euridice! 

EURIDICE  (senza  voltarsi)  -  Si. 

LA  RAGAZZA  -  Non  dimenticare  Mattia. 

EURIDICE  -  Si.  (chiede  improvvisamente)  Lei  crede  che  mi  farà  soffrire 
molto? 

ORFEO  (sorride  con  dolcezza)  -  Non  lo  credo. 

EURIDICE  -  Non  è  che  io  abbia  paura  di  essere  infelice  cosi  come  lo  so- 
no adesso.  No,  ciò  fa  male,  ma  ha  qualcosa  di  buono.  Quello 
che  mi  fa  paura  è  di  essere  infelice  e  sola  quando  lei  mi  lascerà. 

ORFEO  -  Non  la  lascerò  mai. 

EURIDICE  -  Me  lo  giura? 

ORFEO  -  Si. 

EURIDICE  -  Sulla  mia  testa. 

ORFEO  (sorride)  -  Si. 

(si  guardano.  Lei  dice  improvvisamente,  con  dolcezza) 

EURIDICE  -  Mi  piace  tanto  quando  lei  sorride. 

ORFEO  -  E  lei,  lei  non  sorride? 

EURIDICE  -  Mai  quando  sono  felice. 

ORFEO  -  Credevo  che  fosse  infelice. 

EURIDICE  -  Ma  allora  non  capisce  nulla?  Anche  lei  dunque  è  un  vero 

uomo?  Non  vede  in  quali  guai  ci  siamo  messi  tutti  e  due,  qui 

l'uno  di  fronte  all'altra,  con  tutto  quello  che  ci  accadrà  e  che  è  già 

tutto  pronto  alle  nostre  spalle? 
ORFEO  -  Crede  che  ci  accadranno  molte  cose? 
EURIDICE  -  Ma  tutte,  tutte  le  cose  che  accadono  ad  un  uomo  e  ad  una 

donna  sulla  terra,  nessuna  esclusa... 
ORFEO  -  Le  piacevoli,  le  dolci,  le  terribili? 

EURIDICE  -  E  le  vergognose,  e  anche  le  sporche...  Saremo  tanto  infelici. 
ORFEO  (prendendola  fra  le  braccia)  -  Che  gioia! 

(Vincenzo  e  la  madre  che  sognavano  con  le  teste  accostate  ripren- 
dono a  parlare  sommessamente) 

VINCENZO  -  Ah!  L'amore,  l'amore!  Vedi,  mia  bella,  su  questa  terra  do- 
ve tutto  ci  ferisce,  ci  delude  e  ci  fa  male,  è  meraviglioso  conforto 
pensare  che  ci  resta  l'amore... 

LA  MADRE  -  Gatto  mio... 


334  JEAN   ANOUILH 

VINCENZO  -  Tutti  gli  uomini  sono  bugiardi,  incostanti,  falsi,  ciarlieri, 
ipocriti,  orgogliosi  o  vili,  Luciana,  spregevoli  o  sensuali;  tutte  le 
donne  sono  perfide,  affettate,  vane,  curiose  o  corrotte.  Il  mondo 
non  è  che  una  cloaca  senza  fondo  dove  bestie  deformi  strisciano 
e  si  contorcono  sopra  montagne  di  fango.  Ma  esiste  al  mondo 
una  cosa  santa  e  sublime,  ed  è  l'unione  di  questi  due  esseri  cosi 
imperfetti  e  orridi! 

LA  MADRE  -  Si,  gatto  mio.  È  Perdicano  *. 

VINCENZO  {si  ferma,  sorpreso)  -  Credi?  Infatti  l'ho  recitato  tante  volte... 

LA  MADRE  -  Ti  ricordi?  Lo  recitavi  quella  prima  sera  al  Grande  Ca- 
sinò di  Ostenda.  Ed  io  recitavo  la  Vergine  Folle,  ma  comparivo 
soltanto  nel  primo  atto.  Son  venuta  ad  aspettarti  nel  tuo  camerino. 
Tu  uscivi  di  scena  ancora  tutto  vibrante  delle  belle  parole  d'amo- 
re che  avevi  pronunciato  e  mi  hai  amata  cosf  subito,  in  costume 
Luigi  XV... 

VINCENZO  -  Ah,  le  nostre  notti  d'amore,  Luciana.  Unione  dei  corpi  e 
delle  anime!  Istante  unico  in  cui  non  si  sa  più  se  sia  la  carne  o 
l'anima  che  palpita... 

LA  MADRE  -  Lo  sai  chc  sci  stato  un  amante  meraviglioso,  mio  grosso 
cane? 

VINCENZO  -  E  tu  la  più  adorabile  delle  amanti! 

LA  MADRE  -  Ma  chc  sciocchezza  ho  detto,  tu  non  eri  un  amante,  tu 
eri  l'amante.  L'incostante  e  il  fedele,  il  forte  e  il  tenero,  il  folle. 
Tu  eri  l'amore.  Come  mi  hai  fatto  soffrire... 

VINCENZO  -  Ah,  si  è  spesso  ingannati,  in  amore,  e  spesso  feriti  e  infe- 
lici, Luciana,  ma  si  ama.  E  quando  si  è  sull'orlo  della  tomba,  ci 
si  volge  per  guardare  indietro  e  ci  si  dice:  «  Ho  spesso  sofferto,  mi 
sono  talvolta  ingannato,  ma  ho  amato.  Sono  io  che  ho  vissuto  e 
non  un  essere  vano  creato  dal  mio  orgoglio  e  dal  mio  tedio!  ». 

LA  MADRE  (applaude)  -  Bravo,  gatto  mio,  bravo! 

VINCENZO  -  Era  ancora  Musset? 

LA  MADRE  -  Si,  gatto  mio. 

(Orfeo  ed  Euridice  li  hanno  ascoltati,  stretti  Vuno  all'altra,  come  sgo- 
menti) 

EURIDICE  -  Li  faccia  tacere,  per  carità,  li  faccia  tacere. 

(Orfeo  va  verso  la  coppia  mentre  Euridice  si  nasconde) 

ORFEO  -  Signore  e  signora,  il  mio  atteggiamento  vi  sembrerà  certa- 

^  Il  protagonista  di  On  ne  badine  pus  avec  Vamour,  di  Musset. 


EURIDICE  335 

mente  incomprensibile,  strano,  anzi  molto  strano,  ma,  ecco,  bi- 
sogna che  voi  usciate. 

VINCENZO  '  Che  noi  usciamo? 

(MtFEo  -  S(,  signore. 

VINCENZO  -  Si  chiude? 

ORFEO  -  S{,  per  voi. 

VINCENZO  (alzandosi)  -  Ma  insomma,  signore... 

LA  MADRE  {alzondosi  onchc  lei)  -  Non  è  uno  del  locale.  Lo  riconosco, 
è  quello  che  suonava  il  violino... 

ORFEO  -  È  necessario  che  voi  scompariate  immediatamente.  Vi  assi- 
curo che  se  potessi  darvi  una  spiegazione  ve  la  darei.  Ma  non  pos- 
so spiegarvi,  voi  non  capireste.  Qui,  in  questo  momento  sta  acca- 
dendo qualcosa  di  grave. 

LA  MADRE  -  Ma  è  matto,  questo  giovane!... 

VINCENZO  -  Ma  insomma,  perdìo,  è  un'assurdità,  questo  è  un  locale 
pubblico. 

CMIFEO  -  Non  più,  adesso. 

LA  MADRE  -  Ah,  è  troppo...  (chiama)   Signora,  per  favore,  cameriere. 

ORFEO  (//  spinge  verso  la  parta)  -  No,  non  chiamate,  vi  prego.  Pa- 
gherò io  le  vostre  consumazioni. 

LA  MADRE  -  Non  Subiremo  una  simile  prepotenza. 

ORFEO  -  Io  sono  un  giovane  molto  pacifico,  molto  cortese,  e  timido, 
anche,  molto  timido.  Le  assicuro,  signora,  che  prima  non  avrei 
osato  fare  una  cosa  simile. 

LA  MADRE  -  Mai  vista  una  cosa  del  genere. 

ORFEO  -  Mai  vista.  Io  almeno  non  Tho  mai  vista. 

LA  MADRE  (a  Vincenzo)  -  E  tu  non  dici  nulla,  tu? 

VINCENZO  -  Andiamo  via,  non  vedi  che  non  ha  la  testa  a  posto? 

LA  MADRE  (escc  gridando)  -  Andrò  a  protestare  dal  capostazione. 

EURIDICE  (uscendo  dal  suo  nascondiglio)  -  Ah,  com'erano  brutti,  è 
vero?  Com'erano  brutti  e  stupidi! 

ORFEO  (si  volge  verso  di  lei  sorridendo)  -  Zitta!  Non  parliamo  più  di 
loro.  Come  tutto  rientra  nell'ordine  adesso  che  siamo  soli,  come 
tutto  diviene  semplice  e  luminoso!  Mi  sembra  che  sia  la  prima 
volta  che  vedo  dei  lampadari,  delle  piante  verdi,  delle  sfere  di  me- 
tallo, delle  sedie...  Che  cosa  graziosa,  una  sedia.  Sembra  un  in- 
setto che  spii  il  rumore  dei  nostri  passi  e  che  stia  per  scappare  con 
un  balzo  delle  sue  quattro  magre  gambe...  Attenzione,  fermi  o 
facciamo  un  salto...  (salta,  trascinando  Euridice)  L'abbiamo  presa! 
E  com'è  comoda  una  sedia.  Ci  si  può  sedere...  (la  fa  sedere  con 


336  JEAN   ANOUILH 

un  gesto  comicamente  cerimonioso,  poi  la  guarda  tutto  triste)  Sol- 
tanto non  capisco  perché  abbiano  inventato  la  seconda. 

EURIDICE  (facendogli  posto  sulla  sedia)  -  Era  per  le  persone  che  non 
si  conoscono... 

ORFEO  (la  stringe  fra  le  braccia  gridando)  -  Ma  io  la  conosco.  Poco 
fa  suonavo  il  violino  e  lei  passava  sul  marciapiede  della  stazione 
ed  io  non  la  conoscevo...  Adesso  tutto  è  cambiato,  io  la  conosco! 
È  straordinario.  Tutto  è  diventato  improvvisamente  straordinario 
attorno  a  noi.  Guardi...  Com'è  bella  la  cassiera,  con  i  suoi  grossi 
seni  delicatamente  adagiati  sul  marmo  della  cassa.  E  il  cameriere! 
Guardi  il  cameriere.  Quei  lunghi  piedi  negli  stivalini  abbottonati, 
la  sua  calvizie  distinta  e  quell'aria  nobile,  cosi  nobile...  Era  una 
sera  veramente  straordinaria,  questa  sera.  Noi  dovevamo*  incon- 
trarci e  incontrare  anche  il  più  nobile  cameriere  di  Francia.  Un  ca- 
meriere che  avrebbe  potuto  essere  prefetto,  colonnello,  membro 
della  Commedia  Francese.  Dica,  cameriere... 

IL  CAMERIERE  [si  avvicina)  -  Signore. 

ORFEO  -  Lei  mi  piace. 

IL  CAMERIERE  -  Ma,  signore... 

ORFEO  -  Proprio.  E  non  protesti.  Sa,  io  sono  sincero  e  non  uso  far  com- 
plimenti. Lei  è  magnifico.  La  signorina  ed  io  ci  ricorderemo  eter- 
namente di  lei  e  della  cassiera.  Glielo  dirà,  vero? 

IL  CAMERIERE  -  SÌ,  signore. 

ORFEO  -  Ah,  com'è  divertente  vivere!  Non  immaginavo  che  fosse  cosi 
appassionante  respirare,  avere  del  sangue  che  circola  nelle  vene, 
dei  muscoli  che  si  muovono... 

EURIDICE  -  Le  peso? 

ORFEO  -  Oh  no!  Lei  ha  giusto  il  peso  che  era  necessario  al  mio  per 
farmi  tenere  sulla  terra.  Fino  a  poco  fa,  ero  troppo  leggero,  ondeg- 
giavo, urtavo  contro  i  mobili  e  le  persone.  Le  mie  braccia  si  sten- 
devano troppo,  le  mani  lasciavano  cadere  le  cose.  Com'è  strano,  e 
come  sono  stati  fatti  alla  leggera  i  calcoli  degli  scienziati  sulla  pe- 
santezza. Mi  accorgo  adesso  che  mi  mancava  esattamente  l'ag- 
giunta del  suo  peso  per  far  parte  di  questa  atmosfera... 

EURIDICE  -  Ah,  caro,  lei  mi  fa  paura.  Ne  fa  parte  almeno,  adesso? 
Non  volerà  mai  più? 

ORFEO  -  Mai  più. 

EURIDICE  -  Che  farei,  io,  tutta  sola  sulla  terra,  come  una  povera  stu- 
pida, se  lei  mi  lasciasse?  Mi  giuri  che  non  mi  lascerà  mai. 

ORFEO  -  Glielo  giuro. 

EURIDICE  -  Si,  ma  questo  è  un  giuramento  facile!   Che  non  abbia 


EURIDICE  337 

rintenzione  di  lasciarmi  lo  spero  bene.  Ma  se  vuole  rendermi  fe- 
lice mi  giuri  che  non  avrà  mai  voglia  di  lasciarmi,  nemmeno  più 
tardi,  nemmeno  per  un  minuto,  nemmeno  se  la  guardasse  la  più 
bella  ragazza  del  mondo. 

ORFEO  -  Le  giuro  anche  questo. 

EURIDICE  {si  alza  di  scatto)  -  Ah,  vede  com'è  falso  lei!  Mi  giura  che 
non  avrebbe  voglia  di  lasciarmi  nemmeno  se  la  guardasse  la  più 
graziosa  donna  del  mondo,  ma  per  sapere  che  quella  la  guarda 
lei  ha  dovuto  guardarla.  Ah,  Dio  mio,  come  sono  infelice!  Lei  ha 
appena  cominciato  ad  amarmi  e  già  pensa  ad  altre  donne.  Mi  giu- 
ri, caro,  che  non  la  vedrà  nemmeno,  quella  stupida... 

ORFEO  -  Sarò  cieco. 

EURIDICE  -  £  poi,  anche  se  lei  non  la  vedesse,  la  gente  è  cosi  cattiva 
che  si  affretterà  a  dirglielo  per  farmi  soffrire.  Mi  giuri  che  non 
sentirà  nessuno. 

ORFEO  -  Sarò  sordo. 

EURIDICE  -  Oppure  no,  c'è  qualcosa  molto  più  semplice,  mi  giuri  su- 
bito, sinceramente,  spontaneamente,  e  non  per  farmi  piacere,  che 
nessuna  donna  le  sembrerà  graziosa,  nemmeno  quelle  del  genere 
((  bella  »...  che  non  significa  nulla,  sa... 

ORFEO  -  Glielo  giuro. 

EURIDICE  (diffidente)  -  Nemmeno  una  che  mi  rassomigliasse.^ 

ORFEO  -  Nemmeno.  Ne  diffiderei  per  questo. 

EURIDICE  -  E  lo  giura  spontaneamente.? 

ORFEO  -  Spontaneamente. 

EURIDICE  -  Bene.  E,  s'intende,  sulla  mia  testa. 

ORFEO  -  Sulla  sua  testa. 

EURIDICE  '  Lei  sa  bene  che  quando  si  giura  sulla  testa,  l'altra  persona 
muore  se  non  si  mantiene  il  giuramento. 

ORFEO  -  Lo  so. 

EURIDICE  {riflette  un  po')  -  Bene.  Ma,  per  caso,  non  è  possibile  — 
che  c'è  tutto  da  aspettarsi  da  lei,  con  quella  sua  aria  angelica  —  non 
è  possibile  che  lei  pensi  dentro  di  sé:  «Posso  ben  giurare  sulla  sua 
testa.  Che  cosa  rischio?  Se  muore  al  momento  in  cui  vorrò  la- 
sciarla, sarà  in  fondo  più  comodo.  Una  morta  si  lascia  facilmente, 
senza  scenate,  senza  lagrime...».  Oh,  la  conosco! 

ORFEO  {sorride)  -  Ingegnoso,  ma  non  ci  avevo  proprio  pensato. 

EURIDICE  -  Sul  serio?  È  meglio  che  me  lo  dica  subito. 

ORFEO  -  Sul  serio. 

EURIDICE  -  Me  lo  giuri. 

ORFEO  {alza  la  mano)  -  Ecco. 


22.  -  Teatro  francete 


338  JEAN   ANOUILH 

EURIDICE  (avvicinandosi)  -  Bene.  Allora  adesso  le  dico  una  cosa.  Vo- 
levo soltanto  metterla  alla  prova.  Noi  non  abbiamo  fatto  veri  giu- 
ramenti. Per  fare  un  vero  giuramento  non  basta  fare  un  piccolo 
gesto  con  la  mano,  un  piccolo  gesto  equivoco  che  si  può  inter- 
pretare come  si  vuole.  Bisogna  stendere  il  braccio  cosi,  sputare  per 
terra..  Non  rida,  lei  sa  che  è  molto  serio  come  lo  faremo  adesso. 
Alcuni  dicono  che  non  solo  la  persona  muore  d'un  colpo  «  le 
si  manca  di  parola,  ma  che  soffre  molto  morendo. 

ORFEO  (gravemente)  -  Lo  tengo  presente. 

EURIDICE  -  Bene.  Adesso  che  lei  sa  a  che  cosa  mi  esporrebbe  se  mi 
mentisse  anche  un  pochettino,  adesso  mi  giurerà,  per  favore,  caro, 
stendendo  la  mano  e  sputando  per  terra,  che  tutto  quello  che  mi 
ha  giurato  era  vero. 

ORFEO  -  Sputo,  stendo  la  mano,  giuro. 

EURIDICE  -  Bene,  adesso  le  credo.  Del  resto,  è  cosC  facile  ingannarmi, 
sono  cosi  poco  diffidente!  Lei  sorride,  mi  prende  in  giro? 

ORFEO  -  Io  la  guardo.  Mi  accorgo  che  non  avevo  ancora  avuto  il  tem- 
po di  guardarla. 

EURIDICE  -  Sono  brutta?  Qualche  volta,  quando  ho  troppo  pianto  o 
riso  troppo,  mi  viene  una  piccola  macchia  rossa  all'angolo  del 
naso.  Preferisco  dirglielo  subito  perché  poi  lei  non  abbia  brutte 
sorprese. 

ORFEO  -  Mi  rassegnerò. 

EURIDICE  -  Inoltre  sono  magra.  Non  quanto  sembra,  no,  mi  vedo  abba- 
stanza ben  fatta  quando  mi  lavo,  ma  insomma  non  sono  una  di 
quelle  donne  sulle  quali  ci  si  può  appoggiare  comodamente. 

ORFEO  -  Non  cercavo  comodità. 

EURIDICE  -  Non  posso  darle  che  quello  che  ho,  nevvero?  Allora,  non 
s'immagini  chi  sa  che  cosa...  Sono  anche  stupida,  non  so  dir  nulla 
e  non  bisogna  contare  su  di  me  per  la  conversazione. 

ORFEO  (sorride)  -  Ha  parlato  sempre... 

EURIDICE  -  Parlo  sempre,  ma  non  so  rispondere.  È  per  questo  che 
parlo  sempre,  per  impedire  che  mi  facciano  delle  domande.  È  la 
mia  maniera  di  essere  muta.  Si  fa  quel  che  si  può.  Naturalmente,  lei 
tutto  ciò  non  lo  può  soffrire.  Vede  come  sono  fortunata?  Lei  non 
troverà  in  me  nulla  che  le  piaccia. 

ORFEO  -  S'inganna.  Mi  piace  quando  lei  parla  troppo.  È  un  piccolo  ru- 
more che  mi  riposa. 

EURIDICE  -  Macché!  Son  sicura  che  a  lei  piacciono  le  donne  misteriose. 
Genere  Greta  Garbo.  Quelle  che  hanno  due  metri  d'altezza,  gran- 
di occhi,  grandi  mani  e  che  si  smarriscono  tutto  il  giorno  nel  bo- 


EURIDICE  339 

SCO,  fumando...  Io  non  sono  per  nulla  cost.  Bisogna  che  lei  si  ras- 
segni subito. 

ORFEO  -  È  fatto. 

EURIDICE  -  Si  dice  così,  ma  vedo  bene  nei  suoi  occhi...  {gli  si  getta 
fra  le  braccia)  Ah,  mio  caro,  caro,  è  troppo  triste  non  essere  quella 
che  le  piace!  Ma  che  vuole  che  faccia?  Che  diventi  più  alta?  Pro- 
verò. Farò  ginnastica.  Che  abbia  l'aria  feroce?...  Stralunerò  gli 
occhi,  mi  truccherò  di  più.  Proverò  ad  essere  tenebrosa,  a  fumare... 

ORFEO  -  Ma  no! 

EURIDICE  -  Si,  sf,  cercherò  di  essere  misteriosa.  Ah,  non  creda  che  sia 
molto  difficile  essere  misteriosa.  Basta  non  pensare  a  nulla.  È  alla 
portata  di  qualsiasi  donna. 

ORFEO  -  Che  matta! 

EURIDICE  -  Lo  sarò,  ci  conti.  E  saggia,  anche.  E  spendereccia  o  eco- 
noma, secondo  i  casi,  e  docile  come  una  piccola  odalisca  che  si  può 
rigirare  come  si  vuole  nel  letto,  o  terribilmente  ingiusta  i  giorni 
in  cui  lei  avesse  voglia  di  essere  un  po'  infelice  per  causa  mia.  Oh, 
soltanto  quei  giorni,  sia  tranquillo...  I  quali  saranno  compensati 
dai  giorni  in  cui  sarò  materna  —  così  materna  da  riuscire  un  po' 
fastidiosa  —  i  giorni  del  foruncolo  o  del  mal  di  denti.  Infine  mi 
resteranno  da  fare  le  parti  della  borghese,  della  maleducata,  della 
pudibonda,  dell'ambiziosa,  dell'eccitata,  della  molle,  per  i  giorni 
vuoti. 

ORFEO  -  E  lei  crede  di  poter  rappresentare  tutte  queste  parti? 

EURIDICE  -  Sarà  ben  necessario,  caro,  per  tenerla,  che  lei  avrà  voglia 
di  tutte  le  donne... 

ORFEO  -  Ma  quand'è  che  sarà  se  stessa? 

EURIDICE  -  Fra  l'una  e  l'altra.  Quando  avrò  cinque  minuti  me  la 
sbroglierò. 

ORFEO  -  Sarà  una  vita  da  cani. 

EURIDICE  -  È  così  l'amore.  E  ancora  per  le  cagne  le  cose  sono  più 
facili.  Con  i  cani  basta  lasciarsi  fiutare  un  po'  e  poi  mettersi  a  trot- 
terellare distrattamente  per  alcuni  metri  con  l'aria  di  non  accor- 
gersi di  nulla.  Ma  gli  uomini  sono  tanto  più  complicati! 

ORFEO  {la  trae  a  sé  ridendo)  -  Temo  che  la  farò  soffrire  molto. 

EURIDICE  -  Oh  s{.  Io  sarò  tutta  piccola,  per  nulla  esigente.  Basterà  sol- 
tanto che  la  notte  mi  lasci  dormire  sulla  sua  spalla,  che  mi  tenga 
la  mano  tutto  il  giorno... 

ORFEO  -  A  me  piaceva  dormire  sul  dorso,  di  traverso.  E  mi  piacevano 
le  lunghe  passeggiate  solitarie... 

EURIDICE  -  Potremo  provare  a  metterci  di  traverso  l'uno  accanto  all'ai- 


340  JEAN   ANOUILH 

tra,  e  nelle  passeggiate  io  camminerò  stando  un  po'  indietro,  se 
vuole.  Ma  non  troppo.  Quasi  accanto  a  lei,  però.  Ma  Tamerò  tan- 
to, anche!  E  le  sarò  fedele,  tanto  fedele.  Bisognerà  soltanto  par- 
larmi continuamente,  per  non  lasciarmi  il  tempo  di  pensare  delie 
stupidaggini. 

ORFEO  (pensa  un  momento  in  silenzio  tenendola  fra  le  braccia)  -  Chi 
è  lei?  Mi  sembra  di  conoscerla  da  tanto  tempo. 

EURIDICE  -  Perche  chiedere  chi  siamo?  È  cosi  poco  importante  sapere 
chi  siamo! 

ORFEO  -  Chi  è  lei?  Ormai  è  troppo  tardi,  lo  capisco,  ed  io  non  posso 
più  lasciarla...  Lei  è  sorta  improvvisamente  in  questa  stazione.  Io 
ho  smesso  di  suonare  il  violino  ed  ora  Tho  qui  fra  le  mie  braccia. 
Chi  è  lei? 

EURIDICE  -  Nemmeno  io  so  chi  è  lei.  Eppure  non  ho  nessun  desiderio 
di  saperlo.  Mi  sento  bene,  non  chiedo  altro. 

ORFEO  -  Non  so  perché,  ma  ho  paura  che  mi  capiti  di  colpo  qualcosa 
di  triste. 

LA  RAGAZZA  {passa  sul  marciapiede)  -  Ma  come,  sei  ancora  lì?  Mattia 
ti  aspetta  nella  sala  d'aspetto  di  terza  classe.  Se  non  vuoi  avere 
ancora  delle  storie,  piccola  mia,  faresti  bene  ad  andare... 

ORFEO  {lasciando  Euridice)  -  Chi  è  questo  Mattia? 

EURIDICE  (rapida)  -  Nessuno,  caro. 

ORFEO  -  Son  tre  volte  che  vengono  a  dirle  che  la  cerca. 

EURIDICE  -  È  uno  della  compagnia.  È  nessuno.  Mi  cerca.  Ebbene  si, 
mi  cerca.  Ha  forse  qualcosa  da  dirmi. 

ORFEO  -  Chi  è  questo  Mattia? 

EURIDICE  (grida)  -  Io  non  l'amo,  caro,  non  l'ho  mai  amato! 

ORFEO  -  È  il  suo  amante? 

EURIDICE  -  Oh,  si  fa  presto  a  dire  le  cose,  a  dare  a  tutte  le  cose  lo 
stesso  nome.  Ma  preferisco  dirle  subito  la  verità  e  spontaneamente. 
Bisogna  che  tutto  sia  limpido  fra  di  noi.  Si,  è  il  mio  amante. 

(Orfeo  si  scosta) 

Oh!  non  si  allontani.  Avrei  voluto  tanto  poterle  dire:  sono  una 
bambina,  ho  aspettato  lei,  sarà  la  sua  mano  che  mi  toccherà  per 
la  prima  volta.  Ho  tanto  desiderato  dirglielo  che,  è  stupido,  mi 
sembra  che  sia  davvero  cosi. 

ORFEO  -  È  da  molto  tempo  il  suo  amante? 

EURIDICE  -  Non  so  più.  Forse  da  sei  mesi.  Non  l'ho  amato  mai. 

ORFEO  -  E  allora  perche? 

EURIDICE  -  Perché?  Oh,  non  mi  faccia  domande.  Quando  non  ci  si  co- 


EURIDICE  341 

nosce  ancora  bene,  quando  non  si  sa  tutto  Tuno  dell'altro,  e  non 
è  tutto  spiegato,  allora  le  domande  divengono  armi  terribili... 

ORFEO  -  Perché?  Vorrei  saperlo. 

EURIDICE  -  Perché?  Ebbene,  egli  era  infelice,  io  ero  stanca.  Ero  sola. 
Lui  mi  amava. 

ORFEO  -  E  prima? 

EURIDICE  -  Prima,  caro? 

ORFEO  -  Prima  di  lui. 

EURIDICE  -  Prima  di  lui? 

ORFEO  -  Non  ha  avuto  altri  amanti? 

EURIDICE  {ha  un'esitazione  impercettibile)  -  No,  mai. 

ORFEO  -  Allora  è  lui  che  le  ha  rivelato  l'amore?  Risponda.  Perché  ta- 
ce? Mi  aveva  detto  che  fra  noi  non  voleva  che  la  verità. 

EURIDICE  {grida  disperatamente)  -  Si,  caro,  ma  io  cerco  quello  che  le 
farà  meno  male!...  Che  sia  lui,  che  lei  forse  non  vedrà,  oppure  un 
altro,  molto  tempo  fa,  che  lei  non  avrà  mai  conosciuto... 

ORFEO  -  Non  si  tratta  di  sapere  quello  che  mi  farà  meno  male.  Si 
tratta  di  sapere  quello  che  è  vero. 

EURIDICE  -  Ebbene,  quando  ero  ancora  una  bambina,  un  uomo,  uno 
straniero  mi  ha  presa,  quasi  di  forza...  È  durata  qualche  settimana 
e  poi  è  ripartito. 

ORFEO  -  Lo  amava,  quello  lì? 

EURIDICE  -  Soffrivo,  avevo  paura,  avevo  vergogna. 

ORFEO  {dopo  un  momento  di  silenzio)  -  È  tutto? 

EURIDICE  -  Si,  caro.  Lo  vede,  era  una  cosa  tanto  stupida,  tanto  mise- 
revole, e  tanto  semplice. 

ORFEO  {sordamente)  -  Cercherò  di  non  pensare  mai  a  loro. 

EURIDICE  -  Si,  caro. 

ORFEO  -  Cercherò  di  non  immaginarmi  mai  il  loro  viso  presso  al  suo, 
i  loro  occhi  su  di  lei,  le  loro  mani  su  di  lei. 

EURIDICE  -  Si,  caro. 

ORFEO  -  Cercherò  di  non  pensare  mai  che  essi  l'abbiano  avuta  fra  le 
braccia,  {la  riprende  fra  le  braccia)  Ecco,  tutto  ricomincia.  Sono  io 
che  adesso  la  tengo. 

EURIDICE  {con  dolcezza)  -  Si  sta  bene  fra  le  sue  braccia.  Come  in  una 
casetta  ben  chiusa  in  mezzo  al  mondo,  una  casetta  dove  nessun 
altro  potrà  mai  piò  entrare.  {Orfeo  si  china  su  di  lei)  In  que- 
sto caffé? 

ORFEO  -  In  questo  caffé.  Io  che  arrossisco  quando  la  gente  mi  guarda, 
io  vorrei  che  questo  caffé  fosse  pieno  di  gente...  Saranno  ad  ogni 
modo  delle  belle  nozze.  Avremo  avuto  per  testimoni  la  cassiera, 


342  JEAN   ANOUILH 

il  cameriere  più  nobile  di  Francia,  e  un  piccolo  modesto  signore 
in  impermeabile  che  finge  di  non  vederci,  ma  che,  ne  sono  sicuro, 
ci  vede... 

{la  tacia.  il  giovane  in  impermeabile  che  era  restato  muto  in  fondo 
alla  scena,  si  alza  piano  e  viene  ad  appoggiarsi  ad  una  colonna  più 
vicino  a  loro.  Essi  non  lo  vedono.  Improvvisamente  Euridice  si 
scioglie  dair abbraccio) 

EURIDICE  -  Adesso  bisogna  che  mi  lasci.  Ho  ancora  qualcosa  da  fare. 
Non  mi  chieda  nulla.  Esca  un  minuto,  la  richiamerò. 

(accompagna  Orfeo,  poi  va  rapidamente  verso  la  porta  spalancata  sul 
marciapiede.  Si  ferma  e  resta  un  momento  immobile  sulla  soglia. 
Si  capisce  che  guarda  qualcuno  che  non  si  vede  e  che  la  guarda 
anche  lui  in  silenzio.  Poi  improvvisamente,  con  voce  dura,  grida: 
«  Entra!  ».  Mattia  avanza  lentamente  senza  smettere  di  guardarla. 
Si  ferma  sulla  soglia) 

EURIDICE  -  M'hai  vista?  L'ho  abbracciato.  Lo  amo.  Che  cosa  vuoi,  tu? 

MATTIA  -  Chi  è? 

EURIDICE  -  Non  lo  so. 

MATTIA  -  Sei  pazza. 

EURIDICE  -  Si,  sono  pazza. 

MATTIA  -  Da  otto  giorni  tu  mi  sfuggi. 

EURIDICE  -  Da  otto  giorni  ti  sfuggo,  si;  ma  non  per  lui,  lo  conosco 
da  un'ora  appena. 

MATTIA  (vede  negli  occhi  di  Euridice  qualcosa  che  lo  spaventa)  -  Che 
cosa  stai  per  dirmi? 

EURIDICE  -  Lo  sai,  Mattia. 

MATTIA  -  Euridice,  tu  sai  che  non  posso  vivere  senza  di  te. 

EURIDICE  -  Si,  Mattia,  l'amo. 

MATTIA  -  Tu  sai  che  preferisco  crepare  subito  piuttosto  che  continuare 
questa  vita  solo,  adesso  che  ti  ho  avuta  accanto  a  me.  Non  ti  chie- 
do nulla,  Euridice,  ti  chiedo  soltanto  di  non  lasciarmi  tutto  solo... 

EURIDICE  -  Io  l'amo,  Mattia. 

MATTIA  -  Ma  allora  non  sai  dirmi  altro? 

EURIDICE  (calma,  implacabile)  -  L'amo. 

MATTIA  (uscendo  di  furia)  -  Va  bene,  sarà  colpa  tua. 

EURIDICE  (correndogli  dietro)  -  Ascolta,  Mattia,  cerca  di  capire:  io  ti 
voglio  bene,  ma  l'amo... 

(sono  usciti.  Il  giovane  daìV impermeabile  li  segue  con  lo  sguardo,  poi 
esce  lentamente  anche  lui.  La  scena  resta  per  un  momento  vuota. 


EURIDICE  343 

Si  sente  il  suono  del  campanello  e  il  fischio  del  treno  in  lontanan- 
za, Orfeo  rientra  guardando  Euridice  e  Mattia  che  si  allontanano. 
Dietro  di  lui  irrompe  il  padre  con  la  sua  arpa) 

IL  PADRE  -  Arriva  il  treno,  figliolo.  Secondo  binario...  Vieni?  (ja  qual- 
che passo,  con  aria  distratta)  Di',  hai  pagato?  Mi  pare  che  sei 
stato  tu  ad  invitarmi. 

ORFEO  (calmo,  senza  guardarlo  in  faccia)  -  Non  parto,  papà. 

IL  PADRE  -  Perché  aspettare  sempre  Tultimo  momento?  Il  treno  sarà 
qui  fra  due  minuti  e  dobbiamo  attraversare  il  sottopassaggio.  Con 
Tarpa  faremo  appena  in  tempo. 

ORFEO  -  Non  prendo  questo  treno. 

IL  PADRE  -  Come  non  prendi  questo  treno?  E  perché  mai?  È  l'unico 
che  ci  possa  portare  questa  sera  a  Palavas. 

ORFEO  -  Allora  prendilo,  io  non  parto. 

IL  PADRE  -  Che  cos'è  questa  novità?  Che  ti  piglia? 

ORFEO  -  Ecco,  papà.  Io  ti  voglio  molto  bene,  so  che  hai  bisogno  di  me 
e  che  per  te  sarà  una  cosa  terribile,  ma  un  giorno  o  l'altro  doveva 
accadere:  io  ti  lascio... 

IL  PADRE  (come  se  cadesse  ddle  nuvole)  -  Che  dici? 

ORFEO  (mettendosi  a  gridare)  -  Tu  m'hai  capito  benissimo!  Non  te  lo 
fare  ripetere  per  dare  inizio  alla  commedia  patetica.  Non  tratte- 
nere il  respiro  per  impallidire,  non  cominciare  a  fingere  di  tre- 
mare e  di  strapparti  i  capelli!  Conosco  il  giuoco.  Ti  riusciva  quan- 
do ero  bambino.  Adesso  non  attacca  più.  (ripete  a  bassa  voce)  Do- 
vrò lasciarti,  papà. 

IL  PADRE  (cambiando  tattica  e  assumendo  i  modi  di  una  dignità  esa- 
gerata) -  Mi  rifiuto  di  ascoltarti,  ragazzo  mio.  Non  hai  la  testa 
a  posto.  Vieni. 

ORFEO  -  -\nche  la  dignità  sarà  inutile.  Ti  ripeto  che  conosco  tutti  i 
tuoi  trucchi. 

IL  PADRE  (esacerbato)  -  Oblia  i  miei  capelli  bianchi,  oblia  pure  i  miei 
capelli  bianchi!  Ci  sono  abituato.  Ma  ti  ripeto  che  mi  rifiuto  di 
ascoltarti.  È  chiaro? 

ORFEO  -  Bisogna  tuttavia  ascoltarmi  perche  non  hai  che  due  minuti  di 
tempo  per  capirmi. 

IL  PADRE  (ghigna  nobilmente)  -  Ah!  Ah! 

ORFEO  -  Non  ghignare  nobilmente,  ti  prego.  Ascoltami.  Dovrai  par- 
tire solo,  con  questo  treno.  È  la  sola  possibilità  che  ti  resta  di  avere 
il  posto  di  arpista  che  ti  hanno  offerto  a  Palavas-les-Flots. 

IL  PADRE  (stride)  -  Ma  l'ho  rifiutato,  quel  posto.  L'ho  rifiutato  per  te. 

ORFEO  -  Dirai  che  ci  hai  ripensato,  che  mi  abbandoni,  che  accetti.  Pro- 


344  JEAN   ANOUILH 

babilmente  Tortoni  non  ha  trovato  da  sostituirti.  È  un  tuo  amico. 
Ti  preferirà  agli  altri. 

IL  PADRE  {amaramente)  -  Ah,  si,  gli  amici,  i  figli,  le  cose  sacre.  Tutto 
ciò  un  bel  giorno  vi  scoppia  fra  le  mani.  Ne  so  qualcosa,  io. 
L'amicizia  di  Tortoni,  ah!  ah!  (ghigna  nobilmente) 

ORFEO  -  Credi  che  non  ti  darà  il  posto? 

IL  PADRE  -  Son  sicuro  che  me  lo  rifiuterà. 

ORFEO  -  Tuttavia  te  l'aveva  offerto. 

IL  PADRE  -  Me  l'aveva  offerto,  ma  ho  rifiutato.  Ha  sentito  profonda- 
mente l'affronto.  E  non  dimenticare  che  è  italiano,  gente  che  non 
perdona. 

ORFEO  -  Prendi  lo  stesso  il  treno,  papà.  Appena  sarai  partito,  telefonerò 
al  Casinò  di  Palavas.  Ti  assicuro  che  lo  convincerò  a  dimenticare 
il  tuo  rifiuto. 

IL  PADRE  (grida  con  una  forza  insospettata  in  un  corpo  cosi  debole)  - 
Giammai  ! 

ORFEO  -  Non  urlare.  Tortoni  non  è  cattivo.  Son  sicuro  che  mi  presterà 
ascolto. 

IL  PADRE  '  Giammai,  capisci!  Tuo  padre  non  si  umilierà  mai. 

ORFEO  -  Ma  sarò  io  ad  umiliarmi.  Dirò  che  la  colpa  è  stata  mia. 

IL  PADRE  -  No,  no.  (/'/  fischio  del  treno  si  fa  più  uiano.  Il  padre  si  pre- 
cipita nervosamente  sugli  involti)  11  treno,  il  treno,  figliolo.  Tron- 
chiamo questa  scena  penosa  che  mi  riesce  inesplicabile.  Seguimi, 
mi  spiegherai  in  treno. 

ORFEO  -  Non  posso  partire,  papà.  Forse  ti  raggiungerò  più  tardi. 

IL  PADRE  -  Ma  perché  venire  dopo?  Non  abbiamo  i  nostri  due  bi- 
glietti? 

(//  treno  fischia) 

ORFEO  -  Telefono  subito,  (si  avvicina  alla  cassa)  Signora,  posso  tele- 
fonare da  qui? 

IL  PADRE  (lo  raggiunge)  -  Ascolta,  figliolo,  non  telefonare  a  quell'in- 
dividuo. Preferisco  dirti  subilo  che  il  posto  di  arpista... 

ORFEO  -  Ebbene? 

IL  PADRE  -  Non  mi  è  stato  mai  offerto. 

ORFEO  -  Come? 

IL  PADRE  -  Dicevo  cosi  per  darmi  importanza  davanti  a  te.  Ero  io  che 
avevo  sentito  parlare  della  cosa.  L'avevo  supplicato  di  prendermi, 
ma  lui  ha  rifiutato. 

ORFEO  (dopo  un  momento  di  silenzio)  -  Capisco...  Pensavo  che  tu  po- 
tessi avere  quel  posto.  Peccato.  Sarebbe  stata  una  soluzione. 

(pausa) 


EURIDICE  345 

IL  PADRE  (sommessamente)  -  Io  sono  vecchio,  Orfeo... 
(U  treno  fischia  di  nuovo) 

ORFEO  {bruscamente,  con  una  specie  di  jebbre)  -  Prendi  lo  stesso  il 
treno,  te  ne  supplico,  papà;  parti  lo  stesso  per  Palavas-les-Flots;  ci 
sono  là  dei  caffé,  è  la  stagione,  son  sicuro  che  ti  guadagnerai  la 
vita. 

IL  PADRE  -  Soltanto  con  Tarpa...  Tu  scherzi! 

ORFEO  -  Ma  quello  che  colpiva  la  gente  era  soprattutto  Tarpa.  Non  è 
comune.  Il  violino  è  lo  strumento  di  tutti  i  mendicanti.  L*arpa, 
lo  dicevi  spesso  tu  stesso,  ci  dava  Taria  di  artisti. 

IL  PADRE  -  Si,  ma  tu  suonavi  bene  il  violino,  e  poi  le  donne  ti  vede- 
vano giovane,  piacente  ed  allora  davano  un  colpetto  al  gomito  dei 
loro  uomini  perché  mettessero  un  franco  nel  piattino.  Per  me  solo 
non  daranno  la  spintarella. 

ORFEO  (cerca  di  scherzare)  -  Ma  si,  papà,  le  donne  più  mature;  sai 
bene  che  sei  un  vecchio  don  Giovanni. 

IL  PADRE  (getta  uno  sguardo  sulla  cassiera  che  poco  fa  lo  ha  umiliato, 
dà  una  carezza  dia  testa  calva)  -  Oh,  detto  fra  noi,  un  vecchio  don 
Giovanni  per  serve  di  bettole  e,  per  di  più,  brutte. 

ORFEO  -  Tu  esageri,  papà,  tu  hai  ancora  molti  successi. 

IL  PADRE  '  Quelli  che  ti  racconto  io,  ma  le  cose  non  sono  sempre  esat- 
tamente come  le  racconto  io...  E  poi,  non  te  Tavevo  mai  detto  —  che 
vuoi,  sono  io  che  ti  ho  formato,  avevo  il  mio  orgoglio  di  padre  — 
...  non  so  se  te  ne  sei  già  accorto,  io...  io  Tarpa  la  suono  molto  male. 

(un  silenzio  terribile;  Orfeo  abbassa  la  testa,  ma  non  può  trattenere 
un  sorriso) 

ORFEO  -  È  difficile  non  accorgersene,  papà. 
IL  PADRE  -  Vedi?  Lo  dici  tu  stesso... 

(una  pausa.  Il  treno  fischia  da  vicino) 

ORFEO  (lo  scuote)  -  Papà,  non  posso  fare  nulla  per  te.  Fossi  ricco,  ti 
darei  del  denaro,  ma  non  ne  ho.  Va'  a  prendere  il  treno,  tieni  per 
te  tutto  quello  che  avevamo  e  buona  fortuna.  Non  posso  darti  altro. 

IL  PADRE  -  Un  momento  fa  tu  dicevi  che  non  potevi  lasciarmi. 

ORFEO  -  Era  così  poco  fa,  ma  ora  lo  posso.  (//  treno  entra  in  stazione) 
Ecco  il  treno.  Sbrigati,  prendi  Tarpa. 

IL  PADRE  (che  resiste  ancora)  -  Hai  incontrato  qualcuno,  e  vero? 

ORFEO  -  Si,  papà. 

IL  PADRE  -  La  piccola  che  poco  fa  è  venuta  a  chiedermi  chi  suonava  il 
violino,  vero? 


346  JEAN   ANOUILH 

ORFEO  (in  ginocchio  davanti  alle  t/olige)  -  Sf,  papà,  (toglie  alcuni  og- 
getti da  una  valigia  e  li  passa  nelVdtra) 

IL  PADRE  -  Ho  fatto  quattro  chiacchiere  con  quella  gente.  Sai  che  è 
un'attricetta  di  una  compagnia  da  nulla,  che  recita  nei  baracconi. 
Quella  donnina  ti  spennerà. 

ORFEO  -  Si,  papà,  fa'  presto... 

IL  PADRE  {anche  lui  in  ginocchio  a  frugare  nelle  valige)  -  E  dire  che 
ti  avevo  trovato  una  ragazza  stupenda,  scultorea,  primo  premio 
del  Conservatorio  di  Marsiglia,  dal  profilo  greco.  Una  pianista I 
Avremmo  fatto  un  trio.  Io  mi  sarei  messo  al  violoncello...  Non 
avrei  mai  immaginato  una  cosa  simile  da  te,  Orfeo... 

ORFEO  -  Nemmeno  io,  papà,  fa'  presto. 

IL  PADRE  -  Ti  maledico!  La  pagherai  cara! 

ORFEO  -  Si,  papà. 

IL  PADRE  {si  alza)  '  Ridi,  ridi,  ho  un  biglietto  della  lotteria,  posso  di- 
ventare ricco  da  un  giorno  all'altro,  e  tu  non  avrai  nulla. 

ORFEO  {ride  suo  malgrado,  lo  prende  per  le  spalle)  -  Papà  mio,  mio 
vecchio  papà,  mio  tremendo  papà,  io  ti  voglio  molto  bene,  mal- 
grado tutto,  ma  non  posso  più  nulla  per  te. 

l'altoparlante  -  I  viaggiatori  per  Béziers,  Montpellier,  Séte,  Palavas- 
les-Flots,  in  carrozza. 

ORFEO  -  Presto,  finirai  per  perdere  il  treno.  Hai  l'arpa  e  la  valigia 
grande?  Io  ho  duecento  franchi.  Prendi  per  te  tutto  il  resto. 

IL  PADRE  {i^un  tratto)  -  Credi  che  mi  rimborseranno  il  tuo  biglietto? 

ORFEO  {abbracciandolo)  -  Non  so.  Sono  felice,  papà.  Ti  voglio  bene. 
Ti  scriverò.  Dovresti  essere  un  po'  contento  di  vedermi  felice,  ho 
tanto  desiderio  di  vivere! 

IL  PADRE  {che  va  raccogliendo  i  fagotti)  -  Non  ce  la  farò  a  portare 
tutto  da  solo. 

ORFEO  -  Ti  aiuterò.  Prenderai  un  facchino. 

IL  PADRE  {lancia  dalla  soglia  una  specie  di  ridicola  maledizione  fa- 
cendo cadere  una  parte  dei  fagotti)  -  Tu  abbandoni  tuo  padre  per 
una  donnina,  per  una  donnina  che  forse  non  t'ama  nemmeno! 

ORFEO  {grida  anche  lui  seguendolo)  -  Io  sono  felice,  papà. 

VOCI  dall'esterno  -  In  carrozza,  in  carrozza. 

IL  PADRE  -  £  per  me  sarà  la  fine. 

ORFEO  {lo  spinge)  -  Presto,  presto,  papà. 

{fischi,  rumori  di  portiere,  soffi  di  vapori,  il  treno  si  mette  in  moto. 
Entra  Euridice  con  una  piccola  valigia  e  va  a  sedersi  in  un  angolo, 
Orfeo  ritorna,  va  verso  di  lei,  che  lo  guarda) 

ORFEO  -  Ecco,  è  fatto. 


EURIDICE  347 

EURIDICE  (con  voce  strana)  -  Anch'io.  È  fatto. 

ORFEO  (china  la  testa)  -  Le  chiedo  scusa.  È  un  po'  ridicolo.  Era  mio 
padre. 

EURIDICE  -  Non  c'è  bisogno  di  chiedermi  scusa.  La  signora  che  poco 
fa  tubava  amorosamente  era  mia  madre.  Non  avevo  osato  dir- 
glielo. 

(sono  uno  di  fronte  all'altro  e  si  sorridono  con  dolcezza) 

ORFEO  -  Ho  piacere  che  anche  lei  abbia  dovuto  arrossire.  È  un  po'  co- 
me se  fossimo  fratelli. 

EURIDICE  (sorride)  -  Mi  sembra  di  vederla  bambino  a  trottare  dietro 
di  lui  con  il  suo  violino. 

ORFEO  -  Aveva  un  posto  in  un'orchestra,  ma  mi  faceva  già  suonare  nel- 
le terrazze  dei  caffè,  tra  i  tavoli.  Un  giorno  una  guardia  ci  portò 
via.  Papà  gridava  che  era  cugino  di  un  ministro,  che  la  cosa  sa- 
rebbe finita  male,  la  guardia  rideva,  io,  che  avevo  dieci  anni,  pian- 
gevo, mi  vergognavo,  credevo  che  sarci  finito  in  galera. 

EURIDICE  (con  le  lagrime  agli  occhi)  -  Oh,  caro,  ed  io  non  ero  con  lei! 
L'avrei  preso  per  mano,  sarei  venuta  con  lei,  le  avrei  spiegato  che 
la  cosa  non  era  tanto  grave.  A  dieci  anni  io  sapevo  già  tutto. 

ORFEO  -  Allora  suonava  il  trombone.  Ha  provato  tutti  gli  strumenti, 
il  poveretto,  senza  successo.  Io  dicevo  alla  porta  «  Sono  il  figlio  del 
trombone  »  e  mi  lasciavano  entrare  nel  cinema.  Erano  belli  «  I 
Misteri  di  New  York  »  !... 

EURIDICE  -  E  «  La  Maschera  dai  denti  bianchi  »,  quando,  al  quarto 
episodio^  non  se  ne  poteva  più  dall'angoscia...  Oh,  come  avrei  vo- 
luto essere  accanto  a  lei,  su  quelle  dure  poltroncine...  Avrei  voluto 
mangiare  mandarini  con  lei,  negli  intervalli,  chiederle  se  il  cugino 
di  Pearl  White  era  davvero  un  traditore  e  che  cosa  potesse  mai 
pensare  il  Cinese...  Oh,  avrei  voluto  essere  bambina  con  lei.  Che 
peccato! 

ORFEO  -  Tutto  ciò  è  passato  adesso  e  non  possiamo  farci  nulla.  T  man- 
darini sono  sbucciati,  i  cinema  ridipinti  e  l'eroina  sarà  divenuta 
vecchia. 

EURIDICE  (a  bassa  voce)  -  Non  è  giusto... 

(suono  del  campanello,  un  fischio  di  treno  in  arrivo) 

l'altoparlante  -  I  viaggiatori  per  Tolosa,  Béziers,  Carcassona,  bi- 
nario 7.  Il  treno  entra  in  stazione. 

UN  ALTRO  ALTOPARLANTE  (pili  lontano)  -  I  viaggiatori  per  Tolosa,  Bé- 
ziers, Carcassona,  binario  7.  Il  treno  entra  in  stazione. 

(dalla  porta  spalancata  sul  marciapiede  passano  gli  attori  con  le  valige) 


348  JEAN    ANOUILH 

LA  PRIMA  RAGAZZA  -  Pfcsto,  piccola.  Aiicora  una  volta  dovremo  viag- 
giare in  piedi.  Ma  naturalmente  le  stelle  vanno  in  seconda.  Chi 
paga  il  supplemento,  di',  chi  paga  il  loro  supplemento? 

LA  SECONDA  (pTOsegucndo  il  suo  racconto)  -  E  allora  sai  che  cosa  mi 
rispose  lei?  Mi  rispose:  non  me  n'importa  nulla,  ho  la  mia  posi- 
zione da  difendere... 

(son  passate.  Passano  la  madre  e  Vincenzo  sovraccarichi  di  cappel- 
liere e  di  valige) 

LA  MADRE  -  Vinccnzo,  gatto  mio,  la  valigia  grande  e  la  cappelliera 

verde? 
vmcENZo  -  Le  ho  io.  Va'  avanti. 
LA  MADRE  -  Fa'  attenzione,  la  cinghia  non  regge.  Ciò  mi  ricorda  quel 

che  ci  accadde  un  giorno  a  Buenos  Aires.  La  cappelliera  di  Sara 

si   apre   in  mezzo  alla   stazione.  Piume  di   struzzo  fin   sopra  ai 

binari... 

{son  passati.  Passa  un  omone  che  sbuffa  e  grida  e  qualcuno  che  lo 
segue) 

DULAc  -  Presto,  Dio  bono,  presto.  E  controlla  il  carico  sul  bagagliaio, 

pezzo  d'asino!  Sali  in  coda.  Noi  siamo  tutti  in  testa. 
EURIDICE  (piano)  '  Ecco  tutti  i  personaggi  della  mia  vita  che  passano. 

(affannato  e  impacciato,  comico,  pietoso,  passa  infine  il  piccolo  segre- 
tario trascinando  troppe  valige  e  troppi  pacchi  che  cadono  da  ogni 
parte.  Gridi  lontani,  fischi  piti  vicini  del  treno) 

EURIDICE  (a  bassa  voce)  -  Chiuda  la  porta.  (Orfeo  va  a  chiudere  la 
porta.  Silenzio  improvviso)  Ecco.  Adesso  siamo  soli  al  mondo. 

(Orfeo  è  tornato  lentamente  verso  di  lei.  Fracasso  del  treno  che  entra 
in  stazione,  e  poi  un  grido,  un  grido  che  diventa  clamore,  si  gonfia, 
è  seguito  da  un  terribile  silenzio.  La  cassiera  s'è  alzata  e  cerca  di 
vedere^ 

IL  CAMERIERE  (attravcrsa  di  corsa  la  scena  e  grida  correndo)  -  Qualcu- 
no s'è  gettato  sotto  il  treno,  un  giovane! 

(della  gente  passa  di  corsa  sul  marciapiede.  Orfeo  ed  Euridice  sono  di 
fronte  e  non  osano  guardarsi,  senza  dire  nulla.  Il  giovane  dall'im- 
permeabile, entra,  richiude  la  porta,  li  guarda) 

EURIDICE  (sommessamente)  -  Non  potevo  farci  nulla.  Ti  amavo  e  non 
l'amavo. 


EURIDICE  349 

{una  pausa.  Guardano  nel  vuoto.  Il  giovane  dalV impermeabile  si  è  av- 
vicinato) 

IL  GIOVANE  (con  vocc  neutra,  senza  cessare  di  guardarli)  -  S'è  gettato 
sotto  la  locomotiva.  L'urto  stesso  ha  dovuto  ucciderlo. 

EURIDICE  -  Che  orrore! 

IL  GIOVANE  -  No.  Ha  scelto  uno  dei  modi  migliori.  Il  veleno  è  lento 
e  fa  soffrire  molto.  E  poi  si  vomita,  ci  si  contorce,  è  sporco.  È 
come  per  i  barbiturici:  c'è  gente  che  crede  che  sarà  soltanto  un  ad- 
dormentarsi. Che  illusione!  Si  muore  fra  singulti  e  cattivi  odori. 
(si  avvicina,  tranquillo,  sorridendo)  Mi  credano...  la  cosa  più  facile 
quando  si  è  ben  stanchi,  quando  si  è  molto  camminato  con  la  stessa 
idea  fissa,  è  di  lasciarsi  scivolare  nell'acqua  come  in  un  letto...  Un 
attimo,  in  cui  ci  si  sente  soffocare,  con  un  gran  lusso  di  immagini 
del  resto,  e  poi  è  il  sonno,  finalmente! 

EURIDICE  -  Non  avrà  sofferto  molto? 

IL  GIOVANE  (pianamente)  -  Non  si  ha  mai  male  quando  si  muore,  si- 
gnorina. La  morte  non  fa  mai  soffrire.  La  morte  è  dolce...  Quel 
che  fa  soffrire,  con  certi  veleni,  con  certe  maldestre  ferite,  è  la  vita, 
il  resto  della  vita.  Bisogna  darsi  alla  morte  con  fiducia,  come  ad 
un'amica.  Un'amica  dalla  mano  delicata  e  forte. 

(Orfeo  ed  Euridice  si  stringono  l'uno  all'altra) 

EURIDICE  (a  voce  bassa,  come  per  dare  una  spiegazione)  -  Non  poteva- 
mo fare  diversamente.  Noi  ci  amiamo. 

IL  GIOVANE  -  Lo  so.  Vi  ho  ascoltati  poco  fa.  Un  bel  giovane  ed  una 
bella  ragazza!  e  pronti  a  fare  il  giuoco  senza  barare,  fino  in  fondo, 
senza  le  piccole  concessioni  alla  comodità  o  alla  facilità  che  fanno 
gli  amanti  vecchi  e  prosperi.  Due  piccoli  animali  coraggiosi,  dalle 
ntembra  agili  e  con  lunghi  denti,  disposti  a  battersi  fino  all'alba, 
come  si  deve,  e  a  cadere  feriti  insieme. 

EURIDICE  (mormora)  -  Ma,  signore,  noi  non  la  conosciamo. 

IL  GIOVANE  -  Ma  io  vi  conosco.  E  sono  lietissimo  di  quest'incontro.  Par- 
tirete insieme?  Non  c'è  più  che  un  treno  questa  sera,  il  treno  di 
Marsiglia.  Lo  prenderemo  insieme,  forse? 

ORFEO  -  Certamente. 

IL  GIOVANE  -  Anch'io  vado  laggiù.  Avrò  forse  il  piacere  di  incontrarvi. 

(saluta  ed  esce,  Orfeo  ed  Euridice  si  volgono  l'uno  verso  l'altra.  Sono 
in  piedi,  piccoli  in  mezzo  alla  grande  sala  deserta) 

ORFEO  (con  dolcezza)  -  Amore  mio. 
EURIDICE  -  Amore  mio  caro. 


350  JEAN   ANOUILH 

ORFEO  -  Ecco  la  Storia  che  comincia... 

EURIDICE  -  Ho  paura  un  po'...  Sei  buono?  Sei  cattivo?  Come  ti  chiami? 

ORFEO  -  Orfeo.  E  tu? 

EURIDICE  -  Euridice. 


ATTO    SECONDO 

Una  camera  in  un  albergo  di  provincia,  grande,  scura  e  sporca...  soffitti  troppo 
alti  perduti  nell'ombra.  Doppie  tende  polverose,  un  grande  letto  di  ferro,  un 
paravento,  una  luce  avara,  orfeo  ed  Euridice  sono  coricati  vestiti  sul  letto. 

ORFEO  -  E  dire  che  tutto  ciò  poteva  non  avvenire...  Sarebbe  bastato  che 
tu  fossi  passata  a  destra  ed  io  a  sinistra.  Sarebbe  bastato  meno:  il 
volo  di  un  uccello,  il  grido  di  un  ragazzo  che  ti  avesse  fatto  voltare 
la  testa  un  attimo,  ed  io  sarei  adesso  a  grattare  il  violino  al  caffé  di 
Perpignano  in  compagnia  di  papà. 

EURIDICE  -  Ed  io  a  recitare  questa  sera  Le  Due  Orfanelle,  Siamo  io  e 
la  mamma  le  due  orfanelle. 

ORFEO  -  Questa  notte  pensavo  a  tutte  le  fortunate  combinazioni  che  ci 
sono  state  necessarie.  Pensavo  a  quel  ragazzino  e  a  quella  bambina 
che  non  si  conoscevano  e  che  un  bel  giorno,  molti  anni  fa,  si  sod 
messi  in  cammino  verso  quella  stazione  di  provincia.  E  dire  che 
avremmo  potuto  non  riconoscerci,  sbagliare  il  giorno  o  la  stazione. 

EURIDICE  -  Oppure  incontrarci  quando  eravamo  troppo  piccini  con  dei 
genitori  che  ci  avrebbero  preso  per  mano  e  trascinati  via  a  forza. 

ORFEO  -  Ma  per  fortuna  non  ci  siamo  sbagliati  né  di  un  giorno  né  di 
un'ora.  Non  siamo  stati  in  ritardo  nemmeno  una  volta  durante 
tutto  questo  lungo  viaggio.  Ah,  siamo  stati  molto  bravi! 

EURIDICE  -  Si,  caro. 

ORFEO  {sicuro  e  bonario)  -  Tutti  e  due,  noi  siamo  terribilmente  più 
forti  di  tutto. 

EURIDICE  (con  un  sorriso)  -  Turco  mio!  Tuttavia  ieri  avevo  molta  paura 
quando  sei  entrato  in  questa  camera. 

ORFEO  -  Ieri  non  eravamo  ancora  più  forti  di  tutto.  Non  volevo  che  il 
nostro  amore  fosse  alla  mercé  di  quest'ultima  piccola  prova. 

EURIDICE  (con  dolcezza)  -  Vi  sono  cose  al  mondo  che  non  si  vorrebbe- 
ro e  che  tuttavia  sono  là,  tranquille,  enormi,  come  il  mare. 

ORFEO  -  Quando  si  pensa  che  ieri,  uscendo  da  questa  camera,  avremmo 
potuto  non  essere  più  nulla  l'uno  per  l'altro,  nenuneno  un  fratello 


EURIDICE  351 

e  una  sorella,  come  in  questo  momento,  ma  soltanto  due  nemici 
sorridenti,  distaccati  e  cortesi  che  parlano  di  cose  indifferenti.  Oh, 
io  detesto  l'amore. 

EURIDICE  -  Zitto,  non  bisogna  dirlo... 

ORFEO  -  Ora  almeno  conosciamo,  sappiamo  il  peso  della  nostra  testa 
addormentata,  il  suono  del  nostro  riso.  Ora  abbiamo  dei  ricordi  per 
difenderci. 

EURIDICE  -  Tutta  una  sera,  un'intera  notte,  un  giorno  intero,  come 
siamo  ricchi  I 

ORFEO  -  Ieri  non  avevamo  nulla,  non  sapevamo  nulla  e  siamo  entrati  a 
caso  in  questa  camera  sotto  gli  occhi  di  quel  terribile  cameriere  baf- 
futo che  pensava  che  avremmo  fatto  l'amore.  E  cominciammo  a 
spogliarci  rapidamente,  stando  in  piedi  l'uno  di  fronte  all'altro... 

EURIDICE  -  Tu  gettavi  i  vestiti  per  terra  come  un  pazzo  furioso... 

ORFEO  -  Tu  tremavi,  non  riuscivi  a  disfare  i  gancetti  del  tuo  vestito  e  li 
strappavi  mentre  io  ti  guardavo  senza  fare  un  gesto.  E  poi,  quando 
fosti  nuda,  hai  avuto  improvvisamente  vergogna. 

EURIDICE  (china  il  capo)  -  Ho  pensato  che  io,  oltre  a  tutto,  dovevo  es- 
sere anche  bella  e  non  mi  sentii  piti  sicura... 

ORFEO  -  Restammo  a  lungo  in  piedi,  senza  osare  una  parola  o  un  gesto.. 
Oh,  eravamo  troppo  poveri,  troppo  nudi,  ed  era  troppo  ingiusto 
esser  costretti  a  rischiare  cosf,  tutto  in  una  volta,  compresa  la  tene- 
rezza che  mi  aveva  preso  alla  gola  alla  vista  della  bollicina  che 
avevi  sulla  spalla. 

EURIDICE  -  E  poi  tutto  divenne  cosi  facile... 

ORFEO  -  Tu  hai  appoggiata  la  testa  su  di  me  e  ti  sei  addormentata.  Ed 
io,  io  mi  sentivo  diventare  forte  tutto  d'un  colpo,  forte  di  tutto  il 
peso  della  tua  testa.  Mi  sembrava  che  noi  fossimo  sdraiati  nudi  su 
una  spiaggia  e  che  la  mia  tenerezza  fosse  una  marea  che  saliva  ri- 
coprendo lentamente  i  nostri  corpi...  Come  se  fossero  state  necessa- 
rie quella  nostra  lotta  e  quella  nudità  sopra  un  letto  disfatto  perché 
potessimo  divenire  davvero  due  piccoli  fratelli. 

EURIDICE  -  Oh,  caro,  tu  pensavi  tutto  ciò  e  mi  lasciavi  dormire... 

ORFEO  -  Tu  dicevi  in  sogno  ben  altre  cose  alle  quali  io  non  potevo  ri- 
spondere... 

EURIDICE  -  Ho  parlato?  Parlo  sempre  dormendo.  Non  hai  ascoltato, 
spero. 

ORFEO  [sorride)  -  Si  che  ho  ascoltato. 

EURIDICE  -  Vedi  come  sei  traditore?  Invece  di  dormire  onestamente 
come  me,  mi  spii.  Come  vuoi  che  io  sappia  quel  che  dico  quando 
dormo? 


352  JEAN   ANOUILH 

ORFEO  -  Ho  capito  solo  tre  parole.  Hai  fatto  un  grande  sospiro,  hai 
contratto  un  pò*  la  bocca  ed  hai  detto:  Com'è  difficile! 

EURIDICE  (ripete)  -  Com'è  difficile... 

ORFEO  -  Che  cosa  era  tanto  difficile? 

EURIDICE  (resta  un  momento  senza  rispondere,  poi  scuote  la  testa  e 
dice  con  la  sua  voce  gracile)  -  Non  so,  caro,  sognavo. 

(si  bussa  alla  porta.  È  il  cameriere  che  entra  subito.  Ha  grossi  baffi 
grigi  e  Varia  bizzarra) 

IL  cameriere  -  Il  signore  ha  suonato? 

ORFEO  -  No. 

IL  CAMERIERE  -  Ah,  credevo  che  il  signore  avesse  suonato,  (esita  un 
istante,  poi  esce  dicendo)  Scusi,  signore. 

EURIDICE  -  Tu  credi  che  siano  veri? 

ORFEO  -  Che  cosa? 

EURIDICE  -  Quei  baffi. 

ORFEO  -  Certamente.  Sembrano  falsi.  Non  ci  sono  che  le  barbe  fìnte 
che  abbiano  l'aria  di  essere  vere,  è  noto. 

EURIDICE  -  Non  ha  l'aria  nobile  del  nostro  cameriere  della  stazione. 

ORFEO  -  Quello  della  Commedia  Francese?  Era  nobile,  ma  convenzio- 
nale. E,  in  fondo,  sotto  quell'aria  imponente,  era  un  molle.  Ti  as- 
sicuro che  questo  qui  ha  più  mistero. 

EURIDICE  -  Si,  troppo.  Non  mi  piace  la  gente  che  ha  troppi  misteri. 
Questo  mi  fa  un  po'  paura.  E  a  te? 

ORFEO  -  Un  po',  non  osavo  dirtelo. 

EURIDICE  (stringendosi  a  lui)  -  Ah,  caro,  stringiamoci  forte!  Per  fortu- 
na siamo  in  due. 

ORFEO  -  Abbiamo  già  tanti  personaggi  nella  nostra  storia...  Due  came- 
rieri di  caffé,  uno  nobile  fiacco  e  l'altro  baffuto  bizzarro,  la  cassiera 
e  i  suoi  enormi  seni... 

EURIDICE  -  Peccato  che  non  ci  abbia  detto  nulla  la  bella  cassiera! 

ORFEO  -  In  tutte  le  storie  vi  sono  personaggi  muti.  Essa  non  ci  ha  detto 
nulla,  ma  ci  guardava  continuamente  e  se  per  noi  non  fosse  ormai 
muta  per  l'eternità,  vedresti  tutto  quello  che  ci  racconterebbe  di 
noi... 

EURIDICE  -  E  l'impiegato  della  stazione? 

ORFEO  -  Il  balbuziente? 

EURIDICE  -  Si,  il  caro  piccolo  balbuziente.  Com'era  piccolo  e  grazioso. 
Si  aveva  voglia  di  prenderlo  per  mano  e  di  portarselo,  con  la  sua 
grossa  catena  d'orologio  e  con  il  suo  bel  berretto,  a  mangiare  dolci 
dal  pasticciere. 

ORFEO  -  Ti  ricordi  come  ci  ha  snocciolato  tutte  le  stazioni  dove  non 


EURIDICE  353 

dovevamo  cambiare  per  farci  capire  senza  possibilità  di  errori  quel- 
la dove  bisognava  cambiare? 

EURIDICE  -  Caro  piccolo  balbuziente!  Ci  ha  portato  sicuramente  fortu- 
na. Ma  l'altro,  l'orribile,  il  volgare,  il  controllore... 

ORFEO  -  Ah,  l'idiota!  Quello  che  non  voleva  capire  che  con  un  biglietto 
di  seconda  classe  per  Perpignano  e  un  altro  biglietto  di  seconda 
classe  per  Avignone,  noi  volevamo  due  supplementi  di  seconda  per 
Marsiglia? 

EURIDICE  -  Si,  quello.  Com'era  brutto  quello,  com'era  stupido  con  la 
sua  volgarità,  con  la  sua  presunzione  e  le  sue  grosse  sporche  gote 
ben  rasate  e  rosse  sul  colletto  di  celluloide. 

ORFEO  -  È  il  nostro  primo  personaggio  ignobile.  11  nostro  primo  tradi- 
tore. Ne  avremo  altri,  vedrai...  È  piena  di  traditori,  una  storia  felice. 

EURIDICE  -  Ma  quello  là  io  lo  rifiuto.  Lo  licenzio.  Gli  dirai  che  lo  li- 
cenzio. Non  voglio  un  simile  imbecille  nei  miei  ricordi  con  te. 

ORFEO  -  Troppo  tardi,  mia  cara,  non  possiamo  più  licenziare  nessuno. 

EURIDICE  -  Allora  per  tutta  la  nostra  vita  quell'omaccio  sporco  e  soddi- 
sfatto farà  parte  del  nostro  primo  giorno? 

ORFEO  -  Per  tutta  la  nostra  vita. 

EURIDICE  -  E  l'orribile  vecchia  vestita  di  nero  alla  quale  ho  fatto  una 
boccaccia,  quella  che  si  arrabbiava  con  la  sua  servetta  magra,  resterà 
sempre  anche  lei? 

ORFEO  -  Sempre,  accanto  alla  ragazzina  che  aveva  sempre  gli  occhi  su 
di  te,  accanto  al  grosso  cane  che  voleva  seguirti  ad  ogni  costo,  a 
tutti  i  nostri  personaggi  amabili. 

EURIDICE  -  Tu  credi  che  non  si  potrebbe  conservare  il  ricordo  di  un 
primo  giorno  soltanto  con  il  grosso  cane,  la  ragazzina,  le  zingare 
che  la  sera  danzavano  in  piazza  sui  trampoli,  e  il  caro  piccolo 
balbuziente,  per  esempio?  Sei  sicuro  che  non  si  possono  eliminare 
i  cattivi  personaggi  e  conservare  soltanto  i  buoni? 

ORFEO  -  Sarebbe  troppo  bello. 

EURIDICE  -  Tu  credi  che  non  si  possa  nemmeno  provare  ad  immagi- 
narli un  po'  meno  brutti  almeno  per  quel  primo  giorno...  Fare  il 
controllore  un  po'  meno  soddisfatto  di  se  stesso,  la  sporca  signora 
borghese  un  po'  meno  acida  e  un  po'  meno  ipocrita...  oppure  fare 
la  servetta  un  po'  grassa,  che  le  borse  delle  provviste  le  pesino 
meno? 

ORFEO  -  Impossibile.  Ormai  sono  entrati,  i  buoni  come  i  cattivi.  Han- 
no fatto  la  loro  piccola  piroetta,  pronunciato  le  loro  tre  parole  nella 
tua  vita...  E  restano  cosi  in  te,  per  sempre. 

{una  pausa) 


Teatro  francese 


354  JEAN   ANOUILH 

EURIDICE  {bruscamente)  -  Allora,  supponiamo,  se  si  son  viste  molte 
cose  sporche  nella  nostra  vita,  esse  restano  tutte  in  noi? 

ORFEO  -  Si. 

EURIDICE  •  Bene  allineate  le  une  accanto  alle  altre,  tutte  le  immagini 
sporche,  tutte  le  persone,  anche  quelle  che  si  sono  odiate,  anche 
quelle  che  si  son  fuggite?  £  tutte  le  tristi  parole  udite,  credi  che 
restino  in  fondo  a  noi?  E  tutti  i  gesti  che  si  son  fatti,  credi  che  la 
mano  se  li  ricordi  sempre? 

ORFEO  -  Si. 

EURIDICE  -  Sei  sicuro  che  anche  le  parole  che  si  son  dette  senza  volerlo 
e  che  non  si  son  potute  mai  riprendere,  siano  ancora  sulla  nostra 
hocca  quando  si  parla? 

ORFEO  (cercando  di  abbracciarla)  -  Ma  si,  matta  mia... 

EURIDICE  (scostandosi)  -  Aspetta,  non  mi  abbracciare.  Spiegami  piutto- 
sto. È  certo  quel  che  mi  hai  detto  o  sei  tu  che  credi  cosf?  L'hanno 
detto  altri? 

ORFEO  -  Sicuro. 

EURIDICE  -  I  dotti?  Quelli  insomma  che  debbono  sapere  le  cose  ed  ai 
quali  si  può  credere? 

ORFEO  -  Si. 

EURIDICE  -  Ma  allora  non  si  è  mai  soli,  con  tutte  quelle  cose  attorno. 
Non  si  è  mai  sinceri,  nemmeno  quando  lo  si  vuole  con  tutte  le 
forze.  Se  tutte  le  parole  sono  là  e  tutti  gli  sporchi  scoppi  di  risa,  se 
tutte  le  mani  che  ci  hanno  toccato  sono  ancora  incollate  alla  nostra 
pelle,  allora  non  si  può  mai  divenire  un'altra? 

ORFEO  -  Ma  che  cosa  vai  dicendo? 

EURIDICE  -  E  tu  credi  che  non  cambierebbe  nulla  se,  fin  da  bambina, 
si  sapesse  che  un  giorno  si  avrà  bisogno  di  essere  tutta  pulita  e 
netta?  E  che  accade  quando  si  dicono  le  cose?  Quando  si  dice:  ho 
fatto  questo  gesto,  ho  pronunciato,  ascoltato  questa  parola,  ho  la- 
sciato qualcuno...  (si  ferma)  quando  quelle  cose  si  dicono  a  un  al- 
tro, all'uomo  che  si  ama,  per  esempio...  i  tuoi  dottori  pensano  che 
ciò  le  uccida  attorno    a  noi? 

ORFEO  -  Si.  Ciò  si  chiama  confessarsi.  Dopo,  sembra  che  si  è  lavati,  lim- 
pidi... 

EURIDICE  -  Ah,  e  ne  sono  proprio  sicuri? 

ORFEO  -  Lo  dicono. 

EURIDICE  (dopo  aver  riflettuto  un  istante)  -  Si,  si,  ma  se  per  caso  sba- 
gliassero o  se  avessero  detto  cosi  per  sapere  le  cose;  se  per  caso 
queste  continuassero  a  vivere  due  volte  più  forti,  due  volte  piò 
vive  per  essere  state  ridette,  se  per  caso  l'altro  non  sapesse  più  di- 


EURIDICE  355 

menticarle...  Tu  dirai  ai  tuoi  dottori  che  non  mi  fido  di  loro,  che 
io  credo  sia  meglio  non  dir  niente...  {Orfeo  la  guarda,  lei  se  ne  ac- 
corge e  aggiunge  subito  stringendosi  a  lui)  Oppure,  caro,  quando  le 
cose  sono  semplici,  come  ieri  per  noi,  dire  tutto,  certo,  come  ho 
fatto  io. 

(//  cameriere  bussa  ed  entra) 

IL  CAMERIERE  -  Il  signore  ha  suonato? 

ORFEO  -  No. 

IL  CAMERIERE  -  Ah,  chicdo  scusa.  {ja  un  passo  e  dice  dalla  soglia)  Vo- 
levo avvertire  il  signore  che  il  campanello  non  funziona;  se  il  si- 
gnore volesse  suonare,  è  meglio  che  mi  chiami. 

ORFEO  -  Va  bene. 

(pare  che  il  cameriere  voglia  uscire,  ma  cambia  parere,  attraversa  la 
camera,  va  a  provare  le  doppie  tende) 

IL  CAMERIERE  -  Le  doppie  tende  funzionano. 

ORFEO  -  Lo  vediamo. 

IL  CAMERIERE  -  Ho  delle  camere  in  cui  accade  il  contrario.  Il  campa- 
nello funziona  e  le  tende  no.  (fa  per  uscire)  Ma  se  eventualmente 
non  dovessero  funzionare,  il  signore  non  ha  che  da  suonare...  (si 
ferma)  cioè  da  chiamare,  dato  che,  come  dicevo  al  signore,  il  cam- 
panello... (fa  un  gesto  ed  esce) 

ORFEO  -  Ecco  il  nostro  primo  personaggio  strano.  Ne  avremo  altri. 
Questo  d'altronde  dev'essere  un  bravo  alvergnate  senza  malizia. 

EURIDICE  -  Oh  no!  Non  fa  che  guardarmi.  Non  hai  notato  che  non  fa- 
ceva che  guardarmi? 

ORFEO  -  Sogni. 

EURIDICE  -  L'altro  mi  piaceva  molto  di  più,  quello  della  Commedia 
Francese...  Si  sentiva  che  anche  nelle  tragedie  non  sarebbe  stato 
molto  pericoloso... 

(il  cameriere  bussa  ed  entra  di  nuovo.  Si  ha  la  precisa  impressione  che 
fosse  dietro  la  porta) 

IL  CAMERIERE  -  Chicdo  scusa,  ma  avevo  dimenticato  di  dire  al  signore 
che  la  direttrice  lo  prega  di  scendere  giù  per  completare  la  scheda 
dove  manca  qualcosa.  La  signora  deve  consegnarla  stasera  stessa. 

ORFEO  -  Desidera  che  scenda  subito? 

IL  CAMERIERE  -  Si,   SC   pOSsibilc. 

ORFEO  -  Va  bene,  vi  seguo,  (a  Euridice)  Intanto  cambiati  e  scenderemo 
per  pranzare. 

(il  cameriere  apre  la  porta  per  lasciar  passare  Orfeo  ed  esce  dopo  di 
lui.  Rientra  quasi  subito  e  va  verso  Euridice,  che  s'è  alzata) 


356  JEAN   ANOUILH 

IL  CAMERIERE  (porgendole  una  busta)  -  Ecco  una  lettera  per  lei.  Dovevo 
consegnarla  a  lei  sola.  La  signora  non  è  alla  cassa.  Ho  detto  una 
bugia.  L'albergo  ha  un  solo  piano.  Lei  ha  mezzo  minuto  per  leg- 
gerla. 

(resta  in  piedi  davanti  a  lei,  Euridice  ha  preso  la  lettera  tremando  un 
po',  Vapre,  la  legge,  la  fa  in  minuti  pezzi,  senza  che  il  suo  viso 
tradisca  nulla,  li  getta  nel  cestino) 

IL  CAMERIERE  -  Mai  nel  cestino,  (corre  al  cestino,  s'inginocchia  e  co- 
mincia a  raccogliere  i  pezzetti  di  carta  che  mette  nella  tasca  del 
grembiale)  Vi  conoscete  da  molto  tempo? 

EURIDICE  -  Da  un  giorno. 

IL  CAMERIERE  -  DÌ  solito<,  è  ancora  il  tempo  buono. 

EURIDICE  (piano)  -  Di  solito,  si. 

IL  CAMERIERE  -  Ne  ho  vìsti  passare,  in  questa  camera,  stesi  su  questo 
letto,  come  voi  poco  fa.  E  per  nulla  tutti  belli.  Troppo  grassi  o 
troppo  magri,  dei  mostri.  E  tutti  a  sbavare  dicendo  ((  il  nostro  amo- 
re ».  Talvolta,  quando  viene  la  sera  come  adesso,  mi  sembra  di  ve- 
derli tutti  insieme.  Un  vermicaio.  Ah,  non  è  bello  l'amore. 

EURIDICE  {impercettibilmente)  -  No. 

ORFEO  (rientrando)  -  Siete  ancora  qui? 

IL  CAMERIERE  -  No,  signoie.  Esco. 

ORFEO  -  La  padrona  non  era  giù. 

IL  CAMERIERE  -  Avrò  impiegato  troppo  tempo  nel  salire  le  scale  per 
avvertire  il  signore.  Si  vede  che  non  ha  avuto  la  pazienza  di  aspet- 
tare. Non  importa,  signore,  sarà  per  questa  sera. 

(//  guarda  ancora  ed  esce) 

ORFEO  -  Che  stava  a  fare  qui? 

EURIDICE  -  Nulla.  Mi  parlava  di  tutte  le  coppie  che  ha  visto  sfilare  in 
questa  camera. 

ORFEO  -  Allegro! 

EURIDICE  -  Dice  che  certe  volte  gli  sembra  di  vederle  tutte  insieme.  La 
camera  ne  formicola. 

ORFEO  -  E  sei  restata  ad  ascoltare  simili  sciocchezze? 

EURIDICE  -  Non  sono  forse  sciocchezze,  giacché  tu,  che  sai  tutto,  hai 
detto  che  tutti  i  personaggi  che  si  son  conosciuti  continuano  a  vi- 
vere nel  nostro  ricordo.  Forse  anche  la  camera  ricorda...  Tutti  quelli 
che  son  passati  qui  sono  ancora  attorno  a  noi,  abbracciati,  i  troppo 
grassi,  i  troppo  magri,  i  mostri. 

ORFEO  -  Matta  mia! 

EURIDICE  -  Il  letto  ne  è  pieno.  Son  brutti,  i  gesti. 


EURIDICE  357 

ORFEO  {cerca  di  condurla  via)  -  Andiamo  a  pranzo.  Le  strade  sono  già 
rosee  delle  prime  luci.  Andremo  a  mangiare  in  una  piccola  osteria 
profumata  d'aglio.  Anche  li  berrai  un  bicchiere  dove  hanno  bevuto 
mille  bocche,  e  i  mille  sederi  che  hanno  scavato  le  panche  di  tela 
cerata  ti  faranno  un  posticino  dove,  comunque,  starai  bene.  Andia- 
mo, vieni. 

EURIDICE  (resistendo)  -  Tu  ridi,  ridi  sempre.  Sei  forte,  tu. 

ORFEO  -  Da  ieri  sera!  Un  Turco!  Sci  tu  che  Thai  detto. 

EURIDICE  -  Si,  SI,  un  Turco  che  non  ascolta  nulla,  che  non  sente  nulla, 
che  è  ben  sicuro  di  sé  e  va  diritto.  Ah,  voi  potete  sentirvi  ben  leg- 
geri voialtri  —  si  —  adesso  che  mi  avete  resa  ben  pesante...  Voi 
dite  le  cose,  fate  rivivere,  quando  meno  lo  si  aspetta,  tutte  le  spor- 
che coppie  che  hanno  fatto  dei  gesti  fra  queste  quattro  mura,  ci 
impiastricciate  con  tutta  la  pece  di  vecchie  parole,  e  poi  non  ci  pen- 
sate più.  Poi  scendete  per  andare  a  mangiare  dicendo:  fa  bello,  si 
sono  accese  le  luci,  c'è  odore  d'aglio. 

ORFEO  -  Lo  dirai  anche  tu,  fra  un  minuto.  Vieni,  lasciamo  questa  ca- 
mera. 

EURIDICE  -  Per  me  non  fa  più  bello,  nulla  più  sa  di  buono.  Com'è  sta- 
to breve... 

ORFEO  -  Ma  che  cos'hai?  Tu  tremi. 

EURIDICE  -  Si,  tremo. 

ORFEO  -  Sei  tutta  pallida. 

EURIDICE  -  Si. 

ORFEO  -  E  che  occhi  hai!  Non  ti  ho  visto  mai  gli  occhi  cosi. 
{cerca  di  attirarla  a  sé.  Lei  si  scosta) 

EURIDICE  -  Non  mi  guardare.  Quando  mi  guardi  il  tuo  sguardo  mi 
tocca.  Si  direbbe  che  tu  m'abbia  messo  le  mani  addosso  e  che  tu  sia 
penetrato  tutto  ardente  in  me.  Non  mi  guardare. 

ORFEO  -  Da  ieri  non  faccio  che  guardarti. 

(la  trae  a  sé,  lei  cede,  vinta) 

EURIDICE  -  Tu  sei  forte,  sai.  Hai  l'aria  d'un  ragazzino  magro  e  sei  più 
forte  di  ogni  altra  cosa  al  mondo.  Quando  suoni  il  violino  come 
ieri  in  quella  stazione,  o  quando  parli,  io  mi  sento  come  un  piccolo 
serpente.  Non  mi  resta  che  strisciare  docilmente  verso  di  te. 

ORFEO  (la  stringe  nelle  braccia,  la  riscalda)  -  Vi  sentite  meglio,  piccolo 
serpente? 

EURIDICE  -  Certe  volte  tu  fai  silenzio  e  a  me  sembra  di  essere  libera 
come  prima.  Allora  mi  metto  a  tirare  il  filo  per  qualche  minuto 
con  tutte  le  mie  forze.  Ma  tu  riprendi  a  parlare,  il  filo  si  riavvolgc 


358  JEAN   ANOUILH 

attorno  al  rocchetto  ed  io  ritorno  verso  la  mia  trappola,  troppo  fe- 
lice... 
ORFEO  -  Tu  sei  un  piccolo  serpente  che  si  chiede  troppe  cose.  I  piccoli 

serpenti  debbono  riscaldarsi  al  sole,  bere  il  latte  e  fare  le  fusa, 

tranquilli. 
EURIDICE  (dolcemente)  -  Sono  i  piccoli  gatti  che  fanno  le  fusa. 
ORFEO  {accarezzandole  i  capelli)  -  Non  importa,  fa'  le  fusa,  io  ti  tengo. 
EURIDICE  -  Tu  sei  un  traditore.  Mi  gratti  dolcemente  la  testa  ed  io  mi 

addormento  al  tuo  buon  sole. 
ORFEO  -  £  mi  dici  «  è  difficile  ». 
EURIDICE  (grida  dVimprowiso,  staccandosi)  -  Caro! 
ORFEO  -  Ebbene? 

EURIDICE  -  Ho  davvero  paura  che  sia  troppo  difficile. 
ORFEO  -  Ma  che  cosa? 
EURIDICE  -  Il  primo  giorno  tutto  sembra  tanto  facile.  Il  primo  giorno 

basta  inventare.  Sei  sicuro  che  non  abbiamo  inventato  tutto? 
ORFEO  (le  prende  la  testa)  -  Io  son  sicuro  che  io  t*amo  e  che  tu  m'ami 

Sicuro  come  delle  pietre,  delle  cose  di  legno  e  di  ferro. 
EURIDICE  -  Si,  ma  forse  tu  m'hai  creduta  un'altra.  E  poi  quando  mi 

vedrai  in  faccia  come  sono... 
ORFEO  -  Da  ieri  ti  guardo  in  faccia,  ti  ascolto  parlare  quando  dormi. 
EURIDICE  -  Si,  ma  non  ti  ho  detto  molto.  E  se  stasera  mi  riaddormento 

e  dico  tutto? 
ORFEO  -  Tutto,  che  cosa? 
EURIDICE  -  Le  vecchie  parole  che  sono  restate  appiccicate,  le  vecchie 

storie.  Oppure  se  qualcuno,  uno  dei  personaggi,  venisse  a  dirti... 
ORFEO  -  Che  vuoi  che  vengano  a  dirmi  su  di  te?  Io  ti  conosco  meglio 

di  loro,  adesso. 
EURIDICE  -  Lo  credi? 

(cdza  la  testa  e  guarda  Orfeo,  che  continua  con  una  forza  gioiosa) 

ORFEO  -  Mio  piccolo  soldato,  dopo  tutto  un  giorno  che  ti  ho  sotto  i 
miei  ordini,  ti  conosco  bene.  Che  da  ieri  io  sono  stato  un  po'  odio- 
so, è  vero?,  a  fare  sempre  il  capitano.  «Presto,  ecco  il  treno.  Sali 
nell'ultimo  vagone.  Tieni  i  posti,  vado  a  cercare  dei  cuscini.  Sve- 
gliati. Siamo  a  Marsiglia.  Scendiamo.  Coraggio,  l'albergo  è  un  po' 
lontano,  ma  non  abbiamo  denaro  per  il  taxi...  ».  E  il  piccolo  sol- 
dato imbambolato,  con  gli  occhi  ancora  tutti  pesti  di  sonno  impu- 
gna le  sue  valige  con  un  buon  sorriso.  E,  uno  due  uno  due,  segue 
coraggiosamente  il  suo  capitano  nella  notte.  E  dire  che  avrei  potuto 
portare  con  me  una  qualche  signora  con  cappello  di  piume  e  con 
alti  tacchi  sonori.  Sarei  morto  di  paura  al  momento  di  chiedere  la 


EURIDICE  359 

camera.  £  nel  treno,  sotto  gli  occhi  di  tutti  quegli  uomini  che  fa- 
cevano finta  di  dormire  per  poterti  spogliare  a  loro  agio...  Chi  sa, 
l'altra  avrebbe  forse  sorrìso,  tirato  su  la  gonna  con  un  piccolo  gesto, 
abbandonato  la  testa,  contenta  di  tutto  quel  compartimento  che  la 
desiderava  fìngendo  di  dormire.  Ed  io  sarei  morto  di  vergogna... 
Ma  il  mio  silenzioso  fratellino  accanto  a  me  divenne  subito  di  le- 
gno. Scomparse  le  gambe,  misteriosamente  allungata  la  gonna,  se- 
polte le  mani:  una  rigida  piccola  mummia  senza  sguardo,  che  i 
fìnti  dormenti  delusi  si  misero  a  dimenticare,  russando  l'uno  dopo 
l'altro...  £  non  ti  ho  nemmeno  ringraziata. 

EURIDICE  {dolcemente,  a  testa  bassa)  -  Non  c*è  bisogno. 

ORFEO  -  Non  ti  ho  detto  grazie  nemmeno  per  il  tuo  coraggio. 

EURIDICE  (balbetta)  -  Il  mio  coraggio? 

