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LIBRARY
UNlVasiTY OF
CALIFORNIA
'' I
THESAURUS LITTERARUM
fondato da Vincenzo EnraiUe
TEATRO FRANCESE
/// - da Victor Hugo a lonesco
Toulouse-Lautrec: Vn palco a teatro. Litografìa a colori (1897).
TEATRO DI TUTTO IL MONDO
direttore: Raffaele Cantarella
ITALO SICILIANO
TEATRO FRANCESE
Ili • da Victor Hngo • loneseo
NUOVA ACCADEMIA EDITRICE
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERTATA: NUOVA ACCADEMIA EDITRICE
MILANO • VIA MAZZINI 10
riCTOR HU«0
971
Ncirimmcnsa opera scaturita dal cervello vulcanico (bagliori,
lapilli e cenere) di Victor Hugo il teatro è una parentesi relativa-
mente breve nella quale si condensano e si esaltano gli aspetti con-
traddittori di un genio la cui esuberanza non esclude gli estremi
della banalità e della < sregolatezza >. Annunziato da precoci sag-
gi di tragedie e dranmii (un' Athélie, una Inés de CastrOy e altre),
l'assalto alla ribalta — e alla Bastiglia classica — s'inizia nel 1827
(Hugo ha venticinque anni) con un Crotnwell che ha il piccolo in-
conveniente di essere < injouable >, subisce nel 1827 l'infortunio di
una Amy Robsort^ vince nel febbraio del 1830 la memorabile bat-
taglia di Hemani, si conchiude nel 1843 col disastro dei Burgra-
ves. Fra l'Austerlitz e la Waterloo della campagna romantica, al-
terne vicende di faticose vittorie e di rovesci. Successo, nel 1831, di
Marion de Lorme (dramma scritto nel 1828, ma vietato dalla cen-
sura di Carlo X), contrasti nel 1832 per Le roi s'amuse (che met-
te in scena gli amorosi capricci di Francesco I ed il patetico amor
paterno del buffone Triboulet), fallimenti di Lucrèce Borgia
(1833), di Marie Tudor (1833), di Angelo tyran de Padoue (1835),
melodrammi in prosa sui quali anche ì più accesi hugolatri sten-
dono un pietoso velo. Nel 1838 il poeta inizia, e non finisce, Les
Jumeaux (la storia della maschera di ferro) e fa rappresentare
Ruy Blas, che è considerato il suo secondo capolavoro. Dopo i lu-
gubri Burgraves non scriverà che l'orrido Torquemada (1869) e
— fra gli uni e l'altro — delle piacevoli scenette pubblicate po-
stume nel Thiàtre en liberté.
Bilancio piuttosto magro e, comunque, sproporzionato alla
vastità dei rumori e delle ambizioni. Il venticinquenne poeta, che
già si credeva Shakespeare e che fra qualche anno crederà di es-
sere stato messo da Dio al centro del mondo per esserne < l'eco so-
10 VICTOR HUGO
nera», ritiene necessario risalire all'origine del mondo per trac-
ciare la strada fatale che dalla genesi porta al suo CromwelL Nel-
la famosa prefazione, infatti, comincia col fare della stessa uma-
nità una smisurata < picce » in tre atti, distinta in tempi primitivi
che sarebbero stati lirici, in tempi antichi che sarebbero stati epi-
ci e in tempi moderni che, prendendo inizio dal Cristianesimo,
avrebbero avuto per protagonista il teatro. Questo e vissuto a lun-
go nell'arbitrio delle regole e nell'equivoco dei generi separati, ma
ormai è venuto il tempo di risolvere l'assurdo divorzio di trage-
dia e commedia nel contrastato connubio del dramma che — au-
tentica rappresentazione del vero della vita e poema «comple-
to » — deve fondere il bello e il brutto, il riso e il pianto, il subli-
me e il grottesco. Dal Sinai della sommaria scienza e della colo-
rata prosa, Hugo è sceso, o caduto, nella terra dei Diderot e dei
Sedaine e sul palcoscenico del melodramma popolare
Se nessuno potè prendere sul serio l'immaginaria dottrina evo-
luzionistica in troppo flagrante dissidio con le nozioni di storia
elementare, si riconobbe tuttavia alla Préface il merito di aver mos-
so le acque e di aver scatenato il salutare uragano romantico. Sì
trattava però di acque già mosse, e di varia provenienza. Rivolta
contro le regole, condanna a morte del moribondo classicismo,
libertà dell'arte o nell'arte, antitesi Racìne-Shakespeare, mescolan-
za di generi e di stili, di storia e di fantasia, di frenetiche passioni
e di ironia, erano il disparato compendio, e l'eco sonora, delle
dottrine settecentesche e delle teorie di Lcssing, di Schiller, di
Wilhelm Schlegel, delle polemiche milanesi (riecheggiate da Sten-
dhal), dei volgarizzamenti di Madame de Staci, dei < divertimen-
ti > del Mérimée del Thiàtre de Clara Gazul, ecc. Con tutte le sue
stravaganze, il manifesto del Cromwell contiene ancora qualche
elemento positivo. Nelle successive prefazioni il profluvio di pa-
role serve solo a rivelare l'inesistenza di una qualsiasi concezione
teatrale. « Ce serait l'heure, pour celui à qui Dieu en aurait donne
le genie, de créer tout un théStre vaste et simple, un et varie, na-
tional par l'histoire, populaire par la vérité, humain, naturel, uni-
versel par la passion >. Così è scrìtto nella prefazione a Marion de
Lorme. Altrove al teatro saranno affidati la missione sociale, l'in-
segnamento della storia, l'esercizio della magistratura e del sacer-
PRESENTAZIONE 11
dozio, e simili idoli — o verità primarie — di caratteristica marca
hughiana.
Purtroppo, le opere non mantengono cosi grandi e vaghe pro-
messe. In realtà, il dramma «maestro di storia nazionale» (che,
sia detto en passant, rivela una particolare predilezione per le
escursioni in terra straniera, per la Spagna di Carlo V o dellln-
quisizione, per llnghilterra di Cromvvrell e dei Tudor, per l'Ita-
lia rinascimentale, per la Germania di Barbarossa) tiene in son-
tuose regge cattedra di filosofia spicciola, di democratica mora-
le e di eroiche passioni, ma — oltre a fare dei tempi e dei luoghi
chiassosi quadri che finiscono in oleografia — riduce troppo spesso
il magistero all'enfatica intronizzazione dell'c out-law » fatale e
tenebroso (siamo nella stagione dei Manfredo, Lara, Karl Moor,
eccetera) e al melodrammatico conferimento di titoli di nobilita alla
cortigiana Marion redenta dall'amore, ad una Lucrezia Borgia
sublimata dalla maternità, all'eroica attrice La Thisbé, al valletto
Ruy Blas amato amante di una Regina, al bandito Hernani, al
trovatello Didier, all'* uomo del popolo > Gilbert, al buffone Tri-
boulet. Una siffatta semplicistica visione dell'umanità sarebbe an-
cora tollerabile se il teatro delle universali verità non mettesse una
singolare costanza nell'esercitare i diritti della fantasia in abusi di
situazioni inverosimili e in arbitri di cuore, se soprattutto non chie-
desse troppo alla credulità dello spettatore (ed all'equivoco fune-
sto) rivelando l'ingenua credenza che il «grande nel vero» e il
< vero nel grande > si trovino — meglio che in Corneille e in Mo-
lière — nel tragico sacco del buffone o nell'allegro armamentario
di armadi, molle, maschere, barbe finte e tabarri, veleni, narcotici,
patiboli, bare, cappe e spade.
Hugo non era Népomucène Lemercier, ma non era nemmeno
Shakespeare. Pensandosi autentica rappresentazione della vita il
suo «grottesco» resta per lo piò nel convenzionale delle antitesi
che non raggiungono il punto di incontro in cui l'arte si fonde con
la vita ed in cui l'immaginazione risolve in poesia i contrasti della
realtà e la dialettica dei contrari: onde volgare perizia e linguag-
gio sontuoso procedono di conserva e in discordia fra umorismo e
involontario ridicolo, fra la ricerca del sublime e la goffa trovata,
fra il volo Urico e la caduta nella prosa. Hugo non era Shakespeare,
12 VICTOR HUGO
ma non era nemmeno Népomucène Lcmercier. E il puerile colpo
di scena si accompagna volentieri alla sorpresa del verso felice e
della rima ricca, la fantasia vagabonda scopre a volte il vago pae-
saggio della fiaba, mentre l'assurdo intreccio si riscatta nel fram-
mento e nelle gratuità del bel canto. Il poeta delle luci e delle om-
bre ha fatto anche del teatro uno di quei suoi amati mostri ai qua-
li carenze ed eccessi impediscono di raggiungere il miracolo.
Luci ed ombre anche in quelli che sono considerati i suoi ca-
polavori, in Hemani e in Ruy Bios. Si disse che il primo potrebbe
intitolarsi < la Vengeance de Bartholo », ma, a parte il fatto che la
stessa situazione può indifferentemente dare un dramma o una
farsa, Ruy Gomez non conosce né il comico di don Bartolo ne il
grottesco ante-litteram di Arnolphe. In realtà, il loquace duca erra
fra la situazione farsesca del vecchio innamorato e la melodramma-
tica marionetta del vecchio feroce, restando nel farnetico senile
dei suoi giovanili ardori e dei sermoni agli eroici ritratti, dando
prova di spagnolesca grandezza in atti egualmente incredibili di
generosità e di ferocia. E qualcosa della rigidità e dei movimenti
bruschi della marionetta c'è anche nel patetico semplicismo di Dona
Sol, nelle irruzioni sulla scena del bandito dagli occhi fiammeg-
gianti e dell'augusto Don Giovanni in tragicomica vena di avven-
ture, negli scontri e nei salti nel vuoto dei cavalieri erranti e dei
congiurati da ballo in maschera.
La critica è stata severa con quel re che al momento di dive-
nire Carlo V si nasconde in un armadio o tiene filosofiche con-
cioni nella tomba di Carlomagno, con quei nemici che si cercano
per sterminarsi e si risparmiano quando si trovano (e ricominciano
a cercarsi per abbracciarsi o sterminarsi) con quell'Hernani che per
amore di Dona Sol può dimenticare il giuramento di vendicare il
padre, ma si avvelena con la donna amata per non venire meno
al patto del corno, con il falso dei caratteri, con le incongruenze
dell'azione. Nel fallito dramma si suole tuttavia lodare il riuscito
poema, il giovanile ardore e il soffio corneliano, i melodiosi duetti
d'amore e il trionfale proclama della rivolta romantica. Ed invero
Hemani resta, e va letto, come il caratteristico documento del di-
suguale gusto di un grande poet9 e dei contrasti — ed eccessi — di
un pronunciamento letterario.
PRESENTAZIONE 13
Fra le numerose edizioni delle opere complete di Victor Hugo,
cfr. l'edizione monumentale dell'Imprimerie Nationale, che va dal
1904 ai nostri giorni e, per H emani, l'edizione critica di M. Levaillant
(1933).
Del teatro di Hugo si parla più o meno diffusamente nella vasta
mole di opere critiche e storiche dedicate al poeta. Ma si veda in par-
ticolare P. et V. Glachant, Essai critiquc sur le théàtre de VJì. (1902-
1903); H. Lyonnet, Les premières de Victor Hugo, 1930; G. Lote, En
préface à Hernani, 1930.
Cfr. pure Nebout, Le drame romantique, 1897; A. Le Breton, Le
théàtre ramanti que, 1923; Ch. Janin, Drames et comédies romantiques,
1928; R. de Smet, Le théàtre romantique, 1929.
Hernanì o L'onore eastìglìano
PERSONAGGI
HERNANI
DON CARLOS
DON RUY GOMEZ DE SILVA
DONA SOL DE SILVA
IL DUCA DI BAVIERA
IL DUCA DI GOTHA
IL DUCA DI LUTZELBURG
DON SANCHO
DON KfATIAS
DON RICARDO
DON GARCI SUAREZ
DON FRANCISCO
DON JUAN DE HARO
DON GIL TELLEZ GIRON
PRIMO CONGIURATO
UN MONTANARO
lAQUEZ
DONA JOSEFA DUARTE
UNA DAMA
Congiurati della Lega sacrosanta. Tedeschi e Spagnoli, montanari, si-
gnori, soldati, paggi, popolo, eccetera.
Spagna, 1519.
HERNANI
ATTO PRIMO
IL RE
Saragozza.
Una camera da letto, È notte. Una lucerna su un tavolo.
SCENA PRIMA
DONA josEFA DUARTE, vccchiu, vcstitu di ncTO, COTI la gofifia trapunta
di giavazzi, secondo la moda d'Isabella la Cattolica; don Carlos
DONA JOSEFA (sóla, chiude le tende cremisi della finestra e mette in
ordine qualche poltrona. Bussano ad una porticina nascosta sulla
destra. Ascolta. Bussano una seconda volta) - Sarà già lui? {un
nuovo colpo) È proprio alla scala segreta, {un quarto colpo) Presto,
apriamo, {apre la porticina nascosta. Entra Don Carlos con la fac-
cia nascosta dal mantello e il cappello calato sugli occhi) Buon-
giorno, bel cavaliere, {lo fa avanzare. Egli apre il mantello e lascia
vedere un ricco abito di velluto e seta, secondo la moda castigliana
del 1519. Lei lo guarda da vicino e indietreggia stupita) Come,
Hernani, signore, non siete voi! Aiuto! Al fuoco!
DON CARLOS {afferrandola per un braccio) - Vecchia, ancora due parole,
e siete morta! {la guarda fissa. Lei tace, spaventata) Sono in casa
di Dona Sol, fidanzata al duca di Pastrana, suo zio, un nobile vec-
chio, cadente, venerando e geloso? Dite. La bella adora un cava-
liere ancora imberbe e, ridendosi degli invidiosi, in barba al vec-
chio, accoglie ogni sera il giovane amante. Son bene informato?
{lei tace. Lui le scuote il braccio) Riuscirete a rbpondere?
DONA JOSEFA - M'avete proibito di dire due parole, signore.
2. • Ttatro francef
18 VICTOR HUGO
DON CARLOS - Infatti una sola ne voglio: si, no. La tua signora è Dona
Sol de Silva? Parla.
Dof5A josEFA - Si. Perché?
DON CARLOS - Per nulla. Il futuro sposo, il duca, il vecchio, è assente
a quest'ora?
DONA JOSEFA - Si.
DON CARLOS - E lei, certo, attende l'amante?
DONA JOSEFA - Si.
DON CARLOS - Che io muoia!
DONA JOSEFA - Si.
DON CARLOS - Vecchia, è qui che avverrà l'incontro?
DONA JOSEFA - Si.
DON CARLOS - Nascondimi qua dentro.
DoSa JOSEFA - Voi!
DON CARLOS - lo.
DONA JOSEFA - Perché?
DON CARLOS - Per nulla.
DONA JOSEFA - Nascondervi, io!
DON CARLOS - Qui.
DONA JOSEFA - Mai.
DON CARLOS {tirando fuori dalla sua cintura un pugnale ed una borsa) -
Degnatevi, signora, di scegliere o questa borsa o questa lama.
DONA JOSEFA (prendendo la borsa) - Siete voi il diavolo?
DON CARLOS - Si, vecchia.
DONA JOSEFA {aprenda uno stretto armadio a muro) - Entrate qui.
DON CARLOS {esaminando l'armadio) - In questa scatola?
DONA JOSEFA {richiudendolo) - Vattene, se non ti piace.
DON CARLOS {riaprendo l'armadio) - Ma si! {esaminandolo ancora) Non
sarebbe questa per caso la scuderia in cui metti il manico della
granata che ti serve da cavalcatura? {vi si rannicchia a fatica) Auf!
DONA JOSEFA {giungendo le mani e tutta scandalizzata) - Un uomo qui!
DON CARLOS {nell'armadio rimasto aperto) - È una donna, vero, che la
tua padrona aspetta?
DONA JOSEFA - Oh ciclo! sento i passi di Dona Sol. Signore, chiudete
lo sportello, presto, (spinge lo sportello dell'armadio, che si ri-
chiude)
DON CARLOS (dall'interno dell'armadio) - Se dite una parola, vecchia,
siete morta.
DONA JOSEFA (sola) - Chi è quest'uomo? Gesù, mio Dio, se chiamassi?
E chi? Fuorché la mia padrona ed io, tutto dorme nel palazzo.
HERNANI 19
Bah! L'altro sta per arrivare. La cosa riguarda lui. Ha la sua buona
spada e che il ciclo ci salvi dall'inferno! {soppesando la borsa) Dopo
tutto, non è un ladro.
{entra Dona Sol, vestita di bianco. Dona Josef a nasconde la borsa)
SCENA SECONDA
DONA JOSEFA, DON CARLOS naSCOStO, DONA SOL, pOÌ HERNANI
DONA SOL - Josef a!
DONA JOSEFA - Signora?
DONA SOL - Ah! temo qualche disgrazia. Hernani avrebbe dovuto es-
ser qui. {rumori di passi alla porticina) Eccolo che sale. Apri prima
che bussi, e fa' presto, sii svelta.
(Josefa apre la porticina. Entra Hernani. Avvolto in un gran mantello,
porta pure un largo cappello. Sotto, un vestito da montanaro d'Arac
gona, grigia, con una corazza di cuoio, una spada, un pugnale e un
corno alla cintura)
DONA SOL {correndo verso di lui) - Hernani!
HERNANI - Dona Sol! Ah! vi vedo, finalmente! Questa voce che parla
è la vostra voce! Perché la sorte pose la mia via cosi lontana dalla
vostra? Ho tanto bisogno di voi per dimenticare gli altri!
DONA SOL {toccandogli il mantello) - Gesù! il vostro mantello gronda
acqua! Piove dunque tanto?
HERNANI - Non so.
DONA SOL - Dovete aver freddo!
HERNANI - Non e nulla.
doSa SOL - Suvvia, toglietevi il mantello.
HERNANI - Dona Sol, amica mia, ditemi: quando — la notte — siete
addormentata, calma, innocente e pura; quando un sonno gioioso
schiude la vostra bocca e con la punta delle dita chiude i vostri
occhi, v'è forse un angelo a dirvi quanto siete cara all'infelice che
da tutto è abbandonato, da tutto è respinto?
DONA SOL - Avete tardato tanto, mio signore! Ma, ditemi, avete freddo?
HERNANI - Io! io brucio accanto a te! Ah! quando l'amore geloso arde
nelle nostre teste, quando il nostro cuore si gonfia e si riempie di
tempesta, che c'importa dei lampi e delle folgori che possono ca-
dere da una nube passeggera?
20 VICTOR HUGO
DONA SOL {togliendogli il mantello) - Suvvia, datemi la vostra cappa
e la spada.
HERNANi - No. È l'altra mia amica, innocente e fedele. Dona Sol, il
vecchio duca, il vostro futuro sposo, vostro zio, è dunque assente?
DofiA SOL - Si, quest'ora è nostra.
HERNANi - Quest'ora! ed è tutto. Per noi non c'è altro che un'ora. Dopo,
che importa? Bisogna dimenticare o morire. Angelo! un'ora con
voi! Un'ora a chi, invece, vorrebbe la vita intera, e poi l'eternità!
DONA SOL - Hernani!
HERNANi (amaramente) - Quanto son felice che il duca sia uscito! Io
entro, là, rapidamente, come un malfattore che trema e che forza
una porta, e vi vedo, e carpisco al vecchio un'ora dei vostri canti
e del vostro sguardo; ed io sono ben fortunato, e certo mi s'invidia
di rubargli un'ora; e lui, lui mi prende la vita!
DONA SOL - Calmatevi, {consegnando il mantello alla governante) Jose-
fa, fa' asciugare il mantello. (Josef a esce, Lei si siede e fa cenno a
Hernani di venirle vicino) Venite qui.
HERNANI (senza sentirla) - Dunque il duca è assente dal castello?
DONA SOL (sorridendo) - Come siete alto!
HERNANI - Lui è assente.
DONA SOL - Anima cara, non pensiamo più al duca.
HERNANI - Ah! pensiamoci, signora! Quel vecchio vi ama, sta per spo-
sarvi! L'altro ' giorno non vi ha forse dato un bacio? Non pen-
sarci più!
DONA SOL (ridendo) - È questo che vi fa disperare! Un bacio di zio!
sulla fronte! quasi un bacio di padre!
HERNANI - No, un bacio d'amante, di marito, di geloso. Ah! sarete
sua, signora! Ci pensate? Oh, vecchio insensato, che già ha la testa
curva ed ha bisogno d'una moglie per terminare la strada e finir
la giornata; e va, gelido spettro, a prendere una giovinetta! Oh
vecchio insensato! Mentre con una mano s'attacca alla vostra, non
vede dunque la morte che lo sposa dall'altra? contro il nostro amo-
re, lui viene a gettarsi senza paura. O vecchio! porta le tue misure
al becchino! Chi vuole questo matrimonio? Vi si obbliga, spero!
DONA SOL - Si dice che lo voglia il re.
HERNANI - Il re! il re! Mio padre, condannato dal suo, è morto sul pa-
tibolo; ed oggi, benché da allora tanto tempo sia passato, il mio
odio per l'ombra del re defunto, per il figlio, per la vedova, per
tutti i suoi, è intatto! immutato! Lui, il morto, non conta più! Ma,
bimbo ancora, io feci il giuramento di vendicar mio padre su suo
figlio. Ti ho cercato ovunque, Carlos, re di Castiglia! giacché l'odio
HERNANI 21
è ben vivo fra le nostre famiglie. I nostri padri han combattuto
senza pietà, senza rimorsi. Trent'anni! Ed è invano che i padri
son morti! Il loro odio vive. Pace per loro non c*è, perchè i figli
son vivi e il duello continua. Ah! sei proprio tu, dunque, che vuoi
queste nozze esecrabili! Meglio cosi. Ti cercavo, e tu mi vieni in-
contro!
DofJA SOL - Voi mi spaventate.
HERNANI - Portatore d'un anatema, bisogna che giunga a spaventarne
me stesso. Ascoltate. L'uomo a cui, ben giovane, vi han destinata,
Ruy de Silva, vostro zio, è duca di Pastrafia, gentiluomo d'Arago-
na, conte e grande di Castiglia. In mancanza di giovinezza, lui
può dare a voi si giovane, tanto oro, gioielli, gemme, da far ri-
splendere la vostra fronte tra fronti regali; e per il rango, l'orgo-
glio, la gloria e la ricchezza, molte regine invidieranno forse la sua
duchessa. Ecco chi è lui. Io invece son povero; e non ebbi, fin da
bambino, che i boschi in cui fuggire a piedi nudi. Avrò forse an-
ch'io qualche blasone illustre che una ruggine di sangue ha a
quest'ora coperto. Forse ho anch'io dei diritti, sepolti nell'ombra,
nascosti tuttora fra le pieghe del drappo nero d'un catafalco, e
che potranno, se la mia attesa non sarà vana, uscir con la spada
da questa guaina. Intanto, però, non ho ricevuto dal cielo geloso
che l'aria, la luce e l'acqua, la dote concessa a tutti. Ora, o dal
duca o da me, bisogna liberarvi. Scegliete fra i due: o sposarlo,
o seguirmi.
Dof^A SOL - Vi seguirò.
HERNANI - In mezzo ai miei fieri compagni? Dei proscritti di cui il
boia conosce già i nomi; gente di cui mai il ferro — né il cuore —
si smussa, spinti tutti da un sangue che grida vendetta? Verreste a
comandar la mia banda? Perché, voi non lo sapete, ma io, io sono
un bandito! Quando tutto mi perseguitava in ogni angolo di Spa-
gna, solo la vecchia Catalogna, nelle sue foreste, fra le sue alte
montagne, sui suoi picchi in cui solo l'aquila può scorgerci, mi ha
accolto come una madre. Fra i suoi montanari, liberi, poveri, e
fieri, io crebbi; e, se domani la mia voce farà risuonar questo corno
fra le loro montagne, subito verranno tremila dei suoi bravi... Voi
rabbrividite. Riflettete ancora. Seguirmi nei boschi, fra i monti,
sulle spiagge, in mezzo a uomini simili ai demoni dei vostri so-
gni; sospettare di tutto, occhi, voci, passi, rumori; dormire sull'er-
ba, bere l'acqua del torrente, e la notte, allattando un bimbo che si
sveglia, sentire le palle dei moschetti fischiarvi vicino; essere er-
22 VICTOR HUGO
rante con me, proscritta, e, se è necessario, seguirmi là dove io
seguirò mio padre: sul patibolo.
DONA SOL - Vi seguirò.
HERNANi - Il duca è ricco, grande, prospero. Il duca non ha macchia
sul vecchio nome di suo padre. Il duca può tutto. Il duca vi offre,
insieme alla sua mano, tesori, titoli, felicità...
DONA SOL - Partiremo domani. Hernani, non biasimatemi per la mia
inconcepibile audacia. Siete il mio demonio o il mio angelo, voi?
Non lo so; ma sono vostra schiava. Ascoltate. Andate dove vor-
rete: vi seguirò. Restate, partite; son vostra. Perché faccio cosi?
Non lo so. Ho bisogno di vedervi e di vedervi ancora, e di ve-
dervi sempre. Quando cessa il rumore dei vostri passi, credo allora
che il mio cuore non batta più: se voi mi mancate, è come se non
esistessi; ma non appena sento quel passo che aspetto e che amo,
allora mi ricordo che son viva, e sento rifluire in me la vita.
HERNANI {stringendola fra le braccia) - Angelo!
DONA SOL - A mezzanotte. Domani. Portate la vostra scorta. Sotto la
mia finestra. Non temete, sarò coraggiosa e forte. Batterete tre
colpi.
HERNANI - Sapete voi chi sono, adesso?
DONA SOL - Mio signore, che importa? Vi seguo.
HERNANI - No, giacché volete seguirmi, debole donna, dovete sapere
qual nome, qual rango, quale anima, quale destino è nascosto sot-
to il pastore Hernani. Mi accettavate brigante, mi volete proscritto?
DON CARLOS {aprendo con fracasso le porte dell'armadio) - Quando fini-
rete di raccontare la vostra storia? Credete proprio che si stia bene
in quest'armadio?
{Hernani indietreggia, stupito. Dona Sol getta un grido e si rifugia
fra le sue braccia, fissando su Don Carlos due occhi spaventati)
HERNANI {con la mano sull'impugnatura della spada) - Chi è que-
st'uomo?
DONA SOL - Cielo! Aiuto!
HERNANI - Tacete, Dona Sol! Cosi, non farete che svegliare degli occhi
gelosi. Quando sono vicino a voi, qualunque cosa accada, vi prego
di non chiamare mai nessun altro in vostro aiuto, {a Don Carlos)
Che facevate là dentro?
DON CARLOS - lo? Ma, a quanto pare, non cavalcavo attraverso la fo-
resta.
HERNANI - Chi motteggia dopo l'affronto s'espone a far ridere anche
il suo erede.
HERNANI 23
DON CARLOS - Una volta per uno. Messere, parliamo chiaro. Voi amate
la signora e i suoi occhi neri, e venite a specchiarvici ogni sera;
benissimo. Anch'io amo la signora, e voglio conoscere chi tante
volte ho visto entrare dalla finestra, mentr'io restavo alla porta.
HERNANI - Sul mio onore, signore, vi farò uscire da dove entro.
DON CARLOS - Vedremo. Io offro il mio amore alla signora. Dividia-
mocelo. Volete? Ho visto nella sua bell'anima tanto amore, tanta
bontà, tanti teneri sentimenti, che la signora ne ha certo per due
amanti. Stasera, volendo concludere la mia impresa, scambiato —
credo — per voi, entro qui di sorpresa, mi nascondo, ascolto: ecco
tutto, senza nascondervi nulla. Ma sentivo malissimo e soffocavo
benissimo. E poi sgualcivo il mio abito alla francese. In fede mia,
io esco.
HERNANI - Neanche la mia daga sta a suo agio, e vuole uscire.
DON CARLOS (solutandolo) - Signore, sarà come vorrete.
HERNANI [sguainando la spada) - In guardia.
(Don Carlos sguaina la sua)
DONA SOL (gettandosi in mezzo a loro) - Hernani! Cielo!
DON CARLOS - Calmatevi, signora.
HERNANI (a Don Carlos) - Ditemi il vostro nome.
DON CARLOS - Eh! ditemi il vostro.
HERNANI - Segreto e fatale, lo conservo per un altro, che un giorno
dovrà sentire, sotto il mio ginocchio vincitore, il mio nome al suo
orecchio e la mia daga sul suo cuore!
DON CARLOS - E allora, qual è il nome dell'altro?
HERNANI - Che t'importa? In guardia, difenditi.
(incrociano le spade. Dona Sol cade tremante su una poltrona. Si sen-
tono dei colpi alla porta)
DONA SOL (alzandosi spaventata) - Cielo! bussano alla porta!
(/ duellanti si fermano. Dalla porticina entra fosefa, tutta spaventata)
HERNANI (a Josef a) - Chi bussa cosi?
DONA josEFA (a Dom Sol) - Signora, un arrivo inatteso! È il duca che
torna.
DONA SOL (giungendo le mani) - Il duca! tutto e perduto! Me infelice!
DONA JOSEFA (volgcndo lo sguordo intorno) - Gesù! lo sconosciuto! del-
le spade! Si battevano. Che bella impresa!
(i combattenti ringuainano le spade. Dom Carlos si avvolge nel man-
tello e cala il cappello sugli occhi. Bussano)
24 VICTOR HUGO
HERNANi - Che fare? {bussano)
UNA VOCE {dal di fuori) - Dona Sol, apritemi.
(Dofia Josefa fa un passo verso la porta. Hernani la ferma)
HERNANi - Non aprite.
DONA JOSEFA {tirondo fuori la corona) - San Giacomo, signor mio!
tirateci fuori da questo guaio! {si sente bussare di nuovo)
HERNANI {indicando l'armadio a Don Carlos) - Nascondiamoci.
DON CARLOS - Nell'armadio?
HERNANI {indicando lo sportello) - Entrateci. Me ne occupo io. Ci sta-
remo tutti e due.
DON CARLOS - Mille grazie, è troppo largo.
HERNANI {indicando la porticina) - Fuggiamo da quella parte.
DON CARLOS - Buonasera! Per me, io resto qui.
HERNANI - Ah! diavolo! me la pagherete! {a Dona Sol) Se barricassi
l'entrata?
DON CARLOS {a Josefo) - Aprite la porta.
HERNANI - Che dice?
DON CARLOS {a Joscfa, interdetta) - Ma aprite, vi dico!
{continuano a bussare. Dona Josefa va ad aprire tremando)
DONA SOL - Sono morta!
SCENA TERZA
GLI STESSI, DON RUY GOMEZ DE SILVA, con borba c capclU bianchi,
vestito di nero, valletti con fiaccole
DON RUY GOMEZ - Degli uomini da mia nipote, a quest'ora di notte!
Venite tutti! questo fatto merita luce e rumore, {a Dona Sol) Per
San Giovanni d'Avila, io credo che, sull'anima mia, siamo in tre
nella vostra stanza. Due soh di troppo, signora, {ai due giovani)
Miei giovani cavalieri, che fate qua dentro? Quando avevamo il
Cid e Bernardo, questi eroi della Spagna e del mondo percorre-
vano la Castiglia onorando i vegliardi e proteggendo le donne.
Erano uomini forti, che trovavano il loro ferro e il loro acciaio
men grevi di quel che voi troviate il vostro velluto. Erano uomini
che portavano rispetto ai capelli grigi, conducevano a inginocchiar-
si in chiesa il loro amore, non tradivano nessuno; e per la buona
HERNAHI 25
ragione che volevano mantenere l'onore del loro casato. Se vole-
vano una donna, la prendevano senza macchia, in pieno giorno,
dinanzi a tutti, con in mano la spada, o l'ascia, o la lancia. E
quanto a quei felloni che, di sera, con lo sguardo rivolto alle loro
calcagna, affidando alla notte i loro infami intrighi, dietro le spalle
dei mariti ruban l'onore delle mogli, io affermo che il Cid, questo
antenato di noi tutti, li avrebbe ritenuti dei vili e li avrebbe obbli-
gati a inginocchiarsi; e, degradando la loro nobiltà usurpata, avreb-
be percosso il loro blasone col piatto della sua lama. Ecco quel che
avrebbero fatto, e ci penso con rimpianto, gli uomini di una volta
agli uomini d'oggi. Che siete venuti a far qui? Significa forse che
io sono un vecchio di cui i giovani ridono? Si riderà di me, sol-
dato di 21amora? E, quando passerò, si riderà della mia testa bian-
ca? Ma non sarete voi a riderne.
HERNANI - Duca.
DON RUY GOMEZ - Silenzio! Come! voi avete la spada, la lancia e gli
anelli S la caccia, i festini, i cani, i falchi, le serenate da cantar la
sera sotto i balconi, le piume sul cappello, le casacche di seta, ì
balli, le giostre, la giovinezza, la gioia, o ragazzi; e vi fate pren-
der dalla noia! Ad ogni costo, a caso, vi occorre un gingillo da
rompere; e voi prendete un vecchio. Ah! l'avete frantumato, il gin-
gillo! Ma Dio voglia che i pezzi possano schizzarvi in faccia! Se-
guitemi.
HERNANI - Signor duca...
DON RUY GOMEZ - Seguitemi, seguitemi! Signori, sarebbe uno scherzo,
questo? Come! C'è un tesoro in casa mia. È l'onore d'una fanciul-
la> di una donna, l'onore di tutta una famiglia. Questa fanciulla io
l'amo, è mia nipote, e dovrà presto scambiare il suo anello con me.
La credo casta e pura, e sacra per qualsiasi uomo. Ebbene, devo
uscire un'ora, ed io, Ruy Gomez de Silva, non posso farlo senza
che un vile seduttore si insinui in casa mia. Indietro! lavatevi le
mani, uomini senz'anima, che, al solo toccarle, macchiate le nostre
donne. Ma no. Va bene. Continuate. Ho altro da dirvi? (si strappa
il collare) Tenete, pestate, pestate il mio toson d'oro! {getta a terra
il cappello) Strappatemi i capelli, fatene una cosa spregevole! E
domani potrete vantarvi in città che nessun libertino, nei suoi
scherzi insolenti, ha mai sporcato capelli più bianchi su più nobile
fronte.
DONA SOL - Mio Signore...
^ II gioco degli anelli consisteva nel portar via, lanciandosi al galoppo e infi-
landoli con la spada o con la lancia, degli anelli appesi a un sostegno. (N. del T.)-
26 VICTOR HUGO
DON RUY GOMEZ {ai suot Valletti) - Scudieri! scudieri! accorrete! La mia
ascia, il mio pugnale, la mia daga di Toledo, (ai due giovani) E
voi due, seguitemi!
DON CARLOS {avanzando d'un passo) - Duca, prima di tutto non e di
questo che si tratta. Si tratta della morte di Massimiliano, impera-
tore di Germania, (getta via il mantello, e si scopre il viso nascosto
dal cappello)
DON RUY GOMEZ - Vi burlate di me?... Dio! il re!
DONA SOL - Il re!
HERNANi {con gli occhi chc gli brillano) - Il re di Spagna!
DON CARLOS {con gravità) - Si, Carlos. Signor duca, sei proprio insen-
sato? Il mio avo imperatore è morto. L*ho saputo solo questa sera.
Vengo, in tutta fretta, e in persona, a darne notizia a te, suddito
fedele che io amo; vengo per chiederti consiglio, in incognito, di
notte. La cosa è molto semplice e guarda quanto fracasso!
{Don Ruy Gomez fa cenno al suo seguito di ritirarsi. Si avvicina a Don
Carlos, che Dona Sol sta esaminando con timore misto a sorpresa
e sul quale Hernani, rimasto in un angolo, fissa due occhi sfavil-
lanti)
DON RUY GOMEZ - Ma perchc aspettar tanto ad aprirmi la porta?
DON CARLOS - Bella ragione! Vieni con tutta una scorta! Quando un
segreto di Stato mi conduce nel tuo palazzo, duca, lo faccio forse
per andarlo a dire a tutti i tuoi valletti?
DON RUY GOMEZ - Altezza, perdonate! l'apparenza...
DON CARLOS - Mio caro vecchio, ti ho fatto governatore del castello di
Figueras, ma chi devo nominare ora tuo governatore?
DON RUY GOMEZ - Perdonate...
DON CARLOS - Basta. Non parliamone più, signore. L'imperatore, dun-
que, è morto.
DON RUY GOMEZ - L'avo di Vostra Altezza è morto?
DON CARLOS - Duca, tu Vedi quanto ne sia afflitto.
DON RUY GOMEZ - Chi gli succederà?
DON CARLOS - Un duca di Sassonia è in lizza. Francesco I, re di Fran-
cia, è uno dei concorrenti.
DON RUY GOMEZ - Dovc si riuniranno gli elettori dell'impero?
DON CARLOS - Hanno scelto, credo, Aquisgrana, o Spira, o Francoforte.
DON RUY GOMEZ - Il nostro re, che Dio ci conservi, non ha mai pensato
all'impero?
DON CARLOS - Sempre.
DON RUY GOMEZ - E a voi che spetta.
HERNANI 27
DON CAKLOS - Lo SO.
DON RUY GOMEZ - Vostfo padfc fu aiciduca d'Austria e l'impero, mi
auguro, terrà presente che era vostro avo colui che è passato dalla
porpora al drappo mortuario.
DON CARLOS - E, inoltre, sono cittadino di Gand.
DON RUY GOMEZ - In giovcntu, io lo vidi, il vostro avo. Ahimé! Unico
sopravvivo di un secolo intero. Tutto è morto ora. Era un impe-
ratore magnifico e possente.
DON CARLOS - Roma mi è favorevole.
DON RUY GOMEZ - Valoroso, deciso, per niente tirannico. Una testa che
stava bene sul vecchio corpo germanico, {si china stille mani del
re e le bacia) Quanta pena mi fate! Cosi giovane, colpito da un
tale lutto!
DON CARLOS - Il papa vuol riprendersi la Sicilia, che è mia. Un impe-
ratore non può posseder la Sicilia, e lui mi fa imperatore. Allora,
da figlio docile, io gli rendo Napoli. Prendiamo l'aquila, e poi ve-
dremo se lascerò che le si rosicchino le ali!
DON RUY GOMEZ - Cou quanta gioia, questo veterano del trono vedreb-
be la vostra fronte già larga ottenere tale corona! Ah! signore, in-
sieme a voi rimpiangeremo molto questo grandissimo e buono e
cristiano imperatore!
DON CARLOS - Il Santo Padre è abile. Cos'è la Sicilia? Un'isola appesa
al mio regno, un'appendice, un rottame, un brandello tutto a pezzi,
appena attaccato alla Spagna e che le si trascina a fianco. — « Che
farete, figlio mio, di quest'isola tutta gobbe, cucita solo con un filo
al mondo imperiale. Il vostro impero è fatto male: presto, venite
qui, prendiamo le forbici e tagliamo!» — «Santissimo padre, vi
ringrazio! Giacché, se ho fortuna, conto di ricucire parecchi pezzi
di codesto genere al sacro impero; e, se me ne dovesse essere strap-
pato qualche frammento, conto di rattoppare i miei Stati con isole
e ducati!
DON RUY GOMEZ - Consolatevi! esiste un impero dei giusti, in cui ritro-
veremo i morti più santi, più augusti.
DON CARLOS - Questo re Francesco primo è un ambizioso! Il vecchio
imperatore muore, e lui eccolo subito a far l'occhiolino all'impero!
Non ha lui la sua cristianissima Francia? Eppure la sua parte è
bella, e vai la pena di tenerla! Il mio avo imperatore diceva al re
Luigi: « Se fossi Dio Padre, ed avessi due figli, il primo lo farei
Dio, ed il secondo re di Francia», (al duca) Credi che Francesco
possa aver qualche speranza?
DON RUY GOMEZ - È un re vittorioso.
28 VICTOR HUGO
DON CARLOS - Bisogncrcbbc cambiar tutto. La bolla d'oro impedisce di
eleggere uno straniero.
DON RUY GOMEZ - In tal caso, signore, non siete voi re di Spagna?
DON CARLOS - Sono cittadino di Gand ^.
DON RUY GOMEZ - L'ultima campagna di guerra ha fatto salire molto
in alto il re Francesco I ^.
DON CARLOS - Auche l'aquila che forse sta per uscire dal mio cimiero
può spiegar le sue ali.
DON RUY GOMEZ - Vostra Altezza conosce il latino?
DON CARLOS - Male.
DON RUY GOMEZ - È un peccato. Alla nobiltà tedesca piace molto che le
si parli in latino.