ORFEO  -  Per  i  giorni,  che  non  si  faranno  aspettare,  in  cui  tu  lascerai 
passare  l'ora  del  pranzo  fumando  con  me  l'ultima  sigaretta,  una 
boccata  per  ciascuno.  Per  i  vestiti  che  fìngerai  di  non  vedere  nelle 
vetrine,  per  i  negozianti  sardonici,  per  i  padroni  d'albergo  diffi- 
denti, per  i  portinai.  Non  ti  ho  ringraziato  per  i  letti  da  rifare,  per 
le  camere  spazzate,  per  i  piatti  da  lavare,  per  le  mani  arrossate,  per 
il  guanto  che  si  buca,  per  l'odore  di  cucina  che  resta  nei  capelli. 
Per  tutto  quello  che  m'hai  donato  accettando  di  seguirmi.  {JEuri- 
dice  ascolta  con  la  testa  china)  Non  credevo  che  fosse  possibile  in- 
contrare un  giorno  l'amico  che  vi  accompagna,  serio  e  pronto,  che 
porta  il  suo  sacco  e  non  fa  nemmeno  sorrisi.  Il  piccolo  compagno 
silenzioso,  che  si  combina  in  tutte  le  salse,  e  che  la  sera  diviene 
accanto  a  voi  la  donna  bella  e  calda.  Donna  per  voi  solo,  più  mi- 
steriosa e  più  tenera  di  quelle  che  gli  uomini  sono  costretti  a  tra- 
scinarsi dietro  tutto  il  giorno  in  ricche  vesti.  Mia  scontrosa,  mia 
selvaggia,  mia  piccola  straniera...  Mi  sono  svegliato  questa  notte 
chiedendomi  se  non  fossi  anch'io  un  uomo  volgare  come  gli  altri, 
con  rozze  mani  e  stupido  orgoglio,  se  io  fossi  degno  di  te. 

{Euridice  ha  alzato  la  testa  e  lo  guarda  fissamente  nell'ombra  che  si 
addensa) 

EURIDICE  {con  grande  dolcezza)  -  Tu  pensi  davvero  tutto  questo  di  me? 

ORFEO  -  Si,  amore  mio. 

EURIDICE  {dopo  aver  riflettuto  un  momento)  -  È  vero.  È  proprio  una 

Euridice  meravigliosa. 
ORFEO  -  Sei  tu! 
EURIDICE  -  Si,  ed  hai  ragione,  è  proprio  la  donna  per  te.  {una  pausa, 

poi  sommessamente,  con  una  strana  vocina,  accarezzandogli  i  co* 

pelli)  La  signorina  Euridice,  tua  moglie... 


360  JEAN   ANOUILH 

ORFEO  (allegramente)  -  Io  vi  saluto!  Acconsentite  adesso  ad  andare  a 
pranzo?  L'incantatore  di  serpenti  non  ce  la  fa  più  a  soffiare  nel  suo 
flauto:  muore  di  fame. 

EURIDICE  {cambiando  voce)  -  Accendi  la  luce,  ora. 

ORFEO  -  Ecco  finalmente  una  parola  ragionevole!  Fari  dappertutto.  Fiu- 
mi di  luce.  Via  i  fantasmi. 

(Orfeo  gira  l'interruttore.  Una  luce  cruda  inonda  e  fa  apparire  piti 
brutta  la  camera) 

EURIDICE  -  Caro,  non  vorrei  andare  in  una  trattoria,  vedere  gente.  Se 
vuoi,  andrò  io  a  comprare  qualcosa  e  mangeremo  qui. 

ORFEO  -  Nella  camera,  dove  tutto  pullula? 

EURIDICE  -  Si,  adesso  non  importa... 

ORFEO  (si  muove)  -  Sarà  divertente.  Verrò  con  te. 

EURIDICE  (pronta)  -  No,  lasciami  andare  sola.  Mi  farebbe  piacere  fare 
una  volta  per  te  la  spesa  come  una  persona  per  bene. 

ORFEO  -  Allora  compra  molte  cose. 

EURIDICE  -  Si. 

ORFEO  -  Bisogna  fare  un  pranzo  con  i  fiocchi. 

EURIDICE  -  Si,  caro. 

ORFEO  -  Proprio  come  se  avessimo  denaro.  È  un  miracolo  che  i  ricchi 
non  capiranno  mai.  Compra  un  ananas,  ma  vero,  del  buon  Dio  e 
non  un  triste  ananas  americano  in  scatola.  Non  abbiamo  coltello, 
non  riusciremo  a  mangiarlo,  ma  è  giusto  che  anche  l'ananas  si  di- 
fenda. 

EURIDICE  (sorride  con  gli  occhi  pieni  di  lacrime)  -  Si,  caro. 

ORFEO  -  Compra  anche  dei  fiori  per  il  pranzo,  molti  fiori... 

EURIDICE  (balbetta,  col  suo  povero  sorriso)  -  Son  cose  che  non  si  man- 
giano. 

ORFEO  -  È  vero,  li  metteremo  sulla  tavola,  (si  guarda  attorno)  Non  ab- 
biamo tavola,  ma  compra  lo  stesso  molti  fiori.  E  compra  anche  del- 
le frutta,  delle  pesche,  delle  albicocche,  delle  susine.  Un  po'  di  pane 
per  mostrare  il  lato  serio  del  nostro  carattere  e  una  bottiglia  di  vino 
bianco  che  berremo  nel  bicchiere  dello  spazzolino.  Sbrigati,  muoio 
di  fame.  (Euridice  va  a  prendere  il  suo  piccolo  cappello  e  se  lo 
mette  davanti  allo  specchio)  Ti  metti  il  cappello? 

EURIDICE  -  Si,  caro,  (poi  si  volta  improvvisamente  e  dice  con  una  stra- 
na voce  rauca)  Addio,  caro. 

ORFEO  (le  grida  ridendo)  -  Tu  dici  addio  come  a  Marsiglia?  * 

EURIDICE  (dalla  soglia)  -  Si. 


'  Invece  di  arrivederci. 


EURIDICE  361 

{lo  guarda  ancora  un  momento,  sorridente  e  impietosita,  poi  esce  dt 
scatto.  Orfeo  resta  qualche  minuto  immobile  continuando  a  sorri- 
dere a  Euridice  che  è  uscita.  Improvvisamente  il  suo  sorrisa  scom- 
pare, il  suo  volto  si  contrae,  mentre  lo  assale  una  vaga  angoscia. 
Corre  alla  porta  chiamando:  «  Euridice!  ».  Apre  la  porta  e  retrocede 
stupefatto:  davanti  a  lui  trova  il  giovane  che  li  aveva  avvicinati 
alla  stazione) 

IL  GIOVANE  -  È  scesa  adesso.  {Orfeo  retrocede  sorpreso,  stentando  a  ri- 
conoscerlo) Non  si  ricorda  di  me?  Ci  siamo  conosciuti  ieri  nel  buf- 
fet della  stazione  al  momento  dell'incidente...,  del  giovane  che  s*è 
gettato  sotto  al  treno.  Mi  son  permesso  di  venire  a  salutarla.  Mi 
siete  riusciti  simpatici.  Siamo  vicini  di  camera.  Ho  la  camera  un- 
dici, {fa  un  passo  nella  stanza  e  gli  tende  un  pacchetto  di  sigarette) 
*  Fuma?  {Orfeo  prende  macchinalmente  una  sigaretta)  No,  non  fu- 
mo, {il  giovane  gli  accende  la  sigaretta) 

ORFEO  -  Grazie,  {richiude  la  porta  e  domanda  macchinalmente)  Con 
chi  ho  l'onore ?... 

IL  GIOVANE  -  C'è  un  certo  piacere  ad  ignorare  la  vera  identità  delle  per- 
sone conosciute  in  viaggio.  Il  mio  nome  non  le  direbbe  nulla.  Mi 
chiami  signor  Enrico. 

{s*è  avanzato  nella  camera.  Guarda  Orfeo  sorridendo;  Orfeo  lo  guarda 
come  affascinato) 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Bclla  città,  Marsiglia,  col  suo  formicaio  umano,  la 
sua  canaglia  e  la  sua  sporcizia.  Meno  delitti  di  quanto  si  dica,  nei 
vicoli  del  vecchio  porto,  ma  è  pur  sempre  una  bella  città.  Pensa  di 
restarvi  a  lungo? 

ORFEO  -  Non  so. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Ieri  le  ho  rivolto  la  parola  senza  tante  cerimonie, 
ma  eravate  cosi  commoventi  tutti  e  due,  stretti  l'uno  all'altra  al 
centro  dell'immensa  sala  deserta.  Bello  scenario,  è  vero?  Rosso  e 
cupo,  con  la  notte  che  scende  ed  i  rumori  della  stazione  nel  fondo... 
{lo  guarda  a  lungo  e  sorride)  Il  piccolo  Orfeo  e  la  signorina  Euri- 
dice... Non  è  una  fortuna  che  capita  tutti  i  giorni...  Avrei  potuto 
non  parlarvi...  Di  solito  non  parlo  a  nessuno.  A  che  prò?  Per  voi, 
non  so,  non  ho  resistito  al  piacere  di  conoscervi  meglio.  Lei  è  mu- 
sicista? 

ORFEO  -  Si. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Amo  la  musica.  Amo  tutto  quello  che  e  dolce  e 
felice.  In  verità,  amo  la  felicità.  Ma  parliamo  di  lei.  Non  è  interes- 
sante parlare  di  me.  E  anzitutto  beva  qualcosa.  Ciò  facilita  la  con- 


362  JEAN   ANOUILH 

versazionc.  {si  alza  e  suona.  Durante  la  breve  attesa  guarda  Orfeo 
sorridendo)  Mi  fa  molto  piacere  scambiare  due  chiacchiere  con  lei. 
{entra  il  cameriere)  Cosa  beve?  Un  cognac? 

ORFEO  -  Come  vuole. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Un  cognac,  prego. 

IL  CAMERIERE  -  Solo  UnO? 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Si.  {a  Orfeo)  Mi  scusi,  io  non  bevo,  {uscito  il  came- 
riere, continua  a  guardare  Orfeo  sorridendo)  Sono  molto  lieto  di 
questo  incontro. 

ORFEO  {con  un  gesto  imbarazzato)  -  Grazie. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Ella  si  chiederà  perche  m'interessi  tanto  a  lei...  {ge- 
sto pago  di  Orfeo)  Ero  in  fondo  alla  sala,  ieri,  quando  essa  è  venuta 
verso  di  lei  come  chiamata  dalla  sua  musica.  Quei  brevi  istanti  in 
cui  si  vede  il  destino  nell'atto  di  porre  le  sue  pedine  fanno  un  certo 
effetto,  è  vero?  {entra  il  cameriere)  Ah,  ecco  il  suo  cognac. 

IL  CAMERIERE  -  Ecco  uu  coguac,  siguore. 

ORFEO  -  Grazie. 

(//  cameriere  esce) 

IL  SIGNOR  ENRICO  {ckc  l'ha  scguito  con  lo  sguardo)  -  Ha  notato  l'inso- 
lita lentezza  del  cameriere? 

ORFEO  -  No. 

IL  SIGNOR  ENRICO  {va  od  ascoltore  dia  porta)  -  Si  è  certamente  rimesso 
al  suo  posto,  dietro  la  porta,  {toma  verso  Orfeo)  Son  sicuro  ch'egli 
è  entrato  già  diverse  volte  in  camera  con  vari  pretesti,  son  sicuro 
che  ha  cercato  di  parlarle. 

ORFEO  -  Si,  ha  provato. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Come  vede,  non  sono  il  solo  ad  interessarmi  a  lei, 
oggi...  Scommetto  che  i  negozianti,  gl'impiegati  della  stazione,  le 
ragazzine  in  strada  le  sorridono  da  ieri  in  una  maniera  insolita... 

ORFEO  -  Tutti  sono  gentili  con  gl'innamorati. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Nou  si  tratta  soltanto  di  gentilezza.  Non  le  pare 
che  la  guardino  un  po'  troppo  fissamente? 

ORFEO  -  No.  Perché? 

IL  SIGNOR  ENRICO  {sorrìdc)  -  Per  nulla...  {medita  un  istante,  foi  lo  pren- 
de improvvisamente  per  il  braccio)  Mio  caro,  esistono  due  specie  di 
esseri.  Una  razza  numerosa,  feconda,  felice,  una  grossa  pasta  da 
impastare,  che  mangia  salsicce,  fa  figli,  maneggia  i  suoi  attrezzi, 
conta  i  suoi  soldi,  l'anno  buono  e  il  cattivo,  malgrado  epidemie  e 
guerre,  fino  al  limite  d'età;  gente  fatta  per  vivere,  gente  per  tutti 
i  giorni,  che  non  riusciamo  ad  immaginare  morta.  E  poi  vi  sono 
gli  altri,  i  nobili,  gli  eroi.  Quelli  che  si  immagina  ben  distesi,  pai- 


EURIDICE  363 

lidi,  con  un  foro  rosso  nella  testa,  trionfanti,  con  una  guardia  d'ono- 
re o  fra  due  gendarmi,  secondo  i  casi:  la  crema.  Questa  non  Tha 
mai  tentata? 

ORFEO  -  No,  e  questa  sera  meno  che  mai. 

IL  SIGNOR  ENRICO  {gli  mette  una  mano  sulla  spalla  e  lo  guarda  quasi 
con  tenerezza)  -  Peccato.  Non  bisogna  credere  esageratamente  alla 
felicità,  soprattutto  quando  si  è  di  buona  razza.  Si  va  incontro  alle 
disillusioni. 

(//  cameriere  bussa  ed  entra) 

IL  CAMERIERE  -  Signore,  c'è  una  ragazza  che  chiede  della  signorina  Eu- 
ridice. Le  ho  detto  che  è  uscita,  ma  non  sembra  persuasa.  Insiste 
per  parlare  con  il  signore.  Debbo  farla  salire? 

LA  RAGAZZA  (cntTondo  e  scostando  il  cameriere)  -  Sono  già  salita.  Dov'è 
Euridice? 

ORFEO  -  È  uscita,  signorina.  Chi  è  lei? 

LA  RAGAZZA  -  Una  delle  sue  amiche  della  compagnia.  Bisogna  che  le 
parli  subito. 

ORFEO  -  Le  ripeto  che  è  uscita.  E  poi  credo  che  non  abbia  nulla  da 
dirle. 

LA  RAGAZZA  -  Lei  s'inganna.  Ha  invece  molte  cose  da  dirmi.  Da  quanto 
tempo  è  uscita?  Ha  preso  con  sé  la  valigia? 

ORFEO  -  La  valigia?  E  perche  dovrebbe  prenderla?  Essa  è  scesa  per 
comprare  la  nostra  cena. 

LA  RAGAZZA  -  Sarà  scesa  per  comprare  la  vostra  cena,  ma  aveva  delle 
buone  ragioni  per  portare  con  sé  la  valigia  perché  doveva  raggiun- 
gerci alla  stazione  per  prendere  con  noi  il  treno  delle  otto  e  dodici. 

ORFEO  (grida)  -  Raggiungere  chi? 

IL  CAMERIERE  {guardando  il  suo  grosso  orologio  di  metallo)  -  Sono  le 
otto,  dieci  minuti  e  quaranta  secondi. 

LA  RAGAZZA  {comc  sc  parlasse  per  conto  suo)  -  Dev'essere  già  alla  sta- 
zione con  lui.  Grazie,  {si  volta  per  uscire,  Orfeo  l'afferra  sulla  porta) 

ORFEO  -  Alla  stazione  con  chi? 

LA  RAGAZZA  -  Mi  lasci.  Mi  fa  male.  Perderò  il  treno. 

IL  CAMERIERE  {ckc  consulta  Sempre  l'orologio)  -  Otto  e  undici  precise. 

DULAc  {comparendo  sulla  soglia.  Al  cameriere)  -  E  tredici.  Il  vostro  oro- 
logio va  indietro.  Il  treno  è  partito,  {a  Orfeo)  Lasci  questa  ragazza. 
Posso  risponderle  io.  Alla  stazione  con  me. 

ORFEO  {retrocede)  -  Chi  è  lei? 

DULAC  -  Alfredo  Dulàc,  l'impresario  di  Euridice.  Dov'è? 

ORFEO  -  Che  cosa  vuole  da  lei? 


364  JEAN   ANOUILH 

DULAc  {entra  tranquillamente  nella  camera  masticando  un  vecchio  si- 
garo) '  E  lei? 

ORFEO  -  Euridice  è  la  mia  amante. 

DULAC  -  Da  quando? 

ORFEO  -  Da  ieri. 

DULAC  -  Si  figuri  che  è  anche  la  mia.  Da  un  anno. 

ORFEO  -  Lei  mente! 

DULAC  {sorride)  -  Perché  ha  forse  dimenticato  di  dirglielo? 

ORFEO  -  Euridice  mi  ha  detto  tutto  prima  di  seguirmi.  Da  tre  mesi  era 
l'amante  del  giovane  che  ieri  s'è  gettato  sotto  il  treno. 

DULAC  -  Bisogna  essere  proprio  stupidi.  Era  un  ragazzone  che  mi  fa- 
ceva le  parti  del  cattivo.  Tutti  nella  compagnia  ne  avevano  paura. 
La  piccola  gli  dice  che  lo  lascia  ed  egli  si  schiaffa  sotto  il  treno  di 
Perpignano,  Quel  che  del  resto  non  capisco  è  perché  l'abbia  dovuto 
dire  proprio  a  lei.  E  poi  ha  filato  senza  un  grido  come  im'uccella. 

ORFEO  -  Probabilmente  perché  era  il  solo  al  quale  dovesse  render  conto. 

DULAC  -  No.  C'ero  io.  Anzitutto  come  impresario.  Son  già  due  sere  che 
debbo  sostituirla  su  due  piedi,  il  che  non  è  mai  comodo.  E  poi 
perché  avant'ieri,  non  le  spiaccia,  ha  passato  la  notte  con  me. 

ORFEO  {lo  guarda)  -  Non  so  se  lei  è  piti  odioso  o  ridicolo. 

DULAC  {avanza  ancora  un  poco)  -  Davvero? 

ORFEO  -  Credo  tuttavia  che,  malgrado  le  arie  che  si  dà,  sia  soprattutto 
ridicolo. 

DULAC  -  Forse  perché  ieri  sera  la  piccola  era  in  questo  letto  invece  che 
nel  mio?  Lei  è  un  ragazzo,  caro  mio.  Ad  una  donna  come  Euri- 
dice bisogna  pur  passare  i  capriccetti.  È  stata  anche  dell'imbecille 
che  si  è  ucciso  ieri.  Per  lei  almeno  capisco.  Ha  dei  begli  occhi,  è 
giovane... 

ORFEO  {grida)  -  Io  amo  Euridice  e  lei  mi  ama! 

DULAC  -  È  lei  che  glielo  ha  detto? 

ORFEO  -  Si. 

DULAC  {va  a  sedersi  tranquillamente  in  una  poltrona)  -  È  una  donna 
straordinaria.  Per  fortuna  la  conosco. 

ORFEO  -  E  se  io  la  conoscessi  meglio  di  lei? 

DULAC  -  Da  ieri? 

ORFEO  -  Si,  da  ieri. 

DULAC  -  Senta,  non  voglio  fare  il  furbo.  Si  trattasse  di  altra  materia  — 
lei  sembra  più  intelligente  di  me  —  le  direi  forse  «  Sarà  cosf  »,  ma 
vi  sono  due  cose  che  io  conosco  bene:  prima  il  mio  mestiere... 

ORFEO  -  E  poi  Euridice? 

DULAC  -  No,  non  ho  una  simile  pretesa.  Stavo  per  dire  una  parola  mol- 


EURIDICE  365 

to  più  modesta:  le  donne.  Faccio  Timpresario  da  vent'anni.  Le 
donne,  ragazzo  mio,  io  ne  vendo  all'ingrosso,  perché  alzino  la  gam- 
ba nelle  riviste  di  provincia  o  strillino  la  grande  aria  della  Tosca 
nei  casinò,  non  m'importa,  e  poi  mi  piacciono.  Ora  Euridice  sarà 
un  tipo  assai  strano,  ma  dato  che  entrambi  abbiamo  potuto  vedere 
com'è  fatta,  lei  converrà  che,  ad  ogni  modo,  e  una  donna... 

ORFEO  -  No. 

DULAC  -  Come  no?  Le  è  sembrata  un  angelo,  la  sua?  Mi  guardi  bene, 
amico  mio.  Euridice  è  stata  con  me  un  anno.  Ho  l'aria  di  un  se- 
duttore di  angeli,  io? 

ORFEO  -  Lei  mente.  Euridice  non  ha  potuto  essere  sua! 

DULAC  -  Lei  è  il  suo  amante,  io  pure.  Vuole  che  gliela  descriva? 

ORFEO  {retrocede)  -  No. 

DULAC  (si  avvicina,  ignobile)  -  Com'è,  la  sua?  Bisogna  gettarla  giù  dal 
letto  la  mattina?  Strapparla  ai  suoi  romanzi  polizieschi,  ed  alle  sue 
sigarette?  Per  cominciare,  l'ha  mai  vista  un  solo  istante  senza  una 
cicca  al  becco  come  un  piccolo  teppista?  E  le  sue  calze?  Le  ha  ri- 
trovate, le  calze,  la  mattina?  Sia  dunque  sincero.  Confessi  almeno 
che  la  camicia  era  appesa  in  cima  all'armadio,  le  scarpe  nella  vasca 
da  bagno,  il  cappello  sotto  la  poltrona  e  la  borsetta  irreperibile. 
Gliene  ho  già  comprate  sette. 

ORFEO  -  Non  è  vero. 

DULAC  -  Come  non  è  vero?  Ha  visto  un'Euridice  ordinata,  lei?  Non 
credo  ai  miracoli.  Spero,  in  ogni  caso,  che  le  abbia  già  fatto  comin- 
ciare le  fermate  davanti  alle  vetrine.  Quanti  vestiti  le  ha  chiesto  da 
ieri?  e  quanti  cappelli?,  detto  fra  noi... 

ORFEO  -  Euridice  mi  ha  seguito  con  un  solo  vestito,  con  una  sola  vali- 
getta. 

DULAC  -  Comincio  a  credere  che  non  parliamo  della  stessa,  oppure 
ch'essa  pensasse  che  era  per  poco  tempo...  Le  diceva  che  era  per  la 
vita?  Son  sicuro  che  era  sincera.  Ella  pensava:  «sarà  per  la  vita  se 
egli  è  abbastanza  forte  per  tenermi,  se  il  vecchio  Dulac  non  ritro- 
verà le  mie  tracce,  se  non  verrà  a  riprendermi  ».  E  in  fondo  era 
ben  sicura  che  il  vecchio  Dulac  l'avrebbe  ritrovata.  Anche  questo 
è  nel  suo  carattere... 

ORFEO  -  No. 

DULAC  -  Ma  si,  mio  caro,  ma  sì...  Euridice  è  un  essere  raro,  d'accordo, 
ma  tuttavia  ha  la  mentalità  di  tutte  quelle  buone  donnette... 

ORFEO  -  Non  è  vero! 

DULAC  -  Nulla  è  vero  per  lei,  ma  sa  che  lei  è  buffo?  Da  quanto  tempo 
è  uscita? 


366  JEAN  ANOUILH 

ORFEO  -  Da  venti  minuti. 

DULAc  -  Bene.  Questo  è  almeno  vero? 

ORFEO  -  Si. 

DULAC  -  Ha  voluto  uscire  sola,  vero? 

ORFEO  -  Si,  la  divertiva  Tidea  di  andare  a  comprare  sola  la  nostra  cena. 

DULAC  -  Anche  questo  è  vero? 

ORFEO  -  Sf. 

DULAC  -  Ebbene,  mi  ascolti,  cinque  minuti  prima  le  avevo  fatto  conse- 
gnare una  lettera  nella  quale  le  dicevo  di  venire  a  raggiungermi 
alla  stazione. 

ORFEO  -  Nessuno  ha  potuto  consegnarle  una  lettera.  Da  ieri  non  l'ho 
lasciata  un  solo  istante. 

DULAC  -  Ne  è  proprio  sicuro? 

(Dulac  guarda  il  cameriere.  Lo  guarda  pure  Orfeo  senza  sapere  perché) 

IL  CAMERIERE  (chc  si  è  impTOvvisamente  turbato)  -  Mi  scusino,  credo 
che  mi  chiamino,   {esce) 

ORFEO  -  Ubo  lasciata  un  minuto,  è  vero.  Quell'uomo  è  venuto  a  dirmi 
che  mi  volevano  alla  direzione. 

DULAC  -  L  avevo  incaricato  di  consegnare  un  biglietto  a  Euridice.  Glie- 
lo ha  dato  mentre  lei  era  giù. 

ORFEO  -  Che  cosa  le  diceva  in  quel  biglietto? 

DULAC  -  Che  l'aspettavo  al  treno  delle  otto  e  dodici.  Non  avevo  bisogno 
di  aggiungere  altro...  Giacché  il  destino  era  venuto  a  bussare  alla 
sua  porta  per  dirle  «  Euridice,  è  finita  »,  ero  sicuro  che  lei  avrebbe 
obbedito.  Non  ci  sono  che  gli  uomini  che  si  gettino  dalla  finestra... 

ORFEO  -  Lei  vede  tuttavia  che  non  è  venuta  a  raggiungerla. 

DULAC  -  È  vero.  Non  è  venuta.  Ma  Euridice,  quella  mia,  è  sempre  in 
ritardo.  Non  ci  bado  troppo.  Alla  sua  ha  detto  di  fare  grandi  spese? 

ORFEO  -  Pane,  frutta... 

DULAC  -  Ed  è  scesa  da  venti  minuti.  Ho  l'impressione  che  sia  molto 
per  comprare  pane  e  frutta.  La  strada  è  piena  di  negozi.  Non  sa- 
rebbe per  caso  in  ritardo  anche  la  sua  Euridice?  (alla  ragazza)  A 
quest'ora  sarà  alla  stazione  a  cercarci,  va'  a  vedere. 

ORFEO  -  Vengo  anch'io. 

DULAC  -  Allora  lei  comincia  a  credere  che  sia  potuta  venire  a  raggiun- 
gerci? Io  resto  qui. 

ORFEO  (si  ferma  e  grida  alla  ragazza)  -  Se  la  vede  le  dica  che... 

DULAC  -  È  inutile.  Se  è  alla  stazione,  avevo  ragione  io:  la  sua  piccola 
Euridice  fedele  e  ordinata  era  un  sogno.  E  in  questo  caso  lei  non 
ha  pid  nulla  da  dire. 

ORFEO  (grida  alla  ragazza)  -  Le  dica  che  l'amo! 


EURIDICE  367 

DULAC  -  Le  strapperà  forse  qualche  lagrima.  È  sensibile.  E  sarà  tutto. 
ORFEO  -  Le  dica  che  non  è  come  credono  gli  altri,  che  è  come  la  so  io. 
DULAC  -  Troppo  complicato  per  poter  essere  spiegato  in  una  stazione. 

Fa*  presto  tu;  e  guardi,  son  buon  giuocatore  io,  riconducila  qui. 

Fra  un  minuto  lei  stessa  potrà  dirci  come  è. 

{la  ragazza  sta  per  uscire  quando  urta  il  cameriere  che  appare  sulla 
soglia) 

IL  CAMERIERE  -  Signore... 

ORFEO  -  Che  c'è? 

IL  CAMERIERE  -  C'è  un  agente  con  la  camionetta  della  polizia. 

ORFEO  -  Che  vuole? 

IL  CAMERIERE  -  Viene  a  chiedere  se  c'è  qualcuno  qui  che  era  parente 
della  ragazza,  perché  ha  avuto  un  incidente  nell'autobus  di  Tolo- 
ne... 

ORFEO  (grida  come  un  pazzo)  -  È  ferita?  È  giù? 

{si  precipita  nel  corridoio;  Dulac  lo  segue  soffocando  una  bestemmia; 
la  ragazza  scompare  anche  lei) 

DULAC  {uscendo)  -  Che  cosa  andava  a  fare  nell'autobus  di  Tolone? 

{U  cameriere  è  restato  solo  di  fronte  al  signor  Enrico  che  non  ha  fatto 
un  gesto) 

IL  CAMERIERE  -  Non  lo  Sapranno  mai  quello  che  andasse  a  fare...  Non 
è  ferita,  è  morta.  Uscendo  da  Marsiglia,  l'autobus  ha  urtato  un  carro 
cisterna.  Gli  altri  viaggiatori  hanno  avuto  soltanto  delle  schegge  di 
vetro.  Non  c'è  stata  che  lei...  Io  l'ho  vista,  l'hanno  stesa  in  fondo 
alla  camionetta.  Non  ha  che  una  piccolissima  ferita  alla  tempia.  Si 
direbbe  che  dorma. 

{il  signor  Enrico  non  sembra  ascoltarlo.  Con  le  mani  sprofondate  nelle 
tasche  del  suo  soprabito  passa  davanti  a  lui.  Sulla  soglia  si  volta) 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Dite  chc  mi  preparino  il  conto.  Parto  questa  sera. 

{esce) 


368  JEAN   ANOUILH 


ATTO    TERZO 

//  buffet  della  stazione  nell'ombra.  È  notte.  Una  fioca  luce  viene  dai  marcia- 
piedi dove  brillano  soltanto  le  luci  dei  segnali.  Da  lontano  l'incerto  gracidio  di 
un  campanello. 

Il  buffet  è  deserto.  Le  sedie  sono  ammucchiate  sui  tavoli.  La  scena  resta  per  un 
momento  deserta,  poi  si  socchiude  una  porta-,  entra  il  signor  Enrico,  che  ja 
entrare  OR^EO  senza  cappello  con  un  impermeabile.  È  smunto  e  stanco. 

ORFEO  (sì  guarda  attorno  senza  capire)  -  Dove  siamo? 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Non  Hconosci  il  posto? 

ORFEO  -  Non  posso  più  camminare. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Adcsso  ti  riposerai,   (prende  una  sedia)  Ecco  una 

sedia. 
ORFEO  (si  siede)  -  Dove  siamo?  Ho  bevuto?  Tutto  gira  attorno  a  me. 

Che  cosa  è  accaduto  da  ieri? 
IL  SIGNOR  ENRICO  -  È  Sempre  ieri. 
ORFEO  (si  rende  conto  d'un  tratto  e  grida  cercando  di  alzarsi)  -  Lei  mi 

aveva  promesso... 
IL  SIGNOR  ENRICO  (gli  mette  una  sulla  spalla)  -  Si,  t'ho  promesso.  Resta 

seduto.  Riposati.  Vuoi  fumare? 

(gli  porge  una  sigaretta  che  Orfeo  prende  macchinalmente) 

ORFEO  (si  guarda  ancora  attorno  mentre  il  fiammifero  brucia)  -  Dove 
siamo? 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Indovina. 

ORFEO  -  Voglio  sapere  dove  siamo. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Tu  m*hai  detto  che  non  avresti  avuto  paura. 

ORFEO  -  Non  ho  paura.  Voglio  soltanto  sapere  se  siamo  finalmente  ar- 
rivati. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Si,  siamo  arrivati. 

ORFEO  -  Dove? 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Un  po*  di  pazicHza.  (accende  un  altro  fiammifero, 
segue  le  pareti,  va  ad  un  interruttore  elettrico.  Un  piccolo  rumore 
nell'ombra,  una  lampada  si  accende  sulla  parete  di  fondo  spanden- 
do una  luce  avara)  Riconosci  adesso? 

ORFEO  -  È  il  buffet  della  stazione. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Si. 

ORFEO  (si  drizza)  -  Lei  mi  ha  mentito,  è  vero? 

IL  SIGNOR  ENRICO  (lo  costringc  a  sedersi)  -  No,  non  mento  mai.  Resta 
seduto.  Non  gridare. 


Una  scena  di  Euridice  di  Anouilh,  rappresentato  a  Roma  nel   1947. 
Interpreti:    Morelli,  Stoppa,  Gior>;io  De  Lullo. 


EURIDICE  369 

ORFEO  -  Perché  è  entrato  nella  mia  camera  poco  fa?  Ero  coricato  su 
quel  letto  disfatto.  Soffrivo.  Stavo  quasi  bene  chiuso  nel  mio  male. 

IL  SIGNOR  ENRICO  (sordamente)  -  Non  avevo  più  il  coraggio  di  sentirti 
soffrire. 

ORFEO  -  Che  cosa  può  importarle  che  io  soffra? 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Non  SO.  È  la  prima  volta.  Qualcosa  di  strano  ha 
cominciato  a  cedere  in  me.  E  avrebbe  sanguinato  come  una  piaga 
se  tu  avessi  pianto,  sofferto  ancora...  Stavo  per  lasciare  l'albergo.  Ho 
lasciato  le  valige  e  sono  entrato  per  calmarti.  E  siccome  nulla  ti 
calmava,  allora  ti  ho  fatto  questa  promessa  per  farti  tacere. 

ORFEO  -  Adesso  taccio.  Soffro  in  silenzio.  Se  lei  ha  i  nervi  delicati  ciò 
dovrà  bastarle. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Tu  non  mi  credi  ancora? 

ORFEO  {si  prende  la  testa  fra  le  mani)  -  Vorrei  crederle  con  tutte  le  mie 
forze,  ma  non  vi  riesco. 

IL  SIGNOR  ENRICO  (ha  UH  piccolo  sovriso  silenzioso;  tira  i  capelli  di  Or- 
feo) '  Testa  dura,  piccolo  uomo.  Tu  piangi,  gemi,  soffri,  ma  non 
vuoi  credere.  Ti  voglio  bene.  Ti  ho  dovuto  voler  bene,  ieri  sera, 
se  non  son  fuggito  subito,  come  al  solito,  se  sono  entrato  in  quella 
camera  dove  tu  singhiozzavi.  Io  odio  il  dolore,  (gli  tira  ancora  i 
capelli  con  una  specie  di  strana  dolcezza)  Ben  presto  non  piangerai 
più,  testolina,  non  avrai  più  da  chiederti  se  bisogna  credere  o  no. 

ORFEO  -  Essa  sta  per  venire? 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  È  già  qui. 

ORFEO  -  In  questa  stazione?  (grida)  Ma  è  morta,  ho  visto  gli  uomini 
che  la  portavano  via. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Tu  vuoi  Capire,  è  vero?  piccolo  uomo.  Non  ti 
basta  che  il  destino  fàccia  per  te  una  grande  eccezione.  Hai  messo 
senza  tremare  la  tua  mano  nella  mia,  mi  hai  seguito  senza  nem- 
meno chiedermi  chi  fossi,  senza  allentare  il  passo  fino  in  fondo  alla 
notte,  ma  vuoi  capire  lo  stesso... 

ORFEO  -  No.  Voglio  soltanto  rivederla. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Non  chiedi  altro?  Io  ti  conduco  alle  porte  della 
morte  e  tu  non  pensi  che  alla  tua  amica,  piccolo  uomo...  Hai  ra- 
gione, la  morte  non  merita  che  il  tuo  disprezzo.  Essa  getta  le  sue 
immense  reti,  falcia  a  caso,  grottesca,  spaventosa.  È  un'imbecille 
capace  di  infliggere  qualche  cieco  colpo  anche  a  se  stessa.  Per  chi 
ha  visto  gli  uomini  all'opera,  saldi  al  calcio  di  una  mitragliatrice 
o  al  timone  di  una  nave,  per  chi  li  ha  visti  trarre  profitto  da  tutto 
e  abbattere  con  precisione  il  nemico,  gli  uomini  sono  ben  più  temi- 
bili. Povera  morte...  Goffa  pazza,   (si  è  seduto,  un  po'  stanco,  ac- 


24.  -   Teatro  francese 


370  JEAN   ANOUILH 

canto  ad  Orfeo)  Ti  dirò  un  segreto,  a  te  solo  perché  mi  sei  caro. 
Essa  non  ha  che  un  merito,  che  tutti  ignorano.  È  buona,  straordi- 
nariamente buona.  Ha  paura  delle  lacrime,  dei  dolori.  Quando  può, 
quando  la  vita  glielo  permette,  essa  fa  presto...  Scioglie,  distende, 
risolve,  mentre  la  vita  si  ostina,  si  aggrappa  come  una  mendica 
anche  quando  ha  perduto  la  partita,  anche  quando  l'uomo  non  può 
pid  muoversi,  è  sfigurato,  anche  quando  è  condannato  a  soffrire 
sempre.  Solo  la  morte  è  un'amica.  Col  tocco  delle  sue  dita  rida  al 
mostro  il  suo  volto,  calma  il  dannato,  libera. 

ORFEO  {grida  d'un  tratto)  -  Io  avrei  preferito  Euridice  sfigurata,  soffe- 
rente, vecchia. 

IL  SIGNOR  ENRICO  (chìna  la  testa  scoraggiato)  -  Sicuro,  piccola  testa, 
siete  tutti  gli  stessi. 

ORFEO  -  La  buona  amica  mi  ha  rubato  Euridice.  Col  tocco  delle  sue 
dita  ha  spento  Euridice  giovane,  Euridice  leggera,  Euridice  sorrì- 
dente... 

IL  SIGNOR  ENRICO  (si  dzo  bruscamente,  irritato)  -  Te  la  restituirà. 

ORFEO  {alzandosi  anche  lui)  -  Quando? 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Subito.  Ma  ascoltami  bene.  La  tua  felicità  era  in 
ogni  caso  finita.  Quelle  ventiquattro  ore,  quel  povero  giorno  era 
tutto  quello  che  la  vita,  la  tua  cara  vita,  riserbava  al  piccolo  Orfeo 
ed  alla  piccola  Euridice.  Oggi  tu  non  avresti  forse  pianto  Euridice 
morta,  ma  saresti  a  piangere  Euridice  fuggita... 

ORFEO  -  Non  è  vero.  Non  era  andata  all'appuntamento  di  quell'uomo! 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  No,  ma  non  era  nemmeno  tornata  nella  tua  camera. 
Aveva  preso  l'autobus  per  Tolone,  sola,  senza  denaro  e  senza  vali- 
gia. Dove  correva?  E  chi  era  precisamente  quella  piccola  Euridice 
che  hai  creduto  di  poter  amare? 

ORFEO  -  Chiunque  fosse,  io  l'amo  ancora.  Voglio  rivederla.  Ah,  la  sup- 
plico, signore,  me  la  renda,  anche  imperfetta.  Voglio  aver  male  e 
vergogna  per  causa  sua.  Voglio  riperderla  e  ritrovarla.  Voglio  odiar- 
la e  cullarla  come  una  bambina.  Voglio  lottare,  voglio  soffrire,  vo- 
glio accettare...  Voglio  vivere. 

IL  SIGNOR  ENRICO  {irritato)  -  Vivrai... 

ORFEO  -  Con  le  macchie,  le  concellature,  le  disperazioni  e  i  ricomincia- 
menti. Con  la  vergogna... 

IL  SIGNOR  ENRICO  {lo  guorda  con  un  misto  di  disprezzo  e  di  tenerezza)  - 
Piccolo  uomo...  {va  verso  di  lui,  cambiando  tono)  Addio,  ti  è  resti- 
tuita. Essa  è  U,  sul  marciapiede,  allo  stesso  posto  dove  l'hai  vista 
ieri  per  la  prima  volta,  ad  aspettarti  eternamente.  Ti  ricordi  il 
patto? 


EURIDICE  371 

ORFEO  {che  guarda  già  verso  la  porta)  -  Si. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Ripeti.  Se  tu  dimenticassi  il  patto,  non  potrei  più 
nulla  per  te. 

ORFEO  -  Non  debbo  guardarla  in  faccia. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Non  Sarà  cosa  facile. 

ORFEO  -  Se  la  guardo  in  faccia  una  sola  volta  prima  dell'alba,  la  riperdo. 

IL  SIGNOR  ENRICO  (W  ferma  sorridendo)  -  Tu  non  mi  chiedi  più  perché 
e  come,  testa  dura? 

ORFEO  (che  guarda  sempre  la  porta)  -  No. 

IL  SIGNOR  ENRICO  {sorridc  aticora)  -  Bene...  Addio.  Tu  puoi  ricomin- 
ciare dal  principio.  Non  mi  ringraziare.  A  presto. 

(esce.  Orfeo  resta  un  istante  immobile,  poi  va  verso  la  porta  e  l'apre 
sul  marciapiede  deserto.  Dapprima  non  dice  nulla,  poi  chiede  senza 
guardare) 

ORFEO  -  Sei  qui? 

EURIDICE  -  Si,  caro.  Quanto  m'hai  fatto  aspettare. 
ORFEO  -  Mi  hanno  permesso  di  venire  a  riprenderti...  Soltanto  non  do- 
vrò guardarti  prima  dell'alba. 
EURIDICE  -  Si,  caro,  lo  so,  me  l'hanno  detto. 

(Orfeo  la  prende  per  la  mano  e  la  conduce  senza  guardarla.  Attraver- 
sano la  scena,  in  silenzio,  fino  ad  una  panchetta) 

ORFEO  -  Vieni.  Aspetteremo  l'alba  qui.  Quando  i  camerieri  verranno 
per  il  primo  treno,  sul  far  del  giorno,  saremo  liberi.  Noi  ordinere- 
mo un  caffé  ben  caldo  e  da  mangiare.  Tu  sarai  viva.  Non  hai  avuto 
troppo  freddo? 

EURIDICE  -  Si,  piò  di  tutto.  Un  freddo  terribile.  Ma  non  posso  dire 
nulla,  me  l'hanno  proibito.  Posso  soltanto  dire  fino  al  momento  in 
cui  l'autista  ha  fatto  quel  sorriso  nello  specchietto  e  in  cui  il  ca- 
mion cisterna  ci  è  venuto  addosso  come  una  bestia  impazzita. 

ORFEO  -  L'autista  s'era  voltato  per  sorridere  nello  specchietto? 

EURIDICE  -  Si,  sai,  quei  meridionali  credono  che  tutte  le  donne  li  guar- 
dino. Eppure  non  avevo  nessuna  voglia  di  essere  guardata. 

ORFEO  -  A  te  sorrideva? 

EURIDICE  -  Si,  ti  spiegherò  piti  tardi,  caro.  Ha  dato  un  colpo  allo  sterzo 
e  tutti  hanno  gridato  insieme.  Ho  visto  il  camion  fare  un  balzo  e 
il  sorrìso  del  giovanotto  trasformarsi  in  una  smorfia.  È  tutto,  (dopo 
una  pausa,  con  la  sua  vocina)  Di  quello  che  è  accaduto  dopo  non 
mi  è  permesso  dirti  nulla. 

ORFEO  -  Ti  senti  bene? 

EURIDICE  -  Oh  SI,  stretta  a  te. 


372  JEAN   ANOUILH 

ORFEO  -  Prendi  il  mio  cappotto  sulle  spalle. 

{le  copre  le  spalle.  Pausa.  Si  sentono  bene) 

EURIDICE  -  Ti  ricordi  il  cameriere  della  Commedia  Francese? 

ORFEO  -  Lo  rivedremo  domani  mattina. 

EURIDICE  -  E  la  bella  cassiera  muta?  Forse  sapremo  finalmente  quello 
che  pensa  di  noi.  È  comodo  rivivere...  È  come  se  ci  si  incontrasse 
per  la  prima  volta,  (eh tede  come  la  prima  volta)  Sei  buono,  sei 
cattivo,  come  ti  chiami? 

ORFEO  {seguendo  il  giuoco  e  sorridendo)  -  Orfeo,  e  tu? 

EURIDICE  -  Euridice...  {e  poi  aggiunge,  con  dolcezza)  Soltanto,  questa 
volta  siamo  avvertiti,  (china  la  testa  e  dice  dopo  una  piccola  pausa) 
Ti  chiedo  scusa.  Hai  dovuto  avere  tanta  paura... 

ORFEO  -  Si.  Da  principio  è  una  presenza  sorda  che  ci  accompagna,  vi 
guarda  alle  spalle,  vi  ascolta  parlare.  E  poi,  tutto  a  un  tratto,  vi 
salta  addosso  come  una  bestia.  Dapprima  è  un  peso  sempre  più 
grave  che  si  sente  sulle  spalle,  e  poi  si  muove,  si  mette  a  scavarvi 
la  nuca,  a  strangolarvi.  E  intanto  si  guardano  gli  altri,  che  sono 
calmi,  gli  altri  che  non  hanno  la  bestia  sul  dorso,  che  non  hanno 
paura  e  dicono:  «  No,  non  c*è  nulla  di  straordinario,  la  ragazza  ha 
forse  perduto  il  tram,  s'è  fermata  a  chiacchierare  per  strada...  )).  Ma 
adesso  la  bestia  urla,  straziandovi  la  scapola.  «È  forse  vero  che  si 
perde  il  tram  della  vita?  No,  si  scivola  sotto,  scendendo  in  corsa, 
vi  si  urta  contro  volendo  attraversare  la  strada.  Ci  si  ferma  a  chiac- 
chierare nella  vita?  No.  Sarà  divenuta  improvvisamente  folle,  o 
rhanno  rapita,  o  è  fuggita...  ».  Per  fortuna  il  cameriere  venne  a 
liberarmi  con  una  sventura  precisa  scritta  sul  viso.  Poi,  quando  ti 
ho  vista  giù,  stesa  in  quella  camionetta,  tutto  s'è  fermato,  non  ho 
avuto  più  paura. 

EURIDICE  -  Mi  avevano  messa  in  una  camionetta? 

ORFEO  -  Nella  camionetta  della  polizia.  Ti  avevano  stesa  sulla  panchetta 
in  fondo,  con  una  guardia  accanto,  come  una  piccola  ladra  che  è 
stata  arrestata. 

EURIDICE  -  Ero  brutta? 

ORFEO  -  Avevi  soltanto  un  po'  di  sangue  sulla  tempia.  Sembravi  addor- 
mentata. 

EURIDICE  -  Addormentata?  Se  tu  sapessi  come  correvo.  Correvo  diritta 
come  una  folle,  {una  pausa)  E  hai  dovuto  soffrire  tanto. 

ORFEO  -  Si. 

EURIDICE  -  Ti  chiedo  scusa. 

ORFEO  {sordamente)  -  Non  c'è  bisogno. 

EURIDICE  (dopo  un'altra  pausa)  -  Mi  avevano  portata  alFalbergo  perché 


EURIDICE  373 

tenevo  ancora  in  mano  una  lettera.  Te  Tavcvo  scritta  nell'autobus 
aspettando  la  partenza.  Te  l'hanno  data? 

ORFEO  -  No.  L'hanno  dovuta  trattenere  al  commissariato. 

EURIDICE  -  Ah!  {subito  inquieta)  Credi  che  la  leggeranno? 

ORFEO  -  È  possibile. 

EURIDICE  -  Credi  che  non  si  possa  impedire  che  la  leggano?  Non  si 
può  fare  qualcosa  subito?  Mandare  qualcuno,  telefonare,  dir  loro 
che  non  hanno  il  diritto... 

ORFEO  -  Troppo  tardi. 

EURIDICE  -  Ma  quella  lettera  l'avevo  scritta  per  te.  Quello  che  dicevo 
era  per  te.  Com'è  possibile  che  un  altro  la  legga?  Che  un  altro 
mormori  quelle  parole?  Un  omone  con  sporchi  pensieri,  forse,  brut- 
to e  contento  di  sé?  Riderà,  rìderà  certamente  della  mia  sofferen- 
za... Oh,  impediscigli  di  leggerla,  te  ne  supplico.  Mi  sembra  di 
essere  nuda  davanti  a  un  altro... 

ORFEO  -  Forse  non  hanno  aperto  la  busta. 

EURIDICE  -  Ma  non  l'avevo  ancora  chiusa;  stavo  per  farlo  quando  il 
camion  ci  venne  addosso.  Ed  è  certamente  per  questo  che  l'autista 
mi  ha  guardata  nello  specchio.  Tiravo  fuori  la  lingua,  ciò  l'ha  fatto 
sorridere,  sorrisi  anch'io... 

ORFEO  -  Hai  sorriso  pure  tu?  Allora  tu  potevi  sorridere? 

EURIDICE  -  Ma  no,  io  non  potevo  sorrìdere,  tu  non  capisci!  Avevo  finito 
la  lettera  nella  quale  ti  dicevo  che  ti  amavo,  che  soffrìvo,  ma  che 
era  necessario  che  me  ne  andassi...  Ho  tirato  fuori  la  lingua  per 
leccare  la  colla  della  busta;  quello  M  ha  detto  una  frase  scherzosa 
come  fanno  quei  giovanotti.  Tutti  ridevano  attorno  a  me...  (si  fer- 
ma, scoraggiata)  Ah,  non  è  la  stessa  cosa  quando  si  racconta.  È 
diflScile.  Lo  vedi?  Lo  vedi?  Tutto  è  troppo  difficile. 

ORFEO  {riprende  sordamente)  -  Che  cosa  andavi  a  fare  nell'autobus  di 
Tolone? 

EURIDICE   -    Fuggivo. 

ORFEO  -  Avevi  ricevuto  la  lettera  di  Dulac? 

EURIDICE  -  Si,  era  per  questo  che  partivo. 

ORFEO  -  Perché  non  me  l'hai  mostrata,  quella  lettera,  quando  son  ri- 
salito? 

EURIDICE  -  Non  potevo. 

ORFEO  -  Che  ti  scriveva? 

EURIDICE  -  Di  raggiungerlo  al  treno  delle  otto  e  dodici,  altrimenti  sa- 
rebbe venuto  a  prendermi  lui  stesso. 

ORFEO  -  Ed  è  per  questo  che  sei  fuggita? 

EURIDICE  -  Si,  non  volevo  che  tu  lo  vedessi. 


374  JEAN   ANOUILH 

ORFEO  -  Non  hai  pensato  che  sarebbe  venuto  lo  stesso  e  che  l'avrei  visto? 

EURIDICE  -  Si,  ma  ero  vile,  non  volevo  essere  presente. 

ORFEO  -  Sei  stata  la  sua  amante? 

EURIDICE  (grida)  -  No,  te  l'ha  detto  lui?  Lo  sapevo  che  ti  avrebbe 
detto  cosi  e  che  tu  l'avresti  creduto!  Mi  perseguita  da  molto  tem- 
po, mi  detesta.  Sapevo  che  ti  avrebbe  parlato  di  me.  Ho  avuto 
paura. 

ORFEO  -  Perché  non  me  l'hai  confessato  ieri,  quando  ti  ho  chiesto  di 
dirmi  tutto,  perché  non  mi  hai  detto  che  eri  stata  anche  la  sua 
amante? 

EURIDICE  -  Non  lo  sono  stata. 

ORFEO  -  Euridice,  adesso  è  meglio  dir  tutto.  In  ogni  caso,  noi  siamo 
due  poveri  esseri  feriti  su  questa  panchetta,  due  poveri  esseri  che 
sì  parlano  senza  vedersi... 

EURIDICE  -  Che  debbo  dunque  dirti  perché  tu  mi  creda? 

ORFEO  -  Non  so.  Ed  è  quello,  capisci,  che  è  terribile:  non  so  piò 
come  potrò  mai  crederti...  (una  pausa;  poi  dolcemente,  umilmente) 
Euridice,  perché  io  possa  essere  senza  inquietudine  dopo,  quando 
tu  mi  dirai  le  cose  più  semplici  —  che  sei  uscita,  che  ha  fatto  bel 
tempo,  che  tu  hai  cantato  —  dimmi  adesso  la  verità,  anche  se  è 
terribile,  anche  se  dovesse  farmi  male.  Non  mi  farà  piti  male  di 
quello  che  provo  —  è  come  se  mi  mancasse  l'aria  —  da  quando  so 
che  mi  hai  mentito...  Se  è  troppo  difficile  da  dire,  non  rispondermi 
piuttosto  che  mentire.  Quell'uomo  ha  detto  la  verità? 

EURIDICE  (dopo  un'esitazione  impercettibile)  -  No,  ha  mentito. 

ORFEO  -  Non  sci  stata  mai  sua? 

EURIDICE  -  No. 

(una  pausa) 

ORFEO  (guardando  davanti  a  sé,  con  voce  sorda)  -  Se  in  questo  mo- 
mento tu  dici  la  verità  è  facile  saperlo:  gli  occhi  tuoi  saranno  lim- 
pidi come  uno  stagno  nella  pace  della  sera.  Se  tu  menti  o  non  sei 
sicura  di  te...  ci  sarà  un  cerchio  di  un  verde  più  cupo  che  andrà 
restringendosi  attorno  alla  pupilla... 

EURIDICE  -  Il  giorno  sorgerà  ben  presto,  caro,  e  potrai  guardarmi... 

ORFEO  (grida  improvvisamente)  -  Si,  fino  in  fondo  ai  tuoi  occhi,  d'un 
tratto,  come  quando  ci  si  getta  nell'acqua.  A  capofitto,  in  fondo  ai 
tuoi  occhi,  e  ch'io  vi  resti  e  che  mi  ci  anneghi... 

EURIDICE  -  Si,  caro. 

ORFEO  -  Perché,  alla  fine,  è  intollerabile  essere  due!  Due  pelli,  due  in- 
volucri ben  impermeabili,  ciascuno  per  sé  col  proprio  ossigeno, 
con  il  proprio  sangue  ben  chiuso,  nella  solitudine  del  proprio  sac- 


EURIDICE  375 

CO  di  pelle.  Ci  si  stringe  Tuno  airaltro,  ci  si  strofina  per  uscire  da 
questa  orrenda  solitudine,  si  prova  un  piccolo  piacere,  si  ha  una 
povera  illusione,  ma  ben  presto  ci  si  ritrova  soli,  col  proprio  fe- 
gato, con  la  propria  milza,  con  le  proprie  trippe,  unici  amici. 

EURIDICE  -  Taci! 

ORFEO  -  Allora  si  parla.  È  stato  inventato  anche  questo:  un  rumore 
d'aria  nella  gola  e  contro  i  denti,  un  sommario  apparecchio  Morse. 
Due  prigionieri  che  picchiano  al  muro  della  cella.  Due  prigionieri 
che  non  si  vedranno  mai.  Ah,  si  è  soli.  Non  ti  pare  che  si  è  trop- 
po soli? 

EURIDICE  -  Stringiti  forte  a  me. 

ORFEO  -  Del  calore,  sf.  Un  calore  diverso  dal  proprio.  È  qualcosa  di 
quasi  sicuro.  Anche  una  resistenza,  un  ostacolo.  Un  ostacolo  tie- 
pido. Via,  c'è  qualcuno.  Non  sono  completamente  solo.  Non  biso- 
gna chieder  troppo! 

EURIDICE  -  Domani  potrai  voltarti.  Mi  abbraccerai. 

ORFEO  -  Si,  penetrerò  per  un  momento  in  te.  Potrò  credere  per  un  mi- 
nuto che  siamo  due  steli  intrecciati  nella  stessa  radice.  E  poi  ci  se- 
pareremo e  saremo  di  nuovo  due.  Due  misteri.  Due  menzogne. 
Due.  (l'accarezza)  Ecco,  vorrei  che  una  volta  tu  mi  respirassi  con 
l'aria,  m'inghiottissi.  Sarebbe  meraviglioso.  Io  sarei  una  piccolis- 
sima cosa  in  te,  avrei  caldo,  mi  sentirei  bene. 

EURIDICE  {con  dolcezza)  -  Non  parlare  più.  Non  pensare  più.  Lascia 
che  la  tua  mano  erri  sul  mio  corpo.  Lasciala  essere  felice.  Tutto 
tornerebbe  tanto  semplice  se  tu  lasciassi  la  tua  mano  sola  ad  amar- 
mi senza  dire  più  nulla. 

ORFEO  -  Tu  credi  che  sia  questa  la  felicità? 

EURIDICE  -  Si.  La  tua  mano  è  felice  in  questo  momento.  La  tua  mano 
mi  chiede  soltanto  che  io  sia  qui,  docile  e  calda  sotto  di  essa,  e 
non  domanda  altro.  Non  mi  chiedere  nulla  nemmeno  tu.  Ci  amia- 
mo, siamo  giovani,  vivremo.  Accetta  di  essere  felice. 

ORFEO  {alzandosi)  -  Non  posso. 

EURIDICE  .  Accetta,  se  mi  ami. 

ORFEO  -  Non  posso. 

EURIDICE  -  Allora  taci,  almeno. 

ORFEO  -  Non  posso  nemmeno.  Non  tutte  le  parole  sono  state  ancora 
dette.  E  bisogna  che  le  diciamo  tutte,  ad  una  ad  una.  Bisogna  an- 
dare in  fondo  adesso,  di  parola  in  parola.  E  son  tante,  vedrai. 

EURIDICE  -  Taci,  caro,  ti  supplico! 

ORFEO  -  Tu  non  senti?  È  uno  sciame,  da  ieri,  attorno  a  noi.  Le  pa- 
role di  Dulac,  le  tue  parole,  le  mie,  le  parole  dell'altro,  tutte  le 


376  JEAN   ANOUILH 

parole  che  ci  hanno  portato  qui.  E  quelle  di  tutte  le  persone  che 
ci  guardavano  come  due  bestie  condotte  al  macello,  e  quelle  che 
non  sono  state  ancora  pronunciate  ma  che  sono  già  qui  attratte 
dall'odore  delle  altre;  le  piò  banali,  le  più  volgari,  le  più  odiate. 
Le  diremo,  le  diremo  certamente.  Finiscono  sempre  per  essere 
dette. 

EURIDICE  {si  alza  gridando)  -  Caro! 

ORFEO  -  Ah,  no,  basta  con  le  parole.  Da  ieri  siamo  impeciati  di  parole. 
Adesso  bisogna  che  ti  guardi. 

EURIDICE  {gli  si  gena  addosso  e  lo  afferra  a  mezza  vita)  -  Aspetta, 
aspetta,  per  favore.  Bisogna  lasciar  passare  la  notte.  Ben  presto 
sarà  Talba.  Aspetta.  Tutto  ridiventerà  semplice.  Verranno  con  il 
caffè,  con  le  tartine... 

ORFEO  -  È  troppo  lungo  aspettare  il  mattino,  troppo  lungo  aspettare 
di  esser  vecchi... 

EURIDICE  {lo  tiene  abbracciato;  supplica  con  la  testa  stretta  al  suo  dor- 
so) '  Oh  ti  prego,  caro,  non  ti  voltare,  non  mi  guardare...  A  che 
scopo?  Lasciami  vivere...  Tu  sei  terribile,  sai,  terribile  come  gli  an- 
geli. Tu  credi  che  tutti  avanzino  sicuri  e  chiari  come  te,  mettendo 
in  fuga  le  ombre  dei  due  lati  della  strada.  Ma  vi  sono  altri  che  non 
hanno  che  una  piccola  incerta  luce  che  il  vento  fa  vacillare.  E  le 
ombre  si  allungano,  ci  spingono,  ci  trascinano,  ci  fanno  cadere... 
Oh,  per  favore,  non  mi  guardare,  caro,  non  mi  guardare  ancora... 
Io  non  sono  forse  quella  che  tu  volevi  che  fossi,  quella  che  hai  in- 
ventata nella  felicità  del  primo  giorno...  Ma  tu  mi  senti,  è  vero, 
addosso  a  te.  Io  sono  qui,  io  sono  calda,  sono  dolce  e  ti  amo.  H 
darò  tutte  le  gioie  che  posso  darti.  Ma  non  mi  chiedere  più  di 
quello  che  posso,  accontentati...  Non  mi  guardare...  Lasciami  vi- 
vere... Te  ne  prego...  Ho  tanta  voglia  di  vivere... 

ORFEO  (grida)  -  Vivere,  vivere,  come  tua  madre  e  il  suo  amante,  forse, 
con  intenerimenti,  sorrìsi,  indulgenze,  con  dei  buoni  pranzetti,  do- 
po dei  quali  si  fa  Tamorc  e  tutto  si  accomoda?  Ah,  no.  Ti  amo 
troppo  per  vivere! 

{si  volta  e  la  guarda.  Adesso  sono  l'uno  di  fronte  all'altra  separati  da 
uno  spaventoso  silenzio.  Poi  egli  chiede  con  voce  sorda) 

ORFEO  -  Ti  ha  tenuta  fra  le  sue  braccia,  quell'uomo?   Ti  ha  toccata 

con  le  sue  dita  cariche  di  anelli? 
EURIDICE  -  Si. 
ORFEO  -  Da  quando  sei  la  sua  amante? 


EURIDICE  377 

EURIDICE  (adesso  gli  risponde  con  la  stessa  avidità  di  straziarsi)  -  Da 
un  anno. 

ORFEO  -  È  vero  che  tu  eri  con  lui  l'altro  ieri? 

EURIDICE  -  Si;  il  giorno  prima  che  t'incontrassi  venne  a  prendermi  do- 
po lo  spettacolo.  Mi  fece  un  ricatto.  Mi  faceva  ogni  volta  un  ricatto. 

DULAc  {entra  improvvisamente)  -  Confessa  che  quel  giorno  mi  hai  se- 
guito volentieri,  piccola  bugiarda. 

EURIDICE  {si  strappa  dalle  braccia  di  Orfeo  e  corre  verso  di  lui)  -  Vo- 
lentieri? Volentieri?  Sputavo  ogni  volta  che  mi  baciavi. 

DULAc  {tranquillamente)  -  Si,  colomba  mia. 

EURIDICE  -  Appena  mi  lasciavi,  correvo  a  mettermi  tutta  nuda  nella 
mia  camera,  mi  lavavo,  mi  cambiavo  tutto.  Tu  non  l'hai  mai  sa- 
puto, questo? 

DULAC  {a  Orfeo)  -  Che  matta! 

EURIDICE  -  Tu  puoi  ridere,  ma  ti  conosco,  tu  ridi  verde. 

ORFEO  -  Perché  dai  del  tu  a  quest'uomo? 

EURIDICE  {grida,  sincera)  -  Ma  io  non  gli  do  del  tu. 

DULAC  {ghignando,  a  Orfeo)  -  Vede?  E  tutto  il  resto  è  cosi.  Le  assi- 
curo che  lei  è  fuori  strada. 

EURIDICE  -  Non  prendere  le  tue  arie  di  spaccone,  non  fare  l'uomo 
superiore...  {a  Orfeo)  Scusa,  caro,  ma  tutti  si  danno  del  tu,  a  tea- 
tro. Vincenzo  gli  dà  del  tu,  la  mamma  gli  dà  del  tu;  e  per  questo 
che  dico  che  non  gli  do  del  tu.  Gli  do  del  tu  non  perché  sono  stata 
la  sua  amante,  ma  perché  tutti  gli  danno  del  tu.  {si  ferma,  sco- 
raggiata) Ah,  com'è  difficile,  com'è  difficile  spiegare  sempre  tutto!... 

ORFEO  -  È  necessario  tuttavia  che  adesso  tu  spieghi  tutto.  Hai  detto 
che  quella  sera  ti  aveva  fatto  un  ricatto,  come  ogni  sera.  Che  ri- 
catto? 

EURIDICE  -  Sempre  lo  stesso. 

DULAC  -  Adesso  vuoi  darci  ad  intendere  che  per  un  anno  tu  hai  preso 
sul  serio  quel  ricatto,  piccola  bugiarda? 

EURIDICE  -  Vedi,  tu  stesso  riconosci  che  me  l'hai  fatto  per  un  anno 
intero. 

DULAC  -  Non  fare  la  stupida,  Euridice,  che  non  lo  sei.  Io  ti  chiedo 
se  tu,  tu  hai  creduto  per  un  anno  a  quel  ricatto. 

EURIDICE  -  E  perché  me  lo  facevi  allora  ogni  volta  se  pensavi  che  non 
ci  credevo? 

DULAC  -  Era  diventata  una  formalità,  quella  minaccia.  Te  la  facevo 
perché,  nella  tua  sporca  superbietta,  tu  potessi  dirti  che  eri  costretta 
a  seguirmi,  senza  doverti  confessare  che  lo  facevi  per  piacere.  Non 
bisogna  essere  galanti  con  le  signore? 


378  JEAN   ANOUILH 

EURIDICE  -  Come,  quando  venivi  a  minacciarmi  tu  non  credevi,  tu,  a 
quel  ricatto?  Tu  m'ingannavi  ogni  volta?  Tu  mi  trascinavi  ogni 
volta,  e  non  era  vero,  tu  non  l'avresti  licenziato  sul  serio? 

DULAc  '  Ma  no,  piccola  oca. 

ORFEO  -  Di  che  cosa  ti  minacciava? 

{entra  il  piccolo  segretario,  meschino,  goffo.  Si  toglie  il  cappelluccio 
prima  di  parlare) 

IL  PICCOLO  segretario  -  La  minacciava  ogni  volta  di  licenziarmi. 

DULAC  {vedendolo  ha  un  esplosione  di  collera)  -  È  un  cretino!  Perde 
sempre  tutto!  Non  voglio  un  simile  cretino  nella  mia  compagnia. 

EURIDICE  (a  Orfeo)  -  Capisci,  caro,  questo  ragazzo  è  solo  con  un  fra- 
tello di  dieci  anni;  e  debbono  vivere  con  quello  che  guadagna  lui... 
E  poi  è  troppo  ingiusto:  tutti  lo  detestano  e  non  pensano  che  a 
farlo  mandar  via. 

IL  SEGRETARIO  -  Capisce,  signore,  bisogna  che  io  mi  occupi  di  tutti  i 
bauli,  di  tutti  gli  scenari,  e  sono  solo,  (cade  a  sedere  sopra  una 
panca  e  si  mette  a  piangere)  Non  ce  la  farò  mai,  non  ce  la  fa- 
rò mai. 

DULAC  -  È  una  bestia,  vi  dico  che  è  una  bestia! 

EURIDICE  -  Sei  tu  che  l'intontisci  a  forza  di  gridargli  nelle  orecchie. 
Son  sicura  che  se  gli  parlassero  con  calma  capirebbe.  Ascoltami, 
piccolo  Luigi... 

IL  SEGRETARIO  -  Si,  t'ascolto,  Euridice... 

EURIDICE  {a  Orfeo)  -  Vedi,  anche  a  lui  do  del  tu.  Tutti  si  danno  del 
tu.  (si  rivolge  al  piccolo)  Ascolta,  Luigi,  è  una  cosa  molto  sem- 
plice. Tu  arrivi  alla  stazione  di  coincidenza,  scendi  subito  dal  tre- 
no, corri  al  bagagliaio.  Avrai  già  avuto  cura  di  montare  in  coda 
per  essere  là  appena  cominciano  a  scaricare.  Conti  i  bauli  per  es- 
sere sicuro  che  gl'impiegati  non  ne  abbiano  dimenticato  nessuno... 

IL  SEGRETARIO  -  Si,  ma  gli  altri  hanno  fretta  di  arrivare  in  città.  Ven- 
gono già  a  consegnarmi  le  loro  valige... 

EURIDICE  -  Tu  dovrai  dir  loro  di  aspettare,  che  tu  devi  occuparti  pri- 
ma dei  bauli. 

IL  SEGRETARIO  -  Si,  ma  loro  lasciano  le  valige  accanto  a  me  sul  mar- 
ciapiede dicendomi  di  stare  attento  e  se  ne  vanno.  E  il  marciapiede 
è  pieno  di  gente  che  passa... 

EURIDICE  -  Non  bisogna  lasciarli  andare.  Correre  loro  dietro... 

IL  SEGRETARIO  -  Ma  allora  perdo  di  vista  i  bauli!  Ah,  non  ce  la  farò 
mai,  non  ce  la  farò  mai!  È  meglio  lasciarmi... 

DULAC  (esplode)  -  È  un  idiota,  n  assicuro  che  è  un  idiota.  Questa  volta 
è  deciso.  Visto,  finito.  Lo  sbarco  a  ChStellerault! 


EURIDICE  379 

EURIDICE  -  Ma  non  gridare  sempre,  tu.  Se  gridi,  come  vuoi  che  ca- 
pisca? 

DULAc  -  Non  capirà  mai.  Ti  dico  che  è  un  deficiente.  A  Chatellerault 
passerai  alla  cassa,  pezzo  d'asino! 

IL  PICCOLO  SEGRETARIO  -  Signor  Dulac,  se  mi  licenzia,  non  so  più  dove 
andare.  Siamo  perduti  tutti  e  due,  io  ed  il  mio  fratellino...  Le  giu- 
ro che  farò  attenzione,  Signor  Dulac. 

DULAC  -  Alla  cassa,  alla  cassa,  ho  detto. 

EURIDICE  -  Lo  aiuterò  io.  Ti  prometto  che  farò  in  modo  ch'egli  non 
perda  mai  più  nulla... 

DULAC  -  Le  conosco,  le  tue  promesse!  No,  no,  è  un  salame.  Licen- 
ziato, sbarcato!  Non  lo  voglio  più. 

EURIDICE  (si  attacca  a  lui  supplicando)  -  Ti  giuro  che  farà  attenzione, 
Dulac,  te  lo  giuro... 

DULAC  {la  guarda)  -  Ah,  tu  giuri  sempre,  ma  non  mantieni  spesso. 

EURIDICE  {a  voce  più  hasso)  -  Se... 

DULAC  {a  mezza  voce)  -  Se  lo  tengo  ancora,  sarai  buona? 

EURIDICE  {chinando  gli  occhi)  -  Si.  {ritoma  verso  Orfeo)  Ed  ecco  quel 
che  accadeva  ogni  volta...  Perdonami,  caro,  ero  vile,  ma  allora  non 
ti  conoscevo  ancora.  Non  amavo  nessuno.  E  non  c'ero  che  io  che 
potessi  difenderlo,  {una  pausa;  poi  mormora)  So  bene  che  adesso 
tu  non  potrai  più  guardarmi... 

ORFEO  {indietreggia,  con  voce  sorda)  -  Ti  vedrò  sempre  con  le  mani 
di  quell'uomo  addosso.  Ti  vedrò  sempre  come  ti  ha  descritta  in 
quella  camera. 

EURIDICE  {umilmente)  -  Si,  caro. 

ORFEO  -  Non  era  nemmeno  geloso  quando  venne  a  cercarti.  «Una 
donna  come  Euridice,  bisogna  passarle  i  suoi  capriccetti  ». 

EURIDICE  -  Ti  ha  detto  cosi? 

ORFEO  -  ((Com'è  la  vostra?  Bisogna  gettarla  fuori  dal  letto  la  mattina, 
strapparla  ai  suoi  romanzi  polizieschi,  alle  sue  sigarette?  ».  Sapeva 
pure  che  eri  vile  e  che  se  fosse  venuto  a  riprenderti  non  saresti  re- 
stata con  me.  Che  tu  sei  vile,  è  vero?  Egli  ti  conosce  meglio  di  me? 

EURIDICE  -  Sf,  caro. 

ORFEO  -  Ma  difenditi,  almeno!  Perché  non  ti  difendi? 

EURIDICE  {retrocede)  -  Come  vuoi  che  mi  difenda?  Mentendo?  Io  so- 
no disordinata,  è  vero,  sono  pigra,  sono  vile... 

IL  Pic(x>Lo  SEGRETARIO  {grida  impTovvisamcnte)  -  Non  è  vero! 

EURIDICE  -  Che  ne  sai  tu,  piccolo  Luigi? 

IL  PICCOLO  SEGRETARIO  -  Tu  non  eri  vile  quando  mi  difendevi  con- 
tro tutti  loro.  Lo  so,  io.  Tu  non  eri  pigra  quando  ti  alzavi  alle 


380  JEAN  ANOUILH 

sei  per  venire  ad  aiutarmi  di  nascosto  prima  che  gli  altri  scen- 
dessero... 

DULAc  {sbalordito)  -  Come,  tu  ti  alzavi  la  mattina  per  aiutare  questo 
imbecille  a  spedire  i  bauli? 

EURIDICE  -  Sf,  Dulac. 

IL  PICCOLO  SEGRETARIO  -  E  lei  cHe  non  ritrova  mai  nulla,  che  imbroglia 
tutto,  era  lei  che  metteva  in  ordine  le  mie  bollette,  che  mi  impe- 
diva di  sbagliare... 

DULAC  "  È  il  colmo! 

ORFEO  -  Ma  se  questo  ragazzo  dice  il  vero,  parla!  Difenditi  meglio. 

EURIDICE  (con  dolcezza)  -  Dice  il  vero,  ma  anche  Dulac  ha  ragione.  È 
troppo  difficile! 

(tutti  i  personaggi  della  commedia  sono  intanto  entrati,  e  si  sono  am- 
massati nell'ombra  dietro  ad  Euridice,  in  fondo  alla  scena) 

ORFEO  -  È  vero,  è  troppo  difficile;  tutte  le  persone  che  ti  hanno  cono- 
sciuta sono  attorno  a  te;  tutte  le  mani  che  ti  hanno  toccata  sono 
qui  che  ti  toccano.  E  tutte  le  parole  che  hai  dette  sono  sulle  tue 
labbra... 

EURIDICE  (retrocede  ancora  un  pò*  con  un  povero  sorriso)  -  Allora, 
vedi,  è  meglio  che  io  muoia  di  nuovo. 

LO  CHAUFFEUR  (si  stacca  dal  gruppo  e  si  avanza)  -  Non  capite  dunque 
che  questa  piccola  è  stanca?  E  che,  poi,  ha  vergogna  di  difen- 
dersi, alla  lunga.  Io  sono  cacciatore;  ebbene,  vi  sono  delle  bestiole 
COSI,  che  si  lasciano  prendere  per  stanchezza,  per  disgusto.  Si  vol- 
tano verso  i  cani  e  lasciano  fare.  È  come  quella  storia  dell'autobus, 
nella  quale  sento  che  si  sta  imbrogliando  da  qualche  momento... 

ORFEO  -  Chi  è  lei? 

EURIDICE  -  È  lo  chauffeur  dell'autobus,  caro,  {dio  chauffeur)  Vi  rin- 
grazio d'esser  venuto. 

LO  CHAUFFEUR  -  Egli  s'immagiua  che  lei  mi  ha  sorriso.  Prima  di  tutto, 
vi  pare  che  io  abbia  una  faccia  alla  quale  possa  fare  dei  sorrisi, 
questa  piccola?  Lui  s'immagina  che  lei,  signorina,  sia  partita  col 
sorriso.  E  da  li  a  credere  che  lei  non  l'ama  il  passo  è  breve,  nello 
stato  in  cui  si  trova.  Ebbene,  io  ero  li,  io  l'ho  vista. 

IL  PICCOLO  SEGRETARIO  -  Oh,  sono  coutento,  lui  ti  difenderà.  Glielo  di- 
rà lei,  è  vero,  signore? 

LO  CHAUFFEUR  -  Ma  certo  che  glielo  dirò.  Sono  qui  per  questo. 

ORFEO  -  Che  cosa  vuole  dirmi? 

LO  CHAUFFEUR  -  Pcrchc  ha  sorriso.  Da  qualche  minuto  la  guardavo  con 
la  coda  dell'occhio...  Scriveva  con  una  piccola  matita  in  un  angolo, 
aspettando   la    partenza...    Scriveva,   scriveva   e   intanto   piangeva. 


EURIDICE  381 

Quando  fini  di  scrivere  sì  asciugò  gli  occhi  col  suo  moccichino  fat- 
to a  pallottola  e  trasse  la  lingua  per  chiudere  la  busta...  Allora  io, 
per  dire  qualcosa,  le  dissi:   «Spero  che  almeno  ne  varrà  la  pena 
quello  al  quale  scrive!». 
EURIDICE  -  Allora  io  sorrisi  perché  pensai  a  te,  caro. 

LO  CHAUFFEUR  -   EcCO, 

{un  momento  di  silenzio.  Orfeo  rialza  la  testa  e  guarda  Euridice  che 
sta  di  fronte  a  lui  tutta  umile) 

ORFEO  -  Se  mi  amavi  perché  sei  partita? 
EURIDICE  -  Pensavo  che  non  sarei  mai  riuscita... 
ORFEO  -  A  che  cosa? 
EURIDICE  -  A  farti  capire. 

(sono  l'uno  di  fronte  all'altra,  silenziosi) 

LA  MADRE  {escluma  d'un  tratto)  -  Quel  che  proprio  non  capisco  è  per- 
ché tutto  debba  sembrare  cosi  triste,  a  questi  ragazzi!  Insomma, 
mio  grosso  gatto,  anche  noi  fummo  appassionati  amanti,  ma  era- 
vamo forse  tristi? 

VINCENZO  -  Per  nulla,  per  nulla!  Ed  io  lo  dicevo  sempre:  un  po'  di 
amore,  un  po'  di  denaro,  un  po'  di  successo,  e  la  vita  è  bella! 

LA  MADRE  -  Un  po*  d'amore?  Molto  amore!  Questa  bambina  s'imma- 
gina di  aver  inventato  tutto  lei  col  suo  piccolo  violinista.  Anche 
noi  ci  siamo  adorati.  Anche  noi  abbiamo  voluto  ucciderci  l'uno 
per  l'altro.  Ti  ricordi  a  Biarritz,  nel  1913,  quando  mi  volevo  get- 
tare dall'alto  della  Rupe  della  Vergine? 

VINCENZO  -  Per  fortuna  son  riuscito  ad  afferrarti  per  la  mantellina, 
mia  adorata! 

LA  MADRE  {lancia  un  piccolo  strillo  a  quel  ricordo  e  si  mette  a  spie- 
gare ad  Orfeo)  -  Era  delizioso.  Quell'anno  si  usavano  delle  piccole 
mantelline  guarnite  di  fettucce  di  seta,  della  stessa  stoffa  della  giac- 
ca. Perché  avevo  voluto  uccidermi,  quella  volta? 

VINCENZO  -  Perché  la  principessa  Bosco  m'aveva  trattenuto  presso  di 
lei  a  recitarle  dei  versi... 

LA  MADRE  -  Ma  DO.  La  principessa  Bosco  fu  quando  volli  bere  l'aceto. 
Ma  sbagliai  bottiglia.  Era  vino.  Restai  proprio  male! 

VINCENZO  -  Ah,  che  sciocchi!  Era  il  giorno  del  professore  di  patti- 
naggio. 

LA  MADRE  -  Ma  no,  la  storia  dei  professore  di  pattinaggio  fu  a  Losan- 
na, durante  la  guerra.  No,  no.  Il  giorno  della  Rupe  della  Vergine, 
eri  stato  tu  a  tradirmi,  ne  sono  proprio  sicura.  Del  resto,  i  parti- 
colari precisi  non  contano.  Quel  che  conta  è  che  anche  noi  ci  siamo 


382  JEAN    ANOUILH 

amati  appassionatamente,  da  morirne...  Ebbene,  siamo  forse  morti  P 

EURIDICE  {che  retrocede)  -  No,  mamma. 

LA  MADRE  -  Vedi,  povera  idiota,  se  avessi  dato  ascolto  a  tua  madre! 
Ma  tu  non  mi  ascolti  mai... 

EURIDICE  {allontanandola)  -  Lascia  andare  adesso,  mamma,  non  al>- 
biamo  tempo...  {ad  Orfeo  che,  immobile,  la  guarda  tdlontanarsi) 
Vedi,  caro,  non  dobbiamo  dolerci  troppo...  Avevi  ragione;  per  vo- 
ler essere  felici  saremmo  forse  divenuti  come  loro...  Che  orrore! 

LA  MADRE  -  Come,  che  orrore? 

VINCENZO  -  Perché  che  orrore? 

ORFEO  -  Perché  non  mi  hai  confessato  tutto  fìn  dal  primo  giorno?  Il 
primo  giorno  avrei  forse  potuto  capire... 

EURIDICE  -  Credi  che  non  Tabbia  fatto  perché  ero  vile?  Ebbene,  non 
fu  per  questo... 

ORFEO  -  Perché,  allora,  perché? 

EURIDICE  -  È  troppo  difficile,  caro,  mi  confonderei  di  nuovo.  E  poi, 
non  ho  più  tempo.  Ti  chiedo  scusa.  Non  muoverti...  {retrocede  an- 
cora, si  ferma  dat/anti  ad  un  personaggio)  Ah,  lei  è  la  bella  cas- 
siera, quella  che  non  diceva  mai  nulla.  Ho  sempre  pensato  che 
lei  avesse  qualcosa  da  dirci. 

LA  CASSIERA  -  Come  eravate  belli,  tutti  e  due,  quando  vi  siete  andati 
incontro,  in  quella  musica!  Eravate  belli,  innocenti  e  terrìbili  co- 
me ramorc... 

EURIDICE  (/^  sorride  e  retrocede  ancora  un  poco)  -  Grazie,  signora. 
{si  ferma  davanti  ad  un  altro  personaggio)  Ah,  il  cameriere  della 
Commedia  Francese.  Il  nostro  primo  personaggio.  Buon  giorno! 

IL  CAMERIERE  {con  un  gcsto  assai  nobile)  -  Addio,  signorina! 

EURIDICE  {sorride  suo  malgrado)  -  Lei  è  molto  nobile,  sa,  e  tanto 
amabile.  Buon  giorno,  buon  giorno...  {retrocede  ancora.  Si  ferma 
davanti  ad  un  giovanotto  vestito  di  nero  e  lo  guarda  stupita)  Ma 
chi  è  lei,  signore?  Ha  dovuto  sbagliarsi.  Io  non  mi  ricordo  di  lei. 

IL  GIOVANOTTO  -  Sono  il  Segretario  del  Commissariato  di  Polizia,  si- 
gnorina. Lei  non  mi  ha  mai  visto. 

EURIDICE  -  Ah,  è  lei  allora  che  ha  la  mia  lettera?  Me  la  restituisca, 
per  favore,  signore,  me  la  restituisca... 

IL  GIOVANOTTO  -  Non  posso,  signorina. 

EURIDICE  -  Non  voglio  che  quel  grosso  uomo  sporco  e  contento  la 
legga! 

IL  GIOVANOTTO  -  Posso  promettervi  che  il  signor  Commissario  non  la 
leggerà,  signorina.  Anch'io  ho  sentito  che  era  impossibile  che  un 
uomo  come  il   signor  Commissario  leggesse  quella  lettera.  L'ho 


EURIDICE  383 

tolta  dairincartamento.  La  pratica  è  archiviata  e  nessuno  se  ne  ac- 
corgerà. L'ho  qui.  La  rileggo  tutti  i  giorni...  Ma,  io,  non  è  la  stes- 
sa cosa... 

(si  inchina  nobile  e  triste,  cava  la  lettera  dalla  tasca,  inforca  gli  oc- 
chiali e  comincia  a  leggere,  camminando,  con  la  sua  voce  un  po' 
scialba) 

«Caro,  io  sono  in  quest'autobus  e  tu  mi  aspetti  nella  camera,  ed 
io  so  che  non  tornerò.  Ed  invano  penso  che  tu,  tu  non  lo  sai  an- 
cora, sono  triste  lo  stesso,  tanto  triste  per  te.  Sarebbe  stato  ne- 
cessario che  io  potessi  prendere  per  me  tutta  la  pena.  Ma  come 
fare?  Anche  quando  si  è  colmi  di  pena,  cosi  pieni  che  bisogna 
mordersi  le  labbra  perché  essa  non  sfugga  dalla  bocca  in  un  la- 
mento, cosi  pieni  che  le  lagrime  sgorgano  da  sole,  anche  allora  non 
si  è  presa  per  sé  tutta  la  pena;  ne  resta  sempre  abbastanza  per 
due.  La  gente  mi  guarda  in  questo  autobus,  pensa  che  si  tratti  di 
una  cosa  triste  dalle  mie  lagrime,  ma  io  detesto  le  lagrime.  Le 
lagrime  sono  stupide  Si  piange  anche  quando  si  picchia  contro 
qualcosa  o  quando  si  sbucciano  cipolle.  Si  piange  anche  quando  si 
è  irritati  o  per  qualche  altra  pena.  Per  la  mia  pena  di  adesso  avrei 
voluto  non  piangere.  Sono  troppo  triste  per  piangere. 

(il  giovanotto  volta  la  pagina  e  continua  a  leggere  con  voce  più  si- 
cura) 

Me  ne  vado,  caro.  Già  da  ieri  avevo  paura  e,  mentre  dormivo,  tu 
l'hai  sentito,  dicevo  già  che  era  troppo  difficile.  Tu  mi  vedevi  cosi 
bella,  caro,  voglio  dire  bella  moralmente,  che  so  bene  che  fisica- 
mente non  ti  sono  sembrata  molto,  molto  bella.  Tu  mi  vedevi  cosi 
forte,  cosi  pura,  proprio  come  una  tua  piccola  sorella...  Non  ci  sa- 
rei mai  riuscita.  Soprattutto  adesso  che  l'altro  sta  per  venire.  Mi 
ha  mandato  una  lettera.  Un  altro  che  è  stato  mio  amante  e  dei 
quale  non  ti  ho  parlato.  Non  credere  che  io  l'abbia  amato,  quello 
li;  tu  lo  vedrai,  non  è  possibile  amarlo.  Non  credere  che  io  abbia 
ceduto  perché  abbia  avuto  paura  di  lui,  come  forse  ti  dirà.  Tu  non 
potresti  capire,  lo  so  bene.  Ma  allora  io  mi  sentivo  cosi  sicura  e 
nello  stesso  tempo  mi  stimavo  cosi  poco.  Allora  tu  non  c'eri,  caro, 
ecco  tutto  il  segreto;  allora  io  non  ti  amavo,  io  non  sapevo.  Il  pu- 
dore delle  ragazze  per  bene  mi  faceva  ridere.  La  loro  maniera  di 
conservare  qualcosa  per  orgoglio  o  per  un  compratore  scelto  mi 
pareva  tanto  brutta...  Da  ieri,  caro,  sono  più  pudica  di  loro.  Da 
ieri  arrossisco  se  mi  guardano,  tremo  se  mi  sento  sfiorata.  Piango 
all'idea  che  qualcuno  abbia  osato  desiderarmi...  È  per  questo  che 


384  JEAN    ANOUILH 

me  ne  vado,  caro,  tutta  sola...  Non  soltanto  perché  ho  paura  che 
egli  ti  dica  come  m'ha  conosciuta,  non  soltanto  perché  temo  che 
tu  non  mi  voglia  più...  Non  so  se  capirai  bene,  me  ne  vado  perché 
sono  tutta  rossa  di  vergogna.  Me  ne  vado,  capitano  mio,  e  vi  la- 
scio precisamente  perché  mi  avete  insegnato  che  io  ero  un  buon 
soldatino...  ». 

{durante  la  lettura,  Euridice  ha  continuato  ad  allontanarsi.  Adesso  è 
arrivata  in  fondo  dia  scena) 

ORFEO  -  Perdono,  Euridice. 

EURIDICE  (gentilmente,  dal  fondo)  -  Non  c'è  di  che,  caro;  sono  io  che 

ti  chiedo  perdono,  (agli  altri)  Mi  scusino,  debbo  andare. 
ORFEO  (grida)  -  Euridice! 

(corre  come  un  pazzo  in  fondo  dia  scena.  Lei  è  scomparsa.  Scom- 
parsi tutti  gli  dtri  personaggi.  Orfeo  è  restato  solo,  immobile.  Sorge 
il  mattino.  Un  fischio  di  treno  in  lontananza.  Il  gracidio  del  cam- 
panello. Quando  la  luce  del  giorno  è  divenuta  quasi  rede,  entra 
il  cameriere,  con  l'aspetto  ben  vivo) 

IL  CAMERIERE  -  Buon  giomo,  signore.  Non  fa  caldo  questa  mattina. 

Prende  qualcosa? 
ORFEO  (cade  a  sedere)  -  Si,  quel  che  vuole,  un  caffé. 
IL  CAMERIERE  -  Bene,  signore. 

(comincia  a  togliere  le  sedie  dai  tavoli.  La  cassiera  entra  e  va  dia  cassa 
canticchiando  una  canzone  sentimentde  di  prima  della  guerra.  Un 
viaggiatore  passa  sul  marciapiede,  esita  e  poi  entra  tìmidamente,  È 
carico  di  vdige  e  di  strumenti  di  musica.  È  il  padre  di  Orfeo) 

IL  PADRE  -  Tu  sei  qui,  figliolo?  Sai,  non  ho  preso  il  treno  di  Palavas. 
Completo,  arcicompleto,  mio  caro.  E  quegli  animali  volevano  far- 
mi pagare  un  supplemento  di  seconda.  Allora  sono  sceso.  Prote- 
sterò con  le  Ferrovie.  Un  viaggiatore  ha  diritto  ad  un  posto  a  se- 
dere in  qualsiasi  classe.  Avrebbero  dovuto  farmi  gratis  il  passaggio 
di  classe.  Bevi  un  caffé? 

ORFEO  (che  non  ha  l'aria  di  vederlo)  -  Si. 

IL  PADRE  (sedendosi  accanto  a  lui)  -  Lo  prenderei  volentieri  anch*io. 
Ho  passato  la  notte  nella  sala  d'aspetto,  (gli  dice  dVorecchio)  Sai, 
a  dirti  il  vero,  mi  sono  infilato  in  quella  di  prima  classe.  Un  ec- 
cellente divano  di  cuoio,  caro  mio,  ho  dormito  come  un  papa. 
(vede  la  cassiera,  la  squadra.  Lei  volge  lo  sguardo  dtrove;  anche 
lui)  Vedi,  alla  luce  del  giorno  perde  molto,  quella  donna.  Ha  del- 
le belle  tette,  ma  un  aspetto  estremamente  volgare...  Allora,  che 


EURIDICE  385 

cosa  hai  deciso,  figliolo?  La  notte  porta  consiglio.  Tu  vieni  dun- 
que con  me? 

ORFEO  -  Si,  papà. 

IL  PADRE  -  Lo  sapevo  che  non  avresti  abbandonato  il  vecchio  padre. 
Per  festeggiare  l'evento  ci  regaleremo  una  bella  colazioncina  a 
Perpignano.  Pensa,  mio  caro,  che  conosco  laggiù  un  piccolo  prezzo 
fisso  a  quindici  franchi  settantacinque,  compreso  il  vino,  il  caffé  e 
il  cicchetto.  Si,  mio  caro,  un  cognac  eccellente.  E  con  quattro  fran- 
chi di  supplemento,  ti  danno  l'astice  al  posto  dell'antipasto.  La 
bella  vita,  insomma,  figliolo,  la  bella  vita... 

ORFEO  -  Si,  papà. 


ATTO    QUARTO 

La  camera  d* albergo,  orfeo  è  mezzo  steso  sul  letto,  il  signor  Enrico  è  in 
piedi,  appoggiato  al  muro.  Sprofondato  nell'unica  poltrona,  il  padre  juma  un 
enorme  sigaro. 

IL  PADRE  (d  signor  Enrico)  -  È  un  merveillitas? 

IL    SIGNOR  ENRICX)  -  Si. 