DON CARLOS - SÌ Contenteranno di uno spagnolo altero; poiché poco
importa, credete al re Carlo, quale lingua parli una voce che parla
forte. Vado in Fiandra. Bisogna che il tuo re, caro Silva, ritorni
imperatore. Il re di Francia sta per metter tutto sottosopra. Voglio
vincerlo in velocità. Partirò fra poco.
DON RUY GOMEZ - Altezza, ci lasciate senza liberare l'Aragona da quei
nuovi banditi che fra i nostri monti alzano ovunque la loro fronte
ardita?
DON CARLOS - Ordino al duca d'Arcos di sterminare la banda.
DON RUY GOMEZ - E date anche ordine al loro capo di lasciarsi ster-
minare?
DON CARLOS - Eh! chi è questo capo? qual è il suo nome?
DON RUY GOMEZ - Lo ignoro. Si dice che sia un uomo ardito.
DON CARLOS - Bah! so che per il momento si nasconde in Galizia, e ne
avrò ragione con pochi soldati.
DON RUY GOMEZ - Voci falsc, allora, lo dicevano qui vicino.
DON CARLOS - Falsc voci! Stanotte, mi darai da dormire.
DON RUY GOMEZ {chinandosi fino a terra) - Grazie, Altezza! {chiama
i valletti) Rendete ogni onore al re mio ospite.
(/ valletti ritornano con le fiaccole. Il duca li schiera su due file sino
alla porta in fondo. Nel frattempo Dona Sol s'avvicina lentamente
ad Hernani, Il re li spia)
DONA SOL {sottovoce a Hernani) - Domani, sotto la mia finestra, a mez-
zanotte, senza fallo. Batterete le mani tre volte.
HERNANI {sottovoce) - A domani.
* Come tale, quindi, non è straniero, ma fa parte dell'impero germanico. (N.
del T.).
' Allusione alla vittoria francese di Marignano, 1515. (N. del T.).
HERNANI 29
DON CARLOS {a portc) - Domani! {ad alta noce a Dofia Sol, verso cut
avanza galantemente) Permettete che vi offra il braccio per accom-
pagnarvi, {la conduce alla porta. Lei esce)
HERNANI {con la mano in seno, sull'impugnatura della daga) - Mio
buon pugnale!
DON CARLOS {ritomando, a parte) - Costui ha la faccia dell'uomo preso
in trappola, {prende da parte Hernant) Vi ho fatto l'onore d'incro-
ciare la spada con voi, signore. Dovreste essermi sospetto per mille
ragioni. Ma il re Carlo rifugge dai tradimenti. Andatevene. Voglio
proteggere anche la vostra fuga.
DON RUY GOMEZ {ritornando e indicando Hernant) - Chi è questo si-
gnore?
DON CARLOS - Parte. È uno del mio seguito.
(escono con i valletti e le fiaccole; il duca precede il re con un cero
in mano)
SCENA QUARTA
HERNANI, solo
Si, o re, sono del tuo seguito! del tuo seguito! Infatti, notte
e giorno, passo per passo, io ti seguo. Cammino con un pugnale
in mano e l'occhio fìsso sulla tua traccia. La mia stirpe in me per-
seguita in te la tua! E in più, eccoti anche mio rivale! Per un mo-
mento, sono rimasto incerto fra l'amore e l'odio; il mio cuore non
era abbastanza largo per lei e per te; amandola, dimenticavo il mio
odio per te, di cui son carico; ma, poiché lo vuoi, poiché sei tu che
vieni a ravvivare i ricordi, va bene, mi ricordo! Il mio amore fa
pendere l'incerta bilancia e la fa cader tutta dalla parte del mio
odio. Si, sono del tuo seguito, e sei tu che l'hai detto! Va'; mai
cortigiano che assista al tuo maledetto risveglio, mai signore che
baci la tua ombra o maggiordomo che abbia ripudiato il suo cuore
d'uomo a forza di servirti, mai cane di palazzo ammaestrato a se-
guire un re, mai, nessuno sarà sui tuoi passi più assiduamente di
me! Ciò che vogliono da te, tutti questi grandi di Castiglia, è
qualche titolo vacuo, qualche gingillo che brilli, qualche montone
<l'oro da appendere al collo; io non son cosi pazzo da voler tanto
poco! Quel che voglio da te non son dei futili favori; ma è l'anima
<lcl tuo corpo che voglio, il sangue delle tue vene; è tutto ciò che
30 VICTOR HUGO
un pugnale furibondo e vittorioso, può prendere in fondo ad un
cuore, frugandovi a lungo. Va' pure! ti seguo. La mia vendetta
sempre all'erta cammina con me e mi parla all'orecchio. Va'! io
son là, ti spio, ti ascolto, e silenzioso il mio passo cerca il tuo passo,
e lo incalza e Io segue. Di giorno, tu non potrai volger la testa,
o re, senza vedermi immobile e cupo alla tua festa; di notte, o
re, non potrai volger lo sguardo senza vedere i miei occhi ardenti
brillare dietro di te! {esce dalla porticina)
ATTO SECONDO
IL BANDITO
Saragozza.
Un patio del palazzo de Silva. A sinistra, i grandi muri del palazzo ed una
finestra con balcone. Sotto la finestra, una porticina. A destra e in fondo, case e
strade. È notte. Qua e là, sulle facciate degli edifici, si vedono brillare delle
finestre ancora illuminate.
SCENA PRIMA
DON CARLOS; DON SANCHO SANCHEZ DE ZUNIGA, COfitC di MofltCrey; DON
MATLAS CENTURION, morckese d'Almunan; don ricardo de roxas, si-
gnore di Casapalma. Con Don Carlos per primo, tutti e quattro giun-
gono con i cappelli calati sugli occhi; sono avvolti in lunghi mantelli,
la cui parte inferiore è sollevata dalle spade.
don CARLOS (esaminando il balcone) - È questo il balcone, la porta...
Il mio sangue bolle, (indicando la finestra ancora buia) Nessuna
luce, per ora. (percorre con lo sguardo le altre finestre illuminate)
Luci ovunque, dove non ne vorrei; ma nessuna, invece, a questa
finestra.
DON SANCHO - Signore, riparliamo di questo traditore. E voi l'avete la-
sciato partire!
DON CARLOS - PrOprio COSI.
DON MATiAS - E forse era il capo dei banditi!
DON CARLOS - Che ne sia il capo oppure il capitano, è certo che nessun
re coronato ebbe mai un aspetto più altero.
DON SANCHO - E il SUO nome, signore?
HERNANI 31
DON CARLOS {con gli occhi fissi dia finestra) - Munoz... Fernan... {col
gesto di chi ricorda di' improvviso) Un nome in i.
DON SANCHo - Hcmani, forse?
DON CARLOS - Si.
DON SANCHO - È lui!
DON MATiAs - Era Hernani? È il capo!
DON SANCHO {d re) ' Vi ricordate le sue parole?
DON CARLOS {chc Tion perde di vista la finestra) - Eh! non capivo nulla
in quel maledetto armadio!
DON SANCHO - Ma pcrchc lasciarlo, dal momento che lo tenevate? {Don
Carlos si volge gravemente e lo guarda in faccia)
DON CARLOS - Conte di Monterey, voi m'interrogate. {/ due signori si
ritraggono e tacciono) D'altronde, non è affatto questa la mia
preoccupazione. M'interessa la sua amante, non la sua testa. Ne
sono innamorato alla follia! Due occhi neri, bellissimi, amici miei!
due specchi! due raggi di sole! due fiamme! Di tutta la loro storia
non ho sentito altro che queste tre parole: «Venite domani, a
notte fonda! ». Ma è l'essenziale. Non è magnifico? Mentre questo
bandito dall'aspetto galante s'attarda a compiere qualche assassi-
nio, e a scavar delle tombe, io vengo pian piano a snidare la sua
colomba.
DON RicARDo - Altezza, per completare il tiro, sarebbe stato bene snidar
la colomba e uccidere l'avvoltoio.
DON CARLOS {a Don Ricardo) - Conte! è un degno consiglio! Avete la
mano pronta!
DON RicARDo {inchinandosi profondamente) - Con qual titolo il re de-
sidera che io sia conte?
DON SANCHO {impetuosamentc) - È uno sbaglio!
DON RicARDo {a Don Sancho) - Il re mi ha nominato conte.
DON CARLOS - Basta! Va bene, (a Ricardo) Ho lasciato cader questo ti-
tolo. Raccoglietelo.
DON RicARDO {inchinandosi dt nuovo) - Grazie, signore.
DON SANCHO {a Don Matias) - Bel conte! un conte a sorpresa!
(// re passeggia in fondo, osservando con impazienza le finestre illu-
minate, I due signori parlano sul proscenio)
DON MATIAS {à Don Sancho) - Una volta presa la bella, che farà il re?
DON SANCHO {guardando di traverso Ricardo) - La farà contessa, e poi
dama d'onore. Infine, se ne avrà un figlio, quello sarà re.
DON MATIAS - Signore, andiamo! un bastardo! Conte, neppure un'Al-
tezza potrebbe trarre un re da una contessa!
DON SANCHO - Allora la farà marchesa, mio caro marchese.
32 VICTOR HUGO
DON MATiAs - I bastardi si riservano ai paesi conquistati. Si fanno vi-
ceré. È a questo che servono. {Don Carlos ritorna)
DON CARLOS (guardando irritato tutte le finestre illuminate) - Si direb-
bero degli occhi gelosi che ci spiano! Finalmente! eccone due che
si spengono! via! Come son lunghi i momenti d'attesa, signori!
Chi farà avanzare il tempo con più rapidità?
DON SANCHO - È quel che noi diciamo spesso da voi, Altezza.
DON CARLOS - Ed è ciò che il mio popolo ripete quand'è da voi. (l'ul-
tima finestra illuminata si spegne) L'ultima s'è spenta! (rivolto ver-
so il balcone di Dona Sol, che è sempre buio) O vetri maledetti!
quando vi illuminerete? Questa notte è ben buia. Dona Sol, vieni
a brillare come un astro nell'oscurità! (a Don Ricardo) Che ore
sono?
DON RicARDO - Mczzanotte, fra poco.
DON CARLOS - Eppurc bisogna farla finita! L'altro può sopraggiungere
da un momento all'altro, (la finestra di Dona Sol s'illumina. La sua
ombra si delinea sulla vetrata illuminata) Amici! una fiaccola! la
sua ombra è alla finestra! Non vidi mai giorno cosi incantevole nel
suo nascere. Affrettiamoci! facciamole il segnale che aspetta. Bi-
sogna batter le mani tre volte. Fra un momento, amici miei, la
vedrete! Ma il nostro numero la potrebbe forse spaventare... Riti-
ratevi tutti e tre nell'ombra, laggiù, a spiare l'altro. Amici, divi-
diamoci i due amanti. Ecco, a me la dama, a voi il brigante.
DON RicARDO - Grazie mille!
DON CARLOS - Se viene, uscite subito dal nascondiglio e date una stoc-
cata al mariolo. Mentre, steso per terra, riprenderà i sensi, io mi
porterò via la bella, e poi rideremo. Non ammazzatelo, però! è un
coraggioso, dopo tutto, e la morte d'un uomo è cosa grave.
(/ tre signori s'inchinano e escono. Don Carlos li lascia allontanare,
poi batte le mani a due riprese. La seconda volta la finestra si apre,
e Dona Sol appare sul balcone)
SCENA SECONDA
DON CARLOS, DONA SOL
DONA SOL (al balcone) - Siete voi, Hernani?
DON CARLOS (a parte) - Diavolo! stiamo zitti! (batte di nuovo le mani)
DONA SOL - Scendo, (chiude la finestra, da cui scompare la luce. Un
Hernani, di Victor Hugo, rappresentato alla Comédie Fran^aisc in (Kcasione del centocinquante-
simo anniversario del Poeta. Messinscena di Henri Rollan, scene e costumi di Mariano Andrcii.
HEINANI 33
momento dopo la porticina si apre e ne esce DoHa Sol, con una lu-
cerna in mano ed un mantello sulle spalle)
DONA SOL - Hernanil
(Don Carlos si cala il cappello sul viso e si precipita verso di lei)
DONA SOL {lasciando cadere la lucerna) - Dio! non è il suo passo! (vuol
rientrare. Don Carlos corre verso di lei e l'afferra per un braccio)
DON CARLOS - Dofia Sol!
DONA SOL - Non è la sua voce! Ah! me infelice!
DON CARLOS - Vuoi tu una voce più amorosa di questa? È sempre un
amante, ed è un amante re!
DONA SOL - Il re!
DON CARLOS - I>esidera, ordina, c'è un regno per te! giacché colui di
cui tu vuoi spezzare la dolce stretta e il re tuo signore, è Carlos
tuo schiavo!
DONA SOL (cercando di liberarsi) - Hernani, aiuto!
DON CARLOS - Giusto c lodcvolc spavento! Non è il tuo bandito che ti
tiene, è il re!
DONA SOL - No. Il bandito siete voi! Non ne avete vergogna? Ah! mi
sento arrossire per voi. Son queste le imprese per cui il re farà
parlare di sé? Venire a rapire con la violenza, e di notte, una
donna! Ah, quanto il mio bandito vi vale di più! Io affermo, o
re, che se l'uomo nascesse dove lo pone la sua anima, se Dio desse
il rango in conformità alle qualità del cuore, certo sarebbe lui il
re, o principe, e voi il brigante!
DON CARLOS (ccrcando d'attirarla a sé) - Signora...
DoffA SOL - Dimenticate che mio padre era conte?
DON CARLOS - Vi farò duchessa.
DONA SOL (respingendolo) - Andatevene!, è vergognoso! (indietreggia
di qualche passo) Non può esserci nulla fra noi due, don Carlos.
Il mio vecchio padre ha versato il suo sangue a fiotti per voi; io
son nobile e gelosa di questo sangue: ed è troppo per la concu-
bina, troppo poco per la sposa!
DON CARLOS - Principessa!
DONA SOL - Re Carlos, rivolgete i vostri amorazzi a facili donnette, o,
se voi osate trattarmi in un modo infamante, potrò mostrarvi mol-
to facilmente che io sono una dama, e che sono una donna!
DON CARLOS - Ebbcnc, dividete dimque con me e il mio trono e il mio
nome. Venite. Sarete regina, imperatrice!...
DofiJA SOL - No. È un tranello. E d'altra parte, Altezza, francamente,
bisogna che ve lo dica, non si tratta di voi: preferisco vivere er-
rante con lui, il mio Hernani, il mio re, fuori del mondo e della
8. • Temirc frunet^
34 VICTOR HUGO
legge, affamata, assetata, fuggiasca sempre, condividendo giorno
per giorno il suo misero destino, e l'abbandono e la guerra e l'esilio
e i lutti e la miseria e il terrore, piuttosto d'essere imperatrice con
un imperatore!
DON CARLOS - Quant'è fortunato quest'uomo!
Dof^A SOL - Come! povero, e perfino proscritto!...
DON CARLOS - È bello esser poveri e proscritti, quando si è amati t Io,
io sono solo! Un angelo invece accompagna i suoi passi! Voi, dun-
que, mi odiate?
DONA SOL - Non vi amo.
DON CARLOS {afferrandola con violenza) - Ebbene, che mi amiate o no,
poco m'importa! Voi verrete con me: la mia mano è più forte della
vostra. Verrete! lo voglio! Perdio, vedremo se non per nulla sono
re di Spagna e delle Indie!
DONA SOL {dibattendosi) - Signore! oh! per pietà! Come! voi siete al-
tezza, siete re. Fra duchesse, marchese o contesse, non avete che
da scegliere. Le donne di corte tengon sempre pronto un amore
per ricambiare il vostro. Ma il mio proscritto, lui, cos'ha ricevuto
dal cielo avaro? Ah! voi avete la Castiglia, l'Aragona, e la Navar-
ra, e la Murcia, e il Leon, e dieci altri regni, e le Fiandre, e l'In-
dia con le sue miniere d'oro! Avete un impero che nessun re può
toccare, e cosi vasto, che il sole non vi tramonta mai! E voi che
avete tutto, vorreste, voi, il re, prendere una povera fanciulla come
me a lui che ha me soltanto? {si butta in ginocchio dinanzi a lui,
che cerca di trascinarla via)
DON CARLOS - Vieni! Non ascolto nulla. Vieni via! Se m'accompagni,
ti dono quattro delle mie Spagne; scegli. Dimmi, quali vuoi? Sce-
gli! {lei gli si dibatte fra le braccia)
DofJA SOL - Per il mio onore, signore, da voi non voglio altro che que-
sto pugnale! {gli strappa il pugnale dalla cintura. Lui la lascia e
indietreggia) Avanzate, ora! fate un passo!
DON CARLOS - Ah, la bella! non mi stupisco più che ami un ribelle!
{vuol fare un passo, lei alza il pugnale)
DONA SOL - Se fate un passo, vi uccido, e mi uccido, {lui indietreggia
ancora. Lei si volta e grida con forza) Hernani! Hernani!
DON CARLOS - Tacctc!
DONA SOL {col pugnale alzato) - Un passo, e tutto è finito!
DON CARLOS - Signora! la mia dolcezza è vinta da codesti eccessi. Ho
qui tre uomini del mio seguito per obbligarvi a...
HERNANI {apparendo all'improvviso dietro di lui) - Ne dimenticate
uno!
HERNANI 35
{il re si volta, e vede dietro di sé Hernani, immobile nell'ombra, con
le braccia incrociate sotto il lungo mantello che lo ricopre, e col
largo bordo del suo cappello rialzato, DoHa Sol lancia un grido,
corre verso Hernani e l'abbraccia)
SCENA TERZA
DON CARLOS, DONA SOL, HERNANI
HERNANI {immobile, con le braccia sempre incrociate e gli occhi sfa-
villanti fissi sul re) - Ah! il cielo m'è testimone che sarei volentieri
andato a cercarlo più lontano I
DONA SOL - Hernani, salvatemi da lui!
HERNANI - State tranquilla, amor mio!
DON CARLOS - Ma che fanno i miei amici per la città? Aver lasciato
passare questo capo di vagabondi! (chiamando) Monterey!
HERNANI - I vostri amici sono in mano ai miei. E non cercate la loro
spada impotente; contro tre che venissero in vostro aiuto, ne arri-
verebbero sessanta dei miei. Sessanta, di cui uno solo vale voi
quattro. Perciò regoliamo qui, e fra noi due, i nostri affari. Come!
voi mettevate la mano su questa fanciulla! È cosa da imprudente,
signor re di Castiglia, e da vigliacco!
DON CARLOS (sorridendo sdcgnoso) - Signor bandito, niente rimproveri
da parte vostra a me!
HERNANI - E scherza! Oh! non sono re, io; ma quando un re m'insulta
e per di più mi beffeggia, la mia collera s'innalza e sale alla sua
altezza; state attento dunque, poiché, quando mi si fa un affronto,
si teme il rossore della mia fronte assai più del cimiero d'un re!
Siete un insensato, se vi lasciate ingannare da qualche speranza!
(gli afferra un braccio) Sapete qual è la mano che ora vi stringe?
Sentite: vostro padre ha fatto morire il mio, ed io vi odio. Avete
preso il mio titolo e i miei beni: io vi odio. Amiamo tutti e due
la stessa donna: io vi odio, vi odio, si, ti odio nel profondo dcl-
Tanimal
DON CARLOS - Va bene.
HERNANI - Eppure stasera ero ben lontano dall'odiare. Non avevo che
un desiderio, un ardore, un bisogno: Dona Sol. Accorrevo qui pie-
no d'amore... Sull'anima mia! E vi sorprendo a tentare su lei un
rapimento infame! E trovo sulla mia strada proprio voi, che di-
36 VICTOR HUGO
mcnticavo! Signore, ve Io ripeto, siete un insensato! Don Carlos,
eccoti preso al tuo stesso tranello. Non c'è fuga, né soccorso! ti
tengo, ti circondo! Solo, cinto da ogni parte da nemici accaniti,
che farai?
DON CARLOS {cofi fierezzo) - Andiamo! voi m'interrogate!
HERNANi - Va', va', non voglio che ti colpisca un braccio ignoto. Non
è bello che mi sfugga cosi la mia vendetta. Nessun altro ti toccherà
fuorché me. Difenditi {snuda la spada)
DON CARLOS - lo sono il re, vostro signore. Colpite, ma senza duello.
HERNANi - Signore, ricordati che anche ieri la tua spada ha incontrato
la mia.
DON CARLOS - Ieri potevo farlo. Ignoravo il vostro nome, voi ignora-
vate il mio titolo. Oggi, amico, voi sapete chi sono e so chi siete.
HERNANi - Forse.
DON CARLOS - Niente nuello. Assassinatemi, se volete!
HERNANi - Credi dunque che per me i re siano sacri? Allora, ti vuoi
difendere?
DON CARLOS - No, mi assassinerete! (Hemani indietreggia, Dan Carlos
fissa su lui il suo sguardo d'aquila) Ah! banditi, voi credete che le
vostre vili masnade potranno dilagare impunemente nelle città?
Credete, disgraziati, che, imbrattati di sangue e carichi d'assassinii,
potrete poi fare i generosi, e che noi, le vittime ingannate, ci de-
gniamo di nobilitare i vostri pugnali con l'urto delle nostre spade!
No, voi siete prigionieri dei vostri delitti; dovunque, voi, ve li
trascinate. Noi far dei duelli con voi! indietro! assassinate.
(Hernani, cupo e pensieroso, per qualche istante tormenta con la ma-
no l'impugnatura della spada, poi si volta bruscamente verso il re,
e spezza la lama sul selciato)
HERNANI - Vattene! {// re si volge appena verso di lui e lo guarda sde-
gnosamente) Avremo incontri migliori. Vattene.
DON CARLOS - Va bene, signore. Fra poche ore, io, vostro re, sarò di
ritorno al palazzo ducale. La mia prima cura sarà quella d'in-
viarvi il pubblico accusatore. È stata messa una taglia sulla vostra
testa?
HERNANI - Si.
DON CARLOS - PadroD mio, da questo giorno vi considero suddito ri-
belle e traditore. Vi perseguiterò dovunque, vi avverto. Vi farò
mettere al bando del regno.
HERNANI - Ci sono già.
DON CARLOS - Bene.
HERNANI - Ma la Francia è vicina alla Spagna. È un rifugio.
HEXNANI 37
DON CARLOS - Diventerò imperatore di Gennania. Vi farò mettere al
bando dell'impero.
HERNANi - A tuo beneplacito. Ho il resto del mondo per sfidarti. Ci
sono tanti luoghi d'asilo, in cui la tua potenza non arriva.
DON CARLOS - E sc avcssì il mondo?
HERNANi - Allora avrò la tomba.
DON CARLOS - Saprò sventare i vostri insolenti complotti.
HERNANi - La vendetta zoppica, arriva lentamente, ma arriva.
DON CARLOS (ridacchiando sprezzantemente) - Toccare una donna che
questo bandito adorai
HERNANi (/ cui occhi sfavillano di nuovo) - Ci pensi che sei ancora in
mio potere? Non mi ricordare, futuro cesare romano, che ti ho
qui, debole e piccolo nella mia mano; e che, se stringessi questa
mano troppo leale, schiaccerei sul nascere la tua aquila imperiale!
DON CARLOS - FatC.
HERNANi - Vattene! Vattene! {si toglie il mantello e lo getta sulle spalle
del re) Fuggi e prendi questo mantello; perché temo che dalle no-
stre file potrebbe venirti sferrata qualche coltellata, {il re si avvolge
nel mantello) Parti tranquillo, ora. La mia sete di vendetta mi fa
sacra la tua testa di fronte a tutti.
DON CARLOS - Signorc, voi che osate parlarmi cosf, non venite mai a
domandare un giorno la mia grazia, (esce)
SCENA QUARTA
HERNANI, DONA SOL
DONA SOL {afferrando la mano di Hernani) - Ora fuggiamo, subito.
HERNANi {allontanandola con dolcezza grave) - Ben vi si addice, ami-
ca mia, il sentirvi sempre più decisa a voler condividere le mie
disgrazie, a non volervi rinunciare per nulla al mondo, a voler
sempre vivere con me, fino in fondo, sino alla fine. È un nobile
proposito, degno di un cuore fedele. Ma tu lo vedi, o mio Dio:
per accettar tanto da lei, per portar con me nel mio antro, felice,
questo tesoro di bellezza che fa geloso un re, perché Dona Sol pos-
sa seguirmi e appartenermi, per prender la sua vita e congiungerla
alla mia, per portarmela via senza vergogna e senza rimpianti,
non è più tempo; vedo il patibolo troppo vicino.
DofiJA SOL - Che dite?
38 VICTOR HUGO
HERNANi - Il re che ho sfidato faccia a faccia mi punirà per aver osato
fargli grazia. Fugge; forse è già nel suo palazzo. Chiama la sua
gente, le sue guardie, i suoi valletti, i suoi signori, i suoi carnefici...
DONA SOL - Hernani! Dio' Io tremo! Ebbene, affrettiamoci allora! fug-
giamo insieme!
HERNANI ' Insieme! no, no. Il momento è passato, ahimé! Quando i
miei occhi ti videro per la prima volta, Dona Sol, tanto buona da
degnarti di amarmi d'un amore che mi dà un cosi grande conforto,
ho potuto, si, offrirvi, io, povero miserabile — tanto mi rincuorava
la tua pietà — la mia montagna, il mio bosco, il mio torrente, il
mio pane di proscritto, la metà del letto verde e fronzuto che
m'offre la foresta; ma offrire a te la metà del patibolo! perdonami,
Dona Sol, il patibolo è solo per me!
DONA SOL - Eppure me l'avevate promesso!
HERNANI {cadendo in ginocchio) - Angelo! in questo istante in cui
forse viene la morte, in cui s'avvicina nell'ombra la cupa conclu-
sione di un destino si cupo, affermo ora, io, proscritto, con una
pena profonda chiusa nel petto, io nato in una culla di sangue,
che, per quanto funerea sia la tristezza che avvolge la mia vita,
io sono un uomo felice, e voglio essere invidiato: poiché voi m'ave-
te amato! perché voi me l'avete detto! perché dolcemente avete
benedetto questa fronte maledetta!
DONA SOL {curva sul suo capo) - Hernani!
HERNANI - Benedetta sia la sorte dolce e propizia che mi mette questo
fiore sull'orlo del precipizio! {si rialza) E non è per voi che io par-
lo, ora; parlo per il cielo che m'ascolta, e per Dio.
DONA SOL - Fammi venire con te.
HERNANI - Ah! sarebbe un delitto strappare il fiore al momento di
cader nell'abisso! Va', ne ho respirato il profumo! basta! Unisci ad
un'altra la tua vita che io ho oltraggiata. Sposa quel vecchio. Sono
io che ti lascio libera. Io rientro nell'oscurità. Tu, sii felice, di-
mentica!
DONA SOL - No, ti seguo! voglio la mia parte della tua bara! Io m'at-
taccherò al tuo passo.
HERNANI {stringendola fra le braccia) - Oh! lasciami fuggire solo! {la
lascia con un movimento convulso)
DONA SOL {dolorosamente e a mani giunte) - Hernani! tu mi fuggi! Ah!
insensata, aver dato la propria vita e vedersi respinta; e, dopo tanto
amore e tante pene, non aver neppure la felicità di morire accanto
a lui!
HERNANI - Sono bandito! sono proscritto! sono funesto!
HERNANI 39
DofiA SOL - Ahi voi siete ingrato!
HERNANI {ritornando sui suoi passi) - Ebbene, no! no, rimango. Tu io
vuoi, eccomi. Vieni! oh! vieni fra le mie braccia! Rimango e ri-
marrò quanto vorrai tu. Dimentichiamoli, restiamo, {la fa sedere
su un sedile di pietra) Siediti su questa pietra, {lui si siede ai suoi
piedi) Inonda le mie palpebre con le fiamme dei tuoi occhi. Can-
tami qualche canzone, come me ne cantavi talvolta, la sera; e i
tuoi occhi neri eran pieni di lacrime! Siamo felici! beviamo, che la
coppa è piena, e quest'ora è nostra, e tutto il resto è follia. Par-
lami, incantami! Non è vero che è dolce amare e sentirsi amati
in ginocchio? E essere in due? E esser soli? Non è vero che è
dolce parlarsi d'amore, nell'oscurità, quando tutto riposa? Oh! la-
sciami dormire e sognare sul tuo seno. Dona Sol, amor mio, mia
bellezza!
{scampanio in lontananza)
DONA SOL {(dzandosi spaventata) - Le campane a martello? Le senti? le
campane a martello!
HERNANI {sempre seduto ai suoi piedi) - No! suonano per le nostre
nozze!
(lo scampanio aumenta. Grida confuse, fiaccole e luci a tutte le finestre,
su tutti i tetti, in tutte le strade)
DofJA SOL - Alzati! Fuggi! Gran Dio! Saragozza si sta illuminando
tutta!
HERNANI {sollevandosi solo per metà) - Avremo delle nozze con le
fiaccole!
Dof^A SOL - Sono le nozze dei morti! Le nozze delle tombe!
{rumore di spade. Grida)
HERNANI {lasciandosi andare di nuovo sul sedile di pietra) - Vieni fra
le mie braccia!
UN MONTANARO {accorrcndo con la spada sguainata) - Signore, gli sbir-
ri, i giudici, sboccano sulla piazza in lunghe schiere, a cavallo!
All'erta, mio signore!
{Hernani si alza)
DofJA SOL {pallida) - Ah! l'avevi previsto!
IL MONTANARO - Aiuto!
HERNANI {al montanaro) - Eccomi. Va bene.
{grida confuse, fuori*. Morte d banditol)
HERNANI {aH montanaro) - La tua spada, {a DoHa Sol) Addio!
40 VICTOR HUGO
DONA SOL - Sono io la causa della tua perdita. Dove vai? {indicandogli
la porticina) Vieni! Fuggiamo da questa porta aperta.
HERNANi - Dio! lasciare i miei amici! ma che dici?
(tumulto e grida)
doSa sol - Queste grida mi fiaccano, {trattenendo Hernant) Ricordati
che, se tu muori, io muoio.
HERNANi {stringendola a sé) - Un bacio!
Dof^A SOL - Sposo mio! mio Hernani! mio signore!
HERNANi {baciandola in fronte) - Ahimé! è il primo.
DONA SOL - £ forse è l'ultimo.
{^ui forte. Lei s'accascia sulla Ranchimi)
ATTO TERZO
IL VEGLIARDO
// castello de Silva,
Fra le montagne d'Aragona.
La galleria dei ritratti della famiglia de Silva; tfna grande sala alla quale que-
sti ritratti, montati in ricche cornici ornate di stemmi dorati, servono da de-
corazione. In fondo, un'alta porta gotica. Fra un ritratto e l'altro, una pano-
plia completa: tutte queste armature appartengono a secoli diversi.
SCENA PRIMA
DO^A SOL, vestita di bianco, in piedi, vicino ad un tavolo; ios ruy
ooMEZ DE SILVA, scduto nella stia grande poltrona ducale,
di legno di quercia
DON ruy OOMEZ - Finalmente! questo giorno è arrivato! fra un'ora avrò
la mia duchessa! Lo zio non esìste più! e mi abbraccerai! Ma mi
hai perdonato? Avevo torto, lo confesso. Ho fatto arrossire la tua
fronte e impallidire le tue guance. Ho sospettato troppo presto e
non avrei dovuto condannarti cosi, senza averti prima ascoltata.
L'apparenza inganna! Come siamo ingiusti! Certo, là c'erano quei
due bei giovanotti! Non importa. Avrei dovuto non credere ai miei
occhi. Ma che vuoi, bambina mia, quando si e vecchi!
DONA SOL (immobile e grave) - Parlate sempre di questo. Chi vi rim-
provera?
HEBNANI 41
DON RUY GOMEZ - lo! Ebbi torto. Avrei dovuto sapere che col tuo ani-
mo non si hanno corteggiatori, quando si è Dona Sol, quando si
ha nel cuore del buon sangue spagnolo.
DofiA SOL - Certo, è buono e puro, mio signore, e forse si vedrà presto.
DON RUY GOMEZ (olzandosi e avvicinandosi a let) - Senti, non m'è fa-
cile esser padrone di me stesso, innamorato come sono di te, e
vecchio. Si è gelosi, si è cattivi, e perche? Perché si è vecchi. Per-
ché bellezza, grazia, giovinezza, in un altro, tutto fa paura, tutto
è una minaccia. Perché si è gelosi degli altri e ci si vergogna di
noi stessi. Qual derisione che questo storpio amore, che ci rimette
in cuore tanta ebrezza e tanto fuoco, abbia dimenticato il corpo
mentre ringiovanisce l'animai Quando passa un giovane pastore —
sf, fino a questo punto! — spesso, mentre camminiamo, lui che
canta, io che penso; lui nel suo prato verde, io nei miei cupi viali,
spesso dico fra me: O mie torri merlate, o vecchio torrione du-
cale, e campi, e foreste, e le greggi numerose che brucano le mie
colline, e il mio vecchio nome, e il mio vecchio titolo, e tutti i
miei ruderi, e tutti i miei vecchi avi che fra poco mi aspetteranno,
come vi cambierei volentieri con la sua capanna nuova e col suo
volto giovane! Perché i suoi capelli sono neri, perché i suoi occhi
brillano come i tuoi; e tu puoi vederlo, e dire: che giovanotto! e
poi pensare a me che son vecchio. Lo sol Mi chiamo Silva, certo,
ma non mi basta piiSI Si, io mi dico tutto questo. Vedi fino a che
punto io t'amo! Darei tutto per esser giovane e bello come te!
Ma a che sto pensando? Io, giovane e bello, io che devo precederti
di tanto nella tomba!
DofiA SOL - Chi lo sa?
DON RUY GOMEZ - Ma, Credimi, in questi frivoli cavalieri non c'è amore
tanto grande che non finisca con l'esaurirsi a parole. Se una fan-
ciulla amasse e credesse in uno di questi giovincelli, lei ne mor-
rebbe e lui ci riderebbe. Tutti questi giovani fringuelli dall'ala
vibrante e variopinta, dal languido cinguettio, cambiano amore co-
me cambian le piume. I vecchi, a cui l'età smorza la voce e i co-
lori, hanno l'ala più fedele; e, se son men belli, sono migliori. Noi
sappiamo amare. I nostri passi sono pesanti? i nostri occhi aridi?
le nostre fronti piene di rughe? Il cuore non ha mai rughe. Ahi-
mé! quando un vecchio ama, bisogna risparmiarlo. Il cuore è sem-
pre giovane, e può sempre sanguinare. Oh! il mio amore non è
come un ninnolo di vetro brillante e tremulo; oh! no, è un amore
severo, profondo, solido, sicuro, paterno, amichevole, fatto di legno
di quercia come la mia scranna ducale! Ecco come t'amo io, e poi
42 VICTOR HUGO
ti amo anche in cento altri modi, come si ama l'aurora, come si
amano i fiori, come si ama il ciclo! A vederti ogni giorno, te, col
tuo passo grazioso, con la tua fronte pura e la bella fiamma dei
tuoi occhi fieri, io sorrido ed ho nell'anima un'eterna festa.
DONA SOL - Ahimé!
DON RUY GOMEZ - E poi, Vedi? quando un uomo declina e se ne va,
brandello per brandello, e inciampa sulla pietra della tomba, il
mondo giudi'ca bello che una donna, angelo puro, colomba inno-
cente, vegli su di lui, gli dia sicurezza, e si degni di sopportare
ancora l'inutile vecchio che è buono solo a morire. È un'opera
santa, e giustamente lodata, questo supremo sforzo di un cuore
che si dedica a consolare un morente sino alla fine, e che, forse
senza amare, sa avere delle apparenze d'amore! Oh! tu sarai per
me quell'angelo dal cuore di donna che sa rallegrare ancora l'ani-
ma del povero vecchio, e che per metà sopporta il peso dei suoi
ultimi anni, figlia per rispetto, sorella per pietà.
DONA SOL - Invece di precedermi, potreste seguirmi, mio signore; l'es-
ser giovani non e una ragione per vivere. Ahimé! spesso, ve l'as-
sicuro, i vecchi sono lenti, i giovani li precedono; e i loro occhi
chiudono bruscamente le palpebre, come un sepolcro aperto a cui
ricade il coperchio.
DON RUY GOMEZ - Oh! che cupi discorsi! Ma io vi rimprovererò, bam-
bina! un simile giorno è gioioso e sacro. A proposito, come mai,
mentre l'ora sta per scoccare, voi non siete ancora pronta per la
cerimonia? Suvvia, presto! vestitevi. Io conto gli istanti. L'abito
da sposa?
DONA SOL - Ci sarà sempre tempo.
DON RUY GOMEZ - No. (entra un paggio) Che vuoi, laquez?
IL PAGGIO - Mio signore, c'è alla porta un uomo, un pellegrino, un
mendicante, non so, che vi chiede asilo.
DON RUY GOMEZ - Chiunque egli sia, la felicità entra con lo straniero
che si riceve. Che venga. Si hanno notizie da fuori? Che si dice
di quel capo di banditi, di rinnegati, che riempie le nostre foreste
della sua ribellione?
IL PAGGIO - Tutto è finito con Hernani, tutto è finito col leone della
montagna.
DONA SOL {a parte) - Dio!
DON RUY GOMEZ - Come?
IL PAGGIO - La banda è distrutta. Si dice che il re in persona si sia
messo al loro inseguimento. Sulla testa di Hernani il re ha posto
mille scudi di taglia; ma si dice che lui sia morto.
HERNANI 43
DONA SOL {a parte) - Come! senza di me, Hernani!
DON RUY GOMEZ - Grazie al ciclo! è morto, il ribelle! Possiamo ralle-
grarci ora, mia cara. Andate a prepararvi, amor mio, mio orgoglio!
Oggi, doppia festa!
DONA SOL (a parte) - Oh! degli abiti da lutto! (esce)
DON RUY GOMEZ (al paggio) - Svelto, fatele portare lo scrigno che le
dono, {si siede di nuovo sulla sua scranna) Voglio vederla adornata
come una madonna, e, per merito del suo sguardo dolce e dei
miei gioielli, tanto bella da far cadere in ginocchio un pellegrino.
A proposito, e colui che ci domanda asilo? Digli d'entrare, fagli
le nostre scuse, corri. (U paggio saluta ed esce) Lasciar aspettare un
ospite! ah! è male!
(/<! porta in jondo si apre. Appare Hernani travestito da pellegrino. Il
duca si dza e gli va incontro)
SCENA SECONDA
DON RUY GOMEZ, HERNANI
(Hernani si ferma sulla soglia della porta)
HERNANI - Mio signore, pace e felicità a voi!
DON RUY GOMEZ (faccndo con la mano un cenno di saluto) - Pace e fe-
licità a te, mio ospite! (Hernani entra. Il duca si rimette a sedere)
Non sci un pellegrino?
HERNANI (inchinandosi) - Si.
DON RUY GOMEZ - Certamente, vieni da Armillas?
HERNANI - No. Ho prcso Un'altra strada. Si battevano da quelle parti.
DON RUY GOMEZ - La banda del proscrìtto, vero?
HERNANI - Non so.
DON RUY GOMEZ - Chc nc è del capo? di Hernani? lo sai?
HERNANI - Signore, chi è costui?
DON RUY GOMEZ - Nou lo conosci? pcggio pcr te! la grossa somma non
sarà certo tua. Vedi, questo Hernani è un ribelle al re, ed è rima-
sto troppo tempo impunito. Se vai a Madrid, potrai vederlo im-
piccare.
HERNANI - Non ci vado.
DON RUY ooMEZ - La sua testa è pcr chi vuol prenderla.
HERNANI (a parte) - Che vengano!
44 VICTOR HUGO
DON RUY ooMEZ - Dovc Vai, buoii pellegrino?
HERNANi - Signore, vado a Saragozza.
DON RUY GOMEZ - Un voto fatto in onore di un santo? di Nostra Si-
gnora?
HERNANi - S(, duca, dì Nostra Signora.
DON RUY GOMEZ - Del Filar?
HERNANi - Dd Filar.
DON RUY GOMEZ - Bisogna non aver anima per non adempiere i voti
che si fanno ai santi. Ma, appena adempiuto il tuo, non hai altri
progetti? Vedere il Sacro PUone, è questo tutto ciò che desideri?
HERNANi - S(, voglio Veder bruciare le fiaccole e i ceri, voglio vedere,
in fondo al cupo corridoio, brillare Nostra Signora nella sua urna
ardente, con la sua cappa d'oro; e poi tornarmene via.
DON RUY GOMEZ - Molto bene. Il tuo nome, fratello mio? Io sono Ruy
de Silva.
HERNANi {esitando) - Il mio nome?...
DON RUY GOMEZ - Fuoi tacerlo, se vuoi. Nessuno qui ha il diritto di
saperlo. Non vieni forse a domandare asilo?
HERNANI - Si, duca.
DON RUY GOMEZ - Grazic. Sii il benvenuto. Rimani, amico, e chiedi ciò
che vuoi, quanto al tuo nome, tu ti chiami mio ospite. Chiunque
tu sia, va bene! Accoglierei Satana senza inquietarmene, se Dio
me rinviasse.
(la porta in fondo W sptdanca completamente. Entra Dona Sol, con
l'abito da sposa secondo la moda castigliana del tempo. Dietro di
lei, paggi, valletti, e due donne che portano su un cuscino di vel-
luto un cofanetto d'argento, cesellato, che vanno a deporre su un
tavolo-, contiene un ricco scrigno, una corona di duchessa, braccia-
letti, collane, perle e brillanti, alla rinfusa, Hernani, ansante e stra-
volto, esamina Dona Sol con occhi ardenti, senza ascoltare il duca)
SCENA TERZA
GLI STESSI, DONA SOL, PAGGI, VALLETTI, DONNE
DON RUY GOMEZ - Ecco la mia Madonna. L'averla pregata ti porterà
fortuna, {va a porger la mano a DoHa Sol, sempre pallida e grave)
Mia bella sposa, venite. Come! non avete ancora l'anello! non avete
ancora la corona!
HERNANI 45
HERNANi {con vocc tonante) - Chi vuol guadagnare qui mille carli
d*oro? (/«/ft si voltano stupiti. Egli si strappa di dosso l'abito da
pellegrino, lo calpesta e appare in abito da montanaro) Sono Her-
nani.
DONA SOL (a parte, con gioia) - Ciclo! è vivo!
HERNANi (ai valletti) - Sono io l'uomo che tutti cercano, (al duca) Va-
levate sapere se mi chiamo Perez o Diego? No, mi chiamo Her-
nani. È un nome molto più bello, è un nome di bandito, è un
nome di proscritto! Vedete questa testa? Vale tant'oro da poter
pagare la vostra festa! {ai valletti) La do a tutti voi. Sarete pagati
bene! Prendete, legatemi le mani, legatemi i piedi, su, legate! Ma
no, è inutile, una catena mi lega che non romperò mai!
DONA SOL {a parte) - Me infelice!
DON RUY GOMEZ - Pazzo! il mio ospite è pazzo!
HERNANi - Il vostro ospite è un bandito!
Dof^A SOL - Oh, non ascoltatelo!
HERNANi - Ho detto qud che ho detto.
DON RUT ooMEZ - Mille Carli d'oro! signore, la sonuna è grossa, e io
non posso farmi garante di tutti i miei servitori.
HERNANi - Che importa! Tanto meglio se fra tutti se ne trova uno di-
sposto a prendersela. {<ù valletti) Consegnatemi! vendetemi!
DON RUY GOMEz {ccrcando di farlo tacere) - Ma tacete! Potrebbero pren-
dervi in parola.
HERNANi - Amici, Toccasione è bella! Vi dico che sono Hernani, il ri-
belle, Hernani!
DON RUY ooMEz - Taccte!
HERNANI - Hernani!
DofiA SOL {all'orecchio, in un soffio) - Oh! taci!
HERNANI {volgendosi in parte verso Dona Sol) - C'è un matrimonio
qui! Anch'io voglio parteciparvi! Anche la mia sposa m'aspetta!
{al duca) È meno bella della vostra, signore, ma non è men fedele!
È la morte! {ai valletti) Non si avanza ancora nessuno di voi?
DONA SOL {a bassa voce) - Per pietà!
HERNANI {ai valletti) - Hernani! Mille carli d'oro!
DON RUY GOMEZ - È il demonio, costui!
HERNANI {a un giovane valletto) - Vieni avanti, tu! guadagnerai la
somma. E quando sarai ricco, da valletto che sei ritornerai un
uomo! {ai valletti che continuano a rimanere immobili) Anche voi
tremate! Non sono abbastanza infelice?
DON RUY GOMEZ - Fratello, toccando la tua testa, rischierebbero la loro.
Quand'anche tu fossi Hernani, quand'anche tu fossi cento volte
46 VICTOR HUGO
peggiore e, invece di oro, si offrisse per la tua vita un impero, o
ospite mio! io devo proteggerti in questo luogo anche contro il re,
perché mi sei inviato da Dio! Possa io morire, se tu dovessi perdere
un sol capello! (a Dona Soi) Nipote mia, sarete mia moglie fra
un'ora; rientrate nelle vostre stanze. Vado a dare ordini perché il
castello sia posto in armi. Vado a chiuderne la porta, {esce, I val-
letti lo seguono)
HERNANi {guardando disperatamente la sua cintura sguarnita e disar-
mata) - Oh! neppure un coltello!
{Dofla Sol, sparito il duca, fa qualche passo come per seguire le sue
donne, poi si ferma e, non appena quelle sono uscite, ritorna verso
Hernani, ansiosamente)
SCENA QUARTA
HERNANI, DONA SOL
{Hernani osserva con uno sguardo freddo e come distratto lo scrigno
nuziale posto sul tavolo; poi scuote la testa, e i suoi occhi s'illu-
minano)
HERNANI - Vi faccio i miei complimenti! I vostri ornamenti mi affasci-
nano e m'incantano piò di quanto non possa dire, e li ammiro! {si
avvicina allo scrigno) L'anello è di buon gusto, la corona mi pia-
ce, la collana è ben lavorata, il braccialetto è raro, ma cento vol-
te, cento volte meno della donna che sotto una fronte cosi pura
nasconde un cuore infame! {esaminando di nuovo lo scrigno) E che
cosa avete dato voi per tutto questo? Benissimo! Un po' del vo-
stro amore? ma, veramente, l'avete dato per un nulla: Gran Dio!
tradire cosf! non aver vergogna, e vivere! {esaminando lo scrigno)
Ma forse non sono altro che perle false, e rame invece di oro, e ve-
tro e piombo, e diamanti falsi, falsi zaffiri, false gemme, falsi bril-
lanti, gioielli falsi! Ah! se è cosi, il tuo cuore è falso come questi
ornamenti, duchessa, e tu non sei che una doratura! {ritoma verso
lo scrigno) Ma no, no. Tutto è vero, tutto è buono, tutto e bel-
lo! Non oserebbe ingannare, lui cos( vicino alla tomba! Non ci
manca nulla, {prende una dopo l'altra tutte le gioie contenute nello
scrigno) Collane, brillanti, orecchini, corona di duchessa, anello
HERNANI 47
d'oro... A meravigliai Grazie tante dell'amore sicuro, fedele e pro-
fondo! Che prezioso scrigno!
Dof^A SOL (va verso lo scrigno, vi cerca dentro, e ne estrae un pugna-
le) ' Voi non andate (ino in fondo! {Hemani getta un grido e cade
prosternato ai suoi piedi) È il pugnale che presi al re Carlos, con
l'aiuto della mia divina protettrice, quand'egli m'offri un trono ed
io lo rifiutai per voi che mi oltraggiate!
HERNANI {sempre in ginocchia) - Oh! lascia che io cancelli in ginocchio
questo pianto amaro eppur pieno d'incanto, che scorre dai tuoi oc-
chi afflitti; e tu, per le tue lacrime, prenderai poi in cambio tutto
il mio sangue.
DONA SOL (intenerita) - Hernani! Io vi amo e vi perdono, non sento
che amore per voi.
HERNANI - Lei mi ha perdonato e mi ama! chi potrà far si che anch'io,
dopo quello che ho detto, possa perdonarmi ed amarmi? Oh! vor-
rei sapere, angelo riservato al cielo, dove avete camminato, per
baciare le vostre impronte.
DofiA SOL - Amico mio!
HERNANI - No, devo esserti odioso! Ma ascolta, dimmi: Io t'amo!
Ahimé! rassicura un cuore che dubita, dimmelo! poiché spesso con
queste poche parole la bocca di una donna ha guarito tanti mali!
DONA SOL (assorta e senza sentirlo) - Credere che il mio amore avesse
cosf poca memoria! che tutti questi uomini senza gloria avrebbero
potuto abbassare ad altri amori, a lor parere più nobili, un cuore
in cui è entrato il suo nome!
HERNANI - Ahimé! ho bestemmiato! Se fossi al tuo posto, Dona Sol, ne
avrei abbastanza, mi sarei stancato di questo pazzo furioso, di que-
sto cupo insensato che sa accarezzare solo dopo aver colpito. Gli
direi: « Vattene ». Respingimi, respingimi, ed io ti benedirò, per-
ché tu fosti buona e dolce, perché mi hai sopportato fin troppo,
perché io sono cattivo; io renderei cupi i tuoi giorni con le mie
notti, perché basta, alla fine: la tua anima è bella e alta e pura, e
se io sono cattivo, è forse colpa tua? Sposa il vecchio duca! è buono,
nobile; sua madre gli ha lasciato Olmedo, suo padre Alcala. E
infine: sii ricca con lui, sii felice. Io invece, sai che cosa può offrirti
di magnifico questa mano generosa? una dote di dolori. Potrai sce-
gliervi o sangue o lacrime. L'esilio, le catene, la morte, la paura
che mi circonda, è questa la tua collana d'oro, la tua bella corona,
e mai sposo pieno d'orgoglio offri alla sua sposa uno scrigno più
ricco di miseria e di lutti! Sposa il vecchio, ti dico; egli ti merita!
Eh! chi mai crederebbe che la mia testa proscritta possa essere uni-
48 VICTOR HUGO
ta alla tua fronte pura? Chi, vedendoci,, te, calma e bella, me, vio-
lento, rischioso; te, tranquilla, cresciuta come un fiore all'ombra,
me, sbattuto nella tempesta contro scogli infiniti, chi direbbe che
le nostre sorti possano seguire la stessa legge? No. Dio che fa
tutto bene non ti fece per me. Dal cielo non ho ricevuto nessun
diritto su di te: mi rassegno. Ho il tuo cuore, ma è un furto! lo
restituisco al più degno. Il cielo non ha mai acconsentito al nostro
amore. Se ho detto che era il tuo destino, ho mentito! Del resto,
vendetta, amore, addio! la mia vita finisce. Me ne vado, inutile,
con irrealizzato il mio duplice sogno: umiliato per non aver potuto
né punire, né conquistare, e per esser stato creato per odiare, io che
non ho saputo far altro che amare! Perdonami! fuggimi! sono le mie
due preghiere; non le respingere, poiché sono le ultime. Tu vivi
ed io son morto. Non vedo perché ti faresti murare con me nella
mia tomba.
DONA SOL . Ingrato!
HERNANi - Montagne d'Aragona! Galizia! Estremadura! Oh! io porto
disgrazia a tutto ciò che mi circonda! Ho preso i vostri figli mi-
gliori e senza rimorso li ho fatti combattere per rivendicare i miei
diritti; ed ecco che sono morti! Son caduti tutti sulla montagna,
tutti sono stramazzati con la fronte in avanti, da prodi, dinanzi a
Dio, e, se i loro occhi si aprissero, vedrebbero il cielo azzurro! Ecco
come riduco tutto ciò che si lega a me! È un destino tale da renderti
gelosa? Dona Sol, prendi il duca, prendi l'inferno, prendi il re! È
ben fatto. Tutto ciò che non sono io vale più di me! Non ho piò
un amico che si ricordi di me, tutto m'abbandona, è tempo che
venga anche il tuo turno, perché devo essere solo. Fuggi il mio con-
tagio. Non farti una religione dell'amore! Oh! per pietà di te, fug-
gi! Tu mi credi forse un uomo come tutti gli altri, un essere intelli-
gente, che va dritto alla mira agognata. Disingannati! Sono una
forza che va! Un cieco e sordo agente di misteri funerei! Un'anima
di duolo fatta con delle tenebre! Dove vado? Non lo so. Ma mi sen-
to incalzato da un soffio impetuoso, da un destino insensato. Io
scendo, scendo, e non mi fermo mai. Se qualche volta, ansimante,
oso volger la testa, una voce mi dice: «Canmiina!» e l'abisso è
profondo, e ne scorgo il fondo arrossato o di fiamma o di sangue I
E intanto, intorno alla mia corsa selvaggia, tutto si spezza, tutto
muore. Sventura a chi mi tocca! Oh! fuggi! allontanati dal mio
fatale cammino. Ahimé!, senza volerlo, potrei farti del male!
DONA SOL - Gran Dio!
HERNANI 49
HERNANi - È un dèmone pericoloso, il mio, ti dico. La mia felicità,
ecco il solo prodigio che gli sia impossibile. E tu, sei la felicità!
Tu dunque non sei fatta per me, cerca un altro signore. Va', se
mai una volta il cielo sorridesse alla mia sorte che rinnega... non
crederci! sarebbe un'ironia! Sposa il duca!
DONA SOL - Dunque, non bastava ancora! Avevate straziato il mio
cuore, ora lo spezzate! Ah! non mi amate più!
HERNANI - Oh! il mio cuore e la mia anima, sei tu! l'ardente focolare da
cui mi viene ogni fiamma, sei tu! Non volermene se fuggo, mia
adorata!
DONA SOL - Non ve ne voglio. Soltanto, ne morrò.
HERNANI - Morire! per chi? per me? È possibile che tu muoia per così
poco?
DONA SOL (scoppiando in lacrime) - Ecco tutto, {si accascia su una pol-
trona)
HERNANI (sedendole accanto) - Oh! tu piangi! Ed è di nuovo per colpa
mia! e chi mi punirà? Giacché tu perdonerai ancora! Chi ti dirà
almeno quello ch'io soffro quando una lacrima spegne la fiamma
dei tuoi occhi, la cui luce è la mia gioia! Oh! i miei amici son mor-
ti! Oh! io sono un insensato! Perdonami. Vorrei amare, e non rie-
sco! Ahimé! eppure amo di un amore cosi profondo... Non pian-
gere, moriamo piuttosto! Perché non ho un universo? Te lo do-
nerei! Sono tanto infelice!
DONA SOL (gettandogli le braccia ed collo) - Voi siete il mio leone su-
perbo e generoso! Vi amo.
HERNANI - oh! l'amore sarebbe un bene supremo, se si potesse morire
per aver troppo amato!
DONA SOL - Ti amo! Mio signore! vi amo e sono tutta vostra!
HERNANI {^asciando cadere la testa sulla spalla di lei) - Oh! quanto mi
sarebbe dolce una pugnalata che mi venisse da te!
DONA SOL (supplichevole) - Come? Non temete che Dio vi punisca
a parlare cosi?
HERNANI (sempre abbandonato sul seno di lei) - Ebbene, che esso ci
unisca! Tu lo vuoi. E sia cosi! Ho resistito abbastanza!
{abbracciati, si guardano con estasi, senza vedere, senza sentire, e co-
me assorti nel loro sguardo. Entra don Ruy Gomez dalla porta in
fondo. Guarda, e si ferma come pietrificato sulla soglia)
4. • Teatro francese
50 VICTOR HUGO
SCENA QUINTA
FIERNANI, DONA SOL, DON RUY COMEZ
DON RUY GOMEZ {immobile sulla soglia della porta, e con le braccia
incrociate) - È cosi, dunque, che mi ripagate l'ospitalità.
DONA SOL - Dio! il duca! (tutti e due si voltano, come risvegliati di
soprassalto)
DON RUY GOMEZ (scmprc immobile) - È dunque questa la mia ricom-
pensa, ospite mio! Buon signore, va' a vedere se le mura sono
alte, se la porta è ben chiusa e se l'arciere è nella sua torre, fai e ri-
fai il giro del tuo castello per noi, cerca nell'arsenale un'armatura
della tua misura, rimettiti a sessant'anni in assetto da battaglia!
Ecco la lealtà con cui ricamberemo la tua fiducia! Tu fai quello
per noi, e noi questo per te! Santi del cielo! Ho vissuto più di
sessant'anni, ho visto tanti banditi dalle anime nefande, e spesso,
sfoderando la mia daga, ho fatto levare davanti a me una selvag-
gina da carnefice; ho visto degli assassini, dei falsari, dei traditori,
dei falsi valletti che avvelenavano a tavola i loro padroni; ne ho
visti morire senza croce e senza preghiere. Ho visto Sforza, ho vi-
sto Borgia, vedo Lutero, ma non ho mai visto una perversità cosi
grande da non temere neppure la folgore nel tradire il proprio
ospite! Non è cosa del mio tempo. Un cosi nero tradimento pie-
trifica un vegliardo sulla soglia della sua casa, e fa si che il vec-
chio padrone, in attesa della morte, abbia l'aria di una statua da
metter sulla sua tomba! Mori e Castigliani! Chi è quest'uomo?
{alza gli occhi e fa scorrere lo sguardo sui ritratti che ornano la
sala) O voi, tutti i Silva che m'ascoltate qui, perdono se davanti
a voi, perdono, se la mia collera dice che l'ospitalità è una cattiva
consigliera!
HERNANi {alzandosi) - Duca...
DON RUY GOMEZ - Taci! (fa lentamente tre passi nella sala e guarda di
nuovo i ritratti dei Silva) Morti sacri! avi! uomini di ferro! Voi
che vedete quello che viene dal cielo e quello che viene dall'inferno,
ditemi, miei signori, ditemi, chi è quest'uomo P Non si chiama
Hcrnani, si chiama Giuda! Oh! cercate di parlare per dirmi il suo
nome! (incrocia le braccia) Avete mai visto in vita niente di si-
mile? No!
HERNANi - Signor duca...
HERNANI 51
DON RUY GOMEZ (sempTc rivolto ai ritratti) - Vedete? Vuol parlare,
l'infame! Ma voi leggete nella sua anima meglio ancora di me.
Oh! non ascoltatelo! È un furfante! Prevede che il mio braccio
insanguinerà certo il mio tetto, che forse il mio cuore cova nella
sua furia qualche vendetta, sorella del festino delle sette teste*;
vi dirà che e proscritto, vi dirà che si parlerà dei Silva come si parla
dei Lara, e poi che è mio ospite e poi che e vostro ospite... O miei
avi, miei signori, guardate: è colpa mia? Giudicate voi fra noi
due!
HERNANI - Ruy Gomez de Silva, se mai una nobile fronte s'alzò verso
il cielo, se mai un cuore fu grande, se mai un'anima fu eletta, que-
sta è la vostra, signore! è la tua, o mio ospite! Io che ti parlo qui,
sono colpevole e non ho niente da dire, se non che sono un dan-
nato. Sf, ho voluto prenderti e portarti via la tua donna, sf, ho
voluto macchiare il tuo letto, si, è una cosa infame! Ho del sangue.
Farai benissimo a versarlo, asciugar la tua spada e non pensarci
piò!
DONA SOL - Signore, lui non ne ha colpa! Colpite solo me...
HERNANI - Tacete, Dona Sol, poiché quest'ora è suprema! Quest'ora
m'appartiene. Non ho più che questa. Quindi lasciate che ora io mi
spieghi col duca. Duca! credi alle ultime parole della mia bocca: lo
giuro, sono colpevole, ma sii tranquillo, lei è pura! Ecco tutto. Io
colpevole, lei pura; la tua fiducia per lei, un colpo di spada o di
pugnale per me. Ecco. Poi fa' gettare il mio cadavere fuori della
porta e fa' lavare il pavimento, se vuoi, non ha importanza!
DONA SOL - Ah! io sola ho fatto tutto. Perche l'amo. (Don Ruy si volta
trasalendo a questa parola, e fissa su Dona Sol uno sguardo terribile,
Lei si getta ai suoi piedi) Si, perdono! Lo amo, mio signore!
DON RUY coMEZ - Voi l'amate! {a Hernani) Trema allora! {rumore di
trombe fuori. Entra il paggio. Al paggio) Che cos'è questo ru-
more?
IL PAGGIO - È il re in persona, mio signore, con un seguito d'arcieri
e il suo araldo che suona.
DofjA SOL - Dio! il re! È l'ultimo colpo!
IL PAGGIO (al duca) - Domanda perche la porta è chiusa e vuole che gli
si apra.
DON RUY GOMEZ - Aprite al re. (// paggio s'inchina ed esce)
DONA SOL - È perduto.
^ Allusione alla vendetta della famiglia dei Lara, narrata nel Rotnancero. (N.
d. T.).
52 VICTOR HUGO
(Don Ruy Gamez va verso uno dei quadri, che è il suo ritratto e
Vultimo a sinistra; preme una molla, il quadro si apre come una
porta e lascia vedere un nascondiglio praticato nel muro. Si volta
verso Hernani)
DON RUY GOMEZ - Sigtiorc, ciitratc qui.
HERNANI - La mia testa è tua. Consegnala, signore. La tengo pronta,
sono tuo prigioniero, {entra dentro il nascondiglio. Don Ruy pre-
me di nuovo la molla, tutto si richiude, e il quadro ritorna al suo
posto)
DONA SOL (al duca) - Signore, pietà per lui!
IL PAGGIO (entrando) - Sua Altezza il Re!
(Dana Sol abbassa precipitosamente il velo. La porta si spalanca com-
pletamente. Entra don Carlos in assetto di guerra, seguito da una
folla di gentiluomini armati come lui, da alabardieri, da archibu-
gieri, da balestrieri)
SCENA SESTA
DON RUY GOMEZ, DONA SOL, velata, DON CARLOS, il SCguitO
(Don Carlos si avanza a passi lenti, con la mano sinistra sul pomo
della spada, la destra sul petto, e fissa sul vecchio duca uno sguar-
do pieno di diffidenza e di collera. Il duca va incontro d re e lo
saluta profondamente. Silenzio. Attesa e terrore tutf intorno. Alla
fine il re, arrivato in faccia al duca, alza bruscamente la testa)
DON CARLOS - Perché mai oggi la tua porta è così ben sprangata, cu-
gino mio? Per tutti i santi! credevo che la tua daga fosse più arrug-
ginita! E non sapevo che, quando noi veniamo a trovarti, avesse
tanta fretta di brillare nel tuo pugno! (Don Ruy Gomez vuol par-
lare, il re prosegue con un gesto imperioso) È un po' tardi per fare
il giovanotto! Abbiamo forse dei turbanti? ;ni chiamano forse
Boabdil e Maometto, e non Carlos? rispondi! perché abbassi di
fronte a noi la saracinesca e alzi il ponte?
DON RUY GOMEZ (inchinandosi) - Signore...
DON CARLOS (ai suoi gentiluomini) - Prendete le chiavi! impadronitevi
delle porte! (due ufficiali escono. Molti altri schierano i soldati su
triplice fila nella sala, dal re fino alla porta grande. Don Carlos si
volta di nuovo verso il duca) Ah! voi risvegliate le morte ribellio-
HERNANI 53
ni! Perdio! Se voi vi date queste arie con me, signori duchi, il re as-
sumerà delle arie da re! e con le mie mani armate andrò sulle
montagne ad uccidere le signorie, nei loro nidi merlati!
DON RUY GOMEZ (raddrizzandosi) - Altezza, i Silva sono leali...
DON CARLOS (ifiterrompendolo) - Rispondi senza ambagi, duca! o farò
radere al suolo le tue undici torri! Resta una scintilla dell'incendio
spento, resta un capo dei banditi morti. Chi lo nasconde? Sei tu!
QueirHernani, quel ribelle che semina veleno, tu lo nascondi, qui
nel tuo castello!
DON RUY GOMEZ - È vero, signore.
DON CARLOS - Benissimo. Voglio la sua testa, oppure la tua. M'intendi,
cugino mio?
DON RUY GOMEZ {inchinandosi) - Poco importa! Voi sarete soddisfatto.
(Dona Soi nasconde la testa fra le mani e si accascia sulla poltrona)
DON CARLOS (cdmato) - Ah! confessi! Va' a cercare il mio prigioniero.
(il duca incrocia le braccia, abbassa la testa e rimane per qualche
momento sopra pensiero. Il re e Dona Sol l'osservano in silenzio
e agitati da emozioni contrarie. Finalmente il duca rialza la testa,
va verso il re, gli prende la mano e lo conduce lentamente davanti
al più antico dei ritratti, quello che inizia la galleria sulla destra
dello spettatore)
DON RUY GOMEZ (mostrando al re il vecchio ritratto) - Questi è il capo-
stipite dei Silva, è l'avo, l'antenato, il grand'uomo! Don Silvius,
che fu per tre volte console di Roma, (passando al ritratto seguente)
Ecco Don Galceran de Silva, l'altro Cid! Gli è consacrato a Toro,
vicino a Valladolid, un reliquario dorato in cui sono accese mille
candele. Liberò Leon dal tributo delle cento vergini ^ {passando
ad un altro) Don Blas, che, nella sua rettitudine, si esiliò volontaria-
mente perché aveva mal consigliato il re. (a un altro) Christoval.
Alla battaglia d'Escalona, Don Sancho, il re, fuggiva a piedi e tutti
i colpi si accanivano sulla sua piuma bianca; gridò: Christoval! Chri-
stoval prese la piuma e dette il suo cavallo, (a un altro) Don Jorge,
che pagò il riscatto di Ramiro, re d'Aragona.
DON CARLOS (incrociando le braccia e squadrandolo dalla testa ai pie-
di) - Perdio! Don Ruy, vi ammiro! Il mio prigioniero!
DON RUY GOMEZ (passando a un altro) - Ecco Ruy Gomez de Silva»
gran signore di San Giacomo e di Calatrava! La sua armatura
Un tributo di cento giovani che dovevano essere inviate ai mori. (N. d. T.).
54 VICTOR HUGO
gigantesca si adatterebbe male alle nostre stature. Prese trecento
bandiere, vinse trenta battaglie, conquistò al re Motril, Antequera,
Suez, Nijar, e mori povero. Altezza, salutate, (s'inchina, si scopre,
e passa a un altro. Il re lo ascolta con un'impazienza e una collera
che diventano sempre piti grandi) Vicino a lui è suo figlio Gii,
caro alle anime leali. La sua mano, per un giuramento, valeva la
mano di un re. (a un altro) Don Gaspar, l'onore di Mendoza e di
Silva! Tutte le famiglie nobili si sono interessate ai Silva, signore. I
Sandoval ci temono e s'imparentano con noi, alternativamente. I
Manrique ci invidiano e i Lara sono di noi gelosi, gli Alencastre
ci odiano. Noi tocchiamo contemporaneamente coi piedi tutti i du-
chi, con la fronte tutti i re!
DON CARLOS (spazienttto) - Vi burlate di me?
DON RUY GOMEZ (andando verso altri ritratti) - Ecco don Vasquez,
detto il saggio. Don Jayme, detto il Forte. Un giorno fermò Zamet
al suo passaggio e cento Mori, da solo. Ne tralascio alcuni, e dei
migliori, (a un gesto di collera del re, tralascia un gran numero
di ritratti e arriva subito ai tre ultimi, sulla sinistra dello spetta-
tore) Ecco il mio nobile avo, visse sessant'anni, mantenendo la parola
data, anche agli ebrei, (al penultimo) Questo vecchio, questa testa
sacra, è mio padre. Fu grande, benché fosse l'ultimo. I Mori di
Granada avevano fatto prigioniero il conte Alvar Giron, suo amico.
Ma mio padre prese seicento soldati per andarlo a riprendere. Fece
scolpire, in pietra, una statua che rappresentava Alvar Giron e la
trascinò dietro di sé, giurando sul suo santo protettore di non in-
dietreggiare, a meno che il conte di pietra non si girasse e tor-
nasse indietro da sé. Combatte, arrivò fino al conte e lo salvò.
DON CARLOS - Il mio prigioniero!
DON RUY GOMEZ - Era un Gomez de Silva. Ecco dunque ciò che si dice
quando si vedono in questa dimora tutti questi eroi...
DON CARLOS - Il mio prigioniero, subito.
DON RUY GOMEZ (s' inchina profondamente dinanzi al re, gli prende la
mano e lo conduce davanti all'ultimo ritratto, quello che serve da
porta al nascondiglio in aii ha fatto entrare Hernani, Dona Sol lo
segue ansiosamente con lo sguardo. Attesa e silenzio nell'uditorio) -
Questo ritratto, è il mio. Re Don Carlos, grazie! che voi volete che
si dica vedendolo qui: «Quest'ultimo, degno figlio di una si nobile
stirpe, fu un traditore e vendette la testa del suo ospite! ».
{gioia di Dona SoL Movimento di stupore nell'assemblea. Il re, scon-
certato, s'allontana con collera, poi resta qualche istante silenzioso,
con le labbra tremanti e lo sguardo di fiamma)
HERNANI 55
DON CARLOS - Duca, il tuo castello mi dà noia, lo farò radere al suolo I
DON RUY GOMEZ - Chc voi mc lo paghereste, Altezza, non e vero?
DON CARLOS - Duca, farò spianare le tue torri per tanta audacia e farò
seminar la canapa al loro posto!
DON RUY GOMEZ - MegHo Veder crescere la canapa là dove s'innalzava
la mia torre, piuttosto che intaccare con una macchia il vecchio
nome dei Silva, {ai ritratti) O voi tutti, non è forse vero?
DON CARLOS - Duca! quella testa è nostra e tu mi avevi promesso...
DON RUY GOMEZ - Ho promesso Tuna o l'altra, (ai ritratti) Non è vero,
voi tutti? {mostrando la sua testa) Do questa, {al re) Prendetela.
DON CARLOS - Benissimo, duca. Ma io ci perdo, grazie tante! La testa
che mi occorre è giovane, bisogna che da morta si possa prendere
per i capelli. La tua? Che m'importa! Invano il carnefice cerche-
rebbe di prenderla per i capelli. Non ne hai abbastanza per riem-
pirgli la mano!
DON RUY GOMEZ - Altezza, niente affronti! la mia testa è ancora bella
e vale, credo, la testa di un ribelle. È la testa di un Silva, e voi ne
siete disgustato!
DON CARLOS - Consegnaci Flernani!
DON RUY GOMEZ - Veramente, ho già parlato, signore.
DON CARLOS {ol SUO seguìto) - Frugate dovunque! Che non ci sia ala,
cantina o torre...
DON RUY GOMEZ - La mia rocca è fedele come me. È sola con me a
conoscere il mio segreto. Lo sapremo mantenere tutti e due.
DON CARLOS - lo souo il re!
DON RUY GOMEZ - A mcno che non vogliate demolire il castello pietra
per pietra e assassinarne il padrone, non avrete nulla.
DON CARLOS - Preghiere, minacce, tutto e inutile! Consegnami il bandito,
duca! oppure butterò giù tutto, testa e castello.
DON RUY GOMEZ - Ho dettO.
DON CARLOS - Ebbene, allora, invece di una avrò due teste, {al duca d' Ai-
cala) Jorge, arrestate il duca!
DONA SOL {strappandosi il velo e gettandosi fra il re, il duca e le guar-
die) ' Re Don Carlos, siete un cattivo re!
DON CARLOS - Gran Dio! Chi vedo? Dofia Sol.
DONA SOL - Altezza, tu non hai il cuore di uno Spagnolo!
DON CARLOS {turhato e titubante) - Signora, siete molto severa col re.
{s avvicina a Dona Sol. Sottovoce) Siete voi che mi avete messo
questa collera in petto. Un uomo diventa angelo o demonio quando
vi tocca. Ah! quando si è odiati, si fa presto a esser cattivi! Se ave-
ste voluto, o fanciulla, forse sarei grande, quand'anche fossi stato
56 VICTOR HUGO
il leone di Castiglia' Mi avete fatto diventare una tigre col vostro
corruccio. Ed ecco che essa ruggisce, signora! tacete! {Dona Sol
getta uno sguardo su di lui. Egli s'inchina) Eppure obbedirò, {vol-
gendosi verso il duca) Cugino mio, ti stimo. Dopo tutto, il tuo scru-
polo può sembrare legittimo. Sii fedele al tuo ospite, infedele al tuo
re. sta bene. Ti faccio grazia e sono migliore di te. Porto soltanto
con me tua nipote come ostaggio.
DON RUY GOMEZ - Soltanto!
DONA SOL {interdetta e spaventata) - Me, signore?
DON CARLOS - Si, VOÌ.
DON RUY ooMEz - Niente di piti? o che grande clemenza! o generoso
vincitore che risparmia la testa e tortura il cuore! Bella grazia!
DON CARLOS - ScegH. Dona Sol, o il traditore. Mi occorre uno dei due.
DON RUY GOMEZ - Oh! voi siete il padrone!
{Don Carlos s'avvicina a Dona Sol per portarla via, Lei si rifugia pres-
so Don Ruy Gomez)
DONA SOL - Salvatemi, mio signore! {si ferma di colpo, A parte) Infe-
lice, bisogna! La testa di mio zio o l'altra!... Io piuttosto! {d re)
Vi seguo.
DON CARLOS {a portc) - Per tutti i santi! l'idea è brillante! Bisognerà
addolcirsi alla fine, bimba mia!
{Dona Sol va con passo grave e misurato al cofano che racchiude lo
scrigno, lo apre e prende il pugnale che si nasconde in seno. Don
Carlos va verso di lei e le offre il braccio)
DON CARLOS {a Dofia Sol) - Cosa portate via?
DONA SOL - Nulla.
DON CARLOS - Un gioiello prezioso?
DONA SOL - Si.
DON CARLOS {sorridendo) - Vediamo.
DONA SOL - Vedrete, {gli porge la mano e si dispone a seguirlo. Don
Ruy Gomez, che è rimasto immobile e profondamente assorto nei
suoi pensieri, si volta e fa alcuni passi gridando)
DON RUY GOMEZ - Dofia Sol! terra e cielo! Dona Sol! Poiché gli uomi-
ni qui non hanno cuore, armi e mura aiutatemi! crollate! {corre
verso il re) Lasciatemi questa fanciulla, non ho che lei, o mio re!
DON CARLOS {lasciando la mano di Dona Sol) - Allora, il mio prigionie-
ro!
{il duca abbassa la testa e sembra in preda ad un'orribile esitazione;
poi si rialza e guarda i ritratti, volgendosi a mani giunte verso di
loro)
57
DON RUY GOMEZ - Tutti voi abbiate pietà di me! {fa un passo verso il
nascondiglio di Hernani; Dona Sol lo segue con lo sguardo, ansio-
samente. Si volge verso i ritratti) Oh! velatevi! il vostro sguardo mi
trattiene! (s'avanza barcollando fino al suo ritratto, poi si volta an-
cora verso il re) \jo vuoi?
DON CARLOS - Si. {il duca alza tremando la mano verso la molla)
DONA SOL - Dio!
DON RUY GOMEZ {colpcndo il muro col piede) - No! (si getta ai piedi
del re) Per pietà, prendi la mia testa!
DON CARLOS - Tua nipote!
DON RUY GOMEZ (rialzandosi) - Prendila, allora! e lasciami l'onore!
DON CARLOS (afferrando la mano di Dona Sol tutta tremante) - Addio,
duca.
DON RUY GOMEZ - Arrivederci! (segue con lo sguardo il re, che si ritira
lentamente con Dona Sol; poi mette la mano sul pugnale) Dio vi
guardi, signore!
(ritoma sul proscenio, ansante, immobile, senza vedere né sentire pia
nulla, con lo sguardo fisso, le braccia incrociate sul petto, che le
solleva come se fossero scosse da movimenti convulsi. Intanto il re
esce con Dona Sol, e tutto il seguito dei signori esce dopo di lui,
due a due, gravemente, e ciascuno al proprio posto. Parlano a bassa
voce fra di loro)
DON RUY GOMEZ (a parte) - Re! mentre esci felice dalla mia casa, la mia
vecchia lealtà abbandona il mio cuore che piange.
(alza gli occhi, si guarda intomo e vede che è solo. Corre al muro,
stacca due spade da una panoplia, le misura tutte e due, poi le
posa su una tavola. Fatto questo, va verso il ritratto, spinge la molla,
la porta nascosta si riapre)
SCENA SETTIMA
DON RUY GOMEZ, HERNANI
DON RUY GOMEZ - Esci. (Hcmani appare alla porta del nascondiglio.
Don Ruy gli indica le due spade sulla tavola) Scegli. Don Carlos
è andato via di qui. Si tratta ora di darmi soddisfazione. Scegli!
£ facciamo presto. Suvvia! la tua mano trema!
HERNANI - Un duello! Vecchio, non possiamo combattere insieme!
58 VICTOR HUGO
DON RUY GOMEZ - E pcrché? Hai paura? Non sci nobile? Airinfcmo!
Nobile o no, qualsiasi uomo che m'offende è abbastanza gentiluomo
per incrociare il ferro col ferro!
HERNANI - Vecchio...
DON RUY GOMEZ - Vieni ad uccidermi o a morire, giovanotto!
HERNANI - Morire, si. Mi avete salvato contro la mia volontà. La mia
vita è dunque vostra. Riprendetela.
DON RUY GOMEZ - Lo vuoi? {ai ritratti) Vedete che lo vuole, (a Her-
nani) Sta bene. Di' le tue preghiere.
HERNANI - Oh! è a te, signore, che rivolgo l'ultima.
DON RUY GOMEZ - Parla all'altro Signore!
HERNANI - No, no, a te! Vecchio, colpiscimi. Tutto va bene, daga, spada
o pugnale! Ma, per pietà, dammi questa gioia suprema! Duca! fa'
che la veda prima di morire.
DON RUY GOMEZ - Vederla!
HERNANI - Concedimi almeno ch'io senta la sua voce un'ultima voltai
nient'altro che una volta!
DON RUY GOMEZ - Sentirla!
HERNANI - Oh! capisco la tua gelosia, signore! Ma la mia giovinezza è
già ghermita dalla morte, perdonami. Dimmi, vuoi che, senza ve-
derla, se necessario, la senta? e morirò stasera. Sentirla soltanto!
esaudisci il mio desiderio! Ma, oh! come morirei serenamente, se
tu mi concedessi che, prima di fuggire in cielo, la mia anima rive-
desse la sua nei suoi occhi! Non le dirò niente, tu sarai presente,
padre mio! Mi prenderai dopo!
DON RUY GOMEZ {indicando il nascondiglio ancora aperto) - Santi del
cielo! Quel rifugio è dunque cosi profondo, cosi sordo, cosi sper-
duto, da non far sentire nulla?
HERNANI - Non ho Sentito nulla.
DON RUY GOMEZ - Souo stato obbligato a consegnare o Dona Sol, o te.
HERNANI - Consegnarla a chi?
DON RUY GOMEZ - Al re!
HERNANI - Vecchio stupido! l'ama!
DON RUY GOMEZ - L'ama!
HERNANI - Ce la porta via! è nostro rivale!
DON. RUY GOMEZ - Maledizione! O miei vassalli! a cavallo, a cavallo in-
seguiamo il rapitore!
HERNANI - Ascolta. La vendetta dal passo sicuro è quella che fa meno
rumore per la strada. Io t'appartengo. Puoi uccidermi. Ma vuoi in-
vece adoperarmi a vendicare tua nipote e la sua virtù? Dammi la
mia parte nella tua vendetta! oh! fammi questa grazia e, se devo
HERNANI 59
baciarti i piedi, io te li bacio! Seguiamo il re tutti e due! Vieni, io
sarò il tuo braccio, ti vendicherò, duca. Dopo mi ucciderai!
DON Ruy GOMEZ - Sarai allora cosi consenziente come oggi?
HERNANI - Si, duca.
DON RUY GOMEZ - Su cHc cosa lo giuri?
HERNANI - Sulla testa di mio padre!
DON RUY ooMEZ - Vorrai un giorno ricordartene da te stesso?
HERNANI (offrendogli il corno che si stacca dalla cintura) - Senti. Pren-
di questo corno. Qualunque cosa accada, quando tu vorrai, signore,
in qualsiasi luogo, a qualsiasi ora, se ti verrà in mente che è tempo
ch'io muoia, vieni, suona questo corno e non ti preoccupare d'altro.
Tutto sarà compiuto!
DON RUY GOMEZ {tendendogli la mano) - La tua mano, {si stringono la
mano. Ai ritratti) Voi tutti, siate testimoni!
ATTO QUARTO
LA TOMBA
Aquisgrana.
I sotterranei che contengono la tomba di Carlomagno ad Aquisgrana. Gran-
di volte d'architettura romanica. Grossi pilastri bassi, archi a tutto sesto, capi-
telli raffiguranti uccelli e fiori. A destra, la tomba di Carlomagno con una por-
ticina di bronzo, bassa e a volta. Una sola lampada sospesa a una chiave di volta
ne rischiara l'iscrizione: « Carolo Magno ». È notte. Non si vede il fondo del
sotterraneo; lo sguardo si perde fra le arcate, le scale e i pilastri che s'incro-
ciano nell'ombra.
SCENA PRIMA
DON CARLOS, DON RicARDo DE ROXAS, contc di CasafHtlma, con una lan-
terna in mano. Grandi mantelli, cappelli calati sugli occhi
DON RicARDo {col Cappello in mano) - È qui.