IL  PADRE  -  Deve  costare  qualcosa  un  sigaro  come  questo. 

IL   SIGNOR  ENRICO  -  Sì. 

IL  PADRE  -  E  lei  non  fuma? 

IL    SIGNOR  ENRICO  -  No. 

IL  PADRE  -  Non  capisco  come,  non  fumando,  lei  tenga  dei  sigari  di 
questo  valore.  È  commesso  viaggiatore,  forse? 

IL   SIGNOR  ENRICO  -   AppuntO. 

IL  PADRE  -  Grossi  affari,  probabilmente. 

IL    SIGNOR  ENRICO  -  Si. 

IL  PADRE  -  Allora  si  capisce.  Bisogna  invogliare  il  cliente.  Al  mo- 
mento buono  si  tira  fuori  un  merveillitas.  Lei  fuma?  L'altro  dice 
di  SI,  tutto  contento,  e  il  colpo  è  fatto.  Non  resta  che  da  sottrarre 
il  prezzo  del  sigaro  dal  prezzo  di  vendita,  nel  quale  del  resto  era 
stato  calcolato.  Siete  tutti  dei  burloni.  Mi  sarebbe  piaciuto  tanto 
fare  affari.  A  te  no,  figliolo?  (Orfeo  non  gli  risponde)  Bisogna 
scuoterti,  ragazzo  mio,  bisogna  scuoterti.  Toh,  gli  offra  un  mer- 
veillitas. Se  non  lo  finirai  tu,  lo  finirò  io...  Quando  sono  triste,  un 
buon  sigaro...  {né  Orfeo  né  il  signor  Enrico  gli  badano.  Il  pa- 
de  sospira  e  continua  con  minore  sicurezza)  Insomma,  ciascuno 


25.  -   Teatro  francese 


386  JEAN   ANOUILH 

ha  i  suoi  gusti,  (si  rimette  a  fumare  gettando  occhiate  sui  due  uo- 
mini silenziosi) 

IL  SIGNOR  ENRICO  (dopo  Una  pausa,  con  dolcezza)  -  Devi  alzarti,  Orfeo. 

IL  PADRE  -  Non  è  vero?  Non  faccio  che  dirgli  questo... 

ORFEO  -  No. 

IL  PADRE  -  Ma  lui  non  ascolta  mai  suo  padre. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Bisogiia  alzarsi  e  riprendere  la  vita  dove  l'hai  la- 
sciata, Orfeo... 

IL  PADRE  '  Siamo  appunto  aspettati  a  Perpignano. 

ORFEO  {si  alza  a  metà  e  gli  grida)  -  Taci! 

IL  PADRE  (si  fa  piccina)  -  Dico  che  ci  aspettano  a  Perpignano.  Non 
c*è  nulla  di  male. 

ORFEO  -  Non  tornerò  mai  con  te. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Tuttavia  la  tua  vita  è  là  che  ti  aspetta  come  una 
vecchia  giacca  che  bisogna  indossare  la  mattina. 

ORFEO  -  Ebbene,  non  l'indosserò. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Ne  hai  un'altra?  {Orfeo  non  risponde.  Il  padre 
fuma)  Perché  non  dovresti  tornare  con  lui?  To  lo  trovo  piacevole, 
tuo  padre. 

IL  PADRE  -  È  quel  che  gli  dico  io. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  E  poi  lo  conosci.  È  già  molto.  Tu  puoi  dirgli  di 
star  zitto,  camminare  accanto  a  lui  senza  parlare.  Immagini  il  sup- 
plizio che  ti  aspetta  senza  di  lui?  Il  compagno  di  tavola  che  ti 
mette  al  corrente  dei  suoi  gusti,  la  vecchia  signora  che  ti  fa  delle 
domande  con  affettuoso  interesse.  E  l'ultima  delle  donnine  incon- 
trate per  strada  che  pretende  che  si  parli  di  lei.  Se  non  vuoi  pagare 
il  tuo  tributo  di  parole  inutili,  sarai  spaventosamente  solo. 

ORFEO  -  Sarò  solo.  Ne  ho  l'abitudine. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Diffida  di  questa  parola.  Essere  solo  fa  pensare  al- 
l'ombra, al  fresco,  al  riposo.  Grossolano  errore.  Tu  non  sarai  solo, 
non  si  è  mai  soli.  Si  è  con  se  stessi,  che  è  ben  altra  cosa,  lo  sai... 
Riprendi  dunque  la  vita  con  tuo  padre.  Ti  servirà  ogni  giorno  le 
sue  considerazioni  sulla  durezza  dei  tempi  e  sui  menù  dei  pasti 
a  prezzo  fìsso.  Sarà  un'occupazione.  Tu  sarai  piò  solo  di  quando 
sei  tutto  solo. 

IL  PADRE  -  In  quanto  a  prezzi  fìssi,  ne  conosco  appunto  uno  a  Perpi- 
gnano, il  «  Restaurant  Bouillon  Jeanne  Hachette  ».  Lo  conosce  for- 
se anche  lei?  È  molto  frequentato  dai  suoi  colleghi. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  No. 

IL  PADRE  -  Per  quindici  franchi  e  settantacinque  servono,  vino  com- 
preso, antipasto  (o  astice,  con  quatto  franchi  di  supplemento),  piat- 


EURIDICE  387 

to  di  carne  con  contorno  (molto  abbondante),  legumi,  formaggio^ 
frutta  o  dolce  (aspetti,  non  è  finito),  caffé,  e  cicchetto,  cognac  o, 
per  le  signore,  liquore  dolce.  Ecco,  il  piccolo  menu  del  «Jeanne 
Hachette».  Con  un  sigaro  cosi!...  mi  dispiace  quasi  di  averlo  fu- 
mato subito,  (non  avendo  avuto  col  suo  discorso  il  successo  spe- 
rato, sospira)  Insomma,  tu  vieni  a  Perpignano,  figliolo?  Tinvito  io. 

ORFEO  -  No,  papà. 

IL  PADRE  -  Hai  torto,  ragazzo,  hai  torto. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  È  vero,  Orfeo,  hai  torto.  Tu  dovresti  dare  ascolto 
a  tuo  padre.  È  al  «  Restaurant  Bouillon  Jeanne-Hachette  »  che  po- 
trai meglio  che  altrove  dimenticare  Euridice. 

IL  PADRE  -  Oh,  non  saranno  delle  orgie,  ma  insomma  si  mangia  bene. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Il  solo  posto  al  mondo  dove  non  vi  sia  il  fantasma 
di  Euridice  è  il  «Restaurant  Bouillon  Jeanne  Hachette»  a  Per- 
pignano. Tu  dovresti  corrervi,  Orfeo. 

ORFEO  -  Lei  crede  dunque  che  io  voglia  dimenticarla? 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Bisogua,  caro  mio,  e  al  più  presto  possibile.  Tu  sei 
stato  un  eroe  per  un  giorno.  In  quelle  poche  ore  hai  esaurito  la 
tua  parte  di  patetico  per  tutta  la  vita.  Ora  è  finita,  tu  sei  tranquillo. 
Dimentica,  Orfeo,  dimentica  financo  il  nome  di  Euridice.  Prendi 
tuo  padre  per  il  braccio  e  ritorna  alle  sue  trattorìe.  La  vita  può  ri- 
prendere per  te  il  suo  volto  rassicurante,  la  morte  la  sua  abituale 
percentuale  di  probabilità,  la  disperazione  la  sua  forma  sopporta- 
bile. Via,  alzati  e  segui  tuo  padre.  Tu  hai  ancora  una  bella  car- 
riera di  vivo  davanti  a  te.  {queste  ultime  parole  sono  pronunciate 
in  tono  più  aspro) 

IL  PADRE  [dopo  una  pausa)  -  Sai,  figliolo,  anch'io  ho  amato. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Vedi,  anche  lui  ha  amato.  Guardalo. 

IL  PADRE  -  È  vero,  guardami.  So  bene  che  è  triste.  Ho  sofferto  anch'io. 
Non  ti  parlo  nemmeno  di  tua  madre.  Quando  morì,  era  da  un 
pezzo  ormai  che  non  ci  amavamo  più.  Ho  perduto  una  donna  che 
adoravo.  Una  Tolosana  tutta  fuoco.  Spacciata  in  otto  giorni.  I 
bronchi!  Piangevo  come  una  fontana  seguendo  il  funerale.  Mi 
hanno  dovuto  portare  in  un  caffé.  Guardami. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  È  vero,  guardalo. 

IL  PADRE  -  Non  dico  che  quando  mi  capita  di  sedermi  al  «Grand 
Comptoir  Toulousain»  dove  andavamo  insieme,  non  abbia  nello 
spiegare  il  tovagliolo  una  piccola  stretta  al  cuore,  ma  basta!  la 
vita  è  là.  Che  vuoi  farci?  Bisogna  viverla,  [tira  pensosamente  boc- 
cate di  fumo,  sospira,  mormora)  Quel  «Grand  Comptoir  Toulou- 


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sain  ))  però...  quando  ci  andavo  con  lei,  prima  della  guerra,  si  man- 
giava per  un  franco  e  settantacinque! 

IL  SIGNOR  ENRICO  {chifio  SU  Orfco)  -  La  vita  è  H.  La  vita  e  li,  Orfeo. 
Dà  ascolto  a  tuo  padre. 

IL  PADRE  (incoraggiato  dalle  parole  del  Signor  Enrico)  -  Adesso  ti  dirò 
anche  cose  dure,  che  ti  faranno  indignare,  ma  io  ho  più  esperien- 
za di  te  e  quando  avrai  la  mia  età  riconoscerai  che  avevo  ragione. 
Si  soffre  dapprima,  beninteso,  ma  poi  —  vedrai  —  si  prova  no- 
stro malgrado  una  dolcezza  nuova...  Un  bel  mattino  —  a  me  è 
capitato  un  mattino  —  vi  levate,  vi  annodate  la  cravatta,  c'è  il 
sole,  uscite,  e  tutt'a  un  tratto,  pff!,  vi  accorgete  che  le  donne  sono 
ridivenute  graziose.  Siamo  terribili,  mio  caro,  e  tutti  gli  stessi: 
dei  bricconi. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Ascolta  bene,  Orfeo... 

IL  PADRE  -  Non  dico  che  si  faccia  il  pazzerellone  con  la  prima  incon- 
trata. No.  per  quanto  sia,  non  si  è  dei  bruti  e  la  cosa  ai  primi 
approcci  fa  uno  strano  effetto.  È  anzi  curioso:  non  si  può  fare  a 
meno  di  cominciare  parlandole  dell'altra.  Le  si  dice  che  ci  si  sente 
soli,  sbandati.  Il  che  in  fondo  è  vero!  Ah,  non  puoi  immaginare, 
mio  caro,  come  questo  genere  di  discorsi  intenerisse  le  donne!  È 
ben  semplice,  voi  mi  direte  che  sono  un  corsaro,  ma  dieci  anni  do- 
po io  mi  servivo  ancora  dello  stesso  trucco. 

ORFEO  -  Taci,  papà. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Perché  vuoi  farlo  tacere?  Egli  ti  parla  come  la  vita 
ti  parlerà  da  tutte  le  sue  bocche;  ti  dice  quello  che  domani  legge- 
rai in  tutti  gli  occhi  quando  ti  alzerai  e  tenterai  di  vivere... 

IL  PADRE  {ormai  lanciato)  -  La  vita!  Ma  la  vita  è  magnifica,  mio  caro... 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Ascolta  bene. 

IL  PADRE  -  Non  devi  dimenticare  che  tu  sei  un  ragazzo  sen2ui  espe- 
rienza e  che  l'uomo  che  ti  parla  in  questo  momento  ha  vissuto,  in- 
tensamente vissuto.  Eravamo  terribili  al  Conservatorio  di  Niort! 
Dei  matti!  La  gioventù  brillante.  Sempre  con  il  bastoncino  in  ma- 
no e  con  la  pipa  al  becco,  e  sempre  a  combinarne  delle  belle.  In 
quel  tempo  non  avevo  ancora  pensato  all'arpa.  Studiavo  il  fagotto 
e  il  corno  inglese.  Ogni  sera  facevo  sette  chilometri  a  piedi  per 
andare  a  suonare  sotto  le  finestre  di  una  donna.  Ah,  eravamo 
gente  in  gamba,  dei  forsennati,  degli  eccentrici.  Una  volta,  alla 
lezione  degli  strumenti  a  corda,  sfidammo  gli  ottoni.  Scommettem- 
mo di  bere  trenta  mezzi  litri.  Ah,  quel  che  abbiamo  potuto  vo- 
mitare! Eravamo  giovani,  insomma,  eravamo  allegri.  Avevamo  ca- 
pito la  vita,  noi! 


EURIDICE  389 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Vedi,  Orfeo? 

IL  PADRE  -  Quando  si  ha  la  salute,  il  muscolo  e  la  scintilla,  non  c'è, 
amico  mio,  che  da  andare  avanti.  Io  non  ti  capisco,  mio  caro.  An- 
zitutto il  buon  umore,  che  è  questione  di  equilibrio.  E  un  solo 
segreto:  la  ginnastica  tutti  i  giorni.  Se  sono  cosi  in  forma,  è  per- 
ché non  ho  mai  smesso  di  fare  ginnastica.  Dieci  minuti  ogni  mat- 
tina, non  di  più,  ma  dieci  minuti  che  contano,  {si  alza  e  comincia 
dei  ridicoli  movimenti  di  ginnastica  svedese)  Uno,  due,  tre,  quat- 
tro, cinque.  Uno,  due,  tre,  quattro,  cinque.  Uno,  due.  Uno,  due. 
Uno  due.  Con  questo,  niente  pericolo  di  pancia  o  di  varici...  L'al- 
legria che  dà  la  salute,  la  salute  che  dà  l'allegria  e  viceversa.^  Uno, 
due,  tre,  quattro,  respirate  profondamente.  Uno,  due,  tre,  quattro, 
respirate  profondamente.  Uno,  due,  tre,  quattro.  Ecco  tutto  il  mio 
segreto. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Vedi,  Orfeo,  e  molto  semplice. 

IL  PADRE  {che  si  è  seduto  soffiando  come  una  foca)  -  È  questione  di 
volontà.  Tutto  nella  vita  è  una  questione  di  volontà.  È  la  mia  vo- 
lontà che  mi  ha  permesso  di  superare  i  momenti  più  difficili.  Una 
volontà  di  ferro!  Ma,  s'intende,  c'è  il  modo...  Tutti  mi  hanno  sem- 
pre giudicato  estremamente  amabile.  Del  velluto,  ma  sotto  c'era 
l'acciaio.  Andavo  diritto,  senza  conoscere  ostacoli.  Un'ambizione 
smisurata.  L'oro,  la  potenza.  Ma,  badate,  avevo  una  forte  prepara- 
zione tecnica.  Primo  premio  di  fagotto  al  Gjnservatorio  di  Niort. 
Secondo  premio  di  corno  inglese;  seconda  menzione  onorevole  di 
composizione.  Potevo  avanzare,  avevo  un  bagaglio.  Io,  vede,  caro 
signore,  voglio  che  la  gioventù  sia  ambiziosa!  E  che?,  perdio,  ti 
dispiacerebbe  tanto  di  essere  milionario? 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Rispondi  a  tuo  padre,  Orfeo... 

IL  PADRE  -  Ah,  il  denaro,  il  denaro,  ma  è  tutta  la  vita,  mio  caro. 
Adesso  hai  dei  dispiaceri,  ma  sei  giovane.  Pensa  che  puoi  diven- 
tare ricco.  Il  lusso,  l'eleganza,  la  buona  tavola,  le  donne.  Pensa  alle 
donne,  figliolo,  pensa  all'amore!  Le  brune,  le  bionde,  le  rosse,  le 
tinte.  Quanta  varietà,  quante  possibilità  di  scelta.  E  tutte  per  te. 
Tu  sei  il  sultano,  fai  due  passi,  alzi  un  dito.  Quella  là.  Tu  sei  ric- 
co, sei  giovane,  sei  bello,  e  quella  accorre.  Ed  allora  sono  le  notti 
folli...  La  passione,  le  grida,  i  morsi,  i  baci  pazzi,  l'ombra  calda, 
qualcosa  di  spagnolo.  Oppure,  sui  divani  di  un  salottino,  dalle  cin- 
que alle  sette,  fra  pellicce  chiare,  i  riflessi  della  fiamma  del  ca- 
minetto sulla  nudità  di  una  fanciulla  bionda  e  perversa,  ed  altri 
piacevoli  e  piccanti  giuochi.  Non  ho  bisogno  di  aggiungerti  altro, 
mio  caro!  Le  sensazioni!  Tutte  le  sensazioni.  Una  vita  di  sensa- 


390  JEAN    ANOUILH 

zioni.  Dov*è  la  pena?  Andata  in  fumo,  (ha  un  gesto,  diviene  gra- 
ve) Ma  non  è  solo  quello  la  vita.  C'è  il  decoro,  la  vita  sociale.  Ec- 
coti divenuto  forte,  potente,  alla  testa  di  un'impresa  industriale. 
Tu  hai  abbandonato  la  musica...  Maschera  dura,  impenetrabile... 
Consigli  di  amministrazione,  fra  volponi,  dove  sono  in  giuoco  le 
sorti  dell'economia  europea.  (Ma  tu  li  giuochi  tutti).  E  poi  lo  scio- 
pero, gli  operai  in  armi,  la  violenza.  Tu  ti  avanzi  solo  sulla  so- 
glia della  fabbrica.  Parte  un  colpo  che  ti  sbaglia.  Tu  non  hai  un 
attimo  di  esitazione.  Scandendo  le  parole,  tu  parli.  Si  aspettavano 
delle  promesse,  una  mezza  ritirata.  Si  vede  che  non  ti  conoscevano. 
Tu  sei  terribile.  Tu  li  sferzi.  Essi  chinano  il  capo,  riprendono  il 
lavoro.  Vinti!  È  splendido...  Allora,  consigliato  dai  migliori  amici, 
tu  ti  dai  alla  politica.  Pieno  di  onori,  potente,  decorato,  senatore. 
E  sempre  sulla  breccia.  Esequie  nazionali,  fiori,  enormi  quantità 
di  fiori,  tamburi  coperti  di  crespo  nero,  discorsi.  Ed  io,  modesto  in 
un  angolo  —  ci  hanno  tenuto  che  assistessi  alla  cerimonia  —  bel 
vegliardo  (ah,  si,  caro,  sarò  incanutito)  che  domino  il  mio  dolore 
ali '((attenti)):  (declama)  ((Rendiamo  un  commosso  omaggio  al  do- 
lore di  un  padre!...)),  (è  troppo  Mio,  esplode)  Ah,  amico  mio, 
amico  mio,  ma  è  magnifica,  la  vita!... 

IL  SIGNOR  £NRicx>  -  Vedi,  Orfeo? 

IL  PADRE  -  E  quest'uomo  che  ti  parla  ha  sofferto!  Ha  bevuto  tutti 
i  calici.  Ha  spesso  taciuto  mor(lendosi  le  labbra  a  sangue  per  non 
gridare.  I  suoi  compagni  di  baldoria  non  hanno  sospettato  le  sue 
torture,  certe  volte,  e  tuttavia...  Il  tradimento,  il  disprezzo,  l'in- 
giustizia... Ti  stupisci  talvolta,  ragazzo,  di  vedermi  con  il  corpo 
piegato,  con  i  capelli  precocemente  incanutiti?  Se  tu  sapessi  il  peso 
di  una  vita  sulle  spalle  di  un  uomo...  (succhia  invano  il  mozzi- 
cone del  sigaro;  lo  guarda  scocciato  e  lo  getta  con  un  sospiro.  Il 
Signor  Enrico  gli  si  avvicina  e  gli  porge  ^astuccio) 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Un  altro  sigaro? 

IL  PADRE  -  Grazie,  sono  confuso.  Si,  si,  sono  confuso.  Che  aroma!  Il 
cerchietto  è  un  piccolo  gioiello.  Senta,  mio  caro,  lo  sa  che  mi  han- 
no dato  ad  intendere  che  le  ragazze  che  fabbricano  questi  sigari 
li  rotolano  tutte  nude  sulle  loro  cosce?  (lo  fiuta)  Sulle  cosce...  (si 
ferma)  Che  stavo  dicendo? 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Il  pcso  di  ima  vita... 

IL  PADRE  (che  ha  perduto  lo  slancio  lirico)  -  Come,  il  peso  di  una  vita? 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Se  tu  sapcssi  il  peso  di  una  vita  sulle  spalle  di 
un  uomo... 

IL  PADRE   (tagliando  con  i  denti  la  punta  del  sigaro)  -  Ah,  si.  Se  tu 


EURIDICE  391 

sapessi,  ragazzo,  il  peso  della  vita  sulle  spalle  di  un  uomo...  (si 
ferma;  accende  con  cura  il  sigaro  e  conchiude  sempUcetnente)  è 
molto  pesante,  figliolo,  estremamente  pesante,  {tira  una  lunga  boc- 
cata con  devozione^  Meraviglioso!  (strizza  l'occhio  al  Signor  En- 
rico) Mi  sembra  di  fumare  la  coscia,  (uuol  ridere,  ma  si  strozza 
col  fumo.  Il  Signor  Enrico  si  è  ai/vicinato  ad  Orfeo) 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Hai  Sentito  tuo  padre,  Orfeo?  Bisogna  sempre 
ascoltare  il  padre.  I  padri  hanno  sempre  ragione.  (Orfeo  leva  gli 
occhi  e  lo  guarda)  Anche  gl'imbecilli,  Orfeo.  La  vita  è  cosi  fatta 
che  i  padri  imbecilli  ne  sanno  quanto  gl'intelligenti  e  talvolta  di 
più.  La  vita  non  ha  bisogno  dell'intelligenza:  è  anzi  la  cosa  più 
imbarazzante  ch'essa  possa  incontrare  nella  sua  allegra  corsa. 

ORFEO  (mormora)  -  La  vita... 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Non  dime  male.  Ieri  sera  la  difendevi. 

ORFEO  -  È  COSI  lontano,  ieri  sera. 

IL  SIGNOR  ENRICO  (con  dolcczza)  -  Te  l'avevo  pur  detto  ch'essa  ti  avreb- 
be fatto  perdere  Euridice. 

ORFEO  -  Non  accusi  la  vita...  «  La  vita  »  non  vuol  dire  nulla.  La  colpa 
è  mia,  solo  mia. 

IL  SIGNOR  ENRICO  (sorHdc)  -  Solo  tua.  Gjme  sei  orgoglioso. 

ORFEO  -  Precisamente...  è  il  mio  orgoglio. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Il  tuo  orgoglio!  Davvero,  piccolo  uomo?  Pretendi 
che  anche  l'orgoglio  ti  appartenga?  Il  tuo  amore,  il  tuo  orgoglio, 
adesso  la  tua  disperazione,  senza  dubbio.  Che  bisogno  avete  di 
mettere  sempre  un  possessivo  davanti  ai  vostri  piccoli  trucchi? 
Siete  straordinari.  E  perché  non  il  mio  ossigeno,  il  mio  azoto?  Bi- 
sogna dire  l'Orgoglio,  l'Amore,  la  Disperazione.  Sono  nomi  di 
fiumi,  mio  piccolo  uomo.  Da  essi  si  stacca  un  rivolo  che  ti  bagna 
fra  mille  altri.  È  tutto.  Il  fiume  Orgoglio  non  è  tuo. 

ORFEO  -  E  nemmeno  il  fiume  Gelosia,  lo  so.  E  la  pena  che  mi  affoga 
viene  senza  dubbio  dallo  stesso  fiume  Pena  che  in  questo  momento 
affoga  milioni  di  altri  uomini.  È  la  stessa  acqua  gelata,  la  stessa 
corrente  anonima,  e  con  questo?  Io  non  sono  di  quelli  che  si  con- 
solano del  loro  male  dicendo  «  è  la  vita  ».  Che  cosa  volete  che  mi 
importi,  a  me,  che  sia  la  vita?...  Che  un  milione  di  granelli  di 
sabbia  siano  macinati  nello  stesso  momento? 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Sono  i  tuoi  fratelli,  come  si  dice. 

ORFEO  -  Io  li  odio  tutti,  uno  per  uno...  e  che  non  mi  si  venga  a  fare 
della  folla  una  grande  sorella  che  intenerisce.  Si  è  soli,  completa- 
mente soli.  È  l'unica  certezza. 

IL  SIGNOR  ENRICO  (si  è  chinoto  SU  di  lui)  -  E  almeno  tu,  tu  sei  solo 


392  JEAN   ANOUILH 

perché  hai  perduto  Euridice.  Ma  pensa  che  la  vita,  la  tua  cara  vita 
ti  riserbava  di  trovarti,  un  giorno,  solo  accanto  ad  Euridice  viva. 

ORFEO  -  No. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Si.  Un  giomo  o  l'altro,  fra  un  anno,  fra  cinque  an- 
ni, fra  dieci  se  vuoi,  senza  cessare  di  volerle  bene,  forse,  ti  saresti 
accorto  che  non  avevi  più  desiderio  di  Euridice,  come  lei  non  ave- 
va desiderio  di  te. 

ORFEO  -  No. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Si.  Sarebbe  stato  qualcosa  di  cosi  stupido.  Tu  sa- 
resti stato  il  signore  che  tradisce  Euridice. 

ORFEO  -  Giammai! 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Perché  gridi  cosi  forte,  per  me  o  per  te  stesso?  Po- 
niamo, se  preferisci,  che  saresti  stato  il  signore  che  ha  voglia  di 
tradire  Euridice.  Che  è  la  stessa  cosa. 

ORFEO  -  Le  sarei  stato  sempre  fedele. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Forsc  a  lungo.  Con  delle  occhiate,  che  non  osano, 
alle  altre  donne.  Con  un  odio  lento  e  sicuro  che  si  sarebbe  messo 
a  crescere  fra  di  voi,  a  causa  di  tutte  le  donne  che  tu  non  avresti 
potuto  seguire  nella  strada  per  colpa  sua... 

ORFEO  -  Non  è  vero. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Si.  Fino  al  giorno  in  cui  una  di  loro  fosse  passata 
davanti  a  te,  giovane  e  dura,  senza  traccia  di  dolori,  senza  ombra 
di  pensieri;  una  donna  nuova,  Orfeo,  davanti  alla  tua  stanchezza. 
Allora  tu  avresti  potuto  vedere  la  morte,  il  tradimento,  la  menzo- 
gna presentarsi  improvvisamente  come  i  rimedi  più  semplici,  avre- 
sti visto  l'ingiustizia  prendere  un  altro  nome,  la  fedeltà  un  altro 
volto... 

ORFEO  -  No.  Avrei  chiuso  gli  occhi.  Sarei  fuggito. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  La  prima  volta  forse,  e  tu  avresti  continuato  a 
camminare  ancora  per  qualche  tempo  accanto  a  Euridice  con  gli 
occhi  di  un  uomo  che  cerca  di  perdere  il  cane  per  strada.  Ma  alla 
centesima  volta,  Orfeo!...  (fa  un  gesto)  D'altronde,  Euridice  ti 
avrebbe  abbandonato  per  prima... 

ORFEO  {con  un  lamento)  -  No. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Perché  no?  Perche  ti  amava  ieri?  Un  uccellino, 
anche  lei,  capace  di  volar  via  senza  saper  perché,  salvo  a  morire. 

ORFEO  -  Non  avremmo  potuto  cessare  di  amarci. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Lei  non  avrebbe  forse  cessato  di  amarti,  la  pove- 
rina. Non  è  facile  cessare  di  amare.  La  tenerezza  ha  la  vita  te- 
nace. Ella  avrebbe  forse  avuto  una  particolare  maniera  di  darsi  a 
te  prima  di   andare  a  trovare  il   suo  amante,   una   maniera  cosi 


EURIDICE  393 

umile,  così  gentile  che  tu  avresti  potuto  essere  ancora  un  po'  felice. 
È  vero. 

ORFEO  -  No,  non  noi,  non  noi. 

IL  SIGNOR  ENRic»  -  Voi  comc  gli  altri.  Voi  più  degli  altri.  Con  la  vo- 
stra maniera  di  essere  teneri  vi  sareste  torturati  senza  pietà. 

ORFEO  -  No. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Si.  Oppure  un  giorno  stanchi,  sorridenti,  vuoti, 
avreste  deciso  in  tacito  accordo  di  sopprimere  il  patetico  fra  di 
voi  e  di  essere  alfine  felici  e  gentili  Tun  per  Taltro.  Si  sarebbe 
allora  potuto  vedere  un  Orfeo  e  un'Euridice  condiscendenti... 

ORFEO  -  No!  Sarebbe  durato  sempre,  fino  a  quando  fossimo  diventati 
vecchi  e  bianchi  Tuno  accanto  all'altro. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  La  vita,  la  tua  cara  vita,  non  ti  avrebbe  fatto  arri- 
vare fin  li.  Non  avrebbe  risparmiato  l'amore  di  Orfeo  e  di  Eu- 
ridice. 

ORFEO  -  Si. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  No,  piccolo  uomo.  Voi  siete  tutti  gli  stessi.  Siete 
assetati  di  eternità,  e  fin  dal  primo  bacio  diventate  verdi  di  paura 
perché  sentite  oscuramente  che  la  cosa  non  può  durare.  I  giura- 
menti si  consumano  presto.  Allora  vi  costruite  delle  case  perche 
le  pietre,  esse,  durano;  fate  dei  figli,  come  altri,  in  altri  tempi,  li 
sgozzavano,  per  essere  ancora  amati.  In  questo  incerto  combatti- 
mento voi  puntate  allegramente  la  felicità  di  una  piccola  recluta 
innocente  su  quel  che  c'è  di  più  fragile  al  mondo,  sul  vostro  amore 
d'uomo  e  di  donna...  E  anche  questo  si  dissolve,  si  sbriciola,  si 
spezza  proprio  comc  per  coloro  che  non  avevano  giurato  nulla. 

IL  PADRE  (mezzo  addormentato)  -  Quando  ve  lo  dico  io  che  la  vita  è 
magnifica...  (si  gira  nella  sua  poltrona,  la  mano  che  tiene  il  si- 
garo si  abbandona;  mormora  beato)  Sulla  coscia...  (Orfeo  e  il  Si- 
gnor Enrico  lo  guardano  un  momento) 

IL  SIGNOR  ENRICO  (si  avvicina  ad  Orfeo  e  gli  parla  rapidamente,  a  bas- 
sa voce)  -  La  vita  non  t'avrebbe  lasciato  Euridice,  piccolo  uomo.  Ma 
Euridice  può  esserti  restituita  per  sempre.  L'Euridice  della  prima 
volta,  eternamente  pura  e  giovane,  eternamente  simile  a  se  stessa... 

ORFEO  (lo  guarda  e  dopo  una  pausa  dice  scuotendo  la  testa)  -  No. 

IL  SIGNOR  ENRICO  (sorridc)  -  Perché  no,  piccola  testa? 

ORFEO  -  No,  non  voglio  morire.  Odio  la  morte. 

IL  SIGNOR  ENRICO  (con  dolcczza)  -  Sei  ingiusto.  Perche  odi  la  morte? 
La  morte  è  bella.  Essa  sola  dà  all'amore  il  suo  vero  clima.  Tu  hai 
sentito  poco  fa  tuo  padre  che  ti  parlava  della  vita.  Era  grottesco, 
pietoso,  è  vero?  Ebbene  è  cosi...  Quella  pagliacciata,  quell'assurdo 


394  JEAN   ANOUILH 

melodramma,  quella  grossolanità,  quei  gesti  teatrali,  è  la  vita.  Va' 
a  cacciarti  li  dentro  con  la  tua  piccola  Euridice,  e  tu  la  ritroverai 
all'uscita  con  il  vestito  pieno  di  macchie  di  mani,  mentre  tu  ti 
ritroverai  sfinito.  Dato  che  la  ritrovi,  o  ti  ritrovi.  Io  t'offro  invece 
un'Euridice  intatta,  un'Euridice  col  suo  vero  volto,  che  la  vita  non 
ti  avrebbe  mai  dato.  La  vuoi?  {il  padre  si  mette  a  russare  strepi- 
tosamente) Tuo  padre  russa,  Orfeo.  Guardalo.  È  brutto.  È  com- 
passionevole. Egli  ha  vissuto.  Chi  sa?  Forse  non  era  cosi  stupido 
come  diceva  poco  fa.  C'è  stato  forse  un  minuto  in  cui  egli  è  pas- 
sato accanto  all'amore  o  alla  bellezza.  Guardalo  adesso  aggrappato 
all'esistenza  con  la  sua  povera  carcassa  afflosciata  su  quella  poltro- 
na. Guardalo  bene.  La  gente  crede  che  il  logorio  della  vita  su  un 
volto  sia  l'opera  spaventosa  della  morte.  Che  errore!  La  cosa  spa- 
ventosa è  invece  di  ritrovare  l'insipida  mollezza  dei  visi  di  quin- 
dici anni,  deformati  ma  intatti,  sotto  le  barbe,  gli  occhiali,  le  ma- 
niere dignitose.  È  lo  spavento  della  vita.  Adolescenti  rugosi,  sem- 
pre beffardi,  sempre  impotenti,  sempre  piò  vuoti  e  sempre  più 
sicuri  di  se  stessi!  Sono  gli  uomini...  Guarda  bene  il  tuo  giovane 
padre  e  pensa  che  Euridice  ti  aspetta. 

ORFEO  {improvvisamente,  dopo  una  pausa)  -  Dove? 

IL  SIGNOR  ENRICO  {sorridendo)  -  Tu  vuoi  sempre  saper  tutto,  piccolo 
uomo...  Ti  voglio  bene...  Ero  desolato  di  vederti  soffrire.  Ma  ades- 
so tutto  ciò  sta  per  finire.  Vedrai  come  tutto  diventerà  puro,  lumi- 
noso, limpido...  Un  mondo  fatto  per  te,  piccolo  Orfeo... 

ORFEO  -  Che  cosa  bisogna  fare? 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Prendi  il  cappotto,  la  notte  è  fresca.  Esci  dalla 
città  per  la  strada  che  hai  davanti.  Quando  le  case  si  diraderanno, 
tu  arriverai  sopra  una  collina,  vicino  ad  un  boschetto  di  ulivi.  È  là. 

ORFEO  -  Che  cosa,  là? 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Il  tuo  appuntamcnto  con  la  morte.  Alle  nove.  È 
quasi  l'ora.  Non  la  fare  aspettare. 

ORFEO  -  Rivedrò  Euridice? 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Immediatamente. 

ORFEO  {prende  il  cappottò)  -  Bene,  addio. 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Arrivederci,  piccolo  uomo. 

{//  russare  del  padre  si  accentua  fino  a  divenire  una  specie  di  rullo  di 
tamburo  che  accompagna  tutta  la  scena,  L illuminazione  si  modifi- 
ca impercettibilmente.  Il  Signor  Enrico  è  restato  immobile  d  suo 
posto  con  le  mani  nelle  tasche;  ad  un  tratto  dice  piano:  «  Entra  ». 
La  porta  s'apre  lentamente.  Entra  Euridice  che  resta  in  fondo  alla 
stanza) 


EURIDICE  395 

L' RIDICE  -  Accetta? 
SIGNOR  ENRICO  -  Si,  accctta. 
iDicE  {a  mani  giunte)  -  Non  soffrirà  almeno? 
-^NOR  ENRICO  -  Hai  sofferto,  tu? 
lERiERE    [hussa  ed  entra)  -  Se  il  signore  permette,  preparo  il 
per  la  notte,  (chiude  le  tende  e  si  mette  a  preparare  il  letto, 
diverse  volte  davanti  ad  Euridice  senza  vederla.  Guarda  il 
arrìdendo]  Il  signore  russa.  Pare  che  sia  segno  di  buona  sa- 
ri c\  sono  che  i  buontemponi  che  russino,  diceva  mia  ma- 
fn  sentivo  il  signore  che  parlava.  Temevo  di  disturbarlo. 
u>     Parlavo  solo. 
*•  \Rchc  a  me  capita.  Ci  si  dice  talvolta  delle  cose  stra- 

gli altri  non  ci  avrebbero  dette.  Come  sta  il  giova- 


Hene. 
IL  CAMERIERE  -  Dev  cssere  stato  un  colpo  terribile. 

IL   SIGNOR  ENRICO  -  Si. 

IL  CAMERIERE  -  Crede  che  si  consolerà  mai? 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Si.  Che  ora  fate? 

IL  CAMERIERE  -  Lc  nove  meuo  due  minuti,  signore. 

(prepara  il  letto  in  silenzio.  Si  sente,  sempre  piti  forte,  il  russare  del 
padre) 

IL  SIGNOR  ENRICO  (improvvisamcntc)  -  Cameriere! 
IL  CAMERIERE  -  Signore? 

IL  SIGNOR  ENRICO  -  Fate  preparare  il  conto.  Parto  stasera. 
IL  CAMERIERE  -  Il  signore  m'aveva  detto  ieri... 
IL  SIGNOR  ENRICO  -  Ci  ho  pensato,  questa  volta  parto. 
IL  CAMERIERE  -  Bene,  signore.  Il  signore  ha  finito  i  suoi  affari  a  Mar- 
siglia? 
IL  SIGNOR  ENRICO  -  Si.  (//  Cameriere  sta  per  uscire)  Che  ora  è  adesso? 
IL  CAMERIERE  -  Le  nove  precise,   (esce  lasciando  la  porta  spalancata) 
IL  SIGNOR  ENRICO  (a  Euridice  che  è  restata  immobile)  -  Eccolo. 
EURIDICE  (chiede  a  bassa  voce)  -  Potrà  guardarmi? 
IL  SIGNOR  ENRICO  -  Adesso  SI,  senza  timore  di  perderti. 

(Orfeo,  entra,  esita  sulla  soglia  come  abbagliato  dalla  luce.  Euridice 
gli  corre  incontro,  lo  abbraccia) 

EURIDICE  -  Caro,  quanto  m'hai  fatto  aspettare! 

(suonano  le  nove  in  lontananza.  Il  padre  cessa  bruscamente  di  russare 
e  si  sveglia  emettendo  dei  borborigmi) 


396  JEAN   ANOUILH 

IL  PADRE  (succhiando  il  sigaro  spento)  -  Guarda,  ho  dormito?  Dov'è 
Orfeo?  (//  Signor  Enrico  non  risponde.  Il  padre  si  guarda  attorno, 
inquieto)  È  uscito?  Ma  insomma,  mi  risponda,  perbacco.  £)ov*è 
Orfeo? 

IL  SIGNOR  ENRICO  (mostrandogli  la  coppia  abbracciata,  che  il  padre 
non  vede)  -  Orfeo  è  con  Euridice,  finalmente! 

(//  padre  si  alza  sbalordito  lasciando  cadere  il  sigaro) 


La  presente  traduzione  è  a  cura  di  Italo  Siciliano. 


HENRI  D8  MONTHERLAIIT 


Henri  de  Montherlant  ha  soltanto  quattordici  anni  più  di 
Anouilh  (è  nato  a  Parigi  il  21  aprile  1896),  è  venuto  dopo  di  lui 
al  teatro,  ma  nell'attuale  mondo  letterario  sembra  il  superstite 
campione  di  un'epoca  abolita.  Egli  s'è  dato  tuttavia  e  si  dà  un 
gran  da  fare  per  mescolarsi  alla  folla  e  per  correre  col  t^mpo,  ha 
partecipato  alla  prima  guerra  riportandone  ferite,  eroiche  fantasie 
e  lezioni  di  lirica  grandezza  (Le  Songe,  1922;  Chant  funebre  pour 
les  morts  de  Verdun,  1924),  ha  praticato  vari  sport  e  preso  parte 
alle  corride,  riportandone  cornate  e  brillantemente  celebrando  tau- 
romachie e  stadi  {Olympiques,  1924;  Bestiaires,  1926),  ha  avuto 
crisi  e  le  ha  superate,  ha  avuto  avventure  e  le  ha  romanzate,  ha 
viaggiato,  polemizzato,  adorato  e  bruciato  idoli  (Aux  jontaines 
du  Désir,  1927;  La  Petite  Infante  de  Castille,  1929;  Service  inu- 
tile, 1935;  UEquinoxe  de  Septembre,  1938),  non  ha  ignorato  le 
miserie  della  seconda  guerra  e  dell'occupazione,  ha  rischiato  di 
passare  per  collaborazionista,  per  spirito  di  contraddizione  e  per 
certi  incauti  disprezzi  di  Solstice  de  Juin  (1941),  ha  insomma  con- 
tinuamente affermato  con  rumore  e  con  varia  fortuna  la  sua 
<  presenza  >  :  il  che  non  toglie  che,  soprattutto  alla  ribalta,  lo  spor- 
tivo, il  dinamico,  l'invadente  Montherlant  abbia  l'aria  di  arrivare 
in  ritardo,  faccia  la  figura  del  cavaliere  del  tempo  andato,  del 
domatore  di  leoni  e  di  tori  imbalsamati. 

E  ciò  non  perché  porta  sulla  scena  vecchi  ricordi  e  miti  an- 
tichi, ma  per  Io  spirito  e  la  maniera  del  restauro,  che  hanno  qual- 
cosa di  antiquato,  che  tradiscono  un  non  troppo  sicuro  gusto  del 
bric-à-brac.  Mentre  infatti  il  praticante  dell'*  à  rebours>,  il  can- 
tore della  voluttà,  della  giovinezza  e  della  guerra  («  royaume  des 
forts  où  fleurit  l'antique  amitié  militaire  >)  dà  l'impressione  di  es- 


400  HENRI  DE  MONTHERLANT 

sersi  attardato  nella  decadente  bottega  di  Des  Esseintes  (o  di  d'An- 
nunzio) e  di  non  aver  impunemente  conosciuto  i  vitalistici  idoli 
della  Belle  Epoque,  il  ribelle  solitario  non  riesce  a  superare  un 
eclettico  dilettantismo  nel  quale  l'inedito  si  mescola  con  il  noto 
e  lo  scaduto,  nel  quale,  per  essere  più  precisi,  il  culto  dell'io,  del 
toro  e  del  dio  Mitra  (in  «  sincretica  >  combinazione  col  dio  cri- 
stiano) rivela  analogie  e  incroci  che  vanno  dal  barocco  spagnoli- 
smo corneliano  alla  mistica  pagana  di  Charles  Maurras,  che  par- 
tono dalla  stendhaliana  professione  di  energia  per  arrivare  —  e 
fermarsi  —  al  complesso  di  potenza  di  Nietzsche  ed  all'egotismo 
di  Philippe  Barrès:  il  tutto  messo  all'insegna  delle  gidiane  «al- 
ternanze >  e  <  disponibilità  >  trasferite  e  rivissute  nei  brutali  «  fer 
vori>  e  nelle  frivole  «pietà»  di  un  Montherlant-Costals  ondeg- 
giante fra  un  Valmont  tutto  sensi  e  un  don  Giovanni  debole  di 
cuore.  Affinità  elettive  e  incontri  fatali,  ma  in  un  mondo  piuttosto 
polveroso,  in  un  terreno  la  cui  mobilità  è  fertile  di  romantiche 
incoerenze  e  di  strani  abbagli.  È  così  che  il  realistico  «Todo» 
ostenta  ascetiche  aspirazioni  al  «Nada>,  che  l'Assoluto  razzola 
nella  voluttuaria  pratica  del  «carpe  diem»  e  dell'istante,  che  in- 
fine il  Montherlant  sensibile  a  tutte  le  mondane  concupiscenze  e 
dissipazioni  potè  credersi  (e  fu  creduto!)  di  natura  e  di  stretta 
osservanza  giansenista. 

Il  matador  è  sceso  relativamente  tardi  nell'arena  teatrale.  A 
diciotto  anni  aveva  scritto  L'Exilé,  drammetto  della  sua  equivoca 
vocazione  bellica,  nel  1938  ha  portato  sulla  scena  il  frammento 
drammatico  —  composto  dieci  anni  prima  —  di  una  Pasiphaé  che 
moralizza  la  sua  mostruosa  colpa  secondo  l'immoralistica  «au- 
tenticità »  gidiana,  ma  la  prima  vera  e  propria  opera  teatrale  è  La 
Reine  morte  (tratta  dal  Reinar  despuès  morir  di  L.  Velez  de  Gue- 
vara)  rappresentata  nel  1942  con  vivo  successo.  Dopo  di  che,  Mon- 
therlant apre  i  cassetti,  riesuma  manoscritti,  passioni  e  problemi 
di  diversa  natura,  porta  alla  ribalta  drammi  che  per  lo  più  sono 
di  antica  genesi  e  di  lunga  ruminazione.  Mentre  il  1943  presenta 
in  Fils  de  personne  un  superuomo  dei  nostri  giorni  (un  Carrion 
che  rifiuta  un  figlio  naturale  perché  di  «  mediocre  qualità  »),  l'an- 
no dopo  si  lascia  sedurre  dalle  barbariche  raffinatezze  rinascimen- 
tali e  ci  dà  in  Malatesta  (che  sarà  rappresentato  nel  1950)  un  uomo 


PRESENTAZIONE  401 

di  eccezionali  contrasti  e  qualità  che  si  muove  fra  l'ambiguo  Lo- 
renzaccio  di  Musset  e  la  grossa  marionetta  dei  teatro  hughiano. 
Quindi,  ispirato  da  un  quadro  e  da  una  frase  letta  nel  lontano 
1933,  si  getta  nel  severo  e  nudo  mondo  di  un  fanatico  eroe  della 
Spagna  secentesca  e  compone  nel  1945  Le  Maitre  de  Santiago,  che 
è  portato  sulla  scena  il  1948  con  gran  successo  (ottocento  recite). 
Nel  1949,  lasciato  don  Alvaro  alla  sua  eroica  follia,  riprende  Car- 
rion,  che  riporta  ai  tempi  ormai  passati  dell'occupazione  e  della 
resistenza,  mostrandoci  in  Demain,  il  fera  jour  (continuazione  di 
Fils  de  personné)  il  superuomo  decaduto,  divenuto,  per  viltà  e 
calcolo,  pili  spregevole  del  disprezzato  figlio. 

Montherlant  «si  batte  i  fianchi >,  stuzzica  la  storia  e  la  sua 
memoria,  ritrova  e  rinfresca  vecchi  progetti  e  immagini  sbiadite. 
Nel  1950  drammatizza  in  Celles  qu'on  prend  dans  ses  bras  l'en- 
nesima avventura  di  un  Ravier-Costals  che  conquista  senza  gloria 
una  diciottenne  di  mediocre  qualità,  Tanno  dopo,  con  La  Ville 
doni  le  Prince  est  un  enfant,  risale  addirittura  all'epoca  delle  in- 
nocenti ed  inquietanti  amicizie  di  collegio.  Poi,  riprendendo  una 
idea  suggeritagli  nel  1928  dalla  famosa  opera  di  Sainte-Beuve, 
presenta  nel  1953  il  dramma  (che  aveva  avuto  una  prima  reda- 
zione nel  1942-'43)  delle  povere  ed  eroiche  monache  di  Port  RoyaL 
Poi  viene  l'annunzio  solenne  della  «  retraite  >,  o  rinuncia  al  teatro 
(onde  l'eccitato  agiografo  Jacques  de  Laprade  rievoca  le  ombre 
di  Racine,  di  Siila  e  di  Carlo  Quinto!)  seguito  dalla  smentita  di 
Brocéliande  (1955),  farsa  tragica  di  un  vecchio  «travet»  che, 
persuaso  da  un  maniaco  di  essere  discendente  di  San  Luigi,  si 
uccide  quando  scopre  che  la  sua  gloria  è  divisa  da  altri  quindici- 
mila eredi  presuntivi.  Infine  è  il  disastro  di  Don  Juan  (1958),  scon- 
nessa tragicommedia  di  un  Costals  di  sessantatré  anni  che  buffo- 
neggia, in  compagnia  di  un  figlio  naturale,  fra  grottesche  imprese 
amatorie  e  lugubri  sermoni. 

Il  semplice  enunciato  dei  soggetti  basta  a  dare  un'idea  delle 
disparate  fonti  e  della  «  disponibilità  »  di  una  immaginazione  che 
volubilmente  passa  dal  mito  solare  agli  «  autos  sacramentales  >, 
dal  «  noeud  épouvantable  de  contradictions  >  che  e  il  re  Ferrante 
della  Reine  morte  al  monolitico  rudere  senza  porte  e  senza  fine- 
stre che  è  il  Maestro  di  Santiago,  dal  retorico  groviglio  di  spade, 


26.  •  Teatro  franceit 


402  HENRI  DE  MONTHERLANT 

congiure,  donne  e  veleni  di  Malatesta  alla  schematica  parafrasi 
giansenista,  dai  disordinati  fervori  di  adolescenti  alle  senili  con- 
fusioni mentali  di  Carrion,  di  Ravier,  di  Persilcs,  di  Don  Gio- 
vanni. L'esegesi  gratulatoria  spiega  tutto  ciò  con  la  storia  dell'al- 
ternanza e  della  versatilità  del  genio  drammatico  montherlaniano, 
ma  è  lecito  credere  che  si  tratti  ancora  di  dilettantismo  e  di  man- 
canza di  una  vera  vocazione  teatrale.  Ad  ogni  modo,  sembra  in- 
dubbio che,  oltre  a  restare  legato  al  mondo  del  saggio  e  del  ro- 
manzo, il  teatro  trasferisce  sulla  scena  gli  atteggiamenti  caratte- 
ristici —  pose,  idolatrie,  nostalgie,  fratture  e  debolezze  —  del  pri- 
mo attore  Montherlant.  La  cosa,  del  resto,  è  pacifica.  «Il  n'est 
pas  un  des  personnages  de  mon  théàtre,  —  dichiara,  —  avec  lequel 
je  ne  sois  d*accord,  que  je  n'aie  tire  d'un  de  mes  moi-mcme>.  E 
al  momento  di  scrivere  La  Reine  morte  si  chiede:  «Comment 
chacun  des  personnages  de  Reinar  et  chacune  de  ses  situations, 
pouvaient-ils  étre  branchés  sur  ma  vie  intcrieure,  de  fa^on  à  en 
ctre  irrigués?  >.  E  la  risposta  è  esplicita.  La  regola  che  governa 
tutte  le  sue  opere  —  dice  con  Goethe  —  è  che  tsst  sono,  l'una  o 
l'altra,  frammenti  delle  sue  memorie.  Frammenti,  s'intende,  tra- 
sfigurati e  più  o  meno  abilmente  drammatizzati  in  casi  e  perso- 
naggi immaginari,  o  nell'cautre  soi-mcme>.  E  l'irrigazione  si 
risolve  per  lo  più  nell'arte  oratoria  del  Narciso  che  si  contempla 
nella  sua  ideale  e  mutabile  fonte. 

Disuguale  e  irto  di  contraddizioni  anche  lo  scrittore.  Con 
tutte  le  sue  discutibili  lezioni  e  malgrado  le  appassionate  inge- 
nuità dell'autodidatta,  Montherlant  trova  nell'innato  dono  lette- 
rario qualcosa  di  quella  «  grandeur  >  di  cui  fa  dottrinario  spreco. 
Lo  dicono,  a  torto  o  a  ragione,  tragicommediante,  arrivista,  bal- 
zano e  disumano  (il  che  non  vieta,  s'intende,  le  goffe  esaltazioni), 
ma  nessuno  resta  indifferente  davanti  all'irritante  giuoco  né  po- 
trebbe negare  la  ricchezza  di  una  fantasia  che,  accoppiata  all'ori- 
ginalità ed  alle  stravaganze  dello  stile,  dà  vita  al  saggio  e  al  ro- 
manzo, va  alla  deriva  fra  gli  alti  e  i  bassi  delle  amorose  conquiste 
di  Costals  {Les  Jeunes  Filles,  Pitie  pour  Ics  jemmes,  Le  Démon 
du  bien,  Les  Lépreuses^  1936-1939),  raggiunge  il  capolavoro  nei 
Célibataires  (1934). 

Secondo  l'autore  e  certi  suoi  interpreti,  i   motivi  dominanti 


PRESENTAZIONE  403 

del  teatro  della  potenza  e  delle  contraddittorie  verità  umane  sa- 
rebbero dati  dai  temi  della  solitudine,  dell'esilio  e  del  sacrificio. 
Il  che  può  sorprendere  quando  si  pensi  agli  aspetti  pid  vistosi 
della  psicologia  e  della  mentalità  di  un  Montherlant  in  perma- 
nente esibizione  sulla  scena  e  in  dichiarata  professione  di  egoti- 
stico  possesso.  In  realtà  Montherlant  potrà  credersi  <  potente  e  so- 
litario >  come  il  Mosè  di  Vigny,  ma  difficilmente  potrebbe  far 
credere  che  lui  e  i  suoi  eroi  siano  afflitti  dal  complesso  della  torre 
d'avorio  o  da  quello  di  Abramo.  In  realtà,  quando  gli  uni  sacri- 
ficano Isacco  (ovvero  Ines  de  Castro,  Gillou  Sandoval,  Mariana, 
Sandrier)  lo  fanno  per  disgusto  di  Isacco  o  per  grande  amore  di 
se  stessi,  mentre  l'altro  cerca  talvolta  la  torre  ma  come  un  rifugio 
provvisorio  o  come  il  luogo  eminente  donde  può  meglio  insultare 
e  blandire  la  tribù.  E  quando  gli  uni  hanno  cessato  di  provocare 
o  di  stupire  il  pubblico,  l'altro  continua  a  erudire  e  a  malmenare 
il  lettore  con  un  profluvio  di  €préfaces>,  «postfaces>,  storie  in- 
terne ed  esterne  della  «pièce»,  allocuzioni,  chiose,  avvertimenti, 
autocritiche,  critiche  dei  critici,  sarcasmi,  nota  prima,  nota  secon- 
da, nota  terza,  e  cosi  via  dicendo  tra  futili  discorsi  e  osservazioni 
acute. 

Un  cosi  intemperante  polemizzare  con  l'ombra,  tanto  girare 
su  se  stesso  con  orgogliose  spiegazioni  ed  inviti  all'applauso  (e  alla 
«pietà»)  può  essere  messo  in  conto  della  petulanza  del  Nostro, 
ma  può  anche  far  pensare  ad  altro,  all'irrequietezza  dell'ansioso, 
al  cosiddetto  «trac»  dell'attore  che  adora  e  teme  la  ribalta  e  la 
platea.  Si  pensa  allora  che  Montherlant  s'è  confessato  il  «voya- 
geur  traqué  >  che  non  ha  mai  cessato  di  correre  dietro  qualcosa 
di  irraggiungibile,  che  l'inquieto  ha  cercato  «  instants  de  bonheur  > 
dappertutto  e  m  opposte  direzioni  senza  trovare  mai  il  centro  e 
l'equilibrio,  che  la  famosa  «alternanza»  è  in  realtà  un'altalena 
fra  gloriose  partenze  e  rassegnate  accettazioni  del  «servizio  inu- 
tile »,  fra  la  prepotente  ricerca  del  Tutto  e  la  cupidigia  del  Nulla. 
Bellezza  di  olimpionici  e  di  corride,  ma  è  noto  che  adeti  e  pro- 
fessionisti dell'energia  hanno  crisi  di  nervi,  oscuri  cedimenti,  im- 
provvisi collassi. 

È  probabile  che  l'innesto  (e  l'irrigazione)  fra  Montherlant  e  i 
suoi  eroi,  piuttosto  che  nel  roveto  ardente  di  Mosè  e  nella  libido 


404  HENRI  DE  MONTHERLANT 

autolesionista  di  Abramo,  abbia  luogo  proprio  nel  caratteristico 
terreno  psicologico  aperto  all'assalto  brutale  ed  al  passeggero  crol- 
lo, all'ostentata  iattanza  ed  alla  mal  celata  nausea.  È  un  fatto,  ad 
ogni  modo,  che  non  c'è  personaggio  dell'energico  teatro  che  ad 
un  certo  momento  della  sua  spettacolare  «  azione  intcriore  >,  non 
conosca  una  certa  frattura  interna,  non  abbia  paura  del  toro,  non 
ceda  alla  tentazione  della  fuga  o  all'istante  «  felice  >  del  dissolvi- 
mento. Non  esuli  nella  grandezza  della  propria  solitudine,  ma 
succubi  di  qualcuno,  ma  vinti,  decaduti  o  rinunciatari  sono  il 
vacuo  Filippo  di  Exil  e  il  fatuo  superuomo  Carrion,  l'ambiguo  ed 
ansioso  abate  de  Prandts  e  lo  scettico  Ravier,  i  grotteschi  Persilès 
e  Don  Giovanni,  la  stessa  esaltata  Mariana,  la  stessa  nobile  e  ras- 
segnata Suor  Angelica  de  Saint-Jean.  Il  contrasto  e  l'intreccio  fra 
il  mito  solare  e  l'ombra  dell'ovile  si  manifestano  con  analoga  pro- 
cedura nelle  zone  mediocri  come  nelle  superiori.  «Et  je  me  re- 
poserai enfin  dans  le  rien  que  je  convoite>,  declama  il  Minos  dei 
Crétois  in  preda  al  complesso  di  potenza  e  di  distruzione.  E  Pa- 
sifae  «  osa  quello  che  nessuno  ha  osato  >,  va  a  viso  scoperto  in- 
contro all'orrenda  colpa,  sfida  il  mondo  e  la  morale,  per  poter  far 
rientrare  nel  suo  essere  il  riposo  e  la  pace  del  mondo.  E  l'Infanta 
vede  bene  che  il  mostro  Ferrante  è  un  debole  che  «  suona  il  flauto 
per  amore  di  Dio  >  senza  credere,  che  uccide  quello  che  ama  per 
non  sapere  quello  che  vuole.  E  i  duri  hanno  gli  stessi  inesplicabili 
smarrimenti  dei  molli.  Il  terribile  signorotto  di  Rimini  ha  qual- 
cosa di  femminile,  si  commuove  e  piange  istericamente  davanti 
al  papa  che  vuole  pugnalare,  mentre  questo,  che  non  e  fatto  di 
tenera  pasta,  si  sente  improvvisamente  sommerso  da  una  «  strana 
e  straordinaria  tristezza  >.  E  la  stanchezza  vince,  ad  un  certo  mo- 
mento, i  grandi  e  i  piccoli.  «  Je  me  fatigue  quelquefois  moi-mc- 
me  >,  «  J'en  ai  assez  d'étre  toujours  de  fer  >,  confessa  Malatesta. 
<  Je  suis  fatiguée  d'avoir  peur  >,  geme  la  mite  Francesca  dell'Eu- 
carestia smarrita  nell'aspra  guerra  giansenista.  Ferrante  è  un  ener- 
gumeno del  fallimento  e  della  rinuncia.  Lo  stesso  Alvaro  tutto 
d'un  pezzo  è  uno  stanco,  sopraffatto  dalla  mania  dell'assoluto  e 
dall'angoscioso  bisogno  di  salvare  la  sua  anima.  «  Vous  n'avez  pas 
de  respect  pour  la  faiblesse  humaine>,  dice  l'abate  de  Pradts  al 
suo  chiaroveggente  Superiore.  E  il  patetico  —  quando  c'è  —  dei 


PRESENTAZIONE  405 

rivoltosi,  degli  irregolari,  dei  forti  scaturisce  proprio  dalle  incon- 
gruenze della  loro  umana  debolezza.  Votati  ad  un  perpetuo  celi- 
bato (come  il  loro  padre  spirituale)  gU  eroi  montherlaniani  ne  co- 
noscono le  grandezze  e  gl'infortuni,  ma  hanno  bisogno  del  calore 
dello  stadio,  sono  sempre  pronti  a  ricacciarsi  nella  mischia  e  ad 
agitare  la  muleta. 

Dissertando  su  Pasiphaé,  Montherlant  assicura  di  essere  in- 
sieme un  moralista  (uno,  cioè,  che  studia  le  passioni)  e  un  mora- 
lizzatore, che  €  propone  una  certa  morale  >.  È  un'idea,  o  un'illu- 
sione momentanea.  La  costante  è  data  piuttosto  dal  memorialista 
vagabondo  che  porta  sulla  scena  ricordi,  avventure  personali,  ar- 
zigogoli e  scommesse:  un  candido,  in  definitiva,  che  si  lascia  rac- 
contare che  «l'infinito  è  dalla  sua  parte»  e  non  s'accorge  che  il 
suo  assoluto  è  alla  mercé  del  frammentario  e  alla  ricerca  del  suc- 
cesso popolare.  Un  teatro,  il  suo,  che  vive,  per  cosi  dire,  alla  gior- 
nata, di  impressioni,  di  esplosioni,  di  incontri  fortuiti,  di  vecchie 
fantasie,  di  brillanti  acrobazie.  Teatro  soprattutto  oratorio,  con 
tutte  le  risorse  e  le  alternative  della  dialettica  del  paradosso,  nel 
lusso  di  un  superbo  stile  facile  a  frequenti  e  volontarie  cadute  nel 
brutale  e  magari  nel  volgare.  Teatro  di  urto,  €  di  classe  >  anche,  che 
luccica  e  che  stanca  (i  successi  sono  andati  soltanto  alla  Reine 
Morte,  al  Maitre  de  Santiago,  a  Port  Royal),  che  dà  l'impressione 
di  non  resistere  alla  distanza,  di  non  essere  sicuro  di  vincere  la 
gara  col  tempo. 

Il  Teatro  di  M.,  fino  a  Port-Royaly  è  stato  pubblicato  nella  Biblio- 
thèque  de  la  Plèiade  a  cura  di  J.  de  Laprade. 

Per  la  critica,  cfr.  Faurc-Biguet,  Enjances  de  M.  e  M.  homme  de  la 
Renaissance,  1948;  De  Saint-Pierre  M.,  M,  bourreau  de  soi-méme, 
1949;  De  Laprade  J.,  Le  Théàtre  de  Af.,  1950;  Sipriot  P.,  M.  par  lui- 
méme,  1953;  Bordonovc  G.,  H,  de  M.,  1954. 


Il  gran  maestro  dì  Santiago 


PERSONAGGI 


DON  ALVARO  DABo,  quaratitasette  anni,  cavaliere  dell'Ordine  di  San- 
tiago (San  Giacomo) 

Allo  stesso  Ordine  appartengono  i  seguenti  cavalieri: 

DON  BERNAL  DE  LA  ENCiNA,  cinquantaduc  anni 

DON  FERNANDO  DE  OLMEDA,  scssantaduc  anni 

DON  GREGORIO  OBREGON,  trcntacinquc  anni 

IL  MARCHESE  DE  VARGAS,  cinquanta  anni 

DON  ENRiQUE  DE  LETAMENDi,  diciannove  anni 

IL  CONTE  DE  soRiA,  gcntHuomo  di  Camera  e  inviato  straordinario 
del  Re,  trentanni 

MARIANA,  figlia  di  don  Alvaro,  diciotto  anni 

TiA  CAMPANiTA  («  Zia  Campanella  >),  governante,  cinquantacinque 
anni 

Nei  gennaio  dei  1519,  ad  Avìia  {Vecchia  Castiglia) 


IL  GRAN  MAESTRO  DI  SANTIAGO 


Caballeros,  y  piedras. 


ATTO  PRIMO 


//  salone  d'onore  nella  casa  di  don  Alvaro  Dabo. 
Muri  del  tutto  nudi,  di  color  grigio  ocra,  piuttosto  scuro;  sono  mitri  mal  ri- 
dotti', si  vedono  quasi  le  pietre.  A  sinistra,  una  finestra  con  una  robusta  in- 
ferriata esterna,  attraverso  la  quale  si  vedono  di  tanto  in  tanto  cadere  fiocchi 
di  neve.  A  destra,  sul  muro  di  fondo,  un  grande  crocifisso  accanto  al  quale 
è  appeso  l'ampio  mantello  capitolare  —  di  seta  bianca,  con  una  spada  rossa 
dall'impugnatura  a  forma  di  giglio  ricamata  sul  lato  sinistro  del  petto  —  dei 
cavalieri  dell'Ordine  di  Santiago. 

Sotto  l'architrave  spiccano  sul  muro  tre  stemmi  scolpiti,  sormontati  da  elmi 
e  messi  di  traverso,  quasi  fossero  battuti  e  scompigliati  da  una  bufera.  Essi 
spiccano,  riccamente,  stranamente  e  quasi  convulsamente  ornati,  sulla  nudità 
del  muro  come  oasi  lussureggianti  in  un  andò  deserto. 

In  mezzo  alla  scena,  una  piccola  tavola  con  sette  ciotole  e  due  brocche.  Sette 
sedie. 

Un  braciere. 

Di  tanto  in  tanto,  a  volontà  del  regista,  un  suono  discreto  di  campane,  ma 
senza  abusarne.  E  niente  campane  nella  scena  finale  del  III  atto. 


SCENA   PRIMA 

MARIANA,    TIA    CAMPANITA 

TiA  CAMPANITA  -  Oggi  soltaiito  scttc  sedic.  Quei  signori  dunque  sa- 
ranno solo  sei?  Il  mese  scorso  erano  otto. 

MARIANA  -  Cinque  solamente  hanno  fatto  sapere  che  sarebbero  venuti. 
La  neve  fa  paura  a  molti. 

TIA  CAMPANITA  -  Cinque?  ah!  è  veto,  c'è  la  sedia  per  l'ospite  scono- 
sciuto. 

MARIANA  -  Mio  padre  vuole  che  ci  sia  sempre  una  sedia  in  più,  nel  caso 
che  qualche  cavaliere  dell'Ordine  volesse  venire  senza  essersi  fatto 
annunziare. 


410  HENRI  DE   MONTHERLANT 

TiA  CAMPANITA  -  Ma  qucsto  inaspettato  visitatore  non  arriva  mai.  No, 
Mariana,  non  è  la  neve  che  fa  paura  a  quei  signori.  È  un  altro 
gelo,  quello  che  si  insinua  nell'uomo  quando  si  disamora  di  qual- 
che cosa.  Come  tutti  gli  ordini  cavallereschi,  quello  di  Santiago 
è  in  decadenza:  non  arde  più  veramente  se  non  nel  cuore  di 
vostro  padre.  E  non  senza  ragione  vostro  padre  viene  chiamato  il 
Maestro  di  Santiago,  benché  non  ci  sia  più  un  Gran  Maestro  di  que- 
st'Ordine. 

MARIANA  -  No,  scusate,  da  venticinque  anni  in  qua  è  il  Re  il  Gran 
Maestro  degli  Ordini  cavallereschi  spagnoli.  Appena  fu  riconqui- 
stato, togliendolo  ai  Mori,  il  regno  di  Granata,  il  Re  Ferdinando 
ha  distrutto  gli  ordini  cavallereschi  che  gli  avevano  permesso  di  li- 
berare tutto  il  territorio  e  li  ha  messi  tutti  nelle  sue  mani.  Non 
aveva  più  bisogno  di  loro,  e  ne  aveva  paura.  E  poi,  è  proprio  cosi 
che  si  fa  con  quelli  che  han  faticato  per  noi. 

TIA  CAMPANITA  -  Ora  i  Cavalieri  non  esistono  piò  come  corpo  militare. 
Se  non  ci  fosse  vostro  padre,  credo  che  quelli  di  Avila  non  si  co- 
noscerebbero nemmeno  fra  di  loro. 

MARIANA  -  Due  anni  fa,  ritornando  da  Paular,  ci  fermammo  una  notte 
in  quella  che  fu  un  tempo  la  sede  dell'Ordine  d'Isla.  L'erba  cre- 
sceva sull'imboccatura  dei  pozzi  inariditi  e  fra  gli  stalli  della  cap- 
pella in  rovina.  Asini  erano  legati  nella  sala  del  capitolo,  là  dove 
un  tempo  si  riunivano  i  cavalieri  a  consiglio.  Ed  io  sentivo  passare 
nella  notte  lo  scuro  fiume  irresistibile  che  mi  parlava  di  tutto  ciò 
che  viene  trascinato  via  per  sprofondare  nel  nulla. 

TIA  CAMPANITA  -  Oggi  questi  signori  vengono  in  cinque,  il  mese  prossi- 
mo saranno  tre.  Soprattutto  se  don  Alvaro  persiste  a  offrir  loro 
un'ospitalità  cosi  austera.  Perché  non  li  invita  a  pranzo,  come 
farebbe  chiunque  al  suo  posto? 

MARIANA  -  Mio  padre  trova  sconveniente  mescolare  preoccupazioni  di 
cibo  a  questioni  di  una  certa  importanza.  E  loda  molto  l'usanza 
araba  secondo  la  quale  il  padrone  di  casa,  quando  ha  ospiti,  assiste 
al  pranzo  senza  prendervi  parte. 

TIA  CAMPANITA  -  Va  bene;  ma  offrire  dell'acqua  quando  il  vino  delle 
nostre  cantine  non  è  poi  così  cattivo!  Si,  lo  so,  me  l'avete  detto;  il 
simbolo  della  purezza...  Ma  i  cavalieri  di  un  tempo  non  facevan 
certo  tante  storie  quando  si  trattava  di  bere  il  vino! 

MARIANA  {bevendo  da  una  ciotola)  -  Com'è  fresca!  Irresistibile.  E  come 
capisco  che  mio  padre  non  voglia  altra  bevanda  che  questa  per  i 
suoi  cavalieri. 

TIA  CAMPANITA  -  Ma  Smettete  ora:  vi  prenderete  un  malanno.  Ancora! 


IL  GRAN  MAESTRO  DI   SANTIAGO  411 

Bere  a  grandi  sorsate  dell'acqua  gelata  quando  fuori  è  tutto  ghiac- 
ciato! 

MARIANA  -  Io  non  la  bevo,  la  mangio!  Oh!  Signora,  è  gelata,  eppure 
mi  brucia.  Si  direbbe  che  mangio  del  fuoco.  È  l'acqua  di  San  Lu- 
car... 

TiA  CAMPANITA  -  Dite  piuttosto  che  è  l'acqua  del  nostro  pozzo. 

MARIANA  -  È  l'acqua  della  sorgente  di  San  Lucar,  credete  forse  che 
non  la  riconosca?  Mio  padre  ha  voluto  l'acqua  più  pura,  per  quei 
signori,  (beve)  Ancora!  Ancora!  Ah!  ha  qualcosa  che  mi  piace 
straordinariamente. 

TIA  CAMPANITA  -  C'è  un  proverbio  che  dice:  «Il  leone  e  l'usignuolo 
sono  sempre  assetati...».  Mio  Dìo!  questa  polvere!  È  naturale;  Isi- 
dro  non  può  contemporaneamente  cucinare,  aprire  la  porta  e  fare 
la  pulizia.  Finché  don  Alvaro  non  si  deciderà  a  prendere  un  altro 
servitore...  Sono  sicura  che  quando  era  viva  vostra  madre,  la  casa 
era  ben  tenuta. 

MARIANA  -  Mio  padre  non  s'interessa  a  queste  cose. 

TIA  CAMPANITA  -  Ed  ecco  perchc  voi  vivete  in  una  camera  che  ha  un 
muro  tutto  scrostato  senza  che  si  pensi  a  farlo  intonacare.  E  con 
dei  buchi  da  poterci  mettere  un  pugno.  Avete  l'aria  di  abitare  fra 
i  ruderi.  Un  grazioso  fiorellino  come  voi! 

MARIANA  -  Mio  padre  tutto  questo  non  lo  vede  o,  se  lo  vede,  se  ne  com- 
piace. Quanto  a  me,  vi  assicuro  che  non  ne  provo  alcun  fastidio  e 
che  capisco  benissimo  come  un  uomo  serio  non  gli  dia  importanza. 

TIA  CAMPANITA  -  E  che  cosa  allora  è  importante? 

MARIANA  -  L'anima,  signora,  non  lo  sapete?  per  mio  padre  solo  è  im- 
portante o  piuttosto  solo  è  essenziale,  o  piuttosto  solo  è  reale  quello 
che  avviene  nell'intimo  dell'anima. 

TIA  CAMPANITA  -  Anche  nei  conventi  ci  si  occupa  dell'anima,  mi  pare. 
Ma  non  vi  è  luogo  meglio  tenuto  di  un  convento.  Don  Alvaro  pre- 
tende di  non  essere  ricco.  Ma  se  non  lo  è,  di  chi  è  la  colpa?  Piccoli 
o  grandi,  tutti  vivono  alle  sue  spalle,  tutti  lo  derubano  senza  ch'egli 
se  ne  preoccupi. 

MARIANA  -  Sapete  bene  che  prova  piacere  a  lasciarsi  spogliare. 

TIA  CAMPANITA  -  È  chiaro  che  non  è  ricco;  o  almeno  si  comporta  come 
se  non  lo  fosse.  Ma,  certe  volte,  fa  mostra  di  una  pazza  generosità. 

MARIANA  -  Si  conforma  alla  nostra  più  antica  divisa:  Dedi  et  daho 
«  Ho  donato  e  donerò  ».  Donare:  ecco  la  sua  torre  e  il  suo  castello. 

TIA  CAMPANITA  -  Avcte  saputo,  nevvero,  la  storia  della  saliera? 

MARIANA  -  La  storia  della  saliera? 

TIA  CAMPANITA  -  La  Saliera  rubata  da  un  gentiluomo. 


412  HENRI  DE  MONTHEULANT 

MARIANA  -  Non  la  conosco,  questa  storia. 

TiA  CAMP  ANITA  -  Ma  allora  ve  la  voglio  raccontare! 

MARIANA  -  Se  è  una  storia  nella  quale  mio  padre  ha  fatto  un  bella 
figura,  proprio  per  questo  non  me  l'ha  raccontata  e  perciò  è  inutile 
che  io  la  sappia. 

TIA  CAMPANITA  -  Si,  SI,  ve  la  racconterò,  ne  ho  troppa  voglia!  Un  mese 
fa^  un  povero  gentiluomo,  che  vostro  padre  non  conosceva,  viene  da 
lui  per  chiedergli  di  aiutarlo  a  trovare  un  impiego.  Dopo  che  se 
ne  va,  don  Alvaro  s'accorge  che  una  delle  saliere  che  erano  sulla 
credenza  è  sparita.  Dopo  qualche  giorno  il  gentiluomo  ritorna  e 
vostro  padre  nota  che  ha  delle  brache  nuove  al  posto  di  quelle 
consunte  e  rappezzate  che  indossava  la  volta  precedente.  Allora 
va  a  prendere  le  altre  due  saliere,  ne  fa  un  involto  e  gliele  dà  di- 
cendogli: «Non  ho  potuto  trovarvi  un  lavoro,  ma,  ve  ne  prego, 
prendete  questa  roba  per  amore  di  Dio  e  pregate  per  me  ».  Il  gen- 
tiluomo si  mette  a  piangere,  gli  bacia  le  mani  e  confessa  la  sua 
colpa. 

MARIANA  -  Signora,  se  vi  volessi  raccontare  gli  episodi  di  tal  genere 
che  so  intorno  a  mio  padre,  dovrei  parlare  per  l'intera  notte. 

TIA  CAMPANITA  -  E  dirc  che  un  uomo  cosi  buono  può  trascurarvi  a 
tal  punto!  può  trattarvi  con  quella  malagrazia  cos(  tipicamente 
maschile,  cosf  raggelante...  State  a  guardare  se  arrivano  i  signori 
deirOrdine? 

MARIANA  -  Vorrei  tanto  che  don  Bernal  arrivasse  per  primo. 

TIA  CAMPANITA  -  Ah!  perché  don  Bernal  non  ha  tenuto  suo  figlio  con 
sé!  Se  don  Jacinto  venisse  qui  con  suo  padre,  allora  si  restereste 
appiccicata  a  codesta  finestra! 

MARIANA  -  Vi  sbagliate  di  molto,  ecco  una  cosa  che  io  proprio  non 
farei. 

TIA  CAMPANITA  -  Innamorata  come  siete! 

MARIANA  -  Non  mi  sento  piti  innamorata  quando  vi  sento  dire  che  lo 
sono. 

TIA  CAMPANITA  -  Voi  sietc  innamorata,  e  voglia  il  Cielo  che  don  Ber- 
nal e  dona  Isabella  riescano  a  strappare  a  vostro  padre  il  con- 
senso per  questo  matrimonio  e  che  voi  andiate  a  vivere  ben  presto 
nella  casa  di  un  uomo  che  non  vi  dirà  ogni  giorno:  «  Oh!  che 
cos'è  questo  bel  vestito?  »  davanti  a  un  vestito  che  portate  da  due 
anni. 

MARIANA  -  Per  l'appunto,  ecco  don  Bernal.  Lasciateci  soli.  Signora. 
Vorrei  tanto  parlare  un  po'  con  lui. 


IL  GRAN  MAESTRO  DI   SANTIAGO  413 


SCENA  SECONDA 


MARIANA,  DON  BERNAL  DE  LA  ENCINA 

MARIANA  -  Don  Bernal,  sono  molto  contenta  di  vedervi. 

BERNAL  -  Anche  io,  Mariana.  La  nostra  odierna  riunione  sarà  molto 
importante  per  voi.  Tre  di  noi  sono  in  procinto  di  imbarcarsi  per 
il  Nuovo  Mondo. 

MARIANA  -  Ma  voi,  voi  non  partite,  vero?  E  neppure  don  Jacinto? 

BERNAL  -  La  mia  salute  non  me  lo  consente.  £  in  quanto  a  Jacinto,  le 
sue  mansioni  al  Consiglio  delle  Indie  lo  trattengono  a  Valladoiid. 
Ma  vorremmo  persuadere  vostro  padre  a  partire. 

MARIANA  -  Mio  padre I  Partirei 

BERNAL  -  Voi,  io,  Jacinto,  per  la  vostra  felicità,  abbiamo  tutti  bisogno 
ch'egli  parta.  Oh,  non  per  molto  tempo:  diciotto  mesi,  un  sol  anno, 
forse.  Durante  la  sua  assenza,  voi  potreste  andare  a  vivere  nella 
casa  di  vostra  zia  Cristina,  come  un  tempo  le  donne  dei  nostri 
cavalieri,  quando  questi  volevano  vivere  soli,  andavano  ad  abitare 
nel  convento  di  CozoUos.  Ho  delle  buone  ragioni  per  credere  che 
vostro  padre,  in  breve  tempo,  può  fare  fortuna  laggió;  gliene  of- 
frirò io  la  possibilità.  E  un'altra  volta  vi  spiegherò  perché,  se  vo- 
gliamo che  si  faccia  il  vostro  matrimonio,  è  necessario  che  la  vo- 
stra situazione  diventi  più  solida. 

MARIANA  -  Lo  capisco  bene. 

BERNAL  -  Lo  capite  davvero?  Come  siete  più  ragionevole  di  vostro 
padre! 

MARIANA  -  Ma  badate  di  non  dirgli  che  deve  andare  laggiù  a  fare  for- 
tuna I  Sapete  che  orrore  prova  per  tutto  ciò  che  riguarda  i  suoi 
interessi. 

BERNAL  -  Non  glielo  dirò,  si  capisce.  Accamperemo  altre  ragioni;  non 
ne  mancano  certo.  Avvertirò  anche  quei  signori,  appena  arriveran- 
no: non  una  parola  che  alluda  al  denaro.  Nessuno  di  loro  sa,  d'al- 
tra parte,  che  ho  degli  interessi  personali  in  quest'affare.  Se  il 
nostro  piano  fallisse,  bisognerà  bene  che  gii  parli  da  solo  a  solo 
e  in  tutta  franchezza. 

MARIANA  -  Ve  ne  prego,  procedete  con  cautela.  In  questo  periodo,  mio 
padre  è  particolarmente  triste.  L'altra  sera,  l'ho  sorpreso  nella  sua 
camera,  addormentato  presso  il  braciere.  Il  suo  viso  era  tutto  nuovo, 
pieno  di  dolore;  la  sua  testa  era  un  po'  piegata  sulla  spalla,  come 


414  HENRI  DE  MONTHERLANT 

quella  di  Gesù  sulla  croce.  Egli  mormorava  delie  parole,  sembrava 
che  gemesse.  Mi  sono  piegata  su  di  lui,  ho  sentito  le  sue  parole... 

BERNAL  -  Che  diceva? 

MARIANA  -  Diceva:   «  O  Spagna!  Spagna!)). 


SCENA   TERZA 

MARIANA,  DON  BERNAL,  DON  ALVARO  DABO 

BERNAL  -  Quanta  neve,  amico  mio!  Si  può  a  mala  pena  aprirsi  un  varco 
fino  alla  vostra  porta. 

ALVARO  -  Sapete  che  cosa  mi  ricorda  questa  neve?  Una  scena  di  una 
canzone  di  gesta  tedesca.  Un  cavaliere,  mi  pare  dell'Ordine  Teu- 
tonico, sta  ritto  davanti  al  ponte  levatoio  alzato  di  una  fortezza. 
Con  la  testa  bassa,  umilmente,  sotto  il  fioccar  della  neve,  aspetta 
che  si  abbassi  il  ponte,  che  viene  a  pagare  il  riscatto  della  sua  bam- 
bina, tenuta  prigioniera  nella  fortezza.  Passano  le  ore  e  di  ora  in 
ora  viene  rimandato  il  momento  di  riceverlo;  lo  scherniscono,  il 
scrvidorame  gli  getta  palle  di  neve  e  ossa  rosicchiate;  e  lui  aspet- 
ta sempre;  lui,  il  superbo,  lui,  il  feroce,  lui,  il  terrore  dei  suoi 
nemici,  sopporta  tutto  perché  si  tratta  della  sua  bambina... 

BERNAL  -  E  voi,  amico  mio,  fareste  lo  stesso,  per  Mariana? 

ALVARO  -  Certo! 

BERNAL  -  Davvero? 

ALVARO  -  Certo! 

BERNAL  -  Me  lo  immaginavo,,  ma  sono  contento  di  sentirvelo  dire. 

{colpi  d  martello  della  porta  d'entrata) 

MARIANA  -  Stanno  arrivando  i  vostri  amici. 
ALVARO  -  I  miei  amici? 
MARIANA  -  I  signori  dell'Ordine. 

ALVARO  -  I  signori  dell'Ordine  sono  i  miei  pari,  non  i  miei  amici. 
(mettendo  la  mano  sul  braccio  di  Bernal)  Eccetto  lui. 

(Mariana  esce.  Entra  don  Fernando  de  Olmeda) 


IL  GRAN   MAESTRO  DI   SANTIAGO  415 


SCENA   QUARTA 

ALVARO,  BERNAL,  DON  FERNANDO  DE  OLMEDA,  pOÌ  il  MARCHESE  DE  VARGAS  C 
DON  GREGORIO  OBREGON,  insieme.  Poi  DON  ENRIQUE  DE  LETAMENDI 

ALVARO  -  Dicevo  a  don  Bernal  che  questa  neve  mi  ricordava  il  cavaliere 
teutonico  davanti  alla  fortezza. 

OLMEDA  -  A  me  la  neve  ricorda  sempre  le  nevi  eterne  della  Sierra 
Nevada  che  ci  dominavano  dall'alto  mentre  entravamo  a  Granata, 
ventisette  anni  or  sono.  Tutto  il  cielo,  in  gennaio,  era  un  cielo  az- 
zurro di  giugno;  si  sarebbero  dette,  quelle  nevi,  i  lenzuoli  fune- 
bri dei  nostri  nemici,  sospesi  nel  cielo.  E  noi  piangevamo  di  dol- 
cezza, perché  la  Spagna  era  finalmente  la  Spagna. 

ALVARO  -  La  sera  di  Granata,  ho  contemplato  Dio  nel  suo  manto  di 
guerra.  Era  come  un  albero,  al  quale,  dopo  la  battaglia,  i  combat- 
tenti hanno  appeso  le  loro  spade. 

BERNAL  -  Ecco  dunque  riuniti  i  tre  reduci  dell'assedio  di  Granata,  i 
tre  che  hanno  preso  parte  alla  grande  battaglia  che  ha  ridato  Tin- 
dipendenza  al  nostro  paese! 

OLMEDA  -  Non  riuscirò  mai  a  capire  perche  don  Alvaro  dopo  essersi 
coperto  di  gloria,  a  vcnt'anni,  all'assedio  di  Baza,  abbia  abbandonato 
l'esercizio  delle  armi. 

ALVARO  -  Ho  combattuto  ancora  due  anni  al  Marocco.  Ma...  il  Marocco... 

OLMEDA  -  Proprio  laggiù,  a  quel  che  si  racconta,  la  vigilia  della  con- 
quista di  Tlemcen,  avete  detto  quella  strana  frase:  «La  vittoria  e 
certa,  ma  non  vale  la  pena  conseguirla». 

ALVARO  -  Non  mi  ricordo.  È  possibile... 

(dopo  aver  bussato  col  martello  alla  porta  d'entrata  entrano,  insieme, 
il  marchese  de  V or  gas  e  don  Gregorio  Oberon,  V  or  gas  zoppica. 
Scambio  di  saluti) 

OLMEDA  -  Manca  soltanto  don  Enrique.  Ho  notato  che,  agli  appunta- 
menti, di  solito  sono  i  giovani  quelli  che  arrivano  in  ritardo. 
ALVARO  -  È  naturale,  i  giovani  ritardano  sempre  un  po'. 

(colpi  di  martello,  poi  entrata  di  don  Enrique  de  Letamendi.  Scambio 
di  saluti.  Poi  i  cavalieri,  restando  ognuno  in  piedi  davanti  alla  pro- 
pria sedia,  si  fanno  il  segno  della  croce  e  recitano  ad  alta  voce  il 
«  Veni  Creator  »,  infine  si  siedono.  Un  attimo  di  silenzio) 

BERNAL  -  Vorrei  sottomettere  una  proposta  a  don  Alvaro  ed  ai  compa- 
gni qui  presenti.  L'altro  giorno,  un  uomo  di  cui  tacerò  il  nome. 


416  HENRI  DE  MONTHERLANT 

perseguito  da  un  potere  che  ugualmente  non  nominerò,  si  preoc- 
cupava di  sapere  dove  avrebbe  potuto  trovare  un  rifugio.  «Per- 
che, —  gli  dissi,  —  non  andate  nel  tal  convento?  ».  «Mi  vendereb- 
bero», fu  la  sua  risposta.  Una  risposta  cosi  atroce  che  m'impedi 
per  tutta  la  notte  di  dormire.  E  io  pensai  che  non  potrò  avere  più 
pace  finche  non  sarò  sicuro  che  un  fuggìasco  il  quale  bussi  alla 
porta  di  uno  dei  conventi  dell'Ordine,  qualunque  sia  la  ragione  per 
la  quale  e  perseguito,  abbia  la  certezza  di  esservi  accolto  e  protetto. 
Se  voi  siete  della  mia  opinione,  facciamo  quel  che  bisogna  fare. 

OBREGON  -  Fra  una  quindicina  di  giorni  vado  a  Valladolid.  Potrei 
recarmi  dall'Arcivescovo  e  insistere  perché  egli  intervenga  presso 
i  priori  delle  nostre  case. 

ALVARO  -  Farete  bene. 

OBREGON  -  Durante  il  mio  soggiorno  a  Valladolid  vorrei  definire  un'al- 
tra questione.  Don  Juan  de  Anchorena,  cavaliere  dell'Ordine,  è 
fuggito  da  Orano,  dov'era  prigioniero  del  re  sulla  parola.  Che  cosa 
ne  pensate? 

ALVARO  -  Aveva  realmente  data  la  sua  parola? 

OBREGON  -  Si,  l'ha  ammesso  lui  stesso. 

ALVARO  -  Ogni  ufficiale  che,  prigioniero  sulla  parola,  fugge,  qualun- 
que possa  essere  la  ragione  che  ne  adduce,  non  è  uomo  di  onore. 
Propongo  di  domandare  al  Re  che  Anchorena  venga  radiato  dal- 
l'Ordine. 

LETAMENDi  -  E  se  il  Re  rifiuta? 

ALVARO  -  Siamo  noi,  appartenenti  all'Ordine,  che  stabiliamo  la  scala  dei 
valori  morali.  Non  tocca  al  Re,  che  ha  diciannove  anni  e  che  non 
è  spagnolo,  dire  dov'è  il  bene  e  dov'è  il  male  nella  Spagna.  Un  re 
di  diciannove  anni,  e  imberbe!  Don  Gregorio,  firmeremo  una  ri- 
chiesta al  Re  e  ve  la  consegneremo. 

OLMEDA  -  Parlo  a  nome  di  tutti  i  nostri  compagni  qui  riuniti  che  sono 
d'accordo  con  me  su  tutto  ciò  che  dirò  e  chiederò.  Tre  di  noi 
partono  alla  volta  del  Nuovo  Mondo  con  la  flotta  di  Fuenleal, 
che  salpa  il  mese  prossimo.  Don  Gregorio  Obregon,  che  riprende  il 
grado  di  comandante  delle  truppe  di  sbarco,  don  Enrique  de  Leta- 
mendi,  che  si  appresta  a  mettere  al  servizio  di  Fuenleal  il  suo  gio- 
vane valore  già  sperimentato  in  Italia,  e  infine  io  stesso  che  non 
ho  piti  la  forza  di  combattere  ma  che  mi  fermerò  a  Cuba,  dove 
il  Re  si  è  degnato  di  promettermi  la  carica  di  governatore  di  Ca- 
maguey. 

BERNAL  -  Partirei  anch'io,  se  la  salute  me  lo  permettesse. 

VARGAS  -  E  anch'io,  se  non  fosse  per  questa  sciagurata  ferita. 


m 


Henri  Rolland  e 
Hclènc  Vcrcors  ne 
//  gran  maestro  dt 
Santiago^  di  Mon- 
thcrlant,  al  Théàtre 
Hébcrtot  di  Parigi 
(1948). 