DON CARLOS - È qui che si riunisce la lega! È qui che li terrò in pugno,
tutti insieme! Ah! signor elettore di Treviri, è qui! Voi prestate
loro questo luogo! Certo, e scelto bene! Un nero complotto pro-
spera all'aria delle catacombe! Torna bene affilare gli stiletti sulle
60 VICTOR HUGO
tombe! Eppure giocano grosso. La testa è in gioco, signori assas-
sini! e vedremo. Perdio! Fanno bene a scegliere un sepolcro per
un simile affare, avranno poi da percorrere meno cammino, {a
Don Ricardo) Fin dove si estendono questi sotterranei?
DON RicARDo - Sino alla fortezza.
DON CARLOS - È piu del necessario.
DON RicARDo - Altri, da questa parte, vanno fino al monastero di Al-
tenheim...
DON CARLOS - Dovc Rodolfo Sterminò Lotario. Bene. Conte, ripetetemi
ancora una volta i nomi e le colpe, e dove, come, perché.
DON RICARDO - GotHa.
DON CARLOS - Lo SO perché il coraggioso duca cospira. Vuole un tedesco
di Germania alla testa dell'Impero.
DON RICARDO - Hohenbourg.
DON CARLOS - Hohcnbourg preferirebbe, credo, Tinferno con Francesco *
che il cielo con me.
DON RICARDO - Don Gii Tellez Giron.
DON CARLOS - CastigHa e Nostra Signora! Si rivolta dunque contro il suo
re, rinfame!
DON RICARDO - SÌ dice che vi abbia trovato con sua moglie, la sera in
cui lavete fatto barone. Vuol vendicare l'onore della sua tenera
compagna.
DON CARLOS - Vuol dire allora che si rivolta contro la Spagna. Chi c*è
ancora?
DON RICARDO - Insieme a questi, si parla del reverendo Vasqucz, vesco-
vo di Avila.
DON CARLOS - Anche lui per vendicare la virtù di sua moglie?
DON RICARDO - Poi Guzman de Lara, scontento perché reclama il col-
lare del vostro ordine.
DON CARLOS - Ah! Guzman de Lara! Se non vuole altro che un collare,
l'avrà.
DON RICARDO - Il duca di Lutzelbourg. Quanto ai piani che gli si attri-
buiscono...
DON CARLOS - Il duca di Lutzelbourg è troppo alto di tutta quanta la
sua testa.
DON RICARDO - Juan de Haro, che vuole Astorga.
DON CARLOS - Questi Haro hanno sempre fatto raddoppiare la paga
del carnefice.
DON RICARDO - Non ce ne sono altri.
* Francesco I, re di Francia. (N. d. T.).
HERNANI 61
DON CARLOS - Ma noii sono tutti. Ne avete nominati solo sette, conte, e
il mio conto non torna.
DON RicARDO - Ah! non parlo di qualche bandito ingaggiato dall'elettore
di Treviri o dalla Francia...
DON CARLOS - Uomini senza pregiudizi, col pugnale sempre pronto e
che si volta dalla parte di chi offre di più, come Tago della bussola
verso il polo!
DON RicARDo - Ho notato tuttavia due tipi arditi, arrivati da poco tutti
e due. Uno giovane, uno vecchio.
DON CARLOS - I loro nomi? (Don Ricardo si stringe nelle spalle, per
indicare che non li conosce) L*età?
DON RicARDo - Il più giovane ha vent'anni.
DON CARLOS - Peccato.
DON RicARDo - Il vecchio, almeno sessanta.
DON CARLOS - Uno nou ha ancora Tetà e l'altro non l'ha più. Poco im-
porta. Me ne occuperò. Il boia può contare sul mio aiuto, se sarà
necessario. Ah! conte, la mia spada non vuol certo mostrarsi mite
verso i faziosi, e gliela presterò, se la sua scure dovesse smussarsi;
e, se sarà necessario allargare il lenzuolo del patibolo, cucirò ad esso
il mio manto imperiale. Ma riuscirò veramente ad essere impera-
tore?
DON RicARDo - A quest'ora il collegio, riunito in assemblea, delibera.
DON CARLOS - Nomineranno Francesco I, che so? o il loro sassone, il
loro Federico il Saggio! Ah! Lutero ha ragione, tutto va male! Bei
coniatori di sacre maestà! che non accettano per ragioni che le ra-
gioni dorate! Un sassone eretico! un conte palatino imbecille! un
primate di Treviri libertino! Quanto al re di Boemia, lui è dalla mia
parte. Dei principi d'Assia, ancor più piccoli dei loro principati!
dei giovani idioti! dei vecchi sibariti! Delle corone, certo, ce ne soho;
ma delle teste? cercatele! È un'assemblea ridicola di nani, che potrei
portar via nella mia pelle di leone come fece Ercole! e che, privi
del mantello violaceo, mostrebbero un cervello che varrebbe ancor
meno di quello di Triboulet. Mi mancano tre voti, Ricardo! mi
manca tutto! Oh! darei Gand, Toledo e Salamanca, amico mio, tre
città a loro scelta per tre voti, se accettassero! Vedi, per questi tre
voti, SI, darei tre delle mie città di Castiglia o di Fiandra! salvo,
poi, riprendermele! {Don Ricardo saluta profondamente il re e
si mette il cappello in testa) Vi coprite?
DON RicARDo - Signore, mi avete dato del tu. (salutando di nuovo) Ec-
comi grande di Spagna.
DON CARLOS (a portc) ' Ah! mi fai pietà, misero ambizioso! Genia ve-
62 VICTOR HUGO
naie! Anche mentre ci ascoltano, seguono sempre il loro pensiero!
Pollaio, in cui il re sbriciola a tutti questi famelici una grandezza
ch'essi vanno mendicando senza pudore! (pensoso) Solo Dio e l'im-
peratore sono grandi! e il santo padre! Il resto, re e duchi, cosa
sono?
DON RicARDo - Spero che sceglieranno vostra Altezza!
DON CARLOS (a pOTte) - Altezza, altezza io! Ho sfortuna in tutto. Se do-
vessi rimanere re!
DON RicARDo (a poTtc) - Pace! imperatore o no, eccomi grande di Spa-
gna!
DON CARLOS - Appena avranno nominato l'imperatore di Germania, qua-
le segnale annuncerà il suo nome alla città?
DON RicARDo - Se Sarà il duca di Sassonia, un solo colpo di cannone.
Se sarà il Francese, due. Tre, se sarà vostra Altezza.
DON CARLOS - E questa Dona Sol! Tutto m'irrita e mi ferisce! Conte, se
per caso sarò nominato imperatore, corri a cercarla. Forse accet-
terà un Cesare!
DON RicARDO (sorrìdendo) - Vostra Altezza e molto buona!
DON CARLOS (interrompcndo con sussiego) - Ah! su questo, silenzio!
Non ho ancora detto che cosa voglio che si pensi. Quando si saprà
il nome dell'eletto?
DON RicARDo - Ma, al più tardi fra un'ora, credo.
DON CARLOS - Oh! tre voti! solo tre! Ma schiacciamo prima questo bran-
co di cospiratori, e vedremo poi di chi sarà l'impero, (conta sulle
dita e batte i piedi) Sempre tre voti di meno! Ah! son loro che han-
no in mano la decisione! Eppure, quel Cornelio Agrippa la sa lun-
ga! Ha visto nell'oceano celeste tredici stelle venire dal Nord verso
la mia, a vele spiegate. Avrò l'impero, via! Ma d'altra parte si dice
che l'abate Giovanni Tritheim l'abbia predetto a Francesco. Avrei
dovuto, per chiarir meglio la mia sorte, aiutare la profezia con
qualche armamento! Tutte le predizioni del più abile mago si av-
verano più facilmente, e meglio, quando un buon esercito con
cannoni e picche, fanteria, cavalleria, fanfara e musica, è pronto a
mostrar la strada ad una sorte che vacilla, serve loro da levatrice
e la fa partorire. Chi è più bravo, Cornelio Agrippa? o Giovanni
Tritheim? È colui che spiega il suo sistema con un esercito, che
mette un ferro di lancia in cima alle sue parole, ed ha migliaia
di soldatacci, lanzichenecchi o banditi, il cui stocco, aggiustando la
fortuna imperfetta, crea i fatti secondo il desiderio del profeta.
Poveri pazzi, quelli che con lo sguardo ardito, la fronte alta, pun-
tano dritto all'impero del mondo e dicono: È mio diritto! Hanno
HERNANI 63
tanti cannoni, allineati su lunghe file, le cui bocche infuocate fa-
rebbero fondere delle città; hanno vascelli, soldati, cavalli, e siete
convinti che marceranno dritti allo scopo, schiacciando le popola-
zioni annientate... Basta! Al grande incrocio della fortuna umana
che ci porta nell'abisso più facilmente che sul trono, appena fatti
tre passi, eccoli invece indecisi, incerti; esitano, poco sicuri di loro
stessi, cercando invano di leggere nel libro del destino, e nel dub-
bio vanno a chiedere al negromante dell'angolo quale sia la loro
strada! (a Don Ricardo) Vattene. È Torà in cui devono arrivare i
congiurati. Ah! la chiave della tomba?
DON RiCARDo (conscgnondo la chiave al re) - Signore, ricordatevi del
conte di Limburgo, guardiano del capitolo, che me l'ha confidata e
ha fatto tanto per compiacervi.
DON CARLOS {congedandolo) - Fa* tutto ciò che ho detto! tutto!
DON RicARDo {inchinandosi) - Subito, Altezza!
DON CARLOS - Ci vogliouo tre colpi di cannone, vero?
{Don Ricardo s'inchina ed esce, Don Carlos, rimasto solo, cade in una
profonda meditazione. Incrociando le braccia, reclina la testa sul pet-
to; poi la rialza e si volge verso la tomba)
SCENA SECONDA
DON CARLOS, SOlo
Perdono, Carlomagno! queste volte solitarie dovrebbero riecheg-
giare solo parole austere. Tu sei senza dubbio indignato del
brusio che fanno sul tuo monumento le nostre ambizioni. Carlo-
magno è qui! Come puoi, o cupo sepolcro, racchiudere un'ombra
COSI grande senza spezzarti? Sei proprio qui, gigante creatore di
un mondo, e puoi entrarci tutto quanto? Ah! è uno spettacolo da
far sognare, l'Europa fatta cosi e da lui lasciata cosi! Un edificio,
con alla testa due uomini, due capi eletti ai quali s'inchina ogni re.
Quasi tutti gli stati, ducati, feudi militari, regni, marchesati, tutti
sono ereditari; ma il popolo ha talvolta il suo papa o il suo cesare;
tutto procede e il caso corregge il caso. Da ciò viene l'equilibrio e
ovunque risplende l'ordine. Elettori in veste d'oro, cardinali in
scarlatto — un doppio senato sacro, dinanzi a cui si commuove tut-
ta la terra — non sono là che in parata, e Dio vuole ciò che vuole.
64 VICTOR HUGO
Se un'idea si manifesta un giorno, per necessità dei tempi, ingran-
disce, va, corre, si mescola ad ogni cosa, si fa uomo, s'impadronisce
dei cuori, scava un solco; parecchi re la calpesteranno, oppure la
imbavaglieranno. Ma fate che essa entri un giorno alla dieta o al
conclave, e tutti i re vedranno improvvisamente quell'idea prima
schiava sorgere, con il glolx) in mano o con la tiara in fronte, so-
pra le loro teste di re, che i suoi piedi faranno curvare. Il papa
e l'imperatore sono tutto. Non c'è niente sulla terra che non sia
fatto per loro o per mezzo di loro. Un mistero supremo vive in
essi, e il cielo, di cui godono tutti i diritti, prepara loro un gran
festino di popoli e di re, e li tiene soli, sotto la sua nuvola in cui
rumoreggia il tuono, seduti ad una tavola su cui Iddio serve loro
il mondo. Essi sono là, uno di fronte all'altro, a regolare e a divi-
dere, sistemando l'universo come fa il contadino per il suo campo.
Tutto viene deciso fra loro. I re stanno alla porta, a respirare l'odo-
re delle vivande che vengono portate e a guardare attraverso i vetri,
attenti, annoiati, alzandosi sulla punta dei piedi per vedere. Il
mondo si ripartisce o si raggruppa sotto di loro. Essi fanno e disfan-
no. L'uno scioglie e l'altro taglia. L'uno è la verità, l'altro è la
forza. Hanno la loro ragione in se stessi, e sono perché sono. Quan-
do escono dal santuario, tutti e due uguali, l'uno avvolto nella sua
porpora, l'altro nella sua bianca veste, l'universo abbagliato con-
templa con terrore le due metà di Dio, il papa e l'imperatore.
L'imperatore, l'imperatore, essere l'imperatore! Che rabbia non es-
serlo! e sentirsi il cuore pieno di coraggio! Quanto fu felice colui
che dorme in questa tomba! Come fu grande! Ai suoi tempi era
ancora più bello! Il papa e l'imperatore! Non erano piò due uomini!
Pietro e Cesare! riunire in essi le due Rome, fecondare l'una e
l'altra in un mistico accoppiamento, ridare al genere umano una
forma, un'anima, rifondere i popoli in blocco e i regni alla rin-
fusa, per farne un'Europa nuova, e tutti e due, con le loro mani,
ridar forma a quel bronzo che ancora restava del vecchio mondo
romano! oh che destino! Eppure questa tomba è la sua! Tutto, dun-
que, è cosi poca cosa che debba sempre finire qui? Come! essere
stato principe, imperatore e re! Essere stato la spada, essere stato la
legge! Gigante, aver avuto per piedistallo la Germania! Come! avere
avuto il titolo di cesare ed essersi chiamato Carlomagno! essere stato
più grande di Annibale, più grande di Attila, grande quanto il
mondo!... ed esser ridotto qui. Ah! ambite pure l'impero, ma guar-
date la polvere che fa un imperatore! Coprite la terra intera di
Una scena del terzo alto di Ruy Bios, di Victor Hugo, al Thcàtrc de la Renaissance.
HERNANI 65
grida e di tumulti; create, costruite il vostro impero, e non dite
mai: Basta cosi! Sbozzate a larghe falde un edifìcio immenso! Sape-
te che cosa ne rimarrà un giorno? o follia! questa pietra! £ del
titolo, e del nome pieno di trionfi? Qualche lettera, per far silla-
bare i bambini! Per quanto alto sia lo scopo a cui orgogliosamente
aspirate, ecco qual è la fine! Oh! l'impero, l'impero! che m'impor-
ta! L'ho vicino e lo trovo di mio gradimento. Qualcosa mi dice:
L'avrai! L'avrò. Se l'avessi!... O cielo! essere l'inizio di tutto! Solo,
in piedi, sul punto più alto dell'enorme spirale! Essere la chiave di
volta di una folla di Stati posti l'uno sull'altro, e vedere allineati
sotto di sé i re, e poggiare i piedi sulle loro teste; e sotto i re vedere
le casate feudali, margravi, cardinali, dogi, duchi blasonati; poi ve-
scovi, abati, capi di clan, grandi baroni, poi uomini di cultura e
soldati; poi, lontano dalla cima su cui ci troviamo, nell'ombra, pro-
prio in fondo all'abisso, gli uomini. Gli uomini! cioè una folla, un
mare, un gran rumoreggiare, pianti e grida, a volte una risata
amara oppure una supplica che, risvegliando la terra spaventata,
quando ci giunge attraverso tanti echi, è fanfara! gli uomini! Del-
le città, delle torri, un grande sciame, degli alti campanili per
suonare a stormo! {pensieroso) Base di nazioni che portano sulle
sue spalle l'enorme piramide appoggiata ai due poli; flutti viventi
che, stringendola sempre nel loro seno, la fanno ondeggiare, bar-
collante, col loro vasto rollio, fanno cambiar posto a tutto, e sa,
nelle alte sfere, fanno vacillare i troni come se fossero sgabelli, tan-
to che tutti i re, ponendo fine alle loro vane querele, alzano gli oc-
chi al cielo... Re! guardate in basso! Ah! il popolo! oceano! onda
sempre in movimento, in cui non si può gettar nulla senza che
tutto si agiti! Onda che stritola un trono e culla una tomba! Spec-
chio in cui raramente i re si vedono belli! Ah! se si guardasse qual-
che volta in quest'onda cupa, si vedrebbero sul suo fondo innu-
merevoli imperi, come grandi vascelli naufragati che il flusso e
riflusso rotola inerti, essi che un tempo la molestavano e che ora
invece non conosce più! Governare tutto questo! Salire, se si è no-
minati, fino a quella vetta! Salirvi, sapendo che non si è altro che
un uomo! Avere l'abisso, là!... Che almeno non mi prenda un ca-
pogiro in quel momento! Oh! piramide oscillante di stati e di re,
quanto è stretta la tua cima! Guai al piede esitante! A chi m'aggrap-
però? Oh! se vacillassi sentendo trasalire il mondo sotto i miei
piedi, sentendo vivere e palpitare la terra nelle sue scaturigini!
E poi, quando avrò questo globo in mano, che ne farò? Riuscirò
5. • Teatro frar4:ese
66 VICTOR HUGO
almeno a portarlo? Che cosa ho in me? Essere imperatore, mio
Dio! era già troppo essere re! Certo, solo un mortale di stirpe poco
comune può render grande la sua anima quanto è grande la sorte.
Ma io! chi mi farà grande? chi sarà la mia legge? chi mi consi-
glierà? (si getta in ginocchio dinanzi alla tomba) Carlomagno! tu
lo puoi! Ah! giacché Iddio, di fronte al quale si appiana ogni osta-
colo, prende le nostre due maestà e le pone faccia a faccia, met-
timi in cuore, dal profondo di questa tomba, qualcosa di grande, di
sublime e di bello! Oh! fammi vedere tutti gli aspetti di ogni cosa,
mostrami la piccolezza del mondo, perché non oso toccarlo! Mo-
strami che su questa Babele, che, dal pastore a Cesare, s'innalza
fino al cielo, ciascuno si compiace ed è felice del proprio stato, guar-
da Taltro dal basso e si trattiene dal riderne. Insegnami ì tuoi se-
greti per vincere e per regnare, e dimmi che è meglio punire che
perdonare! Non è vero? Se talvolta una grande ombra si sve-
glia nel suo letto solitario al rumore che fa la terra, e se la sua
tomba si apre improvvisamente grande e luminosa tanto che nel-
la notte illumina il mondo con un lampo, se questo è vero, oh!
dimmi, imperatore di Germania, dimmi che cosa si può fare dopo
Carlomagno! Parla! anche se, parlando, il tuo soffio sovrano dovesse
spezzarmi questa porta di bronzo sulla fronte! O piuttosto, lasciami
entrar solo nel tuo santuario, lasciami vedere la tua maschera mor-
tuaria, non respingermi con un soffio possente, sollevati sul tuo
capezzale di pietra. Parliamo. Si, anche se, con la tua voce fatale,
tu dovessi dirmi cose che rendono cupo lo sguardo e pallida la
fronte! Parla e non accecare questo tuo figlio spaventato, perché
la tua tomba è certamente piena di luce! Oppure, se non vuoi dir
nulla, lascia che in questa tua pace profonda Carlos studi la tua
testa come studierebbe un mondo; lascia che ti misuri con comodo,
o gigante, perché niente quaggiù è più grande del tuo nulla. Che
in mancanza della tua ombra, sia la tua cenere a consigliarmi! [av-
vicina la chiave alla serratura) Entriamo, (indietreggia) Dio! se
mi parlasse all'orecchio! Se fosse là, in piedi, e camminasse a passi
lenti! Se uscissi di qui con i capelli bianchi! Entriamo lo stesso!
(rumore di passi) Viene qualcuno. Chi mai osa, all'infuori di me,
svegliare a quest'ora il sepolcro d'un simile morto? Chi mai? (il
rumore s'avvicina) Ah dimenticavo! sono i miei assassini. Entriamo.
(apre la porta della tomba che poi si richiude alle spalle. Entrano pa-
recchi uomini, che camminano a passi felpati, nascosti sotto i loro
mantelli e cappelli)
HERNANI ^
SCENA TERZA
1 CONGIURATI
(vanno gli uni verso gli altri, stringendosi la mano e scambiando qual-
che parola a bassa voce)
PRIMO CONGIURATO {Tunico chc porti una torcia accesa^ - Ad augusta,
SECONDO CONGIURATO - Per angusta.
PRIMO CONGIURATO - Chc Ì Santi ci proteggano.
TERZO CONGIURATO - Che i moiti ci aiutino.
PRIMO CONGIURATO - Dio ci assista. {rumore di passi nell'ombra)
SECONDO CONGIURATO - Chi va là?
VOCE nell'ombra - Ad augusta,
SECONDO CONGIURATO - Per angusta, {entrano altri congiurati. Rumore
di passi)
PRIMO CONGIURATO {ol tcrzo) - Guarda; arriva qualcun altro.
TERZO CONGIURATO - Chi va là?
VOCE nell'ombra - Ad augusta.
TERZO CONGIURATO - Per angusta {entrano altri congiurati che scambia-
• no dei segni con tutti gli altri)
PRIMO CONGIURATO - Benc. Eccoci tutti. Gotha, fa' il rapporto. Amici,
l'ombra attende la luce.
(tutti i congiurati si siedono in semicerchio sulle tombe. Il primo con-
giurato passa, uno dopo l'altro, davanti a tutti e ciascuno accende
alla sua torcia un cero che tiene in mano. Poi il primo congiurato
va a sedersi in silenzio su una tomba che si trova in mezzo al
cerchio ed è più alta delle altre)
IL DUCA DI GOTHA (olzandosì) - Amici, Carlo di Spagna, straniero da
parte di madre, pretende al sacro impero.
PRIMO CONGIURATO - Avrà la tomba.
IL DUCA DI GOTHA (getta per terra la torcia e la schiaccia col piede) -
Tocchi alla sua fronte quel che tocca a questa fiaccola!
TUTTI - Cosi sia!
PRIMO CONGIURATO - A mortc!
IL DUCA DI GOTHA - Che muoia!
TUTTI - Immoliamolo!
DON JUAN DE HARo - Suo padre è tedesco.
IL DUCA DI LUTZELBOURG - Ma sua madre è spagnola.
IL DUCA DI GOTHA - Non è piu Spagnolo e non è tedesco. A morte!
68 VICTOR HUGO
UN CONGIURATO - Sc gli clcttorì lo lìominassero imperatore in questo
momento?
PRIMO CONGIURATO - LofoI lui! mai!
DON GiL TELLEZ GiRON - Che importa, amici! colpiamo la testa, e la
corona è morta!
PRIMO CONGIURATO - Se ha il sacro impero diventa augusto, chiunque
egli sia, e Dio solo può toccarlo.
IL DUCA DI GoniA - La cosa più sicura è che muoia prima d'essere au-
gusto.
PRIMO CONGIURATO - Non lo eleggeranno!
TUTTI - Non avrà l'impero!
PRIMO CONGIURATO - Quante braccia occorrono per stenderlo nella
tomba?
TUTTI - Uno solo.
PRIMO CONGIURATO - Quauti colpi al cuore?
TUTTI - Uno solo.
PRIMO CONGIURATO - Chi colpirà?
TUTTI - Tutti noi.
PRIMO CONGIURATO - La vittima è un traditore. Loro eleggono un im-
peratore; noi scegliamo il gran sacerdote. Tiriamo a sorte, (tutti i
congiurati scrivono il proprio nome sulle loro tavolette, staccano il
foglio, lo arrotolano e lo gettano uno dopo Vdtro nell'urna ài una
tomba. Poi il primo congiurato dice) Preghiamo, {tutti s'inginoc-
chiano. Il primo congiurato si alza in piedi e dice) Che l'eletto cre-
da in Dio, colpisca come un romano, muoia come un ebreo! Biso-
gna che affronti ruota e tenaglie mordenti, canti quando sarà le-
gato al cavalletto, rida dinanzi alle lampade ardenti; bisogna che,
rassegnato, faccia tutto per uccidere e morire! {prende dall'urna
una pergamena)
TUTTI - Che nome?
PRIMO CONGIURATO {al alta voce) - Hernani.
HERNANi {uscendo dalla folla dei congiurati) - Ho vinto! Ti tengo, o
vendetta, dopo averti inseguito per tanto tempo!
DON RUY GOMEZ {fendendo la folla e prendendo in disparte Hernani) -
Oh! cedimi questo colpo!
HERNANI - No, mai! Oh! non invidiate la mia sorte, signore! È la pri-
ma volta che mi capita una fortuna.
DON RUY GOMEZ - Tu uon hai nulla. Ebbene ti do tutto, feudi, castelli,
vassallaggi, centomila contadini nei miei trecento villaggi, te li do,
amico, in cambio di quel colpo da assestare.
HERNANI 69
HERNANI - No!
IL DUCA DI GOTHA - Vccchio, il tuo braccio sferrerebbe un colpo meno
sicuro!
DON RUY GOMEZ - Indietro, voi! in mancanza del braccio, ho l'anima!
Non giudicate la lama dalla ruggine del fodero, {a Hernani) Tu
mi appartieni!
HERNANI - La mia vita è vostra, la sua è mia.
DON RUY GOMEZ {prendendo il corno dalla cintola) - Ebbene, ascolu,
amico. Ti rendo questo corno.
HERNANI (scosso) - Cosa! La vita! Eh! che m'importa! ho la mia ven-
detta! In questo ho un'intesa con Dio. Devo vendicare mio padre...
forse ancora di più! £ lei, me la rendi?
DON RUY GOMEZ - Mai! Rendo questo corno.
HERNANI - No!
DON RUY GOMEZ - Rifletti, ragazzo.
HERNANI - Duca, lasciami la mia preda.
DON RUY GOMEZ - Ebbene! che tu sia maledetto perché mi togli questa
gioia! (rinfila il corno nella sua cintura)
PRIMO CONGIURATO (a Hcmant) - Fratello! prima che possano eleggerlo,
sarebbe bene aspettare Carlos fin da stasera...
HERNANI - Non temete! So come si manda un uomo nella tomba.
PRIMO CONGIURATO - Che Ogni tradimento ricada sul traditore, e Dio
sia con voi! Noi, conti e baroni, continueremo, se lui dovesse pe-
rire senza uccidere! Giuriamo di colpire l'uno dietro l'altro, e sen-
za tirarci indietro, Carlos, che deve morire.
rum (sfoderando le spade) - Giuriamo!
IL DUCA DI GOTHA (d primo Congiurato') - Su che cosa, fratello mio?
DON RUY GOMEZ (capovolge la spada, la prende per la punta e la solleva
al di sopra della testa) - Giuriamo su questa croce!
TUTTI (alzando le spade) - Che muoia impenitente!
(si sente in lontananza un colpo di cannone. Tutti ammutoliscono.
La porta della tomba si socchiude. Don Carlos appare sulla soglia.
Ascolta, pallido. Un secondo colpo. Un terzo colpo. Spalanca la
porta della tomba, ma senza fare un passo, in piedi e immobile sul-
la soglia)
70 VICTOR HUGO
SCENA QUARTA
1 CONGIURATI, DON CARLOS, pOÌ DON RICARDO, SIGNORI, GUARDIE, IL RE DI
BOEMIA, IL DUCA DI BAVIERA, pOt DONA SOL
DON CARLOS - Signori, andate più lontano I Timpcratorc vi sente, (tutte
le fiaccole si spengono nello stesso momento. Silenzio profondo. Egli
si avanza di un passo nelle tenebre, cosi profonde da distinguervi
appena i congiurati, muti e immobili) Silenzio e buio! lo sciame ne
esce e vi s'immerge di nuovo. Credete forse che tutto questo finirà
come un sogno e che senza fiaccole vi scamhierò per statue di pie-
tra, sedute sulle proprie tombe? Poco fa parlavate abbastanza forte,
statue mie! Andiamo! rialzate le teste chine, eccovi Carlo V! Col-
pite, fate un passo! Vediamo, oserete? No, voi non oserete! Le vo-
stre torce fiammeggiavano rosse come sangue sotto queste volte.
Un solo mio respiro è stato dunque sufficiente a spegnerle tutte!
Ma guardate, volgete il vostro sguardo incerto: se io ne spengo
molte, ne accendo ancora di più. [batte con la chiave di ferro sulla
porta di bronzo della tomba, A questo rumore, tutte le profondità
del sotterraneo si riempiono di soldati con torce e partigiane. Alla
loro testa sono il duca d'Alcala e il marchese d*Almunan) Accor-
rete, o miei falchi! ho il nido, ho la preda! (ai congiurati) Ora sono
io che illumino. Il sepolcro fiammeggia, guardate! (ai soldati) Ve-
nite tutti, perché il delitto e flagrante.
HERNANi (guardando i soldati) - Alla buon'ora! Solo, mi sembrava
troppo grande. Bene. Prima credevo che fosse Carlomagno. Non e
che Carlo V.
DON CARLOS (al duca d'Alcala) - Conestabile di Spagna! (al marchese
d'Almunan) Ammiraglio di Castiglia, venite qui! Disarmateli. (/
congiurati vengono circondati e disarmati)
DON RicARDo (accorrcndo e inchinandosi fino a terra) - Maestà!
DON CARLOS - Ti nomino alcade di palazzo.
DON RicARDO (inchinandosi di nuovo) - Due elettori, in nome della ca-
mera dorata, vengono ad ossequiare la vostra sacra maestà.
DON CARLOS - Che entrino, (sottovoce a Ricardo) Dona Sol.
(Ricardo saluta ed esce. Entrano con fiaccole e fanfare il re di Boe-
mia e il duca di Baviera, tutti vestiti di tessuto d'oro e con le corone
in testa. Numeroso corteo di signori tedeschi, che portano la bandie-
ra dell'impero, con l'aquila a due teste e lo stemma di Spagna nel
HERNANI 71
mezzo, I soldati si scastano, fanno siepe e lasciano un passaggio ai
due elettori fino alV imperatore, che essi salutano profondamente,
mentre lui ricambia il saluto sollevando il cappello)
IL DUCA DI BAVIERA - Carlo! fc dci Romani, sacra Maestà, imperatore I
Il mondo è ora nelle vostre mani, perché voi avete l'impero. Quel
trono a cui aspira ogni monarca, è vostro. Federico, duca di Sas-
sonia, vi fu dapprima eletto, ma vi ha rinunciato, giudicandovi più
degno. Venite dunque a ricevere la corona e il globo. Il Sacro Im-
pero, o re, vi riveste del manto, vi arma della spada, e voi siete
grandissimo.
DON CARLOS - Verrò a ringraziare il collegio rientrando. Andate, signo-
ri. Grazie, fratello di Boemia, cugino di Baviera. Andate. Verrò io
stesso.
IL RE DI BOEMIA - Carlo, i nostri avi si chiamavano col nome di amici.
Mio padre amava tuo padre e i loro padri si amavano. Carlo, già
esposto COSI giovane a sorti contrarie, dimmi, vuoi ch'io sia tuo
fratello fra i tuoi fratelli? Ti ho visto bambino e non posso di-
menticare...
DON CARLOS (intcrrompcndolo) - Re di Boemia! ebbene, siete mio fa-
miliare! (gli dà a baciare la mano, e cosi al duca di Baviera, poi
congeda i due elettori, che lo salutano profondamente) Andate! (i
due elettori escono col loro seguito)
LA FOLLA - Viva!
DON CARLOS {a parte) - Ci sono! e tutto mi ha aiutato! Imperatore!
Grazie al rifiuto di Federico il Saggio!
(entra Dona Sol, condotta da Ricardo)
DONA SOL - Dei soldati! l'imperatore! o cielo! che colpo imprevisto!
Hernani!
HERNANI - Dona Sol!
DON RUY GOMEZ (occcnto ad Hernani, a parte) - Non mi ha visto!
(Dona Sol corre da Hernani. Lui la fa indietreggiare con un'occhiata
diffidente)
HERNANI - Signora!
DONA SOL (mostrando il pugnale che nascondeva in seno) - Ho ancora
il suo pugnale!
HERNANI (tendendole le braccia) - Amica mia!
DON CARLOS - Silenzio tutti! (ai congiurati) Vi siete ripresi? Bisogna
che dia una nuova lezione al mondo. Lara il castigliano e Gotha
il sassone e voi tutti! che venivate a fare qui? parlate.
72 VICTOR HUGO
HERNANi {facendo un passo) - Sire, la cosa è semplidssima e ve la pos-
siamo dire. Scrivevamo la sentenza sul muro di Baldassarre, {estrae
un pugnale e lo agita) Noi rendevamo a Cesare ciò che è di Cesare.
DON CARLOS - Bene, {a don Ruy Gomez) Voi siete un traditore, Silva.
DON RUY GOMEZ - Chi di noi due, sire?
HERNANi {volgendosi verso i congiurati) - Le nostre teste e l'impero?
Ha quello che voleva. {dV imperatore) Il manto azzurro dei re po-
teva impacciare i vostri passi. La porpora vi sta meglio. Il sangue
non ci si vede.
DON CARLOS {a don Ruy Gomez) - De Silva, cugino mio, è un tradi-
mento tale da far cancellare la baronia dal tuo blasone! È alto tra-
dimento, don Ruy, pensaci bene.
DON RUY GOMEZ - I re Rodrigo fanno i conti Giuliano *.
DON CARLOS {d duco d'Alcda) - Prendete solo quelli che sono duchi o
conti. Il resto...
{Don Ruy Gomez, il duca di Lutzelbourg, il duca di Gotha, don Juan
de Haro, don Guzman de Lara, don Tellez Giron, il barane di
Hohenbourg, si separano dd gruppo dei congiurati, fra i qudi è
rimasto H emani. Il duca d'Alcda li circonda strettamente di guar-
die)
DONA SOL {a parte) - È salvo!
HERNANi {uscendo dal gruppo dei congiurati) - Pretendo che si prenda
anche me! {a Don Carlos) Dato che qui si tratta dell'ascia, e che
Hernani, oscuro pastore, passerebbe impunito sotto i tuoi piedi,
poiché la sua fronte non è più all'altezza della tua spada, poiché
bisogna esser grandi per morire, allora io mi alzo. Quel Dio che
dà gli scettri, e che lo dette a te, mi ha fatto duca di Segorbia e
duca di Cardona, marchese di Monroy, conte Albatera, visconte di
Gor, signore di luoghi di cui ignoro il numero. Sono Giovanni
d'Aragona, gran maestro d'Avis, nato in esilio, figlio proscritto di
un padre assassinato per ordine del tuo, re Carlos di Castiglia! Fra
noi due l'assassinio è affare di famiglia. Voi avete il patibolo, noi
abbiamo il pugnale. Il cielo mi ha fatto duca, dunque, e l'esilio
montanaro. Ma poiché ho affilato invano la mia spada sulle mon-
tagne e l'ho ritemprata invano nell'acqua dei torrenti, {si mette
il cappello; agli dtri congiurati) mettiamoci il cappello grandi di
Spagna! {tutti gK Spagnoli si coprono, A Don Carlos) Si, o re, le
nostre teste hanno il diritto di cadere coperte dinanzi a te! {ai pri-
^ Secondo una leggenda, il conte Giuliano, per vendicare un*offesa fattagli dal
re Rodrigo, avrebbe chiamato gli arabi in Ispagna. (N. del T.).
HERNANI 73
gionieri) Silva, Haro, Lara, gente che avete titoli e nobiltà, fate
posto a Giovanni d'Aragona! duchi e conti, datemi il mio posto!
{ai cortigiani e die guardie) Re, carnefici e valletti, io sono Gio-
vanni d'Aragona! E se i vostri patiboli sono piccoli, cambiateli! (va
ad unirsi al gruppo dei signori fatti prigionieri)
DONA SOL - Cielo!
DON CARLOS - In Verità, avevo dimenticato questa storia.
HERNANI . Chi ha la ferita sanguinante ha miglior memoria. L'affronto,
che l'insensato offensore dimentica, vive e si agita sempre nel cuo-
re dell'offeso.
DON CARLOS - Dunque io sono figlio di padri che fanno cadere la testa
dei vostri! è un titolo tale da non desiderarne altri!
DONA SOL {gettandosi in ginocchio davanti all'imperatore) - Sire, per-
dono! pietà! Sire, siate clemente! O colpiteci tutti e due, perché è
il mio amante, il mio sposo! Solo in lui io respiro. Oh! tremo.
Sire, abbiate la pietà di ucciderci insieme! Maestà! mi trascino ai
vostri sacri ginocchi! L'amo! Egli è mio, come l'impero è vostro!
Oh! grazia! {Don Carlos la gtuarda immobile) Qual sinistro pensie-
ro vi assorbe?
DON CARLOS - Via! alzatevi, duchessa di Segorbia, contessa Albatera,
marchesa di Monroy... {a Hernani) I tuoi altri titoli, don Juan?
HERNANI - Chi parla cosi? il re?
DON CARLOS - No, l'impcratore.
DONA SOL {alzandosi) - Gran Dio!
DON CARLOS {indicandola ad Hernani) - Duca, ecco la tua sposa.
HERNANI {con lo sguordo rivolto al cielo e con DoHa Sol fra le braccia)
' Dio giusto!
DON CARLOS {a Don Ruy Gomez) - Cugino mio, la tua nobiltà è gelosa,
lo so. Ma un Aragona può sposare una Silva.
DON RUY GOMEZ {cupo) - Non è la mia nobiltà.
HERNANI (guardando con amore Dona Sol e tenendola abbracciata) -
Oh! il mio odio se ne va! (getta via il pugnale)
DON RUY GOMEZ (a parte, guardandoli tutti e due) - Esploderò? oh! no!
amore folle! dolore folle! faresti loro pietà, vecchia testa spagnola!
Brucia senza fiamma, vecchio, ama e soffri in silenzio, lasciati ro-
dere il cuore. Non un grido. Riderebbero!
DONA SOL (jra le braccia di Hernani) - O mio duca!
HERNANI - Non ho altro che amore nell'anima, ormai.
DONA SOL - O felicità!
DON CARLOS (a parte, con la mano) - Spegniti, mio giovane cuore pieno
di fiamma! Lascia regnare lo spirito, che turbasti per tanto tempo;
74 VICTOR HUGO
ormai i tuoi amori, le tue amanti, sono la Germania, le Fiandre,
la Spagna, (fissa lo sguardo sulla sua bandiera) L'imperatore è si-
mile all'aquila sua compagna: ai posto del cuore ha solo uno stem-
ma.
HERNANi - Ah! voi siete veramente Cesare!
DON CARLOS (a Hernant) - Don Juan, il tuo cuore è degno della tua
nobile stirpe, {indicando Dona Sol) Ed è degno anche di lei. In gi-
nocchio, duca! (Hernani s'inginocchia. Don Carlos si toglie il suo
toson d'oro e glielo passa al collo) Ricevi questo collare. {Dan Car-
los sfodera la spada e gliela posa tre volte sulla spalla) Sii fedele!
In nome di Santo Stefano ti faccio cavaliere, duca! {l'aiuta ad al-
zarsi e l'abbraccia) Ma tu hai il più dolce e il più bello dei collari,
quello che io non ho, che manca alla mia dignità suprema: le brac-
cia d'una donna amata e che ti ama! Ah! tu sarai felice; quanto
a me, io sono imperatore, {ai congiurati) Non so più i vostri nomi,
signori. Odio e furore, voglio dimenticare tutto! Andate, vi per-
dono! È la lezione che devo dare al mondo. Non è invano che a
Carlo primo, re, succede l'imperatore Carlo V e che agli occhi del-
l'Europa, orfana in lacrime, . l'altezza cattolica si muta in maestà
sacra. (/ congiurati si mettono in ginocchio)
1 CONGIURATI - Gloria a Carlos!
DON RUY GOMEZ {a Don Carlos) - A me solo rimane la condanna.
DON CARLOS - E a me!
DON RUY GOMEZ {a portc) - Ma io non ho perdonato come lui!
HERNANI - Chi mai ci cambia, tutti, cosiP
TUTTI, SOLDATI, CONGIURATI, SIGNORI - Viva la Germania! Gloria a Car-
lo Quinto!
DON CARLOS {volgendosi verso la tomba) - Gloria a Carlo Magno! La-
sciateci soli, noi due. {tutti escono)
SCENA QUINTA
DON CARLOS, SOlo.