V 


IL  GRAN   MAESTRO  DI    SANTIAGO  417 

OBREGON  -  Un  tempo,  la  Spagna  fu  orribilmente  vinta,  invasa  tutta 
quanta  dai  Mori.  Mentre  la  maggior  parte  della  popolazione  ac- 
cettava il  giogo  dei  dominatori,  un  pugno  d'uomini  dell'esercito 
sconfìtto,  rifugiatosi  nelle  montagne,  dava  inizio  contro  gli  inva- 
sori ad  una  lotta  che,  guadagnando  un  po'  per  volta  terreno  nel 
corso  di  otto  secoli,  si  conchiudeva,  ventisette  anni  fa,  con  la  libe- 
razione totale  del  territorio.  Abbandonato  a  se  stesso,  privo  dell'aiu- 
to dei  suoi  capi  e  talvolta  da  essi  tradito,  il  popolo  aveva  conseguito 
da  solo  la  liberazione.  In  quello  stesso  anno  1492,  quando  il  potere 
degli  Infedeli  viene  abbattuto  nella  Spagna,  Colombo  scopre  San 
Salvador  ed  è  ancora  una  volta  un  pugno  di  Spagnoli  quello  che 
parte  alla  conquista  di  un  impero,  come  già  un  tempo  un  pugno  di 
Spagnoli  aveva  costituito  il  nucleo  della  riconquista  del  suolo  patrio. 
Si,  lo  stesso  anno!  Il  Dio  che  regna  nei  cieli  ha  voluto  che  non 
vi  fosse  la  più  piccola  frattura  in  questa  grandiosa  continuità; 
l'anello  si  salda  all'anello.  Se  vi  è  mai  stato  qualcosa  di  sublime 
al  mondo  è  proprio  questo. 

OLMEDA  -  Veniamo  al  fatto.  Don  Alvaro,  voi  che  noi  chiamiamo  cosi 
rispettosamente  ed  affettuosamente  «  il  Gran  Maestro  di  Santiago  », 
non  credete  che  sarebbe  per  voi  onorevole  venire  con  noi  nelle 
Indie?  Conoscete  certamente  il  proverbio:  «  C'è  sempre  una  crocia- 
ta nella  Spagna».  Questa  è  la  nuova  crociata. 

BERNAL  -  E  precisiamo  subito:  per  un  uomo  come  voi,  non  si  tratta, 
si  capisce,  di  traffico  d'oro  o  di  perle,  o  di  terreni,  o  di  schiavi; 
so  che,  fedele  alla  nostra  grande  tradizione  cristiana,  piuttosto  che 
trafficare,  preferireste,  se  fosse  necessario,  vivere  d'elemosina.  Nel- 
la spedizione  di  Fuenleal  voi  sbarcate  da  soldato,  con  la  spada  in 
mano.  Appena  possibile,  diventate  amministratore;  me  ne  assumo 
io  l'incarico:  credetemi  sulla  parola.  Se  —  come  sarebbe  più  che 
naturale  —  ora  non  vi  sentite  più  in  grado  di  combattere,  potrebbe 
esservi  affidata  immediatamente  una  carica  in  una  delle  regioni 
già  da  tempo  conquistate  ed  in  pace.  Hg  saputo  che  presto  saranno 
liberi  a  Cuba  e  a  Giamaica  dei  posti  importanti... 

ALVARO  -  Scorri,  torrente  dell'inutilità! 

BERNAL  -  Che  dite? 

ALVARO  -  Vi  chiedo  scusa,  ma  trovo  del  tutto  ridicole  tutte  queste  storie 
di  conquiste. 

LETAMENDi  -  SÌ  soffoca,  a  Avila... 

ALVARO  -  Dal  fondo  dei  vicoli  angusti  come  appaiono  splendenti  le 
stelle! 


27.  -  Teatro  francese 


418  HENRI  DE  MONTHERLANT 

VARGAS  -  Non  sentite  nostalgia  della  gloria,  voi  che  l'avevate  un  tempo 
SI  fulgida? 

ALVARO  -  Se  avessi  mai  avuto  una  qualche  fama  direi  d'essa  quel  che 
diciamo  dei  nostri  morti:  «Dio  me  l'ha  data.  Dio  me  l'ha  tolta. 
Sia  fatta  la  sua  volontà».  Non  ho  sete  che  di  un  immenso  racco- 
glimento. 

VARGAS  -  Ecco  quel  che  rende  difficile  il  nostro  compito. 

ALVARO  -  Si,  so  quale  intralcio  può  creare  in  una  comunità  un  uomo 
che  non  ha  nessuna  ambizione. 

OBREGON  -  Nessuna  ambizione,  e  nel  fiore  dell'età...  Ma,  allora,  che  cosa 
fate  voi  della  vostra  vita? 

ALVARO  -  Aspetto  che  tutto  finisca. 

VARGAS  -  Vivere  nell'ombra,  quando  si  può  brillare...  Un  uomo  che  non 
sa  farsi  valere  scoraggia  quelli  che  cercano  il  suo  bene.  Non  tocca 
certo  a  me  vantare  l'eccellenza  del  Signor  Tale,  se  non  lo  fa  un  po' 
lui  stesso. 

ALVARO  -  Mi  piace  essere  misconosciuto. 

OBREGON  -  Se  la  vostra  gloria  vi  pesa,  c'è  quella  dell'Ordine  che  è  im- 
pegnata laggiù  in  una  guerra  santa. 

ALVARO  -  Una  guerra  santa?  In  una  guerra  del  genere  la  causa  santa 
è  quella  degli  indigeni.  Cavalleria  vuol  dire  soprattutto  difesa  dei 
perseguitati.  Se  andassi  nelle  Indie,  lo  farei  per  proteggere  gli 
Indiani,  cioè,  secondo  voi,  per  «tradire».  Conoscete  certamente  la 
storia  di  quel  soldato  spagnolo  che  è  stato  impiccato  come  traditore 
perché  aveva  prestato  le  sue  cure  a  un  Indiano  ferito*.  Questo  è 
peggio  ancora  delle  peggiori  crudeltà. 

OBREGON  -  Molti  cavalieri  dell'Ordine  sono  laggiù  —  come  Hernando 
Cortez,  e  Pizarro...  —  che  senza  dubbio  non  sono  stati  della  vostra 
opinione. 

LETAMENDi  -  Ed  è  a  tutti  noto  che  in  occasione  di  un  certo  scontro 
il  nostro  stesso  patrono  m  persona,  Monsignor  San  Giacomo,  e  ap- 
parso agli  Spagnoli  sul  suo  cavallo  bianco. 

ALVARO  -  Si,  lo  so  che  al  grido  di  «  Santiago  »  vengono  commesse  le 
più  odiose  infamie.  So  che  quando  Ovando  attirò  in  un  tranello 
l'innocente  e  fiduciosa  regina  degli  Indiani,  che  ci  era  amica, 
dette  il  segnale  del  misfatto  mettendo  la  mano  sulla  sua  decora- 
zione di  cavaliere  di  Alcantara,  che  rappresentava  Dio  padre':  la 
Regina  fu  impiccata  e  i  cacichi  bruciati  vivi.  In  quanto  a  quello 


*  Storico.  (Nou  dell'A.) 
2  Storico.  (Nota  dell'A.) 


IL  GRAN  MAESTRO  DI   SANTIAGO  419 

che  gli  ordini  cavallereschi  stanno  a  coprire  nel  Nuovo  Mondo,  non 
ho  parole  abbastanza  forti  per  dire  la  nausea  che  ne  provo. 

OBREGON  -  Le  grandi  idee  non  sono  caritatevoli. 

VARGAS  '  Com'è  possibile  evitare  spiacevoli  eccessi  quando  un  pugno 
di  uomini  ne  deve  soggiogare  delle  migliaia? 

ALVARO  -  Ma  che  bisogno  c'è  di  soggiogarli? 

OBREGON  -  La  gloria  della  Spagna... 

ALVARO  -  I^  gloria  della  Spagna  è  stata  quella  di  vincere  un  invasore 
la  cui  presenza  era  un  insulto  per  la  sua  fede,  la  sua  anima,  il 
suo  spirito,  i  suoi  costumi.  Ma  conquistare  dei  territori?  È  una  cosa 
talmente  puerile...  E  talmente  assurda.  Voler  cambiare  qualcosa 
nei  territori  conquistati  quando  è  cos(  urgente  riformare  la  patria 
stessa,  è  come  voler  cambiare  qualcosa  nel  mondo  esterno  quando 
tutto  è  da  cambiare  in  se  stessi.  E  talmente  inutile.  I  principi  si 
danno  da  fare  per  conquistare  nuovi  possessi  che  non  sapranno 
come  amministrare  e  come  difendere,  che,  invece  di  renderli  più 
forti,  li  indeboliranno  e  che  infine  perderanno  in  maniera  misere- 
vole dopo  averne  ricavato  ogni  sorta  di  fastidi.  Noi  infatti  perde- 
remo le  Indie.  Le  colonie  son  fatte  per  essere  perdute.  Nascono 
con  la  croce  della  morte  impressa  sulla  fronte. 

OBREGON  -  Voi  dinienticate  che  delle  migliaia,  dei  milioni  di  Indiani 
brucerebbero  per  l'eternità  nell'inferno  se  gli  Spagnoli  non  portas- 
sero loro  la  fede. 

ALVARO  -  Ma  dei  milioni  di  Spagnoli  bruceranno  per  l'eternità  nell'in- 
ferno perché  saranno  andati  nel  Nuovo  Mondo  1 

OLMEDA  -  Che  dite  mai!... 

ALVARO  -  Tutto  ciò  che  riguarda  il  Nuovo  Mondo  è  sozzura  e  sporci- 
zia. Il  Nuovo  Mondo  corrompe  tutto  quello  che  tocca.  E  Torribilc 
malattia  che  i  nostri  compatrioti  portano  in  patria  da  laggiù  non 
è  che  il  simbolo  di  questa  corruzione.  Più  in  là^  quando  si  vorrà 
rendere  onore  ad  un  uomo  si  dirà  di  lui:  «Non  ha  preso  parte 
alcuna  agli  affari  delle  Indie». 

OLMEDA  -  Don  Alvaro! 

LETAMENDi  -  Voi  ci  offendete! 

ALVARO  -  Attraverso  la  conquista  delle  Indie  si  sono  installati  in  Ispa- 
gna  la  passione  del  lucro,  il  traffico  di  tutto  e  su  tutto,  l'ipocrìsia, 
l'indifferenza  alla  vita  del  prossimo,  il  vergognoso  sfruttamento 
dell'uomo  da  parte  dell'uomo.  Le  Indie  rappresentano  l'inizio  del 
crepuscolo  della  Spagna. 

OBREGON  -  Andiaoio  via.  Il  nostro  posto  non  è  più  qui. 


420  HENRI  DE  MONTHERLANT 

VARGAs  -  Confessatelo  finalmente:  voi  l'aspettate,  l'ora  in  cui  la  Spagna 
sarà  ridotta  alla  disperazione. 

ALVARO  -  Ma  dimentichiamo  la  causa  del  male.  Qualunque  sia  la  sua 
origine,  vi  è  uno  stato  di  cose,  in  Ispagna,  al  quale  voglio  restare 
estraneo.  La  Spagna  e  la  mia  più  profonda  umiliazione.  Non  ho 
niente  da  fare  in  un'epoca  in  cui  l'onore  è  punito,  in  cui  la  gene- 
rosità è  punita,  in  cui  la  carità  è  punita,  in  cui  tutto  ciò  che  è 
grande  è  avvilito  e  deriso,  in  cui  dappertutto  io  vedo  la  canaglia 
nei  primi  posti,  in  cui  dappertutto  è  assicurato  il  trionfo  a  chi  è 
più  stupido  e  più  abietto.  Una  regina,  l'Impostura,  ha  ai  suoi 
piedi,  come  paggi,  il  Ladroneggio  e  il  Delitto.  L'Incapacità  e  l'In- 
famia, sue  sorelle,  si  danno  la  mano.  E  gli  imbroglioni  venerati,  ado- 
rati dalle  loro  vittime...  Forse  che  invento?  Ricordatevi  le  parole 
pronunziate  dal  re  Ferdinando  sul  letto  di  morte:  «  I  vostri  con- 
temporanei, che  di  giorno  in  giorno  degenerano...  ». 

VARGAS  -  Tutte  le  epoche  hanno  parlato  cosi  di  loro  stesse. 

OBREGON  -  Anche  nella  sua  epoca  migliore,  cioè  nel  XII  secolo,  la  caval- 
leria aveva  bisogno  di  essere  riformata. 

ALVARO  -  È  vero:  tutto,  e  sempre,  ha  bisogno  di  essere  riformato. 

VARGAS  -  Cristiano  come  siete,  andate  dunque  fino  in  fondo  al  vostro 
cristianesimo.  Da  tremila  anni  le  nazioni  periscono.  Da  tremila  anni 
i  popoli  cadono  in  schiavitù.  Il  cristiano  non  può  prendere  solo  al 
tragico  tali  sciagure.  Se  voi  siete  coerente,  non  c'è  che  una  patria, 
quella  che  sarà  creata  dagli  Eletti. 

ALVARO  -  Io  mi  riservo  l'altra  per  soffrirne. 

BERNAL  -  Voi  condannate  la  vostra  epoca  come  fanno  gli  uomini  molto 
vecchi.  Non  avete  ancora  cinquant'anni  e  parlate  come  se  ne  ave- 
ste ottanta.  Ed  esagerate  molto.  Se  prendeste  più  viva  parte  agli 
avvenimenti,  se  foste  più  informato  di  quel  che  accade... 

ALVARO  -  Ne  so  abbastanza.  Ogni  volta  che  arrischio  la  testa  fuori  dal 
mio  guscio,  ricevo  un  colpo  sulla  testa.  La  Spagna  per  me  non  è 
più  se  non  qualcosa  da  cui  cerco  di  difendermi. 

BERNAL  -  Si,  ma  a  forza  di  appartarvi,  il  mondo  vi  appare  deformato 
dalla  vostra  visione  personale.  E  cosi  rifiutate  un'epoca  perché  non 
riuscite  a  vederla  nella  sua  realtà. 

OBREGON  -  Ritto  sulla  soglia  di  una  nuova  era,  rifiutate  di  entrarvi. 

ALVARO  -  Ritto  sulla  soglia  di  una  nuova  era,  rifiuto  di  entrarvi. 

VARGAS  -  Ammettiamo  pure  che  sia  eroico  il  volere  essere  solo,  per 
fedeltà  alle  proprie  idee.  Ma  non  sarebbe  altrettanto  eroico  svol- 
gere la  propria  missione  in  una  società  che  vi  contraria,  perché 


IL  GRAN  MAESTRO  DI   SANTIAGO  421 

vi  trionfino  quelle  idee  che,  se  non  prendono  corpo,  resteranno  piò 
o  meno  vane? 

BERNAL  -  E  poi,  quello  che  è  bello  ed  umano  non  e  l'irrigidirsi,  ma 
l'adattarsi;  non  il  fuggire  per  essere  virtuoso  comodamente,  ma  es- 
ser virtuoso  nel  mondo,  .là  dove  è  difficile  esserlo. 

ALVARO  -  Sono  stanco  del  continuo  divorzio  fra  me  e  tutto  ciò  che 
mi  circonda.  Sono  stanco  dell'indignazione.  Ho  sete  di  vivere  in 
mezzo  a  gente  diversa  dai  furbi,  dalle  canaglie,  dagli  imbecilli. 
Prima,  noi  eravamo  insozzati  dall'invasore.  Ora  ci  insozziamo  noi 
stessi;  non  abbiamo  fatto  che  cambiare  di  dramma.  Ah!  perché 
non  sono  morto  a  Granata  quando  la  mia  patria  era  ancora  intatta? 
Perché  son  sopravvissuto  alla  mia  patria?  Perché  mai  vivo? 

BERNAL  -  Amico  mio,  che  cosa  avete?  Non  ci  avete  mai  tenuto  un  si- 
mile linguaggio! 

ALVARO  -  Il  collare  dei  cavalieri  di  Cipro  era  adorno  della  lettera  S, 
che  voleva  dire:  «  Silenzio  ».  Oggi  tutto  quel  che  c'è  di  buono  nel 
nostro  paese,  tace.  C'è  un  Ordine  del  Silenzio;  anche  di  quell'ordi- 
ne dovrei  essere  Gran  Maestro.  Perché  avermi  provocato  a  par- 
lare? 

OLMEDA  -  Fatevi  monaco,  don  Alvaro.  Ormai  questo  è  il  solo  stato 
che  vi  conviene. 

ALVARO  -  Non  so  in  effetti  che  cosa  mi  trattenga,  se  non  una  certa 
mancanza  di  decisione  e  di  energia. 

OLMEDA  -  E  aggiungo  che  è  molto  più  elegante,  quando  ci  si  ap- 
parta dal  mondo,  appartarsi  senza  biasimarlo.  Il  biasimo,  in  tal 
caso,  è  molto  volgare. 

ALVARO  -  Sapete  che  cos'è  la  purezza?  Lo  sapete?  {sollevando  il  man- 
tello dell'Ordine,  che  è  appeso  al  muro  sopra  il  crocifisso)  Guardate 
il  mantello  del  nostro  Ordine;  è  bianco  e  puro  come  la  neve  là 
fuori.  La  spada  rossa  è  ricamata  dov'è  il  posto  del  cuore,  come  se 
proprio  il  cuore  la  tingesse  del  suo  sangue.  Questo  vuol  dire  che 
la  purezza  alla  fine  è  sempre  ferita,  sempre  uccisa,  ch'essa  riceve 
sempre  il  colpo  di  lancia  che  ricevette  il  cuore  di  Gesù  sulla  croce. 
(bacia  l'orlo  del  mantello.  Dopo  una  breve  esitazione,  Olmeda,  che 
si  trova  piti  vicino  al  mantello,  ne  bacia  anch'egli  l'orlo)  Si,  i  no- 
bili ideali  alla  fine  sono  sempre  vinti;  la  storia  non  è  che  il  racconto 
delle  loro  rinnovellate  sconfìtte.  Solamente  non  devono  minarli  pro- 
prio quelli  che  si  sono  assunti  la  missione  di  difenderli.  Per  quan- 
to decaduto,  l'Ordine  è  il  reliquario  di  tutto  quel  che  ancora  resta 
di  magnanimo  e  di  onesto  nella  Spagna.  Se  non  lo  credete,  dimet- 


422  HENRI  DE  MONTHERLANT 

tetevi.  Se  noi  non  siamo  i  migliori,  non  abbiamo  nessuna  ragione 
d'essere.  Per  me,  il  mio  pane  è  il  disgusto.  Dio  m'ha  dato  in  abbon- 
danza la  facoltà  della  nausea.  Questo  orrore  e  questo  continuo  la- 
mento che  costituiscono  la  mia  vita  e  di  cui  io  mi  nutro...  Ma 
voi,  pieni  di  indifferenza  e  di  indulgenza  per  l'ignominia,  voi 
patteggiate  con  essa,  voi  vi  fate  suoi  complici!  Uomini  della  terrai 
Cavalieri  della  terra! 

OBREGON  (a  voce  bassa,  a  Vargas)  •  Dice  tutto  questo  perché  non  è 
troppo  intelligente. 

ALVARO  -  Prima  della  presa  di  Granata,  c'era  a  Frontera,  sulla  sommità 
di  un  picco,  una  fortezza  dove  i  giovani  cavalieri  facevano  il  loro 
noviziato.  Là  per  l'ultima  volta  ho  sentito  il  canto  dell'Uccello. 
Nessuno  più  ormai  lo  sentirà. 

LETAMENDi  -  Quale  uccelloP 

ALVARO  '  Il  canto  della  Colomba  ardente  che  ci  ispira  quello  che  bi- 
sogna dire  o  fare  per  non  demeritare. 

VARGAS  -  Non  da  Granata,  quando  la  conquistammo,  ma  dall'Italia, 
e  cento  anni  fa,  ci  è  venuto  uno  spirito  di  cose  nuove... 

OBREGON  -  Il  cavaliere  del  1519  non  può  essere  il  cavaliere  del  Mille. 
Non  ci  sono  piò  né  gnomi  né  mostri. 

ALVARO  -  Ci  sono  ancora  i  mostri.  Non  ce  ne  sono  mai  stati  tanti. 
Ne  siamo  premuti,  dominati,  oppressi.  Là...  là...  là...  Sventura  agli 
onesti! 

BERNAL  -  Signori,  rimandiamo... 

ALVARO  (fl/  colmo  dell'esaltazione)  -  Sventura  agli  onesti!  Sventura 
agli  onesti! 

BERNAL  -  Rimandiamo  a  un'altra  volta  la  fine  di  questo  consiglio... 

ALVARO  {tuffa  un  tratto  depresso)  -  Sventura  agli  onesti...  Sventura  ai 
migliori... 

{Vargas  e  Obregon  si  ritirano  rapidamente  con  aria  contegnosa) 

BERNAL  {a  Alvaro)  -  Devo  parlarvi  in  privato,  amico  mio.  Volete  ri- 
cevermi domani? 
ALVARO  -  Venite  alle  sedici. 
BERNAL  -  A  domani,  dunque,  se  Dio  vuole. 
ALVARO  .  A  domani,  se  Dio  vuole. 


IL  GRAN   MAESTRO  DI   SANTIAGO  423 


SCENA   QUINTA 

ALVARO,  LETAMENDI,  OLMEDA 

LETAMENDi  -  Sono  tufbato... 

ALVARO  -  E  perché  mai? 

LETAMENDI  -  Mi  domaiìclo  se  devo  partire, 

ALVARO  -  Ma  SI,  bisogna  partire. 

LETAMENDI  -  Dopo  quello  che  avete  detto? 

ALVARO  -  Partite.  Lo  desiderate  e  avete  diciannove  anni.  Quando  si  han- 
no diciannove  anni  si  finisce  sempre  col  fare  ciò  che  si  desidera. 

LETAMENDI  -  Voi  mi  disprczzate!  Non  avete  il  diritto  di  disprezzarmi 
cosi! 

ALVARO  -  Non  ne  ho  il  diritto*  Voi  decidete  dei  miei  diritti! 

LETAMENDI  -  No,  non  resterò  in  questa  città  spaventosa,  in  questa  tom- 
ba delle  tombe.  Ma  ora  partirò  col  cuore  pieno  di  incertezza  e  di 
inquietudine.  Avete  distrutto  tutta  la  mia  gioia.  Siete  almeno  sicuro 
di  essere  nel  vero,  per  turbarmi  cosi? 

ALVARO  -  Si,  sono  sicuro  di  essere  nel  vero. 

LETAMENDI  -  Ah!  voi  mi  riducete  alla  disperazione! 

ALVARO  -  È  quello  che  voglio.  {Letamendi  esce,  con  un  gesto  di  smar- 
rimento) Giovinezza:  tempo  di  sconfitte. 


SCENA   SESTA 

ALVARO,  OLMEDA 

OLMEDA  -  Anche  a  me  direte  di  partire? 

ALVARO  -  Forse  che  anche  voi  esitate? 

OLMEDA  -  Il  più  giovane  e  il  più  vecchio  fra  di  noi,  voi  li  avete  scossi. 

Ah!  siete  veramente  il  Gran  Maestro  di  Santiago. 
ALVARO  -  Io  non  sono  il  maestro  di  niente  e  di  nessuno.  Sono  il  servo 

dei  servi  di  Dio. 
OLMEDA  -  Perché  avete  spinto  quel  ragazzo  a  partire? 
ALVARO  -  Perché  per  lui  ciò  non  ha  importanza.  I  giovani  non  hanno 

Taudacia  di  niente,  il  rispetto  di  niente,  rintclligenza  di  niente.  A 

loro  spettano  le  spedizioni  per  mare;  è  proprio  quello  che  ci  vuole 


424  HENRI  DE  MONTHERLANT 

per  loro.  Ma  le  alte  avventure  sono  per  gli  uomini  della  nostra 
età,  e  le  alte  avventure  sono  sempre  spirituali.  Voi,  Olmeda, 
restate! 

(Olmeda  ha  uno  slancio  verso  don  Alvaro,  I  due  uomini  si  abbrac- 
ciano in  silenzio.  Olmeda  esce) 


SCENA   SETTIMA 

ALVARO,    solo 

O  mia  anima,  esisti  ancora?  O  mia  anima,  finalmente  tu  ed  io! 


ATTO   SECONDO 


La  stessa  scena. 
Ma   fuori  non  cade  più  la  neve.  E  si  vede  una  delle  massiccie  torri  della  cinta 
di  mura  di  Avila,  nell'aria  dal  limpidissimo  grigio  che  è  caratteristico  di  que- 
sta città. 


SCENA   PRIMA 

Durante  questa  scena,  alcune  galline  entrano  ogni  tanto  nella  stanza  e  vengono 
a  becchettare  non  si  sa  che  fra  i  piedi  di  don  Alvaro  e  don  Bernal. 

ALVARO,    BERNAL 

BERNAL  -  ...  in  questo  momento  è  al  padre  che  mi  rivolgo. 

ALVARO  -  Mariana  è  Tessere  per  me  più  caro  al  mondo. 

BERNAL  (sorridendo)  -  Più  del  vostro  cavallo? 

ALVARO  (serio)  -  Molto  più  del  mio  cavallo. 

BERNAL  -  Mariana  vi  parla  un  po'  della  sua  vita  intima? 

ALVARO  -  Abbastanza  perché  sappia  che  teme  Dio.  Sebbene  non  mi 

parli  di  lui  quanto  desidererei. 
BERNAL  -  Forse  lo  fa  per  pudore.  Io  non  pensavo,  però,  alla  sua  vita 


IL  GRAN   MAESTRO  DI    SANTIAGO  425 

religiosa,  ma  alla  sua  vita  sentimentale...  Dopo  il  suo  ritorno  dal- 
ritalia  e  il  suo  soggiorno  a  Valladolid,  Jacinto  ha  visto  solo  tre 
volte  Mariana,  ma  ha  concepito  per  lei  una  tenera  ammirazione, 
che  dona  Isabella  e  io  approviamo.  Credo  che  Mariana,  per  parte 
sua,  è...  insomma  non  ha...  {silenzio)  Lei  non  vi  ha  detto  niente? 

ALVARO  '  Lei  sa  che  non  ho  competenza  alcuna  in  questo  genere  di 
affari. 

BERNAL  -  Se  sono  venuto  a  parlarvi  di  questo  duplice  sentimento  è 
perché  abbiamo  pensato,  dona  Isabella  ed  io,  che  poteva  non  re- 
stare senza  esito,  (silenzio)  Siete  davvero  taciturno. 

ALVARO  -  Tante  cose  non  meritano  d'essere  dette.  E  tanta  gente  non 
merita  che  le  si  dicano  le  altre  cose.  Ciò  fa  molto  silenzio. 

BERNAL  -  Mi  sembra  che  il  nostro  progetto  non  vi  piaccia  molto. 

ALVARO  -  Mi  prendete  alla  sprovvista. 

BERNAL  -  Insomma,  mio  caro  amico,  non  vi  siete  accorto  dell'inclina- 
zione di  vostra  figlia? 

ALVARO  -  Poniamo  che  non  me  ne  sia  accorto  perché  non  volevo  accor- 
germene. 

BERNAL  -  Dunque  vi  dispiace? 

ALVARO  -  Ogni  attaccamento  mi  dispiace. 

BERNAL  -  Non  avete  mai  pensato  all'avvenire  di  Mariana? 

ALVARO  -  Per  cercare  di  sistemare  Mariana  avrei  dovuto  perdermi  in 
preoccupazioni  di  vita  mondana  e  in  spreco  di  tempo.  Non  l'ho 
voluto  fare.  Ho  pensato  che  Dio  m'avrebbe  tenuto  conto  della  mia 
volontà  di  non  perdermi  e  che  avrebbe  provveduto  lui  stesso  a 
questa  sistemazione.  E  cosi  infatti  è  successo,  dal  momento  che  voi 
siete  qui.  Se  la  vostra  proposta  consente  che  un  tal  matrimonio  si 
conchiuda  senza  che  io  me  ne  debba  occupare,  è  il  Cielo  che  vi 
manda. 

BERNAL  -  Non  ci  siete  soltanto  voi,  c'è  anche  la  felicità  dei  nostri  figli. 
E  non  devo  pensarci  io  per  due?  Pare  infatti  che  questa  questione 
non  vi  preoccupi  affatto. 

ALVARO  -  Mariana  sarà  felice.  La  mia  casa  non  è  gaia.  E  anch'io,  forse, 
sarò  più  felice  quando  lei  non  sarà  più  qui. 

BERNAL  -  Davvero! 

ALVARO  -  Non  sapete  fino  a  che  punto  sono  affamato  di  silenzio  e  di 
solitudine:  qualche  cosa  di  sempre  più  spoglio...  Ogni  essere  uma- 
no è  un  ostacolo  per  chi  tende  a  Dio.  Gli  impulsi  che  Dio  mi  fa 
la  grazia  di  suscitare  in  me,  non  posso  percepirli  che  in  una  com- 
pleta astrazione,  come  chi  ascolta  la  musica  ad  occhi  chiusi.  Ciò 
di  cui  avrei  bisogno  sono  delle  giornate  vuote,  cosi  vuote...  Tutto 


426  HENRI  DE  MONTHERLANT 

quello  che  vi  entrasse,  perfino  ramicìzia,  perfino  e  soprattutto  l'af- 
fetto, non  vi  entrerebbe  che  per  turbarle. 

BERNAL  '  Mariana... 

ALVARO  -  I-a  sentivo  camminare;  accadeva  talvolta  ch'ella  cantasse.  Mi 
stancava,  spesso,  e  talvolta  mi  faceva  spazientire;  la  vitalità  può 
diventare  un  dono  assai  temibile.  E  poi,  è  un  peso  avere  una  figlia 
in  un'epoca  in  cui  tutto  quello  che  si  può  fare  per  lei  è  di  pro- 
teggerla. Si,  tutta  l'educazione  è  ormai  senz'altro  ridotta  a  proteg- 
gere da  ciò  che  si  vede,  da  ciò  che  si  legge  e  da  ciò  che  si  sente. 

BERNAL  -  Cercate  di  isolarla? 

ALVARO  -  Talvolta  di  isolarla  e  talvolta  di  non  isolarla.  Come  gli  Spar- 
tiati  mostravano  ai  loro  figli  un  ilota  ubriaco,  capita  che  le  mostri 
il  mio  paese  perche  veda  che  cosa  lei  non  deve  essere. 

BERNAL  -  Le  hanno  insegnato,  credo,  alcune  piccole  cose. 

ALVARO  -  Conosce  bene  i  libri  santi.  Le  ho  insegnato  anche  un  po' 
di  storia:   saprà  come  muoiono  gli  imperi. 

BERNAL  -  Insomma  Mariana  è  una  nota  falsa  nella  vita  che  vi  siete 
creata.  Mi  sembra  che  quando  era  piccola  vi  dava  più  gioia. 

ALVARO  -  Ma  anche  mi  degradava. 

BERNAL  -  Vi  degradava! 

ALVARO  -  I  figli  degradano.  Noi  non  ci  vedevamo  che  all'ora  dei  pasti 
ed  ogni  volta  ne  uscivo  un  po'  diminuito.  Quando  s'è  fatta  gio- 
vinetta, la  sua  vita  è  divenuta  qualcosa  che  bisognava  prendere 
sul  serio,  e  che  tuttavia  non  m'interessava. 

BERNAL  -  Che  non  vi  interessa,  e  che  vi  interessa  quanto  basta  per 
farvi  sentire  irritato  di  non  potervi  penetrare. 

ALVARO  -  Irritato?  No.  Solamente  stanco.  Lo  sforzo  che  facevo,  spinto 
da  un  sentimento  di  carità  verso  di  lei,  per  darle  l'impressione  di 
interessarmi  ad  una  vita  che  mi  era  cosi  estranea,  mi  sfiniva. 

BERNAL  -  Ancora  la  carità! 

ALVARO  -  Tutto  ciò  che  passa  per  quella  testolina...  In  seguito,  non 
ho  più  cercato  di  capirlo,  persuaso  d'altronde  che  tutto  ben  presto 
sarebbe  cambiato  e  che  la  mia  ricerca  sarebbe  stata  superflua. 

BERNAL  -  Sapete  che  Mariana,  sia  pur  con  dolcezza,  si  lagna  che  non 
parliate  mai  con  lei  di  cose  serie? 

ALVARO  -  Non  le  parlo  mai  di  cose  serie  perché  è  incapace  di  capirle. 
Voi  potreste  pregare  se  sapeste  che  Dio  non  vi  comprende? 

BERNAL  -  Un  po'  più  d'amore  porterebbe  rimedio  a  tutto  questo. 

ALVARO  -  Con  un  po'  più  d'amore,  vorrei  dirigerla,  m'irriterei  se  la 
giudicassi  in  errore,  se  la  credessi  inferiore  a  ciò  che  mi  aspetto 
da  lei.  Amandola  in  maniera  ragionevole,  invece,  non  le  domando 


IL  GRAN   MAESTRO  DI   SANTIAGO  427 

niente,  non  le  rimprovero  niente,  non  abbiamo  mai  alcun  contra- 
sto. E  poi,  mio  caro  amico,  l'avete  visto  ieri;  non  sono  di  quelli 
che  amano  il  loro  paese  anche  quando  ne  è  indegno:  amo  la  Spa- 
gna secondo  i  suoi  meriti,  come  farei  per  un  paese  straniero. 
Nello  stesso  modo,  il  fatto  che  Mariana  sia  mia  figlia  non  mi  in- 
durrà mai  ad  esagerare  in  suo  favore.  Suvvia,  credetelo  pure,  lon- 
tani Tuno  dall'altra  saremo  più  felici  e  migliori. 

BERNAL  -  Che  quadro  mi  dipingete!  Dite  pure,  in  una  parola,  che 
non  potete  sopportare  la  sua  giovinezza.  Se  Dio  vuole,  domani  ella 
avrà  una  casa  dove  il  suo  canto  farà  fiorire  in  ogni  animo  un  cespo 
di  fiori.  Se  Dio  vuole,  cioè  se  il  mio  sogno  diventerà  realtà.  Ma 
intanto  sarà  necessario  che  vi  parli  con  una  franchezza  brutale. 
Lo  farò  pensando  ad  una  frase  che  ho  trovato  in  una  delle  nostre 
vecchie  cronache.  Un  nobile  parla  in  nome  della  classe  dei  nobili, 
e  dice:  «Noialtri  veritieri...».  Si,  a  noialtri  nobili  tocca  esser 
veritieri,  semplicemente  perché  è  indegno  di  noi  prenderci  la  pena 
d'inventare  menzogne. 

ALVARO  -  In  tutto  l'anno  che  ora  si  è  conchiuso,  non  ho  mentito  che 
quattro  volte. 

BERNAL  -  La  mia  franchezza,  in  quest'occasione,  è  pericolosa.  Ho  ben 
capito,  dal  nostro  consiglio  di  ieri,  quanto  sia  facile  irritarvi. 

ALVARO  -  Sono  severo  con  quelli  che  offendono  i  miei  prìncipi,  anche 
quando  sono  amici  miei.  E  indulgente  con  quelli  che  mi  offen- 
dono come  uomo.  Se  avessi  il  peggiore  dei  miei  nemici  fra  le  mani, 

10  lascerei  libero  senza  fargli  alcun  male. 
BERNAL  -  Per  spirito  di  carità?  O  per  disprezzo? 
ALVARO  -  Per  tutto  quello  che  volete. 

BERNAL  -  Ancora  una  volta  vi  avverto;  vi  dispiacerò.  Ecco.  Voi  non 
ignorate  la  nostra  situazione.  La  sola  eredità,  si  può  dire,  che  ho 
ricevuto  dai  mici  genitori  è  l'onore.  Per  il  resto...  vi  devo  dire  che 
non  tanto  mi  ha  dato  fastidio  il  non  aver  denaro,  quanto  il  ren- 
dermi conto  di  non  essere  abbastanza  abile  per  saperlo  guadagnare. 

11  Re  Ferdinando  non  aveva  alcuna  simpatia  per  me.  La  nostra 
casa  è  andata  sempre  decadendo  fino  all'incoronazione  del  Re  Car- 
lo e  all'entrata  di  Jacinto  nel  Consiglio  delle  Indie,  che  ci  hanno 
riaperto  le  porte  della  speranza.  Jacinto  nella  sua  carica  si  afferma 
con  molto  successo,  ma  ciò  comporta  spese  gravose  e,  quanto  piii 
andrà  avanti,  tanto  più  darà  fondo  ai  suoi  beni.  Come  aiutare  una 
carriera  cosi  ricca  di  promesse?  Il  Nuovo  Mondo  dove  Jacinto  è 
in  grado  di  avere  domani  una  considerevole  influenza?  In  quanto 
a  me,  la  mia  salute  mi  impedisce  di  andarvi;  non  c'è  nemmeno  da 


428  HENRI  DE  MONTHERLANT 

parlarne.  In  quanto  a  lui  tutto  il  suo  successo  è  legato  alla  sua 
presenza  qui;  a  Valladolid  ha  in  mano  uomini  ed  affari;  per 
nessuna  ragione  al  mondo  deve  lasciare  la  sua  presa;  da  Vallado- 
lid per  l'appunto  trae  la  sua  vita  e  perirebbe  se  l'abbandonasse. 
Conclusione:  bisogna  che  Jacinto  sposi  una  ragazza  ricca.  £  perciò 
quello  che  ieri  vi  domandavamo  per  questa  e  quest'altra  ragione, 
oggi  io  ve  lo  domando  da  uomo  a  uomo,  da  amico  a  amico,  da  pa- 
dre a  padre.  Andate  a  passare  due  anni  soltanto,  soltanto  un  anno, 
nel  Nuovo  Mondo  e  ne  tornerete  ricco.  Q)n  una  carica  come  quel- 
la alla  quale  penso  per  voi,  attraverso  i  più  onesti  mezzi,  e  come  se 
vi  cadesse  dal  cielo,  l'oro  affluisce  nelle  vostre  mani.  Herrera,  Con- 
treras,  Luzan,  in  posti  simili,  hanno  fatto  fortuna  in  dodici  mesi. 
Vi  sono  notevoli  gratificazioni... 

ALVARO  -  Vi  chiedo  scusa...  È  proprio  a  me  che  parlate  in  questo  mo- 
mento? 

BERNAL  -  Suppongo  chc  la  parola  gratificazione  vi  abbia  urtato.  È  as- 
surdo! Herrera,  Contreras  sono  uomini  di  alto  valore  morale  con- 
tro i  quali  nessuno... 

ALVARO  -  E  dire  che  soprattutto  i  miei  amici  si  accaniscono  perché  io 
mi  degradi.  Non  continuate.  Non  andrò  nel  Nuovo  Mondo. 

BERNAL  -  Neppure  per  vostra  figlia? 

ALVARO  -  Dunque,  quel  che  io  sono  agli  occhi  di  Dio,  quel  che  io  sono 
ai  miei  propri  occhi,  dovrebbe  essere  compromesso,  dovrebbe  es- 
sere rovinato  per  colpa  di  qualche  cosa  che  esiste  soltanto  per  un 
mio  momento  di  debolezza!  Giammai! 

BERNAL  -  Qualcosa  che  esiste  soltanto  per...  È  così  che  chiamate  vostra 
figlia?  Ah!  Alvaro,  che  razza  d'uomo  siete  mai! 

ALVARO  -  Potessi  io  csserc  quel  miserabile  che  voi  credete,  potessero  le 
vostre  parole  di  disprezzo  colpire  nel  segno!  Ma  no,  ahimé,  io  sono 
l'uomo  che  tutti  dovrebbero  essere. 

BERNAL  -  Aveva  ragione  Olmeda  quando  ieri  sera  mi  parlava  della  vo- 
stra «  crudeltà  ». 

ALVARO  -  Olmeda,  che  ha  sessantadue  anni,  e  che  pensa  a  fare  il  gover- 
natore invece  di  pensare  a  fare  una  buona  morte,  si  dimostra 
frivolo. 

BERNAL  -  Voi  sacrificate  vostra  figlia  a  voi  stesso,  a  voi  stesso,  a  nient'al- 
tro  che  a  voi  stesso. 

ALVARO  -  O  razza  degli  uomini  intransigenti,  come  sei  infelice! 

BERNAL  -  Infelice  quando  si  vede  giudicata,  lei  che  vuole  giudicare. 

ALVARO  -  Dio  è  il  solo  giudice  che  riconosco,  adorando,  trepido  e  tran- 
quillo, la  sentenza  che  darà  di  me. 


IL  GRAN  MAESTRO  DI   SANTIAGO  429 

BERNAL  -  Vi  siete  rifugiato  nella  carità.  Se  doveste  agire,  quello  che 
si  dice  agire,  vi  infanghereste  come  gli  altri. 

ALVARO  -  Solo  una  norma  soprannaturale  può  permettermi  di  nutrire 
benevolenza  verso  i  miei  compatrioti. 

BERNAL  -  Vostra  figlia  compresa! 

ALVARO  -  Ancora  nel  secolo  scorso,  un  cavaliere  doveva  mettere  suo 
figlio,  ragazzo  o  adolescente,  nella  casa  di  un  altro  cavaliere,  per 
non  esser  vincolato  dalla  tenerezza  paterna.  Io  non  voglio  vincoli  di 
tal  fatta. 

BERNAL  -  Forse  che  il  cavaliere  teutonico,  davanti  al  ponte  levatoio  del 
castello  non  accettava  tutto,  per  salvare  la  sua  bambina? 

ALVARO  -  Accettava  delle  offese.  Non  avrebbe  accettato  delle  macchie. 

BERNAL  -  Il  vostro  amore  per  la  cavalleria  vi  accieca.  Siete  una  di  quelle 
anime  affascinate  dai  loro  propri  sogni  che  possono  divenire  molto 
pericolose  per  una  società. 

ALVARO  -  Voi,  per  la  prima  volta  in  vita  vostra,  mi  parlate  di  denaro 
e  ciò  a  causa  di  vostro  figlio.  Sarò  a  mia  volta  brutale:  volete  ce- 
derlo soltanto  a  peso  d'oro.  Ed  io,  io  dovrei  farmi  spergiuro  a 
causa  di  mia  figlia.  Ecco  dunque  a  che  cosa  servono  i  figli!  Lo 
avevo  sempre  presentito.  Ma  non  pensavo  mai  che  ne  avrei  avuto 
una  prova  cosi  evidente. 

BERNAL  -  Mi  rimproverate  di  parlarvi  di  denaro.  Ma  io  credo  che  van- 
tarsi di  non  parlar  mai  di  denaro  è  indice  di  falsa  eleganza,  è  segno 
di  spirito  borghese.  Tutte  le  persone  più  ragguardevoli  che  conosco 
sono  straordinariamente  sincere  per  quel  che  riguarda  i  loro  in- 
teressi. 

ALVARO  -  Non  so  qual  cacico,  essendogli  stato  chiesto  chi  fosse  il  dio 
degli  Spagnoli,  ha  mostrato  col  dito  una  pepita  d'oro.  E  quando 
s'è  visto  il  Re  stesso  depredare,  con  la  minaccia  o  con  la  violenza, 
i  beni  dei  nostri  quattro  Ordini,  non  c'è  da  meravigliarsi  se,  al  gior- 
no d'oggi,  il  mondo  appartiene  agli  impudenti. 

BERNAL  -  Come  se,  prima  della  conquista  di  Granata  non  si  fosse  mai 
desiderato  l'oro! 

ALVARO  -  Si  desiderava  l'oro  perché  dava  il  potere  e  con  il  potere  si 
facevano  grandi  cose.  Ora  si  desidera  il  potere  perché  dà  l'oro  e 
con  quest'oro  se  ne  fanno  di  piccole. 

BERNAL  -  Voi  semplificate  tutto  a  torto  e  a  traverso. 

ALVARO  -  Sono  stato  avvezzato  a  imparare  che  bisogna  volontariamente 
andare  incontro  ad  un  cattivo  affare.  Che  non  bisogna  abbassarsi 
per  raccogliere  un  tesoro  anche  se  è  caduto  dalla  nostra  stessa  mano. 
Che  non  bisogna  mai  stendere  il  braccio  per  prendere  qualche 


430  HENRI  DE  MONTHERLANT 

cosa.  Che  questo,  e  forse  soprattutto  questo,  è  segno  di  nobiltà.  Ho 
il  dolore  di  sentire  che  nel  momento  in  cui  l'aquila  del  Re  Carlo 
non  ha  artigli  se  non  per  cercare  Toro,  magari  nelle  viscere  degli 
uomini,  sono  proprio  gli  Indiani  a  dare  prova  di  questa  alta  e  san- 
ta indifferenza  per  le  cose  del  mondo. 

BERNAL  -  Non  bisogna  cedere  i  propri  beni  con  troppa  facilità;  cosi 
facendo  si  dimostra  lo  stesso  amor  proprio  che  a  difenderli  aspra- 
mente. E  poi,  chi  non  ama  il  denaro  è  disprezzato.  È  cosi. 

ALVARO  -  In  quanto  a  me,  son  quindici  anni  che  Dio  m'ha  concesso 
questa  segnalata  grazia  di  farmi  povero.  Ma  non  mi  basta;  voglio 
essere  ancor  più  povero.  No,  non  mi  strapperete  la  mia  povertà! 
Digià  io  vivo  continuamente  distratto  dall'unica  cosa  che  sia  ne- 
cessaria. E  dovrei  perdere  il  tempo  —  un  tempo  che  potrebbe  es- 
sere impiegato  per  la  cura  della  mia  anima  —  nelle  ripugnanti 
preoccupazioni  di  una  fonuna  da  amministrare!  Non  voglio  che 
mi  si  spogli  della  mia  anima!  Non  voglio  essere  ricco,  lo  capite? 
Non  voglio  essere  ricco.  Ne  proverei  troppa  vergogna. 

BERNAL  -  Ebbene,  crepate  pure  di  fame,  se  vi  fa  piacere.  Ma  Mariana? 

ALVARO  -  Se  Mariana  e  vostro  figlio  nutrono  l'uno  per  l'altro  il  senti- 
mento che  voi  dite,  che  si  sposino  cosi  come  sono.  Saranno  poveri, 
ma  Cristo  laverà  i  loro  piedi. 

BERNAL  -  Saranno  poveri:   la  questione  è  risolta  facilmente! 

ALVARO  -  Voi,  che  mi  rimproverate  di  non  amare  Mariana  come  dovrei, 
voi  vorreste  che  io  le  donassi  la  ricchezza,  questo  peccato! 

BERNAL  -  La  ricchezza  in  sé  non  è  peccato. 

ALVAKo  -  Quando  agisco  e  reagisco  da  cristiano,  dovrei  essere  capito 
da  miliardi  di  uomini.  Ma  proprio  allora  non  sono  capito  da  nes- 
suno. Talvolta  mi  sembra  che  tutto  ciò  che  sento  sia  cosi  lontano 
dalla  comprensione  umana... 

BERNAL  -  Non  potete  esigere  da  tutti  gli  esseri  che  si  appaghino  di 
un  assoluto  che  è  privilegio  di  pochi. 

ALVARO  -  Io  non  tollero  che  la  perfezione. 

BERNAL  -  In  quanto  a  me,  son  stato  ricco  per  tre  anni,  press'a  poco. 
Quando  ho  venduto  le  mie  terre  di  Juncas.  Non  sapete  che  bella 
cosa  sia  aver  molto  denaro;  che  pace,  che  sicurezza,  che  fiducia  in 
se  stessi  può  dare  la  ricchezza!  Come  finalmente  si  può  essere  se 
stessi!  Appoggiati  al  potente  denaro  si  può  in  tutta  tranquillità  es- 
sere versatili,  essere  insolenti,  avere  torto,  che  so  io!  Ma  ciò  per- 
mette anche  la  pazienza,  il  lavoro  ben  fatto,  la  magnanimità,  la 
costanza  nelle  prove  morali,  tutte  le  virtù  dell'anima.  Guardate,  per 
esempio,  quella  carità  che  voi  amate  tanto;  la  carità,  per  essere  at- 


IL  GRAN   MAESTRO  DI   SANTIAGO  431 

tiva,  ha  bisogno  di  esser  ben  nutrita.  Ah!  mio  caro  amico,  come 
aiuta  ad  acquistare  in  altezza  il  fatto  di  essere  milionario! 

ALVARO  -  A  me,  come  a  voi,  quando  mio  padre  mori,  il  notaio  dette 
l'annunzio  che  improvvisamente  ero  diventato  possessore  di  una 
somma  che,  modesta  per  molti  altri,  per  me  invece  era  conside- 
revole. Che  cosa  provai  allora?  Soltanto  tristezza.  Pensai:  «Dire 
che  c*è  gente  che  lavora  dieci  anni  per  guadagnare  quanto  ora  ho 
guadagnato  in  un  minuto  ».  E  cosi  poi,  per  due  anni,  ho  allo 
stesso  modo  ricevuto  somme  non  disprezzabili  ed  ogni  volta  ho 
provato  quello  stesso  disagio,  direi  quasi  sconforto.  Davanti  ai  sac- 
chi di  scudi  mi  chiedevo:  «  Che  farne,  mio  Dio?  ».  Li  ho  regalati 
alle  case  dell'Ordine. 

BERNAL  -  E  non  vi  è  mai  venuto  in  mente  di  impiegarli  per  fare  la  dote 
a  Mariana?  No,  questa  sarebbe  stata  una  reazione  naturale.  A  voi 
invece  era  necessario  il  sovrannaturale,  a  voi  era  necessaria  la  ca- 
rità. Non  dare  alla  propria  figlia,  e  dare  a  dei  poveri  idioti  che 
vi  odiano  proprio  perché  li  avete  beneficati! 

ALVARO  -  La  carità  non  ha  senso  se  non  quando  è  ripagata  con  tale 
odio. 

BERNAL  -  Ah!  voi  mi  date  la  nausea  della  carità. 

ALVARO  -  E  voi  mi  date  la  nausea  dei  sentimenti  che  chiamate  naturali. 
Della  carità  mi  è  tenuto  conto  al  cospetto  di  Dio.  Ma  forse  mi  sarà 
tenuto  conto  se  accumulerò  denaro  per  i  mici  eredi  che  dopo 
tutto  non  hanno  bisogno  di  essere  più  ricchi  di  quanto  lo  sia  sta- 
to io?  Se  fossi  morto  cinquant'anni  fa,  le  mie  ricchezze  sarebbero 
toccate  all'Ordine;  che  tale  allora  era  la  regola.  Non  c'è  che  una 
famìglia,  quella  di  elezione  e  secondo  lo  spirito;  la  famiglia  secondo 
la  carne  è  maledetta.  Noi  dell'Ordine,  noi  si  che  siamo  una  fa- 
miglia... 

BERNAL  -  L'Ordine  non  esiste  piò,  Alvaro,  e  voi  lo  sapete  bene. 

ALVARO  -  Lo  so.  Ma  no:  anche  se  esistesse  in  un  solo  cuore  l'Ordine 
esisterebbe  ancora.  Ed  ecco  che  delle  figlie,  dei  figli,  vengono  come 
intrusi  a  insinuarsi  nella  nostra  congregazione.  A  gran  fatica  sta- 
vamo elevandoci  un  poco;  essi  arrivano,  ci  respingono  giù,  con  ac- 
canimento ci  trattengono  sulla  terra.  Il  tradimento  è  sempre  sotto 
il  nostro  tettOj  e  non  soltanto  in  cucina,  come  si  dice,  (chiamando) 
Mariana! 

BERNAL  -  Ve  ne  prego,  non  fate  scene.  Che  avete  intenzione  di  dirle? 

ALVARO  -  Forse  è  bene  che  sappiate  come  certi  padri  pensano  di  dover 
trattare  i  loro  figli. 

BERNAL  -  Ah!  sono  stanco  di  sentirvi  darci  sempre  delle  lezioni. 


432  HENRI  DE   MONTHERLANT 

ALVARO  -  Nei  racconti  marocchini  c'è  un  personaggio  classico:  il  padre 

che  medita  di  far  uccidere  la  figlia  perché  la  vede  innamorata. 
BERNAL  -  Ma  che  siete,  pazzo?... 


SCENA    SECONDA 

ALVARO,    BERNAL,    MARIANA 

ALVARO  -  Mi  si  dice  che  voi  nutrite  non  so  qual  sentimento  per  il  fi- 
glio di  don  Bernal.  £  ciò  in  una  stanza  della  mia  casa,  a  due  passi 
da  me!  Sappiate  che  ho  orrore  di  queste  cose.  Naturalmente  voi 
credete  di  essere  la  sola  persona  al  mondo  che  ami,  pensate  di  rac- 
chiudere in  voi  l'universo,  eccetera...  E  tuttavia  che  cosa  siete? 
Una  scimm ietta  e  nulla  più.  E  tutto  questo  amore  fra  uomini  e  don- 
ne non  è  che  una  buffonata.  Sappiate  che  siete  sprofondata  in  pieno 
nelle  smorfie,  nel  ridicolo,  nella  stupidaggine. 

BERNAL  -  Alvaro!  non  vi  vergognate!  Voi  non  avete  sempre,  rinnegato 
la  natura...  Non  oltraggiatela  dunque  cosi,  in  quello  che  dovrebbe 
esservi  sacro  sopra  ogni  altra  cosa  al  mondo. 

ALVARO  -  Mariana,  se  sono  stato  brusco  con  voi,  perdonatemi.  Ma  voi 
mi  colpite  nel  punto  più  sensibile.  Mi  sforzo  di  vivere  una  vita 
non  volgare.  E  proprio  voi  mi  portate  alla  rovina!  Voi,  che  do- 
vreste sostenermi,  siete  la  mia  pietra  d'inciampo! 

MARIANA  -  Padre  mio,  io  voglio  solo  ciò  che  voi  volete.  Come  potrei 
condurvi  alla  rovina? 

ALVARO  -  Se  aveste  presentito  una  volta  soltanto  che  cos'è  il  volto  di 
Dio,  per  la  strada  volgereste  la  testa  per  non  vedere  il  volto  di  un 
uomo,  (a  Bernal)  Restate  con  lei,  consolatela,  voi  a  cui  piace  fare  il 
padre  (ma  essere  padre  di  una  ragazza  è  veramente  essere  padre?). 
Quanto  a  me,  ve  lo  ripeto:  non  andrò  nel  Nuovo  Mondo.  Mai!  A 
me  piace  cosi.  E  cosi  piace  a  Dio.  E  perciò  basta  cosi. 

BERNAL  -  Un  giorno,  vi  ricordate?  mi  avete  detto:  «Quando  esitate 
fra  più  strade,  scegliete  sempre  la  più  dolorosa  ». 

ALVARO  -  Che  cosa  diventerei,  Dio  mio,  se  non  soffrissi? 

BERNAL  -  Si,  SI,  ma  in  definitiva  scegliete  sempre  la  via  che  vi  piace. 


IL  GRAN   MAESTRO  DI    SANTIAGO  433 


SCENA   TERZA 

BERNAL,    MARIANA 

BERNAL  -  Non  vi  tormentate,  Mariana  e  ascoltate.  Si  trova  ora  ad  Avi- 
la,  per  qualche  giorno,  una  persona  molto  potente,  il  conte  de  Soria. 
Lo  conoscete  di  nome,  nevvero?  (Mariana  fa  con  la  testa  un  cenno 
di  diniego)  O  figlia  di  vostro  padre,  che  non  sapete  mai  nulla  di 
quel  che  accade!  Il  conte  de  Soria,  nonostante  la  sua  giovane  età,  è 
uno  degli  uomini  più  influenti  a  corte.  Godo  di  un  certo  credito 
presso  di  lui.  Lo  pregherò  di  venire  da  vostro  padre  e  di  dirgli 
che  il  Re  ha  espresso  in  pubblico  il  desiderio  che  don  Alvaro  ac- 
cetti un  incarico  nelle  Indie.  Conosco  vostro  padre:  parla  del  Re 
con  rispettosa  malevolenza,  ma  il  Re  è  il  suo  signore  e  per  nessuna 
ragione  al  mondo  non  gli  presterebbe  obbedienza.  Vostro  padre  pre- 
tende che  alla  sua  età  non  si  hanno  più  progetti  personali,  ma 
alla  sua  età  c'è  qualcosa  che  si  può  ancora  fare:  essere  fedeli.  La 
lealtà  si  farà  sentire  in  lui  e  fors'anche  (perché  no?)  un  pò*  di 
giusto  amor  proprio.  Siete  contenta?  Ma  come?  non  dite  niente? 

MARIANA  -  Il  sangue  è  silenzioso  quando  scorre. 

BERNAL  -  Ed  anche  le  lacrime,  non  e  vero? 

MARIANA  -  Dove  Vedete  le  lacrime? 

BERNAL  .  Li. 

MARIANA  -  Un*altra  piange  in  me. 

BERNAL  -  Siete  una  bambina...  Ah!  perché  non  sono  io  vostro  padre! 

MARIANA  -  Ma  voi  non  lo  siete. 

BERNAL  -  Vi  dispiacerebbe  se  fossi  vostro  padre? 

MARIANA  -  Dio  fa  bene  quel  che  fa. 

BERNAL  -  Voi  non  mi  volete  bene! 

MARIANA  -  Come  potrei  non  voler  bene  a  voi  che  volete  bene  a  Jac... 
(si  arresta  di  botto) 

BERNAL  -  Non  perdonerò  mai  a  don  Alvaro  le  offese  che  fa  alla  virtù 
con  i  suoi  eccessi. 

MARIANA  -  Mio  padre  è  un  uomo  di  una  eccezionale  rettitudine.  È  il 
suo  unico  lusso,  ma  è  un  lusso  che  si  paga  caro. 

BERNAL  -  Vostro  padre  è  un  santo,  o  poco  ci  manca.  Tuttavia  co- 
mincio a  capire  che  i  santi  dovevano  essere  un  po'  fastidiosi  per 
quelli  che  vivevano  loro  vicino. 

MARIANA  -  Non  mi  infastidisce  affatto. 


28.  •  Teatro  francese 


434  HENRI  DE  MONTHERLANT 

BERNAL  -  Voi  lo  difendete  per  principio. 

MARIANA  -  È  una  cosa  che  vuol  dir  molto,  sentire  della  stima  per  qual- 
cuno. 

BERNAL  .  I  signori  dell'Ordine  la  pensano  come  me. 

MARIANA  -  Lo  spettacolo  della  rettitudine  disorienta  la  gente,  non  s'im- 
pone alla  sua  ammirazione.  £  basta  un  nulla  perché  questo  fa- 
stidio si  trasformi  in  una  specie  di  orrore. 

BERNAL  -  Siete  davvero  filosofa,  per  i  vostri  diciotto  anni. 

MARIANA  -  Sono  solapiente  seria. 

BERNAL  -  Forse  è  in  don  Alvaro  una  certa  tendenza  alla  contraddi- 
zione. Se  la  società  nella  quale  viviamo  fosse  austera,  forse  si  at- 
teggerebbe a  spregiudicato. 

MARIANA  -  Lo  conoscete  da  non  so  quanti  anni,  e  potete  credere  que- 
sto! Che  cos'è  dunque  l'amicizia,  se  può  sbagliare  a  tal  punto?  E 
come  ho  avuto  ragione  a  non  volere  amiche.  Non  c'è  nessuna  affet- 
tazione in  mio  padre.  Egli  cammina  dritto  davanti  a  sé.  La  sal- 
vezza della  sua  anima,  e  l'Ordine;  questa  è  la  sua  strada:  a  destra 
o  a  sinistra  non  vi  è  più  nulla.  La  sua  schiacciante  indifferenza 
per  tutto  quello  che  non  porti  il  marchio  del  sublime...  Unum, 
Domine,  «  O  mio  Dio!  una  sola  cosa  è  necessaria  »:  sapeva  quel 
che  faceva  il  mio  bisavolo  quando  sostituì  questa  divisa  a  quella 
più  antica  della  nostra  famiglia. 

BERNAL  -  E  COSI  voi,  sua  figlia,  voi  siete  «  a  destra  o  a  sinistra  ».  Egli 
vi  tiene  lontana  dalla  sua  vita. 

MARIANA  -  Non  sarebbe  cosa  normale,  invece,  che  un  uomo  della  sua 
età  e  con  le  sue  preoccupazioni,  potesse  compiacersi  della  compagnia 
di  una  piccola  donna  come  me. 

BERNAL  -  Si,  sempre  lo  «  sguardo  intcriore  »...  Quello  sguardo  inte- 
riore con  il  quale  guarda  non  tanto  Dio  quanto  se  stesso. 

MARIANA  -  A  tutto  qucllo  chc  si  fa  contro  di  lui,  egli  contribuisce.  E 
voi  pretendete  che  sia  egoista! 

BERNAL  -  Agisce  contro  se  stesso  perché  vi  prova  piacere. 

MARIANA  -  Se  non  vi  conoscessi  vi  prenderei  per  un  malvagio,  poiché 
lo  diminuite  cosf. 

BERNAL  -  Non  sono  un  malvagio,  sono  un  uomo  che  vuol  vedervi 
felice. 

MARIANA  -  Non  cerco  di  essere  felice. 

BERNAL  -  Non  volete  sposare  JacintoP 

MARIANA  -  Si,  ma  non  per  essere  felice. 

BERNAL  -  E  perché  mai,  allora? 

MARIANA  -  E  lui,  pensate  che  lui  sarà  felice  con  me? 


IL  GRAN   MAESTRO  DI   SANTIAGO  435 

BERNAL   -   Ne    sono   SÌCUfO. 

MARIANA  -  Credete  che  potrei  essergli  utile  nelle  cose  importanti  e 
gravi?  Io  non  vorrei  una  vita  facile.  Vorrei  una  vita  per  la  quale 
si  dovesse  aver  bisogno  di  coraggio. 

BERNAL  -  Si  ha  sempre  bisogno  di  coraggio. 

MARIANA  -  Ma  credete  ch'egli  distingua  chiaramente  quello  che  è  im- 
portante e  quel  che  non  lo  è?  Perché  questo  è  l'essenziale:  non 
dare  che  al  primo  e  attenervisi  duramente. 

BERNAL  -  Glielo  insegnerete  voi,  se  io  non  Tho  saputo  fare. 

MARIANA  -  Voglio  entrare  nel  matrimonio  e  chiudere  la  porta  come  si 
fa  quando  si  è  entrati  in  un  oratorio,  e  non  guardare  più  dietro  a 
me,  mai  più.  Egli  sarà  il  solo  per  me  ed  io  la  sola  per  lui.  Per- 
duta in  lui  solo  per  sempre. 

BERNAL  -  Ci  saranno  poi  anche  i  bambini... 

MARIANA  -  Credo  che  anch'essi  mi  distrarrebbero  da  mio  marito. 

BERNAL  -  A  voi  la  ricchezza  non  fa  paura? 

MARIANA  -  L'accoglierò  come  una  prova  e  mi  sforzerò  di  superarla. 

BERNAL  -  Cara  Mariana,  siete  come  vostro  padre,  ma  più  saggia.  E 
qualche  volta  perfino  nel  modo  di  esprimervi.  La  vostra  frase:  «  Dei 
figli  mi  distrarranno  da  mio  marito»  mi  ricorda  una  frase  di  don 
Alvaro.  Egli  mi  diceva  poco  fa,  di  sentire  il  bisogno  di  una  solitu- 
dine tale  che  perfino  l'amicizia  non  farebbe  che  turbarla.  S(,  gli  as- 
somigliate straordinariamente... 

MARIANA  -  Mi  disprezzo  troppo  perché  quel  che  io  sono  possa  assomi- 
gliare a  mio  padre. 

BERNAL  -  Vi  disprezzate,  eppure  siete  fiera  come  un  aspide.  «  Come  un 
aspide  ».  L'espressione  è  di  Jacinto. 

MARIANA  -  Don  Jacinto  è  molto  ardito  a  descrivermi,  lui  che  non  mi 
conosce. 

BERNAL  -  E  voi  siete  molto  cerimoniosa  a  chiamarlo  don  Jacinto  davanti 
a  me. 

MARIANA  -  Non  chiamerò  certo  con  il  solo  nome  un  uomo  che  non  è 
niente  per  me. 

BERNAL  -  Suvvia,  Mariana,  ponete  fine  a  questa  finzione  della  fred- 
dezza. Devo  proprio  farvi  sapere  che  due  settimane  fa  Jacinto  mi 

'  scriveva:  «  Nella  mia  casa  la  sua  dolcezza  sarà  come  il  gocciare  del- 
l'acqua? ».  Che  tre  giorni  fa  mi  scriveva:  «  Il  mio  amore  per  lei  l'al- 
tra notte  mi  ha  svegliato.  Sentivo  quella  voce  stellata  e  lontana...  ». 

MARIANA  -  Quella  voce  stellata  e  lontana...  È  la  mia  voce? 

BERNAL  -  È  la  vostra  voce.  Vi  devo  proprio  fare  sapere  che  due  setti- 
mane fa  mi  scriveva:  «Soffoco  di  lei»?  Che  tre  giorni  fa  mi  seri- 


436  HENRI  DE  MONTHERLANT 

veva:  «La  scriminatura  che  divide  i  suoi  capelli  è  come  il  cam- 
mino che  voi  tracciate  nella  neve,  andando  verso  la  sua  casa»? 

MARIANA  -  Davvero  vi  ha  detto  tutto  questo?  Ma  no,  lo  inventate  per 
farmi  piacere! 

BERNAL  -  Per  Dio!  non  invento  una  sola  parola. 

MARIANA  -  Allora  dite  a  quel  signore  della  corte  —  quello  che  verrà 
da  noi  —  che  perderà  il  tempo  se,  per  convincere  mio  padre,  in- 
sisterà su  ragioni  di  gloria;  e  che  mio  padre  lo  metterà  alla  porta 
se  parlerà  di  guadagni.  Ditegli  che  deve  far  presente  a  mio  padre 
come  il  Re  voglia  inviare  nelle  Indie  degli  Spagnoli  per  bene,  per 
il  prestigio  morale  della  Spagna.  Ditegli  che  deve  parlargli  dell'Or- 
dine, dire  che  gli  Indiani  devono  sapere  che  cos'è  un  vero  cava- 
liere di  Santiago.  Ditegli...  ditegli  infìne  che  il  Re  comanda...  Gli 
direte  tutto  questo,  don  Bernal,  non  è  vero?  E  poi,  non  deve  fare 
a  mio  padre  i  frusti  complimenti  che  gli  fanno  sempre;  suggeri- 
tegli voi  qualcosa  di  delicato...  saprete  ben  trovarlo...  Io,  mentre 
quel  signore  sarà  da  lui,  pregherò  in  ginocchio  davanti  al  crocifisso 
perché  mio  padre  si  lasci  convincere. 

BERNAL  -  Pregherete  il  Salvatore.  Ma  se  pregaste  anche  vostro  padre? 
Dopo  tutto,  non  dovete  anche  voi  dire  la  vostra  parola  in  questo 
affare? 

MARIANA  -  Io,  pregare  mio  padre!  Oh!  questo  mai! 

BERNAL  -  Se  questo  matrimonio  dipendesse  da  una  parola  vostra  a  vo- 
stro padre,  non  la  direste,  quella  parola? 

MARIANA  -  No,  mai. 

BERNAL  -  Sempre  il  mai  dei  Dabo.  Ah!  come  sono  stancanti  le  persone 
esagerate! 

MARIANA  -  Vogliate  scusarci:  noi  abbiamo  il  cuore  tutto  d'un  pezzo. 
{attraverso  la  finestra  un  pallido  raggio  di  sole  —  grigio  perla, 
del  grigio  perla  del  cielo  di  Avila  —  filtra  nella  stanza)  Mio  Dio, 
un  raggio  di  sole!  Il  primo  dopo  due  mesi! 

BERNAL  -  Mariana!  ed  ecco  che,  per  questo  raggio  di  sole,  l'acqua  del 
cuore  vi  viene  ancora  una  volta  negli  occhi. 

MARIANA  -  È  il  fumo  del  braciere. 

BERNAL  -  No,  mia  piccola  perla,  non  m'ingannerete. 

MARIANA  -  Il  primo  sole  dell'inverno...  Esisteva  dunque  ancora  il  sole? 
Presto  la  neve  si  scioglierà,  presto  sarà  primavera. 

BERNAL  -  Ahimé,  non  siamo  che  al  principio  dell'inverno. 

MARIANA  -  La  primavera  è  vicina!  Domani  sarà  primavera! 

BERNAL  -  E  proprio  voi  dicevate  che  non  volete  essere  felice! 

MARIANA  -  No,  don  Bernal,  non  voglio  essere  felice. 


IL  GRAN   MAESTRO  DI   SANTIAGO  437 


ATTO  TERZO 


La  stessa  scena. 
Fuori,  la  neve  cade  ininterrottamente. 


SCENA   PRIMA 


ALVARO,    MARIANA 


MARIANA  {leggendo)  -  Quando  Diego  Monzon  si  trovò  prigioniero  nel- 
la sua  cella,  dopo  la  fallita  evasione, 

prigioniero  di  nuovo,  e  ferito,  piombò  nella  disperazione,  una 
disperazione  senza  luce  e  senza  fondo. 

Ma  improvvisamente  capi  che  Dio  stesso  gli  imponeva  questa 
prova,  come  un  segno  della  sua  predilezione. 

Allora  baciò  le  catene  che  avvincevano  le  sue  mani  e  /ad- 
dormentò pacificato, 

ALVARO  -  Basta  per  oggi  con  le  nostre  antiche  romanze;  se  continuaste, 
temerei  di  commuovermi.  So  perché  la  guerra  contro  gli  infedeli 
è  stata  chiamata  guerra  santa:  perché  gli  Spagnoli  che  la  facevano 
erano  santi.  Allora  c*era  un  esercito  di  uomini  puri;  quando  ci 
penso  mi  vengono  le  lacrime  agli  occhi.  Tutto  è  torbido,  invece, 
nell'esercito  di  oggi.  Oggi,  se  incontro  un  militare,  mi  vien  vo- 
glia di  alzare  le  spalle.  £  dopo  trent'anni  che  si  sta  combattendo, 
non  è  stata  ancora  composta  una  romanza  sulla  guerra  nel  Nuovo 
Mondo.  {Mariana  raccoglie  in  una  paletta  le  braci  non  consumate 
che  si  sono  sparse  sul  pavimento)  Queste  braci  vi  danno  fastidio? 
MARIANA  -  Trovate  che  sia  una  bella  cosa  tutta  questa  brace  sparsa  nella 

stanza,  quando  vi  apprestate  a  ricevere  un  ospite  di  riguardo? 
ALVARO  -  Lasciate  stare,  vi  prego.  Che  cosa  penserebbero  Tia  Campanita 
e  Isidro?  Che  mi  do  da  fare  per  il  conte  de  Soria,  un  farfallino 
di  Carlo  di  Gand?  Che  mi  lascio  impressionare  da  fantocci  di  tal 
fatta?  Andate,  andate,  so  bene  come  ci  si  innalza  nel  mondo:  cal- 
pestando ad  ogni  passo  qualche  cosa  di  sacro. 
MARIANA  -  Dovrà  pur  esserci,  a  Corte,  un  uomo  integro,  almeno  uno. 
ALVARO  -  No,  nemmeno  uno.  E  il  conte  de  Soria  non  esisterebbe  per 
me  se  non  pensassi  che  può  portarmi  qualche  notizia  concernente 
rOrdine.  Tre  mesi  fa  abbiamo  chiesto  al  Re  che  cercasse  di  otte- 


438  HENRI  DE  MONTHERLANT 

nere  dal  Papa  uno  dei  privilegi  che  i  Templari  ebbero  nel  passato: 
che,  cioè,  i  cimiteri  del  nostro  Ordine  potessero  accogliere  i  corpi 
degli  scomunicati.  È  un  mio  vivo,  un  mio  appassionato  desiderio... 
oh!  se  voi  sapeste...  Non  so  immaginare  per  quale  ragione  uno  della 
Corte  dovrebbe  venire  a  trovarmi  se  non  mi  portasse  la  risposta  a 
tale  richiesta.  £,  sapete,  Mariana?  ho  il  presentimento  che  la  rispo- 
sta sarà  favorevole...  Metterete  il  libro  delle  romanze  nella  mia  ca- 
mera, e  rinnoverete  la  provvista  di  candele.  Ieri  sera  leggevo  il 
Parsifal  di  Wolfram  d'Eschenbach;  è  il  Cantico  dei  Cantici  della 
cavalleria,  e  ho  dovuto  interrompere  la  lettura  perche  mi  mancava 
la  candela.  Comprerete  anche  del  sapone;  non  ne  ho  più.  £  ram- 
menderete, per  piacere,  uno  dei  lenzuoli  del  mio  letto,  che  si  è 
strappato. 

MARIANA  -  Se  lo  rammendo,  si  strapperà  ai  lati.  È  tutto  consumato. 

ALVARO  -  È  consumato  dove  ci  sono  dei  buchi.  Ma  ai  lati  è  ancora  buo- 
nissimo. 

MARIANA  -  Non  volete  che  ve  ne  comperi  un  altro  paio? 

ALVARO  -  È  una  spesa  del  tutto  inutile;  dite  piuttosto  che  vi  secca 
rammendare,  (con  impazienza)  E  del  resto,  fate  come  vi  pare.  Io 
non  domando  che  una  sola  cosa,  di  non  essere  importunato  con  tutte 
queste  storie  di  lenzuola,  [mentre  si  avvia  airuscita,  si  ferma  da- 
vanti a  Mariana  e  le  spolvera  leggermente  il  colletto)  Avete  dei  ca- 
pelli sul  colletto  della  vostra  giacca.  Davvero,  credo  che  state  diven- 
tando trascurata. 


SCENA   SECONDA 

MARIANA,    sola 

0  mio  bene!  O  caro  fra  tutti  gli  uomini!  voi  per  cui  ho  conservato 
un  po'  della  mia  infanzia  e  preparato  qualcosa  in  fondo  al  mio 
cuore  da  quando  son  nata,  apritemi  le  braccia,  accoglietemi  nella 
mia  pena,  e  che  questa  pena  sia  l'ultima  nata  da  me  sola:  che 
ben  presto  non  abbia  altre  pene  che  le  vostre...  Ma  come!  un  estra- 
neo è  il  mio  rifugio,  un  estraneo  che  non  mi  ha  mai  vista  spetti- 
nata e  che  non  conosce  nemmeno  la  mia  camera!  Ed  e  contro  mio 
padre  che  cerco  rifugio...  Contro  mio  padre!  Egli  mi  ha  creata,  io 

1  amo  e  proprio  lui  io  fuggo!  (si  picchia  dia  porta  d'entrata.  Rumori 
di  voci  air  esterno  della  stanza)  Il  conte!  Mio  Dio!  poiché  è  uno 


IL  GRAN  MAESTRO  DI   SANTIAGO  439 

sconosciuto  quello  che  deve  trovare  le  ragioni  e  Taccento  da  cui 
dipende  la  mia  vita,  ispirategli  queste  ragioni  è  quest'accento.  È 
necessario  ed  io  lo  voglio:  scendete  sulle  cose  che  mio  padre  guarda 
e  illuminatele  di  quella  luce  in  cui  egli  non  le  ha  mai  viste.  Cosi 
agisce  la  vostra  Grazia;  i  libri  lo  dicono  chiaramente:  basta  un  nul- 
la, un  nulla  impercettibile  e  tutto  è  mutato... 


SCENA   TERZA 

ALVARO,  IL  CONTE  D£  SORIA 

ALVARO  -  Voi  portate,  Signore^  un'aria  davvero  nuova  in  una  casa 
dove  si  vive  incredibilmente  appartati. 

SORIA  -  Porto  soprattutto  della  neve  sui  miei  stivali.  Per  Dio!  che  inver- 
no! Son  dovuto  andare  fino  a  Torral.  La  campagna  non  è  che  un 
deserto  di  neve  che  per  poco  non  ha  fatto  affondare  i  cavalli.  La 
neve  spezza  con  il  suo  peso  i  rami  degli  alberi  e  si  vedono  cadaveri 
di  lupi  stretti  nella  morsa  delle  acque  ghiacciate,  come  grosse  radici 
dissotterrate. 

ALVARO  -  Avila  stessa,  tutta  coperta  di  neve,  è  più  che  mai  la  città  del 
raccoglimento.  È  la  migliore  culla  per  le  grandi  cose.  La  folgore 
non  sa  che  distruggere.  Ma  la  germinazione  avviene  in  un  profondo 
silenzio,  nascosta,  da  tutti  insospettata. 

SORIA  -  Senza  dubbio.  Ma  può  anche  darsi  che  il  raccoglimento  sia  pure 
azione,  come  lo  è  per  voi.  So  che  vi  occupate  con  gran  zelo  degli 
ospizi  di  Santiago.  Avete  cambiato  la  spada  con  il  velo  della  Ve- 
ronica. 

ALVARO  -  Siete  ancora  troppo  giovane,  signore,  per  poterlo  capire: 
ma  viene  un'età  in  cui  pare  che  gli  uomini  non  esistano  se  non  per 
essere  oggetto  della  carità.  Se  non  ci  fosse  la  carità,  li  dimentiche- 
rei volentieri,  cosi  come  desidero  di  essere  dimenticato  da  essi. 

SORIA  -  Ma  essi  non  vi  dimenticano. 

ALVARO  -  È  un  onore  essere  dimenticati  in  un'epoca  come  la  nostra: 
il  perfetto  disprezzo  desidera  di  essere  disprezzato  da  chi  disprezza 
per  trovare  in  ciò  la  sua  giustificazione.  Possa  il  mio  nome  essere 
come  una  di  quelle  grandi  nuvole  che  breve  tempo  basta  a  can- 
cellare. 

SORIA  -  Sfortunatamente,  non  è  cosi.  Il  ricordo  delle  vostre  gesta  è  sem- 
pre vivo. 


440  HENRI  DE  MONTHERLANT 

ALVARO  -  Mi  meraviglio  che  sia  sempre  vivo  per  gli  altri,  quando  per 
me  e  morto. 

soRiA  -  Il  rumore  che  fa  il  vostro  silenzio... 

ALVARO  {in  tono  secco)  -  Ah!  vi  prego... 

soRiA  -  Cosi,  non  un'ambizione?  non  un  desiderio? 

ALVARO  -  Che  volete  mai  si  desideri,  quando  tutto  e  disonorato? 

soRiA  (sogghignando)  -  Tutto  è  disonorato!...  È  mai  possibile!  Deve 
esser  ben  triste  non  desiderare  niente...  Comunque  sia,  se  voi  non 
avete  ambizioni,  gli  altri  ne  hanno  per  voi.  È  tempo  ormai  che 
conosciate  lo  scopo  della  mia  visita.  Siete  a  conoscenza  della  spe- 
dizione che  sta  preparando  Alesio  Fuenleal... 

ALVARO  -  Ah,  signore,  non  andate  oltre.  Certo,  non  è  quel  che  mi 
aspettavo...  Mi  date  una  grande  delusione...  Se  avete  una  qualche 
intenzione  di  trascinarmi  in  quest'affare,  lasciamo  subito  cadere 
la  cosa.  Mi  hanno  già  tormentato,  con  questa  storia,  a  lungo  e  con 
tenacia.  Ci  perdereste  la  fatica. 

SCRIA  -  Ascoltatemi  un  po'.  Sua  Maestà,  nella  sua  grande  saggezza, 
ha  capito  che  l'evangelizzazione  degli  Indiani,  fatta  per  lo  più  da 
avventurieri,  era  impossibile.  Perciò  desidera  che  da  ora  in  poi  ven- 
gano mandati  nelle  Indie  degli  uomini  equilibrati  e  retti,  la  cui  per- 
sona rappresenti  una  garanzia  per  gli  Indiani  ed  un  esempio  per 
gli  Spagnoli.  Posso  ben  dirvelo:  ben  presto  molti  uomini  ragguar- 
devoli saranno  mandati  insieme  nelle  Indie. 

ALVARO  -  Si  lasceranno  corrompere  dalla  funesta  atmosfera  di  laggiù. 
Ne  abbiamo  già  avuti  infiniti  esempi.  No,  signore,  sono  irriducibile. 

soRiA  -  Potete  dare  un  rifiuto  a  me.  Potrete  darlo  al  Re? 

ALVARO  -  Al  Re? 

soRiA  -  Sua  Maestà  ha  fatto  parecchi  nomi.  Ed  ha  fatto  il  vostro. 

ALVARO  -  Qualcuno  gliel'avrà  suggerito. 

soRiA  -  Nessuno  gliel'ha  suggerito.  Io  ero  presente. 

ALVARO  -  E  che?  il  Re  non  mi  conosce  solo  come  il  vecchio  pazzo  che 
lo  assilla  con  richieste  e  memoriali  su  Santiago? 

soRiA  -  Le  lusinghiere  parole  con  cui  ha  accompagnato  il  vostro  nome 
mostrano  in  quale  stima  egli  vi  tenga. 

ALVARO  (jra  sé)  -  Lusinghe  del  mondo,  che  cosa  volete  da  me? 

soRiA  -  Ed  ora,  signore,  non  ho  bisogno  di  insegnarvi  che  cos'è  un 
desiderio  del  Re. 

ALVARO  -  Tutto  quel  ch'io  sono  si  oppone  a  una  tale  decisione. 

soRiA  -  Si  può  essere  infedeli  a  se  stessi  quando  si  tratta  di  essere 
fedeli  al  Re. 

ALVARO  -  Non  ho  le  doti  necessarie  per  riuscire  nel  Nuovo  Mondo, 


IL  GRAN   MAESTRO   DI   SANTIAGO  441 

soRiA  -  Non  vi  si  domanderà  che  la  vostra  presenza  e  il  benefico  influs- 
so che  da  lei  promana. 

ALVARO  -  Voi  dite,  signore,  che  Sua  Maestà  ha  detto  alcune  parole  sul 
mio  conto.  Vi  ricordate  con  precisione  quali  furono? 

soRiA  -  Ebbene...  Esattamente...  Ah!  sì,  ha  detto  «che  le  nobili  anime 
sono  pronte  alle  imprese  disperate  e  che  proprio  per  questo,  for- 
se... ». 

ALVARO  -  Proprio  per  questo...  che  cosa?  Che  io  devo  andare  nelle 
Indie? 

SOR! A  -  Chi  sa? 

ALVARO  -  Ecco  delle  parole  davvero  profonde  —  sconvolgenti  —  per 
un  uomo  cosi  giovane.  Che  il  Re  sappia  che  le  Indie  sono  una 
tragedia  senza  via  d'uscita...  e  che  abbia  pensato  a  me  proprio  per 
questo...  Davvero,  ciò  mi  tocca  vivamente. 

soRiA  -  Allora,  signore,  la  vostra  risposta? 

ALVARO  -  Vorrei  pensarci  ancora. 

SORTA  -  Bisogna  pensarci  ancora  quando  il  Re  ha  parlato?  E,  del  resto, 
io  parto  domani  per  Valladolid. 

ALVARO  -  Ah!  partite  domani... 


SCENA    QUARTA 

ALVARO,  SORIA,  MARIANA 

MARIANA  (entrando  impetuosamente)  -  Padre  mio,  è  tempo  che  vi  di- 
singanni. Tutto  ciò  è  una  orrenda  commedia.  Don  Bernal  ha 
suggerito  al  conte  di  dirvi  che  il  Re  aveva  parlato  di  voi.  Il  Re 
non  ci  ha  mai  pensato. 

soRiA  -  Eh!  Madamigella,  non  eravate  d'accordo  con  don  Bernal?  Non 
gli  avete  detto  proprio  voi  che... 

MARIANA  -  Ero  sconvolta.  Parlavo  così  come  si  cammina  nella  nebbia. 
La  mia  voce  era  così  debole  che  non  ha  dovuto  capirmi.  E  del 
resto,  no!  confesso.  Ho  preso  parte  anch'io  a  quest'inganno. 

soRiA  -  È  ben  strana,  signore,  la  piega  che  prende  quest'affare  in  cui 
sono  stato  immischiato.  È  vero,  mi  sono  prestato  a  recitare  questa 
commedia  per  richiesta  di  don  Bernal.  Ma  se  è  vero  che  il  Re  non 
ha  fatto  il  vostro  nome,  è  pur  vero  che  io  mi  lusingo  di  godere 
di  una  qualche  influenza  a  corte,  e  mi  faccio  forte,  se  voi  desi- 
derate... 


442  HENRI  DE  MONTHERLANT 

ALVARO  -  Volete  anche  insultarmi,  dopo  esservi  fatto  giuoco  di  me? 

soRiA  -  Vedo  che  fare  un  piacere  è  più  pericoloso  che  buttarsi  fuori  da 
una  trincea! 

ALVARO  -  Non  ho  niente  da  domandarvi  e  niente  da  offrirvi;  è  una 
cattiva  condizione,  questa,  perché  possiamo  interessarci  Tuno  al- 
l'altro. Credo»  conte  de  Sona,  che  il  nostro  colloquio  sia  termi- 
nato. 

soRiA  -  Non  senza  un'ultima  parola  da  parte  mia.  Mi  avete  rimpro- 
verato di  essere  alquanto  giovane.  Vi  dirò  questo:  i  giovani  hanno 
delle  maniere  brusche,  ma  hanno  spesso  il  cuore  modesto,  mentre 
i  vecchi  spesso,  sotto  sante  apparenze,  hanno  il  cuore  duro  ed  orgo- 
glioso. 

ALVARO  -  Può  dipendere  anche  dal  distacco  che,  procedendo  a  testa 
alta,  prende  l'apparenza  dell'orgoglio,  mentre  la  vile  concupiscenza 
si  china  verso  la  terra.  Andate,  signore;  il  vostro  universo  non  è 
il  nostro.  Turbato  come  sono,  permettete  che  non  vi  accompagni. 


SCENA   QUINTA 

ALVARO,   MARIANA 

ALVARO  -  Perché?  Perché? 

MARIANA  -  Ero  nella  mia  camera,  ai  piedi  della  croce  a  pregare  perché 
quell'uomo  vi  convincesse.  E  improvvisamente  ha  visto  voi,  al 
posto  di  Gesù  Crocifìsso,  con  la  testa  piegata  sulla  spalla,  come  vi 
avevo  visto  una  sera,  addormentato  nella  vostra  poltrona,  accanto 
alle  fascine  spente.  E  ho  sentito  che  vi  si  oltraggiava,  come  si  ol- 
traggiò Gesù  Crocifisso,  e  che  dovevo  subito  accorrere .  in  vostro 
aiuto.  Spezzata  sia  la  mia  vita  e  tutta  la  mia  attesa,  piuttosto  che 
vedervi  dileggiato  sotto  i  miei  occhi,  e  dileggiato  per  colpa  mia, 
caduto  in  un'insidia  che  io  ho  contributo  a  tendervi. 

ALVARO  (mettendo  un  ginocchio  a  terra  davanti  a  sua  figlia,  le  prende 
le  mani  e  vi  appoggia  la  fronte)  -  Perdonami,  Mariana!  perdonami! 
Ho  peccato  contro  di  te  tante  volte  nella  mia  vita.  Come,  adesso, 
tutto  mi  appare  chiaramente!  Oggi  tu  sei  nata  perché  oggi  vedo 
che  sei  degna  di  essere  amata.  Ma  tu,  tu,  dunque,  mi  amavi?  Tu 
mi  amavi,  che  strana  cosa!  Perché  mi  amavi? 

MARIANA  -  E  voi,  voi  che  io  contribuivo  a  ingannare,  voi  domandate 


IL  GRAN   MAESTRO  DI    SANTIACX)  443 

perdono  a  me?  Alzatevi,  ve  ne  scongiuro.  Mi  sento  diventar  pazza 
quando  vi  vedo  in  ginocchio  davanti  a  me. 

ALVARO  -  La  tua  vita  seguiva  il  suo  corso,  accanto  alla  mia,  nelle  te- 
nebre; non  sentivo  nemmeno  il  suo  fluire.  E  poi,  d*un  tratto,  le 
nostre  acque  si  sono  unite  e  noi  scorriamo  verso  lo  stesso  mare.  Ma- 
riana! dimmi  che  non  è  troppo  tardi! 

MARIANA  -  Padre  mio  per  il  sangue  e  per  lo  Spirito  Santo... 

ALVARO  -  Mi  hai  trattenuto  sull'orlo  dell'abisso.  Quando  la  parte  mi- 
gliore di  me  stava  per  cedere,  tu,  tu  sei  stata  la  mia  parte  mi- 
gliore. Io  ti  ho  dato  la  vita:  tu  mi  hai  reso  la  mia. 

MARIANA  -  Non  avrei  potuto  sopportare  di  vedere  che  smettevate  d'es- 
sere quel  che  siete.  Mi  avete  rimproverato,  l'altro  giorno,  di  per- 
dervi. Ho  voluto  salvarvi. 

ALVARO  -  Ahimé,  il  Re...  quelle  parole...  devo  confessare  che  per  un  at- 
timo ne  ho  avuto  il  cuore  intenerito.  I-.odc  a  Dio  che  mi  ha  per- 
messo di  scoprirmi  miserabile  e  ridicolo  e  di  mostrarnii  tale  alla 
persona  che  meno  di  tutte  le  altre  al  mondo  doveva  vedermi  così: 
tu,  tu  mi  hai  visto  fallire!  Ma  questa  profonda  caduta  mi  spinge  di 
nuovo  verso  l'alto.  Ormai  sto  raggiungendo  il  mio  scopo:  di  non 
partecipare  più  alle  cose  della  terra.  Rientriamo  nella  realtà!  Oh! 
come  e  da  sempre  vi  aspiro!  Come  facevo  forza  sulle  mie  àncore  per 
salpare  verso  l'alto  mare!  Appena  avrò  sistemato  i  miei  affari  mi 
chiuderò  per  sempre  nel  convento  di  San  Barnaba.  Tu,  figlia 
mia,  andrai  a  vivere  presso  tua  zia.  A  meno  che...  A  meno  che... 
Perché  no?  Lascia  che  ti  trascini  in  quel  Dio  che  mi  trascina.  Slan- 
ciati verso  il  sole  seppellendoti  nella  mia  tomba.  Prima  sopportavo 
che  tu  agissi  un  po'  a  tua  guisa.  Ora  come  potrei  volere  per  te 
altra  cosa  che  non  fosse  la  verità?  Avvicinati  a  me  ancor  più,  di- 
venta me  stesso!  A  San  Barnaba  c'è  un  Carmelo  per  le  donne. 
Vedrai  che  cosa  sia,  non  esser  niente. 

MARIANA  -  Essere  quanto  poco  si  possa,  per  potere,  in  aiuto  a  chi  si 
ama... 

ALVARO  -  Noi  non  esisteremo  e  saremo  più  potenti  di  tutto  ciò  che 
esiste. 

MARIANA  -  O  mio  Dio,  quand'ero  nelle  braccia  della  tenerezza  umana! 

ALVARO  -  Sopita  in  Gesù  Cristo,  sopita,  sepolta  nel  profondo  abisso  della 
Divinità. 

MARIANA  -  «  Padre  mio,  rimetto  la  mia  anima  nelle  vostre  mani  ». 

ALVARO  -  Devo  crederti?  Si  può  credere  alla  propria  gioia? 

MARIANA  -  Un  nulla,  un  nulla  impercettibile  e  tutto  è  mutato... 

ALVARO  -  Ciò  che  si  è  mosso  si  muoverà  ancora. 


444  HENRI  DE  MONTHEULANT 

MARIANA  -  Improvvisamente,  e  stabilito  per  sempre. 

ALVARO  -  Questa  notte,  alle  tre,  in  tutti  i  conventi  della  Spagna  migliaia 
di  uomini  e  di  donne  si  alzeranno  a  pregare.  Allora  tu  ti  alzerai 
e  verrai  a  trovarmi.  E  mi  dirai  per  la  seconda  volta  se  hai  ri- 
nunciato. 

MARIANA  -  Si,  padre  mio. 

ALVARO  -  Perché  tu  ti  sacrifichi,  non  è  vero?  La  generosità  e  sempre 
il  sacrifìcio  di  sé,  ne  è  l'essenza.  Tu  ti  sacrifichi,  Mariana? 

MARIANA  -  Si,  padre  mio. 

ALVARO  -  E  tuttavia  niente  lacrime?  Lotta,  soffri  ancor  più.  Dove 
non  c'è  combattimento  non  c'è  redenzione. 

MARIANA  -  Se  è  necessario,  piangerò  più  tardi.  Poi  bacerò  le  mie  catene, 
come  Diego  Monzon,  e  mi  addormenterò  pacificata. 

ALVARO  -  E  quella  piccola  creatura,  quel  figlio  di  don  Bernal?... 

MARIANA  -  Grazie  a  lui,  conosco  la  piena  misura  del  sacrificio.  Come 
potrei  non  amarlo  per  sempre? 

ALVARO  -  Che  tu  abbia  amato,  ti  sembrerà  un  giorno  cosa  incompren- 
sibile. Va',  non  avrai  conosciuto  l'infezione  dell'amore  del  ma- 
schio. Al  nostro  sangue  non  verrà  a  mischiarsi  nessun  altro  san- 
gue. Non  ci  sarà  un  uomo  che  ti  volterà  e  rivolterà  fra  le  sue  brac- 
cia. E  nessun  figlio  per  insozzarmi,  nessuno  per  tradirmi:  con 
te  mi  spengo  in  tutta  la  mia  purezza.  Gli  ultimi!  Noi  saremo  gli 
ultimi!  Quale  forza  in  questa  parola  ultimi  che  si  apre  sulla  subli- 
mità del  nulla! 

MARIANA  -  Vorrei... 

ALVARO  -  Dio  non  vuole  né  cerca:  è  la  calma  eterna.  Solo  non  volendo 
nulla  sarai  lo  specchio  che  riflette  Dio.  I  fiocchi  di  neve  cadono  come 
le  lingue  di  fiamma  sugli  apostoli.  Lo  sai?  nella  Pentecoste  soprat- 
tutto venivano  armati  i  cavalieri,  {stacca  dal  muro  il  grande  man- 
tello bianco  dell'ordine  e,  tenendo  la  mano  sulla  spalla  di  Mariana, 
si  avvolge  con  la  figlia  nel  mantello  che  ricade  fino  in  loro  piedi) 
Con  la  mia  mano  sulla  tua  spalla,  ti  conferisco  la  cavallerìa.  Ed 
ora  partiamo  col  volo  delle  aquile,  mio  piccolo  cavaliere!  Dobbia- 
mo compiere  un  viaggio  tale  che  quello  delle  Indie,  al  confronto, 
appare  cosi  sordido  e  grottesco! 

MARIANA  -  Partiamo  per  morire,  sentimenti  e  amore.  Partiamo  per 
morire. 

ALVARO  -  Partiamo  per  vivere.  Partiamo  per  essere  morti,  e  i  vivi  fra 
i  vivi. 

(l'ombra  si  infittisce.  Sulla  scena  non  si  vede  più  che  il  chiarore  del 


IL  GRAN   MAESTRO  DI   SANTIAGO  445 

mantello  che  li  ricopre  entrambi,  sotto  il  crocifisso,  lui  con  le  mani 
giunte,  lei  con  le  braccia  in  croce  sul  petto.  Dietro  la  vetrata,  la 
neve  fiocca  sempre  più  fitta) 

ALVARO  -  Eternità!  O  eternità! 

MARIANA  '  Infinità!  O  infinità! 

ALVARO  -  Religione!  Religione! 

MARIANA  -  Che  silenzio!  il  silenzio  della  neve.  Non  ho  mai  sentito  un 
tal  silenzio  in  Avila.  Si  direbbe  che  non  ci  siamo  più  che  noi  due, 
sulla  terra. 

ALVARO  -  Avila?  Che  cos'è  mai?  Una  città?  E  la  terra?  Forse  che  tu 
vedi  ancora  la  terra?  Io  la  vedo  tutta  sepolta  dalla  neve,  come  noi, 
sotto  il  mantello  bianco  deirOrdinc... 

MARIANA  -  Neve...  neve...  la  Castiglia  sprofonda  nella  neve  come  una 
nave  nell'acqua.  Sta  per  scomparire.  Scompare.  Dell'Aragona  non 
compare  piti  che  la  più  alta  cima  della  sierra  di  Utiel.  La  neve 
inghiotte  tutta  la  Spagna.  La  Spagna  non  c'è  piò. 

ALVARO  -  Lo  sapevo  da  un  pezzo.  La  Spagna  non  c'è  piti.  Ebbene!  pe- 
risca la  Spagna,  perisca  l'universo!  Se  io  conseguo  la  salvezza  della 
mia  anima  e  tu  della  tua,  tutto  è  salvato  e  tutto  è  compiuto. 

MARIANA  -  Tutto  è  salvato  e  tutto  è  compiuto:  vedo  infatti  un  Essere 
dallo  sguardo  fìsso  che  mi  guarda  con  uno  sguardo  insostenibile. 

ALVARO  -  Sangue  del  mio  sangue,  tu  eri  migliore  di  me:  in  un  istante 
tu  mi  superi,  vedi  prima  di  me  quel  che  ho  tanto  sognato. 

MARIANA  -  O  rosa  d'oro!  Faccia  di  Icone!  Faccia  di  miele!  Prosternata, 
prosternata,  con  la  faccia  a  terra  davanti  a  Colui  che  sento! 

ALVARO  -  No,  sali  più  in  alto!  sali  più  presto!  Bevi  e  sii  bevuta!  Sali 
ancora! 

MARIANA  -  Bevo  e  son  bevuta,  e  so  che  tutto  è  bene. 

ALVARO  -  Tutto  è  bene!  Tutto  è  bene! 

MARIANA  -  So  che  una  sola  cosa  è  necessaria,  ed  è  quella  che  dicevi 
tu... 

ALVARO  E  MARIANA  (insieme)  -  Unum,  Dominel 


La  presente  traduzione  è  a  cura  di  Dora  Siciliano. 


JEAN-PADL  SARTRE 


Nato  a  Parigi  il  21  giugno  1905,  brillante  allievo  della  Scuola 
Normale  Superiore,  professore  nei  licei  di  Le  Havre,  Laon,  Pa- 
rigi (fino  al  1945),  soldato  di  sanità  durante  la  guerra,  Jean-Paul 
Sartre  ^  è  sempre  vissuto  fra  scuola,  biblioteca,  caffè  letterario  e 
redazioni  di  riviste.  Un  soggiorno,  nel  1933-34,  a  Berlino,  (dove 
frequenta  le  lezioni  del  vecchio  E.  Husserl),  qualche  viaggio  in 
America  e  in  Europa,  ma  nel  complesso  vita  sedentaria  e  dalla 
facciata  borghesemente  tranquilla.  E  vita  spirituale  intensa,  in 
perpetue  sommosse  di  acqua  marcia,  straripante  in  rivoli  di  lim- 
pida eloquenza.  Fondatore  della  più  originale  rivista  del  dopo- 
guerra (Les  Temps  modernes\  grande  dialettico,  acuto  critico  del 
parziale  (e  dello  specioso),  politicamente  «  engagé  >  in  volontario 
ed  ambiguo  servizio  (anticomunista,  comunista,  paracomunista), 
romanziere  di  razza  (e  di  gusto  americano,  genere  Dos  Passos  e 
Faulkner),  drammaturgo  fortunato,  Sartre  fu,  fino  a  ieri,  il  più 
ammirato,  discusso  e  popolare  dittatore  della  filosofica  cappella 
esistenzialistica.  Compromesso  dalla  sciocca  plebe  di  Saint-Ger- 
main-des-Prés,  seguito,  con  rispetto  e  scismi,  da  una  élite  di  spi- 
riti sottili,  di  neo-umanisti  della  indegna  condizione  umana. 

Non  è  qui  il  luogo  di  esporre  in  particolare  le  manifestazioni 
di  un  movimento  filosofico-letterario  che  ha  trovato  condizioni 
favorevoli  di  sviluppo  nel  clima  delle  due  guerre.  La  parola  è 
nuova,  ma  l'esistenzialismo  è  sempre  esistito  allo  stato  vago  o 
frammentario,  se  espresso  in  vario  modo  ogni  qualvolta  l'uomo 
s'è  posto  il  problema  della  sua  misteriosa  realtà  sperduta  nel  mi- 
stero di  un  universo  chiuso  «  nel  silenzio  eterno  degli  spazi  infi- 
niti»:  e  rassegnazione  stoica  o  disperazione  metafisica,  fede  o 


^  Cfr.  «  Panorama  del  Teatro  francese  ».  voi.  I,  pag.  63. 


29.  .   Teatro  francese 


450  JEAN-PAUL   SARTKE 

ragione  diedero  all'ansiosa  «canna  pensante»  le  risposte  fornite 
dallo  stesso  pensiero,  dall'intuizione  o  dall'immaginazione  umana. 

Era,  per  cosi  dire,  inevitabile  che  il  romanticismo  delle  in- 
quiete solitudini  e  dei  vani  interrogatori  —  e  in  particolare  il  ro- 
manticismo che  vede  l'esistenza  umana  sospesa  fra  due  abissi  e 
l'individuo  chiuso  e  lacerato  fra  il  tutto  e  il  nulla  del  suo  essere 
—  dovesse  riproporsi  in  termini  drammatici  il  filosofico  problema. 
Ed  infatti  è  un  romantico  svedese,  l'anti-hegeliano  Sòren  Kierkee- 
gard  (1813-1855)  che,  muovendo  da  procellose  esperienze  perso- 
nali e  ricorrendo  ad  una  sua  «intrepida  dialettica»  degli  inconci- 
liabili contrari,  sbarazza  l'uomo  di  tutte  le  false  strutture  razionali, 
intellettuali  e  morali  per  lasciarlo  nudo  e  diviso  nelle  sue  contrad- 
dizioni, nello  scontro  fra  il  finito  e  l'eterno,  fra  immanenza  e  tra- 
scendenza, fra  il  paradosso  del  peccato  e  il  paradosso  della  grazia, 
fra  l'assurdo  del  suo  essere  reale  e  l'assurdo  necessario  della  fede. 
«Sehnsucht»  tedesca  e  «vago  all'anima»  francese,  ontologia  mi- 
stica e  pessimismo  luterano  si  combinano  nell'angoscia  esistenziale 
che  è  insieme  coscienza  del  vuoto  e  catarsi,  vana  aspirazione  all'as- 
soluto e  risoluzione  della  noia,  ritorno  allo  stato  primitivo  d'inno- 
cenza,  premessa  alla  libertà  —  ed  alla  scelta  —  ragione  del  dram- 
ma e  della  dignità  umana. 

È  questo,  sommariamente  esposto,  il  cosiddetto  esistenziali- 
smo cristiano,  che  avrà  recenti  e  diversi  sviluppi  nel  tedesco  Karl 
Jaspers  e  nel  francese  Gabriel  Marcel.  Accanto  al  quale  c'è  un 
esistenzialismo  ateo  che,  passando  attraverso  la  «fenomenologia» 
(e  r«  eidetica  »,  o  dottrina  delle  forme  ed  essenze  universali  imme- 
diatamente percepite  dalla  coscienza  nel  concreto  delle  cose)  di 
Husserl  (1859-1938)  perviene  alla  massiccia,  rigorosa  e  ardua  siste- 
mazione nell'ontologia  esistenziale  di  Martino  Heidegger.  Capo- 
volgendo il  rapporto  fra  essenza  ed  esistenza  (dando  cioè  a  questa 
la  precedenza  e  il  primato  su  quella),  il  filosofo  tedesco  vede 
l'essere  chiuso  interamente  nel  suo  esistere  che  è  realtà  di  tutti 
gli  attributi,  che  trova  solo  in  sé  l'essenza,  l'immanenza  e  la  tra- 
scendenza insieme  con  la  necessità  di  manifestarsi  —  e  di  farsi  — 
in  un  mondo  per  se  stesso  inesistente,  nel  finito  di  un  tempo 
escluso  dall'eterno.  L'esistente  è  dunque  nel  fatto,  nell'avvenuto, 
nel   fenomeno   concreto,    nella    presenza   effettiva,   ntìVesserci  di 


PRESENTAZIONE  451 

persona,  limitato  in  se  stesso,  circondato  e  costituito  dal  vuoto 
universale.  Nel  1929  Heidegger  dichiarava  che  il  Nulla  è  «la 
struttura  costitutiva  dell'esistenza».  Nel  1943  Sartre,  presentando 
le  settecento  pagine  de  L'Etre  et  le  Néant,  saggio  di  fenomeno- 
logia ontologica,  assicura  che  «ce  qui  compte  dans  un  vase  c'est 
le  vide  du  milieu».  Ed  è  nel  vuoto,  o  nel  nulla,  percepito  ed 
annientato  dalla  coscienza,  che  Tessere  esiste,  cioè  si  sente,  si  con- 
diziona, si  costruisce,  si  vede,  è  visto. 

Questo  vaso  di  dura  ed  ermetica  fattura  tedesca  Sartre  lo  riem- 
pie di  chiaro  spirito  francese,  di  mondane  formule  e  di  ingegnosi 
arzigogoli,  ma  anche  di  viscida  materia,  di  contraddizioni  interne 
e  di  intestine  guerre  fra  la  solida  «finitude»  dell'esistente  e  la 
condannata  <  facticité  >  delle  astrazioni  e  delle  illusioni  che  sa- 
rebbero le  imposture  della  morale  e  della  religione,  le  favole  della 
trascendenza  e  dell'assoluto,  le  <  tricheries  >  dell'amore,  della  spe- 
ranza ed  altri  idoli  dell'ipocrisia  o  della  viltà  umana.  Volgarizzata, 
esemplificata  in  romanzi  e  drammi,  caduta  su  un  terreno  prepa- 
rato dal  disperato  vitalismo  dì  Malraux  e  dalle  amorali  Nour- 
ritures  terrestres  di  Gide,  la  dottrina  dell'Essere  vuoto,  determi- 
nabile e  determinato  nell'c  hic  et  nunc  >  dell'esistenza  —  e  magari 
nell'angoscia  del  quotidiano  —  trovò  il  «suo»  momento  nella 
stagione  in  cui  la  vita  apparve  effettivamente  come  un  incubo 
vissuto  nella  disfatta  di  tutti  i  valori  tradizionali.  La  predica- 
zione sartriana  conobbe  quindi  lo  fortuna,  gl'infortuni  —  e  gli 
equivoci  —  di  una  straordinaria  popolarità,  si  trovò  volente  o  no- 
lente a  raccogliere  sotto  l'insegna  di  un  Assurdo  spesso  confuso 
con  l'inesplicabile  e  l'irrazionale  (e  di  una  libertà  disancorata  da 
qualsiasi  norma)  i  grotteschi  delle  «caves>  e  i  letteratissimi  pro- 
feti dei  «  ternps  modernes  >,  gli  invertiti  santificati  e  gli  ansiosi 
di  una  morale  generosa. 

La  pili  illustre,  e  patetica,  vittima  di  un  Assurdo  perseguitato 
da  nostalgie  razionali  e  di  una  fenomenologia  del  Male  in  fina- 
listica funzione  del  Bene,  è  Albert  Camus,  antico  sodale  di  Sar- 
tre. Partito  dalla  panteistiche  Noces  (1938),  celebrate,  per  dispe- 
razione, fra  il  corpo  umano  e  la  natura,  cercata  o  scoperta  l'assurda 
tragedia  della  condizione  umana  nel  nihilismo  vegetativo  del- 
VEtranger  (1942),  nella  condanna  all'inutile  moto  perpetuo  del 


452  JEAN-PAUL   SARTRE 

Mito  di  Sisifo  (1942),  nella  bestiale  rivolta  di  Caligola,  neiratroce 
capriccio  del  caso  (o  del  Malcntendu,  1944),  nel  misterioso  dila- 
gare della  peste,  o  del  male,  considerata  l'ipotesi  del  suicidio, 
Camus  drizza  contro  l'Assurdo  una  serie  di  proteste  e  di  postulati 
ideali  che  riportano  l'uomo  alle  sue  vecchie  speranze  ed  alle  sue 
eterne  illusioni.  Cosi  l'automa  estraneo  al  mondo  scopre  «  in  articu- 
lo  mortis  »  la  <  fraternità  >  con  l'assurdo  mondo.  Sisifo  trova  in  ci- 
ma alla  montagna  la  felicità  che  viene  dalla  coscienza  della  sua  as- 
surda fatica,  l'assurdo  della  Peste  (1947)  serve  a  far  scoprire  la 
solidarietà  umana,  e  non  c'è  rivolta  òéX'Homme  révolté  (1951) 
che  non  si  risolva  in  necessario  —  e  quasi  prestabilito  —  risultato 
positivo.  Camus  continua  ad  errare  nel  tragico  quotidiano  di 
Faulkner  e  di  Dostoievski,  ma  la  sua  angoscia  metafìsica,  pur 
rifiutando  il  «  salto  >  nel  Dio  di  Pascal  o  di  Kierkeegard,  continua 
a  fare  il  salto  ideale  e  morale  nella  verità  della  storia,  nella  fede 
nella  giustizia,  nella  professione  del  sacrificio,  nella  ripresa  dei 
colloqui  di  Siegfried  con  il  tedesco.  Non  è  meraviglia  che  Sartre 
l'abbia  rinnegato.  Ma  anche  Sartre  fa  il  suo  salto. 

Sartre  ha  fatto  il  suo  salto  quando,  messo  l'individuo  al  cen- 
tro del  suo  vuoto  (o  di  una  esistenza  senza  passato,  senza  ragione 
e  senza  scopo)  gli  ha  ordinato  di  costruirvi  il  suo  concreto  Tutto 
con  l'assoluto  di  una  libertà  coatta,  priva  di  meriti  e  di  sanzioni, 
ma  ricca  di  illimitati  poteri  individuali  e  impegnata  in  responsa- 
bilità collettive.  L'uomo  di  Sartre  (o  di  Heidegger  coniugato  con 
Chestov  e  Marx)  deve  «  faire  et  cn  faisant  se  faire,  et  n'étre  rien 
que  ce  qu'il  s'est  fait  >  :  e  cosi  facendo  e  facendosi,  assume  l'ansia 
e  la  responsabilità  di  scegliere  per  se  e  per  gli  altri,  «se  réalise 
en  réalisant  un  tyj^  d'humanité  >,  crea  la  sua  storia  senza  passato, 
il  suo  destino  senza  Dio  e  senza  limiti,  «s'engage»  al  servizio 
della  propria  esistenza  e  dell'umana  solidarietà.  L'esistenzialismo 
sarebbe  quindi  un  «  umanismo  ». 

Tutto  ciò  è  bello  e  buono,  e  potrebbe  essere  convincente  se 
questa  «libertà  per  la  libertà»,  che  ha  un  venerabile  passato  ro- 
mantico e  recenti  affinità  con  Tatto  gratuito,  non  assumesse  nella 
sua  azione  tutti  i  caratteri  e  gli  attributi  della  «  facticité  »,  o  degli 
idoli  di  morale  e  di  immaginazione,  che  dovrebbe  annientare. 
Secondo  gli  exempla  e  i  vari  saggi  di  Sartre,  essa  sarebbe  infatti 


PRESENTAZIONE  453 

«originello  come  il  peccato,  assurda  perché  sottratta  ad  ogni 
spiegazione  razionale,  dittatoriale  in  quanto  costringe  l'uomo  a 
scegliere  in  ogni  caso  (o  a  «bere  senza  sete»),  paradossale  in 
quanto  libererebbe  l'uomo  per  metterlo  al  servizio  obbligatorio 
di  €  un  tipo  di  umanità  >  :  e  non  si  vede  bene,  dal  momento  che 
essa  è  innata,  fatale  e  determinante,  in  che  cosa  si  distinguerebbe 
dai  suoi  nemici,  dalla  grazia  efficace  e  sufficiente,  dal  mito  mo- 
rale, dall'imperativo  categorico,  dal  dio  dei  cieli  e  delle  macchine. 
In  compenso  si  vede  bene  che,  volendo  annettersi  dei  poteri  estranei 
alle  sue  funzioni,  è  costretta  alle  acrobazie  dialettiche  ed  alle  fu- 
tilità del  sofisma.  Davanti  al  fatto  che  l'uomo  non  è  libero  di 
scegliere  la  nascita  e  il  carattere,  che  la  sua  vita  pratica  e  in  parte 
condizionata  dalla  natura  e  dall'ambiente,  è  <  situata  >,  Sartre  as- 
sicura che  la  libertà  ha  agito  lo  stesso  anche  quando  non  ha  pos- 
sibilità di  azione,  che  la  scelta  è  volontaria  anche  quando  sembra 
imposta  dalle  circostanze.  «Ma  peur,  —  scrive,  —  est  libre  et 
je  me  suis  choisi  pcureux  en  telle  ou  telle  circostance  >. 

Quando  infine  si  passa  dalla  teoria  alle  applicazioni  ed  ai 
risultati  pratici,  il  nuovo  umanismo  rivela  la  fenomenologia  piut- 
tosto allarmante  di  una  umanità  che  prende  coscienza  del  suo 
vuoto  per  esistere  liberamente  nella  solitudine  della  cloaca.  Il  gio- 
vane Sartre  aveva  esordito  con  un  saggio  intitolato  L'Ange  du 
morbide  (1923).  È  un  angelo  carico  di  anni  e  di  magagne  (e  si 
pensa  ad  un  Blake  in  immoralistico  didattismo,  ad  un  Baudelaire 
senza  «albe  spirituali»  e  senza  catarsi  poetica,  a  un  Maldoror 
senza  complessi  di  colpa  e  di  rimorsi)  che  tradisce  nella  lettera- 
tura dimostrativa  sartriana  una  singolare  tendenza  al  parziale  e 
al  partito  preso  con  l'irresistibile  attrattiva  del  ripugnante  viscido, 
nella  «  finitude  >  del  sordido,  del  sesso  e  dell'osceno.  Dal  romanzo 
Im  Nausee  (1938)  e  dalla  raccolta  di  novelle  Le  Mur  (1939)  al 
ciclo  dei  romanzi  a  tesi  dei  Chetnins  de  la  liberté  è  infatti  la 
marcia  forzata  di  una  umanità  che  gira  perdutamente  nella  sua 
scelta  prigione:  e  mai  fu  visto  libero  gregge  così  oppresso  dal- 
l'assurdo fatalistico,  cosi  disperato  nella  rivolta  e  nel  rifiuto,  cosi 
«ingaggiato»  in  processi  a  porte  chiuse  nei  quali  Sade,  Masoch, 
Lafcadio,  Erostrato,  l'esibizionista  e  l'invertito  espongono  i  loro 


454  JEAN-PAUL    SARTRt 

miserabili  casi  dettando  le  sentenze  ossessive  del  senso  unico,  della 
mano  sporca,  del  repellente  morbido,  della  gratuita  lubricità  di 
atti  e  di  parole.  Anche  costoro,  si  dice,  hanno  il  diritto  di  <  mani- 
festarsi >.  Resta  da  chiedersi  quali  valori  universali  può  avere  una 
dottrina  filosofica  fondata  sugli  arbitri  della  libertà  individuale  ed 
esemplificata  sulla  costante  eccezione  di  individui  tarati. 

Ma  Sartre  è  scrittore  di  abbondante  fantasia,  signore  di  uno 
stile  €  lascivo  >  e  incisivo,  dotato  della  grazia  efficace  del  racconto 
e  della  rappresentazione.  Tesi  più  o  meno  discutibili,  polemica  1 

politica  e  religiosa  costituiscono  il  sostrato  ideologico  dell'opera  ! 

d'arte,  restano,  nelle  cose  migliori,  allo  stato  di  suggestione  o  di 
grezzo  tessuto  riscattato  dalla  vivacità  della  favola,  magari  da  un 
torbido  senso  poetico.  Il  primo  successo  teatrale  fu  ottenuto  con 
il  dramma  in  tre  atti  Les  Mouches  (1943)  dove  il  mito  degli  Atri- 
di  è  presentato  in  veste  <  sbracata  >,  alla  maniera  di  un  Anouilh 
senza  patetismi  (Elettra  parla  plebeo,  lava  i  piatti  e  la  biancheria 
sporca,  eccetera)  e  in  sartriana  soluzione  eroica.  Nella  nuova  esegesi 
dell'antica  tragedia  ogni  personaggio,  oltre  a  portare  il  peso  del 
destino  e  la  responsabilità  dei  suoi  atti,  incarna  una  simbolica 
parte  della  «  moralità  >  esistenziale.  Clitennestra  è  legata  in  eterno 
al  suo  atto  invano  rinnegato  (e  alla  «legge  giusta  e  ingiusta  del 
pentimento  >),  Egisto  è  lo  stanco  «  salaud  >  complice  di  un  ansioso 
e  scettico  Giove  che  ha  inviato  sulla  città  di  Argo  le  schifose  mo- 
sche (simboli  del  rimorso,  del  sentimento  di  colpa  e  dell'espiazio- 
ne), Elettra  è  la  ribelle  che  non  riesce  a  vincere  la  <  viscosità  »  del- 
l'odio e  della  paura,  mentre  Oreste  è  il  predestinato  cavaliere  puro 
del  Graal-libertà,  ovvero  l'uomo  <  affranchi  de  toutes  les  servitudes 
et  de  toutes  les  croyances,  sans  patrie,  sans  famille,  sans  religion  >, 
sottratto  cioè  a  tutta  la  «  facticité  >  umana  e  divina,  padrone  della 
sua  esistenza  e  del  suo  destino.  «Appena  m'hai  creato,  —  dice  a 
Giove,  —  ho  cessato  di  appartenerti  >.  E  giacché  sono  un  uomo  — 
spiegherà  —  non  riconosco  la  tua  legge,  sono  <  condannato  »  soltan- 
to alla  mia,  debbo,  come  ogni  uomo,  inventare  la  mia  strada.  Ma 
anche  Giove  è  condannato  a  «danzare»  in  eterno  davanti  agli 
uomini  per  esercitare  il  suo  criminoso  potere  e  per  nascondere  il 
suo  «doloroso  segreto»  che  è  la  libertà  degli  uomini,  contro  la 
quale  egli  non  può  nulla  e  con  la  quale  l'uomo  può  tutto.  L'uno 


PRESENTAZIONE  455 

e  l'altro  sono  soli  nell'eguale  angoscia  di  una  condanna  che  li 
porta  fatalmente  ad  affrontarsi.  E,  s'intende,  sarà  l'uomo  libero 
che  vince  il  dio,  compiendo  —  e  rivendicando  in  faccia  al  sole  — 
il  suo  delitto,  con  il  quale  libera  anche  i  cittadini  di  Argo  dalle 
mosche,  dalle  Erinni  e  da  Giove. 

cLa  vie  humaine  commence  de  l'autre  cote  du  désespoir», 
proclama  Oreste  annunziando  il  crepuscolo  degli  dei.  Ma  le  cose 
esistenziali  non  si  risolvono  sempre  in  commedia  eroica,  possono 
trovare  dall'altra  parte  la  disperazione  della  vita  fìssata  per  sem- 
pre nel  vissuto,  e  nello  scacco  —  o  nei  vecchi  schemi  —  di  una 
libertà  che  imprigiona,  di  una  scelta  che  non  funziona,  di  una 
volontà  che  non  può  quel  che  vuole.  Che  la  dottrina  anti-fato 
ammette  non  solo  la  fatalità  del  fatto,  ma  anche  il  dubbio  certame 
fra  l'oggetto  e  il  soggetto,  che  ricorda  qualcosa  di  simile  ai  rap- 
porti dell'Io  con  il  Non-Io,  della  coscienza  con  la  realtà,  dell'uni- 
verso esterno  con  la  rappresentazione  individuale.  Secondo  la 
nuova  terminologia,  l'essere  esistente  è  infatti  composto  da  un  «  En 
soi>  (l'oggetto  statico,  identico  a  se  stesso,  pieno  come  un  uovo, 
senza  coscienza)  ed  un  «  Pour-soi  >,  che  è  il  cosciente  variabile  e 
contraddittorio  che  assume  !'<  En  soi  >,  lo  determina  e  vi  si  deter- 
mina. Fra  l'c  In-sc  >  e  il  «  Per-sc  >  è  quindi  la  continuità  del  conflit- 
to, in  scambi  di  creazioni  e  di  annientamenti,  nello  stato  neutro  di 
una  <  viscosità  >  donde  nascono  la  nausea,  l'angoscia,  e  donde  pos- 
sono nascere  il  valore  autentico  della  libertà  o  il  sentimento  dello 
scacco,  che  è  la  caduta  nell'esistere  bruto  del  corpo  e  delle  cose. 
Inoltre  il  connubio  discorde  e  minacciato  dal  «  Pour-soi  >  degli 
altri,  che  ci  vede  nel  nostro  <  En-soi  >  o,  come  diceva  Pirandello, 
fìssati  nell'immobilità  di  un  atto  o  di  un'apparenza. 

È  questo  il  concetto  esistenzialistico  drammatizzato  con  la 
solita  ingegnosità  ed  arte  in  Huis  clos  (1944),  tragedia  dell'umana 
coabitazione  forzata  e  della  incomunicabilità  dei  vasi  chiusi.  La 
tesi  e  chiaramente  esposta.  «L'enfer,  c'est  les  Autres>,  dice  Gar- 
cin.  «  Le  bourreau,  —  aveva  precisato  Inés,  —  c'est  chacun  de  nous 
]x>ur  les  deux  autres  >.  L'inferno  è  la  prigione  senza  specchi  dove 
ciascuno  vede  il  suo  finito  nello  specchio  deformante  del  fittizio, 
si  vede  com'è  e  come  non  è,  è  visto  come  appare.  Prigionieri  in 
eterno  dei  loro  atti,  i  tre  sciagurati  eroi  continuano  a  girare  nel 


456  JEAN-PAUL    SARTRE 

conflitto  del  proprio  essere  in  conflitto  con  quello  altrui,  fra  inu- 
tili confessioni  e  vani  tentativi  di  liberazione.  Mentre  le  due  donne 
restano  nella  «  viscosità  >  dei  sensi,  Garcin  ha  velleità  di  rivolta, 
di  scelta  e  di  evasione  («  Je  veux  choisir  mon  enfer  >,  <  Peut-on 
juger  une  vie  sur  un  acte?  »,  «  Cet  hcroì'sme,  je  l'ai  choisi.  On  est 
ce  qu'on  veut>),  ma  resta  anche  lui  l'uomo  dello  scacco,  nel  vi- 
schio dell'illusione  e  della  menzogna.  «Tu  n'es  rien  d'autre  que 
ta  vie  »,  gli  risponde  Ines.  Sulla  vita  <  fatta  »  s'è  chiusa  per  sempre 
la  porta  del  finito,  mentre  continua  senza  fine  il  supplizio  di  un 
processo  a  porte  chiuse  dove  la  coscienza  non  ha  ormai  più  pos- 
sibilità di  scelta  e  dove  i  giudici  sono  insieme  vittime  e  carnefici 
di  se  stessi  e  degli  altri. 

Dopo  le  due  brillanti  prove,  vengono,  fra  romanzi  e  saggi, 
altri  drammi  sempre  pili  «impegnati»  in  tesi,  problemi  e  natu- 
realistica  rappresentazione  di  un'umanità  oppressa  dall'assurdo 
della  vita,  dei  pregiudizi  e  del  destino.  Nello  stesso  anno  1946  in 
cui  La  Putain  respectueuse  (la  letteratura  sartriana  si  è  natural- 
mente sottratta  allo  «  sporco  »  pudore  del  vocabolario)  ci  presenta 
una  banale  storia  di  ipocrisia  borghese-razzista  (per  salvare  un 
senatore  sud-americano  una  prostituta  accusa  un  innocente  negro 
di  averla  violata),  son  portate  sulla  scena,  con  Morts  sans  sepolture, 
le  atroci  torture  e  la  spietata  legge  della  guerra  partigiana.  Poi  il 
complesso  dramma  Les  Mains  sales  (1948)  presenta  in  termini 
problematici  il  conflitto  ideologico  (invischiato  nel  passionale)  del 
comunista  militante  nella  pratica  del  fine  che  giustifica  i  mezzi 
(anche  sporchi)  e  del  puro  intransigente  che,  nauseato  dal  pro- 
prio ambiguo  atto  (l'uccisione  del  compagno  realista)  e  tradito 
nella  sua  cieca  fede,  sceglie  la  libertà  nella  rivolta  che  per  lui 
significa  condanna  a  morte.  Dopo  di  che,  in  Le  Diable  et  le  bon 
Dieu  (1951)  è  l'allegorica,  macchinosa  rappresentazione  (nel  vuoto 
dell'assurdo,  dimostrato  per  assurdo  e  con  la  prova  del  nove)  del 
vecchio  tema  romantico  della  lotta  fra  Dio  e  Satana,  fra  il  Bene 
e  il  Male,  incarnati  da  un  bestiale  capitano  di  ventura  che  vince 
sempre  finché  commette  ogni  sorta  di  atrocità  e  di  ribalderie, 
mentre  perde  tutto  quando  per  scommessa,  e  barando,  sceglie  di 
fare  il  santo.  Egli  rientra  quindi  nella  sua  diabolica  natura  che 
gli  consente  di  ritrovare  l'autenticità  della  sua  libera  condizione 


PRESENTAZIONE  457 

umana  incompatibile  con  il  fittizio  della  morale  e  di  Dio.  Trovate, 
formule  e  virtuosismi  oratori  salvano  ancora  il  salvabile  dal  peso 
della  polemica  anti-teistica.  Ma  lo  sforzo  esistenziale  s'è  messo 
ormai  sulla  china  della  «platitude».  E  in  Ne\rassov  (1955)  il 
fatto  di  cronaca  di  un  truffatore  internazionale  che  si  fa  passare 
per  un  ministro  sovietico  il  quale  avrebbe  scelto  la  libertà,  cade 
irreparabilmente  nella  goffa  e  prolissa  satira  della  società  borghese 
rappresentata  nei  puerili  e  grotteschi  intrighi  della  sua  stampa, 
della  sua  politica  e  della  campagna  antibolscevica. 

In  questi  giorni  (settembre  1959)  Sartre  è  tornato  al  teatro 
con  il  dramma  Les  sequestrés  d'Altana,  accolto  con  discordi,  e  nel 
complesso  negativi,  giudizi  della  critica. 

I  €  tempi  moderni  >  della  rivolta  esistenziale,  della  libertà  sca- 
tenata nel  massiccio  orrido  naturalista,  della  terra  e  della  gioventù 
bruciata,  bruciano  rapidamente  gl'idoli.  Sartre  non  è  più  quello 
di  ieri  ed  il  pubblico  è  facile  alla  nausea  ed  al  fittizio  degli  umori 
e  delle  mode.  Al  momento  attuale,  avanguardia  scapigliata  e  bor- 
ghesia resistente  hanno  scoperto,  e  apprezzano,  le  angosce  del 
vuoto  assoluto  di  Beckett  e  le  assurde  miscele  del  surrealismo  edul- 
corato di  Eugenio  lonesco. 

Si  cfr.,  nella  congerie  di  saggi  critici  e  di  articoli,  Troisfontaincs  O., 
Le  choix  de  J.-P,  Sartre,  1945;  Campbell  R.,  /.-P.  Sartre,  1945;  Beig- 
bcder  M.,  Uhomme  S.,  1947;  Simon  P.-A.,  Lhomme  en  procès,  1950; 
Alberès  R.  M.,  /.-P.  Sartre,  1953;  Jcanson  F.,  S.  par  lui-méme,  1956. 


Porte  ehìnse 


PERSONAGGI 


INES 

ESTELLA 

GARCIN 

IL  CAMERIERE 


PORTE  CHIUSE 

a  quella  Signora 

Un  salotto  stile  Secondo  Impero.  Sul  caminetto  una  statua  di  bronzo. 

SCENA   PRIMA 

GARCIN,   IL    CAMERIERE 

GARciN  {entra  guardandosi  intorno)  -  Allora,  ecco  qua. 

IL  CAMERIERE  -  EcCO  qua. 

GARCIN  -  È  COSI... 

IL  CAMERIERE  -  È  COSI. 

GARCIN  -  Io...  io  penso  chc  a  lungo  andare  uno  finisca  con  l'abituarsi 
ai  mobili. 

IL  CAMERIERE  -  Dipende  dalle  persone. 

GARCIN  -  Sono  tutte  uguali,  le  stanze? 

IL  CAMERIERE  -  Macché.  Ci  capitano  dei  Cinesi,  degli  Indiani.  Cosa  vo- 
lete che  se  ne  facciano  di  una  poltrona  stile  Secondo  Impero? 

GARCIN  -  E  io,  cosa  volete  chc  me  ne  faccia,  io?  Sapete  chi  ero?  Bah! 
è  una  cosa  che  non  ha  nessuna  importanza.  I>opo  tutto,  ho  sem- 
pre vissuto  in  mezzo  a  mobili  che  non  mi  piacevano  e  in  situazioni 
false;  ne  godevo  un  mucchio.  Una  situazione  falsa  in  una  sala  da 
pranzo  stile  Luigi  Filippo,  non  vi  dice  nulla? 

IL  CAMERIERE  -  Vedrete:  le  cose  non  andranno  poi  tanto  male  neppure 
in  un  salotto  Secondo  Impero. 

GARCIN  -  Ah?  Bene.  Bene,  bene,  bene,  (si  guarda  intomo)  Però  non 
mi  sarei  aspettato...  Voi,  certo,  sapete  che  cosa  si  racconta  laggiù? 

IL  CAMERIERE  -  Su  che  cosa? 

GARCIN  -  Ebbene...  {facendo  un  gesto  ampio  e  vago)  su  tutto  questo. 

IL  CAMERIERE  -  Comc  potete  credere  a  queste  stupidaggini?  Delle  per- 
sone che  non  hanno  mai  messo  i  piedi  qui.  Giacché  insomma,  se 
ci  fossero  venute... 

GARCIN  -  Si.  {ridono  tutti  e  due,  Garcin  ritornando  improvvisamente 
serio)  Dove  sono  i  pali? 

IL   CAMERIERE   -  CoSa? 


462  JEAN-PAUL    SARTRE 

GARCiN  -  I  pali,  le  graticole,  gli  imbuti  di  cuoio. 

IL  CAMERIERE  -  Lo  ditc  per  scherzo? 

GARciN  (guardandolo)  -  Ah?  Ah,  bene.  No,  non  volevo  scherzare,  {una 
pausa.  Passeggia  su  e  giù)  Niente  specchi,  niente  finestre,  natural- 
mente. Niente  di  fragile,  {con  improvvisa  violenza)  E  perché  mi 
hanno  levato  lo  spazzolino  da  denti? 

IL  CAMERIERE  -  Ecco.  Ecco  la  dignità  umana  che  si  riaffaccia.  È  straor- 
dinario. 

GARciN  {battendo  incollerito  sul  bracciolo  della  poltrona)  -  Fatemi  il 
piacere,  risparmiatemi  la  vostra  familiarità.  Non  ignoro  nulla  della 
mia  posizione,  ma  non  sopporterei  che  voi... 

IL  CAMERIERE  -  Là!  Là!  Scusatemi.  Cosa  volete,  tutti  i  clienti  chiedono 
le  stesse  cose.  Arrivano:  «Dove  sono  i  pali?  ».  In  quel  momento, 
vi  assicuro  che  non  pensano  a  far  toilette.  E  poi,  non  appena  si 
sentono  rassicurati,  ecco  lo  spazzolino  da  denti.  Ma,  per  Tamor  di 
Dio,  non  potete  proprio  riflettere?  Perché  poi,  ve  lo  chiedo,  perché 
vi  lavereste  i  denti? 

GARciN  (calmato)  -  Già,  infatti,  perché?  (si  guarda  intorno)  E  perche 
guardarsi  negli  sp)ecchi?  Invece  la  statua  di  bronzo,  almeno...  Penso 
che  in  certi  momenti  sarò  tutt occhi  a  guardarla...  Tutt'occhi,  eh? 
Andiamo,  andiamo,  non  c'è  nulla  da  nascondere;  vi  dico  che  non 
ignoro  nulla  della  mia  posizione.  Volete  che  vi  racconti  come  suc- 
cede? Uno  soffoca,  va  a  fondo,  annega,  solo  il  suo  sguardo  è  fuori 
dell'acqua  e  cosa  vede?  Una  statua  di  bronzo  di  Barbediennc.  Che 
incubo!  Capisco,  vi  hanno  certamente  proibito  di  rispondermi,  e  io 
non  insisto.  Ma  ricordatevi  che  non  mi  lascio  coglier  di  sorpresa, 
non  venite  poi  a  vantarvi  d'avermi  sorpreso;  io  guardo  la  situazione 
in  faccia,  (ricomincia  a  camminare  su  e  giti)  Dunque,  niente  spaz- 
zolino da  denti.  E  neppure  il  letto.  Giacché  non  si  dorme  mai, 
naturalmente? 

IL  CAMERIERE  -  Diamine! 

GARciN  -  Ci  avrei  scommesso.  Perché  si  dormirebbe?  Il  sonno  vi  pren- 
de dietro  le  orecchie.  Sentite  gli  occhi  che  si  chiudono,  ma  p)erché 
dormire?  Vi  stendete  sul  divano  e  pfft...  il  sonno  se  ne  va.  Biso- 
gna allora  stropicciarsi  gli  occhi,  rialzarsi  e  tutto  ricomincia. 

IL  CAMERIERE  -  Quanta  fantasia  avete! 

GARciN  -  Voi  state  zitto.  Non  mi  metterò  a  gridare,  né  a  gemere,  ma 
voglio  guardare  la  situazione  in  faccia.  Non  voglio  che  mi  salti 
addosso  cogliendomi  alle  spalle,  senza  aver  potuto  rendermene  con- 
to. Sono  fantasioso?  Allora  vuol  dire  che  non  c'è  neppur  bisogno 
di  sonno.  Perché  dormire  se  non  si  ha  sonno?  Benissimo.  Aspettate. 


PORTE  CWIUSE  463 

Aspettate:  perché  è  tanto  penoso?  Perché  è  necessariamente  pe- 
noso? Ci  sono:  è  la  vita  senza  stacco. 

IL  CAMERIERE  -  Qiiale  stacco? 

GARciN  {imitandolo)  -  Quale  stacco?  {sospettoso)  Guardatemi.  Ne  ero 
sicuro!  Ecco  la  spiegazione  dell'indiscrezione  grossolana  e  insoste- 
nibile del  vostro  sguardo.  Parola  mia,  sono  atrofizzate. 

IL  CAMERIERE  -  Ma  di  che  parlate? 

GARciN  -  Delle  vostre  palpebre.  Noi,  noi  battiamo  le  palpebre.  Un  bat- 
ter d'occhio,  si  chiamava.  Un  piccolo  guizzo  nero,  un  sipario  che 
cala  e  si  rialza:  lo  stacco  è  fatto.  L'occhio  s'inumidisce,  il  mondo 
scompare.  Voi  non  potete  sapere  quant'era  riposante.  Quattromila 
riposi  in  un'ora.  Quattromila  piccole  evasioni.  E  quando  dico  quat- 
tromila!... Allora?  Vivrò  senza  palpebre?  Non  fate  lo  sciocco.  Sen- 
za palpebre,  senza  sonno,  è  lo  stesso.  Non  dormirò  piò...  Ma  come 
riuscirò  a  sopportarmi?  Cercate  di  capire,  fate  uno  sforzo:  ho  un 
carattere  cavilloso,  sapete,  e...  ho  l'abitudine  di  stuzzicarmi.  Ma  io... 
non  posso  stuzzicarmi  sensa  sosta:  laggiù  c'erano  le  notti.  Dormivo. 
Avevo  il  sonno  piacevole.  Per  una  specie  di  compenso.  Mi  propo- 
nevo dei  sogni  semplici.  C'era  una  prateria...  una  prateria,  e  basta. 
Sognavo  di  passeggiarci.  È  giorno? 

IL  CAMERIERE  -  Lo  Vedete  da  voi,  le  lampade  sono  accese. 

GARciN  -  Perbacco.  È  questo  il  vostro  giorno.  E  fuori? 

IL  CAMERIERE  {sbalordito)  '  Fuori? 

GARciN  -  Fuori!  al  di  là  di  questi  muri? 

IL  CAMERIERE  -  C'è  un  corridoio. 

GARciN  -  E  in  fondo  al  corridoio? 

IL  CAMERIERE  -  Ci  sono  altre  stanze  e  altri  corridoi  e  scale. 

GARciN  -  E  poi? 

IL  CAMERIERE  -  PoÌ  baSta. 

GARciN  -  Avrete  pure  un  giorno  libero.  Dove  andate? 

IL  CAMERIERE  -  Da  mio  zio,  che  è  capo-cameriere  al  terzo  piano. 

GARciN  -  Avrei  dovuto  immaginarmelo.  Dov'è  l'interruttore? 

IL  CAMERIERE  -  Non  ce  n'è. 

GARciN  -  Allora?  Non  si  può  sp)cgnere? 

IL  CAMERIERE  -  La  direzione  può  togliere  la  corrente.  Ma  non  ricordo 
che  l'abbia  mai  fatto  a  questo  piano.  Abbiamo  l'elettricità  a  vo- 
lontà. 

GARciN  -  Benissimo.  Allora  bisogna  vivere  a  occhi  aperti. 

IL  CAMERIERE  {irofiico)  -  Vivere... 

GARciN  -  Non  starete  a  sottilizzare  su  una  questione  di  vocabolo.  A  oc- 
chi aperti.  Per  sempre.  Sarà  sempre  pieno  giorno  nei  miei  occhi. 


464  JEAN-PAUL    SARTRE 

£  nella  mìa  testa,  (tina  pausa)  E  se  scagliassi  la  statua  di  bronzo 
contro  la  lampadina  elettrica,  sì  spegnerebbe? 

IL  CAMERIERE  -  È  troppo  pesantc. 

GARciN  {prende  la  statua  fra  le  mani  e  cerca  di  sollevarla)  -  Avete  ra- 
gione. È  troppo  pesante. 

(un  momento  di  silenzio) 

IL  CAMERIERE  -  Ebbene,  se  non  avete  più  bisogno  di  me,  vi  lascio. 

GARciN  (di  soprassalto)  -  Ve  ne  andate?  Arrivederci,  (il  cameriere  va 
verso  la  porta)  Aspettate.  (;7  cameriere  si  volta)  È  il  campanello, 
quello  là?  (//  cameriere  fa  un  cenno  affermativo)  Posso  suonare 
quando  voglio  e  voi  siete  obbligato  a  venire? 

IL  CAMERIERE  -  In  tcoHa,  SI.  Ma  è  un  campanello  capriccioso.  C'è 
qualcosa  di  scassato  nel  meccanismo. 

GARciN  {si  dirige  verso  il  campanello  e  schiaccia  il  bottone.  Suoneria)  - 
Funziona! 

IL  CAMERIERE  {stupito)  -  Funzìona.  {suona  anche  lui)  Ma  non  entusia- 
smatevi, non  durerà.  Me  ne  vado,  ai  vostri  ordini. 

GARciN  {fa  un  gesto  per  trattenerlo)  -  Io... 

IL   CAMERIERE  -  EH? 

GARciN  -  No,  nulla,  {va  verso  il  caminetto  e  prende  il  tagliacarte)  Che 

cos'è  questo? 
IL  CAMERIERE  -  Lo  Vedete  bene:  un  tagliacarte. 
GARciN  -  Ci  sono  dei  libri,  qui? 

IL  CAMERIERE  -  No. 

GARciN  -  E  allora  a  che  serve?  (//  cameriere  si  stringe  nelle  spalle)  Va 
bene.  Andatevene. 

{il  cameriere  esce) 


SCENA   SECONDA 

GARCIN,   solo 

{si  avvicina  alla  statua  di  bronzo  e  la  liscia.  Si  mette  a  sedere.  Si  rial- 
za. Si  avvicina  al  campanello  e  schiaccia  il  bottone.  Il  campanello 
non  suona.  Prova  due  o  tre  volte.  Ma  invano.  Si  dirige  allora  verso 
la  porta  e  cerca  di  aprirla.  Quella  resiste.  Chiama) 

Cameriere!  cameriere! 


Porte  Chiuse  di  Sartre,  al  Vicux-Colombicr,  nel   1944.  Messinscena  di  Rouleau.  In- 
terpreti: Asin-Michel  Vitold  (Garcin),  Tania  Balachova  (Ines),  Michel  Alfa  (Estella). 


PORTE   CHIUSE  465 

{nessuna  risposta.  Tempesta  di  pugni  la  porta  continuando  a  chiamare 
il  cameriere.  Poi  si  calma  improvvisamente  e  va  di  nuovo  a  sedersi. 
In  quel  momento  la  porta  si  apre  e  Ines  entra,  seguita  dal  came- 
riere) 


SCENA   TERZA 

GARCIN,  INES,  IL   CAMERIERE 

IL  CAMERIERE  (tf  Gorcin)  -  Mi  avete  chiamato? 

GARCIN  {sta  per  rispondere,  ma  lancia  un'occhiata  a  Ines)  -  No. 

IL  CAMERIERE  {voltOTidosi  vcrso  Incs)  -  Sicte  in  casa  vostra,  signora. 
{silenzio  di  Ines)  Se  avete  qualche  domanda  da  farmi...  {Ines 
tace.  Il  cameriere  deluso)  In  genere  ai  clienti  piace  informarsi... 
Non  insisto.  Del  resto,  per  lo  spazzolino  da  denti,  il  campanello  e 
la  statua  di  Barbedienne,  il  signore  è  al  corrente  e  vi  risponderà 
come  potrei  farlo  io. 

{esce.  Un  momento  di  silenzio,  Gorcin  non  guarda  Ines,  Ines  si  guarda 
intorno,  poi  si  avvicina  bruscamente  a  Gorcin) 

INES  -  Dov*è  Fiorenza?  {silenzio  di  Gorcin)  Vi  domando  dov'è  Fio- 
renza? 

GARCIN  -  Non  ne  so  nulla. 

INES  -  È  tutto  qui  quello  che  avete  trovato?  La  tortura  della  lontanan- 
za? Ebbene,  vi  siete  sbagliato.  Fiorenza  era  una  piccola  sciocca 
e  non  la  rimpiango. 

GARCIN  -  Scusate:    per  chi  mi  prendete? 

INES  -  Voi?  voi  siete  il  carnefice. 

GARCIN  {ha  un  sussulto  e  poi  scoppia  a  ridere)  -  È  un  equivoco  proprio 
divertente.  Il  carnefice,  ma  davvero!  Siete  entrata,  mi  avete  guar- 
dato e  avete  pensato:  è  il  carnefice.  Che  stravaganza!  Il  cameriere 
è  stato  ridicolo,  avrebbe  dovuto  presentarci  Tuno  all'altra.  Il  car- 
nefice! Io  sono  Giuseppe  Garcin,  pubblicista  e  letterato.  La  verità 
è  che  siamo  alloggiati  sotto  lo  stesso  tetto.  Signora... 

INES  {seccamente)  -  Ines  Serrano.  Signorina. 

GARCIN  -  Benissimo.  Perfetto.  Ebbene,  il  ghiaccio  è  rotto.  Cosi,  voi  tro- 
vate che  ho  la  faccia  di  un  carnefice?  E  da  che  cosa  si  riconoscono, 
i  carnefici,  per  favore? 


Teatro  francese 


466  JEAN-PAUL   SARTRE 

INES  -  Hanno  l'aria  di  aver  paura. 

GARciN  -  Paura?  È  proprio  buffo.  E  di  chi?  Delle  loro  vittime? 

INES  -  Via!  So  quel  che  dico.  Mi  son  guardata  allo  specchio. 

GARciN  -  Allo  specchio?  {si  guarda  intorno)  È  insopportabile:  hanno 
tolto  tutto  quello  che  poteva  somigliare  a  uno  specchio,  {una  pausa) 
In  ogni  caso,  posso  affermarvi  che  non  ho  paura.  Non  prendo  la 
situazione  alla  leggera  e  sono  perfettamente  conscio  della  sua  gra- 
vità. Ma  non  ho  paura. 

INES  {stringendosi  nelle  spalle)  -  La  cosa  vi  riguarda,  (una  pausa)  Vi 
capita  di  tanto  in  tanto  di  andar  fuori  a  fare  un  giro? 

GARciN  -  La  porta  è  sprangata. 

INES  -  Pazienza. 

GARciN  -  Capisco  benissimo  che  la  mia  presenza  vi  importuna.  E  per- 
sonalmente, preferirei  rimaner  solo:  devo  mettere  in  ordine  la  mia 
vita  e  ho  bisogno  di  raccoglimento.  Ma  son  sicuro  che  potremo 
sopportarci  a  vicenda:  io  non  parlo,  non  mi  agito  mai,  e  faccio 
poco  rumore.  Soltanto,  se  posso  permettermi  un  consiglio,  sarà 
bene  conservare  fra  noi  un'estrema  gentilezza.  Sarà  la  nostra  mi- 
gliore difesa. 

INES  -  Io  non  sono  gentile. 

GARciN  -  Lo  sarò  dunque  per  due. 

{un  momento  di  silenzio.  Garcin  è  seduto  sul  divano,  Ines  passeggia 
su  e  gid) 

INES  {guardandolo)  -  La  vostra  bocca. 

GARCIN  {scosso  dolla  sua  meditazione)  -  Prego? 

INES  -  Non  potreste  tener  ferma  la  bocca?  Gira  come  una  trottola  sotto 
il  vostro  naso. 

GARCIN  -  Vi  chiedo  scusa:  non  me  ne  rendevo  conto. 

INES  -  È  proprio  quel  che  vi  rimprovero,  {tic  di  Garcin)  Ancora!  Pre- 
tendete d'esser  gentile  e  non  vi  preoccupate  del  vostro  viso.  Non 
siete  solo  e  non  avete  il  diritto  d'infliggermi  lo  spettacolo  della 
vostra  paura. 

{Garcin  si  alza  e  le  si  avvicina) 

GARCIN  -  Non  avete  paura,  voi? 

INES  -  A  che  serve?  La  paura,  andava  bene  prima,  quando  avevamo 

ancora  della  speranza. 
GARCIN  {con  dolcezza)  -  Non  c'è  più  speranza,  ma  siamo  sempre  prima. 

Non  abbiamo  incominciato  a  soffrire,  signorina. 
INES  -  Lo  so.  (una  pausa)  Allora?  Che  cosa  accadrà? 


PORTE   CHIUSE  467 

GARciN  -  Non  lo  SO.  Aspetto. 

{un  momento  di  silenzio.  Garcin  torna  a  sedersi,  Ines  ricomincia  il 
suo  andirivieni.  Garcin  ha  un  tic  alla  bocca,  pai,  dopo  un'occhiata 
a  Ines,  nasconde  il  viso  fra  le  mani.  Entrano  Estella  e  il  cameriere) 


SCENA   QUARTA 

INES,   GARCIN,    ESTELLA,    IL    CAMERIERE 

{Estella  guarda  Garcin  che  non  ha  alzato  la  testa) 

ESTELLA  {a  Garcin)  -  No!  No,  no,  non  alzar  la  testa.  Lo  so  cosa  na- 
scondi con  le  mani,  lo  so  che  non  hai  piò  viso.  {Garcin  si  toglie  le 
mani  dal  viso)  Ah!  {una  pausa.  Con  stupore)  Non  vi  conosco. 

GARCIN  -  Non  sono  il  carnefice,  signora. 

ESTELLA  -  Non  vi  avevo  preso  per  il  carnefice.  Ho...  ho  creduto  che 
qualcuno  volesse  farmi  uno  scherzo,  {d  cameriere)  Aspettate  qual- 
cun altro? 

IL  CAMERIERE  -  Non  Verrà  piti  nessuno. 

ESTELLA  {con  solUcvo)  -  Ah!  Allora  rimarremo  soli,  il  signore,  la  si- 
gnora e  io?  {si  mette  a  ridere) 

GARCIN  {seccamente)  -  Non  c'è  di  che  ridere. 

ESTELLA  {sempre  ridendo)  -  Ma  questi  divani  son  cosi  brutti.  E  guar- 
date come  sono  stati  disposti,  mi  sembra  d'essere  a  Capodanno  e  di 
trovarmi  in  visita  dalla  zia  Maria.  Ognuno  ha  il  suo,  suppongo. 
È  questo  il  mio?  {d  cameriere)  Ma  non  potrò  mai  sedermici  sopra; 
è  un  disastro:  io  sono  vestita  di  blu  chiaro  e  questo  e  verde 
scuro. 

INES  -  Volete  il  mio? 

ESTELLA  -  Il  divano  bordò?  Siete  molto  gentile,  ma  sarebbe  lo  stesso. 
No,  che  volete?  A  ciascuno  il  suo:  ho  avuto  quello  verde,  me  lo 
tengo,  {una  pausa)  L'unico  che  mi  andrebbe  veramente,  è  quello 
del  signore. 

{un  momento  di  silenzio) 

INES  -  Avete  sentito,  Garcin? 

GARCIN  {di  soprassdto)  -  II...  divano...  Oh!  Scusate,  {si  dza)  È  vostro, 

signora. 
ESTELLA  -  Grazie,  {si  toglie  il  soprabito  e  lo  butta  sul  divano.  Una  pau- 


468  JEAN-PAUL   SARTRE 

sa)  Facciamo  conoscenza  dato  che  dobbiamo  vivere  insieme.  Sono 
Estella  Rigault. 

{Garcin  s'inchina  e  sta  per  dire  il  suo  nome,  ma  Ines  lo  precede) 

INES  -  Ines  Serrano.  Felicissima. 
GARCIN  {/inchina  di  nuovo)  -  Giuseppe  Garcin. 
IL  CAMERIERE  -  Avete  ancora  bisogno  di  me? 
ESTELLA  -  No,  andate.  Vi  chiamerò. 

{il  cameriere  s'inchina  ed  esce) 


SCENA   QUINTA 

INES,  GARCIN,  ESTELLA 

INES  -  Siete  molto  bella.  Vorrei  aver  dei  fiori  per  augurarvi  il  ben- 
venuto. 

ESTELLA  -  Dei  fiori?  Si.  I  fiori  mi  piacevano  molto.  Qui  appassirebbero: 
è  troppo  caldo.  Mah!  L'essenziale,  vero?,  è  di  mantenersi  di  buon 
umore.  Voi  siete... 

INES  -  Si,  la  settimana  scorsa.  E  voi? 

ESTELLA  -  Io?  Ieri.  La  cerimonia  non  è  finita,  {parla  con  molta  natu- 
ralezza, ma  come  se  vedesse  ciò  che  descrive)  Il  vento  agita  il  velo 
di  mia  sorella.  Fa  quel  che  può  per  piangere.  Su!  Su!  ancora  uno 
sforzo.  Ecco!  Due  lacrime,  due  lacrimucce  che  brillano  sotto  il  velo 
nero.  Olga  Jardet  è  molto  brutta  stamani.  Sostiene  mia  sorella  per 
un  braccio.  Non  piange  per  via  del  rimmel  e  devo  dire  che  al  suo 
posto...  Era  la  mia  migliore  amica. 

INES  -  Avete  sofferto  molto? 

ESTELLA  -  No.  Ero  piuttosto  istupidita. 

INES  -  Che  cosa...? 

ESTELLA  -  Una  polmonite,  {stessa  mimica  di  prima)  Ebbene,  ecco  fatto, 
se  ne  vanno.  Buon  giorno!  Buon  giorno!  Quante  strette  di  mano. 
Mio  marito  è  affranto  dal  dolore,  è  rimasto  a  casa,  {a  Ines)  E  voi? 

INES  -  Il  gas. 

ESTELLA  -  E  voi,  signore? 

GARCIN  -  Dodici  pallottole  in  corpo,  {gesto  di  Estella)  Scusatemi,  non 
sono  un  morto  di  buona  compagnia. 

ESTELLA  -  Oh!  caro  signore!  Vi  chiederei  solo  di  non  adoperare  parole 
COSI  crude.  Mi...  mi  urtano.  E  alla  fin  fine,  cosa  vuol  dire  tutto 


PORTE   CHIUSE  469 

ciò?  Forse  non  siamo  mai  stati  cosf  vivi.  Se  si  deve  per  forza  dare 
un  nome  a  questo...  stato  di  cose,  io  propongo  di  chiamarci  assenti, 
sarà  più  corretto.  Siete  assente  da  molto  tempo? 

GARCiN  -  Da  un  mese  circa. 

ESTEixA  -  Di  dove  siete? 

GARciN  -  Di  Rio. 

ESTELLA  -  Io,  di  Parigi.  Avete  ancora  qualcuno  laggiù? 

GARciN  -  Mia  moglie,  (stessa  mimica  di  Estella)  È  venuta  alla  caserma 
come  ogni  giorno;  non  Thanno  lasciata  entrare.  Guarda  attraverso 
le  sbarre  del  cancello.  Non  sa  ancora  che  sono  assente,  ma  se  lo 
immagina.  Se  ne  va,  ora.  È  tutta  vestita  di  nero.  Meglio  cosf,  non 
avrà  bisogno  di  cambiarsi.  Non  piange;  non  piangeva  mai.  Brilla 
il  sole  e  lei  è  tutta  nera  nella  strada  deserta,  con  i  suoi  occhioni 
da  vittima.  Ahi  Mi  dà  ai  nervi. 

(un  momento  di  silenzio,  Garcin  va  a  sedersi  sul  divano  di  centro  e 
affonda  la  testa  fra  le  mani) 

INES  -  Estella! 

ESTELLA  -  Signor,  signor  Garcin  I 

GAKCiN  -  Prego? 

ESTELLA  -  Siete  seduto  sul  mio  divano. 

GARCIN  -  Scusate,  {si  alza) 

ESTELLA  -  Avete  l'aria  cosi  assorta. 

GARCIN  -  Metto  in  ordine  la  mia  vita.   {Ines  scoppia  a  ridere)  Quelli 

che  rìdono  farebbero  meglio  ad  imitarmi. 
INES  -  È  in  ordine,  la  mia  vita.  Completamente  in  ordine.  Si  è  messa 

in  ordine  da  sé,  laggiù,  io  non  ho  bisogno  di  preoccuparmene. 
GARCIN  -  Davvero?  Se  credete  che  sia  tanto  semplice!   {si  passa  una 

mano  sulla  fronte)  Che   caldo!  Permettete?    {ja  per  togliersi  la 

giacca) 
ESTELLA  -  Ah  no!  {con  pie  dolcezza)  No.  Non  posso  sopportare  gli 

uomini  in  maniche  di  camicia. 
GARCIN  {rimettendosi  la  giacca)  -  Va  bene,  {una  pausa)  Io,  passavo  le 

mìe  notti  nelle  sale  di  redazione.  C'era  sempre  un  caldo  da  cani. 

{una  pausa.  Stessa  mimica  di  prima)  C'è  un  caldo  da  cani.  È 

notte. 
ESTELLA  -  Davvero,  si,  è  già  notte.  Olga  si  spoglia.  Come  passa  presto 

il  tempo,  sulla  terra. 
INES  '  È  notte.  Hanno  messo  ì  sigilli  sulla  porta  della  mia  camera.  E 

la  camera  è  vuota  nel  buio. 
GARCIN  -  Hanno  posato  le  giacche  sullo  schienale  delle  sedie  e  rove- 


470  JEAN-PAUL    SARTRE 

sciato  le  maniche  delle  camicie  sopra  i  gomiti.  C'è  odor  d'uomo  e 

di  sigaro,  {un  momento  di  silenzio)  Mi  piaceva  vivere  in  mezzo  a 

uomini  in  maniche  di  camicia. 
ESTELLA  (seccamente)  -  Ebbene,  non  abbiamo  gli  stessi  gusti.  Ecco  cosa 

vuol  dire,  (verso  Ines)  Vi  piacciono,  a  voi,  gli  uomini  in  maniche 

di  camicia? 
INES  -  In  camicia  o  no,  gli  uomini  non  mi  piacciono  molto. 
ESTELLA  (guarda  l'uno  e  l'altra  con  stupore)  -  Ma  perché,  perché  ci 

hanno  riuniti? 
INES  (con  uno  scatto  represso)  -  Che  dite? 

ESTELLA  -  Vi  guardo  tutti  e  due  e  penso  che  vivremo  insieme...  M'aspet- 
tavo di  ritrovare  degli  amici,  dei  parenti. 
INES  -  Un  grande  amico  con  un  buco  in  mezzo  alla  faccia. 
ESTELLA  -  Anche  lui.  Ballava  il  tango  come  un  professionista.  Ma  noi, 

noiy  perché  ci  hanno  messo  insieme? 
GARciN  -  Ebbene,  è  il  caso.  Sistemano  la  gente  dove  possono,  seguendo 

l'ordine  di  arrivo,  (a  Ines)  Perché  ridete? 
INES  -  Perché  siete  divertente  col  vostro  caso.  Avete  cosi  bisogno  di 

rassicurarvi?  Loro  non  lasciano  nulla  al  caso. 
ESTELLA  (timidamente)  -  Ma  forse  ci  siamo  già  incontrati  altrove? 
INES  -  Mai.  Non  vi  avrei  dimenticata. 
ESTELLA  -  O  allora?  Abbiamo  forse  delle  relazioni  comuni?  Conoscete 

i  Dubois-Seymour? 
INES  -  Mi  stupirebbe. 
ESTELLA  -  Ricevono  tutti. 
INES  -  Cosa  fanno? 
ESTELLA  (sorpresa)  -  Non  fanno  nulla.  Hanno  un  castello  in  Corrèze 

e... 
INES  -  Io,  ero  impiegata  alle  Poste. 
ESTELLA  (indietreggiando  lievemente)  -  Ah?  Allora  effettivamente?... 

(una  pausa)  E  voi,  signor  Garcin? 
GARciN  -  Non  ho  mai  lasciato  Rio. 
ESTELLA  -  Se  è  COSI,  avete  perfettamente  ragione:  è  il  caso  che  ci  ha 

riuniti. 
INES  -  Il  caso.  Allora  questi  mobili  sono  qui  per  caso.  È  per  caso  che 

il  divano  di  destra  è  verde  scuro  e  quello  di  sinistra  e  rosso  bordò. 

Un  caso,  vero?  Ebbene,  provate  un  po'  a  cambiarli  di  posto  e  poi 

me  lo  direte.  E  la  statua  di  bronzo,  anche  quella  è  un  caso?  E 

questo  caldo?  E  questo  caldo?   (un  momento  di  silenzio)  Quando 

vi  dico  che  hanno  regolato  tutto.  Fin  nei  minimi  particolari,  con 

amore.  Questa  stanza  aspettava  noi. 


.      PORTE   CHIV8E  471 

ESTELLA  -  Ma  come  volete  che  sia  possibile?  Tutto  è  cosi  brutto,  qui, 

COSI  duro,  COSI  angoloso.  Io  detestavo  gli  angoli. 
INES   (stringendosi  nelle  spalle)  -  Credete  forse  che  io  vivessi  in  un 

salotto  Secondo  Impero? 

{una  pausa) 

ESTELLA  -  Allora  tutto  è  previsto? 

INES  -  Tutto.  E  noi  siamo  assortiti. 

ESTELLA  -  Non  è  per  caso  che  voi  siete  di  fronte  a  mei  (una  pausa) 
Che  cosa  aspettano? 

INES  '  Non  lo  so.  Ma  aspettano. 

ESTELLA  -  Non  posso  Sopportare  che  qualcuno  aspetti  qualcosa  da  me. 
È  una  cosa  che  mi  fa  venir  subito  la  voglia  di  fare  il  contrario. 

INES  -  Ebbene,  fatelo I  Fatelo  allora!  Non  sapete  neppure  quello  che 
vogliono. 

ESTELLA  (battendo  i  piedi)  -  È  insopportabile!  E  mi  deve  capitare  qual- 
che cosa  da  parte  vostra?  (//  guarda)  Da  voi  due.  C'erano  dei  visi 
che  mi  parlavano  subito.  E  i  vostri  non  mi  dicon  nulla. 

GARciN  (bruscamente  a  Ines)  -  Allora,  perché  siamo  insieme?  Avete 
parlato  troppo:  andate  fino  in  fondo. 

INES  (stupita)  -  Ma  non  ne  so  assolutamente  nulla. 

GARCiN  -  Bisogna  saperlo,  (riflette  un  momento) 

INES  -  Se  almeno  ciascuno  di  noi  avesse  il  coraggio  di  dire... 

GARciN  -  Cosa? 

INES  -  Estella! 

ESTELLA  -  Prego? 

INES  -  Che  avete  fatto?  Perché  vi  hanno  mandata  qui? 

ESTELLA  (vivacemente)  -  Ma  non  so,  non  so  proprio?  Mi  chiedo  perfino 
se  non  si  tratta  di  un  errore,  (a  Ines)  Non  sorridete.  Pensate  quanti 
sono  quelli  che...  che  si  assentano  ogni  giorno.  Vengono  qui  a  mi- 
gliaia e  si  trovano  a  contatto  solo  con  dei  subalterni,  con  degli  im- 
piegati senza  istruzione.  Come  volete  che  non  capiti  un  errore.  Ma 
non  sorridete,  (a  Garcin)  E  voi,  dite  qualcosa.  Se  si  sono  sba^iati 
nel  mìo  caso,  possono  essersi  sbagliati  nel  vostro,  (a  Ines)  E  anche 
nel  vostro.  Non  è  forse  meglio  credere  che  siamo  qui  per  sbaglio? 

INES  -  È  tutto  quello  che  avete  da  dirci? 

ESTELLA  '  Che  altro  volete  sapere?  Non  ho  nulla  da  nascondere.  Ero 
orfana  e  povera,  mi  occupavo  del  mio  fratello  minore.  Un  vecchio 
amico  di  mio  padre  ha  chiesto  la  mia  mano.  Era  ricco,  e  buono,  ho 
accettato.  Che  avreste  fatto  voi  al  mio  posto?  Mio  fratello  era  ma- 
lato e  la  sua  salute  aveva  bisogno  di  grandi  cure.  Ho  vissuto  sei 
anni  con  mio  marito  senza  mai  una  nube.  Due  anni  fa,  ho  incon- 


472  JEAN-PAUL    SARTRE 

trato  quello  che  dovevo  amare.  Ci  siamo  riconosciuti  subito,  voleva 
che  io  partissi  con  lui  e  ho  rifiutato.  Dopo,  ho  avuto  la  polmonite. 
Ecco  tutto.  Forse  si  potrebbe,  in  nome  di  certi  principi,  rimprove- 
rarmi d'aver  sacrificato  la  mia  giovinezza  a  un  vecchio,  {a  Gardn) 
Credete  che  sia  una  colpa? 

GARciN  -  No,  certo,  (una  pausa)  E  voi,  pensate  che  sia  una  colpa  vivere 
secondo  i  propri  principi? 

ESTELLA  -  Chi  potrebbe  rimproverarvelo? 

GARciN  -  Dirigevo  un  giornale  pacifista.  Scoppia  la  guerra.  Che  fare? 
Avevano  tutti  gli  occhi  fissi  su  di  me.  «  Oserà?  ».  Ebbene,  ho  osato. 
Ho  incrociato  le  braccia  e  loro  mi  hanno  fucilato.  Dov'è  la  colpa? 
Dov'è  la  colpa? 

ESTELLA  {gli  posa  la  mano  sul  braccio)  -  Non  c'è  nessuna  colpa.  Voi 
siete... 

INES  (conclude  ironicamente)  -  Un  Eroe.  E  vostra  moglie,  Garcin? 

GARciN  -  Ebbene,  ecco.  L'ho  tolta  dalla  strada. 

ESTELLA  (a  Ines)  -  Vedete!  Vedete! 

INES  -  Vedo,  (una  pausa)  Per  chi  recitate  la  commedia?  Siamo  fra  noi. 

ESTELLA  (con  insolcnzo)  '  Fra  noi? 

INES  -  Fra  assassini.  Siamo  all'inferno,  bimba  mia,  e  non  esistono  er- 
rori e  non  si  dannano  mai  le  persone  per  nulla. 

ESTELLA  -  Tacete. 

INES  -  All'inferno!  Dannati!  Dannati! 

ESTELLA  -  State  zitta.  Volete  stare  zitta?  Vi  proibisco  di  adoperare  delle 
parole  grossolane. 

INES  -  Dannata,  la  santarellina.  Dannato,  l'eroe  senza  macchia.  Abbia- 
mo avuto  la  nostra  ora  di  piacere,  non  è  vero?  C'è  chi  ha  sofferto 
per  noi  fino  alla  morte  e  questo  ci  divertiva  molto.  Ora  bisogna 
pagare. 

GARCIN  (con  la  mano  alzata)  -  Ci  starete  zitta? 

INES  ilo  guarda  senza  paura,  ma  con  un'immensa  sorpresa)  -  Ah!  (una 
pausa)  Aspettate!  Ho  capito,  so  perché  ci  hanno  messo  insieme! 

GARCIN  -  Fate  attenzione  a  quello  che  direte. 

INES  -  Vedrete  com'è  sciocco.  Sciocco  come  una  rapa.  Non  c'è  tortura 
fisica,  non  è  vero?  Eppure,  siamo  all'inferno.  E  non  deve  venire 
nessuno.  Nessuno.  Staremo  soli,  insieme  sino  alla  fine.  Non  è  così? 
Insomma,  c'è  qualcuno  che  manca  qui:  è  il  boia. 

GARCIN  (sottovoce)  -  Lo  SO  bene. 

INES  -  Ebbene,  sono  riusciti  a  realizzare  un'economia  di  personale. 
Ecco  tutto.  Sono  i  clienti  che  fanno  il  servizio  da  se  stessi,  come  in 
quei  ristoranti  in  cui  ognuno  si  serve  da  sé. 


PORTE   CHIUSE  473 

ESTELLA  -  Cosa  volctc  dire? 

INES  -  Il  carnefice  è  ciascuno  di  noi  per  gli  altri  due. 

(una  pausa.  Digeriscono  la  notizia) 

GARciN  (con  voce  dolce)  -  Io  non  sarò  il  vostro  carnefice.  Non  desidero 
farvi  del  male  e  non  ho  niente  a  che  fare  con  voi.  Niente.  È  sempli- 
cissimo. Allora  ecco:  ciascuno  al  proprio  posto;  facciamo  bella  mo- 
stra. Voi  qui,  voi  qua,  io  là.  E  silenzio.  Non  una  parola:  non  è 
difficile,  vero:  ciascuno  di  noi  ha  abbastanza  da  fare  con  se  stesso. 
Credo,  in  quanto  a  me,  che  potrei  stare  diecimila  anni  senza 
parlare. 

ESTELLA  -  Devo  Stare  zitta? 

GARciN  -  Si.  E  noi...  saremo  salvi.  Tacere.  Guardare  in  se  stessi,  senza 
mai  alzar  la  testa.  D'accordo? 

INES  -  D'accordo. 

ESTELLA  (dopo  un  attimo  d'esitazione)  -  D'accordo. 

GARciN  -  Allora,  addio 

(va  verso  il  suo  divano  e  si  mette  la  testa  fra  le  mani.  Silenzio,  Ines  ss 
mette  a  cantare  per  sé  sola) 

INES  -  Nella  via  dei  Mantelli  Bianchi 

Hanno  innalzato  dei  palchi 
E  messo  della  segatura  in  un  secchio; 
E  era  un  patibolo. 
Nella  via  dei  Mantelli  Bianchi. 

Nella  via  dei  Mantelli  Bianchi 
Il  carnefice  s'è  alzato  presto 
Perché  aveva  del  lavoro; 
Deve  decapitare  dei  Generali, 
dei  Vescovi,  degli  Ammiragli, 
Nella  via  dei  Mantelli  Bianchi. 

Nella  via  dei  Mantelli  Bianchi 

Son  venute  delle  signore  eleganti 

Con  dei  bei  fronzoli  in  mostra. 

Ma  mancava  loro  la  testa: 

Era  rotolata  di  lassù. 

La  testa  col  cappello. 

Nel  ruscello  dei  Mantelli  Bianchi. 


474  JEAN-PAUL   SARTRE 

{mentre  canta,  Estella  si  passa  la  cipria  e  si  dà  il  rossetto.  Estella  s'in- 
cipria e  si  volge  intomo  cercando  uno  specchio  con  aria  inquieta. 
Fruga  nella  borsetta  e  poi  si  rivolge  a  Garcin) 

ESTELLA  -  Signore,  avete  uno  specchio?  (Garcin  non  rispande)  Uno 
specchio,  uno  specchietto  tascabile,  qualunque  cosa?  (Garcin  non 
risponde)  Se  mi  lasciate  sola  sola,  procuratemi  almeno  uno  spec- 
chio. 

(Garcin  continua  a  tenere  la  testa  fra  le  mani,  senza  rispondere) 

INES  (con  premura)  -  Ce  Tho  io  uno  specchio  nella  borsetta,  (fruga 
nella  borsetta.  Con  stizza)  Non  ce  l'ho  più.  Han  dovuto  toglier- 
melo in  tribunale. 

ESTELLA  -  Com'è  seccante. 

(una  pausa.  Chiude  gli  occhi  e  vaàlla,  Ines  si  precipita  e  la  sorregge) 

INES  -  Cosa  avete? 

ESTELLA  (riapre  gli  occhi  e  sorride)  -  Mi  sento  strana,  (si  tocca)  Non 
vi  fa  lo  stesso  effetto,  a  voi:  quando  non  mi  vedo,  ho  un  bel  toc- 
carmi, mi  chiedo  se  esisto  veramente. 

INES  -  Siete  fortunata.  Io  mi  sento  sempre  dall'interno. 

ESTELLA  -  Ah!  SI,  dall'interno...  Tutto  quello  che  accade  nelle  teste  è 
COSI  vago,  mi  fa  addormentare,  (una  pausa)  Ci  sono  sei  grandi 
specchi  nella  mia  camera.  Li  vedo.  Li  vedo.  Ma  loro  non  mi  ve- 
dono. Riflettono  la  poltrona,  il  tappeto,  la  finestra...  com'è  vuoto 
uno  specchio  in  cui  non  ci  sono  io.  Quando  parlavo,  facevo  in  modo 
che  ce  ne  fosse  uno  in  cui  potessi  guardarmi.  Io  parlavo,  mi  vedevo 
parlare.  Mi  vedevo  come  gli  altri  mi  vedevano,  e  questo  mi  te- 
neva sveglia,  (con  disperazione)  Il  rossetto!  Sono  sicura  che  l'ho 
messo  male.  Eppure  non  posso  rimanere  senza  specchio  per  tutta 
l'eternità. 

INES  -  Volete  che  vi  serva  io  da  specchio?  Venite,  vi  invito  da  me. 
Sedetevi  sul  mio  divano. 

ESTELLA  (indica  Garcin)  -  Ma... 

INES  -  Non  occupiamoci  di  lui. 

ESTELLA  -  Ci  faremo  del  male,  l'avete  detto  voi. 

INES  -  Ho  forse  l'aria  di  volervi  nuocere? 

ESTELLA  -  Non  si  sa  mai... 

INES  -  Sei  tu  che  mi  farai  del  male.  Ma  che  m'importa.  Se  devo  sof- 
frire, tanto  vale  che  sia  per  causa  tua.  Siediti.  Avvicinati.  Ancora. 
Guarda  nei  miei  occhi:  cosa  ci  vedi? 


PORTE  CHIUSE  475 

ESTELLA  -  Sono  piccoU  piccola.  Mi  vedo  molto  male. 
INES  -  Ma  io  sf,  ti  vedo.  Tutta  intera.  Fammi  delle  domande.  Nessun 
specchio  sarà  più  fedele. 

{^stella,  impacciata,  si  volge  verso  Garcin,  come  per  chiedergli  aiuto) 

ESTELLA  -  Signore!  Signore!  Non  vi  annoiamo  con  le  nostre  chiac- 
chiere? 

{Garcin  non  risponde) 

INES  '  Lascialo  stare;  non  conta  più;  siamo  sole.  Interrogami. 

ESTELLA  -  Ho  messo  bene  il  rossetto? 

INES  -  Fa'  vedere.  No,  non  molto. 

ESTELLA  -  Me  l'immaginavo.  Per  fortuna  {getta  un'occhiata  a  Garcin) 
non  mi  ha  vista  nessuno.  Me  lo  ridòé 

INES  -  Cosi  va  meglio.  No.  Segui  il  disegno  delle  labbra;  ti  guiderò  io. 
Là,  là.  Va  bene. 

ESTELLA  -  Bene  come  prima,  quando  sono  entrata? 

INES  -  Meglio,  più  accentuato,  più  crudele.  La  tua  bocca  d'inferno. 

ESTELLA  -  Hum!  E  va  bene?  Com'è  seccante,  non  posso  più  giudicare 
da  me.  Mi  giurate  che  va  bene? 

INES  -  Non  vuoi  che  ci  si  dia  del  tu? 

ESTELLA  -  Mi  giuri  che  va  bene? 

INES  -  Sei  bella. 

ESTELLA  -  Ma  avete  gusto  voi?  Avete  il  mio  gusto?  Com'è  seccante, 
com'è  seccante. 

INES  -  Ho  il  tuo  gusto,  giacché  tu  mi  piaci.  Guardami  bene.  Sorri- 
dimi. Neanch'io  sono  brutta.  Non  valgo  forse  più  di  uno  specchio? 

ESTELLA  -  Non  lo  SO.  M'intimidite.  La  mia  immagine  riflessa  negli 
specchi  era  addomesticata.  La  conoscevo  cosi  bene...  Sorriderò:  il 
mio  sorriso  andrà  fino  in  fondo  alle  vostre  pupille  e  Dio  sa  che  cosa 
diventerà. 

INES  -  E  chi  t'impedisce  di  addomesticarmi?  {si  guardano.  Estella  sor- 
ride, un  po'  affascinata)  Non  vuoi  proprio  darmi  del  tu? 

ESTELLA  -  Provo  difficoltà  a  dar  del  tu  alle  donne. 

INES  -  E  in  particolare  alle  impiegate  di  posta,  suppongo?  Che  cos'hai 
là,  in  fondo  alla  guancia?  Una  macchia  rossa? 

ESTELLA  {sussultando)  -  Una  macchia  rossa,  che  orrore!  E  dove? 

INES  -  Là!  là!  Sono  lo  specchietto  per  le  allodole;  ti  tengo,  mia  lodo- 
letta.  Non  c'è  nessun  arrossamento.  Neppure  piccolissimo.  Eh?  Se 
lo  specchio  si  mettesse  a  mentire?  Oppure  se  chiudessi  gli  occhi, 
se  rifiutassi  di  guardarti,  che  ne  faresti  di  tutta  codesta  bellezza? 


476  JEAN-PAUL   SARTRE 

Non  aver  paura:    bisogna  che  ti  guardi,  i  mici  occhi  rimarranno 
spalancati.  E  sarò  gentile,  gentile  gentile.  Ma  tu  mi  dirai:   tu. 

{una  pausa) 

ESTELLA  -  Ti   piaccio? 
INES   -   Molto. 

{una  pausa) 

ESTELLA  {indicando  Garcin,  con  un  movimento  della  testa)  -  Vorrei 
che  mi  guardasse  anche  lui. 

INES  -  Ah!  Perche  è  uomo,  {a  Garcin)  Avete  vinto.  {Garcin  non  ri- 
sponde) Ma  guardatela,  su!  {Garcin  non  risponde)  Non  fate  la 
commedia;  non  avete  perduto  una  sillaba  di  quel  che  dicevamo. 

GARCIN  (alzando  bruscamente  la  testa)  -  Potete  ben  dirlo,  non  una 
sillaba:  avevo  voglia  di  mettermi  le  dita  nelle  orecchie,  mi  chiac- 
chieravate nella  testa.  Mi  lascerete  stare,  ora?  Non  ho  nulla  a  che 
fare  con  voi. 

INES  -  E  con  la  piccola,  avete  a  che  fare?  Ho  visto  il  vostro  maneggio: 
è  per  rendervi  interessante  che  vi  siete  dato  delle  arie. 

GARCIN  -  Vi  dico  di  lasciarmi  stare.  C'è  qualcuno  che  parla  di  me  al 
giornale  e  vorrei  ascoltare.  Me  ne  infischio  della  piccola,  se  questo 
può  tranquillizzarvi. 

ESTELLA  -  Grazie. 

GARCIN  -  Non  volevo  essere  sgarbato... 

ESTELLA  -  Villano! 

{una  pausa.  Sono  in  piedi  uno  in  faccia  all'altro) 

GARCIN  -  Ecco  fatto!  {una  pausa)  Vi  avevo  supplicato  di  tacere. 
ESTELLA  -  È  lei  che  ha  cominciato.  È  venuta  a  offrirmi  il  suo  specchietto 

e  io  non  le  chiedevo  nulla. 
INES  -  Nulla.  Solo  che  ti  strusciavi  contro  di  lui  e  facevi  delle  smorfie 

perché  ti  guardasse. 

ESTELLA    -    E    poi? 

GARCIN  -  Siete  pazze?  Non  vedete  proprio  dove  andiamo  a  finire.  Ma 
state  zitte!  (una  pausa)  Ci  metteremo  di  nuovo  a  sedere  molto  tran- 
quillamente, chiuderemo  gli  occhi  e  ciascuno  di  noi  cercherà  di  di- 
menticare la  presenza  degli  altri. 

{una  pausa.  Si  siede  di  nuovo,  Ines  e  Estella  vanno  al  loro  posto  con 
passo  esitante,  Ines  si  volta  bruscamente) 

INES  -  Ah!  dimenticare.  Che  puerilità!  Sento  la  vostra  presenza  fin  nelle 
ossa.  Il  vostro  silenzio  mi  grida  nelle  orecchie.  Potete  inchiodarvi 


PORTE   CHIUSE  477 

la  bocca,  potete  tagliarvi  la  lingua,  vi  impedirete  forse  di  esistere? 
Fermerete  il  pensiero?  Io  lo  sento,  fa  tic  tac,  come  una  sveglia  e 
so  che  anche  voi  sentite  il  mio.  Avete  un  bel  rincantucciarvi  sul  vo- 
stro divano,  siete  dappertutto,  i  suoni  mi  arrivano  sporcati  perché 
li  avete  sentiti  voi  mentre  passavano.  Mi  avete  rubato  perfino  il  viso; 
voi  lo  conoscete  e  io  non  lo  conosco.  E  lei?  lei?  me  l'avete  rubata: 
se  fossimo  sole,  credete  che  oserebbe  trattarmi  come  mi  tratta?  No, 
no:  via  quelle  mani  dal  viso,  non  vi  lascerò  stare,  sarebbe  troppo 
comodo.  Restereste  là,  insensibile,  immerso  in  voi  stesso  come  un 
budda;  ma,  anche  se  avessi  gli  occhi  chiusi,  sentirei  che  lei  vi  de- 
dica tutti  i  rumori  della  sua  vita,  fino  al  fruscio  del  suo  vestito,  e 
che  vi  rivolge  dei  sorrìsi  che  voi  non  vedete...  Non  voglio  questo! 
Voglio  scegliere  il  mio  inferno:  voglio  guardarvi  con  occhi  bene 
aperti  e  lottare  a  viso  scoperto. 

GARciN  -  Va  bene.  Credo  che  bisognasse  arrivare  a  questo  punto;  ci  han- 
no giocato  come  dei  bambini.  Se  mi  avessero  messo  con  degli  uo- 
mini... gli  uomini  sanno  stare  zitti.  Ma  non  bisogna  chiedere  trop- 
po, (t/a  verso  Estella  e  le  passa  la  mano  sotto  il  mento)  Allora,  pic- 
cola, ti  piaccio?  A  quanto  pare  mi  facevi  Tocchiolino? 

ESTELLA  -  Non  toccatemi. 

GARciN  .  Bah!  Non  facciamo  complimenti.  Le  donne  mi  piacevano  mol- 
to, sai?  Ed  io  piacevo  molto  a  loro.  Non  far  complimenti,  non  ab- 
biamo piò  nulla  da  perdere.  Della  gentilezza,  e  perché?  Delle  ceri- 
monie, e  perché?  Fra  noi!  Fra  poco  saremo  nudi  come  bruchi. 

ESTELLA  -  Lasciatemi! 

GARciN  -  Come  bruchi!  Ah!  vi  avevo  avvertite.  Non  vi  chiedevo  nulla, 
nuU'altro  che  la  pace  e  un  po'  di  silenzio.  M'ero  messo  le  dita 
nelle  orecchie.  C'era  Gomez  che  parlava  in  piedi  fra  i  tavoli,  e 
tutti  gli  amici  del  giornale  ascoltavano.  In  maniche  di  camicia. 
Volevo  capire  quel  che  dicevano,  era  difficile:  gli  avvenimenti 
della  terra  passano  cosf  alla  svelta.  Non  potevate  proprio  stare  zitte? 
Ora,  tutto  è  finito,  non  parla  piò,  quello  che  pensa  di  me  gli  è 
rientrato  in  testa.  Ebbene,  dovremo  andare  fino  in  fondo.  Nudi  co- 
me bruchi:  voglio  sapere  con  chi  ho  a  che  fare. 

INES  -  Lo  sapete.  Ora  lo  sapete. 