{s'inchina dinanzi alla tomba)
Sei contento di me? Ho saputo spogliarmi di tutte le miserie del
re, Carlo Magno? Diventato imperatore, non sono forse un altr'uo-
mo? Posso unire il mio casco alla mitria di Roma? Ho diritto d'in-
HERNANI 75
teressarmi alle sorti del mondo? Ho io un piede fermo e sicuro, tale
da poter camminare per quel sentiero, pieno di vandaliche rovine,
che tu ci hai tracciato con le tue larghe orme? Ho saputo accendere
bene la mia fiaccola alla tua fiamma? Ho ben compreso la voce
che esce dalla tua tomba? Ah! ero solo, sperduto, solo davanti a
un impero, davanti a tutto un mondo che urla, e minaccia, e co-
spira, con il Danese da punire, il Santo Padre da pagare, Vene-
zia, Solimano, Lutero, Francesco primo, mille pugnali gelosi che
già luccicavano nell'ombra, delle trappole, degli scogli, dei ne-
mici innumerevoli, venti popoli di cui uno solo farebbe paura a
venti re, mentre tutto urgeva, mentre tutto era da fare nello stesso
tempo, ed ho gridato verso di te: «Da dove devo cominciare? »
Tu mi hai risposto: « Dalla clemenza, figlio mio! ».
ATTO QUINTO
LE NOZZE
Saragozza.
Una terrazza dd palazzo d'Aragona. In fondo, la rampa di una scala che s'in-
terna nel giardino, A destra e a sinistra due porte che danno sulla terrazza
chiusa da una balaustrata sormontata da due file di arcate moresche, al di
sopra delle auali, come anche attraverso esse, si scorgono i giardini del pa-
lazzo, i getti d'acqua nell'ombra, i boschetti con le luci che vi si muovono
in mezzo, e in fondo le parti più alte, in stile gotico e arabo, del palazzo il-
luminato. È notte. Si sentono in lontananza delle fanfare. Delle maschere, dei
domino, sparsi, isolati o in gruppo, attraversano qua e là la terrazza. Sul pro-
scenio, un gruppo di giovani signori, con le maschere in mano, ride e chiac-
chiera rumorosamente.
SCENA PRIMA
DON SANCHO SANCHEZ DE ZUNIGA, COnie di MOfltCrey, DON MATIAS CEN-
TURioN, marchese d'Almunan, don ricardo de roxas, conte di Casaped-
ma, don FRANCISCO DE soTOMAYOR, cofitc di VeMcazor, don garci
SUAREZ DE carbaja, cofite dì Penaiver
DON GARCI - In fede mia, viva la gioia e viva la sposa!
DON MATIAS (guordando dd balcone) - Saragozza stasera è tutta alle
finestre.
76 VICTOR HUGO
DON GARci - E fa bene! non si videro mai delle nozze più allegre alla
luce delle torce, né una notte più serena, né sposi più belli!
DON MATiAS - Che buon imperatore!
DON SANCHo - Marchese, quando una certa sera andavamo a cercar for-
tuna tutti e due insieme a lui, chi avrebbe detto che un giorno tutto
sarebbe finito cosi?
DON RicARDO {intetTom pcndolo) - C'ero anch'io, {agli altri) Ascoltate
questa storia: Tre innamorati — un bandito in attesa di salire sul
patibolo, poi un duca, poi un re — assediano insieme il cuore di
una stessa donna. Una volta dato l'assalto, chi l'ha ottenuto? Il
bandito.
DON FRANCISCO - Niente di più semplice. L'amore e la fortuna, tanto in
Spagna che altrove, sono come i giochi fatti con dadi truccati. È
il baro che vince!
DON RicARDo - lo ho fatto la mia fortuna stando a veder fare all'amore.
Prima conte, poi grande, poi alcade di corte: senza far chiasso, ho
saputo impiegar bene il mio tempo.
DON SANCHO - Il scgreto di questo signore è quello di stare sulla strada
del re...
DON RiCARDo - Facendo valere i miei diritti, i miei atti.
DON GARci - Avete approfittato delle sue distrazioni.
DON MATIAS - Che fa il vecchio duca? Si fa preparare la bara?
DON sANCHo - Non ridete marchese! e un'anima orgogliosa. Amava
Dona Sol, quel vecchio. Ci son voluti sessant'anni per far diventar
grìgi i suoi capelli, ma è bastato un giorno per imbiancarglieli.
DON GARci - Si dice che non si sia fatto più vedere a Saragozza!
DON SANCHO - Non vi Sarete aspettato che portasse la sua bara alla festa!
DON FRANCISCO - E che fa l'imperatore?
DON SANCHO - Oggi l'imperatore è triste. Lutero gli procura delle noie.
DON RicARDo - Quel Lutero è una bella fonte di preoccupazioni e di
allarmi. Io farei presto a farla finita con quattro spadaccini!
DON MATIAS - Anche Solimano gli dà ombra.
DON GARci - Ah! Lutero, Solimano, Nettuno, il diavolo e Giove, che
m'importa di quella gente là? Le signore son belle, la mascherata
è ben riuscita e io ho detto mille follie!
DON SANCHO - Ecco Icssenziale!
DON RicARDo - Garci non ha torto davvero. Non sono più lo stesso, in
un giorno di festa, e credo proprio che basti mettermi una masche-
ra per darmi un'altra faccia!
DON SANCHO (j òossa vocc a Matias) - Perché mai non è festa tutti i
giorni, allora!
HERNANI 77
DON FRANCISCO {indicando la porta sulla destra) - Signori miei, è quella
la camera degli sposi?
DON GARci {annuendo) - Li vedremo arrivare fra un istante.
DON FRANCISCO - Credete?
DON GARci - Senaut dubbio!
DON FRANCISCO - Meglio cosi! La sposa è cosi bella!
DON RicARDo - Com'è buono l'imperatore! Dare il toson d'oro a quel
ribelle di Hernani! e vederlo sposato! e perdonato! Se m'avesse
ascoltato, l'imperatore avrebbe invece dato un letto di pietra all'in-
namorato e uno di piume alla donna.
DON SANCHO {a voce bassa a Don Matias) - Come lo infilzerei volentieri
con la mia lama! Falso signore, da lustrini ricuciti con filo grosso!
Farsetto di conte, riempito di consigli da sbirro!
DON RicARDO (avviànandosi) - Cosa dite voi?
DON MATIAS (sottovocc a Don Sanchó) - Conte, niente liti qui! (a Don
Ricardo) Mi sta recitando un sonetto del Petrarca alla sua bella.
DON GARci - Signori, avete notato in mezzo ai fiori, alle signore, agli
abiti d'ogni colore, quello spettro che, ritto contro la balaustrata,
faceva una macchia col suo domino nero?
DON RicARDo - Si, pcrbacco!
DON GARci - Chi è mai?
DON RicARDo - Ma, la sua corporatura, la sua aria... È don Pancrazio,
l'ammiraglio.
DON FRANCISCO - No.
DON GARCi - Non s'è mai tolto la maschera.
DON FRANCISCO - Non faccva attenzione a nessuno. È il duca di Soma
che vuol essere notato. Nient'altro.
DON RicARDo - No, il duca mi ha parlato.
DON GARci - Chi è allora quella maschera? Guardate, eccola.
(entra un domino nero che attraversa lentamente la terrazza in fondo.
Tutti si voltano e lo seguono con lo sguardo, senza che egli sem-
bri notarlo)
DON SANCHO - Sc Ì morti camminano, quello è il loro passo.
DON GARci {correndo verso il domino nero) - Bella maschera!... {il do-
mino nero si volta e si ferma: Garci indietreggia) Sull'anima mia,
signori miei, ho visto brillare una fiamma nei suoi occhi!
DON SANCHO - Sc è il diavolo, ora trova con chi parlare, {va verso il
domino nero, sempre immobile) Maligno! Vieni dall'inferno?
LA MASCHERA - Non vcngo, ci vado. {continua la sua strada e sparisce
oltre la rampa della scala. Tutti lo seguono con lo sguardo in cui è
una specie di terrore)
78 VICTOR HUGO
DON MATiAs - La vocc è veramente sepolcrale!
DON GARci - Oh basta! ciò che altrove fa paura, al ballo fa ridere.
DON SANCHo - È qualchc bel tipo di cattivo gusto!
DON GARci - O, se è Lucifero che viene a vederci ballare in attesa del-
l'inferno, balliamo!
DON SANCHO - È certamente qualche buffonata.
DON MATIAS - Domani lo sapremo.
DON SANCHO (a Dofi Mattas) - Guardate, ve ne prego. Che sta facendo?
DON MATIAS {ajjocciandosi dia balaustrata della terrazza) - Ha sceso la
scala. Non si vede più.
DON SANCHO - È un bel tipo! (pensoso) Strano!
DON GARci (a una dama che passa) - Marchesa, facciamo questo ballo?
{la saluta e le presenta il braccio)
LA DAMA - Mio caro conte, sapete bene che quando si tratta di voi, mio
marito li conta.
DON GARci - Ragione di più. A quanto pare, la cosa lo diverte. Gli pia-
ce. Lui canta e noi balliamo, (la dama appoggia la mano sul suo
braccio ed escono)
DON SANCHO (pcnsicToso) - È veramente strano!
DON MATIAS - Ecco gli sposì. Silenzio!
(entrano Hernani e Dona Sol tenendosi per mano. Dona Sol ha un
magnifico abito da sposa; Hernani è completamente vestito di vel-
luto nero, con il toson d'oro al collo. Dietro di loro, una folla di
maschere, di dame e di signori, in corteo. Due alabardieri vestiti
d'una livrea sfarzosa, li seguono e quattro paggi li precedono. Tut-
ti si schierano e s'inchinano al loro passaggio. Fanfara)
SCENA SECONDA
GLI STESSI, HERNANI, DONA SOL, IL SEGUITO
HERNANI (salutando) - Cari amici!
DON RicARDO (avvicinandosi e inchinandosi) - La tua felicità è la nostra,
eccellenza!
DON FRANCISCO (contemplando Dona Sol) - Per San Giacomo! è Venere
che costui ha per mano!
DON MATIAS - Parola d'onore, si e felici la notte d'un simile giorno!
DON FRANCISCO (indicando a Don Matias la camera nuziale) - Che belle
HERNANI 79
cose accadranno là! Essere fata, e veder tutto a luci spente e porte
chiuse, non sarebbe meraviglioso?
DON SANCHO {u Doit Mattos) ' È tardi. Ce n'andiamo?
{tutti vanno a salutare gli sposi ed escono, alcuni dalla porta, altri dal-
la scala in fondo)
HERNANI (accompagnandoli) - Dio vi protegga!
DON SANCHO {ckc cscc pcf ultimo, gli Stringe la mano) - Siate felice!
(esce. Hernani e Dona Sol rimangono soli. Rumore di passi e di voci
che scdlontanano, per cessare poi completamente. Durante l'inizio
della scena seguente, le fanfare e le luci in lontananza si smor-
zano le une dopo le altre. Pian piano tutto ritorna buio e silen-
zioso)
SCENA TERZA
HERNANI, DONA SOL
DONA SOL - Se ne sono andati tutti, finalmente!
HERNANI (cercando di attirarla fra le sue braccia) - Amor mio!
DONA SOL (arrossendo e indietreggiando) - È... che è tardi, mi sembra.
HERNANI - Angelo! È sempre tardi per essere soli insieme!
DoffA SOL - Tutto quel chiasso mi stancava. Non è forse vero che tutto
questo gioioso movimento turba la nostra felicità?
HERNANI - Dici bene. La felicità è una cosa grave, amica mia. Vuole
dei cuori di bronzo e vi s'imprime lentamente. Il piacere la spa-
venta coi gettarle dei fiori. Il suo sorriso è meno vicino al riso che
alle lacrime.
DONA SOL - Questo sorriso è una luce nei vostri occhi. (Hernani cerca
di farla avvicinare alla porta. Lei arrossisce) Fra poco.
HERNANI - Oh! io sono tuo schiavo! Si, rimani, rimani! Fa' ciò che
vuoi. Non ti chiedo nulla. Lo sai tu quel che fare! e quello che fai
e fatto bene! Riderò, se vuoi, canterò. La mia anima brucia... Eh!
di' al vulcano di soffocare la sua fiamma, e il vulcano chiuderà i
suoi abissi semiaperti, non avrà sui suoi pendii che fiori e prati
verdi. Giacché il gigante e preso, il Vesuvio è schiavo! E che t'im-
porta, a te, il suo cuore roso dalla lava? Vuoi dei fiori? va bene!
Bisogna che il vulcano arso dal fuoco faccia del suo meglio per
abbellirsi dinanzi ai tuoi occhi!
80 VICTOR HUGO
DONA SOL - Oh! come siete buono per una povera donna, Hernani del
mio cuore!
HERNANI - Che nome è questo, signora? Ah! per pietà, non chiamarmi
più con questo nome! Tu mi fai ricordare d'aver tutto dimenticato!
So che esisteva una volta, in un sogno, un Hernani che aveva nello
sguardo un balenio di spade, un uomo della notte e dei monti, un
proscritto che portava scritta ovunque la parola vendetta, un di-
sgraziato che trascinava dietro di sé l'anatema! Ma non conosco
questo Hernani. Io amo i prati, i fiori, i boschi, il canto dell'usi-
gnolo. Sono Giovanni d'Aragona, marito di Dona Sol. Sono felice!
doi5a sol - Sono felice!
HERNANI - Che m'importa degli stracci lasciati alla porta entrando!
Eccomi di ritorno nel mio palazzo in lutto. Un angelo del Signore
m'aspettava sulla soglia. Entro e rimetto in piedi le colonne spez-
zate, riaccendo il fuoco, riapro le finestre, faccio strappar l'erba dal
selciato del cortile, non sono più che gioia, felicità, amore. Una
volta resemi le mie torri, i miei torrioni, le mie fortezze, il mio
pennacchio, il mio posto al consiglio di Castiglia; una volta venuta
la mia Dona Sol, soffusa di rossore e con lo sguardo chino; una
volta lasciatici insieme, tutto il resto e passato! Non ho visto nulla,
non ho detto nulla, non ho fatto nulla. Ricomincio tutto, cancello
tutto, dimentico! Sia saggezza o follia, vi ho, vi amo; e voi siete
il mio bene!
DONA SOL {esaminando il suo toson d'oro) - Come sta bene questa col-
lana d'oro sul velluto nero!
HERNANI - Voi avete visto i re vestiti cosi, prima di me.
DONA SOL - Non ci ho fatto caso. Gli altri, che m'importa! E poi e il
velluto o il raso, forse? No, duca mio, è il tuo collo che fa risal-
tare questa collana. Siete nobile e fiero, mio signore, {lui vuole
portarla via) Fra poco! Un momento! Vedi, son piena di gioia! e
piango! Vieni a vedere che bella notte, {si avvicina alla balaustrata)
Duca mio, un momento solo! Solo il tempo di respirare e di guar-
dare. Tutto si e spento, fiaccole e musica allegra. Non c'è nient'al-
tro che la notte e noi. Felicità perfetta! Di', ci credi? la natura,
pur immersa nel sonno, veglia con amore su di noi. Il cielo è senza
una nuvola. Tutto è in pace, come noi. Vieni, respira insieme a me
l'aria profumata di rose! Guarda. Nessuna luce, nessun rumore.
Tutto tace. Poco fa, la luna spuntava all'orizzonte; mentre parlavi,
la sua tremula luce e la tua voce scendevano insieme nel mio cuore;
e mi sentivo felice e calma, o mio innamorato, e avrei desiderato
morire in quel momento!
HERNANI 81
HERNANi - Ah! chi non dimenticherebbe tutto al suono di questa voce
celeste! La tua parola è un canto in cui non rimane nulla d'umano.
E come chi, navigando su un fiume, scivola sulle acque in una
bella sera d'estate, e vede fuggire sotto il suo sguardo mille pia-
nure fiorite, il mio pensiero rapito vaga fra le tue fantasticherie!
Dof^A SOL ' Questo silenzio è troppo fosco, questa calma è troppo pro-
fonda. Dimmi, non ti piacerebbe vedere una stella laggiù o sentir
cantare nella notte una voce tenera e deliziosa, che s'innalzi im-
provvisamente?
HERNANI (sorridendo) - Capricciosa! Un momento fa rifuggivi le luci
e le canzoni!
Dof^A SOL - Il ballo, si! ma un uccello che canti nei campi! un usignolo
perduto nell'ombra e nel muschio, o qualche flauto in lontananza!...
Poiché la musica è dolce, rende l'anima armoniosa, e, come un
coro divino, risveglia mille voci che cantano nel cuore! Ah! sarebbe
meraviglioso! (risuona nell'ombra il suono lontano d'un corno) Dio!
sono esaudita!
HERNANI (trasalendo, a parte) - Ah! infelice!
DONA SOL - Un angelo ha capito il mio pensiero, il tuo angelo, certo!
HERNANI (con amarezza) - Si, il mio angelo! (il suono del corno rico-
mincia. A parte) Ancora!
DONA SOL (sorridendo) - Don Juan, riconosco il suono del vostro corno!
HERNANI - Vero?
DofiA SOL - Entrereste forse un po' in questa serenata?
HERNANI - Un po', hai detto bene.
DONA SOL - Il ballo è noioso! Oh! Mi piace di più il suono del corno
nel folto dei boschi! E poi è il vostro corno, è come la vostra voce.
(il corno ricomincia a suonare)
HERNANI (a parte) - Ah! la tigre è laggiù che urla, e reclama la sua
preda.
Dof^A SOL - Don Juan, quest'armonia mi riempie il cuore di gioia.
HERNANI (drizzandosi, terribile) - Chiamatemi Hernani! chiamatemi
Hernani! Non ho ancora finito con questo nome fatale!
DONA SOL (tremante) - Che avete?
HERNANI - Il vecchio!
DoffA SOL - Dio! che sguardo funereo! Che avete?
HERNANI - Il vecchio, che ride nelle tenebre! Non lo vedete?
DONA SOL - Perdete la ragione? Cos'è questo vecchio?
HERNANI - Il vecchio!
DONA SOL (buttandosi in ginocchio) - Ti supplico in ginocchio, oh!
dimmi, quale segreto ti strazia? Cos'hai?
4. • Tetro francete
82 VICTOR HUGO
HERNANi - L'ho giurato!
DONA SOL - Giurato? (segue ansiosamente tutti i suoi movimenti. Her-
nani si ferma improvvisamente e si passa la mano sulla fronte)
HERNANi {a parte) - Che stavo dicendo? Risparmiamola, {ad alta voce)
Io, nulla. Di cosa t'ho parlato?
DONA SOL - Avete detto...
HERNANi - No, no. NoH sapevo cosa dicevo... Mi sento un po' male, sai.
Non ti spaventare.
DONA SOL ' Ti occorre qualche cosa? ordina alla tua serva, (ricomincia
il suono del corno)
HERNANi (a parte) - Lo vuole! lo vuole! ha il mio giuramento! (porta
la mano atta cintola senza spada e senza pugnale) Nulla! E avreb-
be dovuto esser già fatto!...
DONA SOL - Soffri molto?
HERNANi - Una vecchia ferita, che sembrava chiusa, si apre... (a parte)
Allontaniamola, (ad alta voce) Dona Sol, amor mio, senti. Quel
cofanetto che — in giorni meno felici — portavo con me...
DONA SOL - So che cosa vuoi. Ebbene, che vuoi farne?
HERNANi . C'è rinchiuso un flacone con un elisir che potrà far cessare
il male che provo. Va'!
Dof^A SOL - Vado, mio signore, (esce dalla porta della camera nuziale)
SCENA QUARTA
HERNANI, solo
Ecco che cosa lui viene a fare della mia felicità! Ecco il dito
fatale che brilla sul muro! Oh! il destino si beffa amaramente di
me! (rimane assorto in una meditazione profonda e agitata, poi si
volge bruscamente) Ebbene?... Ma tutto tace. Non sento avvicinarsi
niente. Se mi fossi sbagliato!...
(la maschera in domino nero appare in cima alla scalinata. Hernani si
ferma impietrito)
HERNANI 83
SCENA QUINTA
HERNANI, LA MASCHERA
LA MASCHERA - (( Qualunque cosa accada, quando tu vorrai, vecchio, in
qualsiasi luogo, a qualsiasi ora, se ti verrà in mente che è tempo
ch'io muoia, vieni, suona questo corno e non ti preoccupare d'al-
tro. Tutto sarà compiuto! ». Questo patto ebbe per testimoni i mor-
ti. Ebbene, tutto è fatto?
HERNANI {a bassa voce) - È lui!
LA MASCHERA - Veugo in casa tua a dirti che è tempo. Questa è la mia
ora. Ti trovo in ritardo.
HERNANI - Bene. Cosa vuoi fare? Che farai di me? Parla.
LA MASCHERA - Puoi Scegliere tra il ferro o il veleno. Ho con me il ne-
cessario. Partiremo tutti e due. ,
HERNANI - Sia come vuoi.
LA MASCHERA - Preghiamo?
HERNANI - Che importa?
LA MASCHERA - Che cosa scegli?
HERNANI - Il veleno.
LA MASCHERA - Bene! Dammi la mano, {porge una fiala a Hernani, che
la prende impallidendo) Bevi, perché io la possa finire.
(Hemani avvicina la fiala alle labbra, poi indietreggia)
HERNANI - oh! per pietà, domani. Oh! se ti resta un cuore, duca, o al-
meno un'anima, se non sei uno spettro sfuggito alle fiamme in-
fernali, un dannato, ormai fantasma o demonio, se Iddio non ha
ancora scritto sulla tua fronte: giammai! se tu sai cos'è quella su-
prema felicità di amare, di aver vent'anni, e sposarsi quando si è
innamorati, se mai donna amata ha tremato fra le tue braccia,
aspetta fino a domani! Domani ritornerai!
LA MASCHERA - Ingenuo chi parla cosi! Domani! domani! Tu scherzi!
Le campane stamani suonavano per i tuoi funerali! Che farei, io,
stanotte? Ne morrei. E, dopo, chi verrebbe a prenderti e a portarti
via? Scendere solo nella tomba! Giovanotto, bisogna seguirmi.
HERNANI - Ebbene, no! e io mi sbarazzo di te, demonio! Non obbedirò.
LA MASCHERA - Me Timmagiuavo. Benissimo. Su che m'hai fatto que-
84 VICTOR HUGO
Sto giuramento? Ah! su nulla! su poca cosa, dopotutto! La testa di
tuo padre! Questo si può dimenticare. La giovinezza è incostante.
HERNANi - Mio padre! Mio padre!... Ah! impazzirò!
LA MASCHERA - No, non si tratta che di uno spergiuro e di un tradi-
mento.
HERNANI - Duca!
LA MASCHERA - Dato che i capi delle casate spagnole si divertono ormai
a non mantenere la parola data, addio! {fa un passo per andarsene)
HERNANI - Non andartene.
LA MASCHERA - Allora...
HERNANI - Vecchio Crudele! {prende la fiala) Tornare indietro quan-
d'ero giunto fino alla porta del cielo!
(rientra Dona Sol senza vedere la maschera che è in piedi, in fondo)
SC^NA SESTA
GLI STESSI, DONA SOL
Dof^A SOL - Non son riuscita a trovarlo, quel cofanetto.
HERNANI {a parte) - Dio! è lei! in che momento!
DONA SOL - Che cos'ha? La mia voce lo spaventa, lo fa vacillare! Cos'hai
in mano? che orribile sospetto! che cos'hai in mano? rispondi. (//
domino s'è avvicinato e si toglie la maschera, Lei getta un grido e
riconosce don Ruy) È un veleno!
HERNANI - Gran Dio!
DONA SOL {a Hernani) - Che t'ho fatto? che orribile mistero! Voi m'in-
gannavate, Don Juan!
HERNANI - Ah! ho dovuto tacere con te! Ho promesso di morire al
duca che mi salvò! Aragon deve pagar questo debito a Silva.
DONA SOL - Voi non siete suo, ma mio. Che m'importa di tutti gli altri
giuramenti! {a don Ruy Gomez) Duca, l'amore mi rende forte. Lo
difenderò contro voi, duca, contro tutti.
DON RUY GOMEZ {immobile) ' Difendilo contro un giuramento, se puoi.
DONA SOL - Quale giuramento?
HERNANI - Ho giurato.
DONA SOL - No, no, non sei legato da niente. Non può essere! È un de-
litto! un attentato! una pazzia!
HERNANI 85
DON RUY GOMEZ - Andiamo, duca.
{Hernani fa un gesto come per obbedire. Dona Sol cerca di trasci-
narlo via)
HERNANI - Lasciatemi, Dona Sol. È necessario. Il duca ha la mia parola
e mio padre è lassù!
Dof5A SOL {a don Ruy Gomez) - Sarebbe meglio per voi andare a por-
tar via i loro cuccioli alle tigri piuttosto che portar via a me l'uo-
mo che amo! Sapete chi è Dona Sol? Ho fatto per tanto tempo la
fanciulla dolce, innocente e timida perché avevo pietà della vostra
età, dei vostri sessant*anni; ma vedete questi occhi umidi di lacrime
di rabbia? {estrae un pugnale nascosto in seno) Vedete questo pu-
gnale? Ah! vecchio insensato, non avete paura della lama quando
lo sguardo è minaccioso? Fate attenzione, Don Ruyl Sono della
stessa famiglia, zio! Ascoltatemi. Anche se fossi vostra figlia, guai
a voi se metteste le mani sul mio sposo! (getta via il pugnale e cade
in ginocchio dinanzi al duca) Ah! mi getto ai vostri piedi! Abbiate
pietà di noi! Grazia! Ahimé! mio signore, non sono che una don-
na, sono debole, la mia forza si esaurisce tutta dentro di me, e
crollo facilmente. Cado in ginocchio di fronte a voi! Ah! Ve ne
supplico, abbiate pietà di noi!
DON RUY GOMEZ - Dona Sol!
DONA SOL - Perdonatemi! In noi spagnoli il dolore s'esprime con parole
pungenti, voi lo sapete. Ahimé! non eravate cattivo! Pietà! Se lo uc-
cidete, mi uccidete, zio! Pietà! lo amo tanto!
DON RUY GOMEZ (cupo) - Lo amate troppo!
HERNANI - Tu piangi!
DONA SOL - No, no, non voglio che tu muoia, amor mio. No! non vo-
glio, (a Don Ruy) Fate grazia! Vorrò bene anche a voi.
DON RUY GOMEZ - Dopo di lui! Con questi avanzi d'amore, di amicizia^
meno ancora, credete forse di calmare la sete che mi brucia? (indi-
cando Hernani) Lui è il solo! Lui è tutto! Ma io, bella pietà! Che
me ne faccio io della vostra amicizia? O rabbia, lui avrebbe il vo-
stro cuore, il vostro amore, il trono, e a me farebbe l'elemosina
d'un vostro sguardo! E se i miei desideri insensati reclamassero
una parola, sarebbe lui a dirvi: « Di' cosf, basta! » maledicendo
sottovoce l'avido mendicante a cui bisogna gettare il fondo del bic-
chiere vuoto! Vergogna! derisione! No. Bisogna finirla. Bevi.
HERNANI - Ha la mia parola e io devo mantenerla.
DON RUY GOMEZ - SuVvia!
86 VICTOR HUGO
{Hernani avvicina la fiala alle labbra. Dona Sol si butta sul suo brac-
cio)
DONA SOL - Ohi non ancora! Degnatevi ascoltarmi tutti e due.
DON RUY GOMEZ - Il sepolcfo è aperto e io non posso aspettare.
DONA SOL - Un istante! Mio signore! Mio Don Juan! Ah! siete davvero
crudeli tutti e due! Che cosa voglio da voi? Un istante! Ecco tutto
quello che reclamo! Laciate dire finalmente a questa povera donna
quello che ha nel cuore!... oh! lasciatemi parlare!
DON RUY GOMEZ {a Hernani) - Ho fretta.
DONA SOL - Miei signori, mi fate tremare! Ma che cosa vi ho fatto?
HERNANI - Ah! le sue grida mi straziano.
DONA SOL {trattenendogli sempre il braccio) - Vedete bene che ho mille
cose da dire!
DON RUY GOMEZ {a Hcmani) - Bisogna morire.
DONA SOL (sempre aggrappata al braccio di Hernani) - Don Juan,
quando avrò parlato tu farai tutto ciò che vorrai, (gli strappa di
mano la fiala) L'ho io! (alza la fida fino agli occhi di Hernani e
del vecchio sbalordito)
DON RUY GOMEZ - Don Juan, poiché qui ho a che fare solo con due don-
ne, bisogna che vada altrove a cercare un uomo. Tu fai dei bei giura-
menti sul sangue da cui esci; vado dai morti a parlarne con tuo
padre! Addio! {fa alcuni passi per uscire. Hernani lo trattiene)
HERNANI - Duca, fermatevi! (a Dona Sol) Ahimé! Vuoi farmi diven-
tare menzognero, traditore e spergiuro? Vuoi che mi trascini do-
vunque con il tradimento scritto sulla fronte? Per pietà, rendimi
quel veleno! In nome del nostro amore, della nostra anima immor-
tale!...
DONA SOL (cupa) - Lo vuoi? (beve) Tieni, ora.
DON RUY GOMEZ (a parte) - Ah! l'avevo dunque lasciata per lei!
DofiA SOL (restituendo a Hernani la fiala semivuota) - Prendi, ti dico.
HERNANI (a don Ruy) - Guarda, miserabile vecchio!
DONA SOL - Non lamentarti di me, ti ho lasciato la tua parte.
HERNANI (prendendo la fiala) - Dio! Dio!
DONA SOL - Tu non m'avresti lasciato la mia parte come ho fatto io.
Tu! Tu non hai il cuore di una sposa cristiana. Tu non sai amare
come ama una Silva. Ma ho bevuto per prima e sono tranquilla.
Va'! Bevi, se vuoi!
HERNANI - Ahimé! Che hai fatto mai, infelice?
DONA SOL - Sci tu che l'hai voluto.
HERNANI - È una morte orribile!
HERNANI 87
DONA SOL - No. Perché mai?
HERNANI - Questo fUtTo coiiduce alla tomba.
DONA SOL - Non dovevamo forse dormire insieme stanotte? Che im-
porta in quale letto?
HERNANI - Padre mio, ti vendichi su di me che dimenticavo! {porta la
fida alla bocca)
DONA SOL {gettandosi su dì luì) - Cielo! che strani dolori!... Ah! getta
via quel filtro! Perdo la ragione. Fermati! Ahimé, mio Don Juan,
quel veleno è cosa viva! quel veleno fa nascere in cuore un'idra
con mille denti che rosicchiano e divorano! Oh! non sapevo che
si soffrìsse fino a questo punto! Ma cos*è mai codesto veleno? è
fuoco! Non bere! Oh! soffriresti troppo!
HERNANI {a Don Ruy) - Oh ! hai un'anima crudele. Non potevi scegliere
un altro veleno per lei? {beve e getta via la fiala)
DONA SOL - Che fai?
HERNANI - E tu, che hai fatto?
DONA SOL - Vieni fra le mie braccia, o mio giovane amante, {si siedono
uno vicino ali* altra) Non è vero che si soffre terribilmente?
HERNANI - No.
DofJA SOL - Ecco incominciata la nostra notte di nozze! Dimmi, sono
troppo pallida per una fidanzata?
HERNANI - Ah!
DON RUY GOMEZ - Il destino si compie.
HERNANI - Oh disperazione! oh tormento! Dona Sol soffre e io devo
vederlo!
Dof^A SOL - Calmati. Sto meglio. Fra poco apriremo insieme le nostre
ali verso una nuova luce. Partiamo con un volo uguale verso un
mondo migliore. Un bacio solo, un bacio! {si baciano)
DON RUY GOMEZ - Che tortura!
HERNANI {con vocc flebile) - Oh! benedetto il cielo che m'ha dato una
vita circondata di abissi e accompagnata da spettri, ma che mi
permette di addormentarmi, stanco d'un si duro cammino, con le
labbra sulla tua mano!
DON RUY GOMEZ - Come sono felici!
HERNANI (con vocc scmpTc piti debole) - Vieni, vieni... Dona Sol... tutto
è buio... Soffri?
doSa SOL {anche lei con voce spenta) - Niente, più niente.
HERNANI - Vedi delle luci nell'ombra?
DofiA SOL - Non ancora.
HERNANI {con un saspiro) - Ecco... {cade)
VICTOR HUGO
DON RUY GOMEZ {sollevandogli la testa che ricade) - Morto I
Dof^A SOL (scarmigliata, rialzandosi un foco) - Morto! no! noi dor-
miamo. Dorme. È il mio sposo, vedi. Ci amiamo. Siamo sdraiati
qui. È la nostra notte di nozze, {con voce che va spegnendosi) Non
lo svegliate, signor duca di Mendoza. È stanco, {pra verso di sé
il volto di Hernant) Amor mio, stai voltato verso di me... Piò vi-
cino... ancora più vicino... (cade)
DON RUY ooMEZ - Morta! Oh! sono dannato, (si uccide)
La presente traduzione è a cura di Liano Petroni,
ALFRED DE MU8SET
Intorno al 1830, Alfred de Mussct è un giovane brillante (è
nato a Parigi TU novembre 1810) che frequenta i caffé e i cenacoli
alla moda, discute di musica e di pittura, scrive versi sulla Spa-
gna e sull'Italia (che non ha ancora vista), si sente già ricco di scet-
tica esperienza e vittima felice «de ce dieu fainéant qu'on nom-
me fantaisie >. Il precoce saggio, che resterà sempre immaturo, ser-
ve pure il demone della contraddizione e dei travestimenti senza
maschera, mostrando un certo compiacimento nel vedersi doppio
e confuso nelle proprie illusioni. « C'est qu'on pleure en riant;
c'est qu'on est innocent - Et coupable à la fois; c'est qu'on se
croit parjure - Lorsqu'on n'est qu'abusc... > : cosi filosofeggia in
Namouna (1832) il mistificato «enfant terrible> dell'ironia e del
fervore che adora tutto con giovanile entusiasmo fingendo di non
prendere sul serio nessuno. Romantico fino alla cima dei capelli
e dichiarato nemico di lune e laghi, classico per capriccio e per di-
spetto, Musset piange e ride, e ride piangendo, davanti allo spet-
tacolo roseo ed air«océan hideux> del mondo, si dissipa nelle
taverne dorate fra le facezie di Mardochc e le malinconie dei
Voetix stérilcs (1831), si esalta con Manon e con don Giovanni,
disserta su Lovelace «roué san coeur> e su Valmont, folleggia
con la musa erratica di Namouna o si porta col fatale Rolla in una
casa di prostituzione dove, gemendo sull'angelo contaminato, in-
veisce contro l'orrido sorriso di Voltaire e versa lagrime sulla muta
cenere del Golgota.
«Je ne crois pas, 6 Christ, à ta parole sainte»: tuttavia «il
meno credulo figlio di un secolo senza fede > ha una mistica ado-
razione per un idolo che gli promette infinite beatitudini. « Heu-
reux un amoreux! — sospira il diciannovenne Mardoche, — ...sa
folie au front lui met une couronne, - A l'épaule une pourpre... ».
92 ALFRED DE MUSSET
« Doutez de tout au monde et jamais de Tamourl >, grida qualche
anno dopo in una epistola poetica premessa alla Coupé et les Le-
vres. Ma Rolla-Alfredo, che nella realtà della vita ha finora cono-
sciuto soltanto il volto triviale dell'idolo, comincia a sentire il vuoto
del € flacone > (o della donna qualunque) che dà l'ebbrezza, ha il
presentimento — come scrive il fratello Paolo — e magari la spe-
ranza di un vero grande amore e di una buona grande sventura.
L'uno e l'altra lo aspettano a Venezia, nell'infausto 1834, con la
malattia e il memorabile tradimento che trasforma la vanessa Mar-
doche-Hassan in querulo « pellicano >.
Dal '35 al '38 Musset non farà che allargare «la saintc bles-
surc >, donde sgorgano le declamate Confessions d*un enfant du
siede, il torrente lirico delle NuitSy una lettera d'amore a Lamar-
tine, dal quale avrà un'insolente risposta, una lettera di speranza
a Dio, dal quale non spera nessuna risposta. «Me voilà seuI, er-
rant, fragile > : il troppo debole cuore perdona all'infedele, ma re-
sterà fedele alla cara sventura, della quale porta con ostentazione
il lutto. Nel 1840 l'uomo di trent'anni si sente ormai finito (« J'ai
perdu ma force et ma vie... >), mentre si fanno sempre più rare
le visite della Musa al poeta stanco che divaga fra gl'incontri con
il sepolcro imbiancato del morto amore e i pellegrinaggi del ricor-
do negli splendidi luoghi del sinistro. « Tu l'as vu, ce cicl enchan-
té?... Linceul d'or sur des ossements! - Ci-git Venise... Là mon pau-
vre coeur est reste! >. Poi sono, fra le distrazioni e le tardive sod-
disfazioni offerte dal teatro, i lunghi silenzi rotti da qualche gra-
ziosa canzone e da tristi « complaintes », gl'incubi e le allucina-
zioni dell'infermo, la grande pietà di una vita dissipata, con l'an-
goscia « dell'ora della morte che suona da ogni parte », e che viene
il primo maggio 1857, quando da un pezzo « il principe della gio-
ventù » non era che la squallida ombra di se stesso.
Gli amici e i biografi, le donne che in tempi diversi lo conob-
bero più da vicino (la fredda George Sand, la buona Louise Al-
lan-Despréaux) sono concordi nel dirci che in Musset c'erano due
uomini, il cinico e l'entusiasta, il tenero e il violento, il delizioso
«causeur» e il nevrastenico insopportabile. Lo stesso poeta, del
resto, non ha mai cessato di fare il processo a porte aperte al Nar-
ciso bifronte, traducendo in stile settecentesco e in romantici fiori
PRESENTAZIONE 93
di dubbio gusto quello che sarà il baudelairiano conflitto<olloquio
di Spleen e Ideale, riducendo in « marivaudage > e in ambigua mi-
niatura, il «doublé» ncrvaliano, Tangelo-demone di Rimbaud^
il Pierrot patetico e vizioso di Verlaine. « Figlio del secolo >, dun-
que, nel vivere e soprattutto nel portare alla ribalta il dramma in-
timo dell'* homo duplex >, Musset è in anticipo (o in ritardo) sul
tempo per le ingenue sfide allo scandalo e per la sua imprudente
maniera di mettere nello stesso trasparente sacco Mardoche e Rolla,
la tragedia di Leporello e la farsa di don Giovanni, il melodram-
ma che « fa piangere Margot » e la fiaba di una Notte di mezza
estate.
Dandy allo specchio e clown in continua esibizione, l'eroe
della propria commedia lagrimosa ha la naturale vocazione del
teatro, sembrerebbe il più legittimo rappresentante di quel teatro
grottesco di cui Hugo s'è fatto il rumoroso banditore. Può quindi
sorprendere allorché, nelle Lettere de Dupuis et de Cotonnet
(1836), lo si trova a deridere il «guazzabuglio» della prefazione
di Cromwell e il dramma che sposa il comico con il tragico, che
si veste di bianco e di nero, che agita con una mano il pugnale e
con l'altra la « marotte > del buffone. E l'atteggiamento di Musset
è tanto più singolare in quanto il suo teatro è all'insegna del « folle
o triste dio » della fantasia che tira e imbroglia i fili di personaggi
che passano con volubilità dal riso al pianto, che maneggiano il
pugnale di Lorenzino de' Medici (o di Belcolore) e la buffonesca
lenza di Fantasio, che vivono di capricci, di sbadigli, di finte e di
giuochi, ma che sono pure capaci di morire d'amore. Il che non
toglie che il teatro di Musset sia effettivamente agli antipodi di
quello di Hugo, appaia nel romantico mare come la romantica iso-
la dell'anacronismo, dove s'incontrano in paradossale convivenza
le ombre piti o meno vaghe di Racine e di Shakespeare, di Walter
Scott e di Casanova, del Boccaccio e del Leopardi (il cui « libret-
to vale un'epopea >), di Marivaux, di Beaumarchais e di Carmon-
telle.
Gli esordi del Mardoche che si sognava Shakespeare non fu-
rono brillanti. La grottesca parodia dei Marrons du feu (pubbli-
cata nei Contes) passa inosservata, la puerile fantasia satanica della
Quittance du diable resta fra le carte inedite, mentre la comme-
94 ALFRED DE MUSSET
diola La Nuit vénitienne^ rappresentata il 1830, scatena un uragano
di fischi. Disgustato del pubblico, il giovane poeta decide di riser-
vare i prodotti del suo estro dranunatico al libro ed ai lettori della
Rcpue des Deux Mondes. Il 1832 Amleto e Ariele si trovano an-
cora uniti e divisi nello e Spectacle dans un fauteuil >, l'uno gros-
solanamente mascherato, nella Coupc et Ics Lèvres, da Mefistofele
e da eroe byroniano, l'altro folleggiarne nei graziosi travestimenti
settecenteschi della commedia A quoi révent les jeuncs filles. Mus-
set lavora alacremente cercando in varia direzione la sua strada.
Il 1833 tenta con Andrea del Sarto la tragedia familiare del genio
tradito, scrive la brillante commedia lagrimosa dei Caprices de
Marianne, inizia — utilizzando un canovaccio della Sand e le
Cronache fiorentine del Varchi — il draminone Lorenzaccio, che
sarà finito Tanno dopo e che sarà rappresentato con successo sol-
tanto il 1896. Prima di partire per l'Italia ha scritto Fantasio (piace-
vole farsa dove l'impertinente Mardoche, travestito da buffone, fa
volare in aria «au bout d'un hame9on> la parrucca del duca di
Mantova), dopo il triste ritorno pubblica, nel luglio del 1834, il
piccolo capolavoro On ne badine pas avec l'amour^ dove il « felice
stratagemma » finisce in tragedia di cuori.
€ En se plaignant on se console >, pretende la Musa delle ì^otti,
E il figlio del secolo si sottrae al e severo dio del silenzio > di-
straendosi a modo suo — e in frequente compagnia dell'autore del
]eu, àcìVEpreuve, dcìVHeureux stratagème — in una serie di com-
medie e di < proverbi > sceneggiati che traggono materia da varia
fonte e dalla duplice immagine di Narciso. Dopo La Quenouille
de Barbarine (1835), ispirata da una novella del Bandelle, vengono
Le Chandelier (1835) che abbellisce un'avventura personale, // ne
faut jurer de rien (1836), Un Caprice (1837), // faut qu'une porte
soit ouverte ou fermée (1845), On ne saurait penser à tout (1849;
imitato dal Distratto di Carmontelle), Louison (1849, in versi),
Carmosine (1850) tratto da una novella del Boccaccio, Bettine
(1851), L'Ane et le ruisseau (1855). Frammenti e progetti dimo-
strano il continuo interesse di Musset per il teatro.
Tutti sanno — scriveva Paolo de Musset nella biografia del
fratello — che Alfredo rassomigliava ai due personaggi, che sem-
brano agli antipodi, di Ottavio e di Celio. Ed è pure evidente che
PRESENTAZIONE 95
Musset scherza o declama con i suoi piccoli Casanova e con i suoi
don Giovanni sentimentali, vive con loro le sue avventure reali o
immaginarie, dà qualcosa del suo carattere al traviato redento Lo-
renzaccio, al cinico benefico Parnasio, al candido malizioso Fortu-
nio, al falso scettico Valentino (// ne jaut jurer de rien), allo scet-
tico punito Perdicano (On ne badine pus uvee l'amour) e ad altri
eroi di costante incostanza. Una cosi frequente intrusione dell'au-
tore nel personaggio — e di un autore che non pecca per eccesso
di controllo — farebbe temere il pericolo della monotonia e i ri-
schi degli straripamenti lirici. Accade invece che, «rappresentan-
dosi », la personalità doppia si sdoppia, o risolve le proprie contrad-
dizioni nei legittimi contrasti di commedia e dramma, si diversifi-
ca nella varietà delle situazioni, trova nel giuoco immaginario il
correttivo della materia e dell'esigenza scenica. Il lirico Musset, in-
somma, possiede il dono del teatro : e nel teatro — nel brillante del-
la prima età, come nel grigio malinconico della matura stagio-
ne — la divulgazione resta per lo pid nella grazia della favola e
nell'economia della storia, lo spirito paradossale incontra la misura
nella fantasia, il poeta dà il meglio di se stesso — e del teatro
romantico — nella sobria eleganza di una classicheggiante prosa.
Singolari anche gli infortuni e le fortune del poeta e del dram-
maturgo. I « grandi > del suo tempo non lo presero sul serio (« Oh!
malheur à celui qui joue avec sa lyre », esclamava lo scandalizzato
Lamartine; « C'est un des artistes éphcmères, — scriveva Hugo, —
avec qui la gioire n'a rien à faire >), gli artisti puri della seconda
generazione lo coprirono di insulti e si vergognavano di averlo ado-
rato, il pubblico ne ignorò per lungo tempo commedie e Proverbi.
Verso il 1845 qualcuno pensò di portare sulla scena Un Caprice,
ma solo nel 1847 l'attrice Allan-Despréaux reduce dalla Russia
(dove la commediola era rappresentata da un pezzo) potè farla
conoscere al pubblico parigino. Fu un grande successo che appare
tanto più sorprendente in quanto era cominciato il regno di Au-
gier e di Dumas figlio. Musset si dà allora a rimaneggiare le vec-
chie opere per adattarle alla scena (nel '48 sono rappresentati An-
drea del Sarto, Le Chandelier, Il ne jaut jurer de rien. Il faut
qu'une porte soit ouverte ou fermée; e quindi, nel 1851, Les Capri-
ces de Marianne, pubblicati nella nuova versione il 1853) e si met-
96 ALFRED DB MUSSET
te a scrivere per il teatro. Ma egli è ormai stanco e il pubblico
distratto. Molti dei vecchi lavori rifatti e dei nuovi non vedono la
luce della ribalta che dopo la sua morte. Ai nostri giorni, mentre il
poeta lirico continua a suscitare riserve e diffidenze, il dramma-
turgo è in continua ascesa. La critica parla di Lorenzaccio come
di un capolavoro, registi ed attori (Baty, Copcau, Barrault, Escan-
de) gareggiano, dal 1918, nel mettere in scena le fantasie dram-
matiche del figlio del secolo — e di un vecchio mondo — che sem-
bra parlare il linguaggio < attuale » di Marivaux e di Giraudoux.
Non è possibile fare cenno delle molte edizioni comparse in vita
e dopo la morte di Musset. Ci limitiamo a indicare le Opere comple-
te dell'edizione Charpentier (1865-'66, dicci volumi in quarto) e so-
prattutto recccUente edizione di M. Allem {Poésies complètes, 1951;
Théàtre compiei, 1952; Bibl. de la Pleiade). Per Les Caprices de Ma-
rianne si veda l'edizione critica datane nel 1910 da G. Michaut.
Per la critica cfr. LcmaiUc, Introduction au théàtre d'A. de A/.,
1889; L. Lafoscadc, Le Théàtre d'A de A/., 1901; J. Pommier, A prò-
pos de Lorenzacào, 1927; P. Dimoff, La genèse de Lorenzaccio, 1936;
H. Lefebvre, A, de M, dramaturge, 1955.
I eaprìeeì di Narìaima
7. • Tetro friuietBe
PERSONAGGI
CLAUDIO, podestà
OTTAVIO
CELIO
TIBIA, servitore di Claudio
PIPPO, servitore di Celio
MALVoLio, sovrintendente di Hermia
UN GARZONE d'oSTERIA
DOKCESTICI DI MARIANNA
DOMESTICI DI HERMIA
DUE SPADACCINI
MARIANNA, tnogUe di Caudio
HERMIA, madre di Celio
La scena è a "Napoli, Costumi iudiani dell'epoca di Francesco l.
I CAPRICCI DI MARIANNA
ATTO PRIMO
Una piazza di fronte alia casa di Claudio,
SCENA PRIMA
CELIO, PIPPO
CELIO - Ebbene, Pippo, hai visto Marianna?
PIPPO - Sf, Signore.
CELIO - Che t'ha detto?
PIPPO - È sempre più piena di devozione e d'orgoglio. Dice che
informerà suo marito, se si continua a tormentarla.
CELIO - Ah! quanto sono infelice! non mi resta che morire! Ah! la piò
crudele di tutte le donne!... E tu, Pippo, che mi consigli? Quali
espedienti posso ancora escogitare?
PIPPO - Intanto, vi consiglio di non restare costi, perché ecco il marito
che arriva, (si allontanano ambedue verso il fondo della scena)
SCENA SECONDA
CLAUDIO, TIBIA
CLAUDIO - Sei tu un mio fedele servitore? il mio cameriere devoto?
Sappi che devo vendicarmi di un oltraggio.
TIBIA - Voi, Signore?
CLAUDIO - Proprio io, giacché quelle impudenti chitarre non la smet-
tono di sussurrare sotto le finestre di mia moglie. Ma, pazienza!
non è finito tutto, (scorge Celio e Pippo) Avvicinati un po' qui:
100 ALFRED DE MUSSET
c'è là della gente che potrebbe sentirci. Stasera andrai a cercarmi lo
spadaccino di cui t'ho parlato.
TIBIA - Per far che?
CLAUDIO - Credo che Marianna abbia degli amanti.
TIBIA - Credete, Signore?
CLAUDIO - Si, c'è odore d'amanti, intorno a casa mia; nessuno passa
con naturalezza davanti alla mia porta; ci piovono chitarre e bi-
glietti segreti.
TIBIA - E voi potete impedire che si facciano delle serenate a vostra
moglie?
CLAUDIO - No; ma posso appostare un uomo dietro il cancello, e sba-
razzarmi del primo che entri.
TIBIA - Eh via! vostra moglie non ha degli spasimanti... È come se di-
ceste che io ho delle amanti.
CLAUDIO - E perchè non dovresti averne, Tibia? Sei brutto, si, ma
non sei davvero uno sciocco.
TIBIA - D'accordo, d'accordo.
CLAUDIO - Vedi, Tibia, lo riconosci anche tu; non c'è alcun dubbio e
il mio disonore è pubblico.
TIBIA - Perché pubblico?
CLAUDIO - Te lo dico io che è pubblico.
TIBIA - Ma, Signore, vostra moglie è additata in tutta la città come
un esempio di virtó. Non vede nessuno, non esce di casa altro che
per andare a messa.
CLAUDIO - Lasciami fare; sono fuori di me dalla rabbia. Dopo tutti i re-
gali che lei ha ricevuto da mei... S(, Tibia, sto tramando una
macchinazione terribile, e quasi mi sento morir di dolore.
TIBIA - Oh, ma no!
CLAUDIO - Quando ti dico qualcosa, fammi il piacere di credermi.
{escano)
SCENA TERZA
CELIO, solo
Infelice chi, nel pieno della sua giovinezza, s'abbandona a un
amore senza speranza!... Infelice chi si lascia andare a un dolce
sogno, prima di sapere dove lo porti la sua chimera, e se può essere
ricambiato! Mollemente steso entro una barca, lui s'allontana pian
piano dalla riva; scorge in lontananza pianure incantate, verdi
I CAPRICCI DI MARIANNA 101
praterie, e il vago miraggio del suo Eldorado. Le onde lo portan
via silenziose, e quando la Realtà lo sveglia, egli è tanto lontano dal
luogo agognato, quanto dalla riva lasciata. Non può più continuar
la sua strada, né ritornar sui suoi passi. (// sente un suonar di stru-
menti) Che mascherata è questa? Non è forse Ottavio quello che
vedo?
SCENA QUARTA
CELIO, OTTAVIO, che ha sul suo abito un lungo domino aperto, con una
maschera sul viso e una spatola da Arlecchino in mano
OTTAVIO (rivolgendosi al gruppo di maschere che non si vede) - Basta,
amici, tornate a casa. Per oggi avete strimpellato abbastanza, [a
Celio, togliendosi la maschera) Mio caro signore, come sta la vostra
graziosa malinconia?
CELIO - Ottavio!... Pazzo che sei! Hai un palmo di rosso sulle gote.
Dov'hai preso codesto strano abbigliamento? Non ti vergogni, in
pieno giorno?
OTTAVIO - O Celio! pazzo che sei! hai un palmo di bianco sulle gote!
Dov*hai preso codesto strano abbigliamento? Non ti vergogni, in
pieno carnevale?
CELIO - Andavo a casa tua.
OTTAVIO - E anch'io andavo a casa mia. Come sta la mia casa? Non
la vedo da otto giorni.
CELIO - Ho da chiederti un favore.
OTTAVIO - Parla, Celio, ragazzo mio. Vuoi dei quattrini? non ne ho
più. Vuoi la mia spada? eccoti una spatola da Arlecchino. Parla,
parla, disponi di me.
CELIO - Per quanto tempo la durerai cosi... Otto giorni fuori di casa!...
T'ammazzerai, Ottavio.
OTTAVIO - Mai di mia mano, amico mio, mai, preferirei morire piuttosto
che attentare ai miei giorni.
CELIO - E non è forse un suicidio come un altro, la vita che fai?
oiTAVio ' Immagina di vedere un funambolo sulla sua corda, calzato
di stivaletti d'argento, con bilanciere in pugno, sospeso fra il cielo
e la terra; a destra e a sinistra delle vecchie figurine incartapeco-
rite, dei magri e pallidi fantasmi, degli agili creditori, dei parenti
e delle cortigiane, tutta una legione di mostri s'aggrappano al
suo mantello e lo stiracchiano da tutte le parti per fargli perdere
102 ALFRED DE MUSSET
Tequilibrio. Frasi ridondanti, paroloni ben montati gli cavalcano
tutt'intorno; un nugolo di predizioni sinistre Taccieca con le sue
ali nere. Lui continua la sua corsa leggera da Oriente a Occidente.
Se guarda in basso, gli gira la testa; se guarda in alto, gli manca
il piede. Va piti veloce del vento, e tutte le mani tese intorno a lui
non riusciranno a fargli versare una goccia della coppa gioiosa che
tiene in mano. Ecco la mia vita, amico mio; quella che vedi è la
mia immagine fedele.
CELIO - Quanto sei felice d'esser pazzo!
OTTAVIO - Quanto sei pazzo a non esser felice! Dimmi un po', tu, cos*c
che ti manca?
CEUO - Mi manca il riposo, la dolce spensieratezza che fa della vita uno
specchio in cui ogni oggetjo si riflette un istante e su cui tutto sci-
vola. Per me, un debito diventa un rimorso. L'amore, che per
voi altri è un passatempo, sconvolge tutta la mia vita. Amico mio,
tu ignorerai sempre che cosa significa amare come io amo! Il mio
studio è abbandonato; da un mese erro giorno e notte intorno a
quella casa. Quale incanto provo, col sorger della luna, a guidare
sotto quegli alberelli, in fondo alla piazza, il mio modesto coro di
musicisti, a battere il tempo io stesso, a sentirli cantare la bellez2»
di Marianna! £ lei non è mai apparsa alla finestra, non è mai ve-
nuta ad appoggiare la sua fronte incantevole alla persiana.
OTTAVIO - Chi è codesta Marianna? È forse la mia cugina?
CELIO - Proprio lei; la moglie del vecchio Claudio.
OTTAVIO - Non l'ho mai vista; ma è certamente mia cugina. Claudio è
fatto apposta. Confidami quel che t'interessa. Celio.
CELIO - Tutti i mezzi da me tentati per parlarle del mio amore sono
stati inutili. È uscita dal convento, ama suo marito e rispetta i
propri doveri; la sua porta è chiusa per tutti i giovani della città e
nessuno può avvicinarla.
OTTAVIO - Bah! È carina? Quanto sono sciocco! Tu l'ami, il resto non
ha importanza. Cosa potrenmio escogitare?
CELIO - Posso parlarti francamente? Non riderai di me?
OTTAVIO - Lasciami rider di te e parla francamente.
CELIO ' Nella tua qualità di parente, tu devi esser ricevuto in casa sua.
OTTAVIO - Ricevuto, io? non lo so. Ammettiamo che io sia ricevuto. A
dirti la verità, nella mia illustre famiglia 'non formiamo davvero un
gruppo molto unito, e manteniamo rapporti fra noi solo per iscrìtto.
Tuttavia Marianna conosce il mio nome. Dovrei parlarle in tuo
favore?
CELIO - Venti volte ho tentato di andarle incontro; venti volte mi son
I CAPRICCI DI MARIANNA 103
sentito tremar le ginocchia mentre mi avvicinavo a lei. Quando
la vedo, mi sento stringer la gola 'e mi sembra di soffocare, come se
il cuore mi venisse in gola.
OTTAVIO - L'ho provato. Ed è proprio cosi che nel cuore della foresta,
quando una cerva avanza lentamente sulle foglie secche e il caccia-
tore sente i cespugli scivolarle lungo i fianchi inquieti, quasi fosse
il fruscio di una stoffa leggera, gli comincia a battere il cuore suo
malgrado; lui alza Tarma in silenzio, senza muovere un passo, sen-
za fiatare.
CELIO - Perché mai io sono cosi? Perché non so amar questa donna
come la sapresti amare tu, Ottavio, o come ne amerei un'altra?
Perché tutto ciò che ti farebbe felice e premuroso, tutto ciò che atti-
rerebbe te come Tago della calamita attira il ferro, rende me triste
e inmiobile? Chi potrebbe dire: questa cosa è allegra o triste? La
realtà non è che un'ombra. Chiama fantasia o follia ciò che la divi-
nizza. Allora la follia diventa la bellezza stessa. Ogni uomo cam-
mina avvolto in un velo trasparente che lo copre dalla testa ai pie-
di; egli crede di vedere dei boschi e dei fiumi, dei volti divini, e
l'universale natura si colora sotto i suoi sguardi delle sfumature in-
finite di quel tessuto magico. Ottavio! Ottavio, aiutami I
OTTAVIO - Mi piace il tuo amore, Celio! Fa divagare il tuo cervello come
una bottiglia di vino siracusano. Dammi la mano, ti vengo in aiuto;
aspetta un po'. L'aria mi sferza la faccia e mi fa tornare le idee. Co-
nosco codesta Marianna: mi detesta, molto, senz'avermi mai visto.
È una bambola delicata che segue solo il suo capriccio, una vera ra-
gazza viziata.
CELIO - Fa' quello che vuoi, ma non m'ingannare, te ne supplico. Non
è difficile ingannar me: non riesco a diffidare di un'azione che io
non vorrei fare.
OTTAVIO - Se tu scalassi il muro?
CELIO - A che servirebbe, se lei non mi ama?
OTTAVIO - Se tu le scrivessi?
CELIO - Strappa le mie lettere, o me le rimanda.
OTTAVIO - Se tu ne amassi un'altra?
CELIO - La mia vita appartiene a Marianna; una sola parola che esca
dalle sue labbra può annientarla o farla ardere d'amore. Vivere per
un'altra mi sarebbe più difficile che morire per lei. Silenzio! Eccola
che esce.
OTTAVIO - Allontanati; vado ad attaccar discorso.
CELIO - Dici sul serio? nello stato in cui sei! Pulisciti il viso; hai l'aria
di un pazzo.
104 ALFRED DE MUSSET
OTTAVIO {togliendosi il domino) - Ecco fatto... La follia ed io, mio
caro Celio, siamo troppo cari Tuno all'altra per accapigliarci; lei fa
la mia volontà, come io faccio la sua. Non temere per questo; è da
studente in vacanza, che balla in un giorno di gran festa, perder
la testa e cercar la ragione; io non ho altra ragione che il mio
capriccio; il mio modo di pensare è quello d'abbandonarmi a me
stesso, e parlerei al re, in questo momento, come parlerò alla tua
bella.
CELIO - Non so che cosa provo. No, non parlarle.
OTTAVIO - Perché?
CELIO - Non posso dire perché, ma mi sembra che tu debba ingan-
narmi.
OTTAVIO - Qua la mano. Da quando sono al mondo non ho ancora in-
gannato nessuno, e non comincerò certo dal mio migliore amico.
(Celio esce)
SCENA QUINTA
OTTAVIO, MARIANNA
OTTAVIO - Non allontanatevi, principessa di beltà! Lasciate cadere uno
dei vostri sguardi sul più umile dei vostri servitori.
MARIANNA - Chi siete?
OTTAVIO - Il mio nome è Ottavio; sono cugino di vostro marito.
MARIANNA - Venite a trovarlo? entrate in casa, sta per tornare.
OTTAVIO - Io non vengo a trovarlo e non entrerò affatto in casa, per ti-
more di esserne scacciato da voi fra poco, quando vi avrò detto
perché sono venuto.
MARIANNA - Dispensatevi dunque dal dirmelo e non trattenetemi oltre.
OTTAVIO - Non saprei dispensarmene, e vi supplico di fermarvi per
ascoltarlo. Crudele Marianna! I vostri occhi hanno causato un gran
male, e le vostre parole non sono fatte per guarirlo. Che vi aveva
fatto Celio?
MARIANNA - Di chi parlate e che male ho causato?
OTTAVIO - Un male più crudele di tutti gli altri, perché è un male sen-
za speranza; il più terribile, perché è un male che si compiace di
se stesso e respinge la coppa salutare anche quando gli è porta dalle
mani dell'amicizia; un male che fa impallidire le labbra sotto ve-
leni più dolci dell'ambrosia, e scioglie in una pioggia di lacrime il
I CAPRICCI DI MARIANNA 105
cuore più duro, come la perla di Cleopatra; un male che tutti gli
aromi, tutta la scienza umana non riuscirebbero ad alleviare, e che
si nutre del vento che passa, del profumo di una rosa appassita,
del ritornello d'una canzone, e che attinge l'eterno alimento delle
sue sofferenze in tutto ciò che lo circonda, come l'ape succhia il
miele da tutti i cespugli d'un giardino.
MARIANNA - Potrete dirmi il nome di questo male?
OTTAVIO - Possa dirvelo colui che è degno di pronunciarlo! Ve lo inse-
gnino i sogni delle vostre notti, i vostri verdi aranceti, la prima-
vera! Possiate voi cercarlo una bella sera, lo troverete sulle vostre
labbra. Il suo nome non esiste senza di lui.
MARIANNA - È COSI pericoloso dirlo, cosf terribile nel suo contagio, da
spaventare una lingua che parla in suo favore?
OTTAVIO - È COSI dolce a sentirlo dire, cugina, da spingervi a chiederlo?
Voi l'avete insegnato a Celio.
MARIANNA - È Stato ccrto senza volerlo; io non conosco né l'uno né
l'altro.
OTTAVIO - Che voi possiate conoscerli insieme e non separarli mai, ecco
l'augurio del mio cuore.
MARIANNA - Veramente?
OTTAVIO - Celio è il mio migliore amico; se volessi destarvene il deside-
rio, vi direi che è bello come il sole, giovane, nobile, e non men-
tirei; ma voglio destare in voi solo la pietà, e vi dirò che è triste
come là morte dal giorno in cui vi ha vista.
MARIANNA - È colpa mia se è triste?
OTTAVIO - È forse colpa sua se siete bella? Non pensa che a voi; s'aggi-
ra intorno a questa casa in ogni momento. Non avete mai sen-
tito cantare sotto le vostre finestre? Non avete mai sollevato a mez-
zanotte la vostra persiana e la tenda?
MARIANNA - Chiunque può cantare la sera, e questa piaz2» è di tutti.
OTTAVIO - Tutti possono amarvi ma nessuno può dirvelo. Che età ave-
te, Marianna?
MARIANNA - Che bella domanda! E se non avessi ancora diciott'anni,
cosa vorreste che ne pensassi?
OTTAVIO - Dunque vi restano ancora cinque o sei anni per essere amata,
otto o dieci per esser voi ad amare, e il resto per pregare Iddio.
MARIANNA - Davvcro?' Ebbene, per non perder tempo, amo Claudio, vo-
stro cugino e mio marito.
OTTAVIO - Mio cugino e vostro marito non faranno mai, in due, più di
un pedante da villaggio. Voi non amate affatto Claudio.
MARIANNA - Né CcHo; potete dirglielo.
106 ALFRED DE MUSSET
OTTAVIO - Perché?
MARIANNA - Mi direte anche perche vi ascolto? Addio, signor Ottavio;
lo scherzo è durato abbastanza.
SCENA SESTA
OTTAVIO, solo
In fede mia, in fede mia! che begli occhi! Ah! ecco Claudio.
Non è proprio la stessa cosa, e non mi curo davvero di continuare
la conversazione con lui.
SCENA SETTIMA
TIBIA, CLAUDIO, OTTAVIO
CLAUDIO (a Tibia) - Hai ragione...
OTTAVIO {a Claudio) - Buonasera, cugino.
CLAUDIO - Buonasera, {a Tibia) Hai ragione.
OTTAVIO - Cugino, buonasera.
CLAUDIO - Buonasera, buonasera.
SCENA OTTAVA .
TIBIA, CLAUDIO
CLAUDIO - Hai ragione tu, e mia moglie è un tesoro di purezza. Che
dirti di più? è una virtó solida.
TIBIA - Credete, signore?
CLAUDIO - Può forse impedire che cantino sotto le sue finestre? Gli
scatti d'impazienza che può fare quand*è in casa dipendono dal suo
carattere. Hai notato che sua madre, quando ho toccato questo ta-
sto, è stata subito del mio stesso parere?
TIBIA - A che proposito?
I CAPRICCI DI MARIANNA
107
CLAUDIO - A proposito di quello che cantano sotto le sue finestre.
TIBIA - Cantare non è un delitto; anch'io canticchio sempre.
CLAUDIO - Ma cantar bene è difficile.
TIBIA - È difficile per voi e per me, che, non avendo ricevuto in dono
dalla natura una bella voce, non l'abbiamo mai coltivata; ma guar-
date come se la cavano bene gli attori di teatro.
CLAUDIO - Quella è gente che passa la sua vita sul palcoscenico.
TIBIA ' Quanto credete che diano all'anno...
CLAUDIO - A chi? a un consigliere?
TIBIA - No, a un cantante.
CLAUDIO - Non lo so... A un consigliere danno un terzo di quello che
vale la mia carica; gli arciconsiglieri hanno il doppio.
TIBIA - Se io fossi podestà qui, avessi moglie, e mia moglie avesse de-
gli amanti, li condannerei io stesso.
CLAUDIO - A quanti anni di galera?
TIBIA - Alla pena di morte. È una cosa superba leggere ad alta voce
una sentenza di morte.
CLAUDIO - Non è il podestà che la legge; è il cancelliere.
TIBIA - Il cancelliere del vostro tribunale ha una bella moglie.
CLAUDIO - No, è il presidente che ha una bella moglie. Sono stato a
cena con loro, ieri.
TIBIA - Anche il cancelliere! Lo spadaccino che deve venire stasera è
l'amante della moglie del cancelliere.
CLAUDIO - Quale spadaccino?
TIBIA - Quello che avete chiesto.
CLAUDIO - È inutile che venga, dopo quel che t'ho detto poco fa.
TIBIA - A proposito di che?
CLAUDIO - A proposito di mia moglie.
TIBIA - Eccola che viene.
SCENA NONA
TIBIA, MARIANNA, CLAUDIO
MARIANNA - .Sapete che cosa mi è capitato mentre voi andate a zonzo?
Ho avuto la visita di vostro cugino.
CLAUDIO - Chi può mai essere? Chiamatelo col suo nome.
MARIANNA - Ottavio, che mi ha fatto una dichiarazione d'amore da par-
te del suo amico Celio. Chi è questo Celio? Conoscete quest'uomo?
108 ALFRED DE MUSSET
Fate in modo che né lui né Ottavio mettano piede in casa nostra.
CLAUDIO - Lo conosco; è il figlio di Hermia, la nostra vicina. E voi che
cosa avete risposto?
MARIANNA - Non si tratta di quello che ho risposto. Capite quel che
dico? Date ordini ai vostri servitori di non lasciare entrare que-
st'uomo né il suo amico. Mi aspetto qualche noia da parte loro, e
sarei ben lieta di evitarla.
SCENA DECIMA
TIBIA, CLAUDIO
CLAUDIO - Che cosa pensi di quest'avventura, Tibia? C'è qualche tra-
nello, là sotto.
TIBIA - Credete, signore?
CLAUDIO - Perché non ha voluto dire che cosa ha risposto? La dichia-
razione è impertinente, è vero, ma la risposta meritava d'esser co-
nosciuta. Ho il sospetto che il figlio di Hermia sia l'organizzatore
di tutte queste chitarre.
TIBIA - Proibire l'accesso di casa vostra a questi due uomini è un mez-
zo eccellente per allontanarli.
CLAUDIO - Conta pure su me. Bisogna che metta mia suocera al cor-
rente di questa scoperta.
TIBIA - Signore, eccola qua.
CLAUDIO - Chi? mia suocera?
TIBIA - No, Hermia, la nostra vicina. Non parlavate forse di lei, un
momento fa?
CLAUDIO - Si, dicevo che era la madre di quel Celio, ed è la verità.
Tibia.
TIBIA - Ebbene, signore, viene verso di noi con uno, due, tre valletti;
è una donna degna di rispetto.
CLAUDIO - Si, ha dei possessi considerevoli.
TIBIA - Dicono anche che sia di buoni costumi. Se l'avvicinaste, si-
gnore?
CLAUDIO - Ma che dici? La madre di un giovane che forse sarò ob-
bligato a far pugnalare proprio stasera! Sua madre, Tibia! Andiamo,
via! Non riconosco più la tua abitudine alle convenienze. Vieni,
Tibia, rientriamo in casa.
I CAPRICCI DI MARIANNA 109
SCENA UNDECIMA
MALVOLIO, HEIÌMIA, DUE VALLETTTI
HERMiA - Sono Stati eseguiti i miei ordini? È stato detto ai musicisti di
venire?
MALvoLio - Si, signora, saranno ai vostri ordini stasera, o per meglio
dire...
HERMiA - Che c'è da dire? È stato fatto tutto come ho detto, per la
cena? Direte a mio fìgio che mi dispiace di non averlo visto. A che
ora è uscito?
MALvoLio - Per essere uscito, bisognerebbe che prima fosse rientrato.
Ha passato la notte fuori.
HERMiA - Non sapete quel che dite. Ha cenato ieri sera con me e mi ha
riaccompagnata a casa. È stato portato nello studio il quadro che
ho comprato stamani?
MALVOLio - Se fosse vivo suo padre, le cose non andrebbero cosi.
HERMiA - Ma mentre è viva sua madre, vanno cosi, Malvolio. Chi vi
ha incaricato di sorvegliare la sua condotta? Ascoltate bene: che Ce-
lio non incontri sui suoi passi un volto di cattivo augurio; che non vi
senta brontolare cosi fra i denti, o, santo cielo!, non uno di voi
passerà la notte sotto il suo tetto.
MALVOLIO - Io npn brontolo; il mio volto non è di cattivo augurio. Voi
mi chiedete a che ora è uscito il mio padrone, ed io vi rispondo
che non è rientrato. Da quando ha l'amore per la testa, non lo si
vede quattro volte in una settimana.
HERMiA - Perché i libri di Celio sono coperti di polvere? Perché ì suoi
mobili sono in disordine? Perché devo esser io ad occuparmi di tut-
to nella casa di mio figlio, se voglio ottenere qualcosa? Fate pro-
prio bene ad alzare gli occhi su quello che non vi riguarda, quan-
do invece il vostro lavoro è fatto solo a metà, e le incombenze as-
segnate a voi ricadono sugli altri. Andate, e tenete a freno la
lingua.
110 ALFRED DE MUSSET
SCENA DODICESIMA
HERMIA, CELIO
HERMiA - Ebbene, ragazzo mio, quali saranno i vostri svaghi oggi?
CELIO - I vostri, madre mia.
HERMiA [prendendolo sottobraccio) - Come! i piaceri in comune, e non
le pene in comune? È una divisione ingiusta, Celio. Abbiate pure
dei segreti per me, ragazzo mio, ma non di quelli che vi rodono
il cuore, e vi rendono insensibile a tutto ciò che vi circonda.
CELIO - Non ho segreti; e, se ne avessi, piacesse a Dio che fossero tali
da cambiarmi in una statua.
HERMiA - Quando avevate dieci o dodici anni, tutte le vostre pene,
tutti i vostri piccoli affanni facevano capo a me; da uno sguardo
severo o indulgente di questi miei occhi dipendeva la tristezza o la
gioia dei vostri; e la vostra testolina bionda era legata con un filo
ben sottile al cuore della vostra mamma. Ora, ragazzo mio, sono
solo una vostra sorella, incapace forse di consolare le vostre pene,
ma non incapace di condividerle.
CELIO - Madre mia! Anche voi siete stata bella! sotto questo lungo
velo che vi avvolge,' lo sguardo riconosce il portamento maestoso
di una regina. O madre mia! voi avete ispirato l'amore! sotto
le vostre finestre socchiuse ha sussurrato il suono della chitarra; su
queste piazze rumorose, nel turbine di queste feste, voi avete por-
tato la vostra spensierata e superba giovinezza. Voi non avete ama-
to; un parente di mio padre è morto d'amore per voi.
HERMiA - Qual ricordo mi fai tornare in mente?
CELIO - Ah! se il vostro cuore può sopportarne la tristezza, se ciò non
significa spingervi al pianto, raccontatemi questa vicenda, madre
mia; fatemene conoscere i particolari.
HERMiA - Ahimè! ragazzo mio, a qual scopo? Che triste capriccio vi
prende?
CELIO - Ve ne supplico, e ascolto.
HERMiA - Lo volete? Vostro padre non mi aveva mai vista allora. Si
incaricò, perché imparentato con la mia famiglia, di fare accettare
la domanda del giovane Orsini, che voleva sposarmi. Dal vostro
nonno fu ricevuto come meritava il suo ceto, e fu ammesso nella
nostra intimità. Orsini era un partito eccellente, e ciò nonostante
I CAPRICCI DI MARIANNA 111
io rifiutai. Vostro padre, parlando in suo favore, aveva cancellato
dal mio cuore quel po' d'amore che lui mi aveva ispirato in due
mesi di costanti assiduità. Non avevo sospettato la forza della sua
passione per me. Quando gli fu riferita la mia risposta, cadde,
privo di sensi, fra le braccia di vostro padre. Tuttavia una lunga
assenza, un viaggio che fece allora e durante il quale aumentò il
suo patrimonio, dovevano aver cancellato il suo dolore. Vostro pa-
dre mutò la sua posizione e domandò per sé quello che non aveva
potuto ottenere per Orsini. L'amavo di un amore sincero, e la sti-
ma che aveva ispirato ai miei genitori non mi permise di esitare,
n matrimonio fu deciso il giorno stesso, e la chiesa si apri per noi
qualche settimana piò tardi. Orsini ritornò in quell'epoca. Venne
a trovare vostro padre, lo coprf di rimproveri, l'accusò d'aver tra-
dito la sua fiducia e dì esser stato la causa del rifiuto ricevuto. I>el
resto, aggiunse, se avete desiderato la mia morte, sarete soddisfatto.
Spaventato da queste parole, vostro padre si precipitò dal mio e
gli chiese la sua testimonianza per disingannare Orsini. Ahimé,
era troppo tardi; trovarono il povero giovane in camera sua tra-
fitto da un colpo di spada.
CELIO - È finito COSI?
HERMiA - S{, una morte crudele.
CELIO - No, madre mia, non è crudele una morte che viene in aiuto
ad un amore senza speranza. La sola cosa di cui lo compiango è
l'aver creduto d'essere stato ingannato dal suo amico.
HERMiA - Che avete. Celio? voi voltate la testa.
CELIO - E voi, madre mia, siete commossa. Ah! questo racconto vi è
costato troppo, lo vedo bene. Ho fatto male a chiedervelo.
HERMiA - Non pensate alle mie pene, sono solo dei ricordi. Le vostre
mi rattristano di più. Se rifiutate di combatterle, vivranno a lun-
go nel vostro giovane cuore. Non vi chiedo di dirmele, ma le vedo;
e poiché voi prendete parte alle mie, venite, cerchiamo di difender-
ci. Abbiamo a casa dei buoni amici, andiamo a tentare di distrar-
ci. Cerchiamo di vivere, ragazzo mio, e di guardare allegramente
insieme, io il passato, voi l'avvenire. Venite, Celio, datemi la mano.
112 ALFRED DE MUSSET
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
PIPPO, OTTAVIO
OTTAVIO - Che dite? ci rinuncia?
PIPPO - Ahimé! povero giovane! è piò che mai innamorato! mi sembra
quasi che diffidi di voi, di me, di tutto ciò che io circonda.
OTTAVIO - No, in nome del cielo, io non ci rinuncerò. Mi sento come
se fossi un'altra Marianna, e c'è gusto a fare i testardi. O Celio riu'
scirà, o ci perderò la lingua.
PIPPO • E voi agireste contro la sua volontà?
OTTAVIO - S(, per agire secondo la mia, che è la sua sorella maggiore,
e per mandare all'inferno messer Claudio, il podestà, che detesto,
disprezzo e aborro, dalla testa ai piedi.
PIPPO - Dategli dunque voi stesso la risposta, poiché sta arrivando;
io, io me ne lavo le mani.
SCENA SECONDA
OTTAVIO, CELIO
OTTAVIO - Come, Celio, abbandoni la partita?
CELIO (con un libro in mano) - Che vuoi che faccia?
OTTAVIO - Diffidi forse di me? Sei bianco come la neve. Da dove
vieni?
CELIO - Ero da mia madre.
OTTAVIO - Perché tutta questa tristezza?
CELIO - Non lo so. Perdona, perdonami, fa' quello che vuoi; vai a
trovare Marianna, dille che ingannarmi significa uccidermi, e che
la mia vita è nei suoi occhi.
OTTAVIO - Eh! che diamine hai a che fare tu con la morte? A propo-
sito di che cosa ci pensi?
CELIO - Amico mio, l'ho davanti agli occhi.
OTTAVIO - La Morte?
u
I •
*" n^j^
/ Capricci di Marianna, di De Mussct. Interpreti: Marguerite Jamois e Lucicn Nat.
Théàtrc de Montparnasse. Spettacolo di Gaston Baty.
I CAPRICCI DI MARIANNA 113
CELIO - Si, l'Amore e la Morte.
OTTAVIO - Sarebbe a dire?
CELIO - L'Amore e la Morte, Ottavio, si tengono per mano: uno è la
sorgente della più grande felicità che l'uomo possa incontrare quag-
giù; l'altra pone fine a tutti i dolori, a tutti i mali.
OTTAVIO - È un libro quello che hai li?
CELIO - Sì, un libro ^ che probabilmente tu non hai mai letto.
OTTAVIO - Molto probabilmente. Quando se ne legge uno, non c'è ra-
gione per non leggere tutti gli altri.
CELIO (leggenda) - a Quando il cuore prova sinceramente un profondo
sentimento d'amore, sente anche come una fatica ed un languore
che gli fanno desiderar di morire. Perché? non so».
OTTAVIO - Neanch'io.
CELIO (leggendo) - «Forse è l'effetto d'un primo amore, forse questo
vasto deserto in cui siamo spaventa gli sguardi di colui che ama,
forse questa terra non gli sembra più abitabile, se non può trovarvi
quella felicità nuova, unica, infinita, che il suo cuore gli mostra ».
OTTAVIO - Ah! senti, ma, con chi ce l'hai?
CELIO (leggendo) - «Il contadino, il rozzo artigiano che non sa nulla,
la giovinetta timida, che generalmente freme al solo pensiero della
morte, si rincuora quando ama fino a volger lo sguardo su una
tomba». Ottavio, la morte ci conduce a Dio, e i miei ginocchi si
piegano quando ci penso. Buonasera, mio caro amico.
OTTAVIO - Dove vai?
CELIO - Ho da fare in città stasera; addio, fa' quel che vuoi.
OTTAVIO - Hai tutta l'aria di andarti ad affogare. Ma questa morte di
cui parli, ne avresti paura, per caso?
CELIO - Ah! se avessi potuto farmi un nome nei tornei e nelle batta-
glie! se mi fosse stato concesso di portare i colori di Marian-
na e tingerli del mio sangue! se mi fosse stato dato un rivale da
combattere, un esercito intero da sfidare! se il sacrificio della mia
vita avesse potuto esserle utile! io so agire, ma non so parlare. La
mia lingua non aiuta il mio cuore, ed io morrò senza essermi fatto
capire, come un muto in una prigione.
OTTAVIO - Andiamo, Celio, a che pensi? Ci sono altre Marianne sotto
il cielo; ceniamo insieme, stasera, alla barba di codesta Marianna.
CELIO - Addio, addio, non posso trattenermi di più. Ci vedremo doma-
ni, amico mio.
^ I Canti del Leopardi. I passi citati da Celio sono tradotti da Amore e Mor-
(N. d. T.).
Teatro francese
114 ALFRED DE MUSSET
SCENA TERZA
OTTAVIO, solo
Celio, stammi bene a sentirei ti troveremo una Marianna ben
gentile, dolce come un agnello. A dir la verità, è una cosa strana!
Non importa, non cederò. Son come uno che tenesse il banco al
giuoco del faraone per conto di un altro, ed avesse la fortuna con-
traria: piuttosto di cedere affogherebbe il suo migliore amico, e la
rabbia di perdere col denaro di un altro lo eccita cento volte piò
di quel che non farebbe la sua propria rovina. Ah! ecco Marianna
che esce. Va certamente al vespro. Si avvicina lentamente.
SCENA QUARTA
OTTAVIO, MARIANNA
OTTAVIO - Bella Marianna, potete dormire tranquilla. Il cuore di Celio
è di un'altra, e non sari pid sotto le vostre finestre che lui verrà
a fare le sue serenate.
MARIANNA - Che peccatol e che gran disgrazia non aver potuto condi-
videre un tale amore. Guardate un po' come la sorte m'è contraria!
io che stavo per amarlo.
OTTAVIO - Veramente?