GARciN  -  Finché  ognuno  di  noi  non  avrà  confessato  il  motivo  per  cui 
l'hanno  condannato,  non  sapremo  nulla.  Tu,  bionda,  comincia  tu. 
Perché.  Dicci  perché:  la  tua  franchezza  può  evitare  delle  catastrofi; 
quando  conosceremo  i  nostri  mostri...  Su,  perché? 

ESTELLA  -  Quando  vi  dico  che  non  lo  so.  Non  hanno  voluto  dirmelo. 

CARciN  -  Lo  so.  Neppure  a  me  hanno  voluto  rispondere.  Ma  io  mi  co- 


478  JEAN-PAUL   SARTRE 

nosco.  Hai  paura  a  parlare  per  prima?  Benissimo.  Comincerò  io. 
{un  momento  di  silenzio)  Non  son  bello  davvero. 

INES  -  No  certo.  Si  sa  che  avete  disertato. 

GARciN  -  Lasciate  stare.  Non  parlate  mai  di  questo.  Son  qui  perché 
ho  torturato  mia  moglie.  Ecco  tutto.  Per  cinque  anni.  Beninteso, 
lei  continua  a  soffrire.  Eccola;  non  appena  parlo  di  lei,  la  vedo.  È 
Gomez  che  m'interessa  ed  è  lei  quella  che  vedo.  Dov'è  Gomcz? 
Per  cinque  anni.  Pensate  un  po',  le  hanno  restituito  i  miei  vestiti; 
lei  è  seduta  vicino  alla  finestra  e  ha  preso  la  mia  giacca  sulle  ginoc- 
chia. Una  giacca  con  dodici  buchi.  Il  sangue,  si  direbbe  della  rug- 
gine. Gli  orli  dei  buchi  sono  arrossati.  Ah!  È  un  pezzo  da  museo, 
una  giacca  storica.  E  io  Tho  portata!  Piangerai?  Finirai  per  pian- 
gere? Rientravo  ubriaco  fradicio,  puzzavo  di  vino  e  di  donne.  Lei 
mi  aveva  aspettato  tutta  la  notte;  non  piangeva.  Mai  un  rimpro- 
vero, naturalmente.  I  suoi  occhi,  soltanto.  I  suoi  occhioni.  Non  rim- 
piango nulla.  Pagherò,  ma  non  rimpiango  nulla.  Fuori  nevica.  Ma 
piangerai?  È  una  donna  che  ha  la  vocazione  del  martirio. 

INES  {quasi  con  dolcezza)  -  Perché  Tavete  fatta  soffrire? 

GARciN  -  Perché  era  facile.  Bastava  una  parola  per  farla  cambiare  di 
colore;  era  una  sensitiva.  Ah!  Mai  un  rimprovero!  Sono  molto  pun 
tiglioso.  Aspettavo,  aspettavo  sempre.  Ma  no,  non  una  lacrima,  non 
un  rimprovero.  L'avevo  tolta  dalla  strada,  capite?  Passa  la  mano 
sulla  giacca,  senza  guardarla.  Le  sue  dita  cercano  a  tastoni  i  buchi. 
Che  aspetti?  Che  speri?  Ti  dico  che  non  ho  rimpianti.  Insomma, 
ecco:  mi  ammirava  troppo.  Capite? 

INES  -  No.  Nessuno  mi  ammirava. 

GARciN  -  Tanto  meglio.  Tanto  meglio  per  voi.  Tutto  questo  deve  sem- 
brarvi astratto.  Ebbene,  ecco  un  episodio:  m'ero  portato  a  casa  una 
mulatta.  Che  notti!  Mia  moglie  dormiva  al  primo  piano,  ci  sentiva 
certamente.  Sì  alzava  per  prima  e,  siccome  noi  passavamo  la  mat- 
tinata a  letto,  lei  ci  portava  la  colazione. 

INES  -  Lurido! 

GARciN  -  Ma  SI,  ma  si,  il  lurido  beneamato.  {sembra  distratto)  No,  nul- 
la. È  Gomez,  ma  non  parla  di  me.  Un  lurido,  dicevate?  Diamine: 
se  no,  cosa  farei  qui?  E  voi? 

INES  -  Ebbene,  ero  quel  che  chiamano,  laggiù,  una  donna  dannata. 
Già  dannata,  vero?  Allora,  non  è  stata  una  gran  sorpresa. 

GARciN  -  Tutto  qui? 

INES  -  No,  c'è  anche  quella  storia  con  Fiorenza.  Ma  è  una  storia  di 
morti.  Tre  morti.  Lui  prima,  poi  lei  e  io.  Non  resta  piò  nessuno 
laggiù,  sono  tranquilla;  soltanto  la  camera.  Vedo  la  camera  di  tanto 


PORTE  CHIUSE  479 

in  tanto.  Vuota,  con  le  imposte  chiuse.  Ah!  Ah!  Hanno  finito  per 
togliere  i  sigilli.  Affittasi...  E  da  affittare.  C*è  un  cartello  sulla  porta. 
È  ridicolo. 

GARciN  -  Tre.  Avete  proprio  detto  tre? 

INES  -  Tre. 

GARciN  -  Un  uomo  e  due  donne. 

INES  -  Si. 

GARciN  -  Guarda,  {un  momento  di  silenzio)  Lui  s'è  ucciso? 

INES  -  Lui?  Non  ne  era  capace.  Eppure,  non  era  davvero  per  non  aver 
sofferto.  No:  l'ha  schiacciato  un  tram.  Roba  da  ridere!  Abitavo  da 
loro,  era  mio  cugino. 

GARciN  -  Fiorenza  era  bionda  ì^ 

INES  -  Bionda?  (uno  sguardo  a  Estella)  Sapete,  non  rimpiango  nulla, 
ma  non  mi  diverto  poi  tanto  a  raccontarvi  questa  storia. 

GARciN  -  Via!  via!  Lui  vi  aveva  nauseata? 

INES  -  Piano  piano.  Una  parola  ora,  una  domani.  Per  esempio,  faceva 
rumore  quando  beveva;  soffiava  col  naso  dentro  il  bicchiere.  Cose 
da  nulla.  Oh!  Era  un  poveraccio,  vulnerabile.  Perché  sorridete? 

GARciN  -  Perché  io  non  sono  vulnerabile. 

INES  -  È  una  cosa  da  vedersi.  Io  sono  entrata  dentro  di  lei,  lei  Tha 
visto  coi  miei  occhi...  Per  farla  corta,  m'è  rimasta  sulle  braccia. 
Abbiamo  preso  una  camera  nella  parte  opposta  della  città. 

GARciN  -  Allora? 

INES  -  Allora  c'è  stato  quel  tram.  Le  dicevo  tutti  i  giorni:  ebbene, 
bimba  mia!  L'abbiamo  ucciso,  {un  momento  di  silenzio)  Sono  cat- 
tiva. 

GARciN  -  Si.  Anch'io. 

INES  -  No,  voi,  voi  non  siete  cattivo.  È  un'altra  cosa. 

GARCiN  -  Come? 

INES  -  Poi  ve  Io  dirò.  Io  si,  sono  cattiva:  voglio  dire  che  ho  bisogno 
della  sofferenza  degli  altri  per  esistere.  Una  vera  torcia.  Una  torcia 
nei  cuori.  Quando  sono  sola,  mi  spengo.  Per  sei  mesi,  ho  bruciato 
nel  suo  cuore;  ho  bruciato  tutto.  Una  notte  lei  si  è  alzata;  è  andata 
ad  aprire  il  rubinetto  del  gas  senza  farsene  accorgere,  e  poi  è  tor- 
nata a  letto  accanto  a  me.  Ecco. 

GARciN  -  Hum! 

INES  -  Come? 

GARciN  -  Nulla.  Non  è  una  bella  cosa. 

INES  -  Ebbene,  no,  non  è  bella.  E  con  questo? 

GARciN  -  Oh!  avete  ragione,  {a  Estella)  Tocca  a  te.  Cosa  hai  fatto? 


480  JEAN-PAUL  SARTRE 

ESTELLA  -  Vi  ho  già  dctto  chc  non  ne  sapevo  nulla.  Ho  un  bell'inter- 
rogarmi... 

GARciN  -  Va  bene.  Allora,  ti  aiuteremo  noi.  Quel  tipo  dalla  faccia  spac- 
cata, chi  è? 

ESTELLA  -  Quale  tipo? 

INES  -  Lo  sai  benissimo.  Quello  di  cui  avevi  paura,  quando  sei  entrata. 

ESTELLA  -  È  un  amìco. 

GARciN  -  Perché  avevi  paura  di  lui? 

ESTELLA  -  Non  avete  il  diritto  d'interrogarmi. 

INES  -  S*è  ammazzato  per  colpa  tua? 

ESTELLA  -  Ma  no,  siete  pazza. 

GARciN  -  Allora,  perché  ti  faceva  paura?  S'è  tirato  una  fucilata  in  fac- 
cia, eh?  È  questo  che  gli  ha  portato  via  la  testa? 

ESTELLA  -  Tacete!  tacete! 

GARciN  -  Per  colpa  tua!  Per  colpa  tua! 

INES  -  Una  fucilata  per  colpa  tua. 

ESTELLA  -  Lasciatemi  in  pace.  Mi  fate  paura.  Voglio  andarmene!  Vo- 
glio andarmene  Y  {si  precipita  verso  la  porta  e  la  scuote) 

GARciN  -  Vattene.  Io  non  chiedo  di  meglio.  Solo  che  la  porta  è  chiusa 
dal  di  fuori. 

{Estella  suona;  il  campanello  non  si  sente,  Ines  e  Garcin  ridono. 
Estella  si  volta  verso  di  loro,  addossandosi  alla  porta) 

ESTELLA  {con  vocc  roucu  e  lentamente)  -  Siete  ignobili. 

INES  -  Esattamente,  ignobili.  E  con  questo?  Dunque  quel  tipo  s'è  am- 
mazzato per  colpa  tua.  Era  il  tuo  amante? 

GARCIN  -  Naturalmente,  era  il  suo  amante.  E  ha  voluto  averla  per  sé 
solo.  Non  è  vero? 

INES  -  Ballava  il  tango  come  un  professionista,  ma  era  povero,  m'im- 
magino. 

{un  momento  di  silenzio) 

GARCIN  -  Ti  stiamo  chiedendo  se  era  povero. 

ESTELLA  -  Si,  era  povero. 

GARCIN  -  E  poi,  tu  avevi  la  tua  reputazione  da  salvare.  Un  giorno  è 
venuto,  ti  ha  supplicato,  e  tu  ti  sei  messa  a  rìdere. 

INES  -  Eh?  Eh?  Ti  sei  messa  a  ridere?  È  per  questo  che  s'è  ammaz- 
zato? 

ESTELLA  -  È  con  codcsti  occhi  che  guardavi  Fiorenza? 

INES  -  Si. 

{una  pausa.  Estella  si  mette  a  ridere) 


PORTE   CHIUSE  481 

ESTELLA  -  Non  ci  avctc  azzeccato,  (si  raddrizza  e  li  guarda,  rimanendo 
sempre  appoggiata  dia  porta.  Con  tono  secco  e  provocante)  Voleva 
farmi  fare  un  bimbo.  Ecco,  siete  contenti? 

GARciN  -  E  tu,  non  ne  volevi  sapere. 

ESTELLA  -  No.  Il  bimbo  è  venuto  lo  stesso.  Sono  andata  a  passare  cin- 
que mesi  in  Svizzera.  Nessuno  ha  saputo  nulla.  Era  una  bambina. 
Ruggero  era  con  me  quando  è  nata.  Avere  una  figlia  lo  divertiva. 
Me,  no. 

GARciN  -  E  poi? 

ESTELLA  '  C  era  un  balcone,  sopra  un  lago.  Ho  portato  una  gran  pie- 
tra. Lui  gridava:  «  Estella,  ti  prego,  ti  supplico  ».  Lo  detestavo.  Ha 
visto  tutto.  Se  affacciato  al  balcone  e  ha  visto  dei  cerchi  sul  lago. 

GARciN  -  E  poi? 

ESTELLA  -  Poi  basta.  Sono  tornata  a  Parigi.  Lui  ha  fatto  quel  che  ha 
voluto. 

GARciN  -  S*è  fatto  saltare  le  cervella? 

ESTELLA  -  Eh  SI.  Non  ne  valeva  la  pena;  mio  marito  non  s'è  mai  ac- 
corto di  nulla,  {una  pausa)  Vi  odio,  {ha  una  crisi  di  singhiozzi 
senza  lacrime) 

GARciN  -  È  inutile.  Qui  non  esistono  lacrime. 

ESTELLA  -  Sono  vile!  Sono  vile,  {una  pausa)  Se  sapeste  quanto  vi  odio! 

INES  {abbracciandola)  -  Povera  piccola  mia!  {a  Garcin)  L'inchiesta  è 
finita.  Inutile  continuare  ad  avere  codesto  muso  da  carnefice. 

GARCIN  -  Da  carnefice...  {si  guarda  intorno)  Darei  qualunque  cosa  per 
vedermi  in  uno  specchio,  {una  pausa)  Come  fa  caldo!  {si  toglie 
macchinalmente  la  giacca)  Oh!  scusate,  {fa  il  gesto  di  rimettersela) 

ESTELLA  -  Potete  rimanere  in  maniche  di  camicia.  Ora... 

GARCIN  -  Si.  {getta  la  giacca  sul  divano)  Non  dovete  essere  in  collera 
con  me,  Estella. 

ESTELLA  -  Non  souo  in  collera  con  voi. 

INES  -  E  con  me?  Sei  in  collera  con  me? 

ESTELLA  -   Si. 

{un  momento  di  silenzio) 

INES  -  Ebbene,  Garcin?  Eccoci  qui  nudi  come  bruchi,  ci  vedete  più 
chiaro? 

GARCIN  -  Non  lo  so.  Forse  un  po'  più  chiaro,  {timidamente)  Non  po- 
tremmo cercare  di  aiutarci  uno  con  l'altro? 

INES  -  Non  ho  bisogno  di  aiuto. 

GARCIN  -  Ines,  hanno  ingarbugliato  tutti  i  fili.  Al  minimo  gesto  che 
fate,  se  alzate  la  mano  per  farvi  vento,  Estella  e  io  sentiamo  una 


31.  -  Ttrairo  francese 


482  JEAN-PAUL   SARTRE 

scossa.  Nessuno  di  noi  può  salvarsi  da  solo;  dobbiamo  perderci  o 
trarci  d'impaccio  insieme.  Scegliete,  {una  pausa)  Che  c'è? 

INES  -  L'hanno  affittata.  Le  finestre  sono  spalancate,  c'è  un  uomo  se- 
duto sul  mio  letto.  L'hanno  affittata!  l'hanno  affittata!  Entrate,  en- 
trate pure,  fate  il  vostro  comodo.  È  una  donna.  Si  avvicina  a  lui 
e  gli  mette  le  mani  sulle  spalle...  Che  cosa  aspettano  per  accendere 
la  luce;  non  ci  si  vede  più;  stanno  forse  per  baciarsi?  Quella  è 
camera  mia!  È  mia!  E  perché  non  accendono?  Non  riesco  piò  a 
vederli.  Che  cosa  bisbigliano?  La  accarezzerà  sul  mìo  letto.  Lei  gli 
dice  che  è  mezzogiorno  e  che  c'è  tanto  sole.  Allora,  vuol  dire  che 
divento  cieca,  (una  pausa)  Finito.  Pid  nulla:  non  vedo  più,  non 
sento  più.  Ebbene,  penso  d'averla  finita  con  la  terra.  Non  piò 
alibi,  (rabbrividendo)  Mi  sento  vuota.  Ora  si,  son  morta  del  tutto. 
Sono  qui  tutta  quanta,  {una  pausa)  Dicevate?  Parlavate  di  aiutar- 
mi, credo? 

GARCIN  -  Si. 

INES  -  A  che  cosa? 

GARCIN  -  A  sventare  le  loro  astuzie. 

INES  -  E  io,  in  cambio? 

GARCIN  -  Mi  aiuterete.  Ci  vorrebbe  poco,  Ines:  giusto  un  po'  di  buona 
volontà. 

INES  -  Della  buona  volontà...  Dove  volete  che  ne  prenda?  Sono  marcia. 

GARCIN  -  E  io?  {una  pausa)  Eppure,  se  provassimo? 

INES  -  Sono  arida.  Non  posso  né  dare,  né  ricevere;  come  volete  che  vi 
aiuti?  Un  ramo  secco,  sta  per  prender  fuoco,  {una  pausa;  guarda 
Estella  che  si  tiene  la  testa  fra  le  mani)  Fiorenza  era  bionda. 

GARCIN  -  Lo  sapete  che  questa  piccola  sarà  il  vostro  carnefice? 

INES  -  Può  darsi  che  me  lo  immagini. 

GARCIN  -  È  per  suo  mezzo  che  vi  avranno.*  Per  quel  che  mi  riguarda, 
io...  io...  non  le  do  nessuna  importanza.  Se  da  parte  vostra... 

INES  -  Cosa? 

GARCIN  -  È  una  trappola.  Vi  spiano  per  sapere  se  ci  cascherete. 

INES  -  Lo  so.  E  voi,  siete  voi  una  trappola.  Credete  forse  che  non  ab- 
biano previsto  le  vostre  parole?  E  che  non  vi  si  nascondano  dei 
trabocchetti  che  non  possiamo  vedere?  Tutto  è  trappola.  Ma  cosa 
importa?  Anch'io  sono  una  trappola.  Una  trappola  per  lei.  E  forse 
sarò  io  a  pigliarcela. 

GARCIN  -  Voi  non  piglierete  nulla.  Noi  ci  rincorriamo  come  i  cavalli  di 
legno  delle  giostre,  senza  raggiungerci  mai;  state  pur  sicura  che 
hanno  predisposto  tutto.  Lasciate  perdere,  Ines.  Aprite  le  mani^ 
lasciate  andare.  Se  no,  causerete  la  disgrazia  di  tutti  e  tre. 


PORTE   CHIUSB  483 

INES  -  Son  forse  un  tipo  da  lasciare  andare?  So  quel  che  mi  aspetta. 
Brucerò,  brucio  e  so  che  non  avrà  fine;  so  tutto:  credete  che  la- 
scerò andare?  L'avrò,  lei  vi  vedrà  coi  miei  occhi,  come  Fiorenza 
vedeva  l'altro.  Cosa  venite  a  parlarmi  della  vostra  disgrazia:  vi 
dico  che  so  tutto  e  che  non  posso  neppure  aver  pietà  di  me.  Una 
trappola,  ah!  una  trappola.  Certo  che  son  caduta  nella  trappola.  E 
con  dò?  Tanto  meglio,  se  sono  contenti. 

GARciN  (afferrandola  per  le  spalle)  -  Io  posso  aver  pietà  di  voi.  Guar- 
datemi: siamo  nudi.  Nudi  fino  al  midollo  e  io  vi  conosco  fino  al 
cuore.  È  un  legame:  credete  che  vorrei  farvi  del  male?  Non  rim- 
piango nulla,  non  mi  lamento;  anch'io  sono  arido.  Ma  di  voi  posso 
avere  pietà. 

INES  {che  l'ha  lasciato  fare  mentre  parlava,  si  scuote)  -  Non  toccatemi. 
Non  sopporto  che  mi  si  tocchi.  E  tenetevi  la  vostra  pietà.  Andia- 
mo! Ci  sono  molte  trappole  anche  per  voi,  Garcin,  in  questa  stanza. 
Per  voi.  Preparate  per  voi.  Fareste  meglio  ad  occuparvi  dei  vostri 
affari,  {una  pausa)  Se  ci  lascerete  completamente  tranquille,  la  pic- 
cola e  me,  farò  in  modo  da  non  nuocervi. 

GARCIN  {la  guarda  un  momento,  poi  alza  le  spalle)  -  Va  bene. 

ESTELLA  {alzando  la  testa)  -  Aiuto,  Garcin. 

GARCIN  -  Cosa  volete  da  me? 

ESTELLA  {dzandosi  e  avvicinandosi  a  lui)  -  Me,  potete  aiutarmi. 

GARCIN  -  Rivolgetevi  a  lei. 

{Ines  s'è  avvicinata,  si  mette  vicinissima  a  Estella,  die  sue  spalle,  senza 
toccarla.  Durante  le  battute  seguenti,  le  parlerà  quasi  df orecchio. 
Ma  Estella,  rivolta  verso  Garcin,  che  la  guarda  senza  parlare,  ri- 
sponde unicamente  a  lui,  come  se  fosse  lui  ad  interrogarla) 

ESTELLA  -  Ve  ne  prego,  avete  promesso,  Garcin,  avete  promesso!  Pre- 
sto, presto,  non  voglio  rimaner  sola.  Olga  l'ha  portato  a  ballare. 

INES  -  Chi  ha  portato? 

ESTELLA  -  Pietro.  Ballano  insieme. 

INES  -  Chi  è  Pietro? 

ESTELLA  -  Uno  stupidcUo.  Mi  chiamava  la  sua  acqua  viva.  Mi  amava. 
E  lei  l'ha  portato  a  ballare. 

INES  -  Lo  ami? 

ESTELLA  -  Ritornano  al  tavolo.  Lei  non  ne  può  più.  Perché  balla?  A 
meno  che  non  sia  per  dimagrire.  Certo  no.  Certo  che  non  l'ama- 
vo: ha  diciotto  anni  e  io  non  sono  un'orchessa,  io. 

INES  -  Allora  lasciali  stare.  Che  te  ne  importa? 

ESTELLA  -  Era  mio. 


484  JEAN-PAUL   SARTRE 

INES  -  Non  c'è  più  nulla  di  tuo  sulla  terra. 

ESTELLA  -  Era  mio. 

INES  -  Si,  era.y  Prova  a  prenderlo,  prova  a  toccarlo.  Olga  può  toccarlo, 
lei.  Non  è  vero?  Non  è  vero?  Lei  può  prendergli  le  mani,  sfio- 
rargli il  ginocchio. 

ESTELLA  -  Gli  avvicina  il  suo  petto  enorme,  gli  respira  sul  viso.  Pol- 
licino, povero  Pollicino,  che  aspetti  per  scoppiarle  a  ridere  in  fac- 
cia? Ah!  Mi  sarebbe  bastato  uno  sguardo,  lei  non  avrebbe  mai 
osato...  Davvero  non  sono  più  nulla? 

INES  -  Più  nulla.  Non  c'è  più  nulla  di  tuo  sulla  terra:  tutto  quel  che 
t'appartiene  è  qui.  Vuoi  il  tagliacarte?  La  statua  di  bronzo  di  Bar- 
bedienne?  Il  divano  azzurro  è  tuo.  E  io,  bimba  mia,  io  sono  tua 
per  sempre. 

ESTELLA  -  Ah!  Mia?  Ebbene,  chi  di  voi  due  oserebbe  chiamarmi  la 
sua  acqua  viva?  Non  vi  s'inganna,  voi  altri,  voi  lo  sapete  che  sono 
una  lordura.  Pensa  a  me,  Pietro,  pensa  solo  a  me,  difendimi;  fin- 
ché tu  pensi:  la  mia  acqua  viva,  la  mia  cara  acqua  viva,  io  sono 
qui  solo  per  metà,  sono  colpevole  solo  per  metà,  sono  acqua  viva 
laggiù,  vicino  a  te.  Lei  è  rossa  come  un  pomodoro.  Ma  via,  è 
impossibile:  cento  volte  abbiamo  rìso  insieme  di  lei.  Che  cos'è  quel- 
l'aria là?  Mi  piaceva  tanto!  Ah!  è  Saint  Ljouìs  Blues..,  Ebbene,  bal- 
late, ballate.  Vi  divertireste,  Garcin,  se  poteste  vederla.  E  lei  non 
saprà  mai  che  io  la  vedo.  Ti  vedo,  ti  vedo,  tutta  spettinata,  la  fac- 
cia sfatta,  vedo  che  gli  pesti  i  piedi.  C'è  da  morir  da  ridere.  Via! 
Più  svelto!  Lui  la  tira,  la  spinge.  È  una  cosa  indecente.  Più  svelto! 
Mi  diceva:  siete  cosi  leggera.  Su,  Su!  (balla  mentre  parlai  Ti  dico 
che  ti  vedo.  Lei  se  n'infischia,  balla  attraverso  il  mio  sguardo.  La 
nostra  cara  Estella!  Cosa,  la  nostra  cara  Estella!  Ah!  Ma  taci!  Non 
hai  neppure  versato  una  lacrima  al  trasporto.  Lei  gli  ha  detto  (da 
nostra  cara  Estella  ».  Ha  la  faccia  tosta  di  parlargli  di  me.  Su!  a 
tempo.  Lei  non  è  certo  capace  di  parlare  e  ballare  nello  stesso  tem- 
po. Ma  cosa  fa...  No!  no!  non  glielo  dire!  te  lo  lascio,  portalo  via, 
tientelo,  fanne  quel  che  vuoi,  ma  non  dirgli...  (ha  smesso  di  bal- 
lare) Va  bene.  Va  bene,  puoi  tenertelo  ora.  Gli  ha  detto  tutto,  Gar- 
cin: Ruggero,  il  viaggio  in  Svizzera,  il  bimbo,  gli  ha  raccontato 
tutto.  «La  nostra  cara  Estella  non  era...»  No,  no,  effettivamente 
non  ero...  Lui  scuote  la  testa  con  aria  triste,  ma  non  si  può  dire  che 
la  notizia  l'abbia  sconvolto...  Tientelo  ora.  Non  sono  certo  le  sue 
lunghe  ciglia  né  il  suo  aspetto  da  ragazzina,  che  io  ti  contenderò. 
Ah!  mi  chiamava  la  sua  acqua  viva,  il  suo  cristallo.  Ebbene,  il 
cristallo  è  in  briciole.  «La  nostra  cara  Estella  ».  Ballate,  ballate,  su! 


PORTE   CHIUSE  485 

A  tempo.  Uno,  due.  (balla)  Darei  tutto  al  mondo  per  ritornare 
sulla  terra  un  istante,  un  solo  istante,  e  per  ballare,  (balla;  una 
pausa)  Non  sento  più  molto  bene.  Hanno  spento  le  luci  come  per 
un  tango;  perché  suonano  in  sordina?  Più  forte!  Com'è  lontano! 
Non...  non  sento  più  nulla,  (smette  di  ballare)  Mai  più.  La  terra 
m'ha  lasciato.  Garcin,  guardami,  prendimi  fra  le  braccia. 

.   (Ines,  dietro  le  spalle  di  Estella,  fa  segno  a  Garcin  di  allontanarsi) 

INES  (imperiosamente)  -  Garcin! 

GARCIN  (indietreggia  d'un  passo  e  indica  Ines  a  Estella)  -  Rivolgetevi 
a  lei. 

ESTELLA  (l'afferra)  -  Non  andatevene!  Siete  un  uomo,  no?  Ma  guarda- 
temi dunque,  non  guardate  altrove:  è  dunque  cosi  penoso?  Ho  i 
capelli  d'oro,  e,  dopo  tutto,  c'è  stato  qualcuno  che  s'è  ammazzato 
per  me.  Vi  supplico,  bisogna  pure  che  guardiate  qualche  cosa.  Se 
non  guardate  me,  guarderete  la  statua  di  bronzo,  il  tavolino  o  ì 
divani.  Perlomeno  son  più  piacevole  a  guardare.  Ascolta:  sono  ca- 
duta dai  loro  cuori  come  un  uccellino  cade  dal  nido.  Raccoglimi, 
prendimi,  nel  tuo  cuore,  vedrai  come  sarò  carina. 

GARCIN  (respingendola  con  sforzo)  -  Vi  dico  di  rivolgervi  a  lei. 

ESTELLA  -  A  lei?  Ma  lei  non  conta:  è  una  donna. 

INES  -  Non  conto?  Ma,  uccellino  mio,  lodoletta,  è  tanto  tempo  che  sei 
al  riparo  nel  mio  cuore.  Non  aver  paura,  io  ti  guarderò  senza  so- 
sta, senza  batter  ciglio.  Vivrai  nel  mio  sguardo  come  una  pagliuzza 
in  un  raggio  di  sole. 

ESTELLA  -  Un  raggio  di  sole?  Ah!  Piantatela.  Avete  tentato  il  colpo  un 
momento  fa  e  avete  ben  visto  che  non  è  riuscito. 

INES  -  Estclla!  Mia  acqua  viva,  mio  cristallo. 

ESTELLA  -  Il  vostro  Cristallo?  È  grottesco.  Chi  credete  di  prendere  in 
giro?  Andiamo,  lo  sanno  tutti  che  ho  buttato  la  bimba  dalla  fine- 
stra. Il  cristallo  è  in  briciole  sulla  terra  e  me  ne  infischio.  Non  son 
più  che  una  pelle,  e  la  mia  pelle  non  è  per  voi. 

INES  -  Vieni!  Sarai  quello  che  vorrai:  acqua  viva,  acqua  sporca,  ti 
ritroverai  in  fondo  ai  miei  occhi  proprio  come  tu  ti  desideri. 

ESTELLA  -  Lasciatemi!  Non  avete  occhi!  Ma  che  cosa  devo  fare  perché 
tu  mi  lasci?  Tieni!  (le  sputa  in  faccia.  Ines  la  lascia  di  scatto) 

INES  -  Garcin!  Me  la  pagherete! 

(una  pausa.  Garcin  si  stringe  nelle  spalle  e  si  avvicina  a  Estella) 

GARCIN  -  Allora?  Vuoi  un  uomo? 

ESTELLA  -  Un  uomo,  no.  Te. 

GARCIN  -  Poche  storie.  Chiunque  farebbe  al  caso  tuo.  Mi  son  trovato 


486  JEAN-PAUL   SARTRE 

qui  io,  vuoi  me.  Bene,  {la  prende  per  le  spalle)  Non  ho  niente  per 
poterti  piacere,  sai:   non  sono  uno  stupidello  e  non  balio  il  tango. 

ESTELLA  -  Ti  prenderò  come  sci.  Forse  ti  farò  cambiare. 

GARciN  -  Ne  dubito.  Sarò...  distratto.  Ho  altre  cose  per  la  testa. 

ESTELLA  -  Quali  cose? 

€ARciN  -  Non  ti  interesserebbero. 

ESTELLA  -  Mi  metterò  a  sedere  sul  tuo  divano.  Aspetterò  che  tu  ti 
occupi  di  me. 

INES  (scoppiando  a  ridere)  -  Ah!  cagna!  Ai  suoi  piedi!  Ai  suoi  piedi  1 
E  non  è  neanche  bello! 

ESTELLA  {a  Garcin)  -  Non  l'ascoltare.  Non  ha  occhi,  non  ha  orecchie. 
Non  conta. 

GARCIN  -  Ti  darò  quel  che  potrò.  Non  è  molto.  Non  ti  amerò:  ti  cono- 
sco troppo. 

ESTELLA  -  Mi  desideri? 

GARCIN  -  Si. 

ESTELLA  -  È  tutto  qucllo  che  voglio. 

GARCIN  -  Allora...  (si  china  su  di  lei) 

INES  -  Estella!  Garcin!  Perdete  la  testa!  Ma  son  qui,  io! 

GARCIN  -  Lo  vedo  bene,  e  con  questo? 

INES  -  Davanti  a  me?  Non...  non  potete! 

ESTELLA  -  Perché?  Mi  spogliavo  pure  davanti  alla  cameriera. 

INES  (aggrappandosi  a  Garcin)  -  Lasciatela!  Lasciatela!  Non  toccatela 
con  le  vostre  sporche  mani  d*uomo. 

GARCIN  (respingendola  con  violenza)  -  Va',  va':  non  sono  un  gentiluo- 
mo, non  avrò  certo  paura  a  picchiare  una  donna. 

INES  -  Mi  avevate  promesso,  Garcin,  mi  avevate  promesso!  Ve  ne  sup- 
plico, mi  avevate  promesso! 

GARCIN  -  Siete  stata  voi  a  rompere  il  patto. 

(Ines  si  svincola  e  indietreggia  fino  in  fondo  alla  stanza) 

INES  -  Fate  quel  che  volete,  siete  voi  i  più  forti.  Ma  ricordatevi  che  son 
qui  e  vi  guardo.  Non  vi  toglierò  gli  occhi  di  dosso,  Garcin;  dovrete 
baciarla  sotto  i  miei  occhi.  Come  vi  odio  tutti  e  due!  Amatevi,  ama- 
tevi! Siamo  all'inferno  e  avrò  la  mia  rivincita. 

(durante  la  scena  seguente,  li  guarderà  senza  pronunciare  una  sillaba. 
Garcin  ritorna  verso  Estella  e  la  prende  per  le  spalle) 

GARCIN  -  Dammi  la  bocca,  (una  pausa.  Si  china  su  di  lei  e  si  rialza 

bruscamente) 
ESTELLA  (con  un  gesto  di  stizza)  -  Ah!  (una  pausa)  11  ho  detto  di  non 

fare  attenzione  a  lei. 


PORTE   CHIUSE  487 

GARciN  '  Si  tratta  proprio  di  lei!  (una  pausa)  Gomez  è  al  giornale.  Han- 
no chiuso  le  finestre;  allora  è  inverno.  Sei  mesi.  Sono  sei  mesi  che 
mi  hanno...  Non  t'ho  avvertita  che  mi  sarebbe  capitato  d'esser  di- 
stratto? Tremano;  hanno  tenuto  le  giacchette...  È  buffo  che  abbia- 
no cosi  freddo,  laggiù;  e  io  ho  cosi  caldo.  Questa  volta,  parla  di  me. 

ESTELLA  -  Durerà  molto?  {una  pausa)  Dimmi  almeno  quel  che  rac- 
conta. 

GARciN  -  Nulla.  Non  racconta  nulla.  È  un  porco,  ecco  tutto,  {porge 
l'orecchio)  Un  bel  porco.  Bah!  {si  avvicina  a  Estella)  Ritorniamo 
a  noi?  Mi  amerai? 

ESTELLA  {sorridendo)  -  Chissà? 

GARciN  -  Avrai  fiducia  in  me? 

ESTELLA  -  Che  buffa  domanda:  ti  avrò  sempre  sotto  gli  occhi  e  non  è 
certo  con  Ines  che  mi  tradirai. 

GARciN  -  Evidentemente,  {una  pausa.  Lascia  andare  le  spalle  di  Estella) 
Io  parlavo  di  un'altra  fiducia,  {ascolta)  Va'!  Va'!  di'  quel  che  vuoi; 
io  non  sono  li  a  difendermi,  {a  Estella)  Estella,  devi  aver  fiducia 
in  me. 

ESTELLA  -  Quante  difficoltà!  Ma  hai  la  mia  bocca,  le  mie  braccia,  il 
mio  corpo  intero,  e  tutto  potrebbe  esser  cosi  semplice...  La  mia 
fiducia?  Ma  non  ho  fiducia  da  dare,  io;  tu  mi  dai  una  soggezione 
terribile.  Ah!  Bisogna  proprio  che  tu  abbia  fatto  qualcosa  di  molto 
brutto  per  reclamare  la  mia  fiducia. 

GARciN  -  Mi  hanno  fucilato. 

ESTELLA  -  Lo  so.  Ti  eri  rifiutato  di  partire.  E  poi? 

GARciN  -  Non...  non  avevo  proprio  rifiutato,  {agli  invisihilt)  Parla  bene, 
sa  biasimare  come  si  deve,  ma  non  dice  quello  che  bisognava  fare. 
Dovevo  entrare  dal  generale  e  dirgli:  «Signor  Generale,  io  non 
parto?  ».  Che  sciocchezza!  Mi  avrebbero  messo  in  gabbia.  Volevo 
testimoniare,  io,  testimoniare!  Non  volevo  che  soffocassero  la  mia 
voce,  {a  Estella)  Ho...  preso  il  treno.  M'hanno  pizzicato  alla  fron- 
tiera. 

ESTELLA  -  Dove  volevi  andare? 

GARciN  -  Nel  Messico.  Contavo  di  fondarci  un  giornale  pacifista,  {un 
momento  di  silenzio)  Ebbene,  di'  qualcosa. 

ESTELLA  -  Cosa  vuoi  che  ti  dica?  Hai  fatto  bene,  visto  che  non  volevi 
batterti,  (gesto  seccato  di  Garcin)  Ah!  mio  caro,  non  posso  indo- 
vinare quel  che  bisogna  risponderti. 

INES  -  Tesoro  mio,  devi  dirgli  che  è  fuggito  come  un  leone.  Perché  è 
fuggito,  il  tuo  grande  amore.  È  questo  che  lo  angustia. 

GARCIN  -  Fuggito;  partito;  chiamatelo  come  volete. 


488  JEAN-PAUL   SARTRE 

ESTELLA  -  Bisognava  pure  che  tu  fuggissi.  Se  tu  fossi  rimasto,  ti  avreb- 
bero afferrato  per  la  collottola. 

CARciN  -  Certo,  (una  pausa)  Esteila,  sono  forse  un  vile? 

ESTELLA  -  Non  nc  so  niente,  amor  mio,  non  son  dentro  di  te.  Tocca 
a  te  decidere. 

GARciN  {con  un  gesto  stanco)  -  Io  non  decido. 

ESTELLA  -  Ma  devi  pur  ricordarti;  dovevi  avere  delle  ragioni  per  agire 
come  hai  agito. 

GARCIN  -  Si. 

ESTELLA  -  Ebbene? 

GARCIN  -  Ma  sono  le  vere  ragioni? 

ESTELLA  {con  stìzzu)  -  Come  sei  complicato! 

GARCIN  -  Volevo  testimoniare,  io...  avevo  riflettuto  a  lungo...  Ma  sono 
le  vere  ragioni? 

INES  -  Ah!  Ecco  il  punto.  Sono  le  vere  ragioni?  Tu  ragionavi,  non 
volevi  impegnarti  alla  leggera.  Ma  la  paura,  l'odio  e  tutte  le  brut- 
ture che  uno  nasconde,  sono  anche  quelle  delle  ragioni.  Andiatno, 
cerca,  interrogati. 

GARCIN  -  Taci!  Credi  proprio  che  abbia  aspettato  i  tuoi  consigli?  Cam- 
minavo nella  mia  cella,  di  notte,  di  giorno.  Dalla  finestra  alla  por- 
ta, dalla  porta  alla  finestra.  Ho  spiato  me  stesso.  Ho  seguito  le  mie 
orme.  Mi  sembra  d'aver  passato  una  vita  intera  a  interrogarmi, 
e  poi,  ecco,  quel  che  era  fatto  era  fatto.  Ho...  ho  preso  il  treno. 
La  cosa  è  sicura.  Ma  perché?  Perché?  Alla  fine  ho  pensato:  sarà 
la  mia  morte  a  decidere;  se  muoio  bene,  avrò  dato  la  prova  che 
non  sono  un  vigliacco... 

INES  -  E  come  sci  morto,  Garcin? 

GARCIN  -  Male.  {Ines  scoppia  a  ridere)  È  stata  solo  una  semplice  debo- 
lezza fisica.  Non  ne  provo  vergogna.  Soltanto  tutto  è  rimasto  in 
sospeso  per  sempre,  {a  Estella)  Vieni  qui,  tu.  Guardami.  Ho  biso- 
gno che  qualcuno  mi  guardi  mentre  parlano  di  me  sulla  terra.  Mi 
piacciono  gli  occhi  verdi. 

INES  -  Gli  occhi  verdi?  Guardate  un  po'!  E  a  te.  Estella?  ti  piacciono 
i  vigliacchi? 

ESTELLA  -  Se  tu  sapessi  quanto  m'importa!  Vigliacco  o  no,  basta  che 
sappia  baciar  bene. 

GARCIN  -  Scuoton  la  testa  fumando  il  sigaro,  si  annoiano.  Pensano: 
Garcin  è  un  vigliacco.  Fiaccamente,  debolmente.  Tanto  per  pen- 
sare a  qualcosa.  Garcin  è  un  vigliacco!  Ecco  quel  che  hanno  de- 
ciso loro,  i  miei  compagni.  Fra  sei  mesi  diranno:   vigliacco  come 


PORTE   CHIUSE  489 

Garcin.  Ne  avete  della  fortuna,  voi  due;  nessuno  pensa  più  a  voi 
sulla  terra.  Io  ho  la  vita  pili  dura. 

INES  -  E  vostra  moglie,  Garcin? 

GARCIN  -  Ebbene,  cosa,  mia  moglie.  È  morta. 

INES  -  Morta? 

GARCIN  -  Devo  aver  dimenticato  di  dirvelo.  È  morta  poco  fa.  Circa 
due  mesi  fa. 

INES  -  Di  dolore? 

GARCIN  -  Di  dolore,  naturalmente.  Di  cosa  volete  che  sia  morta?  Su, 
tutto  va  bene:  la  guerra  è  finita,  mia  moglie  è  morta  e  io  sono 
passato  alla  storia,  (ha  un  singhiozzo  senza  lacrime  e  si  passa  la 
mano  sul  viso) 

ESTELLA  (si  aggrappa  a  lui)  -  Mio  caro!  mio  caro!  Guardami,  mio 
caro!  Toccami,  toccami,  (gli  prende  la  mano  e  se  la  porta  sul  seno) 
Mettimi  la  mano  sul  seno.  (Garcin  fa  un  movimento  per  liberarsi) 
Lasciami  la  tua  mano;  lasciala,  non  ti  muovere.  Loro  moriranno 
uno  dopo  l'altro:  che  importa  quel  che  pensano.  Dimenticali.  Non 
ci  son  piò  che  io. 

GARCIN  (liberando  la  mano)  -  Loro  non  mi  dimenticheranno.  Moriran- 
no, ma  ne  verranno  altri  che  prenderanno  le  consegne.  Ho  lasciato 
la  mia  vita  fra  le  loro  mani. 

ESTELLA  -  Ah!  pensi  troppo! 

GARCIN  -  Che  altro  posso  fare?  Una  volta  agivo...  Ah!  Ritornare  un 
giorno  solo  in  mezzo  a  loro...  quale  smentita!  Ma  sono  fuori  gioco; 
loro  fanno  il  bilancio  senza  occuparsi  di  me  e  hanno  ragione  per- 
ché son  morto.  Crepato  come  un  topo,  (ride)  Son  diventato  di  do- 
minio pubblico. 

(una  pausa) 

ESTELLA  (dolcemente)  -  Garcin! 

GARCIN  -  Sei  qui?  Ebbene,  ascolta,  fammi  un  piacere.  No,  non  indie- 
treggiare. Lo  so:  può  sembrarti  buffo  che  ti  si  possa  chiedere  un 
aiuto,  non  ne  hai  l'abitudine.  Ma  se  tu  volessi,  se  tu  facessi  uno 
sforzo,  ci  si  potrebbe  forse  amare  davvero?  Vedi;  son  mille  a  ripe- 
tere che  sono  un  vigliacco.  Ma  che  cos'è  mille?  Se  ci  fosse  un'ani- 
ma, una  sola,  per  affermare  con  tutte  le  sue  forze  che  non  sono 
fuggito,  che  non  posso  esser  fuggito,  che  sono  coraggioso,  che  sono 
pulito,  io...  sono  sicuro  che  sarei  salvo!  Vuoi  credere  in  me?  Ti 
avrei  più  cara  di  me  stesso. 

ESTELLA  (ridendo)  -  Idiota!  caro  idiota!  Pensi  davvero  che  potrei  amare 
un  vigliacco? 

GARCIN  -  Ma  se  dicevi... 


490  JEAN-PAUL   SARTRE 

ESTELLA  -  Ti  prendevo  in  giro.  Nfi  piacciono  gli  uomini,  Garcin,  i 
veri  uomini,  dalla  pelle  rude,  con  delle  mani  forti.  Tu  non  hai  il 
mento  di  un  vigliacco,  non  hai  la  bocca  di  un  vigliacco,  non  hai 
la  voce  di  un  vigliacco,  i  tuoi  capelli  non  sono  quelli  di  un  vi- 
gliacco. Ed  è  proprio  per  la  tua  bocca,  per  la  tua  voce,  per  i  tuoi 
capelli  che  ti  amo. 

OARCIN  -  È  vero?  È  proprio  vero? 

ESTELLA  -  Vuoi  che  te  lo  giuri? 

CARCiN  -  Allora  li  sfido  tutti,  quelli  di  laggiù  e  quelli  di  qui.  Estella, 
noi  usciremo  dall'inferno.  {Ines  scoppia  a  ridere.  Lui  /interrompe 
e  la  guarda)  Che  c'è? 

INES  (ridendo)  -  Ma  se  lei  non  crede  una  .sillaba  di  quel  che  dice; 
come  puoi  essere  cosi  ingenuo?  a  Estella,  sono  un  vigliacco?  ».  Se 
tu  sapessi  come  se  ne  infischia! 

ESTELLA  -  Ines!  {a  Gardn)  Non  l'ascoltare.  Se  vuoi  avere  la  mia  fidu- 
cia, devi  cominciare  col  darmi  la  tua. 

INES  -  Ma  SI,  ma  s(l  Abbi  fiducia  in  lei.  Ha  bisogno  di  un  uomo,  cre- 
dimi pure,  del  braccio  di  un  uomo  intorno  alla  vita,  d'un  odore 
d'uomo,  d'un  desiderio  d'uomo  in  uno  sguardo  d'uomo.  Per  il  re- 
sto... Ah!  Sarebbe  capace  di  dirti  che  sei  Dio  padre,  se  questo 
potesse  farti  piacere. 

«ARciN  -  Estella I  È  vero?  Rispondi:  è  vero? 

BSTELLA  -  Che  vuoi  che  ti  dica?  Non  capisco  nulla  di  tutte  queste  sto- 
rie, (batte  i  piedi)  Come  mi  fa  rabbia  tutto  questo!  Ti  amerei  an- 
che se  tu  fossi  un  vigliacco,  ecco!  Non  ti  basta? 

(una  pausa) 

OARCiN  (alle  due  donne)  -  Mi  nauseate!  (si  avvia  verso  la  porta) 

ESTELLA  -  Cosa  fai? 

<5ARciN  -  Me  ne  vado. 

INES  (rapidamente)  -  Non  andrai  lontano:  la  porta  è  chiusa. 

<3ARCiN  -  Bisognerà  pure  che  l'aprano,  (schiaccia  il  pulsante  del  cam- 
panello. Il  campanello  non  funziona) 

ESTELLA  -  Garcin! 

INES  (a  Estella)  -  Non  ti  preoccupare;  il  campanello  è  guasto. 

•GARCIN  -  Vi  dico  che  apriranno,  (tamburella  contro  la  porta)  Non  posso 
pili  sopportarvi,  non  ce  la  faccio  più.  (Estella  corre  verso  di  lui, 
lui  la  respinge)  Vattene.  Mi  disgusti  ancor  più  di  lei.  Non  voglio 
insabbiarmi  nei  tuoi  occhi.  Sei  viscida,  sci  flaccida.  Sei  una  piovra, 
sei  un  pantano,  (picchia  alla  porta)  Ma  aprite? 

ESTELLA  -  Garcin,  ti  supplico,  non  partire,  non  ti  parlerò  più,  ti  lascerò 


PORTE   CHIUSE  491 

completamente  tranquillo,  ma  non  partire.  Ines  ha  tirato  fuori  le 

unghie^  non  voglio  più  rimaner  sola  con  lei. 
GARciN  -  Sbrigatela  da  te.  Io  non  t'ho  chiesto  di  venire. 
ESTELLA  -  Vigliacco!  vigHacco!  Oh!  È  proprio  vero  che  sci  un  vigliacco. 
INES   {avvicinandosi  a  Estella)  -  Ebbene,  lodoletta,  non  sci  contenta? 

M'hai  sputato  in  faccia  per  piacere  a  lui  e  abbiamo  litigato  per 

causa  sua.  Ma  se  ne  va,  il  guastafeste,  ci  lascia  sole  fra  noi  donne. 
ESTELLA  -  Non  ci  guadagnerai  nulla;  se  questa  porta  s'apre,  io  scappo. 
INES  -  Dove? 
ESTELLA  -  In  qualsiasi  posto.  Il  più  lontano  possibile  da  te. 

(Garcin  ha  continuato  a  tamburellare  alla  porta) 

GARciN  -  Aprite!  Ma  aprite!  Accetto  tutto:  gli  stivaletti,  le  tenaglie,  il 
piombo  fuso,  le  pinze,  la  garrotta,  tutto  quel  che  brucia^  tutto  quello 
che  strappa,  voglio  soffrire  per  davvero.  Cento  morsi  piuttosto, 
piuttosto  la  sferza,  il  vetriolo,  che  questo  tormento  del  cervello, 
questo  fantasma  di  sofferenza,  che  sfiora,  che  accarezza  e  che  non 
fa  mai  abbastanza  male,  {afferra  la  maniglia  della  porta  e  la  scuote) 
Aprirete?  {la  porta  si  apre  bruscamente  e  per  poco  egli  non  casca) 
Ah! 

{un  lungo  silenzio) 

INES  -  Ebbene,  Garcin?  Andatevene. 

OARciN  {lentamente)  -  Mi  chiedo  perché  questa  porta  s'è  aperta. 

INES  -  Che  cosa  aspettate?  Andate,  andate  presto! 

CARCIN  -  Non  me  ne  andrò. 

INES  -  E  tu,  Estella?    {Estella  non  si  muove;  Ines  scoppia  a  ridere) 

Allora?  Chi?  Chi  dei  tre?  La  via  e  libera,  chi  ci  trattiene?  Ah! 

C'è  da  morir  da  ridere!  Siamo  inseparabili. 

{Estella  le  balza  addosso,  alle  spalle) 

ESTELLA  -  Inseparabili?  Garcin!  Aiutami,  aiutami  presto.  La  trascine- 
remo fuori  e  chiuderemo  la  porta;  ora  vedrà. 

INES  {dibattendosi)  -  Estella!  Estella!  Ti  supplico,  lasciami  qui.  Non 
nel  corridoio,  non  mi  buttare  nel  corridoio! 

<3ARciN  -  Lasciala. 

ESTELLA  -  Sei  pazzo,  ti  odia. 

<5ARciN  -  È  per  lei  che  son  rimasto. 

{Estella  lascia  Ines  e  guarda  Garcin  con  stupore) 

JNES  -  Per  me?  {una  pausa)  Bene,  va  bene,  chiudete  la  porta.  Fa 
dieci  volte  più  caldo  da  quando  è  aperta.  {Garcin  va  verso  la  porta 
e  la  chiude)  Per  me? 


492  JEAN-PAUL   SARTRE 

GARCiN  -  Si.  Tu  lo  sai  che  cos'è  un  vigliacco. 

INES  -  Si,  lo  so. 

GARciN  -  Tu  sai  cos*è  il  male,  la  vergogna,  la  paura.  Ci  sono  stati  dei 
giorni  in  cui  ti  sci  vista  fino  al  cuore  e  per  questo  ti  sentivi  spez- 
zare braccia  e  gambe.  E  l'indomani  non  sapevi  più  cosa  pensare, 
non  riuscivi  piò  a  decifrare  la  rivelazione  del  giorno  prima.  Si, 
tu  lo  conosci  il  prezzo  del  male.  E  se  dici  che  sono  un  vigliacco, 
sai  bene  quel  che  dici,  eh? 

INES  -  Si. 

GARciN  .  Sei  tu  che  devo  convincere:  tu  appartieni  alla  mia  razza.  Pen- 
savi forse  che  partissi?  Non  potevo  lasciarti  qui,  trionfante,  con 
tutti  questi  pensieri  in  testa,  tutti  questi  pensieri  che  mi  riguar- 
dano. 

INES  -  Vuoi  davvero  convincermi? 

GARciN  -  Non  voglio  nient'altro.  Non  li  sento  più,  sai?  Senza  dubbio 
perché  con  me  hanno  finito.  Finito:  l'affare  è  chiuso,  non  sono 
più  nulla  sulla  terra,  neppure  un  vigliacco.  Ines,  eccoci  qui  soli:  ci 
siete  solo  voi  due  per  pensare  a  me.  Lei  non  conta.  Ma  tu,  tu  che 
mi  odi,  se  tu  crederai  in  me,  mi  salverai. 

INES  -  Non  sarà  facile.  Guardami:  ho  la  testa  dura. 

GARciN  -  Ci  metterò  il  tempo  che  ci  vorrà. 

INES  -  Oh!  Hai  tutto  il  tempo.  Tutto  il  tempo. 

GARciN  {afferrandola  per  le  spalle)  -  Senti,  ciascuno  ha  il  suo  scopo, 
no?  Io,  mi  fregavo  del  denaro,  dell'amore.  Volevo  essere  un  uomo. 
Un  duro.  Ho  puntato  tutto  su  un  cavallo.  È  possibile  che  uno  sia 
un  vigliacco  quando  ha  scelto  le  vie  più  pericolose?  Si  può  giudi- 
care una  vita  da  un  atto  solo? 

INES  -  Perché  no?  Hai  sognato  per  trent'anni  di  aver  del  coraggio;  e 
ti  permettevi  mille  piccole  debolezze  perché  agli  eroi  è  permesso 
tutto.  Com'era  comodo!  E  poi,  al  momento  del  pericolo,  ti  hanno 
messo  con  le  spalle  al  muro  e...  tu  hai  preso  il  treno  per  il  Messico, 

GARciN  -  Quest'eroismo  non  l'ho  sognato.  L'ho  scelto.  Si  è  quel  che  si 
vuole. 

INES  -  Provalo.  Prova  che  non  era  un  sogno.  Solo  le  azioni  decidono 
di  quel  che  s'è  voluto. 

GARciN  -  Sono  morto  troppo  presto.  Non  mi  hanno  lasciato  il  tempo 
per  compiere  le  mie  azioni. 

INES  -  Si  muore  sempre  troppo  presto,  o  troppo  tardi.  Eppure  la  vita 
è  là,  finita;  il  dado  è  tratto,  bisogna  tirar  le  somme.  Tu  non  sei 
nient'altro  che  la  tua  vita. 

GARciN  -  Vipera!  Trovi  una  risposta  a  tutto. 


PORTE   CHIUSE  493 

INES  -  Su!  su!  Non  perderti  di  coraggio.  Ti  deve  esser  facile  persua- 
dermi. Cerca  degli  argomenti,  fa'  uno  sforzo.  {Gardn  si  stringe 
nelle  spalle)  Ebbene,  ebbene?  Ti  avevo  pur  detto  che  eri  vulnera- 
bile. Ah!  Come  la  pagherai  cara,  ora.  Sei  un  vigliacco,  Garcin,  un 
vigliacco  perché  io  lo  voglio.  Lo  voglio,  capisci,  lo  voglio!  Eppure, 
guarda  come  sono  debole,  un  soffio;  non  sono  nient 'altro  che  que- 
sto sguardo  che  ti  vede,  questo  pensiero  incolore  che  ti  pensa,  [lui 
avanza  contro  di  lei  a  mani  aperte)  Ah!  Si  aprono  quelle  grosse 
mani  d'uomo.  Ma  che  speri?  Non  si  afferrano  i  pensieri  con  le 
mani.  Andiamo,  non  hai  scelta:    bisogna  convincermi.  Ti  tengo. 

ESTELLA  -  Garcin! 

GARCIN  -  Cosa? 

ESTELLA  -  Vendicati. 

GARCIN  -  Come? 

ESTELLA  -  Baciami,  la  sentirai  cantare. 

GARCIN  -  È  proprio  vero,  Ines.  Mi  tieni,  ma  anch'io  ti  tengo,  {si  china 
su  Estella,  Ines  getta  un  gridò) 

INES  -  Ah!  Vigliacco!  Vigliacco!  Va'!  Va'  a  farti  consolare  dalle  donne. 

ESTELLA  -  Canta  pure,  Ines,  canta  pure! 

INES  -  Che  bella  coppia!  Se  tu  vedessi  la  sua  zampaccia  schiacciata 
sulla  tua  schiena,  che  ti  strizza  carne  e  stoffa.  Ha  le  mani  umi- 
dicce;  suda.  Ti  lascerà  una  macchia  scura  sul  vestito. 

ESTELLA  -  Canta!  Canta!  Stringimi  più  forte  contro  di  te,  Garcin;  ne 
creperà. 

INES  -  Ma  si,  stringila  forte,  stringila.  Mescolate  i  vostri  calori.  L'amore 
è  bello,  eh!,  Garcin?  È  tiepido  e  profondo  come  il  sonno,  ma  io 
t'impedirò  di  dormire. 

{gesto  di  Garcin) 

ESTELLA  -  Non  l'ascoltare.  Prendi  la  mia  bocca;  sono  tutta  per  te. 

INES  -  Ebbene,  che  aspetti?  Fa'  quello  che  ti  si  dice.  Garcin  il  vi- 
gliacco tiene  fra  le  braccia  Estella  l'infanticida.  Le  scommesse  sono 
aperte.  Garcin  il  vigliacco  la  bacerà?  Vi  vedo,  vi  vedo;  io  da  sola 
sono  una  folla,  la  folla,  Garcin,  la  folla,  la  senti?  {mormorando) 
Vigliacco!  Vigliacco!  Vigliacco!  Vigliacco!  Invano  tu  mi  sfuggirai, 
io  non  ti  lascerò.  Cosa  vai  a  cercare  sulle  sue  labbra.  L'oblio?  Ma 
io  non  ti  dimenticherò,  io.  È  me  che  devi  convincere.  Me.  Vieni, 
vieni!  T'aspetto.  Guarda,  Estella,  allenta  la  stretta,  e  docile  come 
un  cane...  Non  l'avrai! 

GARCIN  -  Non  farà  dunque  mai  notte? 

INES  -  Mai. 

GARCIN  -  Mi  vedrai  sempre? 


494  JEAN-PAUL    SARTRE 

INES  -  Sempre. 

(Garcin  lascia  Estella  e  fa  qualche  passo  per  la  stanza.  Sì  avvicina  dia 
statua) 

GARCIN  -  I^  statua...  (Vaccarezzà)  Ebbene,  il  momento  è  venuto.  La 
statua  è  là,  la  contemplo,  e  capisco  che  sono  all'inferno.  Vi  dico 
che  tutto  era  previsto.  Avevano  previsto  che  io  sarei  stato  davanti 
a  questo  caminetto,  a  premere  con  la  mano  questa  statua,  con  tutti 
questi  sguardi  su  di  me.  Tutti  questi  sguardi  che  mi  mangiano... 
(si  volta  bruscamente)  Ah!  Siete  due  sole?  Vi  credevo  molte  di  più. 
(ride)  Allora  è  questo  l'inferno.  Non  avrei  mai  creduto...  Vi  ricor- 
date: lo  zolfo,  il  rogo,  la  graticola...  Ah!  che  scherzo.  Non  c'è  biso- 
gno di  graticola,  l'inferno  sono  gli  Altri. 

ESTELLA  -  Amor  mio! 

GARCIN  (respingendola)  -  C'è  lei  fra  noi.  Non  posso  amarti  quando  lei 
mi  vede. 

ESTELLA  -  Ah!  Ebbene,  non  ci  vedrà  più.  (prende  sul  tavolo  il  coltello, 
si  precipita  su  Ines  e  le  sferra  vari  colpi) 

INES  (dibattendosi  e  ridendo)  -  Che  fai,  che  fai,  sei  pazza?  Sai  bene 
che  son  morta. 

ESTELLA  -  Morta? 

(lascia  cadere  il  coltello.  Una  pausa.  Ines  raccoglie  il  coltello  e  si  col- 
pisce con  rabbia) 

INES  -  Morta!  Morta!  Morta!  Né  il  coltello,  né  il  veleno,  né  la  corda. 

È  già  fatto,  capisci?  E  noi  siamo  insieme  per  sempre,  (ride) 
ESTELLA  (scoppiando  a  ridere)  -  Per  sempre,  mio  Dio  com'è  buffo!  Per 

sempre  ! 
GARCIN  (ride  guardandole  tutte  e  due)  -  Per  sempre! 

(si  buttano  a  sedere,  ciascuno  sul  proprio  divano.  Un  lungo  silenzio. 
Smettono  di  ridere  e  si  guardano.  Garcin  si  alza) 

GARCIN  -  Ebbene,  continuiamo. 


La  presente  traduzione  è  a  cura  di  Liano  Petroni. 


EUttÈNE  I0NE8C0 


Umano  o  disumano,  realista  di  carattere  e  di  filosofici  co- 
stumi, nemico  dichiarato  dei  falsi  dell'immaginazione,  l'Assurdo 
esistenzialista  è  di  natura  essenzialmente  pessimista.  I  generi  let- 
terari che  preferisce  sono  il  saggio  morale,  il  romanzo  a  tesi  e  la 
tragedia  a  porte  chiuse. 

Ma  c'è  un  altro  Assurdo,  di  ottimistico  carattere  sovversivo, 
che  rifiutando  i  falsi  della  realtà  e  le  censure  della  coscienza,  eser- 
cita la  sua  anti-logica  dittatura  nei  meravigliosi  regni  del  sogno 
e  dell'incubo,  nella  salutare  anarchia  dell'Inconscio,  nelle  magiche 
rivelazioni  del  vocabolario  in  rivolta  e  della  scrittura  automatica. 
I  generi  letterari  praticati  dall'Assurdo  surrealista  sono  per  lo  più 
il  saggio  di  < critica  paranoica»,  il  romanzo  a  sintesi  allucina- 
toria e  la  farsa  dell'umorismo  nero. 

I  due  assurdi  vanno  per  strade  diverse,  che  non  escludono 
tuttavia  fortuiti  o  inevitabili  incontri. 

Fin  dal  1918  Guillaume  ApoUinaire,  amico  di  futuristi  e  cu- 
bisti, inaugurava,  sotto  il  vecchio  patronato  dell'Ignoto,  l'esposi- 
zione dello  Spirito  Nuovo  affermando  che  <  bisogna  dare  realtà 
ai  mille  imponderabili  fantasmi  >  che  regnano  nelle  strane  regioni 
del  mistero.  E  alcuni  anni  prima,  volendo  dimostrare  che  il  mi- 
stero può  accoppiarsi  alla  volontaria  mistificazione,  componeva 
<  poemi-passeggiata  >  fatti  di  frammenti  di  conversazione,  di  titoli 
di  giornali,  del  senza-senso  di  parole  e  di  frasi  cucite  senza  filo. 
Ma  ApoUinaire  era  poeta  ed  aveva  ancora  nostalgie  sentimentali 
e  razionali  debolezze.  Alcuni  suoi  giovani  ammiratori  credettero 
invece  che  la  poesia  fosse  un  senile  farnetico  borghese,  che  la  let- 
teratura dovesse  essere  anti-letteraria,  che  il  mondo  dovesse  essere 
demolito  (ed  eventualmente  rifatto)  dalla  dinamite  della  rivista 


92.  •  Teatro  francete 


498  eugìne  ionesco 

confìdenziale  e  dal  dinamismo  del  caso  e  dell'assurdo.  Sulla  fine 
del  1915,  Tristan  Tzara  ed  amici,  aperto  un  dizionario,  trovarono 
nella  prima  parola  caduta  sotto  i  loro  occhi  (<  dada  >,  trastullo  in- 
fantile) l'oracolo  del  dio  sovvertitore  e  il  principio  del  pensiero 
<che  si  forma  nella  bocca».  Altri,  intanto,  come  Jacques  Vaché, 
brandiva  un  revolver  predicando  «  l'inutilitc  théàtrale  (et  sans  joie) 
de  tout»,  mentre  Francis  Picabia  scopriva  piuttosto  —  secondo 
Andre  Brcton  —  che  le  parole  (come  i  colori)  raggiungono  «il 
massimo  della  virtù  poetica  nell'assoluto  dell'incoerenza». 

Minato  da  libido  suicida  e  da  congiure  di  palazzo,  il  dadaismo 
ebbe  vita  breve.  Nel  1924  il  transfuga  André  Breton  lanciava  il 
primo  brillante  manifesto  (nel  quale  si  trovano  confusi  e  com- 
promessi Freud  e  Hegel,  Gerard  de  Nerval  e  Nietzsche,  Sade, 
Jarry  ed  altri  legittimi  o  immaginari  antenati)  che  apriva  la  cam- 
pagna surrealista  con  l'espressa  volontà  di  trasformare  la  vita  e 
di  rifare  da  cima  a  fondo  <  l'entendement  humain  ».  Iniziata  con 
prolissi  monologhi  dell'inconscio,  con  proclami  incendiari,  con  ri- 
cercati scandali,  risse,  processi  e  funerali  farseschi,  la  grande  ri- 
forma ebbe  pratica  applicazione  e  dottrinari  sviluppi  in  cerimonie 
commemorative  dell'isteria  (<  la  plus  grande  dccouvcrte  poctique 
de  la  fin  du  XlXe  sièclc  >),  in  interrogatori  di  alienati  (<  gente  di 
onestà  scrupolosa  >),  nella  <  debacle  de  l'intellect  >  e  nella  «  activité 
ultra-confusionnelle  »  del  concreto  irrazionale,  della  pantomima 
«  tragico-atmosferica  >,  dell'esposizione  di  oggetti  a  «  truculenza 
simbolica  »  ed  in  simili  manifestazioni  della  realtà  vista  alla  ro- 
vescia e  del  mondo  capovolto. 

Il  Surrealismo  visse  la  sua  età  eroica  fra  le  due  guerre,  in  per- 
manente stato  rivoluzionario,  invecchiando  anch'esso  fra  scismi 
e  diserzioni,  finendo  anch'esso  per  riportare  il  <  battello  ebro  >  nel 
porto  della  tribù  o  nel  placido  fiume  della  storia.  Non  riusci  a 
«  risolvere  i  principali  problemi  della  vita  >,  si  mise  addirittura  a 
cantare  il  «bel  canto»,  la  patria  e  l'amore,  ma  riuscì  a  guada- 
gnarsi un  brillante  posto  nel  mondo  delle  arti  e  delle  lettere  con 
pittori  come  Dali,  Max  Ernst,  Miro,  con  vivaci  scrittori  come  Bre- 
ton e  Aragon,  con  autentici  poeti  come  Eluard  e  René  Char,  con 
originali  romanzieri  come  Julicn  Gracq.  Solo  il  teatro  sembrava 
refrattario  alle  sue  metafisiche  concrezioni,  ma  anche  queste  fini- 


PRESENTAZIONE  499 

ranno  per  conquistare  la  ribalta  e  la  platea  quando  troveranno 
l'uomo  del  momento,  o  l'esperto  che  porta  il  senso  dello  spetta- 
colo nella  rappresentazione  del  non-senso. 

La  «  paranoia  critica  >  e  una  trovata  di  Salvator  Dali  che  risale 
al  1929.  Ma  dadaisti  e  surrealisti  praticavano  già  dei  riti  propizia- 
tori destinati  a  far  scendere  nel  precario  del  mondo  visibile  lo 
spirito  dell'assurdo  e  a  dar  vita  reale  ai  fantasmi  ed  ai  misteri 
del  verace  inconscio.  Si  riunivano  per  raccontarsi  i  sogni  e  i  mo- 
stri che  andavano  inventando,  si  ipnotizzavano,  cercavano  di 
provocare  l'allucinazione  e  di  simulare  la  follia,  ma  soprattutto 
ricorrevano  ad  una  serie  di  giuUerie  dell'immaginazione  e  di  giuo- 
chi di  parola  ad  automatica  sorpresa  con  i  quali  il  <  sur-moi  > 
surrealista  intendeva  disorganizzare  la  logica  comune  per  stabi- 
lire la  sua  irrazionale  dittatura.  Fra  le  stravaganti  procedure  erano 
tenuti  in  grande  onore  l'umorismo  nero  (accozzo  di  ricercate  scem- 
piaggini, di  enormi  freddure  e  di  esercizi  della  <  mystification 
sinistre  confìnant  à  l'assassinat  amusant»),  «l'ironisme  d'affirma- 
tion  »,  €  il  cadavere  squisito  »  (parole  pescate  a  caso  nel  bussolotto 
dell'inconscio  collettivo),  il  proverbio  impazzito,  il  dialogo  dei 
sordi,  la  girandola  dell'allitterazione  e  della  cacofonia.  Ne  veni- 
vano fuori  acrobazie  verbali  di  questo  genere:  «S'il  n'y  avait 
pas  la  guillotine,  les  guépcs  enlèveraient  leur  corset  »,  <  Il  faut 
battre  sa  mère  pendant  qu'elle  est  jeune  »,  «  Rrose  Sélavy  et  moi 
esquivons  les  ecchymoses  des  Esquimaux  aux  mots  cxquis», 
<Qu'est-ce  que  le  jour?  Une  femme  qui  se  baigne  à  la  tombée 
de  la  nuit»,  «Un  ours  mangeait  des  seins.  Le  canapé  mangé, 
l'ours  cracha  des  seins»,  e  cosi  via  dicendo. 

Scherzi  di  questa  lega  sembravano  da  tempo  sopraffatti  dall'ir- 
ruzione esistenzialista  (e  relegati  in  soffitta  dagli  stessi  surrea- 
listi), quando  una  sera  del  maggio  1950  il  pubblico  del  piccolo  Tea- 
tro dei  Nottambuli  fu  convocato  alla  rappresentazione  di  una  <  an- 
ti-pièce»  intitolata  La  Cantatrice  chauve.  In  questa  commedia 
non  c'è  nessuna  cantante  calva  (solo  un  personaggio  ne  chiede 
notizie  per  sentirsi  rispondere  che  la  calva  si  pettina  sempre  alla 
stessa  maniera),  ma  una  coppia  inglese  che  parla  in  caricaturale 
automatismo  il  linguaggio  quotidiano  (con  brani  tolti  dai  manuali 


500  EUGÈNE   lONESCO 

di  conversazione  e  con  ameni  guasti  del  disco:  «Le  yaourt  est 
excellent  pour  Testomac,  pour  Ics  reins,  l'appendicite  et  l'apo- 
théosc  >),  un  uomo  e  una  donna  che  nel  corso  della  conversazione 
scoprono  di  essere  marito  e  moglie  vissuti  sempre  insieme,  un  pom- 
piere che  si  prodiga  in  grotteschi  fuochi  di  artifizio  e  in  indovi- 
nelli scemi.  Quella  che  si  suole  chiamare  azione  è  costituita  dai 
gratuiti  colpi  di  scena  dell'assurdo,  dai  salti  di  palo  in  frasca  del- 
l'idiozia borghese,  soprattutto  dal  girotondo  del  discorso  nel  quale 
il  troppo  vero  dei  luoghi  comuni  dà  la  mano  al  «  gag  >  clownesco 
(«Ce  matin  quand  tu  t'es  regardé  dans  la  giace,  tu  ne  t'es  pas 
vu  >.  €  C'est  parce  que  je  n'étais  pas  encore  là  >),  mentre  la  frase 
fatta  incespica  nel  proprio  vuoto,  si  disfa  nel  comico  dell'umorismo 
nero  e  del  cadavere  squisito  («  Quand  on  s'enrhume  il  faut  prendre 
des  rubans»,  «Prenez  un  cercle,  caressez-le,  il  deviendra  vi- 
cicux  >)  o  impazzisce  in  surrealistiche  capriole  (<  Je  peux  acheter 
un  coutcau  de  poche  pour  mon  frère,  mais  vous  ne  pouvez  ache- 
ter rirlande  pour  votre  grand-pére  >,  <  Toujours  on  s'empétre  entre 
les  pattes  du  prétre  >,  eccetera).  E,  s'intende,  nell'<  anti-pièce  >  non 
c'è  intreccio  né  sviluppo,  ma  il  crescendo  della  frenesia  verbale  che 
si  esaurisce  nel  farnetico  dell'allitterazione,  dell'onomatopea  e  del 
suono  inarticolato.  E  quando  il  non-senso  è  arrivato  al  colmo  del 
silenzio,  si  può  ricominciare,  rimettendo  il  disco  che  riporta  la 
fine  del  discorso  e  della  commedia  al  punto  di  partenza. 

Calato  il  sipario,  si  accesero  le  solite  dispute  fra  il  filisteo  (che 
tuttavia  ha  acquistato  una  certa  esperienza  in  materia  di  <  ironisme 
d'affirmation  >  dell'assurdo)  e  i  soliti  intenditori  pronti  a  scoprire 
i  mirabilia  dell'arcano.  Era  evidente,  ad  ogni  modo,  che  la  nuova 
farsa  composta  di  stagionati  ingredienti  era  di  piacevole  fattura  e 
che  l'autore  sapeva  il  suo  mestiere.  Si  trattava  di  un  romeno  non 
più  giovane  (nato  a  Slatina  nel  1912),  impiegato  in  una  casa  edi- 
trice, collaboratore  dei  Cahiers  du  Sud,  autore  di  un  saggio  sul- 
l'Identità dei  contrari.  Eugène  lonesco  era  insomma  uno  scono- 
sciuto. Ma  dal  suo  <  coup  d'essai  >,  non  era  difficile  prevedere  che 
avrebbe  fatto  una  rapida  e  felice  carriera. 

Fra  illustri  anziani  e  grandi  arrivati  l'avanguardia  continua 
dunque  la  sua  marcia  regolarmente  rivoluzionaria,  andando  verso 


PRESENTAZIONE  501 

il  miraggio  del  «  teatro  totale  >  oppure  verso  il  teatro  «  festa  della 
distruzione»  preconizzato  dal  genialoide  surrealista  che  era  An- 
tonin  Artaud.  Di  diversa  forza  e  natura,  la  nuova  leva  presenta 
nella  varietà  delle  forme  (nella  vacua  declamazione  di  Henri  Pi- 
chette,  nelle  laboriose  fantasie  poetiche  di  Georges  Schéhadé,  nel 
favoloso  realismo  simbolico  di  Georges  Adamov)  l'attrazione  del 
vuoto  o  dell'abisso,  sembra  caratterizzata  dal  vago  comune  deno- 
minatore dell'angoscia  metafìsica,  del  processo  alla  realtà,  del  culto 
dell'assurdo,  della  retorica  dell'assurdo. 

È,  questo  recentissimo  Assurdo,  un  regista  di  buona  memo- 
ria, abile  nello  sfruttamento  dei  suoi  classici  e  degli  ultimi  ritrovati 
scenici,  terribilmente  consequenziario,  deciso  cioè  a  portare  alle 
estreme  conseguenze  ed  applicazioni  sia  la  logica  del  sillogismo 
esistenziale  che  l'anti-logica  del  paradosso  surrealista.  Cosicché, 
mentre  Sartre  si  illudeva  ancora  di  poter  costruire  nel  nulla  e 
dal  nulla  il  disperato  tutto  della  libertà,  l'irlandese  Samuele  Bec- 
kett  crede  invece  che  dal  nulla  nasce  il  nulla,  che  il  salto  nel  vuoto 
finisce  nel  vuoto,  che  l'angoscia  esistenziale  vive  nella  sordida  pri- 
gione di  un'esistenza  dove  la  speranza  (o  l'attesa  di  Godot)  è  l'e- 
strema irrisione  dell'inesistente  e  dove  la  realtà  umana,  nata  dallo 
zero,  fatta  della  somma  di  «istanti  nulli»,  vissuta  da  servi  e  da 
padroni  legati  alla  stessa  bestiale  catena,  fìnisce  nel  chiuso  di  una 
pattumiera  e  nell'infinito  dell'orrida  solitudine.  <  L'infini  du  vide, 
—  dice  il  cieco  moribondo  della  Fin  de  panie  all'infermo  ser- 
vo, —  sera  autour  de  toi;  tous  les  morts  de  tous  les  temps  ressusci- 
tés  ne  le  combleraient  pas  »  :  e  tutta  la  <  picce  »  e  l'arida,  minuzio- 
sa lezione  di  un  anatomista  che  mette  la  sua  grande  perizia  (e  un 
sadico  piacere)  a  smontare  la  decrepita  marionetta,  a  svuotarla 
della  stoppa  della  sua  anima,  delle  molle  dei  suoi  inutili  movi- 
menti, del  motorino  che  traduce  la  vacuità  del  pensiero  nel  vano 
rumore  della  parola,  dei  fili  che  la  fanno  girare  su  se  stessa,  nel- 
l'immobilità senza  tempo  della  nausea  e  della  noia. 

Bcckett  vede  tutto  nero,  anche  quando  fa  buffoneggiare  i  suoi 
miserabili  straccioni.  Più  «umano»,  più  ricco  di  fantasia  e  di  ri- 
sorse dialettiche,  meridionalmente  loquace,  padrone  sia  della  ri- 
dicola sintassi  di  Monsieur  Prudhomme  che  della  stravagante  mor- 
fologia dada,  lonesco  si  ricorda  invece  che  l'umorismo  nero  oltre  a 


502  EUcèNE    lONESCO 

prestarsi  a  tutte  le  combinazioni  e  le  astratte  peripezie  dei  co- 
lori, porta  una  doppia  maschera  che  è  la  più  adatta  a  rappre- 
sentare la  guerra  intestina  e  «l'identità»  dei  contrari.  Lancia 
anche  lui  nel  vuoto  la  sua  marionetta,  ma  in  un  vuoto  che  è 
quasi  agli  antipodi  di  quello  di  Beckett,  che  confina  con  il  paese 
delle  infantili  meraviglie  e  diviene  lo  spettacolare  campo  di  ma- 
novra e  di  urto  fra  il  «precario»  della  realtà  e  il  concreto  del 
sogno  e  del  mito:  marionetta  nata  nel  teatro  dei  pupi  (cioè  del 
Grand  Guignol),  cresciuta  nell'assurdo  quotidiano  e  pasciuta  di 
consunti  luoghi  comuni,  colta  nel  momento  dell'evasione  nel  pro- 
digio (o  nel  salto  nell'infinita  probabilità  dell'inverosìmile)  che 
trasforma  la  triste  opacità  dell'uomo  nello  spettro  fertile  di  esila- 
ranti rivelazioni  e  di  tragici  lapsus  demenziali. 

Iniziata  con  la  Cantante  calva  (che  voleva  essere  una  parodia 
del  teatro),  la  caccia  al  mostro  bicefalo  si  sviluppa  in  abbondanza 
di  trovate,  in  scoperte  di  bestie  favolose,  in  orchestrato  chiasso  di 
prosaici  richiami  e  di  echi  burleschi  o  sinistri.  Nello  stesso  anno 
1950  lonesco  scrive  La  Lcfon  (buffonesca  lezione  di  sregolamento 
patologico  finita  nel  crimine  sessuale  di  un  maniaco)  e  Jacques 
ou  la  soumission,  «conunedia  naturalista»  in  stile  abracadabra 
degli  innaturali  costumi  e  degli  sconnessi  discorsi  di  una  famiglia 
borghese  in  conflitto  con  un  figlio  vittima  di  una  nevrosi  freu- 
diana. Jacques  infatti  è  un  inibito  in  rivolta  che  rifiuta  la  bella 
sposa  (che  non  riesce,  cioè,  ad  entrare  nella  banale  normalità  della 
sua  vita)  perché  non  ha  conosciuto  il  mondo  fiabesco  dell'infanzia. 
«Lorsque  je  suis  né,  je  n'avais  pas  loin  de  quatorze  ans»,  con- 
fessa ad  una  Roberta,  la  quale  riesce  a  sedurlo  quando  Io  riporta 
alla  perduta  stagione  raccontandogli  incoerenti  storie  animalesche 
e  rivelandosi  lei  stessa  assurdo  animale  con  tre  nasi  sul  volto  e 
con  nove  dita  alla  mano  destra. 

La  farsa  di  scapigliato  umore  nero  avrà  un  seguito  nella 
«  pièce  »  L'Avenir  est  dans  les  oeufs  (1951  :  è  la  stessa  coppia  che, 
restata  tre  anni  allo  stesso  posto  a  fare  le  fusa,  si  decide,  sotto  gli 
assillanti  incitamenti  dei  familiari,  a  «produrre»;  e  mentre  Jac- 
ques soffre  le  doglie  del  parto,  Roberta  mette  alla  luce  una  inve- 
rosimile quantità  di  uova),  ma  contemporaneamente  lonesco  com- 
pone Les  Chaises,  «farce  tragique»  di  un  senile  complesso  di 


PRESENTAZIONE  503 

grandezza  che  «  si  libera  »  neirallucinante  allucinazione  di  due 
poveri  diavoli.  Ticchi  ossessivi,  cerimoniale  grottesco  e  vaniloquio 
delle  goffe  figure  gesticolanti  davanti  ad  una  folla  di  invisibili 
ombre  mute  creano  —  in  quella  che  è  forse  la  pili  caratteristica 
e  suggestiva  rappresentazione  del  dramma  senza  azione  —  l'at- 
mosfera e  l'avventura  surreali  del  senza-senso  che  si  specchia  nel 
senza-limite  del  vuoto,  dove  il  comico  e  il  tragico  si  fondono  —  e 
si  potenziano  a  vicenda  —  nella  peripezia  dell'euforico  delirio  e 
nella  catastrofe  dell'indecifrabile  «messaggio». 

Dopo  questo  fortunato  colpo,  la  macchina  delle  realistiche 
disgregazioni  e  delle  mitiche  reintegrazioni  continua  il  suo  frene- 
tico movimento,  ma  —  si  direbbe  —  comincia  a  tradire  qualche 
perdita  di  velocità,  una  certa  debolezza  per  la  meccanica  razionale. 
Mentre  nello  «  pseudo  dramma  >  Victimes  du  devoir  (1952)  le 
vittime  sono  ancora  quelle  che,  partite  alla  scoperta  dei  ricordi,  o 
del  mondo  sepolto  nell'inconscio,  periscono  nella  ricerca  di  un 
«Mallot  avec  un  t>,  rivelandosi  dei  minuscoli  Sisifi  condannati 
a  masticare  la  loro  materia-ombra,  in  Amédée  ou  comment  seri 
débarrasser  (1954)  l'assurdo  scivola  nel  prolisso  di  una  commedia 
in  tre  atti  e  nella  macabra  allegoria  di  un  cadavere  che  da  quin- 
dici anni  vegeta  e  cresce  in  un  appartamento  di  piccoli  borghesi, 
assumendo  proporzioni  enormi  e  riempendo  le  stanze  di  miste- 
riosi funghi,  che  sembrano  simboleggiare  i  rimorsi  di  un  proba- 
bile delitto. 

E  mentre  Amedeo  si  sbarazza  del  mostruoso  corpo  (e  della 
coscienza)  sottraendosi  in  volo  alla  vista  ed  alla  vita  della  terra, 
lonesco  va  scendendo  verso  la  terra,  cede  a  certi  costumi  del  vec- 
chio teatro.  In  Victimes  du  devoir  era  entrato  in  polemica  con  il 
teatro  prigioniero  dell'evidenza,  ntWImpromptu  de  l'Alma  (1955) 
si  rappresenta  (come  Molière,  come  Giraudoux)  alle  prese  con  i 
propri  critici,  con  i  dottori  in  <  costumologia  >  e  in  «  teatrologia  > 
che  lo  vogliono  confondere  con  le  loro  buffonesche  lezioni  ed  ai 
quali  impartisce  una  lunga  lezione  dove  il  luogo  comune  («  la 
critica  dev'essere  descrittiva  e  non  normativa»,  «il  creatore  e  il 
solo  valido  testimone  del  suo  tempo  »,  eccetera)  si  mescola  all'im- 
prevista dichiarazione  di  un  teatro  che  trarrebbe  la  sua  materia 
dalle  angoscie  e  dalle  intime  contraddizioni  dell'autore. 


504  EUGÈNE    lONESCO 

Il  quale  —  inconvenienti  del  successo?  —  va  sempre  più  ver- 
so il  pubblico  e  la  formula,  si  lascia  andare  a  spiegazioni  che 
hanno  l'aria  di  compromessi  con  il  quasi  regolare,  dà  l'impres- 
sione di  non  riuscire  a  dominare  l'ingegnoso  disco  delle  ripetizioni, 
di  essere  a  sua  volta  trascinato  dal  torrente  delle  parole  e  delle 
rimasticature.  In  Tueur  sans  gages  (1957)  il  paesaggio  è  sempre 
metafisicamente  realistico,  l'allucinazione  è  sempre  armata  di  un 
coltello  (un  accessorio  che  ha  una  singolare  importanza  nel  teatro 
del  Nostro)  e  rallegrata  da  spiritosi  gags,  e  c'è  sempre  la  trovata 
della  galeotta  fotografia  di  un  mitico  colonnello,  c'è  soprattutto 
la  bellissima  invenzione  della  catastrofe  (l'incontro  dell'Uccisore, 
che  si  limita  a  ghignare,  con  il  detective  volontario  che  fa  un 
interminabile  discorso  «patetico  e  ingenuo,  grottesco  e  sincero, 
eloquente  nell'esposizione  di  tutti  i  luoghi  comuni  tristemente 
inutili  e  invecchiati  »  :  ed  il  conferenziere,  sconvolto  dal  sinistro 
silenzio  dell'altro  e  piò  ancora  dalla  vuota  eco  dei  propri  contrad- 
dittori argomenti  che  si  distruggono  a  vicenda,  finisce  per  esporsi 
anche  lui  alla  distruzione,  al  coltello  dell'assassino  gratuito),  ma 
tre  lunghi  atti  sono  troppi  e  troppo  ingombri  di  oziose  zeppe  e 
di  «clichés»  di  ioneschiana  fattura. 

Allo  stato  attuale  delle  cose,  sembra  che  il  bilancio  presenti, 
con  i  nuovi  acquisti,  la  perdita  del  mordente  delle  prime  rapide 
«  pièces  >,  che  l'assurdo,  cedendo  alla  nevrosi  logica,  porti  nella 
romantica  mania  dell'irrazionale  tabula  rasa  i  ticchi,  e  le  pigre 
abitudini,  di  una  tavola  pitagorica  che  abusa  dello  straordinario 
dei  fattori  e  della  monotonia  dei  prodotti.  Cosi  la  prolifera  mac- 
china calcolatrice  che  ci  ha  dato  l'allucinante  moltiplicazione  degli 
invitati  fantasma  delle  Chaises,  delle  uova  di  Roberta  dai  tre  nasi, 
dei  funghi  del  volatile  Amedeo,  delle  tazzine  da  caffè  di  Victimes 
du  devoir,  dei  mobili  del  Nouveau  Locataire  (1953)  che  invadono 
una  casa  e  sommergono  una  città  intera,  comincia  a  darci  qualche 
preoccupazione  quando  ci  dà  ancora  —  nelle  duecento  pagine  del- 
l'ultima «  pièce  >  {Le  rhinocéros,  1959)  —  la  metamorfosi  in  massa 
degli  abitanti  di  una  città  che  si  moltiplicano  in  rinoceronti:  ad 
eccezione  di  un  solo  (anche  lui  vecchia  conoscenza)  che,  escluso 
—  per  cattiva  coscienza  o  per  mancata  grazia  —  dalla  felice  tra- 
smigrazione in  un'altra  anima  e  in  un  altro  corpo,  resta  nella  tra- 


PRESENTAZIONE  505 

gica  solitudine,  nella  inutile  protesta,  e  nella  bruttezza,  del  suo 
essere  umano.  Anche  questa  favola  racchiuderebbe  una  filosofica 
lezione  (<  Il  faut  reconstituer  les  fondements  de  notre  vie,  —  va 
dicendo  un  personaggio  in  muda,  —  il  faut  retourner  à  Tinté- 
gritc  primordiale»),  ma  la  satira  e  la  morale,  oltre  a  non  su- 
perare l'ingenuo  dettato  di  una  ben  nota  dottrina,  non  riescono 
nemmeno  a  nascondere  la  stanchezza  del  surrealistico  cordame. 

E  come  la  novissima  dottrina,  a  forza  di  cercare  il  vero  nel- 
l'inverosimile e  il  puro  nel  primordiale  finisce  per  trovare  i  vecchi 
abiti  di  Perrault  e  di  Rousseau  rifatti  o  rivoltati  alla  maniera  di 
André  Breton,  cosi  l'anticonformista  lonesco,  a  forza  di  discutere 
con  il  pubblico  e  con  i  critici  finisce  per  abbandonarsi  anche  lui  alla 
«  cerimonia  >  del  manifesto  teatrologico,  dandoci  in  un  prezioso 
e  capzioso  saggio  (<  Expcriences  de  thcàtre  »,  in  Nouvelle  Revue 
Francaise,  febbraio  1958)  la  difesa  e  illustrazione  del  proprio  tea- 
tro. 

Com'era  da  prevedere,  la  professione  di  fede  e  la  precettistica 
sono  intransigenti  e  senza  sfumature.  Psicologico,  ideologico,  so- 
ciale, a  tesi  o  di  costume,  tutto  il  teatro  —  dalla  noiosa  pratica  di 
Molière  e  di  Corneille  alla  tecnica  antiteatrale  di  Piscator  e  di 
Brecht  —  e  condannato  in  blocco  e  senza  appello,  in  quanto  avreb- 
be il  doppio  torto  di  tradire  la  realtà  umana  presentando  l'uomo 
in  «  proporzione  ridotta  >  e  di  rendere  impossibile  la  finzione  tea- 
trale affidandola  a  personaggi  ed  a  attori  in  carne  ed  ossa.  Ai 
falsi  del  cosiddetto  specchio  della  vita,  lonesco  sembra  voler  sosti- 
tuire i  meravigliosi  veri  della  lanterna  magica  (munita  di  defor- 
mante lente  di  ingrandimento)  che  ha  il  compito  di  portare  sulla 
scena  il  sogno  e  il  mito  («tutto  quello  che  sogniamo  è  vero»  e 
«  realizzabile  >)  nella  <  prodigiosa  avventura  >  dell'insolito,  dell'al- 
lucinazione vissuta  e  del  fantasma  incarnato.  Per  arrivare  a  tanto, 
bisogna  eliminare  la  psicologia,  o  piuttosto  darle  dimensioni  me- 
tafisiche, disarticolare  il  linguaggio,  disintegrare  il  reale  apparen- 
te, raggiungere  quindi  «une  virginité  nouvelle  de  l'esprit»  e 
<  une  nouvelle  prise  de  conscience,  purifiée,  de  la  réalitc  existen- 
tielle»,  senza  le  quali  non  vi  sarebbe  né  teatro  né  arte.  L'opera- 
zione va  accompagnata  dalla  sovversione  dei  rapporti  e  dei  valori 
tradizionali  del  comico  e  del  tragico  (che  il  comico,  «étant  l'in- 


506  eucìne  ionesco 

tuition  de  l'aòsurde  >  sarebbe  «  plus  désespérant  que  le  tragiquc  >) 
e  dalla  fusione-urto  dei  due  opposti  elementi  che,  spinti  al  massi- 
mo della  tensione  e  dello  sregolamento,  darebbero  «  une  synthèse 
thcatrale  noùvelle». 

Tutte  queste  novità  le  abbiamo  sentite  da  Gerard  de  Neryal, 
da  Rimbaud,  da  Lautréamont,  da  ApoUinaire  e  dai  loro  epigoni. 
La  vera  originalità  di  Ionesco  è,  più  che  nell'esoterico  postulato, 
nei  modi  pratici  e  nei  risultati  della  teatrale  dimostrazione.  A  dif- 
ferenza della  poesia  pura,  il  teatro  puro  non  abolisce  il  «bibelot 
sonore  >  né  disdegna  i  trucchi,  i  «  clichés  >  e  gli  espedienti  tradi- 
zionali, sibbene  li  utilizza  —  e  li  compromette  —  portandoli  al- 
l'estremo della  violenza  e  del  paradosso.  Le  «ficelles>  sono  per- 
tanto ingrossate  enormemente,  la  parodia  e  la  caricatura  sono  di 
proposito  spinte  al  parossismo,  la  parola  diviene  elemento  di  choc, 
il  discorso  assume  un  carattere  esplosivo  fino  a  che  tutto  l'insieme 
raggiunge  la  zona  rarefatta  dove  —  partecipando  al  sortilegio  l'og- 
getto che  si  anima  e  lo  scenario  che  si  muove  —  «il  non-naturale 
appare  naturale  e  il  troppo-naturale  non  naturalista».  E  lo  spet- 
tatore allora  vede  sulla  scena  quello  che  non  ha  mai  visto,  veden- 
dosi come  non  s'è  mai  visto. 

Teatro  elettro<hoc,  quindi,  che,  snebbiando  la  mente  ottusa 
e  confusa  dal  reale,  ci  svelerebbe  nella  esasperata  rappresentazione 
del  quotidiano  l'assurdo  del  quotidiano  dandoci  in  pari  tempo  la 
concreta  rappresentazione  dell'assurdo  metafisico.  E  teatro  della 
veggenza  che  manovra  ingegnosamente  «la  machine  à  décerve- 
ler  >  di  Jarry,  della  quale  Ionesco  sembra  la  prima  sincera  vittima 
e  <  l'apprenti  sorcier  ».  <  Io  non  sono  riuscito,  —  dichiara  nei  Ca- 
hiers  des  Saisons,  1959,  —  ad  abituarmi  all'esistenza  del  mondo  e 
soprattutto  alla  mia...  E  mi  capita  di  sentire  che  le  forme  si  svuo- 
tano del  contenuto,  che  la  realtà  è  irreale,  che  le  parole  sono  rumore 
vuoto  di  senso...  E  in  uno  spazio  senza  spazio  tutto  sembra  vola- 
tizzarsi,  tutto  è  minacciato  —  me  compreso  —  da  un  imminente, 
silenzioso  crollo  in  non  si  sa  quale  abisso  >. 

Come  a  Sartre,  è  vano  chiedere  a  Ionesco  quale  valore  di 
«  autenticità  >  (come  dicono)  possano  avere  una  concezione  cosi 
unilaterale  dell'uomo  e  una  così  parziale  visione  del  vero  e  del 
tutto.  Con   Ionesco  potremmo  chiederci   «par  quelle   sorcellerie 


PRESENTAZIONE  507 

tout  cela  pcut-il-encorc  tenir  >  e  per  quale  paradosso  il  teatro  an- 
tì-naturale  e  anti-lettcrario  unisca  nello  stesso  entusiasmo  il  grosso 
pubblico,  che  ride,  e  i  letterati  che  parlano  di  «teatro  al  quadra- 
to», di  «tromba  marina»,  di  magico  «capovolgimento  del  pro- 
blema dell'essere  e  del  non  essere  »  e  di  simili  incantesimi  e  mera- 
viglie. La  risposta  potrebbe  essere  data  da  quello  che  lo  stesso 
lonesco  dice  di  Pirandello,  che  cioè,  mentre  la  filosofìa  e  l'ideologia 
pirandelliane  son  crollate,  «  c'est  son  langage  théatral,  son  instinct 
purement  théatral  qui  fait  que  Pirandello  est  aujourd'hui  cncore 
vivant  >.  E  lonesco  possiede  al  sommo  grado  questo  istinto,  il  lin- 
guaggio e  il  dono  teatrale  che  gli  hanno  consentito  di  vincere  la 
vecchia  scommessa  dei  veggenti  e  dei  visionari,  di  dare  un'anima 
illusoria  e  un  massiccio  corpo  all'invisibile  e  all'inaudito. 

FA  è,  quella  di  lonesco,  la  pili  recente  avventura  romantica 
del  tragico  che  porta  la  grossa  maschera  del  comico,  dell'assurdo 
che  assume  le  favolose  forme  e  le  gratuite  parvenze  del  naturale. 


Le  sedie 


PERSONAGGI 


IL  VECCHIO,  novantacinque  anni 
LA  VECCHIA,  novantaquattro  anni 
l'oratore,  quarantacinque-cinquant'anni 
E  molli  altri  personaggi  invisibili 


LE  SEDIE 

farsa  tragica 


Pitreti  circolari  con  un  vano  nel  fondo.  Sala  molto  spoglia.  A  destra,  comin- 
ciando dal  proscenio,  tre  porte.  Poi  una  finestra,  uno  sgabello  davanti  alla 
finestra,  e  ancora  una  porta.  Nel  vano  del  fondo,  una  grande  porta  a  due  bat- 
tenti e  due  porte  minori  che  si  fronteggiano:  queste  due  porte,  o  almeno  una, 
sono  quasi  completamente  nascoste  agli  occhi  del  pubblico.  A  sinistra  della 
scena,  sempre  cominciando  dal  proscenio,  tre  porte,  una  finestra  con  sgabello, 
come  a  destra:  poi  una  lavagna  e  una  pedana. 
A  proscenio,  due  sedie  fianco  a  fianco.  Una  lampada  a  gas  appesa  al  soffitto. 


Si  apre  il  sipario.  Penombra,  il  vecchio  in  piedi  su  uno  sgabello, 
è  affacciato  alla  finestra  di  sinistra,  la  vecchia  accende  la  lampada 
a  gas.  Luce  verde.  La  donna  va  a  tirare  il  marito  per  la  manica, 

LA  VECCHIA  -  Su,  tesoro,  chiudi  la  finestra.  L'acqua  stagnante  fa  cat- 
tivo odore,  e  poi  entrano  le  zanzare. 
IL  VECCHIO  -  Non  seccarmi. 
LA  VECCHIA  -  Su  SU,  tcsorino,  vienti  a  sedere.  Non  sporgerti,  potresti 

cadere  nell'acqua.  Ricorda  cos'è  successo  a  Francesco  L  Bisogna 

fare  attenzione. 
IL  VECCHIO  -  E  dagliela  con  gli  esempi  storici!  Lo  sai,  cocca,  che  ho 

le  tasche  piene  della  tua  storia  di  Francia.  Io  voglio  guardare.  Le 

barche  sull'acqua  fanno  delle  chiazze  al  sole. 
LA  VECCHIA  -  Ma  non  puoi  vederle!  Non  c'è  il  sole,  è  notte,  tesoro  mio. 
IL  VECCHIO  -  Ne  restano  le  ombre,  {si  sporge  molto) 
LA  VECCHIA  (lo  tira  con  tutte  le  forze)  -  Ah...  mi  farai  morire,  tesoro... 

vieni  a  sederti,  tanto  non  le  vedrai  arrivare.  Non  ne  vai  la  pena. 

È  notte... 

(//  vecchio  si  lascia  trascinare  di  malavoglia) 

IL  VECCHIO  -  Volevo  guardare,  mi  piace  tanto  guardare  l'acqua. 

LA  VECCHIA  -  Sci  fantastico,  tesoro  mio;  a  me  guardare  giù  dà  le  ver- 
tigini. Ah!  questa  casa,  quest'isola:  non  riesco  ad  abituarmici.  Ac- 
qua tutt'intorno...  acqua  sotto  le  finestre,  acqua  (ino  all'orizzonte... 


512  eugìne  ionesco 

(la  vecchia  trascina  il  vecchio;  si  dirigono  verso  le  due  sedie  che  si 
trovano  a  proscenio;  il  vecchio,  con  la  massima  naturalezza,  si  siede 
sulle  ginocchia  della  vecchia) 

IL  VECCHIO  -  Sono  le  sci  del  pomeriggio...  fa  già  buio.  Ti  ricordi?  Una 
volta  non  era  cosi,  era  ancora  chiaro  alle  nove  di  sera,  alle  dieci,  a 
mezzanotte. 

LA  VECCHIA  -  È  vero.  Che  buona  memoria  hai! 

IL  VECCHIO  -  Tutto  è  cambiato. 

LA  VECCHIA  -  E  perché,  secondo  te? 

IL  VECCHIO  -  Ah  non  saprei,  Semiramide...  Forse  perché  più  si  va,  più 
si  sprofonda.  È  colpa  della  terra  che  gira,  gira,  gira,  gira... 

LA  VECCHIA  -  Gira,  gira,  piccolo  mio...  {pausa)  Ah  si,  tu  sei  certamente 
un  gran  sapiente.  Tu  hai  molto  talento,  tesoro  mio.  Avresti  potuto 
essere  Presidente  Capo,  Re  Capo,  o  persino  Dottore  Capo,  Mare- 
sciallo Capo,  se  tu  avessi  voluto,  se  avessi  avuto  un  po'  d'ambi- 
zione... 

IL  VECCHIO  -  A  che  cosa  sarebbe  servito?  Non  ce  la  saremmo  passata 
meglio...  e  poi,  dopo  tutto,  abbiamo  una  posizione,  sono  Mare- 
sciallo anche  cosi.  Maresciallo  d'Alloggio,  dal  momento  che  sono 
portinaio. 

LA  VECCHIA  {lo  accorczza  come  fosse  un  bambino)  -  Povero  piccino... 

IL  VECCHIO  -  Io  crcpo  di  noia. 

LA  VECCHIA  -  Eri  più  allcgro  guando  guardavi  Tacqua...  Per  distrarti, 
fa'  di  nuovo  finta,  come  l'altra  sera. 

IL  VECCHIO  -  Fa'  finta  tu,  oggi  tocca  a  te. 

LA  VECCHIA  -  Tocca  a  te. 

IL  VECCHIO  -  A  te. 
LA  VECCHIA  -  A  te. 
IL  VECCHIO  -  A  te. 
LA  VECCHIA  -  A  te. 

IL  VECCHIO  -  Bevi  il  tuo  tè,  Semiramide. 

{evidentemente  non  ce  tè  di  sorta) 

LA  VECCHIA  -  Allora  imita  il  mese  di  febbraio. 

IL  VECCHIO  -  Non  mi  piacciono  i  mesi  dell'anno. 

LA  VECCHIA  -  Per  il  momento  non  ce  ne  sono  altri.  Via,  fammi  il  pia- 
cere... 

IL  VECCHIO  -  E  sia.  Eccoti  il  mese  di  febbraio,  {si  gratta  la  testa  come 
Stan  Laurei) 

LA  VECCHIA  (ride  e  applaude)  -  Magnifico,  magnifico,  grazie,  sci  deli- 


LE   SEDIE  513 

zioso,  tesoro  mio.  {lo  bada)  Oh!  tu  sei  molto  intelligente,  avresti 
potuto  essere  per  lo  meno  Maresciallo  in  Capo,  se  avessi  voluto.... 
IL  VECCHIO  -  Sono  Maresciallo  d'Alloggio. 

(pausa) 

LA  VECCHIA  -  Raccontami  la  storia,  saiP  quella:   «Allora  si  arri...». 

IL  VECCHIO  -  Ancora?!...  Adesso  ne  ho  abbastanza...  «  Allora  si  arri...  »? 
((  Allora  si  arri...  ».  È  monotono...  Dopo  settantacinque  anni  che 
siamo  sposati,  tutte  le  sere,  assolutamente  tutte  le  sere,  mi  fai  rac- 
contare la  medesima  storia,  mi  fai  imitare  le  medesime  persone,  gli 
stessi  mesi.  È  una  musica  troppo  vecchia  ormai...  Parliamo  d  altro... 

LA  VECCHIA  -  Gioia  mia,  io  non  me  ne  stanco  mai...  È  la  tua  vita,  e 
mi  appassiona. 

IL  VECCHIO  -  La  conosci  a  menadito. 

LA  VECCHIA  -  Per  me  è  come  se  dimenticassi  sempre  tutto...  Ho  lo  spi- 
rito nuovo  tutte  le  sere...  Ma  si,  vedi,  lo  faccio  apposta,  prendo 
delle  purghe...  ridivento  nuova  per  te,  mio  tesoro,  tutte  le  sere... 
Su^  comincia,  te  ne  supplico. 

IL  VECCHIO  -  Se  proprio  vuoi. 

LA  VECCHIA  -  Su,  racconta  la  tua  storia...  È  anche  la  mia:  ciò  che  è 
tuo,  è  mio:  allora  si  arri... 

IL  VECCHIO  -  Allora  si  arri...  anima  mia... 

LA  VECCHIA  -  Allora  si  arri...  cuoricino  mio... 

IL  VECCHIO  -  Allora  si  arrivò  presso  un  grande  cancello.  Eravamo  tutti 
bagnati,  gelati  fino  alFosso,  da  parecchie  ore,  giorni,  notti,  setti- 
mane... 

LA  VECCHIA  -   Mesi... 

IL  VECCHIO  -  ...  nella  pioggia...  battevamo  gli  orecchi,  i  piedi,  i  ginoc- 
chi, i  denti...  Son  passati  ottant'anni  da  allora...  non  ci  hanno  la- 
sciati entrare...  Avrebbero  potuto  aprire  almeno  la  porta  del  giar- 
dino... 

(pausa) 

LA  VECCHIA  -  Nel  giardino  l'erba  era  bagnata. 

IL  VECCHIO  -  Il  sentiero  conduceva  ad  una  piccola  piazza  e  nel  mezzo 
della  piazza  c'era  una  chiesetta  di  villaggio...  Dov'era  quel  villag- 
gio? Ti  ricordi? 

LA  VECCHIA  -  No,  caro,  non  ricordo  più. 

IL  VECCHIO  -  Come  si  faceva  per  arrivarci?  La  strada  dov'era?  Quella 
località,  io  credo,  si  chiamava  Parigi... 

LA  VECCHIA  -  Non  è  mai  esistita  la  tua  Parigi,  carino  mio. 

IL  VECCHIO  -  Si,  che  è  esistita  dal  momento  che  è  sprofondata...  Era 


Teatro  francese 


514  EUGÈNE    lONESOO 

la  città  della  luce  visto  che  si  è  spenta,  spenta  da  quattrocentomila 
anni...  Oggi  non  ne  resta  più  niente,  salvo  una  canzone. 

LA  VECCHIA  -  Una  canzone?  È  buffo.  Quale  canzone? 

IL  VECCHIO  -  Una  ninna-nanna,  un'allegoria:  «  Paris  sera  toujours  Pa- 
ris ». 

LA  VECCHIA  -  Si  arrivava  attraverso  il  giardino?  Era  lontano? 

IL  VECCHIO  -  La  canzone?...  la  pioggia?... 

LA  VECCHIA  -  Tu  Sei  molto  intelligente.  Se  avessi  avuto  un  po'  d'am- 
bizione, saresti  diventato  un  Re  Capo,  un  Giornalista  Capo,  un 
Attore  Capo,  un  Maresciallo  Capo...  Nel  vuoto  tutto  ciò,  ahimé... 
nel  gran  vuoto  nero  nero.  Nel  vuoto  nero,  ti  dico. 

(pausa) 
IL  VECCHIO  -  Allora  arri... 
LA  VECCHIA  -  Ah  SI,  Continua...  racconta... 

{la  vecchia  intanto  si  metterà  a  ridere,  prima  sottovoce,  leziosa,  poi 
sempre  più  forte;  alla  fine  anche  il  vecchio  riderà) 

IL  VECCHIO  -  Allora  ha  ri...  ha  ri...  ha  riso:  a...  a...  aveva  mal  di  pan- 
cia, tanto  ha...  ha...  ha  riso,  quando  a...  arrivò  il  buffone  col  pan- 
cione a...  a  terra.  A...  a...  aveva  un  valigione  pi...  pi...eno  di  ri... 
riso  di  serra.  Il  ri...  riso  si  rovesciò  per  terra  e  il  buffone  col  pan- 
cione sul  valigione  tra  il  riso,  pumi,  per  terra.  Allora  ha...  ha  rìso... 
so...  so,  pum^  pancione,  riso,  terra,  la  storia  del  mal  di  riso  pan- 
cione a  terra,  nel  ri...  riso,  ha...  ha  riso,  il  pancione  del  buffone, 
pumi  nel  riso... 

LA  VECCHIA  {ridendo)  -  Allora  ha...  ha  riso...  so...  so  del  buffone,  arri... 
ri...vato  col  valigione...  pumi  per  terra... 

I  DUE  VECCHI  {insieme  ridendo)  -  Allora  ha...  ha...  ri...  arri...  arri... 
Ah...  Ah...  ri...  vò...  arri...  arri...  il  buffone,  pum,  col  pancione.., 
Ah...  Ah...  al  riso  arri...  arrivò...  al  riso  arri...  arrivò...  pancione.., 
valigione...  Ah...  Ah...  {poi  i  due  vecchi  a  poco  a  poco  si  calmano) 
...arri...  arri...  ri...  ri... 

LA  VECCHIA  -  Non  era  che  questo  la  tua  famosa  Parigi? 

IL  VECCHIO  -  E  come  si  potrebbe  dir  meglio? 

LA  VECCHIA  -  Oh,  tu  sci  davvero  intelligente,  mio  caro,  davvero,  sai? 
davvero!  Tu  avresti  potuto  essere  qualcuno  al  mondo,  molto  più 
che  Maresciallo  d'Alloggio. 

IL  VECCHIO  -  Cerchiamo  d'esser  modesti!...  non  domandiamo  troppo... 

LA  VECCHIA  -  Forse  hai  infranto  la  tua  vocazione? 

IL  VECCHIO  {mettendosi  d'un  tratto  a  piangere)  -  L'ho  infranta?  L'ho 
rotta?  Ah,  mamma,  dove  sei,  mamma,  mamma,  dove  sei?...  Ih,  ih, 


LE   SEDIE  515 

ih,  sono  un  orfanello  I  (geme)  ...  un  orfanello,  un  orfanello... 

LA  VECCHIA  -  Ci  sono  io  qui,  di  che  hai  paura? 

IL  VECCHIO  -  No,  Semiramide,  cocchina  mia.  Tu  non  sei  la  mia  mam- 
mina... orfanello,  orfanello,  chi  mi  difenderà? 

LA  VECCHIA  -  Tesoro,  ci  sono  io! 

IL  VECCHIO  -  Non  è  la  stessa  cosa...  io  voglio  la  mia  mamma,  tu  non 
sei  la  mia  mammina... 

LA  VECCHIA  {accarezzandolo)  -  Mi  spezzi  il  cuore,  non  piangere,  stel- 
lina! 

IL  VECCHIO  -  Ih,  ih,  son  tutto  infranto,  son  tutto  rotto,  ho  male,  la 
vocazione  mi  fa  male,  s'è  infranta,  s'è  rotta. 

LA  VECCHIA  -  Calmati. 

IL  VECCHIO  {singhiozzando  con  la  bocca  spalancata  come  quella  di  un 
bebé)  '  Sono  un  orfanello...  orfanello... 

LA  VECCHIA  {cerca  di  consolarlo  e  lo  coccola)  -  Il  mio  orfanello,  il  mio 
micino,  mi  spezza  il  cuore!...  {lo  culla  sulle  sue  ginocchia) 

IL  VECCHIO  {singhiozzando)  -  Ih,  ih,  ih!  Mamma!  Dov'è  la  mia  mam- 
ma, la  mia  mamminina,  io  non  ho  la  mia  mamminina. 

LA  VECCHIA  -  Sono  tua  moglie,  sono  io,  adesso,  la  tua  mamma. 

IL  VECCHIO  {cominciando  ad  arrendersi)  -  Non  è  vero,  sono  un  orfa- 
nello, ih,  ih! 

LA  VECCHIA  {cullandolo  sempre)  -  Il  mio  micino,  orfanellino,  orfanuc- 
cio,  orfanettino... 

IL  VECCHIO  {ancora  imbronciato  ma  cominciando  a  lasciarsi  persua- 
dere) '  No!...  Non  voglio,  io  non  vogliooooo! 

LA  VECCHIA  {canticchia)  -  Orfanello-lo-lo,  orfanino-no,  orfanuccio-cio-cio, 
lin-lon-lan! 

IL  VECCHIO  -  Noooo!  Nooooo!... 

LA  VECCHIA  -  Orfa-a-a-ne-e-e-e-llo-o-o-o!  Orfa-a-a-a-nu-u-u-u-ccio-o-o-o! 
Trallalalà! 

IL  VECCHIO  -  Ih,  ih,  ih!  {tira  su  fortemente  dal  naso  e  a  poco  a  poco 
si  calma)  Dov'è  la  mia  mamma? 

LA  VECCHIA  -  In  Paradiso...  E  ti  ascolta,  ti  guarda,  e  se  piangi  tu  pian- 
gerà anche  lei! 

IL  VECCHIO  -  Non  è  mica  veroooooo...  Non  mi  vede...  Non  mi  ascolta. 
Io  sono  un  orfanello,  solo  al  mondo  e  tu  non  sci  la  mia  mamma. 
(//  vecchio  è  quasi  calmo) 

LA  VECCHIA  -  Su,  Calmati,  non  ridurli  in  questo  stato...  tu  hai  delle 
qualità  eccezionali,  mio  piccolo  Maresciallo...  Asciugati  le  lacrime, 
questa  sera  debbono  venire  gli  invitati.  Non  bisogna  che  ti  trovino 
cosi...  Non  è  affatto  vero  che  tutto  è  perduto:   tu  dirai  ogni  cosa, 


516  EUGÈNE   lONESCO 

la  spiegherai,  hai  un  messaggio...  Hai  sempre  ripetuto  che  Tavresti 
detto...  Devi  vivere,  devi  lottare  per  il  tuo  messaggio... 

IL  VECCHIO  -  Certamente,  ho  un  messaggio,  hai  ragione.  Io  lotto  per 
la  mia  missione.  Ho  qualcosa,  qui,  nei  visceri,  un  messaggio  da 
comunicare  all'umanità,  all'umanità... 

LA  VECCHIA  -  Si,  topolino  mio,  il  tuo  messaggio  all'umanità... 

IL  VECCHIO  -  Questo  è  vero,  è  proprio  cosi... 

LA  VECCHIA  {lo  puHsce  col  fazzoletto  e  gli  asciuga  le  lacrime)  -  Cosi 
va  bene...  sei  un  uomo,  un  soldato,  un  Maresciallo  d'Alloggio... 

IL  VECCHIO  {si  è  alzato  dalle  ginocchia  della  vecchia  e  cammina  a  pic- 
coli passi  nervosi)  -  Io  non  sono  come  gli  altri,  io  ho  un  ideale 
nella  vita.  Forse,  come  tu  dici,  sono  intelligente,  ho  del  talento, 
ma  non  ho  facilità  d'espressione.  Ho  ben  adempiuto  ai  miei  doveri 
di  Maresciallo  d'Alloggio,  sono  sempre  stato  all'altezza  della  situa- 
zione, con  decoro,  ciò  potrebbe  bastare... 

LA  VECCHIA  -  Ad  altri,  non  a  te.  Tu  non  sei  come  gli  altri.  Tu  sei 
molto  più  in  su.  Ad  ogni  modo  sarebbe  stato  assai  meglio  se  tu 
fossi  andato  d'accordo  col  tuo  prossimo,  come  fanno  tutti.  E  in- 
vece hai  litigato  con  tutti  i  tuoi  amici,  con  tutti  i  direttori,  con  tutti 
i  marescialli  e  con  tuo  fratello. 

IL  VECCHIO  -  Non  è  colpa  mia,  Semiramide;  sai  bene  ciò  che  mi  ha 
detto. 

LA  VECCHIA  -  Che  cosa  ti  ha  detto? 

IL  VECCHIO  -  Ha  detto:  «  Ragazzi,  ho  una  pulce.  Sono  venuto  a  tro- 
varvi con  la  speranza  di  lasciarvela  ». 

LA  VECCHIA  -  È  un  modo  di  dire.  Non  avresti  dovuto  dargli  peso.  Ad 
ogni  modo  perché  hai  litigato  anche  con  Carol?  Colpa  sua  anche 
stavolta  ? 

IL  VECCHIO  -  Hai  deciso  di  farmi  andar  fuori  dai  gangheri?  Guarda 
un  po'.  Certamente  che  e  stata  colpa  sua.  Una  sera  e  arrivato  e  mi 
ha  detto:  «Ti  auguro  buona  fortuna.  Dovrei  dirti:  abbi  del..., 
ma  non  lo  dirò:  lo  penso  ».  E  rideva  come  un  maiale. 

LA  VECCHIA  -  Era  un  uomo  di  buon  cuore,  tesoro  mio.  Nella  vita  non 
bisogna  esser  troppo  schizzinosi. 

IL  VECCHIO  -  Non  mi  piacciono  certi  scherzi. 

LA  VECCHIA  -  Tu  avresti  potuto  essere  Marinaio  Capo,  Ebanista  Capo, 
Direttore  d'Orchestra  Capo. 

{lungo  silenzio.  Restano  un  momento  impietriti,  completamente  im- 
mobili sulla  loro  sedia) 

IL  VECCHIO  (sognante)  -  Era  in  fondo  al  fondo  del  giardino...  era  là... 
era  là...  era  là...  Che  cosa  era  là,  mia  cara? 


LE   SEDIE  517 

LA  VECCHIA  -  Parigi? 

IL  VECCHIO  -  In  fondo,  in  fondo  al  fondo  di  Parigi,  c'era,  c'era,  c'era 
che  cosa? 

LA  VECCHIA  -  Che  cosa  c'era,  mio  tesoro,  chi  c'era? 

IL  VECCHIO  -  C'era  un  luogo,  un'epoca  deliziosa... 

LA  VECCHIA  -  Era  un'epoca  tanto  bella,  credi? 

IL  VECCHIO  -  Io  non  ricordo  la  località... 

LA  VECCHIA  -  E  allora  non  stancarti  la  mente. 

IL  VECCHIO  -  È  troppo,  troppo  lontano,  non  riesco  più...  a  riacchiappar- 
la... Dov'era? 

LA  VECCHIA  -  Di  che  cosa  parli? 

IL  VECCHIO  -  Quel  che  mi...  quel  che  si...  dov'era?  Chi  era? 

LA  VECCHIA  -  Dovunque  sia  io  ti  seguirò,  mio  tesoro. 

IL  VECCHIO  -  Ah!  Faccio  tanto  fatica  ad  esprimermi...  Bisogna  proprio 
che  dica  tutto. 

LA  VECCHIA  -  È  il  tuo  sacrosauto  dovere.  Non  hai  il  diritto  di  tacere  il 
tuo  messaggio;  devi  rivelarlo  agli  uomini,  essi  lo  aspettano...  l'uni- 
verso non  aspetta  che  te. 

IL  VECCHIO  -  Si  SI,  lo  dirò. 

LA  VECCHIA  -  Sei  ben  deciso?  È  indispensabile. 

IL  VECCHIO  -  Bevi  il  tuo  te. 

LA  VECCHIA  -  Avresti  potuto  essere  Oratore  Capo,  se  avessi  avuto  un  po' 
di  volontà...  Io  sono  fiera,  sono  felice  che  tu  ti  sia  finalmente  deciso 
a  parlare  a  tutti  i  paesi,  all'Europa,  a  tutti  i  continenti! 

IL  VECCHIO  -  Ahimé,  faccio  tanta  fatica  ad  esprimermi,  non  ho  di- 
sposizioni. 

LA  VECCHIA  -  Le  disposizioni  vengono  quando  si  comincia,  come  la 
vita  e  la  morte...  Basta  essere  risoluti.  Parlando  si  trovano  le  idee, 
le  parole,  e  poi  nelle  parole  si  trova  anche  noi  stessi  e  la  città, 
il  giardino,  ritroviamo  tutto  forse,  e  non  si  è  più  orfani. 

IL  VECCHIO  -  Non  sarò  io  a  parlare.  Ho  assoldato  un  oratore  profes- 
sionale, parlerà  a  nome  mio,  vedrai. 

LA  VECCHIA  -  Allora  è  proprio  deciso  tutto  per  questa  sera?  Li  hai 
perlomeno  tutti  convocati,  tutte  le  personalità,  tutti  i  proprietari 
e  tutti  gli  studiosi? 

IL  VECCHIO  -  Si,  tutti  i  proprietari  e  tutti  gli  studiosi. 

{pausa) 

LA  VECCHIA  -  Guardiani?  Vescovi?  Chimici?  Calderai?  Violinisti?  De- 
legati? Presidenti?  Poliziotti?  Commercianti?  Edifìci?  Portapenne? 
Cromosomi  ? 


518  eugìne  ionesco 

IL  VECCHIO  -  Si,  SI,  e  anche  i  postini,  gii  albergatori,  gli  artisti,  insom- 
ma tutti  quelli  che  sono  un  pò*  studiosi  e  un  po'  proprietari! 

LA  VECCHIA  -  E  i  banchieri? 

IL  VECCHIO  -  Li  ho  convocati. 

LA  VECCHIA  -  I  proletari?  I  funzionari?  I  militari?  I  rivoluzionari? 
I  reazionari?  Gli  alienisti  e  i  loro  alienati? 

IL  VECCHIO  -  Ma  SI,  ti  dico,  tutti,  tutti,  tutti,  giacché  evidentemente, 
per  un  verso  o  per  l'altro,  sono  tutti  degli  studiosi  o  dei  pro- 
prietari. 

LA  VECCHIA  -  Non  arrabbiarti,  tesoro,  non  voglio  infastidirti;  tu  però 
sei  talmente  distratto,  come  tutti  i  grandi  geni,  e  questa  riunione 
è  importante,  bisogna  proprio  che  questa  sera  ci  siano  tutti.  Sei 
certo  di  poter  contare  su  di  loro?  Hanno  dato  la  parola? 

IL  VECCHIO  -  Bevi  il  tuo  tè,  Semiramide. 

(pausa) 

LA  VECCHIA  -  Il  Papa,  i  pappagalli  e  i  papiri? 

IL  VECCHIO  -  Li  ho  convocati,  (pausa)  Annuncerò  il  mio  messaggio... 
Tutta  la  mia  vita  mi  sentivo  soffocare,  adesso  sapranno  tutto,  gra- 
zie a  te  e  all'oratore,  voi  soli  mi  avete  compreso. 

LA  VECCHIA  -  Sono  fiera  di  te... 

IL  VECCHIO  -  La  riunione  si  terrà  fra  poco. 

LA  VECCHIA  -  È  dunque  vero?  Stanno  per  arrivare,  questa  sera  stessa? 
Non  ti  verrà  più  da  piangere:  gli  studiosi  e  i  proprietari  possono 
rimpiazzare  benissimo  i  papà  e  le  mamme,  (pausa)  Ormai  non  si 
potrebbe  più  rinviare  la  riunione.  Questa  faccenda  però  non  d 
stancherà  troppo? 

(agitazione  piti  intensa.  Già  da  qualche  istante  il  vecchio  sta  girando  a 
piccoli  passi  esitatiti  —  passi  da  vegliardo  e  da  bambino  —  attorno 
alla  moglie.  Fa  due  o  tre  passi  in  direzione  di  una  delle  porte,  poi 
ritorna  a  girare  in  tondo) 

IL  VECCHIO  -  Pensi  davvero  che  ci  stancheremo? 

LA  VECCHIA  -  Tu  sci  un  po*  raffreddato. 

IL  VECCHIO  -  Come  fare  a  disdire  gli  inviti? 

LA  VECCHIA  -  Invitiamoli  un'altra  sera.  Potresti  telefonare. 

IL  VECCHIO  -  Dio  mio,  è  impossibile,  ormai  è  troppo  tardi.  A  quest'ora 

si  sono  di  certo  già  imbarcati! 
LA  VECCHIA  -  Avresti  dovuto  essere  più  prudente. 

(si  ode  il  fruscio  di  una  barca  sull'acqua) 


519 


IL  VECCHIO  -  Credo  che  stiano  arrivando... 

(//  fruscio  della  barca  si  ode  più  distintamente) 

Si,  arrivano!... 

{anche  la  vecchia  si  alza  e  cammina  zoppicando) 

LA  VECCHIA  -  Forse  è  l'oratore. 

IL  VECCHIO  -  Non  arriva  cos(  presto  lui.  Dev'essere  qualcuno  degli 

altri. 

(suonano) 

Ahi 

LA   VECCHIA   -   Ah! 

{nervosamente  il  vecchio  e  la  vecchia  si  dirigono  verso  la  porta  nascosta 
nel  fondo,  a  destra) 

I  VECCHI  -  Andiamo... 

LA  VECCHIA  .  Sono  tutta  spettinata...  Aspetta  un  momento...  {si  aggiu- 
sta i  capelli,  l'abito,  continuando  a  camminare  zoppicando;  si  tira 
su  le  grosse  calze  rosse) 

IL  VECCHIO  -  Dovevi  prepararti  prima...  C'era  tutto  il  tempo... 

LA  VECCHIA  -  Guarda  come  sono  mal  vestita!...  Ho  l'abito  frusto  e  spie- 
gazzato... 

IL  VECCHIO  -  Non  avevi  che  da  stirarlo...  Spicciati!  Fai  aspettare  la 
gente. 

(//  vecchio,  seguito  dalla  vecchia  che  brontola,  arriva  alla  porta  n,  10, 
nel  vano;  il  pubblico  non  li  vede  per  un  momento;  si  ode  aprire 
la  porta,  poi  richiuderla,  dopo  che  è  entrato  qualcuno) 

VOCE  DEL  VECCHIO  -  Buon  giomo,  Signora,  entri  la  prego.  Siamo  felici 
di  riceverla.  Ecco  mia  moglie. 

VOCE  DELLA  VECCHIA  -  Buon  giomo,  Signora.  Felice  di  fare  la  sua  co- 
noscenza. Attenzione:  non  guasti  il  cappello.  Tolga  pure  la  spilla, 
sarà  più  comodo.  Oh  no!  Nessuno  vi  sì  siederà  sopra. 

VOCE  DEL  VECCHIO  -  Metta  pure  qua  la  sua  pelliccia.  Aspetti,  l'aiuto. 
Stia  tranquilla,  non  si  rovinerà. 

VOCE  DELLA  VECCHIA  -  Oh  che  dclizioso  tailleur...  E  la  camicetta  trico- 
lore... Gradirà  sicuramente  qualche  biscotto...  Non  è  affatto  grassa... 
No...  Un  po'  in  carne...  Lasci  pure  il  paracqua. 

VOCE  DEL  VECCHIO  -  Se  vuolc  scguirci... 

IL  VECCHIO  {di  schiena)  -  Non  ho  che  un  modestissimo  impiego... 

{il  vecchio  e  la  vecchia  si  ventano  al  medesimo  tempo  e  si  scostano  per 
far  posto,  tra  loro,  altinvitata.  Costei  è  invisibile.  Il  vecchio  e  la 


520  EUGÈNE    lONESCO 

vecchia  avanzano  di  faccia  verso  il  proscenio;  parlano  alla  signora 
invisibile  che  cammina  tra  loro) 

IL  VECCHIO  (alla  Signora  invisibile)  -  Ha  avuto  tempo  bello? 

LA  VECCHIA  (dia  stessa)  -  Non  si  sarà  mica  stancata  troppo?...  Sf,  un 

po'. 
IL  VECCHIO  (come  sopra)  -  In  riva  all'acqua... 
LA  VECCHIA  (come  sopra)  -  Troppo  gentile  da  parte  sua. 
IL  N'EccHio  (come  sopra)  -  Vado  a  prenderle  una  sedia. 

(il  vecchio  si  dirige  a  sinistra  ed  esce  dalla  porta  n.  6) 

LA  VECCHIA  (come  sopra)  -  Mentre  aspetta,  prenda  questa  sedia  (indica 
una  delle  due  sedie  e  si  siede  sull'altra,  a  destra  della  Signora  invisi- 
bile) Fa  molto  caldo,  non  le  pare?  (sorride  alla  Signora)  Che  gra- 
zioso ventaglio!  Mio  marito... 

(//  vecchio  riappare  dalla  porta  «.  7  con  una  sedia) 

...  me  ne  aveva  regalato  uno  simile,  settantatré  anni  fa...  L*ho  an- 
cora... 

(//  vecchio  mette  la  sedia  alla  sinistra  della  Signora  invisibile) 

...un  regalo  di  compleanno!... 

{il  vecchio  siede  sulla  sedia  che  ha  portato,  cosicché  la  Signora  invi- 
sibile viene  a  trovarsi  nel  mezzo,  il  vecchio,  rivolto  alla  Signora, 
le  sorride,  dondola  la  testa,  stropiccia  adagio  una  mano  contro 
l'altra,  ha  l'aria  di  ascoltare  ciò  che  essa  dice.  La  mimica  della 
vecchia  è  analoga) 

IL  VECCHIO  -  Signora,  la  vita  non  è  mai  stata  a  buon  mercato. 
LA  VECCHIA  (alla  Signora)  -  Lei  ha  perfettamente  ragione... 

(la  Signora  parla) 

Proprio  COSI...  Sarebbe  ora  che  le  cose  cambiassero...  (con  altro 
tono)  Forse,  mio  marito  ci  penserà...  Ha  un  progetto... 
IL  VECCHIO  (alla  vecchia)  -  Semiramide,  per  carità,  non  è  ancora  il  mo- 
mento di  parlarne,  (alla  Signora)  Mi  scusi,  Signora,  d'aver  stuz- 
zicato la  sua  curiosità,  (la  Signora  reagisce)  Cara  Signora,  la  prego» 
non  insista... 

(/  due  vecchi  sorridono.  Ridono  anzi.  Hanno  l'aria  di  divertirsi  molto 
alla  storia  che  la  Signora  invisibile  racconta.  Una  pausa,  un  mo- 
mento morto  nella  conversazione.  Le  figure  perdono  ogni  espres- 
sione) 

IL  VECCHIO  (dia  Signora)  -  ...  Sì,  lei  ha  perfettamente  ragione... 


LE    SEDIE  521 

LA  VECCHL\  -  Si,  SI,  SI...  ComC  HO? 

IL  VECCHIO  -  Si,  SI,  sì,  niente  affatto. 

LA  VECCHIA  -  Si? 
IL  VECCHIO  -  No!? 

LA  VECCHIA  -  Parole  d*oro! 

IL  VECCHIO  (ride)  -  Impossibile. 

LA  VECCHIA   [ride)  '  Corbezzoli!   {ai  vecchio)  È  una  donna  deliziosa. 

IL  VECCHIO  {càia  vecchia)  -  Mia  cara,  non  potrai  negare  che  la  Signora 
ti  ha  conquistata,   (dia  Signora)  Congratulazioni!... 

LA  VECCHIA  (alla  Signora)  -  Lei  non  è  come  la  gioventù  del  giorno 
d'oggi... 

IL  VECCHIO  (si  abbassa  faticosamente  per  raccattare  un  oggetto  invi- 
sibile che  la  Signora  invisibile  ha  lasciato  cadere)  -  Lasci...  non  si 
disturbi...  lo  raccolgo  io...  Oh,  è  stata  più  svelta  di  me!...  (si  ri- 
solleva) 

LA  VECCHIA  (d  vecchio)  -  Non  ha  la  tua  età! 

IL  VECCHIO  (dia  Signora)  -  Gli  anni  pesano  sul  groppone.  Le  auguro 
di  restare  eternamente  giovane. 

LA  VECCHIA  (come  sopra)  -  Può  credergli,  sa,  è  sincero,  tutto  buon  cuo- 
re, (d  vecchio)  Tesoro! 

(un  breve  silenzio,  I  vecchi,  di  profilo,  rispetto  d  pubblico,  guardano 
la  Signora  sorridendo  educatamente.  Voltano  la  testa  verso  il  pub- 
blico, poi,  guardando  di  nuovo  la  Signora,  rispondono  con  sorrisi 
ai  suoi  sorrisi) 

I  DUE  VECCHI  -  È  molto  gentile  ad  interessarsi  di  noi. 

IL  VECCHIO  -  Conduciamo  vita  appartata. 

LA  VECCHIA  -  Senza  essere  misantropo,  mio  marito  ama  la  solitudine. 

IL  VECCHIO  -  Abbiamo  la  radio,  io  pesco  con  la  lenza,  e  poi  c*è  un  ser- 
vizio di  battelli  che  funziona  abbastanza  bene. 

LA  VECCHIA  -  La  domenica  ne  passano  due  il  mattino  e  uno  la  sera, 
senza  contare  le  imbarcazioni  private. 

IL  VECCHIO  (alla  Signora)  -  Quando  fa  bel  tempo,  c'è  la  luna. 

LA  VECCHIA  (come  sopra)  -  Lui  esercita  le  sue  funzioni  di  Maresciallo 
d'Alloggio...  La  cosa  lo  occupa  molto.  A  dire  il  vero,  alla  sua  età 
potrebbe  andare  in  pensione. 

IL  VECCHIO  (come  sopra)  -  Avrò  tutto  il  tempo  di  riposarmi  nella  tomba. 

LA  VECCHIA  (d  vecchio)  -  Non  dir  queste  cose,  tesoro  mio...  (dia  Si- 
gnora) La  famiglia,  quello  che  ne  resta,  i  colleghi  di  mio  marito, 
venivano  ancora  a  trovarci,  di  tanto  in  tanto,  dieci  anni  fa... 


522  eugìne  ionesoo 

IL  VECCHIO  (alla  Signora)  -  D'inverno,  un  buon  libro,  accanto  al  tcr- 
mosifone,  i  ricordi  di  tutta  una  vita... 

LA  VECCHIA  (come  sopra)  -  Una  vita  modesta,  ma  illibata...  Due  ore  al 
giorno,  lui  lavora  al  suo  messaggio,  (il  ode  suonare;  da  qualche 
istante  si  percepivano  i  fruscii  di  un'imbarcazione;  al  marito)  Ar- 
riva gente.  Corri. 

IL  VECCHIO  {(dia  Signora)  -  Lei  mi  scusa,  Signora?  Un  attimo!  (alla 
vecchia)  Corri  a  prender  delle  sedie. 

LA  VECCHIA  {alla  Signora)  -  La  lascio  sola  un  minutino,  cara  amica. 

{violenti  colpi  di  campanello) 

IL  VECCHIO  {va  barcollando  verso  la  porta  n,  2,  a  destra,  mentre  la  vec- 
chia va  verso  la  porta  n.  9,  a  sinistra,  correndo  a  fatica  e  zoppi- 
cando) '  È  certamente  una  persona  autoritaria,  {si  affretta,  apre  la 
porta  n.  2) 

(entrata  del  colonnello  invisibile.  Sarà  bene  si  odano,  in  sordina,  al- 
cuni squilli  di  tromba  e  qualche  nota  dd  «  Saiuto  al  colonnello  ». 
Appena  aperta  la  porta,  scorgendo  il  Colonnello,  il  vecchio  si  irri- 
gidirà in  un  a  attenti»  rispettoso) 

Ah!...  Signor  Colonnello!  {alza  vagamente  un  braccio  in  direzione 
della  fronte,  in  un  seduto  che  non  si  precisa)  Buon  giorno.  Colon- 
nello... È  un  onore  sbalorditivo  per  me...  io...  io...  io  non  mi  sarei 
mai  aspettato...  benché...  comunque...  insomma,  io  sono  fiero  dì 
ricevere  nella  mia  casa  un  eroe  della  sua  statura...  {stringe  la  mano 
invisibile  che  gli  tende  il  Colonnello  invisibile,  /inchina  cerimo- 
niosamente, poi  si  raddrizza)  Senza  falsa  modestia,  ad  ogni  modo, 
io  mi  permetto  di  confessarle  che  non  mi  sento  indegno  della 
sua  visita.  Fiero,  sf...  Indegno,  no!... 

{ìa  vecchia  appare  con  una  sedia  dalla  porta  n.  4) 

LA  vecchia  -  Oh  che  bella  divisa!  E  quante  belle  decorazioni!  Chi  è, 

gioia  mia? 
IL  VECCHIO  {alla  vecchia)  -  Non  vedi  che  è  il  Colonnello? 
LA  VECCHIA  {al  vecchio)  -  Ah? 
IL  VECCHIO  {alla  vecchia)  -  Conta  i  galloni!  {al  Colonnello)  È  la  mia 

sposa,  Semiramide,  {alla  vecchia)  Avvicinati,  voglio  presentarti  ai 

Colonnello. 

{la  vecchia  si  avvicina,  trascinando  con  una  mano  la  sedia,  fa  una  ri- 
verenza senza  abbandonare  la  sedia) 

IL  VECCHIO  {al  Colonnello)  -  Mia  moglie,  {alla  vecchia)  Il  Colonnello. 


LE    SEDIE 


523 


LA  VECCHIA  -  Felicissima,  signor  Colonnello.  Sia  il  benvenuto.  Lei  è 

un  collega  di  mio  marito,  che  è  Maresciallo... 
IL  VECCHIO  (seccato)  -  ...d'Alloggio,  d'Alloggio... 

(//  Colonnello  invisibile  bacia  la  mano  della  vecchia.  Ciò  si  capisce  dal 
gesto  della  mano  della  vecchia  che  si  dza  come  verso  delle  lab- 
bra. Per  l'emozione  la  vecchia  lascia  cadere  la  sedia) 

LA  VECCHIA  -  Oh,  quant'è  educato  I...  Si  vede  subito  che  è  un  superiore, 
un  essere  superiore!...  (riprende  la  sedia;  d  Colonnello)  La  sedia  è 
per  lei... 

IL  VECCHIO  (d  Colonnello  invisibile)  -  Si  degni  di  seguirci...  (si  diri- 
gono verso  il  proscenio;  la  vecchia  trascina  sempre  la  sedia)  Si,  c'è 
già  qualcimo.  E  aspettiamo  ancora  molta  gente  I... 

(la  vecchia  colloca  la  sedia  dia  destra) 

LA  VECCHIA   (d  Colonnello)  -  Si  accomodi,  la  prego. 

(/  vecchi  presentano  i  due  personaggi  invisibili) 

IL  VECCHIO  -  Una  giovane  signora  amica  nostra... 

LA  VECCHIA  -  Un'ottima  amica. 

IL  VECCHIO  (medesima  mimica)  -  Il  Colonnello...  un  eminente  militare. 

LA  VECCHIA  (indicando  la  sedia  che  ha  portato  per  il  Colonnello)  -  Ecco 

la  sua  sedia. 
IL  VECCHIO  (dia  vecchia)  -  Ma  noi  Non  vedi  che  il  signor  Colonnello 

vuol  sedere  accanto  alla  Signora?! 

(il  Colonnello  siede  invisibilmente  sulla  terza  sedia  a  partire  da  sinistra; 
la  Signora  invisibile  si  suppone  seduta  sulla  seconda.  Una  conver- 
sazione silenziosa  inizia  tra  i  due  personaggi  invisibili  seduti  Funo 
accanto  dl'dtro.  I  due  vecchi  restano  in  piedi,  dietro  die  loro  sedie, 
d  due  lati  degli  ospiti  invisibili:  il  vecchio  a  sinistra  della  Signora, 
la  vecchia  a  destra  del  Colonnello) 

LA  VECCHIA  (ascoltando  la  conversazione  dei  due  invitati)  -  Ohi  Ohi 

Questo  è  troppo. 
IL  VECCHIO  (dia  vecchia)  ^  Pare  anche  a  me. 

(//  vecchio  e  la  vecchia,  sopra  la  testa  dei  due  invitati,  si  fanno  dei 
segni,  continuando  ad  ascoltare  la  conversazione  che  ha  l'aria  di 
prendere  una  piega  tde  da  scontentare  i  vecchi) 

IL  VECCHIO  (bruscamente)  -  Colonnello,  non  sono  ancora  arrivati  ma 
arriveranno.  L'oratore  parlerà  per  conto  mio,  ed  illustrerà  il  mio 
messaggio...  Stia  attento,  Colonnello,  il  marito  di  questa  Signora 
può  arrivare  da  un  momento  all'altro. 


524  EUCÈNE    lONESCO 

LA  VECCHIA  {al  vecchio)  '  Chi  è  questo  signore? 

IL  VECCHIO  {alla  vecchia)  -  Te  l'ho  già  detto,  è  il  Colonnello. 

LA  VECCHIA  {al  vecchio)  -  Lo  sapevo. 

IL  VECCHIO  -  E  allora  perché  me  lo  domandi? 

LA  VECCHIA  -  Per  saperlo.  Colonnello,  non  butti  per  terra  i  mozzi- 
coni. 

IL  VECCHIO  {al  Colonnello)  -  Colonnello,  Colonnello,  ho  dimenticato. 
L'ultima  guerra,  lei  Tha  vinta  o  l'ha  perduta? 

LA  VECCHIA  {alla  Signora  invisibile)  -  Mia  cara,  non  lo  lasci  fare  a  que- 
sto modo! 

IL  VECCHIO  -  Mi  guardi,  mi  guardi,  ho  l'aria  di  un  cattivo  soldato? 
In  fede  mia,  signor  Colonnello,  in  una  battaglia... 

LA  VECCHIA  -  Adesso  esagera!  È  sconveniente!  {tira  il  Colonnello  per 
la  manica  invisibile)  Lo  stia  un  po'  a  sentire,  diamine!  Tesoro,  non 
lasciarlo  fare! 

IL  VECCHIO  {continuando)  -  Da  solo,  ne  ho  fatto  fuori  duecentonove... 
li  chiamavano  cosi  perché  saltavano  molto  in  alto  per  scappare... 
tuttavia  meno  numerosi  delle  mosche,  e  meno  divertente,  si  capi- 
sce. Colonnello,  ma  grazie  alla  mia  forza  di  carattere  io  li  ho... 
Oh  no,  la  prego,  la  prego... 

LA  VECCHIA  {al  Colonnello)  -  Mio  marito  non  dice  bugie.  Siamo  an- 
ziani, è  vero,  ma  siamo  ugualmente  rispettabili. 

IL  VECCHIO  {con  violenza  al  Colonnello)  -  Un  eroe  dev'essere  anche 
educato,  se  vuole  essere  un  eroe  completo! 

LA  VECCHIA  {al  Colonnello)  -  La  conosco  da  molto  tempo.  Non  mi 
sarei  mai  aspettata  una  cosa  simile  da  lei.  {dia  Signora,  mentre  si 
odono  le  barche)  Non  mi  sarei  mai  aspettata  una  cosa  simile  da  lui. 
Noi  abbiamo  una  dignità,  un  amor  proprio  personale. 

IL  VECCHIO  {con  voce  tremante)  -  Sono  ancora  in  grado  di  portare  le 
armi! 

{colpo  di  campanello) 

Con   permesso  vado  ad   aprire,    {ja  un   movimento  sbagliato,  la 
sedia  della  Signora  invisibile  si  rovescia)  Oh  mi  scusi. 
LA  VECCHIA  {precipitandosi)  -  Non  si  è  fatta  male?  (//  vecchio  e  la  vec- 
chia aiutano  la  Signora  invisibile  ad  alzarsi)  Si  e  sporcata.  C'è  della 
polvere,  (aiuta  la  signora  a  spolverarsi) 

{altro  colpo  di  campanello) 

IL  VECCHIO  -  Mi  scusino,  mi  scusino,   {alla  vecchia)  Va'  a  prendere 

un'altra  sedia. 
LA  VECCHIA  {ai  due  invitati  invisibili)  -  Scusateci  un  istante. 


LE    SEDIE  525 

{mentre  si  vecchio  va  ad  aprire  la  porta  «.  3,  la  vecchia  esce  dalla 
porta  n,  5  per  andare  a  prendere  una  sedia,  e  poi  rientrerà  dalla 
porta  n.  8) 

IL  VECCHIO  (dirigendosi  verso  la  porta)  -  Voleva  proprio  farmi  andar 
fuori  dai  gangheri.  Sono  quasi  arrabbiato,  (apre  la  porta)  Oh!  Si- 
gnora, lei?!  Non  riesco  a  credere  ai  miei  occhi,  eppure...  Non  me 
lo  sarci  proprio  aspettato...  Davvero,  è...  Oh,  Signora  Signora... 
£  dire  che  io  ho  tanto  pensato  a  lei,  tutta  la  mia  vita,  tutta  la  vita, 
Signora.  Lsl  chiamavano  «  La  Bella  »...  È  suo  marito...  certamente, 
me  l'hanno  riferito...  Non  ha  cambiato  per  niente...  oh,  si,  si,  quan- 
to si  e  allungato  il  suo  naso,  com'è  gonfiato...  Non  me  n'ero  ac- 
corto a  prima  vista,  ma  adesso  me  ne  accorgo...  terribilmente  al- 
lungato... Oh  che  peccato!  E  com'è  capitato?...  A  poco  a  poco...  Mi 
scusi,  signore  e  caro  amico,  mi  permetta  di  chiamarlo  caro  amico, 
io  ho  conosciuto  sua  moglie  molto  prima  di  lei...  Era  tal  quale, 
con  un  naso  completamente  diverso...  Io  mi  congratulo,  signore, 
voi  due  avete  l'aria  di  volervi  molto  bene!  {la  vecchia  appare  dalla 
porta  n,  8  con  una  sedia)  Semiramide,  ne  sono  arrivati  due,  occorre 
ancora  una  sedia... 

{la  vecchia  lascia  la  sedia  dietro  alle  altre  quattro,  poi  esce  dalla  porta 
n.  8  e  in  capo  a  qualche  istante  rientra  dalla  porta  n.  5  portando 
un'altra  sedia  che  collocherà  accanto  alla  precedente.  Nel  frattempo 
il  vecchio  sarà  arrivata  con  i  due  nuovi  invitati  presso  la  vecchia) 

Avanti,  avanti,  si,  c'è  già  qualcuno,  adesso  vi  presento...  E  cosi. 
Signora...  Oh,  bella,  bella,  signorina  Bella,  cosi  la  chiamavamo... 
adesso  è  piegata  in  due...  Oh  signore,  è  ancora  bellissima  nonostan- 
te tutto,  sotto  gli  occhiali,  ancora  i  suoi  splendidi  occhi;  i  suoi  ca- 
pelli sono  bianchi,  ma  sotto  i  bianchi  ci  sono  i  bruni,  gli  azzurri, 
ne  sono  certo...  Avanti,  avanti...  Come,  signore?  Un  regalo  per  mia 
moglie?!  (alla  vecchia  che  è  arrivata  con  la  sedia)  Semiramide,  è  La 
Bella,  ricordi,  La  Bella...  {al  Colonnella  e  alla  prima  Signora  in- 
visibile) È  la  signorina,  pardon,  la  signora  Bella  —  non  sorrida  — 
..e  suo  marito...  {alla  vecchia)  Un'amica  d'infanzia,  te  ne  ho  parla- 
to spesso...  e  suo  marito,  (di  nuovo  al  Colonnello  e  alla  prima  Si- 
gnora) E  suo  marito. 

LA  VECCHIA  (fa  la  riverenza)  -  Perdinci  che  bell'uomo!  Che  portamento! 
Buon  giorno,  signore,  (indica  ai  nuovi  venuti  gli  altri  due  invitati 
invisibili)  Amici,  s\y  due  amici... 

IL  VECCHIO  (alla  vecchia)  -  Ti  hanno  portato  un  regalo. 

(la  vecchia  prende  il  regalo) 


526  eugìne  ionesco 

LA  VECCHIA  -  È  un  fioFc,  signore?  O  una  culla?  Un  pero  o  un  corvo? 

IL  VECCHIO  {alia  vecchia)  -  No,  vedi  bene  che  è  un  quadro! 

LA  VECCHIA  -  Oh,  quant'è  bello!  Grazie  mille,  signore...  {alla  prima 
Signora  invisibile)  Guardi,  cara  amica,  guardi  se  le  fa  piacere! 

IL  VECCHIO  {al  Colonnello  invisibile)  -  Guardi  anche  lei,  se  le  fa  pia- 
cere! 

LA  VECCHIA  (fl/  marito  della  Bella)  -  Dottore,  dottore,  ho  le  nausee,  ho 
le  caldane,  ho  mal  di  cuore,  ho  i  reumatismi,  non  sento  più  i  piedi, 
ho  freddo  agli  occhi,  ho  freddo  alla  vita,  alle  dita,  soffro  di  fegato, 
dottore,  dottore!... 

IL  VECCHIO  {alla  vecchia)  -  Il  signore  non  è  dottore,  è  fotografo. 

LA  VECCHIA  {alla  prima  Signora)  -  Se  Tha  guardato  abbastanza,  può  ap- 
penderlo, {al  vecchio)  Non  importa,  è  egualmente  incantevole.  È 
entusiasmante!   {al  fotografo)  Non  le  faccio  dei  complimenti,  sa... 

{il  vecchio  e  la  vecchia  devono  trovarsi  adesso  dietro  le  sedie,  l'uno 
accanto  all'altra  e  quasi  si  toccano,  ma  di  schiena.  Parlano:  il  vec- 
chio alla  Bella,  la  vecchia  ed  fotografo.  Di  tanto  in  tanto,  ventando 
la  testa,  rivolgono  una  battuta  all'uno  o  all'altro  dei  due  primi  in- 
vitati) 

IL  VECCHIO  {alla  Bella)  -  Sono  commosso...  Lei  è  proprio  lei,  nonostante 
tutto...  Io  l'amavo,  cent'anni  fa...  È  talmente  cambiata...  Non  è  cam- 
biata affatto...  io  l'amavo,  io  l'amo... 

LA  VECCHIA  {al  fotografo)  -  Ah,  signore,  signore,  signore... 

IL  VECCHIO  {al  Colonnello)  -  Sono  d'accordo  con  lei  su  questo  punto. 

LA  VECCHIA  {al  fotografo)  -  Oh,  certamente,  signore,  certamente...  (alla 
prima  Signora)  Grazie  di  averlo  appeso...  Mi  scusi  di  averla  di- 
sturbata... 

{adesso  la  luce  è  pie  forte.  Essa  cresce  via  via  che  arrivano  gli  ospiti 
invisibili) 

IL  VECCHIO  {alla  Bella,  quasi  gemendo)  -  Dove  sono  le  rose  di  un 
tempo? 

LA  VECCHIA  {al  fotografo)  -  Oh,  signore,  signore,  signore...  Oh  signore... 

IL  VECCHIO  {additando  alla  Bella  la  prima  Signora)  -  È  una  giovane 
amica...  una  persona  molto  per  bene... 

LA  VECCHIA  {additando  al  fotografo  il  Colonnello)  -  Si,  è  un  Colonnello 
di  Stato  a  cavallo...  un  collega  di  mio  marito...  un  subalterno,  mio 
marito  è  Maresciallo... 

IL  VECCHIO  {alla  Bella)  -  I^i  non  ha  sempre  avuto  delle  orecchie  a  pun- 
ta!... Bella  mia,  se  ne  ricorda? 

LA  VECCHIA    {al  fotografo,  leziosa,  grottesca;  grottesca,  dovrà  esserlo 


LE   SEDIE  527 

sempre  più  nel  corso  di  questa  scena;  farà  vedere  le  sue  spesse  calze 
rosse,  solleverà  le  sue  numerose  sottane,  ne  mostrerà  una  tutta  pie- 
na di  buchi,  scoprirà  il  suo  vecchio  seno;  poi,  marti  sulle  anche, 
rovescerà  la  testa  alVindietro,  lanciando  grida  erotiche,  sporgerà 
in  avanti  il  bacino,  le  gambe  divaricate,  riderà  come  una  vecchia 
puttana;  questo  contegno,  completamente  diverso  da  quello  che  essa 
terrà  in  seguito  e  che  deve  rivelare  una  personalità  nascosta  della 
vecchia,  cesserà  di  colpo)  -  Oh,  non  sono  cose  adatte  alla  mia  età... 
Lei  dice? 

IL  VECCHIO  {alla  Bella,  molto  romantico)  -  Ai  nostri  tempi  la  luna 
era  un  astro  vivo»  ah  si,  si,  se  avessimo  osato...  Ma  non  eravamo 
che  due  bambini.  Vuole  che  riguadagnamo  il  tempo  perduto...  è  an- 
cora possibile?  Possibile?!  Ah  no,  no,  non  si  può  più.  Il  tempo  è 
passato  veloce  come  un  lampo  e  ci  ha  lasciato  dei  solchi  nella  pelle. 
Crede  davvero  che  la  chirurgia  estetica  possa  fare  miracoli?  {al  Co- 
lonnello) Io  sono  un  militare,  e  lei  pure,  i  militari  sono  sempre  gio- 
vani, e  i  marescialli  non  sono  da  meno  degli  dei...  {alla  Bella)  Do- 
vrebbe essere  cosi...  Ahimé,  ahimé,  tutto  è  perduto!  Avremmo  po- 
tuto essere  felici,  avremmo  potuto,  dico;  ma  forse  non  è  detto  che 
dalla  neve  non  possano  sbocciare  altre  rose... 

LA  VECCHIA  {al  fotografo)  -  Adulatore!  Briccone!  Ah!  Ah!  Non  mi  si 
darebbe  l'età  che  ho?  Spudorato!  Lei  mi  farà  girar  la  testa. 

IL  VECCHIO  {alla  Bella)  -  Vogliamo  essere  Tristano  e  Isotta?  La  bellezza 
è  nei  cuori  e  il  cuore  non  ha  età...  Capisce?  Avremmo  avuto  in 
comune  la  gioia,  la  bellezza,  l'eternità...  l'eternità...  Perché,  perché 
non  abbiamo  osato?  Non  abbiamo  saputo  voler  abbastanza...  Ormai 
tutto  è  perduto,  perduto,  perduto. 

LA  VECCHIA  {al  fotografo)  -  Oh  no,  oh  no  no  no,  lei  mi  dà  i  brividi. 
Anche  lei  è  solleticato?  Solleticato  o  solleticatore?  Io  mi  vergogno 
un  po'...  {ride'j  Le  piace  la  mia  sottana?  O  preferisce  la  mia  fal- 
diglia? 

IL  VECCHIO  {alla  Bella)  -  Una  povera  vita  da  Maresciallo  d'Alloggio! 

LA  VECCHIA  {voltando  la  testa  verso  la  prima  Signora  invisibile)  -  Per 
preparare  il  cervello  di  gallina?  Due  teste  di  rapa,  un  bianco  d'oc- 
chio sbattuto,  tre  ore  di  liquore,  {d  fotografo)  Lei  ha  dita  troppo 
ardite,  ah...  Son  cose  da  farsi?...  Oh-oh-oh-oh. 

IL  VECCHIO  {dia  Bella)  -  La  mia  nobile  compagna,  Semiramide,  ha  pre- 
so nella  mia  vita  il  posto  di  mia  madre,  {d  Colonnello)  Colonnello, 
glielo  avevo  pur  detto,  la  verità  bisogna  prenderla  dove  si  trova. 
{si  volta  verso  la  Bella) 

LA  VECCHIA  {d  fotografo)  -  Lei  è  davvero  del  parere  che  si  possano  avere 
figli  a  tutte  le  età?  Figli  di  tutte  le  età? 


528  EUGÈNE    lONESCO 

IL  VECCHIO  (alla  Bella)  -  È  ciò  che  mi  ha  salvato:  la  vita  intcriore,  un 
quartierino  intimo,  Tausterità,  le  mie  ricerche  scientifiche,  la  fi- 
losofìa, il  mio  messaggio... 

LA  VECCHIA  (al  fotografo)  -  Giammai,  finora,  tradii  il  mio  sposo,  il  mio 
Maresciallo...  Piano,  piano,  di  questo  passo  mi  farà  cadere...  Io  non 
son  altro  che  la  sua  povera  mamma!  (singhiozza)  Fermo  con  le 
mani!...  La  sua  povera  mamma!  Ode?  Sono  i  singhiozzi  della  mia 
coscienza.  Per  me  non  ci  sono  più  spiragli  di  luce.  Volga  i  suoi 
occhi  altrove.  Io  non  voglio  cogliere  le  rose  della  vita... 

IL  VECCHIO  (alla  Bella)  -  ...  Preoccupazioni  d'ordine  superiore... 

(/7  vecchio  e  la  vecchia  conducono  la  Bella  e  il  fotografo  accanto  agli 
altri  due  invitati  invisibili  e  li  fanno  sedere) 

I  DUE  VECCHI  (ài  fotografo  e  dia  Bella)  -  S'accomodino,  s'accomodino! 

(/  due  vecchi  prendono  posto,  lui  a  sinistra,  lei  a  destra,  con  le  quattro 
sedie  vuote  tra  loro.  Lunga  scena  muta,  punteggiata  solo  di  tanto 
in  tanto  da  «  no  »,  «  si  »,  «  no  »,  «  si  ».  /  due  vecchi  ascoltano  ciò 
che  dicono  le  persone  invisibili) 

LA  VECCHIA  (al  fotografo)  -  Abbiamo  avuto  un  figlio...  È  vivo,  benin- 
teso... Non  abita  più  qui...  È  una  storia  come  tante  altre...  piuttosto 
strana...  Ha  abbandonato  i  suoi  genitori...  Aveva  un  cuor  d'oro... 
tanto  tempo  fa...  Noi  che  lo  amavamo  tanto...  Ha  sbattuto  la  porta... 
Mio  marito  ed  io  abbiamo  cercato  di  trattenerlo  con  la  forza...  Ave- 
va sette  anni,  l'età  della  ragione;  io  gridavo:  figlio,  figlio  mio,  figlio, 
figlio  mio...  Non  ha  neppure  girato  la  testa... 

IL  VECCHIO  -  Ahimé  no...  no...  non  abbiamo  avuto  figli...  avrei  tanto 
voluto  avere  un  figlio...  Anche  Semiramide...  Abbiamo  fatto  tutto 
il  necessario...  La  mia  povera  Semiramide,  lei  che  è  tanto  materna... 
Forse  è  stato  meglio  cosi.  Anch'io  sono  stato  un  figlio  ingrato!... 
Ahi...  Il  dolore,  i  rimpianti,  i  rimorsi,  non  c'è  altro,  non  ci  resta 
altro... 

LA  VECCHIA  -  Diceva:  voi  uccidete  gli  uccelli!  Perché  uccidere  gli  uc- 
celli?... Noi  non  abbiamo  affatto  l'abitudine  di  uccidere  uccelli... 
non  abbiamo  mai  fatto  male  ad  una  mosca...  Lui  aveva  i  lacri- 
moni agli  occhi.  Non  se  li  lasciava  asciugare.  Era  impossibile  an- 
dargli vicino.  Diceva:  si;  voi  uccidete  gli  uccelli,  tutti  gli  uccelli... 
Ci  mostrava  i  suoi  piccoli  pugni  chiusi...  Mentite,  mi  avete  ingan- 
nato! Le  strade  sono  piene  di  uccelli  morti,  di  piccoli  che  agoniz- 
zano. È  il  canto  degli  uccelli?...  No,  sono  i  loro  gemiti.  Il  cielo  è 
rosso  di  sangue...  No,  bambino  mio,  è  azzurro!...  Lui  continuava 
a  gridare:  mi  avete  ingannato,  io  vi  adoravo,  vi  credevo  buoni...  L« 


Bozzetto  (li  Jacques  Noci  per  Le  sedie  di  lonesco. 


529 


strade  sono  piene  di  uccellini  morti,  avete  strappato  loro  gli  occhi... 
Papà,  mamma,  siete  cattivi!...  Non  voglio  più  restare  coii  voi...  Io 
mi  sono  gettata  ai  suoi  piedi...  Suo  padre  piangeva.  Non  abbiamo 
potuto  trattenerlo...  L'abbiamo  ancora  udito  gridare  di  lontano: 
siete  voi  i  responsabili...  Che  cosa  vuol  dire  responsabile? 

IL  VECCHIO  -  Ho  lasciato  morire  mia  madre  tutta  sola  in  un  fosso.  Lei 
mi  chiamava,  gemeva  debolmente:  «  Piccino  mio,  cuoricino  mio, 
non  lasciarmi  morire  sola.  Resta  con  me.  Non  ne  ho  più  per  mol- 
to». «Non  preoccuparti,  mamma,  —  le  dicevo,  —  torno  subito... 
(avevo  fretta...  dovevo  andare  a  ballare)  Torno  subito  ».  Al 
mio  ritorno  era  già  morta  e  sotterrata  profondamente...  Ho  scavato 
la  terra,  l'ho  cercata...  non  sono  più  riuscito  a  trovarla...  Lo  so,  lo 
so,  i  figli  abbandonano  sempre  la  loro  madre,  uccidono  più  o  meno 
il  loro  padre...  la  vita  è  fatta  cosi...  ma  io  ne  soffro...  gli  altri  no... 

LA  VECCHIA  -  Gridava:   papà,  mamma,  non  mi  rivedrete  mai  più... 

IL  VECCHIO  -  Io  ne  soffro,  si,  gli  altri  no... 

LA  VECCHIA  -  Non  uc  parli  a  mio  marito.  Lui  che  amava  tanto  i  suoi 
genitori.  Non  li  ha  lasciati  un  attimo.  Li  ha  curati,  li  ha  colmati 
di  tenerezze.  Sono  morti  tra  le  sue  braccia  dicendogli:  tu  sei  stato 
un  figlio  modello.  Dio  sarà  generoso  con  te. 

IL  VECCHIO  -  La  vedo  ancora  allungata  nel  fosso,  con  una  piantina  di 
mughetto  tra  le  dita;  gridava:  non  dimenticarmi,  non  dimenticar- 
mi... Aveva  gli  occhi  pieni  di  lacrime  e  mi  chiamava  col  mio  no- 
mignolo: pulcino,  diceva,  piccolo  pulcino  mio,  non  lasciarmi  sola... 

LA  VECCHIA  {al  fotografo)  -  Non  ci  ha  mai  scritto.  Di  tanto  in  tanto  un 
amico  ci  dice  di  averlo  visto  qui,  di  averlo  visto  là,  che  sta  bene, 
che  è  un  buon  marito... 

IL  VECCHIO  {alla  Bella)  -  Al  mio  ritorno,  era  sotterra  da  molto  tempo. 
{alla  prima  Signora)  Oh  si,  si.  Signora,  abbiamo  il  cinema  in  casa, 
un  ristorante  e  alcune  sale  da  bagno... 

LA  VECCHIA  {al  Colonnello)  -  Ma  certamente,  Colonnello,  è  appunto 
per  questo... 

IL  VECCHIO  -  In  fondo  e  proprio  cosi. 

{le  battute  si  incrociano,  il  dialogo  è  scomposto,  le  espressioni  rimango- 
no in  sospeso) 

LA  VECCHIA  -  Purché... 

IL  VECCHIO  -  Dunque  non  avrei...  io  l'ho.,  certamente.,. 

LA  VECCHIA  -  Insomma. 

IL  VECCHIO  -  Al  nostro  e  ai  suoi. 

LA  VECCHIA  -  Caso  mai... 


Teatro  frane*»* 


530  EUGÈNE    lONESCX) 

IL  VECCHIO  -  Io  gliel'ho... 

LA  VECCHIA  -  Lo  O  la? 
IL  VECCHIO  -  Li. 

LA  VECCHIA  -  I  bigodi...  Ma  via! 
IL  VECCHIO  -  Manco  per  sogno. 
LA  VECCHIA  -  Perché? 

IL  VECCHIO  -  Si. 
LA  VECCHIA  -  Io. 

IL  VECCHIO  -  Insomma. 
LA  VECCHIA  -  Insomma. 
IL  VECCHIO  (alla  prima  Signora)  -  Lei  è  d'accordo,  Signora? 

(lungo  silenzio,  I  vecchi  rimangono  immobili  sulle  loro  sedie.  Poi  si 
ode  di  nuovo  suonare) 

IL  VECCHIO  (con  un  nervosismo  che  andrà  crescendo)  -  Arrivano.  Gen- 
te. Altra  gente. 

LA  VECCHIA  -  M'era  sembrato  di  sentire  le  barche... 

IL  VECCHIO  -  Vado  ad  aprire.  Tu  va'  a  prendere  delle  sedie.  Con  per- 
messo, signori  e  signore,  (va  verso  la  porta  n.  7) 

LA  VECCHIA  (ai  personaggi  invisibili  che  sono  già  presenti)  -  Alzatevi 
un  momento  per  piacere.  L'Oratore  può  arrivare  da  un  minuto  al- 
l'altro. Bisogna  preparare  la  sala  per  la  conferenza,  (dispone  le  se- 
die, schienali  al  pubblico)  Datemi  una  mano.  Grazie. 

IL  VECCHIO  (apre  la  porta  n,  7)  -  Buon  giorno,  Signore,  buon  giorno 
Signora.  Avanti,  avanti. 

(le  tre  o  quattro  persone  invisibili  che  arrivano  sono  molto  alte  e  il 
vecchio  deve  alzarsi  sulla  punta  dei  piedi  per  stringer  loro  la  mano. 
La  vecchia,  dopo  aver  sistemato  le  sedie  nel  modo  descritto,  segue 
il  marito) 

IL  vecchio  (facendo  le  presentazioni)  -  La  mia  signora...  Signore...  Si- 
gnore... La  mia  signora...  Signore...  Signora...  La  mia  signora... 
LA  vecchia  -  Chi  è  questa  gente,  tesoro? 

IL  VECCHIO  (alla  vecchia)  -  Va'  a  prender  delle  sedie,  anima  mia. 
LA  VECCHIA  -  Non  posso  far  tutto  io!... 

(uscirà,  continuando  a  brontolare,  dalla  porta  n,  6  e  rientrerà  dalla  por- 
ta n,  7,  mentre  il  vecchio  andrà  con  i  nuovi  venuti  verso  il  prosce- 
nio) 

IL  VECCHIO  -  Badi  a  non  far  cadere  il  suo  apparecchio  cinematografico... 
(altre  presentazioni)  Il  Colonnello...  La  Signora...  La  signora  Bella... 
Il  fotografo  marito...  Sono  giornalisti,  venuti  anche  loro  per  ascoi- 


LE   SEDIE  531 

tare  il  conferenziere,  che  arriverà  tra  pochi  istanti...  Un  po'  di  pa- 
zienza... Non  vi  annoierete...  siete  in  molti...  {la  vecchia  appare 
con  due  sedie  dalla  porta  n,  7)  Cocca,  più  svelta,  spicciati  tu  e  le 
tue  sedie...  Ce  ne  vuole  ancora  una. 

{la  vecchia,  sempre  brontolando,  va  a  prendere  un'altra  sedia,  esce  dal- 
la porta  n,  3  e  rientra  da  quella  n,  8) 

LA  VECCHIA  -  Arrivo,  arrivo...  faccio  quel  che  posso...  Son  mica  una  lo- 
comotiva... Chi  è  quella  gente?    {esce) 

IL  VECCHIO  -  Seduti!  Seduti!  Le  signore  da  una  parte,  gli  uomini  dal- 
l'altra, o  viceversa,  se  preferite...  Non  abbiamo  sedie  migliori... 
Tutto  e  stato  fatto  alla  buona...  Scusate...  Prenda  quella  di  mezzo... 
Vuole  una  stilografica?...  Telefoni  a  Maillot,  risponderà  Monica... 
Claudio  è  una  grazia  del  cielo.  Non  ho  la  radio...  Ricevo  tutti  i 
giornali...  Ciò  dipende  da  un  mucchio  di  cose;  amministro  que- 
sto alloggio,  ma  non  ho  personale.,  bisogna  fare  delle  economie... 
Per  carità,  niente  interviste  per  il  momento...  dopo,  caso  mai...  Le 
troveremo  subito  un  posto  a  sedere...  Ma  che  cosa  combina  quella 
benedetta  donna?...  {la  vecchia  appare  dalla  porta  n.  8  con  una  se- 
dia) Muoviti,  Semiramide... 

LA  VECCHIA  -  Faccio  il  possibilc...  Chi  è  tutta  quella  gente? 

IL  VECCHIO  -  Te  lo  spiegherò  dopo. 

LA  VECCHIA  -  E  quella  tipa?  Quella  là,  tesoro? 

IL  VECCHIO  -  Non  preoccuparti...  {al  Colonnello)  Colonnello,  il  giorna- 
lismo è  un  mestiere  paragonabile  a  quello  del  guerriero...  {alla  vec- 
chia) Occupati  un  po'  delle  signore,  mia  cara...  {suonano.  Il  vecchio 
si  precipita  verso  la  porta  n,  8)  Un  po'  di  pazienza,  un  momentino... 
{dia  vecchia)  Le  sedie! 

LA  VECCHIA  -  Signori  e  signore,  con  permesso... 

{uscirà  dalla  porta  n,  3,  rientrerà  dalla  porta  n,  2;  //  vecchio  intanto  va 
ad  aprire  la  porta  n,  9  e  scompare  nel  momento  in  cui  la  vecchia 
si  affaccerà  alla  porta  n.  3) 

IL  VECCHIO  {fuori  scena)  -  Entrino...  entrino...  entrino...  entrino...  {ri- 
compare, tirandosi  dietro  uno  stuolo  di  persone  invisibili,  tra  cui 
un  bambino  piccolissimo  che  il  vecchio  tiene  per  mano)  Chi  ha 
mai  visto!  portare  un  bambino  ad  una  conferenza  scientifica...  Mo- 
rirà di  noia,  poverino...  E  se  si  metterà  a  strillare  o  far  pipi  sul 
vestito  delle  signore  staremo  freschi!  {lo  conduce  in  mezzo  dia 
scena.  La  vecchia  arriva  con  due  sedie)  Vi  presento  mia  moglie, 
Semiramide...  questi  sono  i  loro  figli! 

la  vecchia  -  Signori,  signore...  Oh!  quanto  sono  graziosi! 


532  EUGÈNE   lONESCO 

IL  VECCHIO  -  Quello  là  è  il  più  piccolo. 

LA  VECCHIA  -  Com'è  bellino...  Carino,  carino,  carino! 

IL  VECCHIO  -  Ancora  sedie,  Semiramide. 

LA  VECCHIA  -  Ah,  là  là  là...  {esce  per  andare  a  prendere  un'altra  sedia; 
d'ora  innanzi  ella  userà  per  le  entrate  e  le  uscite  le  porte  n.  2  e  3,  a 
destra) 

IL  VECCHIO  -  Prenda  il  piccolo  sui  ginocchi...  I  due  gemelli  potranno 
sedere  sulla  stessa  sedia.  Attenzione  però  che  non  sono  molto 
robuste...  Sono  sedie  della  casa,  appartengono  al  padrone.  Si,  ragaz- 
zi, lui  poi  sarebbe  capace  di  farci  andar  matti,  e  cattivo...  Vorrebbe 
che  gliele  comprassimo,  ma  è  roba  che  non  vai  quattro  soldi,  {la 
vecchia  arriva  con  una  sedia,  correndo  piti  che  può)  Loro  non  si 
conoscono...  si  vedono  per  la  prima  volta...  si  conoscono  tutti  di 
nome...  {alla  vecchia)  Semiramide,  aiutami  a  fare  le  presentazioni... 

LA  VECCHIA  -  Chi  sono  quelli  là...  Vi  presento,  permettete?  vi  pre- 
sento... ma  chi  sono? 

IL  VECCHIO  -  Permettetemi  che  vi  presenti...  che  ve  lo  presenti...  che 
ve  la  presenti...  Signore,  Signora,  Signorina...  Signore...  Signora... 
Signora...  Signore... 

LA  VECCHIA  {al  vecchio)  -  Hai  messo  il  golf?  {agli  invisibili)  Signore, 
Signora,  Signore... 

{altro  suono  di  campanello) 

IL  VECCHIO  -  Ancora  gente! 

{altro  suono  di  campanello) 

LA  VECCHIA  -  Mamma  mia! 

{altro  suono  di  campanello,  poi  altri  e  altri  ancora;  il  vecchio  è  com- 
pletamente sopraffatto;  le  sedie,  rivolte  verso  il  podio,  schiende  al 
pubblico,  formano  file  regolari,  sempre  piti  numerose,  come  quelle 
di  una  sala  di  spettacolo;  il  vecchio,  senza  fiato,  si  asciuga  la  fronte, 
va  da  una  porta  all'altra,  sistema  la  folla  invisibile,  mentre  la  vec- 
chia, zoppeggiando,  sfinita,  corre  affannosamente  da  una  porta  al- 
l'altra a  prendere  e  portar  sedie;  adesso  ci  sono  molte  persone  invi- 
sibili in  scena;  i  vecchi  fanno  attenzione  a  non  urtar  la  gente,  cer- 
cando di  sgusciare  tra  le  file  di  sedie.  Il  movimento  potrà  avvenire 
nel  modo  seguente;  il  vecchio  va  alla  porta  n.  4,  la  vecchia  esce  dalla 
porta  n.  3,  ritoma  ddla  porta  n.  2;  il  vecchio  va  ad  aprire  la  porta 
n.  7,  la  vecchia  esce  dalla  porta  n.  8,  rientra  da  quella  n.  6  con  le 
sedie,  eccetera,,,  allo  scopo  di  fare  il  giro  del  palcoscenico  utiliz- 
zando tutte  le  porte) 

la  vecchia  -  Permesso...  permesso...  come?...  si...  permesso...  permesso... 


LE   SEDIE  533 

JL  VECCHIO  -  Signori,  avanti...  Signore...  avanti...  È  la  Signora...  Per- 
mette?... Si... 

LA  VECCHIA  {portando  sedie)  -  Oh  oh...  Sono  troppi...  veramente  troppi... 
Come  si  fa?... 

{si  ode  dal  di  fuori,  sempre  piti  forte  e  sempre  piti  vicino,  il  rumore 
delle  barche  sull'acqua;  tutti  i  rumori  adesso  vengono  da  dietro  le 
quinte.  La  vecchia  e  il  vecchio  continuano  Vandi^ivieni;  aprono  por- 
te, portano  sedie) 

IL  VECCHIO  -  Questa  tavola  dà  noia!  {aiutato  dalla  vecchia,  sposta,  o  me- 
glio accenna  al  gesto  di  spostare  una  tavola,  in  modo  però  da  non 
rallentare  l'azione)  Non  c'è  più  spazio  qui,  scusi... 

LA  VECCHIA  {accennando  al  gesto  di  sbarazzare  la  tavola,  al  vecchio)  - 
Hai  messo  il  golf? 

(colpo  di  campanello) 

IL  VECCHIO  -  Ancora  gente!  Ancora  sedie!  Ancora  gente!  Ancora  sedie!... 

Avanti  avanti,  Signori  e  Signore...  Semiramide,  muoviti...  Qualcuno 

le  dia  una  mano... 
LA  VECCHIA  -  Permesso,  permesso...  Buon  giorno.  Signora...  Signora... 

Signore...  Signore...  Si  si,  le  sedie... 

{mentre  il  campanello  suona  sempre  più  forte  e  le  barche  urtano  la 
banchina  sempre  più  frequentemente,  i  due  vecchi  si  incespicano 
nelle  sedie,  non  hanno  quasi  più  il  tempo  di  andare  da  una  porta 
all'altra,  tanto  le  scampanellate  si  succedono  rapide) 

IL  VECCHIO  -  Si,  subito  subito...  Hai  messo  il  tuo  golf?...  Si  si...  Su- 
bito, un  po'  di  pazienza,  si  si...  pazienza... 

LA  VECCHIA  -  Il  tuo  golf  ?  Il  mio  golf?...  Permesso,  permesso! 

IL  VECCHIO  -  Da  questa  parte,  signore  e  signori,  per  piacere...  per...  scu- 
si... piacere...  Avanti  avanti...  faccio  strada...  quelli  sono  i  loro  po- 
sti... Cara  amica...  per  di  là...  attenzione...  Lei,  cara  amica?... 

{una  lunga  pausa.  Si  odono  le  onde,  le  barche,  le  scampanellate.  Il  mo- 
vimento raggiunge  la  sua  massima  intensità.  Le  porte  si  aprono  e 
si  chiudono  senza  alcuna  sosta.  Solo  la  grande  porta  del  fondo  re- 
sta chiusa.  Va  e  vieni  dei  vecchi,  silenziosi,  da  una  porta  all'altra; 
essi  danno  l'impressione  di  muoversi  su  rotelle.  Il  vecchio  riceve  gli 
ospiti,  li  accompagna,  ma  non  per  molto,  si  limita  ad  indicar  loro 
il  posto  dopo  aver  fatto  due  o  tre  passi;  non  ha  il  tempo  di  fare  di 
più.  La  vecchia  porta  sedie.  Il  vecchio  e  la  vecchia  si  incontrano  e  si 
urtano,  una  o  due  volte,  senza  per  questo  fermarsi.  Poi,  in  fondo, 
al  centro  della  scena,  il  vecchio  comincerà  a  girare  su  se  stesso,  da 


534  EUGÈNE    lONESCO 

sinistra  a  destra,  da  destra  a  sinistra  eccetera,,,  in  direzione  di  tutte 
le  porte  e  indicando  i  posti  con  il  braccio.  Il  braccio  muoverà  velo- 
cissimo,  A  sua  volta  la  vecchia  si  fermerà,  con  una  sedia  in  mano, 
la  poserà,  la  riprenderà,  la  poserà  ancora,  facendo  l'atto  di  voler 
andare  anche  lei  da  una  porta  all'altra,  da  destra  a  sinistra,  da  sini- 
stra a  destra,  muovendo  molto  rapidamente  il  collo  e  la  testa.  Que- 
sta mimica  non  dovrà  affatto  permettere  che  l'azione  si  afflosci.  I 
due  vecchi  dovranno  dare  l'impressione  di  non  fermarsi,  pur  re- 
stando pressoché  sempre  allo  stesso  posto;  le  mani,  il  busto,  la  te- 
sta, gli  occhi  si  agiteranno,  tracciando  magari  dei  piccoli  cerchi. 
Infine,  rallentamento  graduale  dell'azione:  scampanellate  meno  for- 
ti e  meno  frequenti,  porte  che  si  apriranno  e  chiuderanno  sempre 
più  adagio,  gesti  dei  vecchi  progressivamente  piti  lenti.  Quando  le 
porte  avranno  cessato  del  tutto  di  aprirsi  e  di  chiudersi,  il  campa- 
nello di  farsi  udire,  si  dovrà  aver  l'impressione  che  il  palcoscenico 
sia  strapieno  di  gente) 

IL  VECCHIO  -  Adesso  vi  sistemo...  calma...  Perdio,  Semiramide... 

LA  VECCHIA  (con  un  gran  gesto,  le  mani  vuote)  -  Non  ci  sono  più  sedie, 
tesoro,  (poi,  di  punto  in  bianco,  nella  sala  rigurgitante  si  metterà  a 
vendere  dei  programmi  invisibili)  Programmi!  Chi  vuole  il  pro- 
gramma? Programma  della  serata!  Chi  vuole  il  programma? 

IL  VECCHIO  -  Calma,  calma,  signori  e  signore,  penseremo  anche  a  voi... 
Uno  alla  volta,  per  ordine  di  arrivo...  Certamente,  avrà  un  posto 
anche  lei.  Ci  aggiusteremo. 

LA  VECCHIA  -  Chi  vuole  il  programma?  Un  momento,  signora,  non 
posso  servire  tutti  in  una  volta,  non  ho  trentatré  mani,  son  mica 
una  serva...  Signore,  abbia  per  favore  la  cortesia  di  passare  il 
programma  alla  sua  vicina,  grazie...  Ohe,  si  paga!... 

IL  VECCHIO  -  Ma  se  le  ho  detto  che  la  sistemo!...  Non  si  arrabbi...  Di 
qui,  no!  è  di  qui,  cosi,  attenzione...  Oh,  caro  amico...  carissimi... 

LA  VECCHIA  -  Programmi...  grammi...  grammi... 

IL  VECCHIO  -  Si,  caro  amico,  è  là,  in  fondo,  vende  i  programmi...  Non 
ci  sono  mestieri  disonoranti...  è  lei...  la  vede?...  Il  suo  posto  è  nella 
seconda  fila...  a  destra...  no,  a  sinistra...  ecco... 

LA  VECCHIA  -  ...  grammi...  grammi...  programmi...  chi  vuole  il  program- 
ma... 

IL  VECCHIO  -  Che  posso  farci?  Non  sono  il  padreterno!  (ad  alcuni  invisi- 
bili seduti)  Stringetevi  un  pò*,  per  piacere...  Un  ultimo  posticino... 
è  per  lei,  Signora...  venga!  (sale  sulla  pedana  spintovi  dalla  calca) 
Signore  e  signori,  abbiate  pazienza,  non  ci  sono  più  posti  a  se- 
dere!... 


LE   SEDIE  535 

LA  VECCHIA  {che  st  trova  al  capo  opposto  della  sala,  tra  la  parta  n.  3 
e  la  finestra)  -  Chi  vuole  il  programma...  programma?  Cioccolatini, 
caramelle,  gelati...  noccioline...  (non  potendo  più  muoversi,  la  vec- 
chia, presa  in  mezzo  alla  folla,  lancia  i  programmi  e  i  dolci  a  caso, 
sopra  le  teste  invisibili)  Ecco!  ecco! 

IL  VECCHIO  {sulla  pedana,  in  piedi,  agitatissimo;  è  urtato,  scende  dalla 
pedana,  risale,  ridiscende,  sbatte  in  faccia  a  qualcuno,  è  colpito  da 
una  gomitata,  dice)  -  Pardon...  scusi  tanto...  faccia  attenzione... 
{spinto  ancora,  barcolla,  stenta  a  ritrovare  l'equilibrio,  si  aggrappa 
a  qualche  spalla) 

LA  VECCHIA  -  Si  può  Sapere  chi  è  tutta  'sta  gente?  Programmi!  Li  vo- 
lete o  no?  Gelati. 

IL  VECCHIO  -  Signore,  signorine,  signori,  un  momento  di  silenzio,  per 
favore...  silenzio...  ascoltate,  è  importante...  Le  persone  che  non 
hanno  trovato  posto  a  sedere  sono  pregate  di  voler  sgomberare  i 
corridoi...  Cosi!...  Liberate  i  passaggi! 