MARIANNA - Si, suU'anima mia, stasera o domattina, al più tardi dome-
nica, ve lo giuro. Chi potrebbe non riuscire con un ambasciatore
come voi? Bisogna credere che la sua passione per me fosse qual-
cosa di simile al cinese o all'arabo, se aveva bisogno di un inter-
prete, e non poteva spiegarsi da sola.
OTTAVIO - Burlatevi, burlatevi pure di noi! non vi temiamo più.
MARIANNA - O forse qucst'amore non era ancora che un povero lattante
e voi, che da saggia nutrice lo sostenevate con le dande, l'avrete
lasciato cadere a testa in giù, mentre lo portavate a spasso per la
città.
OTTAVIO - La saggia nutrice s'è accontentata di fargli bere un certo latte
che la vostra vi ha dato senza dubbio, e generosamente; ne avete
I CAPRICCI DI MARIANNA 115
ancora sulle labbra una goccia che si mescola a tutte le vostre pa-
role.
MARIANNA - CoHie si chiama questo latte meraviglioso?
OTTAVIO - L'indifferenza. Voi non sapete né amare né odiare, e siete
come le rose del Bengala, Marianna, senza spine e senza profumo.
MARIANNA - Ben detto. Avevate preparato il paragone in anticipo? Se
non avete l'abitudine di bruciare la brutta copia delle vostre arrin-
ghe, fatemi il favore di darmela, ed io le insegnerò al mio pappa-
gallo.
OTTAVIO - Cosa ci trovate che possa ferirvi? Un fiore senza profumo
non è meno bello; anzi, sono proprio i più belli che Dio ha fatto
cosi; e mi sembra che su questo punto non abbiate il diritto di
risentirvi.
MARIANNA - Mio caro cugino, perché non compiangete il destino delle
donne? Guardate un pò* cosa mi capita: è stato stabilito dalla sorte
che Celio mi ami, o creda di amarmi, il quale Celio l'ha detto ai
suoi amici, i quali amici stabiliscono a loro volta che io l'amerò,
pena la morte. La gioventù napoletana si degna inviarmi nella vo-
stra persona un suo degno rappresentante, incaricato di farmi sa-
pere che devo amare il suddetto signor Celio entro otto giorni.
Considerate bene tutto ciò, ve ne prego. Non sarebbe la piò spre-
gevole delle donne quella che obbedisse a data fissa, all'ora stabi-
lita, a una simile proposta? Non finirebbero forse per tagliarle i
panni addosso, additarla a tutti, e fare del suo nome il ritornello
d'una canzone licenziosa? Se invece rifiuta, esiste un mostro che
le si possa paragonare? c'è una statua più fredda di lei? E l'uomo
che le parla, che osa fermarla sulla pubblica piazza mentre ha in
mano il libro da messa, non ha forse il diritto di dirle: — Voi
siete una rosa del Bengala, senza spine e senza profumo?
OTTAVIO - Cugina, cugina, non arrabbiatevi.
MARIANNA - Son cose ben ridicole, vero?, l'onestà e la fedeltà? l'edu-
cazione di una fanciulla, la fierezza di un cuore che s'è immagi-
nato di valer qualcosa, e che, per meritare il rispetto degli altri,
comincia col rispettare se stesso? Tutto ciò è un sogno, vero?, una
bolla di sapone, che al primo sospiro d'un cavaliere alla moda, deve
svanire nell'aria?
OTTAVIO - Voi v'ingannate sul mio conto e su quello di Celio.
MARIANNA - Che cos'è dopo tutto una donna? L'occupazione di un
momento, im'ombra vana che si fa finta d'amare, per il piacere di
dire che si ama. Una donna! è una distrazione. E non si potrebbe
anche dire, quando se ne incontra una: Ecco un bel capriccio che
116 ALFRED DE MUSSET
passa! E non sarebbe certo un bravo scolaro in tale materia, colui
che abbassasse gli occhi davanti a lei, e dicesse a se stesso sottovoce:
«Ecco forse la felicità di tutta una vita», e la lasciasse passare?
{esce)
SCENA QUINTA
OTTAVIO, poi UN GARZONE d'oSTERIA
OTTAVIO - Ta, ta, pum! pumi trallerallera, trallerallà! Che strana don-
netta! {chiamando qualcuno dell'osteria) Ehi! olà! {a un garzone
che accorre) Portatemi qui, sotto questa pergola, una bottiglia di
qualche cosa.
IL GARZONE - Quel che desiderate. Eccellenza. Volete del lacrimacristi?
OTTAVIO - S{, sL {scrive poche parole a lapis) Andate un po' a cercare
per le strade qui d'intorno il signor Celio, vestito d'un mantello
scuro e con un farsetto ancora più scuro. Gli direte che c'è qui un
suo amico che beve solo del lacrimacristi. Dopo di che andrete in
piazza grande e consegnerete questo. da parte mia {gfi dà un fo-
glietto del suo taccuino) a una certa Rosalinda, una rossa che è
sempre alla finestra.
SCENA SESTA
OTTAVIO, poi CLAUDIO C TIBIA
OTTAVIO {solo) - Non SO cos'ho qua dentro; sono triste come un lunedi
di festa. Farei meglio a cenar qui. Ho forse voglia di dormire? mi
sento tutto di pietra, {entrano Claudio e Tibia) Ah ! cugino Claudio,
siete un bel giudice; dove ve ne andate cosi in fretta?
CLAUDIO - Che cosa intendete dire, signor Ottavio?
OTTAVIO - Intendo dire che siete un podestà che ha delle belle forme.
CLAUDIO - Di linguaggio o di costituzione fisica?
OTTAVIO - Di linguaggio, di linguaggio. La vostra toga è piena d'elo-
quenza e le vostre braccia sono due parentesi incantevoli.
CLAUDIO - Sia detto di sfuggita, signor Ottavio, mi sa che il battente
della mia porta vi abbia bruciato le dita.
OTTAVIO - In che modo, cugino pieno di scienza?
I CAPRICCI DI MARIANNA 117
CLAUDIO - Volendo bussare, cugino pieno di finezza.
OTTAVIO - Aggiungi pure pieno di rispetto, Claudio, per il battente
della tua porta; ma puoi farlo pur dipingere di fresco, senza che
io abbia a temere di sporcarmi le dita.
CLAUDIO - In che modo, cugino pieno di facezie?
OTTAVIO - Non bussandoci mai, cugino pieno di causticità.
CLAUDIO - Eppure v'è capitato, visto che mia moglie ha ordinato ai
suoi servitori di chiudervi la porta in faccia alla prima occasione.
OTTAVIO - I tuoi occhiali sono miopi, giudice pieno di grazia; sbagli
indirizzo nel fare i tuoi complimenti.
CLAUDIO - I miei occhiali sono eccellenti, cugino pieno di rimbeccate.
Non sei tu che hai fatto a mia moglie una dichiarazione d'amore?
OTTAVIO - A che proposito, acuto magistrato?
CLAUDIO - A proposito del tuo amico Celio, o compiacente messaggero;
disgraziatamente, ho sentito tutto.
OTTAVIO - Con quale orecchio, senatore incorruttibile?
CLAUDIO - Con quello di mia moglie che mi ha raccontato tutto, mio
caro bellimbusto.
OTTAVIO - Proprio tutto, sposo idolatrato! non c'è rimasto nulla in quel
grazioso orecchio?
CLAUDIO - C'è rimasta la sua risposta, grazioso pilastro di bettole, che
io sono incaricato di darti.
OTTAVIO - Ma io non sono incaricato di ascoltarla, caro processo ver-
bale.
CLAUDIO - E allora sarà la mia porta in persona che te la darà, gentile
biscazziere, se ti venisse in mente di consultarla.
OTTAVIO - È una cosa di cui non mi preoccupo affatto, cara sentenza
di morte; vivrò felice lo stesso.
CLAUDIO - Che tu lo possa fare in pace, caro bussolotto da dadi! ti au-
guro mille prosperità, {esce, seguito da Tibia)
OTTAVIO - Rassicurati a tal proposito, caro chiavaccio di prigione; e
dormi tranquillo come alle udienze.
SCENA SETTIMA
OTTAVIO, IL GARZONE
IL GARZONE - Signore, la signorina dai capelli rossi non è alla finestra;
non può accettare il vostro invito.
OTTAVIO - Che il diavolo se la porti, e te con lei!
118 ALFRED DE MUSSET
IL GARZONE - E il signofe dal mantello scuro non c'è nelle strade qui
vicine; ma ho incontrato il suo valletto e gli ho detto di andarlo
a cercare, {entra nell'osteria)
OTTAVIO - Peste su tutto l'universo! È destino che io debba cenar solo
stasera? Che diavolo mi sta succedendo? (// garzone porta una bot-
tiglia di vino e una coppa, le mette sul tavolino e rientra nell'oste-
ria) Bene! bene! è quello che ci vuole, {si siede e si versa da bere)
Sono capace di affogare la mia tristezza in questo vino, o almeno
questo vino nella mia tristezza. Ah! ah! il vespro è finito; ecco
Marianna che ritorna.
SCENA OTTAVA
OTTAVIO, seduto, MARIANNA
MARIANNA - Ancora qui, signor Ottavio, e già a tavola? È un po' triste
ubriacarsi da solo.
OTTAVIO - Il mondo intero m'ha abbandonato. Cerco di vederci doppio,
per far compagnia a me stesso.
MARIANNA - Come! nemmeno uno dei vostri amici, nessuno che vi sol-
levi da questo peso terribile, la solitudine?
OTTAVIO - Devo dirvi proprio tutto? avevo invitato una certa Rosalinda,
una delle mie amiche; ma cena in città come una gran signora.
MARIANNA - È indubbiamente una cosa incresciosa, e il vostro cuore
deve risentirne un vuoto spaventoso.
OTTAVIO - Un vuoto che non so dirvi, e che invano cerco di comuni-
care a questa coppa. Lo scampanìo del vespro mi ha rotto i timpani
per tutta la serata.
MARIANNA - Ditemi, cugino, bevete un vino da quindici soldi la bot-
tiglia?
OTTAVIO - Non ridete; è lacrimacristi, né più ne meno, e delizioso.
MARIANNA - Mi stupisco che voi non beviate del vino da quindici soldi;
bevetene, ve ne supplico.
OTTAVIO - Perche mai dovrei berne, se è lecito?
MARIANNA - Assaggiatelo; son sicura che non c'è alcuna differenza con
codesto.
OTTAVIO - Ce n'è una altrettanto grande quanto fra à sole e una lan-
terna.
MARIANNA - No, vi dico, è la stessa cosa.
I CAPRICCI DI MARIANNA 119
OTTAVIO - Dio me ne guardi! Vi burlate di me?
MARIANNA - Trovatc che c'è una grande differenza?
OTTAVIO - Certamente.
MARIANNA - Crèdevo che fosse la stessa cosa per il vino come per le
donne. Il vostro cuore è dunque cosi meschino che debbano essere
le labbra a fargli la lezione? Voi non vi degnereste di bere il vino
che beve il popolo; ma amate le donne che quello ama. Lo spirito
generoso e poetico di questa bottiglia dorata, questi meravigliosi
succhi che la lava del Vesuvio ha fatto fermentare sotto il sole ar-
dente, vi condurranno a qualche banale apparenza di piacere; voi
vi vergognereste di bere un vino qualunque, il vostro palato lo rifiu-
terebbe. Ah! avete le labbra delicate, ma il vostro cuore invece si
inebria a buon mercato I Buonasera, cugino; vi auguro che Rosa-
linda venga a consolare la vostra tristezza!
OTTAVIO - Due parole, vi prego, bella Marianna, e la mia risposta sarà
breve. Quanto tempo pensate che occorra a far la corte a questa
bottiglia per ottenerne una buona accoglienza? Come voi dite, essa
è tutta piena di uno spirito celeste, e il vino del popolo le rasso-
miglia cosi poco, quanto un contadino al suo padrone. Eppure,
guardate che brava persona è questa! È bastata una sola parola per
farla uscire dalla cantina; ne è uscita ancor tutta polverosa, per
darmi un quarto d'ora d'oblio, e morire! La sua corona, tutta im-
porporata di cera odorosa, s'è lasciata sgretolar subito, e non posso
nascondervelo, ha rischiato di scorrere tutta quanta fra le mie lab-
bra, nell'ardore del suo primo bacio.
MARIANNA - Siete sicuro che vale di più? E se voi siete uno dei suoi
veri amanti, e la ricetta fosse perduta, andreste a cercarne l'ultima
goccia fin nel cratere del vulcano?
OTTAVIO - Non vale di più né di meno. Dio non ne ha nascosto la
sorgente in cima a un picco inaccessibile, in fondo a una caverna
profonda; l'ha sospesa in grappoli dorati sui nostri fertili poggi. È
rara e preziosa, è vero, ma non impedisce a nessuno di avvicinarsi.
Si lascia vedere sotto i raggi del sole, e tutta una corte di api e di
calabroni le ronza intorno dalla mattina alla sera. Il viandante arso
dalla sete può riposarsi sotto i suoi tralci verdi; e lei non l'ha mai
lasciato languire, non gli ha mai rifiutato le dolci lacrime di cui
è pieno il suo cuore. Ah! Marianna, la bellezza è un dono fatale!
La saggezza di cui si vanta è sorella dell'avarizia, ed esiste talvolta
più misericordia per le sue debolezze che per la sua crudeltà. Buo-
nasera, cugina, che Celio possa dimenticarvi, {entra nell'osteria)
120 ALFRED DE MUSSET
SCENA NONA
CLAUDIO, MARIANNA
CLAUDIO - Pensate che io sia un fantoccio, e che mi muova su questa
terra per servire da spaventapasseri?
MARIANNA - Dove avcte trovato questa graziosa idea?
CLAUDIO - Pensate che un uomo della mia importanza ignori il valore
delle parole, e che ci si possa prender gioco della sua credulità
come se fosse un danzatore ambulante?
MARIANNA - Con chi cc l'avctc, stasera?
CLAUDIO - Pensate che non abbia sentito le vostre stesse parole: «Se
quell'uomo, o il suo amico, si presentano alla mia porta, gli venga
chiusa in faccia! ». E credete che io trovi ben fatto il vedervi conver-
sare liberamente con lui sotto un pergolato?
MARIANNA - Voi m'avctc vista sotto un pergolato?
CLAUDIO ' Si, SI, con questi occhi, sotto il pergolato di queirosteria là.
Il pergolato di un'osteria non è davvero un luogo di conversazione
adatto alla moglie di un magistrato, ed è inutile far chiudere la
propria porta, quando fuori si tien testa ai propri interlocutori con
cos{ poco ritegno!
MARIANNA - Da quando in qua mi si proibisce di parlare con uno dei
vostri parenti?
CLAUDIO - Quando uno dei miei parenti è uno dei vostri spasimanti,
sarebbe molto bene astenersene.
MARIANNA - Ottavio, uno dei mici spasimanti! Perdete la testa? In vita
sua non ha fatto mai la corte a nessuno.
CLAUDIO - È un vizioso, un frequentatore di luoghi malfamati.
MARIANNA - Ragione di più perché non sia, come dite molto gentilmen-
te, (( uno dei miei spasimanti ». Mi fa piacere chiacchierare con
Ottavio sotto il pergolato di un'osteria.
CLAUDIO - Non spingetemi a qualche increscioso eccesso con le vostre
stravaganze, e riflettete a quello che fate.
MARIANNA - A qualc eccesso volete che vi spinga? Son curiosa di sa-
pere quel che fareste.
CLAUDIO - Vi impedirei di vederlo e di scambiare con lui anche una
sola parola, sia in casa mia, sia in un'altra casa, o fuori.
MARIANNA - Ah! ah! davvero! questa è una novità! Ottavio è parente
mio come vostro; e pretendo di parlargli quando mi pare e piace.
J CAPRICCI DI MARIANNA 121
per la strada o altrove, e anche in casa nostra, se gli fa piacere ve-
nirci.
CLAUDIO - Ricordatevi deirultima frase che avete pronunciato. Vi pre-
parerò un castigo esemplare se andrete contro la mia volontà.
MARIANNA - Permettete che invece segua la mia, e preparatemi quel
che vorrete; non me ne importa proprio nulla.
CLAUDIO - Marianna, basta cosi. O voi vi accorgerete della sconvenien-
za di fermarvi sotto un pergolato, o mi obbligherete ad un atto di
violenza che ripugna alla mia veste, (esce)
SCENA DECIMA
MARIANNA, SOla
Olà! qualcuno! {a un domestico che entra) Vedete là, in quel-
la casa, quel giovane seduto a un tavolino? Andate a dirgli
che gli devo parlare e che abbia la cortesia di venire fin qui. (il
domestico entra nell'osteria) Questa è una novità! Per chi mi pren-
dono? Che male c'è? In che stato sono oggi? che brutto vestito!
Che linguaggio è questo? mi ridurrete alla violenza! che violenza?
Vorrei che mia madre fosse qui. Ah! bah! è subito del suo parere,
non appena lui dice una parola. Ho una voglia matta di picchiare
qualcuno. Ma davvero son troppo buona! Ah! è dunque questo
l'inizio? Me l'avevano predetto, lo sapevo, me l'aspettavo! Pazien-
za! pazienza! Mi prepara una punizione, e quale mai? Mi piace-
rebbe proprio sapere che cosa intende dire.
SCENA UNDECIMA
OTTAVIO, MARIANNA
MARIANNA - Avvicinatevi, Ottavio, devo parlarvi. Ho riflettuto a quello
che m'avete detto a proposito del vostro amico Celio. Ditemi, per-
ché non si spiega da sé?
OTTAVIO - Per una ragione molto semplice: vi ha scritto e voi avete
strappato le lettere; vi ha inviato una persona, e voi le avete im-
122 ALFRED DE MUSSBT
pcdito di parlare; vi ha fatto dei concerti, e voi l'avete lasciato in
mezzo alla strada. In fede mia! s*è dato al diavolo, e ci si darebbe
a lui per meno.
MARIANNA - Questo Vorrebbe dire che ha pensato a voi?
OTTAVIO - Si.
MARIANNA - Ebbene! parlatemi di lui.
OTTAVIO - Sul serio?
MARIANNA - Si, SI, sul serìo; eccomi, ascolto.
OTTAVIO - Voi volete ridere.
MARIANNA - Che misero avvocato siete mai? Parlate, che io voglia ri-
dere o no.
OTTAVIO - Perché mai guardate a destra e a sinistra? Dovete esser pro-
prio arrabbiata.
MARIANNA - Voglio cominciare a seguir la moda, Ottavio, voglio pren-
dere un cavalier servente. Non si chiama forse cosi? Se poco fa
vi ho ben capito, voi mi rimproveravate, con la vostra bottiglia, di
far troppo la severa e di allontanare quelli che mi amano, non è
vero? E sia, accetto di ascoltarli. Mi si minaccia, mi si offende, e,
lo chiedo a voi, Tho meritato?
OTTAVIO - Certissimamente, no; tutt'altro!
MARIANNA - Nou SO mentire né ingannar nessuno, ed è proprio per
questo che non voglio costrizioni; e, che si tratti d'un Cicisbeo o
d'un Patito, quale donna in Italia non accoglie intorno a sé quelli
che cercano di parlarle d'amore, senza che in ciò si veda un delitto
od una menzogna? Voi dite che mi fanno dei concerti e che io
lascio la gente in mezzo alla strada? Ebbene, continuerò a lasciar-
cela, ma la mia persiana sarà socchiusa, ed io sarò là dietro ad
ascoltare.
OTTAVIO - Posso ripeterlo a Celio?...
MARIANNA - Celio, o un altro, poco m'importa! Che cosa mi consigliate,
Ottavio? Vedete, mi rimetto a voi. Ebbene, non parlate? Vi dico
che lo voglio. Stasera, si, stasera stessa, ho voglia di farmi fare una
serenata, e sarò felice di sentirla. Sono curiosa di vedere se me lo
impediranno, (gii porge un fiocco che si toglie dal vestito) Pren-
dete, ecco i miei colori. Li porti chi voi vorrete.
OTTAVIO - Marianna! qualunque sia la ragione che ha potuto ispirarvi
un minuto di condiscendenza, poiché mi avete chiamato, poiché
acconsentite ad ascoltarmi, in nome del cielo, rimanete la stessa un
minuto ancora; permettetemi di parlarvi.
MARIANNA - Che volete dirmi?
I CAPRICCI DI MARIANNA 123
OTTAVIO - Se c'è mai stato al mondo un uomo degno di comprendervi,
degno di vivere e di morire per voi, quest'uomo è Celio. So di
non valere un gran che, e sono il primo a riconoscere che la pas-
sione di cui faccio l'elogio trova un ben misero interprete. Voi,
COSI bella, cosi giovane! se sapeste qual tesoro di felicità è in voi,
in lui! in questa fresca aurora di giovinezza, in questa celeste ru-
giada della vita, in questo primo accordo di due anime gemelle!
Non vi parlo della sua sofferenza, di quella dolce e tenera malin-
conia che non s'è mai stancata della vostra durezza, e che ne mo-
rirebbe senza lamentarsi! Si, Marianna, ne morirà. Che posso dirvi?
Cosa inventare per dare alle mie parole la forza che manca loro?
Io non conosco il linguaggio dell'amore. Guardate nella vostra
anima; è lei che può parlarvi della sua. Esiste una potenza capace
di commuovervi? Voi che sapete supplicare Iddio, esiste una preghie-
ra che possa esprimere ciò di cui è pieno il mio cuore? {si butta
in ginocchio)
MARIANNA - Alzatevi, Ottavio. Davvero, se qualcuno venisse, non cre-
derebbe forse, a sentirvi, che è per voi che parlate?
OTTAVIO - Marianna! Marianna! in nome del cielo, non sorridete! non
chiudete il vostro cuore al primo lampo che forse l'ha attraversato!
MARIANNA - Siete proprio sicuro che non mi sia permesso di sorridere?
OTTAVIO (rialzandosi) - Si, avete ragione, conosco tutto il danno che
può fare la mia amicizia. So chi sono; lo sento: sulle mie labbra
un simile linguaggio ha l'aria di una burla. Voi dubitate della sin-
cerità delle mie parole; mai forse come in questo momento ho sen-
tito con maggiore amarezza quanta poca fiducia io possa ispirare.
MARIANNA - Perché dite cosi? vedete che ascolto. Celio non mi piace;
non ne voglio sapere. Parlatemi di qualcun altro, di chi volete.
OTTAVIO - O donna tre volte donna! Celio non vi piace, ma il primo
venuto forse vi piacerà. L'uomo che vi ama, che segue sempre le
vostre orme, che morirebbe volentieri per una parola uscita dalle
vostre labbra, quello non vi piace! È giovane, bello, ricco e degno
in tutto di voi; ma non vi piace! e il primo venuto vi piacerà.
MARIANNA - Fate quel che vi dico, o non mi rivedrete più. (entra in
casa)
124 ALFRED DE MUSSET
SCENA DODICESIMA
OTTAVIO, solo
Siete molto carina, Marianna, e questo capriccetto dettato dalla
collera è un delizioso trattato di pace. Non mi ci vorrebbe molto
orgoglio per capirlo; basterebbe un po' di perfidia. Ma sarà Celio
ad avvantaggiarsene.
SCENA TREDICESIMA
CELIO, OTTAVIO
CELIO - Mi hai mandato a chiamare, amico mio; ebbene, quale novità?
OTTAVIO - Appunta questo nastro al tuo berretto. Celio; prendi chitarra
e spada; la nostra causa, è vinta per metà.
CELIO - In nome del cielo, non prenderti giuoco di me.
OTTAVIO - La notte sarà bella, la luna sta per spuntare all'orizzonte. Ma-
rianna sarà sola stasera dietro la sua persiana; acconsente ad ascol-
tarti.
CELIO - È proprio vero? è proprio vero? o tu sei la mia vita, Ottavio,
o sei senza pietà.
OTTAVIO - Se ti dico che tutto è stabilito. Una canzone sotto la finestra;
un lungo, lungo mantello, un pugnale in tasca, una maschera sul
viso... hai una maschera?
CELIO - No.
OTTAVIO - Non hai maschera? Sei innamorato, e siamo in carnevale!
Questo ragazzo non pensa a nulla. Va' a procurarti tutto il necessa-
rio, alla svelta.
CELIO - Ah! mio Dio! mi sento mancare!
OTTAVIO > Coraggio, amico mio! Cammina! al tuo ritorno mi abbrac-
cerai. Va'! Va'! la notte è vicina. {Celio esce) Si sente mancare, dice
lui, ma anch'io, giacché ho cenato solo a metà. In ricompensa delle
mie pene, m'offro da cena, (chiama) Eh! olà! Giovanni! Beppo!...
(entra neirosteria)
I CAPRICCI DI MARIANNA 125
SCENA QUATTORDICESIMA
TIBIA, CLAUDIO, MARIANNA, Sul bolcone, DUE SPADACCINI
CLAUDIO (agU Spadaccini) - Lasciatelo entrare, e gettatevi su di lui, non
appena sarà arrivato a questo boschetto, {uno degli spadaccini esce)
MARIANNA {sul balconc, a parte) - Che vedo? mio marito e Tibia.
TIBIA {a Claudio) - E se entra dall'altra parte?
CLAUDIO - Come, Tibia, dall'altra parte! cosi vedrei andare a monte il
mio piano?
MARIANNA (fl poTte) - Cosa dicono?
TIBIA - Questa piazza è un incrocio, ci si può arrivare da destra come
da sinistra.
CLAUDIO - Hai ragione; non ci avevo pensato.
TIBIA - Che si deve fare, signore, se arriva da sinistra?
CLAUDIO - Allora, aspettatelo all'angolo del muro.
MARIANNA {a pOTte) - Cielo! cosa ho sentito?
TIBIA - E se appare da destra?
CLAUDIO * Aspettate un momento. Farete la stessa cosa, {l'altro spadac-
cino esce)
MARIANNA {a parte) - Come avvertire Ottavio?
TIBIA - Eccolo che arriva. Ecco, signore, guardate com'è grande la sua
ombrai è un uomo d'una bella statura.
CLAUDIO - Mettiamoci in disparte, e colpite quando sarà giunto il mo-
mento.
SCENA QUINDICESIMA
CELIO, mascherato, Marianna, sul balcone
CELIO {avvicinandosi al balcone) - Marianna, Marianna! siete li?
MARIANNA - Fuggite, fuggite, Ottavio!
CELIO - Signore, mio Dio! che nome ho sentito?
MARIANNA - La casa è circondata da assassini; mio marito ha ascoltato
la nostra conversazione, e la vostra morte è sicura, se restate qui
un minuto di più.
CELIO - È forse un sogno? io son proprio Celio?
126 ALFRED DE MUSSET
MARIANNA - Ottavio, Ottavio, in nome del ciclo, non rimanete là! Pos-
siate avere ancora il tempo di fuggire! Domani, trovatevi a mezzo-
giorno dietro il giardino, ci sarò, {si ritira)
SCENA SEDICESIMA
CELIO, TIBIA che lo scguc e si nasconde
CELIO {togliendosi la maschera e sfoderando la spada) - O morte! poi-
ché sei qui, vieni dunque in mio aiuto. Ottavio, Ottavio traditore!
possa il mio sangue ricader su di te! A che scopo, per quale motivo
mi hai spinto in questo spaventoso traneUo,. non riesco a capirlo,
ma lo saprò, poiché son venuto; e magari a rìschio della vita, saprò
sciogliere quest'orribile enigma, {esce, Tibia lo segue)
SCENA DICIASSETTESIMA
OTTAVIO, solo, mentre esce dall'osteria
Ah! dove andare ora? ho fatto qualche cosa per la felicità de-
gli altri, che posso inventare per il piacere mio? In fede mia!
ecco una bella notte, e a dir la verità deve essere messa al mio
attivo. Quella donna era bella davvero, e quel pizzico di stizza le
stava proprio bene! Da che cosa era causata? lo ignoro. Che im-
porta sapere come fa la pallina d'avorio a cadere sul numero che
abbiamo puntato? Portar via l'amante a un amico, è una birbonata
troppo comune per me. La cosa veramente importante era quella
di cenare! È chiaro che Celio è digiuno. Come mi avresti detestato,
Marianna, se ti avessi amato! Come mi avresti messo alla porta! e
il tuo gaglioffo di marito ti sarebbe sembrato un Adone, un Sil-
vano, in confronto a me! Qual è la ragione di tutto questo? La
ragione di tutto questo è il caso. In questo mondo tutto è questione
di fortuna o di sfortuna. Non era forse afflitto. Celio, stamani, e
ora... {si sente un rumore sordo e un ticchettio di spade) Che sento?
Cos'è questo rumore?
I CAPRICCI DI MARIANNA 127
CELIO (con voce soffocata) - Aiuto!
OTTAVIO - Celio! è la voce di Celio, {correndo al cancello) Aprite, o
sfondo il cancello!
SCENA DICIOTTESIMA
OTTAVIO, CLAUDIO
CLAUDIO {mostrandosi) - Che volete?
OTTAVIO - Dov'è Celio?
CLAUDIO - Non credo che abbia l'abitudine di dormire in questa casa.
OTTAVIO - Se l'hai assassinato, Claudio, bada a te; ti torcerò il collo con
queste mie mani.
CLAUDIO - Siete pazzo o sonnambulo? Cercate in giardino, se volete;
io non ho visto entrare nessuno; e se qualcuno l'avesse voluto fare,
mi sembra che avrei ben avuto il diritto di non aprirgli. {Ottavio
entra, Claudio va incontro a Tibia e gli dice) Tutto è finito secondo
ì miei ordini?
TIBIA - Si, signore, state tranquillo; possono cercare quanto vogliono.
CLAUDIO - Ora pensiamo a mia moglie, e andiamo ad avvertire sua ma-
dre.
{escano)
SCENA DICIANNOVESIMA
MARIANNA, Sola
La cosa è certa; non m'inganno, ho visto bene, ho sentito be<
ne. Dietro la casa, attraverso gli alberi, ho visto delle ombre sparse
qua e là, unirsi all'improvviso e gettarsi su di lui. Ho sentito il
rumore delle spade, poi un grido soffocato, la più sinistra, l'ultima
invocazione! Povero Ottavio! coraggioso com'è (perché è coraggio-
so) l'hanno preso di sorpresa, l'hanno trascinato via. È mai possi-
bile, è mai credibile, che un simile sbaglio sia pagato cosi caro?
È possibile che cosi poco buon senso possa provocare tanta crudeltà?
E io che ho agito cosi leggermente, cosi stoltamente, per puro gioco,
per puro capriccio! Bisogna che lo veda, bisogna che io sappia...
128 ALFRED DE MUSSET
SCENA VENTESIMA
MARIANNA, OTTAVIO
{entra Ottavio con la 'spada sguainata, guardando da tutte le pard)
MARIANNA - Ottavio, siete voi?
OTTAVIO - Sono io, Marianna. Celio è morto!
MARIANNA - Cclio, ditc? Comc può csscrc?...
OTTAVIO - È morto!
MARIANNA - O ciclo!
OTTAVIO - È morto! Non andate da quella parte.
MARIANNA - Dovc volctc chc Vada? Sono perduta! Bisogna partire, Ot-
tavio, bisogna fuggire! Certamente, Claudio non è in casa!
OTTAVIO - No; hanno preso le loro precauzioni e mi hanno lasciato
prudentemente solo.
MARIANNA > Lo conosco, souo perduta, ed anche voi forse... Partiamo!
stanno per tornare, e presto!
OTTAVIO - Partite se volete; io resto. Se devono ritornare mi troveranno,
e, qualunque cosa accada, li aspetterò. Voglio vegliare accanto a lui
nel suo ultimo sonno.
MARIANNA - Ma me, mi abbandonerete? Sapete a quale pericolo vi espo-
nete, e fin dove può giungere la loro vendetta?
OTTAVIO - Guardate laggiù, dietro quegli alberi, quel piccolo punto
scuro, all'angolo del muro; là giace il mio unico amico; di tutto il
resto, non mi curo.
MARIANNA - Neppure della vostra vita, né della mia.
OTTAVIO - Neppure di ciò. Guardate laggiù!... Solo io, al mondo, Tho
conosciuto. Posate sulla sua tomba un'urna d'alabastro coperta da
un lungo velo funebre, sarà quella la sua perfetta immagine. È
COSI che una dolce malinconia velava le perfezioni di quell'anima
tenera e delicata... Sarebbe stata felice, la donna che l'avesse amato.
MARIANNA - L'avrebbe difesa, se si fosse trovata in pericolo?
OTTAVIO - Si, l'avrebbe fatto senza alcun dubbio. Lui solo era capace
di una devozione senza limiti; lui solo avrebbe consacrato la vita
intera alla donna amata, con la stessa facilità con cui ha affrontato
la morte per lei.
MARIANNA - E VOI, Ottavio, uon lo fareste?
orrAVio - Io? io non sono che un dissoluto senza cuore; non ho nes-
suna stima delle donne. L'amore che ispiro è come quello che sen-
I CAPRICCI DI MARIANNA 129
to, l'ebrezza passeggera di un sogno. La mia allegria è solo una
maschera; il mio cuore è troppo vecchio! Ah! non sono che un vi-
gliacco! la sua morte non è vendicata! {getta per terra la spada)
MARIANNA - Comc avrcbbc potuto esserlo?... Claudio è troppo vecchio
per accettare un duello, e troppo potente in questa città per temer
qualche cosa da voi.
OTTAVIO - Celio mi avrebbe vendicato, se fossi morto per lui, come lui
è morto per me. La sua tomba m'appartiene; sono io quello che
loro hanno ammazzato in quel cupo viale; è per me che avevano
affilato le loro spade; hanno ucciso me!... È finita l'allegria della
mia giovinezza, le spensierate follie, la vita libera e gioconda ai
piedi del Vesuvio! Son finiti i rumorosi banchetti, le chiacchierate
serali, le serenate sotto i balconi dorati. Finita è Napoli e le sue
donne, le mascherate alla luce delle torce, le lunghe cene all'ombra
delle foreste! Finito è l'amore e l'amicizia! Il mio posto sulla terra
e vuoto.
MARIANNA - Ne siete proprio sicuro, Ottavio? Perche dite: finito è
l'amore?
OTTAVIO - Io non vi amo, Marianna; era Celio che vi amava.
La presente traduzione, condotta sul testo del 1851, è a cura di
Uano Petroni.
9. • Teatro francese
MAURICE MAETERLIRCK
Nato a Gand il 1862, morto a Nizza il 1949, Maurice Macter-
liiick ^ è venuto alla sua ora e passato col suo tempo. Figlio felice
della fine del secolo e fortunato volgarizzatore di idee comuni, è
forse il più caratteristico rappresentante della e belle epoque», o
della zona crepuscolare nella quale — fra eccessi vitalistici e vacan-
ze di buon gusto — vivono in lieta tolleranza gli Spettri di Ibsen
e i fantasmi di Eusapia Paladino, il messianismo tolstoiano e la
borghese euforia, l'estetica decadente e lo stile liberty. Dotato del-
le antenne e della straordinaria fecondità dei suoi insetti, passa
una lunga ed onorata esistenza a captare i riunori del mondo e le
armonie delle celesti sfere, a interrogare le tenebre e a tradurre in
piacevoli simboli e in lucidi diagrammi le incognite e i problemi
del conscio e dell'inconscio, della vita, dalla fauna e della flora.
Il giovane ammiratore di Emerson e di Novalis ebbe anche
lui il suo periodo (che va grosso modo dal 1890 al 1896, d2Ìil*Intruse
al Trésor des humbles) di moderata angoscia metafìsica, ma l'in-
nato ottimismo e il successo letterario lo aiutarono, insieme con
Marco Aurelio e con J. H. Fabre, a risolvere la crisi del «tra-
gico quotidiano > (a vincere, cioè, il panico delle oscure forze che
opprimono l'uomo) nell'affermazione delle forze umane e nella
fede in un «ignoto forse necessario alla nostra felicità» e di un
infinito « qui ne saurait nous vouloir du mal ».
Già nel 1898, in La Sagesse et la Destinée, Maeterlinck può
piacevolmente dissertare « de sagesse, de fatalité, de justice, de bon-
heur et d'amour». Poi, nel 1901, il grande successo della Vie
des Abeilles — e la vena sarà sfruttata con minor fortuna nell'/»-
^ Cfr. « Panorama dd Teatro francese », voi. I, pag. 53.
134 MAURICE MAETERLINCK
telligence des Fleurs (1907), nella Vie des Termites (1926), nella
Vie des Fourmis (1930), eccetera — dove sono rivelati i misteri e
le meraviglie dell'istinto e dell'oscuro ma infallibile ordine della na-
tura. Quindi, per circa mezzo secolo, è il romanzo della filosofia,
della morale, della immanenza e della trascendenza, in una serie
di saggi che parlano della coscienza del bene e del male {Le tem-
pie enseveliy 1902), del caso, dell'eflSmero, dell'eterno, dei pasca-
liani -spazi e silenzi, dell'infinitamente piccolo e dell'infinitamente
grande, della morte e dell'immortalità, della guerra, della boxe e
di svariate altre cose che si leggevano, e non si leggono più, nel
Doublé jardin (1904), nella Mort (1913), nell'H<5^ inconnu (1917)
che è il Subcosciente, nel Grand Secret (1921), che è il segre-
to delle dottine esoteriche, nella Vie de VEspace (1928) dove si
trova la quarta dimensione, nella Grande Féerie (1929) che è
quella degli astri, nella Grande loi (1933) che è quella della gra-
vitazione, in Avant le Grand Silence (1934, nel Sablier (1935),
TitWOmbres des Ailes (1936), in Devant Dieu (1937), nella Gran-
de porte (1938), ncìVAutre Monde ou le Cadran stellaire (1942).
Maeterlinck invecchia vedendo tutto in grande e in rosa. Le sue
memorie, pubblicate nel 1948, un anno prima della morte, portano
il titolo di Bulles bleues, souvenir s heureux.
Il teatro è press'a poco della stessa qualità ed ha la stessa for-
tuna dei saggi. Il meglio si trova ancora nelle prime opere, nel-
Vlntruse (1890) negli Aveugles (1890) e in Intérieur (1894). Il re-
sto è melodramma che trionfa negli orrori della Princesse Maleine
(1889) e nell'oratoria amorosa di Pelléas et Mélisande (1891), deca-
de nella confusa banalità della Mort de Tintagiles (1894) e negli
arbitri pseudoeroici di Monna Vanna (1902), filosofeggia in Aria-
ne et Barbe Bleue (1901), in Joyzelle (1903) e in altre minute cose:
e dappertutto la presenza delle enormi potenze « dont nul ne sait
les intentions > si riduce all'azione del caso ed alle sorprese della
sventura, nel e tragico quotidiano > del fatto di cronaca, della mor-
te di una puerpera o della morte improvvisa di un vecchio prete,
nell'annegamento di una ragazza, nel dranmia di amori contra-
stati e di adulteri virtuosi. In questo nuovo teatro, nel quale la
materia naturalista si accoppia alla fumata simbolista, l'Ignoto gè-
PRESENTAZIONE 135
sticola fra le quinte o resta nel vago del paesaggio e nel vago di
anime che lo ignorano, mentre il mistero continua a portare sulla
scena la doppia maschera del dio delle macchine e dei luoghi co-
muni parlando volentieri il linguaggio di un oracolo che Maeter-
linck interpreta « ad hbitum > e secondo gli umori del momento.
Cosicché, mentre al tempo del pessimismo l'interrogatorio aveva
luogo sotto il segno crudele òAYlntruse e di Intérieur, nel periodo
del buon uso della saggezza le risposte confortanti vengono attra-
verso le candide allegorie della fiaba. NeH'Oiseau bleu (1909) il
diamante della Verità è infatti affidato ai due pargoli Tyltyl e My-
tyl che, in compagnia dell'anima del Cane, della Gatta, dello Zuc-
chero, del Pane, eccetera, partono alla ricerca dell'Uccello Azzurro
(o Felicità), lo trovano e lo perdono continuamente nel Paese dei
Ricordi (dove vivono i cari morti), nel Cimitero (dove le tombe
scoprono che e non vi sono morti >), nel Palazzo della Notte (dove
regnano Fantasmi, Guerre, Stelle, Sogni), nella Foresta degli Alberi
in rivolta contro gli uomini, nel Paese delle Gioie o della Buona
Salute, dell'Aria pura, del Lavoro, dell'Intelligenza, e cosi via di-
cendo, finiscono per trovarlo definitivamente, al risveglio, nel cor-
tile familiare, fra le parvenze rassicuranti del quotidiano e la fede
nell'Avvenire.