LA  VECCHIA  {al  vecchio  quasi  gridando)  -  Chi  è  tutta  'sta  gente,  tesoro? 
Che  cosa  sono  venuti  a  fare  qui? 

IL  VECCHIO  -  Sgombrare,  signori  e  signore.  Le  persone  che  non  hanno 
posto  a  sedere,  per  comodità  di  tutti,  devono  portarsi  contro  i  mu- 
ri, a  destra  e  a  sinistra...  Tutti  udranno  e  tutti  vedranno,  niente 
paura,  tutti  i  posti  sono  buoni! 

{si  produce  un  gran  tramestio;  spinto  dalla  folla,  il  vecchio  farà  il 
giro  di  quasi  tutto  il  palco  e  andrà  a  finire  contro  la  finestra  di 
destra,  presso  lo  sgabello;  la  vecchia  farà  lo  stesso  movimento  in 
senso  contrario  e  si  troverà  poi  contro  la  finestra  di  sinistra,  presso 
lo  sgabello.  Il  vecchio,  durante  questo  movimento) 

Non  spingete,  non  spingete! 

LA  VECCHIA  {come  sopra)  -  Non  spingete,  non  spingete! 

IL  VECCHIO  {come  sopra)  -  Piano,  piano. 

LA  VECCHIA  {come  sopra)  -  Non  spingete,  signori,  non  spingete! 

IL  VECCHIO  (come  sopra)  -  Calma...  ragioniamo...  calma...  Non  è  il  mo- 
do... 

LA  VECCHIA  {come  sopra)  -  Non  siete  mica  dei  carrettieri,  no? 

{sono  finalmente  arrivati  al  loro  posto  definitivo.  Ciascuno  presso  una 
finestra.  Il  vecchio  a  sinistra,  presso  la  finestra  accanto  dia  pedana, 
la  vecchia  a  destra.  Fino  alla  fine  non  si  muoveranno  più) 

LA  VECCHIA  {chiama  il  vecchio)  -  Tesoro...  non  ti  vedo  piti...  dove  sci? 
Chi  e  tutta  questa  gente?  Che  cosa  vogliono?  Chi  è  quello  là? 


536  eugìne  ionesco 

IL  VECCHIO  -  Dove  sei?  Dove  sei,  Semiramide? 

LA  VECCHIA  -  Gioia  mia,  dove  sei? 

IL  VECCHIO  -  Qui  vicino  alla  finestra...  mi  senti?... 

LA  VECCHIA  -  Si,  sento  la  tua  voce!...  Ce  ne  sono  molte...  ma  distinguo 
la  tua... 

IL  VECCHIO  -  E  tu?  Dove  sei? 

LA  VECCHIA  -  Vicino  alla  finestra  anch'io!...  Tesoro,  ho  paura,  c*c  trop- 
pa gente...  siamo  molto  lontani  Tuno  dall'altra...  Alla  nostra  età 
dobbiamo  fare  attenzione...  potremmo  perderci...  Dobbiamo  restare 
vicini,  non  si  sa  mai,  tesoro,  tesoro  mio... 

IL  VECCHIO  -  Ah...  ti  ho  intravvista...  oh...  non  aver  paura,  ci  rivedre- 
mo... Sono  con  degli  amici,  {agli  amici)  Come  sono  contento  di 
stringervi  la  mano...  Ma  certamente,  io  credo  al  progresso,  ininter- 
rotto, ma  tuttavia  con  dei  sobbalzi,  tuttavia... 

LA  VECCHIA  -  Non  c'è  male,  grazie...  Che  brutto  tempo!  Splendido! 
(a  parte)  Ad  ogni  modo  ho  paura...  Dio,  che  cosa  sto  a  fare  qui?... 
(grida)  Tesoro!  Tesoro!... 

IL  VECCHIO  -  Per  impedire  lo  sfruttamento  dell'uomo  sull'uomo,  oc- 
corre denaro,  denaro  e  ancora  denaro! 

LA  VECCHIA  -  Tesoro!  (agli  amici)  Si,  mio  marito  è  laggiù,  è  lui  che 
organizza...  laggiù...  Oh,  non  le  sarà  facile...  bisognerebbe  poter 
attraversare...  è  con  degli  amici... 

IL  VECCHIO  -  Assolutamente  no...  l'ho  sempre  detto...  la  logica  pura  è 
un  mito...  Queste  sono  scimmiottature... 

LA  VECCHIA  -  Eh  SI,  c'è  della  gente  fortunata!  La  mattina  fa  colazione 
in  aeroplano,  a  mezzogiorno  pranza  in  ferrovia,  la  sera  cena  in 
piroscafo  e  la  notte  dorme  su  camion  che  corrono,  corrono,  cor- 
rono... 

IL  VECCHIO  -  La  dignità  dell'uomo!  Cerchiamo  almeno  di  salvare  la 
faccia.  La  dignità  non  è  che  il  rovescio  della  medaglia. 

LA  VECCHIA  -  C'è  chi  pesca  nel  torbido,  (ride) 

IL  VECCHIO  -  È  ciò  che  mi  domandano  i  suoi  compatrioti. 

LA  VECCHIA  -  Certamente...  mi  dica  tutto. 

IL  VECCHIO  -  Vi  ho  convocati...  perché  vi  si  spieghi...  l'individuo  e  la 
persona,  sono  una  sola  e  identica  persona. 

LA  VECCHIA  -  Ha  un'aria  sostenuta.  Non  è  molto  robusto. 

IL  VECCHIO  -  Io  non  sono  me  stesso.  Sono  un  altro.  Sono  dentro  un 
altro. 

LA  VECCHIA  -  Ragazzi,  è  meglio  che  non  vi  fidiate  gli  uni  degli  altri. 

IL  VECCHIO  -  Qualche  volta  mi  sveglio  nel  bel  mezzo  del  silenzio  as- 
soluto. È  la  sfera.  Non  manca  niente.  Comunque  bisogna  fare  at- 


LE   SEDIE  537 

tenzionc.  La  sua  forma  può  dissolversi  airimprovviso.  Ci  sono  dei 
buchi  attraverso  cui  essa  sfugge. 

LA  VECCHIA  -  Spiriti?  Fantasmi?  Via,  non  scherziamo...  Mio  marito 
esercita  funzioni  molto  importanti,  sublimi... 

IL  VECCHIO  -  Scusatemi...  Non  è  affatto  la  mia  opinione!...  A  suo  tem- 
po vi  farò  sapere  ciò  che  penso  su  questo  punto...  Per  il  momento 
non  posso  fare  anticipazioni...  Toccherà  all'oratore,  che  aspettiamo, 
toccherà  a  lui  chiarire  tutto,  a  mio  nome,  tutte  le  questioni  che  vi 
stanno  a  cuore...  Vi  spiegherò  tutto...  Quando?...  Quando  verrà  il 
momento...  il  momento  verrà  ben  presto... 

LA  VECCHIA  {agli  amici)  -  Prima  sarà,  meglio  sarà...  Beninteso...  (a 
parte)  Non  vogliono  proprio  lasciarci  in  pace!  Se  ne  andranno 
bene!...  Il  mio  tesoro,  dov'è?  non  lo  vedo  più... 

IL  VECCHIO  -  Via!  non  perdete  la  pazienza...  Udrete  il  mio  messaggio. 
Tra  un  attimo. 

LA  VECCHIA  {a  parte)  -  Ah!...  ho  udito  la  sua  voce!...  {agli  amici)  Ca- 
pite, mio  marito  è  sempre  stato  un  incompreso.  Finalmente  la  sua 
ora  è  venuta! 

IL  VECCHIO  -  Permettetemi.  Io  ho  ima  ricca  esperienza.  In  tutti  i  set- 
tori della  vita  e  del  pensiero...  Non  sono  un  egoista:  voglio  che 
l'umanità  ne  tragga  profitto. 

LA  VECCHIA  -  Ahi!  Faccia  attenzione:  mi  pesta  i  piedi...  Ho  i  geloni! 

IL  VECCHIO  -  Ho  completato  il  mio  sistema,  {a  parte)  L'oratore  dovreb- 
be arrivare,  {ad  alta  voce)  Ho  enormemente  sofferto. 

LA  VECCHIA  -  Noi  abbiamo  molto  sofferto,  {a  parte)  L'oratore  dovrebbe 
arrivare.  Adesso  e  l'ora. 

IL  VECCHIO  -  Molto  sofferto.  Molto  imparato. 

LA  VECCHIA  {come  un*eco;  diventerà  sempre  più  Veco,  il  prolungamen- 
to del  marito)  -  Molto  sofferto.  Molto  imparato. 

IL  VECCHIO  -  Lo  toccherete  con  mano  voi  stessi,  il  mio  sistema  è  per- 
fetto. 

LA  VECCHIA  -  Lo  toccherete  con  mano  voi  stessi,  il  suo  sistema  è  per- 
fetto. 

IL  VECCHIO  -  A  patto  che  si  seguano  a  puntino  le  mie  istruzioni... 

LA  VECCHIA  -  A  patto  chc  si  seguano  a  puntino  le  sue  istruzioni... 

IL  VECCHIO  -  Salviamo  il  mondo!... 

LA  VECCHIA  -  Salviamo  l'anima,  salvando  il  mondo!... 

IL  VECCHIO  -  La  verità  è  uguale  per  tutti! 

LA  VECCHIA  -  La  verità  è  uguale  per  tutti! 

IL  VECCHIO  -  Ubbiditemi!... 

LA  VECCHIA  -  Ubbiditegli!... 


538  EUGÈNE    lONESCO 

IL  VECCHIO  -  Imperocché  ho  una  certezza  assoluta!... 
LA  VECCHIA  '  Egli  ha  una  certezza  assoluta! 
IL  VECCHIO  -  Mai!... 

LA  VECCHIA  -  Assolutamente  mail...  {improvvisamente  si  odono,  dietro 
le  quinte,  rumori  e  suoni  di  fanfare)  Che  cosa  succede? 

(;  rumori  aumentano,  poi  la  porta  del  fondo  si  spalanca  con  gran  fra- 
stuono; attraverso  la  porta  non  si  vede  nulla,  salvo  una  vivissima 
luce  che  invade  il  palcoscenico;  anche  le  finestre  si  sono  illuminate) 

IL  VECCHIO  -  Non  capisco...  non  credo...  è  impossibile...  ma  si...  ma  si... 
inverosimile...  eppure...  si...  si...  si...  L'Imperatore!  Sua  Maestà 
rimperatore! 

{dalla  porta  aperta  e  dalle  finestre  luce  al  massimo  dell'intensità,  una 
luce  fredda,  vuota;  ancora  qualche  rumore,  poi,  di  colpo,  silenzio 
assoluto) 

LA  VECCHIA  -  Tesoro...  tesoro...  chi  è? 

IL  VECCHIO  -  In  piedi!...  At...tcntii...  È  Sua  Maestà  l'Imperatore!  L'Im- 
peratore a  casa  nostra...  Semiramide...  ti  rendi  conto? 

LA  VECCHIA  {senza  capire)  -  L'Imperatore...  l'Imperatore?  Tesoro  mio! 
(poi  d'un  tratto  capisce)  Ah  sì,  l'Imperatore!  Maestà!  Maestà!  {fa 
una  serie  di  grottesche  riverenze)  A  casa  nostra!  A  casa  nostra! 

IL  VECCHIO  {piangendo  d'emozione)  -  Maestà!...  Oh  Maestà!...  Cara 
Serenissima  Maestà!...  Oh  che  grazia  sublime!...  che  sogno  radio- 
so!... 

LA  VECCHIA  {facendo  eco)  -  Sogno  radioso!  oso... 

IL  VECCHIO  {alla  folla  invisibile)  -  Signore  e  signori,  alzatevi,  il  nostro 
Sovrano  dilettissimo,  l'Imperatore  è  fra  noi!  Urrà!  Urrà!  {sale  sullo 
sgabello,  si  alza  sulla  punta  dei  piedi  per  poter  scorgere  l'impera- 
tore. La  vecchia  fa  altrettanto) 

LA  VECCHIA  -  Urrà!  Urrà!  {battendo  i  piedi) 

IL  vecchio  -  Vostra  Maestà!...  io  sono  qua!...  Vostra  Maestà!  Vostra 
Maestà!  M'intende?  Mi  vede?  Informate  dunque  Sua  Maestà  che 
son  qua!  Maestà!!!  Sono  qua,  io,  il  più  fedele  dei  suoi  ser\dtori... 

LA  vecchia  -  Il  più  fedele  dei  suoi  servitori!... 

IL  vecchio  -  Vostro  servitore,  vostro  schiavo,  vostro  cane,  bau!  bau! 
vostro  cane,  Maestà! 

la  vecchia  (abbaia  forte)  -  Bau!...  bau!...  bau!... 

IL  vecchio  (torcendosi  le  mani)  -  Mi  vede?  Risponda,  Sire!  Ah,  io  la 
scorgo,  ho  scorto  or  ora  l'augusta  figura  della  Maestà  Vostra...  La 
divina  parte  vostra...  Si,  l'ho  vista,  a  dispetto  dei  cortigiani... 

LA  VECCHIA  -  Dei  cortigiani...  Siamo  qua.  Maestà. 


LE    SEDIE  539 

IL  VECCHIO  -  Maestà!  Maestà!!  Signore  e  signori,  non  permettete  che 
Sua  Maestà  resti  in  piedi...  Vede,  Maestà,  io  sono  l'unico  ad  aver 
cura  della  sua  persona,  della  sua  salute,  io  sono  il  più  fedele  dei 
suoi  sudditi... 

LA  vEccFiiA  -  Il  più  fedele  suddito  di  Sua  Maestà! 

IL  VECCHIO  -  E  lasciatemi  passare,  signore  e  signori!...  Come  fare  ad 
aprirsi  un  varco  in  questa  ressa...  bisogna  ch'io  vada  a  prosternarmi 
davanti  a  Sua  Maestà  l'Imperatore  Imperiale...  Lasciatemi  passare... 

LA  VECCHIA  (facendo  eco)  -  Lasciatelo  passare...  lasciatelo  passare...  pas- 
sare... are... 

IL  VECCHIO  -  Lasciatemi  passare,  lasciatemi  passare,  perdinci!  {esaspe- 
rato) Ahi  non  arriverò  mai  fino  a  lui? 

LA  VECCHIA  (eco)  -  A  lui...  a  lui... 

IL  VECCHIO  -  Eppure  il  mio  cuore  e  tutto  il  mio  essere  sono  ai  suoi 
piedi,  la  folla  dei  cortigiani  lo  circonda,  ah,  ah,  vogliono  impedir- 
mi di  arrivare  fino  a  lui...  Hanno  mangiato  la  foglia,  indovinano 
che...  Oh,  so  quello  che  mi  dico...  Intrighi  di  corte,  beninteso...  Mi 
vogliono  separare  da  Sua  Maestà!... 

LA  VECCHIA  -  Calmati,  tesoro...  Sua  Maestà  ti  vede,  ti  guarda...  Sua 
Maestà  mi  ha  strizzato  un  occhio...  Sua  Maestà  è  dei  nostri!... 

IL  VECCHIO  -  Venga  dato  all'Imperatore  il  posto  migliore...  vicino  al 
palco...  che  egli  possa  udire  tutto  ciò  che  dirà  l'oratore. 

LA  VECCHIA  (issandosi  sullo  sgabello,  sulla  punta  dei  piedi,  sollevando 
il  mento  il  più  alto  possibile,  per  vedere  meglio)  -  Finalmente  qual- 
cuno si  occupa  dell'Imperatore. 

IL  VECCHIO  -  Deo  gratias!  (all'Imperatore)  Sire...  che  Vostra  Maestà  si 
abbandoni  con  fiducia.  È  un  amico,  un  mio  delegato,  colui  che  è 
vicino  a  Vostra  Maestà,  (stdla  punta  dei  piedi,  dritto  sullo  sgabello) 
Signori,  signore,  signorine,  figli  miei,  vi  scongiuro... 

LA  VECCHIA  -  ...giuro...  giuro... 

IL  VECCHIO  -  ...  io  vorrei  vedere...  scostatevi...  io  vorrei...  lo  sguardo  ce- 
lestiale, il  rispettabile  volto,  la  corona,  l'aureola  di  Sua  Maestà... 
Sire,  si  degni  di  voltare  il  suo  illustre  volto  alla  mia  volta.  Verso  il 
suo  servitore  umilissimo...  arciumilissimo...  oh!...  vedo  chiaramente 
stavolta...  vedo... 

LA  VECCHIA  -  Egli  vede  stavolta...  vede...  de... 

IL  VECCHIO  -  Sono  al  colmo  del  giubilo...  non  ho  parole  per  esprimere 
il  soverchio  della  mia  gratitudine...  nel  mio  modesto  alloggio,  oh 
Maestà!  Oh  Sole!...  qui...  qui...  in  questo  alloggio  dove  io  sono  il 
vero  maresciallo...  ma  nella  gerarchia  del  suo  esercito,  io  non  sono 
che  un  semplice  Maresciallo  d'Alloggio... 


540  eugìne  ionesco 

LA  VECCHIA  -  Maresciallo  d'Alloggio... 

IL  VECCHIO  -  Ne  sono  fiero...  fiero  e  umile,  insieme...  com'è  giusto... 
ahimé,  senza  dubbio,  sono  maresciallo,  avrei  potuto  vivere  alla  cor- 
te imperiale,  qui  non  sovrintendo  che  ad  una  piccola  corte...  Mae- 
stà... io...  Maestà,  ho  qualche  difficoltà  di  parola...  avrei  potuto 
avere...  molte  cose,  copiose  sostanze,  se  avessi  saputo,  se  avessi  vo- 
luto, se  io...  se  noi...  Maestà,  perdonate  la  mia  emozione... 

LA  VECCHIA  -  Alla  terza  persona! 

IL  VECCHIO  (piagnucolando)  -  Vostra  Maestà  si  degni  di  scusarmi! 
Dunque  lei  è  qui...  Non  speravamo  più...  Non  potevamo  manca- 
re... Oh,  salvatore,  nella  vita  sono  stato  umiliato... 

LA  VECCHIA  [Hnghiozzando)  -  ...  umiliato...  umiliato... 

IL  VECCHIO  -  Ho  molto  sofferto  nella  vita...  Avrei  potuto  essere  qual- 
cosa, avessi  avuto  l'appoggio  di  Vostra  Maestà...  non  ho  mai  avuto 
appoggi...  Se  Vostra  Maestà  non  fosse  venuta,  sarebbe  stato  irrime- 
diabilmente troppo  tardi...  Lei  e,  oh  Sire,  la  mia  estrema  ratio... 

LA  VECCHIA  -  Estremazio...  Sire...  Estremazio...  dazio... 

IL  VECCHIO  -  Ho  portato  sfortuna  ai  miei  amici,  a  tutti  quelli  che  mi 
hanno  aiutato.  La  folgore  colpiva  la  mano  che  si  tendeva  verso  di 
me... 

LA  VECCHIA  -  La  mano  che  si  tendeva...  tendeva...  èva... 

IL  VECCHIO  -  Hanno  sempre  trovato  buone  ragioni  per  odiarmi  e  cat- 
tive ragioni  per  amarmi... 

LA  VECCHIA  -  Non  è  vero,  tesoro,  non  è  vero.  Io  ti  amo,  io  sono  la  tua 
mammina... 

IL  VECCHIO  -  Tutti  i  miei  nemici  sono  stati  ricompensati  e  gli  amici 
mi  hanno  tradito. 

LA  VECCHIA  -  Gli  amici  hanno  tre  dita...  tre  dita... 

IL  VECCHIO  -  Mi  hanno  fatto  del  male.  Mi  hanno  perseguitato.  Se  io 
mi  lagnavo,  davano  sempre  ragione  a  loro...  Qualche  volta  ho  cer- 
cato di  vendicarmi...  Non  sono  mai  riuscito,  mai  riuscito  a  vendi- 
carmi... sono  troppo  buono...  Non  ho  mai  cercato  di  colpire  l'av- 
versario disarmato,  mi  faceva  troppa  pietà... 

LA  VECCHIA  -  Gli  faceva  troppa  pietà... 

IL  VECCHIO  -  Sono  vìttima  della  mia  bontà. 

LA  VECCHIA  -  ...  tà...  tà...  tà... 

IL  VECCHIO  -  Ma  loro  non  avevano  pietà.  Io  li  pungevo  con  uno  spillo, 
loro  rispondevano  a  colpi  di  mazza,  a  colpi  di  coltello,  a  colpi  di 
cannone,  mi  maciullavano  le  ossa... 

LA  VECCHIA  -  ...  le  ossa...  le  ossa...  le  ossa... 

IL  VECCHIO  -  Mi  davano  lo  sgambetto,  mi  derubavano,  mi  assassinava- 


LE   SEDIE  541 

no...  Ho  fatto  collezione  di  disastri,  ero  il  parafulmine  delle  cata- 
strofi... 

LA  VECCHIA  -  Parafulmine...  catastrofe...  parafulmine... 

IL  VECCHIO  -  Per  dimenticare,  Maestà,  ho  voluto  fare  dello  sport...  del- 
l'alpinismo... mi  hanno  messo  del  sapone  sotto  i  piedi...  ho  voluto 
salire  le  scale,  mi  hanno  fatto  marcire  gli  scalini...  sono  sprofon- 
dato... ho  voluto  viaggiare,  mi  hanno  negato  il  passaporto...  ho  vo- 
luto saltare  il  fosso,  mi  hanno  tagliato  i  ponti... 

LA  VECCHIA  -  ...  tagliato  i  ponti... 

IL  VECCHIO  -  Ho  voluto  Varcare  i  Pirenei...  se  li  erano  portati  via. 

LA  VECCHIA  -  I  Pirenei...  Ah,  Maestà,  avrebbe  potuto  essere  anche  lui 
come  tanti  altri.  Redattore  Capo,  Attore  Capo,  Dottore  Capo,  Mae- 
stà, Re  Capo!... 

IL  VECCHIO  -  D'altronde  non  hanno  mai  voluto  prendermi  in  conside- 
razione... non  mi  hanno  hai  inviato  biglietti  d'invito...  Eppure  io, 
mi  ascolti  bene  e  glielo  dico,  io  solo  avrei  potuto  salvare  l'umanità, 
che  è  tanto  malata.  Vostra  Maestà  se  ne  rende  conto  quanto  me... 
o,  almeno,  avrei  potuto  risparmiarle  i  mali  di  cui  essa  ha  tanto 
sofferto  in  questo  ultimo  quarto  di  secolo,  se  avessi  avuto  l'occa- 
sione di  annunciare  il  mio  messaggio.  Io  però  non  dispero  di  sal- 
varla, forse  c'è  ancora  tempo;  ho  un  piano...  Ahimé,  ho  difficoltà 
di  parola... 

LA  VECCHIA  {sopra  la  testa  degli  invitati)  -  Ci  sarà  l'oratore,  parlerà  per 
conto  suo...  Sua  Maestà  è  qui...  Ti  ascolteranno  questa  volta,  non 
devi  piò  preoccuparti,  hai  l'asso  nella  manica,  il  vento  è  cambiato, 
è  cambiato... 

IL  VECCHIO  -  Vostra  Maestà  mi  perdoni...  lei  ha  ben  altri  grattacapi... 
sono  mortificato...  Signore  e  signori,  scostatevi  un  poco,  non  na- 
scondetemi completamente  il  naso  di  Sua  Maestà,  voglio  veder  bril- 
lare le  perle  della  corona  imperiale...  Ma  se  Vostra  Maestà  si  è 
degnata  di  venire  sotto  il  mio  povero  tetto,  gli  è  certamente  perché 
Ella  si  degna  di  prendere  in  considerazione  la  mia  modesta  per- 
sona. Che  stupendo  compenso.  Maestà,  se  materialmente  io  mi  alzo 
sulla  punta  dei  piedi,  non  è  per  orgoglio,  è  unicamente  per  poterla 
contemplare!...  moralmente  io  mi  getto  alle  Sue  ginocchia... 

LA  VECCHIA  (singhiozzando)  -  Alle  sue  ginocchia.  Sire,  noi  ci  gettiamo 
alle  sue  ginocchia,  ai  suoi  piedi,  ai  suoi  alluci... 

IL  VECCHIO  -  Il  mio  padrone  mi  ha  messo  alla  porta  perché  non  facevo 
la  riverenza  al  suo  marmocchio,  al  suo  cavallo.  Ho  ricevuto  calci 
nel  sedere,  ma  tutto  ciò  ormai  non  ha  più  importanza...  poiché... 
poiché...  Sire...  Maestà...  guardi...  sono  qua...  qua... 


542  eugìne  ionesco 

LA  VECCHIA  -  ...  qua...  qua...  qua...  qua...  qua... 

IL  VECCHIO  -  Poiché  Sua  Maestà  è  venuta...  poiché  Sua  Maestà  prenderà 
in  considerazione  il  mio  messaggio...  Ma  l'oratore  perché  non  è 
qua?...  fa  attendere  Sua  Maestà... 

LA  VECCHIA  -  Vostra  Maestà  lo  scusi.  Deve  arrivare.  Arriverà  tra  un 
attimo.  Ce  l'hanno  telefonato. 

IL  VECCHIO  -  Sua  Maestà  è  davvero  buona.  Sua  Maestà  non  se  ne  andrà 
prima  di  avere  ascoltato  tutto,  capito  tutto. 

LA  VECCHIA  -  Tutto  capito...  capito...  ascoltato  tutto. 

IL  VECCHIO  -  Lui  parlerà  a  nome  mio...  Io  non  posso...  non  ho  dispo- 
sizione... Lui  ha  tutte  le  carte,  tutti  i  documenti. 

LA  VECCHIA  -  Ha  tutti  i  documenti... 

IL  VECCHIO  -  Un  po'  di  pazienza.  Sire,  ]a  supplico...  deve  arrivare. 

LA  VECCHIA  -  Deve  arrivare  su  due  piedi. 

IL  VECCHIO  (affinché  l'Imperatore  non  si  spazientisca)  -  Maestà,  mi 
ascolti:  ho  avuto  la  rivelazione  molto  tempo  fa...  avevo  quaran- 
t'anni...  Dico  queste  cose  anche  per  voi,  signore  e  signori...  Una 
sera,  dopo  cena,  come  al  solito,  prima  di  andare  a  letto,  mi  siedo 
sulle  ginocchia  di  mio  padre...  i  miei  baffi  erano  più  grossi  e  più 
aguzzi  dei  suoi...  il  mio  petto  più  villoso...  i  miei  capelli  comincia- 
vano a  brizzolarsi,  \  suoi  erano  ancora  bruni...  C'erano  degli  invi- 
tati, delle  persone  importanti,  sedute  a  tavola,  e  scoppiarono  a  ri- 
dere, ridere. 

LA  VECCHIA  -  Ridere...  ridere... 

IL  VECCHIO  -  Non  crediate  che  scherzi,  dico  io.  Io  amo  molto  il  mio 
papà.  Quelli  mi  rispondono:  è  mezzanotte,  un  marmocchio  non 
deve  andare  a  letto  cosi  tardi.  Se  lei  non  è  già  a  far  la  nanna,  vuol 
dire  che  non  è  più  un  frugoletto.  Io  non  li  avrei  presi  sul  serio,  se 
non  mi  avessero  dato  del  lei... 

LA  VECCHIA  -  ...  lei. 

IL  VECCHIO  -  Invece  del  tu. 

LA  VECCHIA  -  Tu... 

IL  VECCHIO  -  Eppure,  pensavo,  non  son  mica  sposato.  Dunque  sono 
ancora  un  ragazzo.  Per  provarmi  il  contrario,  quelli  mi  sposarono 
seduta  stante...  Fortunatamente,  mia  moglie  mi  ha  fatto  da  padre 
e  da  madre... 

LA  VECCHIA  -  L'oratore  deve  arrivare,  Maestà... 

IL  VECCHIO  -  L'oratore  arriverà. 

LA  VECCHIA  -  Arriverà. 

IL  VECCHIO  -  Arriverà. 


LE   SEDIE  543 

LA  VECCHU  -  Arriverà. 

IL  VECCHIO  -  Arriverà. 

LA  VECCHIA  -  Arriverà. 

IL  VECCHIO  -  Arriverà,  arriverà. 

LA  VECCHIA  -  Arriverà,  arriverà. 

IL  VECCHIO  -  Arriverà. 

LA  VECCHIA  -  Arriva. 

IL  VECCHIO  -  Arriva. 

LA  VECCHIA  -  Arriva,  è  qui. 

IL  VECCHIO  -  Arriva,  è  qui. 

LA  VECCHIA  -  Arriva,  è  qui. 

IL  VECCHIO  E  LA  VECCHIA  -  È  qui... 
LA  VECCHIA  -  Eccolo!... 

(silenzio,  immobilità  assoluta.  Pietrificati,  i  due  vecchi  fissano  la  porta 
n.  3;  la  scena  immobile  dura  a  lungo,  mezzo  minuto  circa;  lentissi- 
mamente, la  porta  si  apre  senza  alcun  rumore:  e  appare  l'oratore; 
è  un  personaggio  reale.  Dev'essere  il  tipo  del  pittore  o  del  poeta 
del  secolo  scorso:  feltro  nero  a  larghe  tese,  cravatta  a  fiocco,  casacca, 
baffetti,  barbetta,  aria  disinvolta,  sufficiente;  se  i  personaggi  invi- 
sibili debbono  avere  la  maggior  realtà  possibile,  l'Oratore  per  contro 
dovrà  sembrare  irreale.  Seguendo  il  muro  di  destra,  andrà,  come 
scivolando,  pian  piano,  fino  in  fondo,  in  faccia  alla  grande  porta, 
senza  voltare  la  testa  né  a  destra  né  a  sinistra;  passerà  accanto  alla 
vecchia  senza  prestarle  attenzione,  neppure  quando  la  vecchia  gli 
toccherà  il  braccio  per  accertarsi  della  sua  esistenza;  è  a  questo 
punto  che  la  vecchia  dirà:   a  Eccolo  yì) 

IL  VECCHIO  -  Eccolo! 

LA  VECCHIA  [che  l'ha  seguito  con  gli  occhi  e  lo  segue  ancora)  -  È  pro- 
prio lui,  esiste.  In  carne  ed  ossa. 

IL  VECCHIO  {seguendolo  con  gli  occhi)  -  Esiste.  È  proprio  lui.  Non  è 
un  sogno! 

LA  VECCHIA  -  Non  è  un  sogno,  te  l'avevo  detto. 

(//  vecchio  incrocia  le  mani,  leva  gli  occhi  al  cielo;  esulta  silenziosa- 
mente. L'Oratore,  arrivato  in  fondo,  si  toglie  il  cappello,  /inchina 
in  silenzio,  saluta  l'imperatore  con  il  cappello,  come  un  moschet- 
tiere e  un  po'  come  un  automa.  In  questo  momento) 

IL  VECCHIO  -  Maestà...  le  presento  l'oratore... 

LA  VECCHIA  -  È  lui!... 


544  EUGÈNE    lONESCO 

{Voratore  rimette  il  cappello  in  testa  e  sale  sulla  pedana;  guarda  dal- 
l'alto in  basso  il  pubblico  invisibile  del  palcoscenico,  le  sedie;  irri- 
gidito in  una  posizione  solenne) 

IL  VECCHIO  (d  pubblico  invisibile)  -  Potete  domandargli  autografi. 

(automaticamente,  silenziosamente,  l'Oratore  firma  e  distribuisce  in- 
numerevoli autografi.  Il  vecchio  durante  questo  tempo  alza  ancora 
gli  occhi  al  cielo,  unendo  le  mani,  e  dice,  esultando) 

Nessun  uomo  in  vita  sua  può  desiderare  di  più... 

LA  VECCHIA  -  Nessun  uomo  può  desiderare  di  più. 

IL  VECCHIO  (alla  folla  invisibile)  -  E  adesso,  con  l'autorizzazione  di  Sua 
Maestà,  io  mi  rivolgo  a  tutti  voi,  signore,  signorine,  signori,  bam- 
bini, cari  colleghi,  cari  compatrioti,  signor  Presidente,  cari  com- 
pagni d'arme... 

LA  VECCHIA  -  Bambini...  ini...  ini... 

IL  VECCHIO  -  Mi  rivolgo  a  tutti,  senza  distinzione  d'età,  sesso,  stato 
civile,  censo,  commercio,  per  ringraziarvi  di  cuore... 

LA  VECCHIA  -  Ringraziarvi... 

IL  VECCHIO  -  ...  unitamente  airOratore...  calorosamente,  d'essere  inter- 
venuti COSI  numerosi...  Silenzio,  signori!... 

LA  VECCHIA  -  ...Silenzio,  signori!... 

IL  VECCHIO  -  Rivolgo  ugualmente  il  mio  ringraziamento  a  tutti  coloro 
che  hanno  reso  possibile  la  riunione  di  questa  sera,  agli  organiz- 
zatori... 

LA  VECCHIA  -  Bravo! 

(durante  questo  tempo,  sulla  pedana,  l'Oratore  è  solenne,  immobile, 
salvo  la  mano  che  automaticamente  firma  gli  autografi) 

IL  VECCHIO  -  ...ai  proprietari  di  questo  stabile,  all'architetto,  ai  mura- 
tori che  hanno  gentilmente  costruito  questi  muri!... 

LA  VECCHIA  (facendo  eco)  -  ...muri... 

IL  VECCHIO  -  ...  a  quanti  hanno  scavato  le  fondamenta...  Silenzio,  si- 
gnore e  signori... 

LA  VECCHIA  (come  sopra)  -  ...  gnore  e  gnori... 

IL  VECCHIO  -  Non  dimentico  neppure  i  falegnami,  che  fabbricarono  le 
sedie  sulle  quali  ve  ne  state  seduti,  l'abile  artigiano... 

LA  VECCHIA  (come  sopra)  -  ...giano... 

IL  VECCHIO  -  ...  che  fece  la  poltrona  nella  quale  si  affonda  mollemente 
Sua  Maestà,  la  quale  però  conserva  ugualmente  uno  spirito  saldo 
e  diritto...  Grazie  ancora  a  tutti  i  tecnici,  macchinisti,  elettroliti.^ 

LA  VECCHIA  (come  sopra)  -  ...  liti...  liti... 


LE   SEDIE  545 

IL  VECCHIO  -  ...  ai  fabbricanti  di  carta  e  ai  tipografi,  correttori  di  bozze 
e  redattori,  ai  quali  siamo  debitori  dei  programmi,  cosi  squisita- 
mente decorati,  alla  solidarietà  universale  di  tutti  gli  uomini,  gra- 
zie^ grazie,  alla  nostra  Patria,  allo  Stato  {si  rivolge  verso  il  lato  in 
cui  deve  trovarsi  l'Imperatore)  di  cui  Vostra  Maestà  regge  il  timone 
con  perizia  di  vero  pilota...  grazie  alla  maschera... 

LA  VECCHIA  -  ...  maschera... 

IL  VECCHIO  (indicando  col  dito  la  vecchia)  -  ...venditrice  di  gelati  e  di 
programmi... 

LA  VECCHIA  {come  sopra)  -  ...grammi... 

IL  VECCHIO  -  ...mia  sposa,  mia  compagna...  Semiramide!... 

LA  VECCHIA  {come  sopra)  -  ...  osa...  agna...  amide...  {a  parte)  Che  tesoro, 
non  dimentica  mai  di  citarmi. 

IL  VECCHIO  -  Grazie  a  tutti  quelli  che  mi  hanno  recato  il  loro  aiuto 
finanziario  o  morale,  prezioso  e  illuminato,  si  da  contribuire  alla 
riuscita  totale  della  festa  di  questa  sera...  grazie  ancora,  grazie  so- 
prattutto al  nostro  dilettissimo  Sovrano,  Sua  Maestà  l'Imperatore... 

LA  VECCHIA  {come  sopra)  -  ...  sta  l'Imperatore... 

IL  VECCHIO  {nel  silenzio  totale)  -  ...  un  po'  di  silenzio...  Maestà... 

LA  VECCHIA  {come  sopra)  -  ...  sta...  sta... 

IL  VECCHIO  -  Maestà,  mia  moglie  ed  io  non  abbiamo  più  nulla  da  do- 
mandare alla  vita.  La  nostra  esistenza  può  concludersi  in  questa 
apoteosi...  grazie  al  cielo  che  ci  ha  concesso  cosi  lunghi  e  pacifici 
anni...  La  mia  vita  è  stata  ben  spesa.  La  mia  missione  è  ormai  fini- 
ta. Non  sarò  vissuto  invano^  giacché  il  mio  messaggio  sarà  rivelato 
al  mondo...  {gesto  verso  l'Oratore  che  non  se  ne  accorge:  costui 
sta  respingendo  col  braccio  le  richieste  di  autografi  in  modo  digni- 
toso e  risoluto)  Al  mondo,  o  meglio  a  ciò  che  ne  resta,  {gesto  largo 
verso  la  folla  invisibile)  A  voi  signori  e  signore,  cari  colleghi  che 
siete  i  resti  dell'umanità,  ma  con  resti  simili  si  può  ancora  fare 
buon  brodo...  Oratore  amico... 

{l'Oratore  guarda  da  un'altra  parte) 

...  se  sono  stato  a  lungo  misconosciuto,  sottovalutato  dai  miei  con- 
temporanei, ciò  che  non  poteva  non  essere... 

{la  vecchia  singhiozza) 

...  che  importa  ormai,  dal  momento  che  lascio  a  te,  mio  caro  Oratore 
ed  amico... 

{l'Oratore  respinge  una  nuova  richiesta  di  autografo;  poi  prende  una 
posa  indifferente  e  guarda  dl'ingiro) 


ss.  •  Teatro  francese 


546  EUGÈNE   lONESCO 

...  la  cura  di  far  rifulgere  sulla  posterità  la  luce  del  mio  spirito... 
Fa  conoscere  dunque  all'Universo  la  mia  filosofìa...  Non  trascurare 
alcun  particolare,  sia  comico  che  tragico  che  commovente,  della  mia 
vita  privata,  i  miei  gusti,  la  mia  leggendaria  golosità...  racconta 
tutto...  parla  della  mia  compagna... 

(la  vecchia  raddoppia  i  singhiozzi) 

...  del  modo  ineguagliabile  con  cui  preparava  i  suoi  meravigliosi 
paté  turchi,  le  sue  polpette  di  coniglio...  parla  del  Berry,  mio  paese 
natale...  Io  faccio  affidamento  su  di  te,  gran  maestro  e  oratore... 
Quanto  a  me  e  alla  mia  fedele  compagna,  dopo  lunghi  anni  spesi 
per  il  progresso  dell'umanità,  durante  i  quali  noi  fummo  i  soldati 
della  giusta  causa,  non  ci  rimane  che  ritirarci...  subito,  al  fine  di 
compiere  il  sacrificio  supremo,  sacrificio  che  nessuno  ci  domanda, 
ma  che  noi  compiremo  ugualmente... 

LA  VECCHIA  {singhiozzando)  -  Si,  si,  moriamo  al  sommo  della  gloria, 
moriamo  per  entrare  nella  leggenda...  Almeno  cosi  ci  dedicheranno 
una  strada... 

IL  VECCHIO  {alla  vecchia)  -  Tu,  oh  mia  fedele  compagna!...  tu  che  hai 
creduto  in  me.  senza  una  sola  esitazione  durante  mezzo  secolo,  tu 
che  non  mi  hai  mai  abbandonato,  mai...  ahimé,  oggi,  in  questa  ora 
suprema,  la  folla  ci  separa  senza  pietà... 

Eppure  il  fato 

io  avea  pregato 

d'unir  le  nostre  ossa 

in  una  fossa 

—  vermi  gemelli 

nutrire  dei  nostri  budelli  — 

negli  avelli 

marcire  insieme. 

LA  VECCHIA  - 

Negli  avelli 
marcire  insieme. 

IL  VECCHIO  -  Ahimé...  ahimé... 
LA  VECCHIA  -  Ahimé...  ahimé... 
IL  VECCHIO  -  ...  I  nostri  cadaveri  cadranno  lontani  l'uno  dall'altro,  noi 

marciremo  nella  solitudine  acquatica...  Non  lagnamoci  troppo. 
LA  VECCHIA  -  Bisogna  fare  tutto  il  proprio  dovere... 
IL  VECCHIO  -  Non  saremo  dimenticati.  L'Imperatore  eterno  si  ricorderà 

di  noi,  eternamente. 


LE    SEDIE  547 

LA  VECCHIA  -  Eternamente. 

IL  VECCHIO  -  Noi  lasceremo  delle  tracce,  poiché  siamo  delle  persone  e 
non  delle  città. 

IL  VECCHIO  E  LA  VECCHIA  -  Noi  avrcmo  la  nostra  strada! 

IL  VECCHIO  -  Cerchiamo  di  essere  uniti  nel  tempo  e  nell'eternità  anche 
se  non  possiamo  esserlo  nello  spazio,  come  lo  fummo  nelle  avver- 
sità: moriamo  nel  medesimo  istante...  {all'Oratore  impassibile  e 
immobile)  Per  l'ultima  volta...  faccio  affidamento  su  di  te...  conto 
su  di  te...  Dirai  tutto...  Ti  delego  il  messaggio...  {dV Imperatore) 
Che  Vostra  Maestà  mi  scusi...  Addio  a  tutti,  addio  Semiramide. 

LA  VECCHIA  -  Addio  a  tutti!...  Addio,  tesoro! 

IL  VECCHIO  -  Viva  l'Imperatore!  (lancia  sull'Imperatore  invisibile  co- 
riandoli e  stelle  filanti.  Si  odono  fanfare;  luce  vivissima,  come  di 
fuochi  d'artificio) 

LA  VECCHIA  -  Viva  l'Impcratore  ! 

(coriandoli  e  stelle  filanti  in  direzione  dell'Imperatore,  poi  sull'Oratore 
immobile  e  impassibile,  sulle  sedie  vuote) 

IL  VECCHIO  (come  sopra)  -  Viva  l'Imperatore! 
LA  VECCHIA  (come  sopra)  -  Viva  l'Imperatore! 

(//  vecchio  e  la  vecchia  si  gettano  nel  medesimo  istante  dalla  finestra 
gridando  «  Viva  l'Imperatore  ».  Bruscamente,  silenzio,  e,  scomparsi 
i  fuochi  d'artificio,  si  ode  un  a  ah!  »  dai  due  lati  del  palcoscenico 
e  il  tonfo  dei  corpi  che  cadono  in  acqua.  La  luce  che  veniva  dalle 
finestre  e  dalla  grande  porta  è  scomparsa:  non  rimane  che  la  de- 
bole luce  del  principio;  le  finestre,  buie,  restano  spedancate  e  le 
tende  dondolano  al  vento) 

l'oratore  (rimasto  immobile,  impassibile,  durante  la  scena  del  doppio 
suicidio,  si  decide  dopo  qualche  istante  a  parlare;  davanti  die  file 
delle  sedie  vuote  egli  fa  comprendere  dia  folla  invisibile  di  essere 
sordo  e  muto;  fa  dei  segni  da  sordomuto;  compie  sforzi  disperati 
per  farsi  capire,  poi  emette  rantoli,  gemiti,  suoni  gutturdi)  - 

Mmm,  mmm,  mmmm 

Crr,  crr,  crrr 

Ggg»  ggg>  gucrr 
(impotente,  lascia  cadere  le  braccia;  improvvisamente,  la  sua  figura 
si  illumina,  ha  un'idea,  si  volta  verso  la  lavagna,  cava  di  tasca  un 
pezzo  di  gesso  e  scrive  a  grandi  maiuscole) 


33*  •  Teatro  francese 


548  EUGÈNE    lONESCO 

ANGEPAIN    ' 

{poi) 

NNAA  NNM  NWNWNWV 

(si  volta  di  nuovo  verso  il  pubblico  invisibile,  quello  del  palcosce- 
nico, indica  col  dito  ciò  che  ha  scritto  sulla  lavagna,  dice) 

Mmm,  mmm,  gucrr,  crr 
Mnun,  mmm,  mmm,  mmm 

{dopo  di  che,  scontento,  cancella  con  gesti  bruschi  i  segni  fatti  col 
gesso,  li  sostituisce  con  altri,  tra  i  quali  si  distinguono,  scritti  sem- 
pre in  grosse  maiuscole) 

A  AA-AIO  AA-KOA  n  SA 

{di  nuovo  si  rivolge  alla  sala,  sorride,  interrogativo,  nella  speranza 
di  essere  stato  capito,  di  aver  detto  qualcosa;  indica  col  dito  die 
sedie  vuote  quanto  ha  scritto;  aspetta  immobile  per  qualche  istante, 
con  aria  soddisfatta  e  un  po'  solenne,  poi,  di  fronte  alla  mancata 
reazione  che  si  attendeva,  a  poco  a  poco  il  suo  sorriso  scompare,  il 
suo  volto  si  incupisce;  egli  aspetta  ancora  un  momento,  poi,  tutto 
d'un  tratto,  saluta  bruscamente,  di  malumore,  scende  dal  podio  e 
se  ne  va  verso  la  porta  del  fondo,  con  andatura  da  fantasma;  prima 
di  uscire,  saluta  cerimoniosamente  ancora  una  volta  le  file  di  sedie 
vuote,  l'Imperatore  invisibile. 

La  scena  rimane  deserta,  con  le  sedie,  il  podio,  il  pavimento  coperto 
di  stelle  filanti  e  coriandoli.  La  porta  del  fondo  è  spalancata  sul 
buio  totale. 

Si  odono  adesso  per  la  prima  volta  i  rumori  umani  della  folla  in- 
visibile:  sono  scoppi  di  risa,  mormorii,  zittii,  colpi  di  tosse  ironici; 
deboli  ed  principio,  questi  rumori  vanno  crescendo;  poi,  di  nuovo, 
progressivamente  decrescono.  Tutto  ciò  deve  durare  abbastanza  a 
lungo,  affinché  il  pubblico  —  quello  vero  e  visibile  —  se  ne  vada 
con  questa  conclusione  ben  impressa  in  mente.  Il  sipario  si  chiude 
lentissimamente) 


La  presente  traduzione,  a  cura  di  Gian  Renzo  Morteo,  è  qui  riprodotta 
per  gentile  concessione  dell'Editore  Einaudi. 


IIDICI  ARALITICI  6EIERALI 
DEI  TRE  TOLDHI 


INDICE  GENERALE  DEI  NOMI 


Achard  Marcel  -  I,  57,  67. 

Adam  De  La  Halle  -  I,  175-179,  197. 

Adaxnov  Georges  -  III,  501. 

Adgar  -  I,  221. 

Adriano  (papa)  -  I,  76. 

Agnese  di  Santa  Tecla  -  II,  243,  244, 

245,  247. 
Alamanni  Luigi  -  I,  302. 
Alarcon,  Juan  de  -  I,  364. 
Alcuino  -  I,  76. 
Alcxis  -  I,  49. 

Alfonso  VI  di  Casdglia  -  I,  370. 
Allan-Despréaux  Louise    (attrice)  -   III, 

92,  95. 
Amiel  Denys  -  I,  56. 
Ancey  G.  (G.  de  Curnieu)  -  I,  50. 
André  de  la  Vigne  -  I,  264,  265. 
Angilberto  -  I,  76. 
Anna  D'Austria  -  II,  75. 
Anouilh  Jean  -  I,  63,  64-66,  67  -  IH, 

317-321,  399,  454. 
Antoine  André  -  I,  50,  53. 
Apollinaire    Guillaume    -    I,    55    -    III, 

497,  506. 
Appiano  -  I,  340. 
Aragon  -  I,  56  -  HI,  498. 
Aretino  Pietro  -  I,  18,  302  -  II,  76. 
Ariosto  Ludovico  -  I,   18,  302,  320   - 

II,  243,  248. 
Aristofane  -  I,   18,  25,  301. 
Aristotele  -  I,  303,  319,  371  -  III,  155. 
Arnault,  Jean  Vincent  -  I,  44  -  II,  245. 
Arouet  Francois  Marie  (v.  Voltaire). 
Artaud  Antonin  -  III,  501. 
Aubigné  Agrippa  (de)  -  I,  321. 
Audibcrti  -  I,  67. 


Augier  Emilc  -  I,  48,  49  -  III,  95. 
Aymé  Marcel  -  I,  67. 

Baculard  d'Arnaud  -  I,  41. 

Balf  Antoine  (de)  -  I,  303. 

Baìf  Uzare  (de)  -  I,  303. 

Balletti   (coppia)  -  II,  469. 

Bandello  Matteo  -  DI,  94. 

Banville,  Théodorc  (de)  -  I,  50,  52. 

Baour  -  Lormian  Pierre  -  I,  44. 

Barbieri  Niccolò    (Beltrame)    -   II,    11. 

Barrault  Jean  Louis  -  I,  55   -  III,  96, 

159. 
Barrès  Philippe  -  HI,  400. 
Barrière  Théodore  -  I,  49. 
Bataillc  Henri  -  I,  51,  56,  65. 
Baty  Gaston  -  I,  55  -  m,  96. 
Bande  Fastoul  -  I,  177. 
Baudelaire  Charles  -  D,  134  -  III,  453. 
Bayle  Pierre  -  H,  467. 
Bcaumarchais  -  I,  41-43,  47  -  II,  539- 

548  -  ra,  93,  319. 
Beckett  Samuel  -  I,  67,  68  -  III,  136, 

457,  501,  502. 
Becque  Henri  -  I,  49. 
Bédier  Joseph  -  I,  235. 
Béjart  Armande  -  H,  10,  21,  190. 
Béjart  Madeleinc  -  D,  9,  10. 
Bclcari  Feo  -  I,  304. 
Bdlay  Joachim   (du)  -  I,   18,  24,  302. 
Belleau,  Remi  -  I,  320. 
Bembo  Pietro  -  I,  338. 
Bcnolt  de  Sainte-More  -  I,  256. 
Benserade  -  I,  355. 
Berchoux  Joseph  -  I,  39. 


552 


TEATRO   FRANCESE 


Bcrgassc  Nicolas  -  II,  542,  547. 

Bcrgerat  Emile  -  I,  52. 

Bernanos  Georges  -  I,  62,  67. 

Bernard  Jean-Jacques  -  I,  56. 

Bernard  Tristan  -  I,  55. 

Bernier  -  I,  50. 

Bernstein  Henri  -  I,  51,  56. 

Berquin  Arnaud  -  I,  41. 

Besmc  bidore  (de)  -  IH,   157. 

Beyle   (v.  Stendhal). 

Beys  -  I,  25. 

Blake,  William  -  III,  453. 

Boccaccio  Giovanni  -  I,   265  -  II,   12, 

13,  76  -  in,  93,  94. 
Bodel  Jean  -  I,  105-106,  131,  177. 
Boileau  (Despréaux  Nicolas)  -  I,  20,  24, 

28,  39  -  n,  243,  245,  247,  467. 
Boisrobcrt  Francois  (de)  -  I,  355. 
Bonarelli  -  I,  340. 
Bossuet   Jacques-Benigne   -   I,   39   -   II, 

467  -  III,  155. 
Bosi  -  I,  67. 

Bouillon  (duchessa  de)  -  II,  244. 
Bourdet  E.  -  I,  56. 
Boursault  Edmé  - 1,  359  -  II,  24. 
Boyer  -  I,  35. 
Brancas  (comte  de)  -  II,  76. 
Brecht  Beriold  -  HI,  505. 
Brcton  André  -  I,  56  -  IH,  498,  505. 
Brieux  Eugène  -  I,  51. 
Brieux  F.  -  I,  50. 
Brifaut  Charles  -  I,  44. 
Buchanan  George  -  I,  303,  419. 
Byron  George  Gordon  -  I,  45. 

Caignez  -  I,  44. 

Caillavet  -  I,  51. 

Calderón   de   la   Barca   Fedro   -  I,   58. 

Calmo  Andrea  -  II.  13. 

Calvin  Jean  -  I,  303. 

Campbtron  Jean  Galbert  (de)  -  I,  35. 

Camus  Albert  -  I,  64,   67   -  HI,  451. 

Capus  Alfred  -  I,  51. 

Carlo  m  -  II,  540. 

Carlo  V  -  I,  17  -  m,  11,  401. 

Carlo  VI  -  I,  233,  273. 

Carlo  Vn  -  I,  266. 

Carlo  Vm  -  I,  16,  255. 

Carlo  IX  -  I,  44,  301. 

Carlo  X  -  ra,  9. 

Carlo  D'Angiò  -  I,  178. 

Carlo  Magno  -  I,  76,  105. 


Carlyle  Thomas  -  I,  53. 

Carmontelle  (Louis  Carrogis)  -  I,  41    - 

III,  93. 
Caron  Lisetta  -  II,  540,  544. 
Caron    Pierre    Augustin    (v.    Beaumar- 

chais). 
Cartesio  -  I,  24  -  li,  15,  256,  467. 
Casanova  Giacomo  -  III,  93. 
Castel  vetro  Ludovico  -  I,  319. 
Castro  Guillen  (de)  -  I,  370. 
Cecov  Anton  -  I,  56. 
Cervantes,  Miguel   (de)  -  I,  338. 
Cesare  Augusto  -  I,  362. 
Champmeslé    (Marie    Desmares)    -    II, 

245. 
Chapelain  Jean  -  I,  371   -  II,  247: 
Chappuzeau  -  II,  11. 
Char  René  -  III.  498. 
Charles  D'Orléans   -   I,    17. 
Charpentier  Francois  -  II,  13. 
Charpy  -  II,  76. 
Chaulnes  (due  de)  -  II,  540. 
Chénier  Marie- Joseph  -  I,  44. 
Chestov  -  III,  452. 
Chevalet  -  I,  256. 
Chevalier  -  II,  24. 
Chevreau  -  I,  355. 
Cicognini  -  II,  133. 
Claudel  Lamberto  -  III,   157. 
Claudel  Paul  -  I,  55,  57-58  -  IH.  155- 

162. 
Claveret  -  I,  355,  371. 
Clavijo  y  Fayardo  José  -  II,  540,  544. 
Cocteau  Jean  -  I,  55,  57,  63,  65  -  III, 

318. 
Cohen  Gustave  -  I,  105,  235,  274. 
CoUetet  Guillaume  -  I,  355. 
CoUin   d'Harleville   Jean   Francois    -    I, 

44. 
Cons  Luigi  -  I,  273. 
Conti   (prince  de)  -  II,  9,  76. 
Coolus  Romain  -  I,  51. 
Copeau   Jacques  -  I,  50,  55   -  III,   ^6. 
Copernico  Nicola  -  II,  467. 
Coppée  Francois  -  I,  49,  52. 
Coquillart  -  I,  266. 
Corday  Carlotta  -  I,  358. 
Corneille,  Pierre   -  I,    12,   19,   20,  21- 

23,  24,  26,  35,  36,  37,  44,  62,  338, 
355-365,    369-371,    419-423 -ih  \^, 

24,  247,   248,   256,    467,  470  -  III, 
11,  505. 


INDICE  GENERALE  DEI  NOMI 


553 


Corneillc  Thomas  -  I,  25  -  II,  323. 
Cornificio  -  I,  177. 
Codn  Charles  (abate)  -  II,  15. 
Courtelinc  (Georges  Moinaux)  -  I,  55. 
Crébillon  Prosper  -  I,  35. 
Crommclynch  -  I,  56. 
Cromwcll  Olivier  -  HI,  11,  93. 
Curcl  Francois  (de)  -  I,  51. 
Cyrano  de  Bergerac  -  II,  14. 


Dullin   Charles   -  I,   55. 

Dumas  Alexandre  (padre)  -  I,  46,  48, 

49. 
Dumas  Alexandre  (figlio)  -  I,  48  -  III, 

95. 
Duparc   (attore)  -  I,  358. 
Dupin    Armandine    (v.    Sand    George). 
Du  Plessis  Armand  Jean  (v.  Richelieu). 
Duval  Alexandre  -  I,  44. 


D'Alembert   (Jean   le  Rond)   -  II,  471. 

Dah  Salvator  -  IH,  498. 

Danchet  -  I,  35. 

Dancourt  Florent  - 1,  37  -  II,  469,  470. 

D'Annunzio  Gabriele  -  III,  400. 

Dante  -  IH,  155,  159. 

Daudet  Alphonsc  -  I,  49. 

De    Bèze   Thcodore   -   I,    19,   301-304, 

320. 
Debussy  Claude  -  III,  135. 
Decio  (imperatore)  -  I,  419. 
Deffand  Marie  (marquise  du)  -  II,  470. 
De  Piers  -  I,  51. 
De  Fornaris  Fabrizio  -  II,  11. 
De  La  Croix,  Philippe  -  II,  24. 
Dclavigne  Casimir  -  I,  46,  47. 
Déroulèdc  Paul  -  I,  52. 
Descartes    du    Perron   René    (v.    Carte- 
sio). 
Dcschamps  Eustache  -  I,  17,  273. 
Desmarets    de    Saint-Sorlin    Jean    -    I, 

25,  355,  356  -  II,  11. 
Dcsmoulinjs  Camille   -  II,   190. 
Destouches  (Philippe  Néricault)  -  I,  37, 

38,  40  -  II,  469. 
Diderot  Denis  -  I,  39,  40,  41  -  II,  544, 

547  -  III,  10. 
Dolce  Ludovico  -  I,  302. 
Donnay  Maurice  -  I,  51. 
Dorat  Jean  -  I,  303. 
Dorimon  -  II,  133. 
Dos  Passos  John  -  III,  449. 
Dostoievski  Feodor  -  III,  155,  452. 
Dovizi  Angelo  -  I,  301. 
Ducange  Victor  -  I,  44. 
Ducis  Jean  Francois  -  I,  39. 
Ducray-Dumenil    Francois-Guillaume    - 

I,  45. 
Dufresny    (Charles  Rivière)    -    II,   469, 

470. 
Dujardin  E.  -  I,  55. 


Eliodoro  -  II,  243,  248. 

Eluard  Paul  -  III.  498. 

Emerson    Ralph   Waldo   -   I,   53    -   III, 

133. 
Enrico  II   -  II,  302. 
Enrico  in  -  I,  320. 
Erasmo  -  I,  303. 
Ernst  Max  -  III,  498. 
Escande  -  HI,  96. 
Eschilo  -  I,  10,  58  -  m,  155,  159. 
Estienne  Charles  -  I,  301. 
Ethelwold   (vescovo)  -  I,  75. 
Etienne  Charles-Guillaume  -  I,  44. 
Euripide   -  I,    18,    19,   303   -  II,  248, 

255,  323,  324,  389,  391. 

Fabre  D'Eglantine  Philippe  -  I,  44. 

Fabre  Emile  -  I,  51. 

Fabre  Jean-Henri  -  III,   133. 

Farai  Edmond  -  I,   175. 

Faulkner  William   -  I,   67   -   III,  449, 

452. 
Favart  Carlo  Simone  -  I,  41. 
Federico  Barbarossa  -  III,   11. 
Fénelon  Francois  -  II,  468. 
Feuillet  Octave  -  I,  48. 
Fcydeau  Charles  -  I,  55. 
Filippo  l'Ardito  -  I,  147. 
Filleul  Nicolas  -  I,  320,  338. 
Fiord  li  Tiberio  (Scaramouche)  -  II,  10. 
Florian  Jean-Pierre  Claris  (de)  -  I,  41. 
Fontenelle  Bernard   (de)  -  I,  357   -  II, 

467.  468.  469. 
Fort  Paul  -  1,  50,  53. 
Fouquet  Nicolas  -  W,  10. 
France  Anatolc   -  I,  52. 
Francesco  I  -  I.   16,  301. 
Francois  di  Amboise  -  I,  302. 
Francquet   (prima  moglie  di  Bcaumar- 

chais)  -  n,  539. 


554 


TEATRO    FRANCESE 


Fratellini  (attori  di  circo)  -  I,  57. 
Frcsnayc  Vauquclin  (de  la)  -  I,  320. 
Freud  Siegmund  -  III,  498. 

Galilei  Galileo  -  II,  467. 

Gantillon  Simon  -  I,  57. 

Garnier  Etienne  -  I,  19,  20. 

Garnier  Robert  -  I,  319-321,  SS7  -  II, 

323. 
Gasscndi  Pietro  -  II,  23. 
Gautier  de  Coincy  -  I,  221. 
Gautier  Théophile  -  I,  44. 
Geremia  -  I,  324  -  li,  389. 
Gerson  (Jean  Charlicr)  -  l,  246. 
Ghcldcrodc  Michel  (de)  -  l,  67. 
Ghéon  Henri  -  I,  56. 
Giansenio  (Cornelius  Jansen)  -  II,  245, 

324. 
Gidc   André    -   I,    55,    62    -   III,    161, 

162,  451. 
Gilbert  Gabriel  -  II,  323. 
Giliberti  -  II,  133. 
Giono  Jean  -  I,  62. 
Giovanni  Diacono   -  I,   105. 
Giovanni  di  Salisbury  -  I,   177. 
Giraudoux   Jean   -   I,  59-61,   63,   65    - 

II,  476  -  III,  96,  162,  241-244,  318, 

503. 
Gluck  Christophe  Willibald   -  II,  546. 
Goethe  Johann  Wolfgang  -  I,  45   -  II, 

190,  543,  544  -  III,  402. 
Goczman  (coniugi)  -  II,  540,  541,  543, 

544. 
Goffredo  di  Vinosalvo  -  I,  177. 
Gombaud  Jean  Ogier  (de)  -  I,  339. 
Goncourt  Edmond  e  Jules  -  I,  49. 
Góngora  Luis  -  I,  338. 
Goria    Teresa    (o    Marchesa)    -    I,    358. 
Gougenot  -  I,  361. 
Gracq  Julien  -  III,  498. 
Grazzini  Anton  Francesco  -  I,  302. 
Greban  Arnoul  -  I,  245-247,  255. 
Greban  Simon  -  I,  256. 
Green  Julien  -  I,  67. 
Grévin  Jacques   -  I,   19,  320. 
Gringore  Pierre  -  I,  256,  266. 
Grotius  (Hugo  de  Groot)  -  I,  419. 
Groto  Luigi  -  n,   11. 
Guglielmo  di  Blois  -  I,   175,  176. 
Guido  dalle  Colonne  -  I,  256. 
Guillaume  Alexis  -  I,  274. 
Guillaume  de  Saint-Amour  -  I,  147. 


Halcvy  Ludovic  -  I,  49,  63. 
Hamon  Jean  -  II,  243,  246,  247. 
Hardy  Alexandre  -  I,  19,  20,  339,  360. 
Hauptmann  Gerhardt  -  I,  50. 
Hegel  Wilhelm  Friedrich  -  HI,  498. 
Heidegger  Martino  -  III,  450,  451,  452. 
Hermant  Abel  -  I,  55. 
Hervieu  Paul  -  I,  52. 
Holbrook  R.  T.  -  I,  274. 
Honorius  D*Autun  -  I,  11. 
Hue  Catherine  -  I,  357. 
Hugo  Victor  -  I,  20,  35,  38,  39,  46. 

47,  58  -  III,  9-13,  93,  95,  157. 
Hugues  Farsit  -  I,  221. 
HusscH  E.  -  III,  449,  450. 

Ibsen  Henrik  -  I,  50,  52,  53  -  HI,  133. 
lonesco  Eugène  -  I,  67,  68  -  III,  457, 

497-507. 
Isaia  -  II,  248,  389,  390. 

Jacobsen  -  I,  177. 

Jammes  Francis  -  III,  162. 

Jarry  Alfred  -  I,  54,  55  -  IH,  498,  506. 

Jaspers  Karl  -  III,  450. 

Jehan  de  Costcs  -  I,  274. 

Jodclle  Etienne  -  I,  18,  302,  319. 

Jouvet  Louis  -  I,  55  -  III,  242,  317. 

Jouy    (Victor-Joseph    Etienne)    -   I,    44. 

Kafka  Franz  -  I,  56. 
Kierkegaard,  Sòren   -  I,  62   -  III,  320, 
450,  452. 

Labiche  Eugène  -  I,  49. 

La  Blache  (comte  de)  -  II,  540,  541. 

La  Bruyère  Jean  (de)  -  I,  21,  24,  25  - 

n,  468. 
La  Calprenède  Gauthier  (de)  -  I,  355. 
La  Chaussée  Pierre  Claude  NivcUe  (de) 

-  I,  38,  40. 
La  Fontaine  Jean   (de)  -  I,  24,  358   - 

II,  243,  247,  468. 
Laforguc  Jules  -  L  52,  63  -  III,  318. 
La  Fosse  Antoine  (de)  -  I,  35. 
La  Grange-Chancel  Joseph  (de)  -  I,  35. 
Lamartine  Alphonse  (de)  -  III,  92,  95. 
Lambert  Anne  Thércse  (de)  -  II,  470. 
Lamoignon  Guillaume  (de)  -  II,  75,  76. 
La  Mothc  le  Vayer  Francois  -  II,  23. 


INDICE  GENERALE  DEI  NOMI 


555 


La  Motte  Houdart  Antoine  (de)  -  I,  35. 

Lampérière,  Marie  (de)  -  I,  358. 

Lancelot  Claude  -  II,  243. 

Lanclos  Ninon   (de)  -  II,  1(ì. 

Langlois  Henri  -  I,  178. 

La   Pénise   Jean   Bastier    (de)   -   I,    19, 

320. 
La  PUanièrc  -  II,  323. 
Laprade,  Jacques   (de)  -  IH,  401. 
Larivey  Pierre  -  I,  302. 
La   Rochefoucauid,  Francois   (de)   -  II, 

257,  468. 
Lautréamont  -  III,  506. 
Lavedan  Henri  -  I,  51. 
Law  John  -  II,  469. 
Laya  Louis  -  I,  44. 
Leblanc  Georgette  -  I,  53. 
Le  Danceur  -  I,  274. 
Le    Frane    de    Pompignan    Jacques    - 

1,35. 
Lcgouvé  Ernesto  -  I,  44. 
Leibniz   Gottfried   Wilhelm    -   II,   467, 

468. 
Le  Maitre  Antoine  -  II,  243. 
Lemercier   Népomucène   -   I,  44    -   III, 

11,  12. 
Lcnormand  -  I,  52,  56. 
Leopardi  Giacomo  -  HI,  93. 
Lerbergue,  van  -  I,  53. 
Lesage    Alain-Rene    -   I,   37,    39    -    II, 

469. 
Lessing  Gotthold  Ephraim  -  III,  10. 
Le  Vasseur   (abate)  -  II,  243,  247. 
Lewis  Matthew  Gregory  -  I,  45. 
Licofrone  -  I,  10. 
Loaisel  de  Trcogate  -  I,  41. 
Locke  John  -  II,  467. 
Loclos  Choderlos  (de)  -  I,  67.  ,, 

Longepierre   Hilaire- Bernard    (de)   -    I, 

35. 
Loyer  Pierre  -  I,  302. 
Lucano  -  I,  364. 
Luce  de  Lancival  -  I,  44. 
Lucrezio  -  II,  23. 
Lugné  Poe  Aurei icn -Marie  -  I,  50,  53, 

55. 
Luigi  XI  -  I,  266. 
Luigi  XIII  -  I,  355. 
Luigi  XIV  -  I,  359  -  II,   10,  14,  244, 

245,  246,  247,  248,  389,  468. 
Luigi  XV  -  II,  539,  541. 
Luigi  XVI  -  II,  541,  546. 


Luigi   Filippo   (di  Francia)  -   III,   158. 
Lulli  Giovanni  Battista  -  II,  IO,  13. 

Machaut  -  I,  17. 

Machiavelli  Niccolò  -  I,  18,  302. 

Maeterlinck   Maurice   -  I,  53-54,  62    - 

III,  133-136,  155,  161. 
Maintenon  Fran^oise  D'Aubigné  (de)  - 

I,  32  -  II,  246,  247,  389,  390. 
Mairet  Jean  -  I,  20,  337-341,  355,  359, 

361,  371  -  n,  247. 
Maldoror  -  III,  453. 
Malhcrbe  Francois  (de)  -  I,  20,  24. 
Mallarmé  Stéphane   -  I,   52,   53,   57   - 

II,  250  -  III,  135,  156. 
Malraux  André  -  III,  451. 
Mancini  Maria  -  II,  248. 
Marana  -  I,  370. 

Marcadé  Eustachc  -  I,  245,  255. 

Marceau  Félicien  -  I,  67. 

Marcel  Gabriel  -  I,  62  -  IH,  317,  450. 

Marco  Aurelio  -  III,   133. 

Maréschal   Sylvain   -  I,  20,  44,  355. 

Maria  Teresa  d'Austria   -   II,   541. 

Marino  Giovan  Battista  -  I,  338. 

Marivaux  Pierre  Carlet  de  Chamblain 
-  I,  37,  38,  39,  45,  50,  61,  64  -  II, 
467-476  -  III,  93,  96,  244,  319. 

Marmontel  Jean-Francois  -  I,  35. 

Marx  Karl  -  HI,  452. 

Marziano  Capella  -  I,  263. 

Masures,  Luigi  (des)  -  I,  304. 

Matthieu  do  Venderne  -  I,  175,  179. 

Maturin  -  I,  45. 

Maupassant,  Guy  (de)  -  I,  49. 

Maurìac  Francois  -  I,  62. 

Maurras  Charles   -  III,  400. 

Mazzarino  (Giulio  Mazzarini)  -  I,  340. 

Medici  Caterina  -  I,  303. 

Medici  Lorenzino  -  I,  302. 

MeUhac  Henri  -  I,  49,  63. 

Menandro  -  I,   176,   177,  302. 

Mendès  Catulle  -  I,  52. 

Mendoza  Diego  Hurtado  (de)  -  II,  12. 

Mercier  Sébastien  -  I,  41,  45. 

Meril   (du)  -  I,  105. 

Mérimée  Prosper  -  III,   10. 

Meschinot  Jean  -  I,  301. 

Méténier  Oscar  -  I,  52. 

Michel  Jean  -   I,  255-256, 

Michelet  Jules  -  II,  190. 

Milhaud  Darius  -  HI,  159. 


556 


TEATRO    FRANCESE 


Millct  Jacques  -  I,  256. 

Mirabcau  Honoré-Gabrìcl  Rìqued  (mar- 

quis  de)  -  II,  542. 
Mirbcau  Octavc  Henri  -  I,  49. 
Miro  Gabriel  -'III,  498. 
Molière    (Jean-Baptistc    Poquelin)    -    I, 

17,  26-28,  39,  40,  41,  47,  274,  358. 
'365    -  II,   9-17,  21-24,  75-78,  133- 

135,    189-193,   243,   244,  256,   468, 

469,  470,  545  -  III,  li,  503,  505. 
Mondory   (attore)   -   I,  360. 
Montaigne,   Michel    (de)   -   I,   24    -   II, 

467,  474. 
Montchrctien,  Antoine  (de)  -  I,  19,  20, 

337,  339,  340. 
Montemayor  Jorge  -  I,  338. 
Montfleury  Jacob  (de)  -  I,  35  -  II,  24. 
Montheriant,  Henri   (de)  -  I,  62,  66  - 

III.  399-405. 
Montmorency,  Henri  (de)  -  I,  339. 
Montreux,  Nicolas   (de)  -  I,  339,  340. 
Monvel   (Jacques-Marie  Boutet)  -  I,  44. 
Mozart  Wolfgang  Amadeus   -  II,  548. 
Muret  Marcantonio  -  I,  303,  320. 
Musset  Alfred   (de)  -  I,  61   -  II,  476  - 

III,  91-96,  157,  244,  401. 
Musset  Paul  (de)  -  III,  92,  94. 

Napoleone  -  II,  190  -  III,  158. 

Neri  Ferdinando  -  I,   178. 

Nerval  Gerard   (de)  -  I,  54  -  III,  498, 

506. 
Nevers  Philippe  (de)  -  II, -244. 
Newton  Isaac  -  II,  467. 
Nicolas  de  la  Chesnaye  -  I,  264. 
Nicole  Pierre  -  II,  243,  244,  245. 
Nietzsche  Friedrich  -  III,  400,  498. 
Nijinsky  -  III,   159. 
Notkero  -  I,  10,  76. 
Novalis    (Friedrich    de   Hardenìberg)    - 

I,  53  -  III,  133. 

Ogier  Francois  -  I,  38. 
Olivet  Pierre- Joseph   (de)  -  II,  245. 
Omero  -  I,  24  -  IH,  159. 
Orazio  -  I.  177,  303,  319,  371. 
Ovidio  -  II.  248. 


Paolo  Diacono  -  I.   148. 

Pare,  Marchesa  o  Teresa  (du)  -  II,  245, 

248. 
Pàris-Duverney   Joseph  -  II,   539,  540. 
Paris  Gaston  -  I,  178. 
Pascal  Blaise  -  I,  24   -  II,  256,  467  - 

ra,  155,  452. 
Pasquier  Etienne  -  I,  273. 
Passeur  Steve  -  I,  56. 
Péguy  Charles   -   I,   23,   55,   58   -   IH, 

162. 
Pellegrin  -  I,  56. 
Pellisson  Paul  -  I,  371. 
Perrault  Charies  -  I,  29,  62  -  II,  468  - 

III,  505. 
Petrarca  Francesco  -  I,  17,  265. 
Picabia  Francis  -  III,  498. 
Picard  Louis  Benoit  -  I,  44. 
Picasso  Pablo  -  I,  57. 
Pichette  Henri   -  III,   501. 
Pichou  -  I,  20,  355. 
Pio  VII  -  III,  158. 
Pirandello   Luigi    -    I,    56    -   III,    319, 

455,  507. 
Piron  Alessio  -  I,  35,  40  -  II,  469. 
Piscator  -  in,  505. 
Pitoeff  -  I,  55. 

Pixcrécourt  Guilbcrt   (de)   -   I,   44,  45. 
Platone  -  I,  53. 
Plauto  -  I,  18,  176,  177,  301,  302.  356 

-  II,  13. 
Plutarco  -  I,  22,  319,  361. 
Poe  Edgar  Allan  -  II,  250. 
Polibio  -  I.  340. 
Pol-Roux  le  Magnifique  -  I,  53. 
Pompadour    Antoinette    Poisson    (mar- 
quise de)  -  II,  539,  544. 
Pons  (abate)  -  II,  76,  77. 
Ponsard  Francois  -  I,  48. 
Poquelin  Jcan-Baptiste  (v.  Molière). 
Porto-Riche  George  -  I,  50. 
Pradon  Nicolas  -  I,  35  -  II,  244. 
Prévost  D'Exilcs  A.-F.  -  II,  467. 
Proust  Marcel  -  III,  162. 
Prudenzio  -  I,  263. 
Prudhomme  -  HI,  501. 
Puget  Ch.  A.  -  I,  67. 
Pure  Michel  (de)  -  II,  11. 


Pagnol  Marcel  -  I,  57,  67. 
Paladino  Eusapia  -  III,  133. 
Paolo  (papa)  -  I,  76. 


Quillard  P.  -  I,  53. 
Quinault,   Philippe   -   I,   35,   359   -   H, 
14,  323. 


INDICE  GENERALE  DEI  NOMI 


557 


Racan,  Honorat  de  Bucil  (de)  -  I,  20, 
339,  340  -  n,  248. 

Rachel  (Elisa  Felix)  -  I,  48. 

Racine  Jean  -  I,  12,  19,  20,  28-34,  35, 
36.  37,  39,  45,  47,  50,  61,  338,  341, 
356,  357,  358,  359,  364,  365,  369  - 

II,  243-251,  255-257,  323-325,  389- 
392,  468,  470,  472  -  IH,  10,  93, 
319,  401. 

Racine  Jean-Baptiste  -  II,  246. 

Radiguet  -  I,  57. 

Rapin  René  -  II,  247. 

Raynal  Paul  -  I,  57. 

Regnard    Jean-Francois    -    I,    37    -    II, 

469,  470,  545. 
Renard  Jules  -  I,  49,  55. 
Renty   (barone  de)  -  II,  76. 
Riccoboni  Flaminia  -  II,  469. 
Riccoboni  Luigi  -  II,  469. 
Richardson  Samuel  -  II,  544. 
Richelieu     (Armand-Jean     Du     Plessis, 

cardinal  de)  -  I,  340,  355,  357. 
Richepin  Jean  -  I,  52. 
Rimbaud  Ardiur  -  I,  52,  53,  54,  57  - 

III,  93,  155,  506. 
Rivaudeau  -  I,  320. 
Roberto  D'Angiò  -  I,   197. 
Roberto  D'Artois  -  I,   178. 
Robinet  -  II,  24. 
Rodenbach  Georges  -  I,  53. 
Romains  Jules  -  I,  56. 

Romanet  Cadierine  (de)  -  II,  245,  247. 

Romano  -  I,  76. 

Ronsard  Pierre  -  I,  301,  302,  320. 

Roquette   (abate)  -  II,  76,  77. 

Rossini  Gioacchino  -  II,  548. 

Rostand  Edmond  -  I,  49. 

Rosvita  -  I,   148. 

Rotrou  Jean  -  I,  20,  356,  361  -  II,  13. 

Rouché  -  I,  50. 

Rousseau  Jean- Jacques  -  I,  39  -  II,  190, 

468  -  III,  505. 
Roussin  -  I,  67. 
Roy  -  I,  235. 

Royas  Francisco  (de)  -  I,  356. 
Rutebeuf  -  I,  147-148,  165,  235. 
Ruy  Diaz  Rodrigo  (Cid)  -  I,  370. 
Ruysbrocck  Jean  (de)  -  I,  53. 
Ryer  Pierre   (du)  -  I,  20,  356. 


Sacha-Guitry  -  I,  51. 
Sade  (marchese  de)  -  III,  454,  498. 
Saint-Agnan  (conte  de)  -  II,  244. 
Sainte-Beuve    Charles    Augustin    -    II, 

471   -  III,  401. 
Saint-Evrcmond  Charles  (de)  -  II,  467. 
Saint-Gelais  Mellin   (de)  -  I,  340. 
Saint-Georges  de  Bouhélier  -  I,  52. 
Saint-Simon,  Louis  de  Rouvroy   (de)  - 

II,  76. 
Salacrou  Armand  -  I,  56,  67. 
Salas  Barbadillo  Alonso  -  II,  76. 
Salieri  Antonio  -  II,  546. 
Salle  Antoine  (de  la)  -  I,  273. 
Samain  Albert  -  I,  52. 
San  Bonaventura  -  I,  233,  246,  358. 
Sancio  II  -  I,  370. 
Sand  George  -  III,  92,  94. 
San  Francesco  di  Sales  -  I,  420. 
San  Luigi  (re  di  Francia)  -  I,  147. 
San  Matteo  -  I,  76. 
Sannazzaro  Jacopo  -  I,  338. 
San  Nicola  -  I,   105. 
San  Paolo  -  II,  248,  392. 
Santa  Genoveffa  -  III,  159. 
Sanu  Giovanna  D'Arco  -  I,  256. 
Sant'Anselmo  -   I,  233. 
Sardou  Victorien  -  I,  49. 
Sarment  Jean  -  I,  56. 
Sarrazin  -  II,  76. 
Sartre   Jean-Paul   -   I,  63-64,  66  -  III, 

320,  449-457,  501,  506. 
Scaliger  Jules  Cesar   -  I,  319. 
Scarron  Paul  -  I,  20  -  H,  22,  76,  545. 
Schéhadé  Georges  -  UI,  501. 
Schelandrc  Jean   (de)  -  I,  20. 
Schiller  Friedrich  -  I,  45  -  HI,  10. 
Schlegel  Wilhelm  -  III,  10. 
Scott  Walter  -  I,  47  -  III,  93. 
Scribe  Eugènc  -  I,  47. 
Scudéry,   Georges    (de)   -   I,   340,   355, 

356,  359,  361,  371  -  II,  247. 
SébUlet  Thomas  -  I,  303. 
Secchi  Niccolò  -  II,  11. 
Sedaine  Michel  Jean  -  I,  41   -  II,  544, 

545  -  III,  10. 
Seneca  -  I,  18,  19,  303,  320,  338,  361, 

362  -  II,  323. 
Serafino  Aquilano  -  I,  338. 


558 


TEATRO   FRANCESE 


Scrlio  Sebastiano  -  I,  301. 

Scvigné  Marie  (marchesa  de)  -  II,  76, 

245. 
Shakespeare  William   -  I,  20,  36,  39, 

45,  47,  53,  57,  58  -  III,  9,  11,  93. 
Shaw  George  Bernard  -  I,  56. 
Sidonio  Apollinare  -  I,  177. 
Sofocle  -  I,  18,  57,  61,  66,  303. 
Soulié  Frédéric  -  I,  46. 
Soumet  Alexandre  -  I,  47. 
Spinoza  Baruch  -  II,  457. 
Stael   Jeanne   Necker   (baronessa  de)   - 

m,  10. 
Stendhal  -  I,  23  -  HI,  10. 
Straparola  Gian  Francesco  -  II,  22. 
Supervielle  Jules  -  I,  62. 
Surius  (monaco  tedesco)  -  I,  419. 

Tacito  -  n,  248,  249,  389. 
Taille  Jacques  (de  la)  -  I,  320. 
TaUle  Jean   (de  la)  -  I,  18,  302,  319, 

320. 
Talma  Francois-Joseph  -  I,  44. 
Tasso  Torquato  -  II,  243. 
Tebaldeo  Antonio  -  I,  338. 
Tcndn  (madame  de)  -  II,  470,  476. 
Terenzio  -  I,  18.  25,  301,  302  -  H,  12, 

14. 
Théophile  -  I,  20,  360. 
Thcophile  de  Viau  -  I,  340. 
Thomas  -  I,  17,  35. 
Thomassin  (attore)  -  II,  470. 
Tirso  da  Molina  -  I,  420  -  H,  133. 
Tito  Livio  -  I,  340,  361. 
Tolstoi  Lev  -  I,  50,  53. 
Trissino   Gian   Giorgio    -    I,    18,   303, 

337,  340. 
Tristan  -  II,  11. 

Tristan  L'Hermitc  Louis  -  I,  20,  355. 
Trotta  -  I,   165. 


Tudor  (dinastia)  -  IH,  11. 
Turnèbc  Odet  (de)  -  I,  302. 
Turoldo  -  I,  12. 
Tutilone  (mònaco)  -  I,  10,  76. 
Tzara  Tristan  -  I,  56  -  HI,  498. 

Urfé,  Honoré  (de)  -  I,  338. 

Vaché  Jacques  -  IH,  498. 

Valéry,  Paul   -   I,   60,   62    -  IH,   161, 

162. 
Varchi  Benedetto  -  IH,  94. 
Vaugelas  Claude  Favre  (de)  -  II,  15. 
Vega  Lope  (de)  -  I,  58,  356,  364. 
Velez  de  Guevara  L.  -  III,  400. 
Vergennes   Charles   Gravier    (de)  -   II, 

542. 
Verlaine  Paul  -  IH,  93. 
Vigny  Alfred   (de)  -  I,  46  -  IH,   157. 

403. 
Vilar  Jean  -  I,  55. 
Vildrac  Charles  -  I,  56. 
Villiers   de   L*Isle-Adam   Philippe   -   I, 

49  -  n,  133. 
Villon  Francois  -  I,  17,  147,  266,  273. 
VirgUio  -  n,  249. 
Visé  Donneau  (de)  -  II,  24. 
Vital  de  Blois  -  I,   175,   176. 
Vitale  (mimo)  -  I,  15,  177. 
Vitalie  Albert  -  I,  67. 
Vitruvio  -  I,  301. 
Voltaire  -  I,  36,  37,  38,  39,  40,  44,  45. 

47  -  n,  468,  470,  471,  476,  543  - 

in,  91. 

Watteau  Antoine  -  II,  469. 

Ziegler  -  I,  304. 
Zola  Emile  -  I,  49. 


INDICE  GENERALE  DELLE  TAVOLE  ILLUSTRATE 


Tav.     1 


8 
9 

10 
12 


Illustrazione  per   La  Farce  de  Maitre  Pathelin: 
Pathdin  e  Guillcmettc  -  Illustrazione  per  la  Mo- 
ràUti  du  Mauvds  Biche  et  du  Ladre  . 
Scene   della    connmcdia    italiana    in    Francia    nel 

XVI    secolo 

Jean  Bodel,  lebbroso,  legge  il  suo  Congedo  agli 

amici   di   Arras 

La  leggenda  di  TeofUo  -  L'Inferno  di  Poi  de 

Limbourg 

Manoscritto  di  Le  jeu  de  Robin  et  Marion  . 
Due  scene  del  Mistero  della  Passione,  rappresen- 
tato a  Valenciennes  nel  1547 

Il  Mistero  della  Passione  rappresentato  sul  sagrato 

di  Notre-Dame  di  Parigi 

Pathelin  e  il  mercante  di  stoffe  .... 
Il  Mistero  della  Passione:  fine  XV  secolo.  Museo 

di  Reims 

Illustrazioni  per  edizioni  del  teatro  di  Corneille 
Il  Cid  al  Teatro  Olimpico  di  Vicenza,  nel  1952 
Poliuto  al   Thtì'tre  Antique  d*Orange  nel   1953 


voi. 


13  Illustrazioni  di  P.  Brissart  per  le  opere  di  Mo- 
lière,   1682 

14  Scenario  di  Christian  Berard  per  La  scuola  delle 
mogli 

15  Louis   Jouvet   e   Pierre   Renoir  nel    Tartufo,  al- 
TAteneo 

16  Jean  Vilar  nel  Don  Giovanni  di  Molière 

17  Una    rappresentazione   del    Malato    Immaginario 
nel  parco  di  Versailles 

»      18    Scene  e  costumi  per  il  teatro  di  Racine  . 


n 

II 

II 
II 

li 

n 


pag.     16 

48 

112 

152 
200 

240 

256 
288 

312 
360 
408 
456 

16 

64 

120 
176 

232 
296 


560  TEATRO  FRANCESE 

Tav.  19    L'attrice  Champmcslé,  intcrpreCie  ddla  Fedra  di 

Racine    alla    Comédic    Franfaisc      ....       voi.  Il         pag»  360 

20  Disegno  di  De  Waìlly  per  AtaUa  di  Radile  »    Il  »      424 

21  Bozzetto  di  Francois  Ganeau  per  La  dupUee  in- 
costanza di   Marivaux >     II  »      488 

22  Illustrazioni  di  Saint-Quentin  per  //  matrimonio 
di  Figaro >     U         >      544 

23  Auguste  Thenard,  protagonista  de  //  matrimonio 
di  Figaro  al  Thdltre  Fran^ »     Il  »      600 

24  Catherine   Le   Couvey   e   Daniel    Sorano   ne   // 
matrimonio  di  Figaro >    Vi         »      648 


25  Hernani  alla  Comédie  Fran^aise,  per  il  centocin- 
quantesimo anniversario  dd  Poeta    ....  »    III 

26  Una  scena  dd  terzo  atto  di  Ruy  Bios  ...  >     III 

27  Marguerite  Jamois  e  Luden  Nat,  interpreti  de 

/  capricci  di  Marianna >     IH 

28  La  morte  di  Tintagiles  di  Maeterlinck,  al  Teatro 

dd  Mathurins  di  Parigi * 

29  Scenografìa  di  Jean  Variot  per  L'Annunzio  a  Maria  » 

30  L'Annunzio  a  Maria  al  Teatro  Hébertot  di  ParigT  > 

31  Una  scena  di  Anfitrione  38  di  Giraudoux  .  » 

32  Suzannc  Fbn  ne  L'Alouette  di  Anouilh  » 

33  Una  scena  di  Euridice  di  Anouilh,  rappresentato 
a  Roma  nd   1947 » 

34  Henri   Rolland    e   Hélènc   Vercors    ne   //  gran 
Maestro   di   Santiago » 

35  Porte  Chiuse  di  Sartre,  al  Vieux-Colombier,  nd 
1934 » 

36  Bozzetto  di  Jacques  Noci  per  Le  sedie  di  loncsco  » 


32 
64 

112 


ra 

»   144 

m 

»  176 

ra 

»  224 

m 

»  272 

m 

»  320 

m 

»  368 

m 

»  416 

m 

»     464 

m 

>  528 

Ringraziamo  le  Case  Editrici  Table  Ronde,  Bompiani,  Gallimard, 
Einaudi,  che  ci  hanno  gentilmente  concesso  la  facoltà  di  pubblicare  nel 
presente  volume  rispettivamente-,  Euridice  di  Jean  Anouilh,  Il  gran 
Maestro  di  Santiago  di  Henri  de  Montherlant,  Porte  chiuse  di  Jean- 
Paul  Sartre,  Le  Sedie  di  lonesco. 


INDICE  GENERALE  DEL  TERZO  VOLUME 

Victor  Hugo:   Presentazione pag.  7 

Victor  Hugo-.   Hernani  o  L'onore  castigliano  (Trad.  Pctroni)  »  15 

Alfred  de  Musset:    Presentazione »  89 

Alfred  de  Musset:  I  capricci  di  Marianna  (Trad.  Pctroni)     .  »  97 

Maurice  Maeterlinc\:    Presentazione »  131 

Maurice  Maeterlinc\:   L'Intrusa  (Trad.  Montagna)    ...»  137 

Paul   Claudel:    Presentazione »  155 

Paul  Claudel:   L'annunzio  a  Maria  (Trad.  Dora  Siciliano)      .  »  163 

]ean  Giraudoux:   Presentazione »  239 

Jean   Giraudoux:    Intermezzo  (Trad.  Italo  Siciliano)  ...»  245 

Jean   Anouilh:    Presentazione «  315 

Jean  Anouilh:   Euridice  (Trad.  Italo  Siciliano)      ....  »  323 

Henri  de  Montherlant:  Presentazione »  397 

Henri  de  Montherlant:  Il  gran  Maestro  di  Santiago    (Trad. 

Dora  Siciliano) »  407 

Jean-Paul  Sartre:    Presentazione »  447 

Jean-Paul  Sartre:  Porte  chiuse  (Trad.  Pctroni)     ....  »  459 

Eugène  lonesco:    Presentazione »  495 

Eugène  lonesco:  Le  sedie  (Trad.  Mortco) »  509 

Indice  dei  Nomi  citati  nei  tre  volumi »  551 

Indice  delle  Tavole  illustrate  dei  tre  volumi    ....  »  559 


Finito  di  stampare  il  25  novembre  1959  in  Milano 
nelle  officine  grafiche  deiristituto  Editoriale  Italiano 


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