È COSI che, quasi nello stesso periodo in cui Mallarmé sfiorava
la demenza nella ricerca della « spiegazione orfica della Terra >, il
buon Maeterlinck risolveva i grandi problemi dell'essere nella be-
nevola contemplazione delle Costellazioni e con l'ingegnoso ri-
corso alla lanterna magica. È il solo simboUsta — si dice — che
abbia avuto fortuna al teatro. Ebbe infatti grandi successi (e il
premio Nobel), ispirò Debussy, che mise in musica Pelléas et Me-
lisandcy riusci per qualche tempo a suscitare entusiasmi di critica
e di pubblico. Che avesse fatto scendere nella vita « reale > e nel
teatro « l'idea dell'Ignoto > era una sua illusione, ma nella finzio-
ne scenica — e nei momenti migliori — riuscì a portare l'ombra,
o la contraffazione, della poesia nel discorso prosaico, il brivido
della € suspense > nel dramma del luogo comune, l'ansia sugge-
stiva della ripetizione ossessionante delle interrogazioni e delle
usuali parole. L'attuale teatro della vuota angoscia e dell'assurda
136 MAURICE MAETERLINGK
attesa (del genere En attendant Godot e Fin de panie del Bcckett)
deve qualcosa al mondo realistico ed allucinante dclVIntrusey degli
Aveugles e di Intérieur.
Cfr. A. Bailly, Maeterlinck,, 1931; G. Harry, La vie et l'oeuvre de
Maeterlincì^, 1932; M. Lecat, Maurice Maeterlinc\ et son oeuvre, 1950.
L'intrusa
PERSONAGGI
IL NONNO (è cieco)
IL PADRE
LO ZIO
LE TRE FIGLIE
LA SUORA DI CARITÀ
LA SERVA
La scena è ai nostri tempi.
L'INTRUSA
Una saia piuttosto buia in un vecchio castello. Una porta a destra, una porta a
sinutra e una porticina mascherata in un ang<do. In fondo, finestre e vetrate
in cut domina il verde, e una porta a vetri che si apre sul terrazzo. Un grande
pendolo fiammingo in un angolo. Una lampada accesa.
LE TRE FIGLIE . Veiìitc qui, fioniio, sedetevi sotto la lampada.
IL NONNO ' Mi pare che non faccia troppo chiaro qui.
IL PADRE - Andiamo sul terrazzo o restiamo in questa stanza?
LO ZIO - Non sarebbe meglio restare qui? È piovuto tutta la settimana
e le notti sono umide e fredde.
LA FIGLIA MAGGIORE - Ci sono delle stelle, però.
LO ZIO - Oh, le stelle! Questo non significa niente.
IL NONNO - È meglio restare qui, non si sa che cosa possa accadere.
IL PADRE - Non bisogna aver timori. Non c'è più pericolo, è salva...
IL NONNO - Credo che non stia troppo bene...
IL PADRE - Perché dite questo?
IL NONNO - Ho sentito la sua voce.
IL PADRE - Ma dal momento che i medici affermano che possiamo star
tranquilli...
LO ZIO - Sai bene che a tuo suocero piace allarmarci inutilmente.
IL NONNO - Non ci vedo come voi.
LO ZIO - Allora dovete fidarvi di chi ci vede. Aveva una bellissima cera,
questo pomerìggio. Dorme profondamente, e non dobbiamo avve-
lenarci la prìma buona serata che il destino ci accorda... Mi sem-
bra che abbiamo il diritto di riposarci, e anche di ridere un po'
senza paura, questa sera.
IL PADRE - È vero, è la prima volta che mi sento in casa mia, fra i miei
cari, dopo quel parto terribile.
LO ZIO - Quando la malattia è entrata in una casa, si direbbe che c'è un
estraneo nella famiglia.
IL PADRE - Ma allora, si vede pure che fuori della famiglia non si può
fare assegnamento su nessuno.
140 MAURICE MAETERLINCK
LO ZIO - Hai perfettamente ragione.
IL NONNO - Perché non ho potuto vedere la mia povera figlia oggi?
LO ZIO - Sapete bene che il medico Tha proibito.
IL NONNO - Non so che cosa devo pensare...
LO ZIO - È inutile che vi allarmiate...
IL NONNO (indicando la porta a sinistra) - Non può sentirci?
IL PADRE - Parleremo sottovoce; del resto la porta è molto spessa, e poi
con lei c'è la suora e ci avvertirebbe se facessimo troppo rumore.
IL NONNO (indicando la porta a destra) - E lui non può sentirci?
IL PADRE - No, no.
IL NONNO - Dorme?
IL PADRE - Penso di SI.
IL NONNO - Bisognerebbe andare a vedere.
LO ZIO - Mi preoccuperebbe più di tua moglie, il piccolo. È nato da
parecchie settimane e appena s'è mosso; finora non ci ha fatto sen-
tire il più piccolo strillo; lo si direbbe un bambino di cera.
IL NONNO - Credo che sarà sordo, e forse muto... Ecco il frutto dei ma-
trimoni fra consanguinei...
(silenzio di riprovazione)
IL PADRE - Ce rho quasi con lui per il male che ha fatto a sua madre.
LO ZIO ' Bisogna essere ragionevoli; non è colpa sua, poverino... È solo,
in quella camera?
IL PADRE - Si. Il dottore non vuole più che resti nella camera della
madre.
LO ZIO - Ma la balia è con lui?
IL PADRE - No, è andata un momento a riposare; se Tè ben meritato
dopo questi ultimi giorni. Orsola, va un po' a vedere se dorme.
LA FIGLIA MAGGIORE - Si, papà.
(le tre sorelle si alzano e, tenendosi per mano, entrano nella camera a
destra)
IL PADRE - A che ora verrà nostra sorella?
LO ZIO - Credo verso le nove.
IL PADRE - Sono le nove passate. Vorrei che venisse stasera; mia moglie
d tiene molto a vederla.
LO ZIO - Ma certo che verrà. È la prima volta che viene qui?
IL PADRE - Non è mai entrata in questa casa.
LO ZIO - Le riesce molto difficile lasciare il convento.
IL PADRE - Sarà sola?
LO ZIO - Penso che un'altra suora l'accompagnerà. Non possono uscir
sole.
l'intrusa 141
IL PADRE ' Eppure è la superiora.
LO ZIO - La regola è uguale per tutte.
IL NONNO - Non siete più preoccupati?
LO ZIO - Perché dovremmo esserlo? Non bisogna parlarne pid. Non c'è
più da temere.
IL NONNO - Vostra sorella è più vecchia di voi?
LO ZIO . È la nostra sorella maggiore!
IL NONNO - Non so che cosa ho; non sono tranquillo. Vorrei che vostra
sorella fosse qui.
LO ZIO - Verrà; l'ha promesso.
IL NONNO - Vorrei che questa sera fosse trascorsa!
(le tre figlie rientrano)
IL PADRE ' Dorme?
LA FIGLIA MAGGIORE - Si, papà; profoudamcnte.
LO ZIO - Che faremo nell'attesa?
IL NONNO - Nell'attesa di che?
LO ZIO - Di nostra sorella.
IL PADRE - Non vedi venire nessuno, Orsola?
LA FIGLIA MAGGIORE {ofjocciata dia finestra) - No, papà.
IL PADRE - E nel viale? Lo vedi il viale?
LA FIGLIA MAGGIORE - S{, papà; c'è il chiaro di luna e vedo il viale fino
al bosco dei cipressi.
IL NONNO - E non vedi nessuno?
LA FIGLIA MAGGIORE - Ncssuno, nonno.
LO ZIO - Che tempo fa?
LA FIGLIA MAGGIORE - BelUssimo. Sentite gli usignoli?
LO ZIO - Si, SI.
LA FIGLIA MAGGIORE - lira un po' di vcnto nel viale.
IL NONNO - Un po* di vento nel viale?
LA FIGLIA MAGGIORE - Si, gli alberi tremano un poco.
LO ZIO - Strano che mia sorella non sia ancora qui.
IL NONNO - Non sento più gli usignoli.
LA FIGLIA MAGGIORE - Crcdo chc qualcuno sia entrato nel giardino,
nonno.
IL NONNO - Chi è?
LA FIGLIA MAGGIORE - Non lo so; non vedo nessuno.
LO ZIO - Vuol dire che non c'è nessuno.
LA FIGLIA MAGGIORE - Dev'csserci qualcuno in giardino, gli usignoli
hanno taciuto di colpo.
IL NONNO - Eppure non sento camminare.
142 MAURICE MAETERLINCK
LA FIGLIA MAGGIORE - Qualcuno devc Star passando vicino allo stagno
perché i cigni hanno paura.
IL PADRE - Non vedi nessuno?
LA FIGLIA MAGGIORE - NcSSUnO, papà.
IL PADRE - Eppure lo stagno è nel chiaro di luna...
LA FIGLIA MAGGIORE - Si, vcdo chc i cigni hanno paura.
LO ZIO - Sono sicuro che è mia sorella a spaventarli. Sarà entrata per
la porticina.
IL PADRE - Non mi spiego perché i cani non abbaiano.
LA FIGLIA MAGGIORE - Vedo il Cane da guardia in fondo alia sua cuccia.
I cigni vanno verso Taltra riva!...
LO ZIO - Hanno paura di mia sorella. Vado a vedere, {chiama) Sorella!
Sorella! Sei tu? Non c'è nessuno.
LA FIGLIA MAGGIORE . Sono sicura che è entrato qualcuno nel giardino.
Vedrete!
LO ZIO - Ma essa mi risponderebbe!
IL NONNO - Gli usignoli ricominciano a cantare, Orsola?
LA FIGLIA MAGGIORE - Non ue sento più uno solo in tutta la campagna.
IL NONNQ - Eppure non c'è nessun rumore.
IL PADRE ' C'è un silenzio di morte.
IL NONNO - Dev'essere uno sconosciuto a spaventarli, perché se fosse
qualcuno della casa, non tacerebbero.
LO ZIO - Adesso vi occupate degli usignoli?
IL NONNO - Tutte le finestre sono aperte, Orsola?
LA FIGLIA MAGGIORE - La porta a vetri è aperta, nonno.
IL NONNO - Mi sembra che il freddo entri nella stanza.
LA FIGLIA MAGGIORE - C'è un po' di vcnto nel giardino, nonno, e le rose
si sfogliano.
IL PADRE - Ebbene, chiudi la porta. È tardi.
LA FIGLIA MAGGIORE - S(, papà. Non posso chiudere la porta.
LE ALTRE DUE FIGLIE - Non possiamo chiuderla.
IL NONNO - Che cosa c'è, figlie mie?
LO ZIO - Non bisogna dir questo con una voce strana. Le aiuterò io.
LA FIGLIA MAGGIORE - Nou riusciamo a chiuderla completamente.
LO ZIO - Colpa dell'umidità. Spingiamo tutti insieme. Ci deve essere
qualcosa tra i battenti.
IL PADRE - Il falegname l'aggiusterà, domani...
IL NONNO - Verrà il falegname domani?
LA FIGLIA MAGGIORE - Si, nonno, verrà per dei lavori in cantina.
IL NONNO - Farà molto rumore nella casa!...
LA FIGLIA MAGGIORE - Gli dirò di aver riguardo.
l'intrusa 143
(st sente di colpo il rumore di una jdce che stanno affilando fuori)
IL NONNO (trasalendo) - Oh!
LO ZIO - Che cosa c'è?
LA FIGLIA MAGGIORE - Noii lo SO esattamente; credo sia il giardiniere.
Non ci vedo bene, è nellombra della casa.
IL PADRE - È il giardiniere che dovrà falciare.
LO ZIO - Falciare di notte?
IL PADRE - Domani non è domenica? Sf. Ho notato che Terba era mol-
to alta intorno alla casa.
IL NONNO ' Mi sembra che la sua falce sia ben rumorosa...
LA FIGLIA MAGGIORE - Falcia intomo alla casa.
IL NONNO - Lo vedi, Orsola?
LA FIGLIA MAGGIORE - No, nonno, è nel buio.
IL NONNO - Temo che svegli mia figlia.
LO ZIO - Lo sentiamo appena appena.
IL NONNO - Io lo sento come se falciasse dentro la casa.
LO ZIO - La malata non lo sentirà; non c'è pericolo.
IL PADRE - Mi pare che la lampada bruci male stasera.
LO ZIO - Bisognerebbe aggiungere olio.
IL PADRE - Ho visto chc ne hanno messo stamattina. Brucia male da
quando hanno chiuso la finestra.
LO ZIO ' Credo che il tubo sia appannato.
IL PADRE - Brucerà meglio fra poco.
LA FIGLIA MAGGIORE - Il nonno s'è assopito. Non dorme da tre notti.
IL PADRE - Ha avuto molte preoccupazioni.
LO ZIO - Si allarma sempre troppo. Ci sono momenti in cui non vuol
sentire ragioni.
IL PADRE - È perdonabile, alla sua età.
LO ZIO ' Dio sa come saremo alla sua età!
IL PADRE - Ha quasi ottant'anni.
LO ZIO - Alla sua età, si ha il diritto di essere strambi.
IL PADRE - È come tutti i ciechi.
LO ZIO ' Riflettono un po' troppo.
IL PADRE - Hanno troppo tempo da perdere.
LO ZIO - Non hanno nient'altro da fare.
IL PADRE - £ poi non hanno distrazioni.
LO ZIO - Dev'essere terribile!
IL PADRE - Sembra che ci si abitui.
LO ZIO - Non posso immaginarmelo.
IL PADRE . Certo sono da compiangere.
LO ZIO - Non sapere dove si è, non sapere da dove si viene, non sapere
144 MAURICE MAETERLINCK
dove si va, non distinguere più il mezzogiorno dalla mezzanotte,
né Testate dalTinverno... e sempre quelle tenebre... preferirei non
vivere più... È assolutamente incurabile?
IL PADRE - Pare di sf.
LO ZIO - Ma è completamente cieco?
IL PADRE - Distingue le luci molto forti.
LO zio - Dobbiamo aver cura dei nostri poveri occhi!
IL PADRE - Spesso ha strane idee.
LO ZIO - In certi momenti non è affatto divertente.
IL PADRE - Dice tutto quello che pensa.
LO ZIO - Ma prima, non era cosi?
IL PADRE - No, una volta ragionava come noi; non diceva niente di
straordinario. È vero che Orsola gli dà un po' troppa corda; ri-
sponde a tutte le sue domande...
LO ZIO - Sarebbe meglio non rispondergli; gli si rende un cattivo ser-
vizio.
(suonano le undici)
IL NONNO (svegliandosi) - Sono rivolto verso la porta a vetri?
LA FIGLIA MAGGIORE - Avete dormito bene, nonno?
IL NONNO - Sono rivolto verso la porta a vetri?
LA FIGLIA MAGGIORE - Si, nonnO.
IL NONNO - Non c*è nessuno sulla porta a vetri?
LA FIGLIA MAGGIORE - Ncssuno, nonno.
IL NONNO (allo zio ed al padre) - E vostra sorella non è venuta?
LO ZIO - È troppo tardi; non verrà più. Non è stata molto gentile.
IL PADRE - Incomincia a preoccuparmi.
(si sente un rumore come se qualcuno entrasse nella casa)
LO ZIO - È qui! Avete sentito?
IL PADRE - Si, qualcuno è entrato dall'interrato.
LO ZIO - Deve essere nostra sorella. Ho riconosciuto il passo.
IL NONNO - Ho sentito camminare lentamente.
IL PADRE - È entrata adagio adagio.
LO ZIO - Sa che c'è un malato.
IL NONNO - Non sento più niente, ora.
LO ZIO - Salirà immediatamente, le diranno che siamo qui.
IL PADRE - Sono contento che sia venuta.
LO ZIO - Ero sicuro che sarebbe venuta stasera.
IL NONNO - Tarda molto a salire.
LO ZIO - Dev'essere per forza lei, però.
IL PADRE - Non aspettiamo altre visite.
La morte di Tintagiles, di Mactcrlinck, al Teatro dei Mathurins di Parigi.
l'intrusa 145
IL NONNO - Non sento nessun rumore nell'interrato.
IL PADRE - Chiamerò la serva; sapremo che cosa pensare, {tira un cor-
done di campanello)
IL NONNO - Già sento rumore sulla scala.
IL PADRE - È la serva che sale.
IL NONNO - Mi sembra che non sia sola.
IL PADRE - Sale lentamente.
IL NONNO - Sento il passo di vostra sorella!
IL PADRE - Io sento soltanto la serva.
IL NONNO - È vostra sorella! È vostra sorella!
{bussano alla porticina)
LO ZIO - Bussa alla porta della scala di servizio.
IL PADRE ' Andrò io stesso ad aprire, perché questa porta fa troppo ru-
more; serve solo per entrare nella camera senza esser visti, {soc-
chiude la porticina, la serva resta fuori, nel vano) Dove siete?
LA SERVA - Qui, signore.
IL NONNO - Vostra sorella è alla porta?
LO ZIO - Vedo solo la serva.
IL PADRE - Non c'è che la serva, {alla serva) Chi è entrato in casa?
LA SERVA - Entrato in casa?
IL PADRE - Si, non è venuto qualcuno poco fa?
LA SERVA - Nessuno e venuto, signore.
IL NONNO • Chi sospira cosi?
LO ZIO - La serva. È tutta ansante.
IL NONNO - E piange anche?
LO ZIO - Ma no, perché dovrebbe piangere?
IL PADRE {alla serva) - Nessuno è entrato?
LA SERVA - No, signore.
IL PADRE - Ma noi abbiamo sentito aprire la porta!
LA SERVA - Sono io che Tho chiusa, la porta!
IL PADRE - Era aperta?
LA SERVA - Si, signore.
IL PADRE - Come mai era aperta a quest'ora?
LA SERVA - Non lo SO, signore. Io l'avevo chiusa.
IL PADRE - Ma allora, chi l'ha aperta?
LA SERVA - Non so, signore. Bisogna che qualcuno sia uscito dopo di
me...
IL PADRE - Bisogna stare molto attenta. Ma non spingete la porta cosi;
sapete pure che fa rumore!
LA SERVA - Ma signore, io non l'ho toccata, la portai
10. • Teatro francete
146 MAURICE MAETERLINCK
IL PADRE - Ma si, spingete come se voleste entrare nella camera!
LA SERVA . Ma, signore, sono a tre passi dalla porta!
IL PADRE - Parlate a voce più bassa.
IL NONNO - Qualcuno sta spegnendo la luce?
LA FIGLIA MAGGIORE - No, nonnO.
IL NONNO - Mi sembra faccia buio di colpo.
IL PADRE {alla serva) - Scendete, ma cercate di non far rumore per la
scala.
LA SERVA - Io non ho fatto rumore.
IL PADRE - Vi dico che ne avete fatto; scendete piano piano; svcglicretc
la signora. E se venisse qualcuno dite che non ci siamo.
LO ZIO - Si, dite che non ci siamo.
IL NONNO (trasalendo) - Non bisognava dire questo!
IL PADRE - Salvo per mia sorella e per il medico.
LO ZIO - A che ora verrà il dottore?
IL PADRE - Non potrà venire prima di mezzanotte, {chiude la porta.
Si sente suonare la mezza)
IL NONNO - È entrata?
IL PADRE - Chi?
IL NONNO - La serva.
IL PADRE - Ma no, è scesa ora.
IL NONNO - Credevo che si fosse seduta al tavolo.
LO ZIO - La serva?
IL NONNO - Si.
LO ZIO - Ci mancherebbe anche questa!
IL NONNO - Nessuno è entrato nella stanza?
IL PADRE - Ma no, nessuno e entrato.
IL NONNO - E vostra sorella non è qui?
LO ZIO - Nostra sorella non è venuta.
IL NONNO - Volete ingannarmi!
LO ZIO - Io, ingannarvi?
IL NONNO - Orsola, dimmi la verità, in nome di Dio!
LA FIGLIA MAGGIORE - Nonno, nonno! Che avete?
IL NONNO - È successo qualche cosa! Sono sicuro che mia figlia sta peg-
gio!...
LO ZIO - Sognate?
IL NONNO - Non volete dirmelo!... Vedo bene che c'è qualche cosa!
LO ZIO - In questo caso ci vedete meglio di noi.
IL NONNO - Orsola, dimmi la verità!
LA FIGLIA MAGGIORE - Ma ve la diciamo la verità, nonno!
IL NONNO - Non hai la tua solita voce!
l'intrusa 147
IL PADRE - È perché la spaventate.
IL NONNO - Anche la vostra voce è cambiata!
IL PADRE - Ma diventate pazzo!
(// padre e lo zio si fanno segni d'intesa per persuadersi che il nonno
ha perduto la ragione)
IL NONNO - Sento bene che avete paura!
IL PADRE - Ma di che cosa dovremmo avere paura?
IL NONNO - Perché volete ingannarmi?
LO ZIO - Chi pensa d'ingannarvi?
IL NONNO - Perchè avete spento la luce?
LO ZIO - Ma non abbiamo spento la luce; c*è chiaro come prima.
LA FIGLIA MAGGIORE - Mi Sembra che la lampada si sia abbassata.
IL PADRE - Ci vedo chiaro come sempre.
IL NONNO - Ho dei macigni sugli occhi! Figlie mie, ditemi dunque che
cosa sta succedendo, qui! Ditemelo, in nome di Dio, voi che ve-
dete! Sono qui solo, in tenebre senza fondo! Non so chi venga a
sedersi accanto a me! Non so più che cosa succeda a due passi da
me!... Perché discorrevate a bassa voce?
IL PADRE - Nessuno ha parlato a bassa voce.
IL NONNO - Avete parlato a bassa voce, vicino alla porta.
IL PADRE - Tutto quello che ho detto lo avete sentito.
IL NONNO - Avete fatto entrare qualcuno nella stanza!...
IL PADRE - Ma vi assicuro che nessuno è entrato!
IL NONNO - Vostra sorella o un prete? Non bisogna cercare d'ingannar-
mi. Orsola, chi è entrato?
LA FIGLIA MAGGIORE - Nessuuo, nonno.
IL NONNO - Non bisogna cercare d'ingannarmi; so quel che so! In
quanti siamo qui?
LA FIGLIA MAGGIORE - Sianio in sei, intorno al tavolo, nonno.
IL NONNO - Siete tutti intorno al tavolo?
LA FIGLIA MAGGIORE - Si, nonnO.
IL NONNO - Siete qui, Paolo?
IL PADRE - Si.
IL NONNO - Siete qui, Oliviero?
LO ZIO - Ma si, ma si; sono qui al mio solito posto. Ma non è serio,
non vi pare?
IL NONNO - Sci qui, Genoveffa?
UNA FIGLIA - Si, nonno.
IL NONNO - Sei qui, Geltrudc?
un'altra FIGLIA - Si, nonno.
IL NONNO - Sci qui, Orsola?
148 MAURICE MAETERLINCK
LA FIGLIA MAGGIORE - Si, noiino, accanto a voi.
IL NONNO - Chi è seduto là?
LA FIGLIA MAGGIORE - Dovc, nonno? Non c*è nessuno.
IL NONNO - Là, là, in mezzo a noi!
LA FIGLIA MAGGIORE - Nessuno, proprio nessuno, nonno.
IL PADRE - Vi dicono che non c*è nessuno!
IL NONNO - Ma non ci vedete, voialtri!
LO ZIO - Andiamo, volete scherzare?
IL NONNO - Non ho nessuna voglia di ridere, ve l'assicuro.
LO ZIO - Allora, credete a quelli che ci vedono.
IL NONNO {indeciso) - Credevo che ci fosse qualcuno... Credo che non
camperò ancora molto...
LO ZIO - Perché vi dovremmo ingannare? A che servirebbe?
IL PADRE - Bisognerebbe pur dirvi la verità!
LO ZIO - A che scopo ingannarsi Tun Taltro?
IL PADRE - Non potreste vivere a lungo nell'errore.
IL NONNO (cercando di cdzarsi) - Vorrei forzare queste tenebre!...
IL PADRE - Dove volete andare?
IL NONNO - Da quella parte...
IL PADRE - Non turbatevi cosi...
LO ZIO - Siete strano, stasera.
IL NONNO - Voialtri mi sembrate strani!
IL PADRE - Che cosa cercate cosi?
IL NONNO - Non so che cosa ho!
LA FIGLIA MAGGIORE - Nonno, nonno, che cosa vi occorre, nonno?
IL NONNO - Datemi le vostre manine, figlie mie.
LE TRE FIGLIE - Si, nonno.
IL NONNO - Perché tremate tutte e tre, figlie mie?
LA FIGLIA MAGGIORE - Non tremiamo quasi, nonno.
IL NONNO - Credo che siate pallide tutte e tre.
LA FIGLIA MAGGIORE - È tardi, nonno, e siamo stanche.
IL PADRE - Dovreste andare a letto. £ anche il nonno farebbe meglio a
riposarsi un po'.
IL NONNO - Non riuscirei a dormire, questa notte.
LO ZIO - Aspetteremo il dottore.
IL NONNO - Preparatemi alla verità!
LO ZIO - Ma non c'è verità!
IL NONNO - Allora non so che cosa c'è!
LO ZIO - Vi ripeto che non c'è niente, assolutamente niente!
IL NONNO - Vorrei vedere la mia povera figlia!
l'intrusa 149
IL PADRE - Sapete bene che non è possibile. Non bisogna svegliarla
inutilmente.
LO ZIO - La vedrete domani.
IL NONNO - Non si sente rumore nella sua camera.
LO ZIO - Mi preoccuperei se sentissi rumore.
IL NONNO - È molto tempo che non vedo mia figlia!... Le ho preso le
mani ieri sera e non la vedevo!... Non so più che diventi... non so
più come sia... non conosco più il suo viso... dev'essere molto cam-
biata in queste settimane!... Ho sentito le piccole ossa delle sue
guance sotto le mie mani... Nient'altro che le tenebre fra lei e me
e tutti voi! Non posso più vivere cosi... non è un vivere questo!...
Voi siete qui, tutti, con gli occhi aperti a guardare i miei occhi
spenti; e nessuno di voi ha pietà!... Non so che cosa ho... non si
dice mai quello che si dovrebbe dire... è tutto spaventoso quando
ci si pensa... Ma perché non parlate più?
LO ZIO - Che dobbiamo dire dal momento che non volete crederci?
IL NONNO - Avete paura di tradirvi!
IL PADRE - Ma siate ragionevole, una buona volta!
IL NONNO - Da molto tempo mi si nasconde qualche cosa!... Qualche
cosa è accaduto in questa casa... Ma comincio a comprendere, ora...
da troppo tempo mi s'inganna!... Credete proprio che non saprò
mai niente? In certi momenti sono meno cieco di voi, sapete?...
Non vi sento forse bisbigliare da parecchi giorni, come se foste
nella casa di un impiccato? Non oso dire quello che so stasera...
Ma saprò la verità!... Attenderò che diciate la verità; ma da molto
tempo la so, a vostro dispetto!... Ed ora, sento che siete più pallidi
dei morti!
LE TRE FIGLIE - Nonuo! Nonuo! che avete dunque, Nonno?
IL NONNO - Non parlo di voi, figlie mie, no, non di voi. So bene che
mi fareste conoscere la verità se quelli non fossero intorno a voi!...
E del resto sono sicuro che ingannano anche voialtre... Vedrete,
figlie mie, vedrete!... Non vi sento forse singhiozzare tutte e tre?
IL PADRE - Mia moglie è veramente in pericolo?
IL NONNO - Non bisogna più cercare d'ingannarmi; è troppo tardi, or-
mai, e conosco la verità meglio di voi!
LO ZIO - Ma insomma, non siamo mica ciechi, noi!
IL PADRE - Volete entrare nella camera di vostra figlia? Qui c'è un ma-
linteso, un errore che deve finire. Volete?
IL NONNO (improvvisamente indeciso) - No, non ora... non ancora!
LO ZIO - Vedete pure che non siete ragionevole.
IL NONNO - Non si conosce mai tutto quello che un uomo non ha pò-
150 MAURICE MAETERLINCK
tuto dire nella sua vita! Chi fa questo rumore?
LA FIGLIA MAGGIORE - È la luoeroa che palpita cos(, nonno.
IL NONNO ' Mi sembra che sia piuttosto inquieta... piuttosto inquieta...
LA FIGLIA MAGGIORE - È il vcuto freddo chc la tormenta...
LO ZIO - Non c*è freddo; le imposte sono chiuse.
LA FIGLIA MAGGIORE - Credo ctie SÌ Spegnerà.
IL PADRE - Non c'è più olio.
LA FIGLIA MAGGIORE - SÌ Spegne proprìo completamente.
IL PADRE - Non possiamo restare cos{, al buio.
LO ZIO - Perché no? Io ci sono già abituato.
IL PADRE - C*è luce nella camera di mia moglie.
LO ZIO - Ne prenderemo fra un istante; quando il dottore sarà venuto.
IL PADRE - È vero che ci si vede abbastanza; c'è il chiaro di fuori.
IL NONNO - C'è chiaro fuori?
IL PADRE - Più di qui.
LO ZIO - A me non dispiace parlare al buio.
IL PADRE - Neanche a me.
(siUnzio)
IL NONNO - Mi sembra che il pendolo sia molto rumoroso!
LA FIGLIA MAGGIORE - È pcrché non parliamo più, nonno.
IL NONNO - Ma perché tacete tutti?
LO ZIO - Di che cosa volete che parliamo? Stasera non siete serio.
IL NONNO - C'è molto buio nella camera?
LO ZIO - Non ci fa molto chiaro.
{silenzio)
IL NONNO - Non sto troppo bene, Orsola; apri un po' la finestra.
IL PADRE - Si, figlia mia, apri un po' la finestra; comincio anch'io ad
aver bisogno d'aria.
{la figlia apre la finestra)
LO ZIO - Credo davvero che siamo rimasti troppo tempo al chiuso.
IL NONNO - È aperta la finestra?
LA FIGLIA MAGGIORE - Si, uonno, è Spalancata.
IL NONNO - Non la si direbbe aperta; non viene nessun rumore da fuori.
LA FIGLIA MAGGIORE - No, nouno, non c'è il minimo rumore.
IL PADRE ' C'è un silenzio straordinario.
LA FIGLIA MAGGIORE • SÌ Sentirebbe camminare un angelo.
LO ZIO - Ecco perché non mi piace la campagna.
IL NONNO - Vorrei tanto sentire un po' di rumore. Che ora è, Orsola?
LA FIGLIA MAGGIORE - Quasi mezzanotte, nonno.
l'intrusa 151
(lo zio incomincia a camminare su e giù per la camere^
IL NONNO - Chi cammina cosi, intorno a noi?
LO ZIO - Sono io, sono io, non abbiate paura. Ho bisogno di camminare
un po', (silenzio) Ma ora mi siederò; non vedo dove metto i piedi!
(silenzio)
IL NONNO - Vorrei essere altrove!
LA FIGLIA MAGGIORE - Dove vorreste andare, nonno?
IL NONNO - Non so dove, in un'altra camera, non importa dove! non
importa dove!
IL PADRE - Dove potremmo andare?
LO ZIO - È troppo tardi per andare altrove. .
(silenzio. Stanno seduti, immobili, intorno al tavolo)
IL NONNO - Che cos'è quello che sento, Orsola?
LA FIGLIA MAGGIORE - Niente, nonno, sono foglie che cadono; s(, sono
foglie che cadono sul terrazzo.
IL NONNO - Va a chiudere la finestra, Orsola.
LA FIGLIA MAGGIORE - Si, nonno. (chiudc la finestra e torna a sedersi)
IL NONNO - Ho freddo, (silenzio. Le tre sorelle si abbracciano) Che cos'è
quello che sto sentendo ora?
IL PADRE - Sono le tre sorelle che si abbracciano.
LO zio - Mi sembrano molto pallide stasera.
(silenzio)
IL NONNO - Che cosa sento ancora?
LA FIGLIA MAGGIORE - Niente, nonno; sono le mie mani; le ho giunte.
(silenzio)
IL NONNO - E questo?...
LA FIGLIA MAGGIORE - Non SO, nonno... forse le mie sorelle che tre-
mano un po'.
IL NONNO - Anch'io ho paura, figlie mie.
(ora un raggio di luna penetra da un angolo delle vetrate e spande,
qua e là, alcuni strani bagliori nella camera. Mezzanotte suona e,
all'ultimo rintocco, sembra, a qualcuno, di sentire, molto vagamen-
te, un rumore come di uno che si alzi in fretta)
IL NONNO (trasalendo con particolare spavento) - Chi si è alzato?
LO ZIO - Nessuno s'è alzato!
IL PADRE - Io non mi sono alzato!
LE TRE FIGLIE - Neanch'io! Neanch'io! Neanch'io!
152 MAURICE MAETERLINCK
IL NONNO - Qualcuno si è alzato dal tavolo!
LO ZIO - Luce!...
{di colpo si sente un vagito di spavento, a destra, nella camera del
bambino; ed il vagito continua con gradazioni di terrore, fino alla
fine della scena)
IL PADRE - Ascoltate! Il bambino!
LO ZIO • Non ha mai pianto!
IL PADRE - Andiamo a vedere!
LO ZIO - Luce! Luce!
{ora si sente un correre a passi precipitati e sordi nella camera a si-
nistra. Poi, un silenzio di morte. Tutti ascoltano in muto terrore,
fino a quando la porta di questa camera si apre lentamente, la luce
da essa irrompe nella sala e la Suora di Carità appare sulla soglia,
nerovestita, e s'inchina facendo il segno di croce, per annunciare la
morte della donna. Tutti comprendono e, dopo un istante di esita-
zione e spavento, entrano in silenzio nella camera mortuaria, men-
tre lo zio, sulla soglia della porta, si tira educatamente in disparte
per lasciar passare le tre figlie. Il cieco, rimasto solo, si alza e si
agita, a tentoni, intorno al tavolo, nel buio)
IL NONNO - Dove andate? Dove andate? Mi hanno lasciato solo, com-
pletamente solo.
La presente traduzione è a cura di Gianni Montagna.
PAUL CLAUDEL
Nato il 6 agosto 1868 in un piccolo villaggio dell'Aisne, mor-
to a Parigi il 23 febbraio 1955 in piena apoteosi, Paul Claudel
ha in comune con Maeterlinck l'origine simbolista, la straordinaria
fecondità e la vocazione dei problemi cosmici. Per il resto, e per
l'essenziale, un abisso divide la piana enigmistica del fiammingo
dal concitato sermo durus e dalle sontuose ambagi di cui si serve
la Pizia claudeliana per rivelare l'etimo, l'esegesi, il senso occulto
e la grande ode del creato.
Uomo d'azione (console e ambasciatore, passò molti anni in
Cina, nel Giappone, svolse le sue funzioni nelle due Americhe,
in Germania, in Danimarca, in Italia, percorse in lungo e in largo
il mondo, conobbe gente ed esperienze di ogni genere) Claudel
restò sempre in contatto e in polemica con il temporale e in ispirato
commercio con l'eterno, fra l'orgogliosa torre d'avorio e lo smi-
surato amore dell'esibizione e del successo. Il quale venne tardi
— ma fu completo — con onori accademici, riprese e rappresen-
tazioni nei teatri mondiali, messaggi radiofonici, recite in Vati-
cano, serate di gala, funerali nazionali.
Ebbe la grazia e il genio precoci. Dopo una breve sosta nei
cenacoli profani del momento (e in particolare nella cappella Mal-
larmé) egli trova di buon'ora la sua strada — o l'iter sacro che
va dalla Bibbia all' Apocalisse — sulla quale incontra diversi e
fortuiti compagni (Pascal, Bossuet, Aristotele, Dante, Eschilo, Do-
stoievski) e soprattutto il battista che sarebbe stato il veggente
della Saison en enfer. «Rimbaud a eu sur moi une ìnfluence
seminale», continuerà a proclamare il vecchio Claudel dei Mi-
moires improvisés. Ad ogni modo, dalla prima rivelazione, che
risale al 1896 (e dalla conferma, che e del 1900) fino agli ultimi
giorni della sua vita, il poeta, che ha scoperto nel cattolicesimo
156 PAUL CLAUDEL
€ le monde total >, legge chiaro nella e grande Nuit de la Foi > e
parla volentieri oscuro, traducendo in versetti biblici, in maiuscole
e in magnificenza il cartesiano « gran libro del mondo » e il verbo
dello Spirito Santo, il coro delle Muse — « aucune n'est de trop
pour moi > — e l'inno alla matematica equazione tra la cifra Clau-
del e € l'immense octave de la Création >.
Per circa sessant'anni di mirabile costanza e di servizio senza
crisi, l'ambasciatore munito di divine credenziali divide il tempo
fra l'invio di rapporti ed elogi al Signore che l'ha assunto nella
sua celeste corte (« Soyez beni, mon Dieu qui m'avez délivré de
moi-méme et qui vous étes vous-méme place entre mes bras...»)
e le istruzioni alla tribó dei fedeli e degli e sfigurati > che si cre-
dono eroi e superuomini : e fra la cima e la pianura (e nelle varie
avventure di una lingua nuova: « les mots que j'emploie - Ce
som les mots de tous les jours, et ce ne sont point les mémes >) e
l'ininterrotto fiume di cantici, « cantate a tre voci > e odi giubilari,
messe pontificali e calendari liturgici (o «corone di benignità >),
< parabole del festino > e mistici trattati di pietre preziose, arti
poetiche dell'universo, agiografie, salmi, sequenze, « processiona-
li >. Come voleva, ma non seppe, Mallarmé, Ode e Teatro danno
l'orfica (e cattolica) spiegazione del creato nell'abolizione dei mon-
di separati e nella restaurata fede nell'oracolo e nel miracolo.
Teatro barocco, dunque, nel quale si accalca gente che, ve-
nuta da ogni tempo e luogo, parla lo stesso esperanto fatto di
voci ascetiche e di termini brutali, oscillante fra il parlato e il
canto, la monodia, il salmo e la cantilena. Nel complesso, lo spet-
tacolo che il teatro claudeliano offre dell'universo è una specie di
immenso mistero medievale nelle cui « mansioni > sono rappre-
sentati il paradiso e l'inferno, la breve passione di Cristo e le
nuove mondanità delle cosmopolitiche maddalene, le parabole
delle vergini sagge e delle folli, i conflitti e le congiunzioni degli
emisferi insieme con la tragedia, la moralità e la farsa del buono
e del cattivo seme di Adamo. Al centro della scena, fra emblemi
sacri e simboli profani, è sempre Claudel con le sue lezioni e le
sue svariate esperienze umane.
Come dicevamo, il cercar Dio fu corto. In Téte d'or (prima
versione 1899, seconda versione 1894-'95) il tumultuoso dramma
PRESENTAZIONE
157
del conquistatore Simon Agnel e deiradolescente Cebès minato
da esistenziale angoscia, della bellezza femminile, della barbarie
asiatica e della civiltà occidentale si conchiude nello sfacelo e nel
nulla della morte perché il mondo è ancora avvolto nelle tenebre.
Ma già nel caos della fantomatica Ville (prima versione 1890, se-
conda versione 1897) s'è fatta la luce. Alla società di uomini fal-
liti o smarriti nella solitudine della materia e dello spirito (al
mondo, cioè, dello scienziato Isidoro de Besme che scopre la morte
in fondo al nulla delle cose, del fratello — il politico Lamberto
— che non riesce ad avere Tamore che perpetua la vita, del ribelle
Avaro che non trova il senso delle sue distruzioni, del giovane
Yvors che cerca la legge per ricostruire) la rivelazione è portata
del poeta Coeuvre che, sparito nelle regioni sotterranee, torna sulla
scena vestito da vescovo per affidare al figlio Yvors il messaggio
che farà della città terrena la Città di Dio.
Fin dalle due opere giovanili, Claudel ha dunque posto il suo
problema in termini universali risolvendone le incognite nell'atto
totalitario della fede. Il teatro diventa cattedra donde il poeta spie-
ga Tunica e vera lezione nella varietà degli e exempla > umani, in
vivaci allegorie e prolisse parabole. Nel 1892 dà la prima versione
della Jeune fille Violarne (la seconda è del 1898) che sarà rima-
neggiata ncìV Annonce faite à Marie (prima versione 1910; seconda
versione 1939; terza versione, per la scena, 1948) «mistero della
fine di un Medio Evo convenzionale» e opera moderna nella
quale la cristiana concezione del riscatto concesso al peccatore
pentito tocca la romantica teologia del colpevole innocente (la
malvagia Bibiane-Mara è stata privata di tutto quello che l'amore
umano e la grazia divina hanno elargito a Violaine) e del male
necessario antagonista e collaboratore del bene. Hugo affermava
che Satana amava il Creatore e ne avrebbe avuto il perdono. Pa-
scal diceva che Gesù continua ad essere crocefisso ogni giorno,
Vigny o Musset continuavano a porsi la vecchia domanda sull'esi-
stenza del dubbio e del male, ma per Claudel le parti e le fun-
zioni sono ormai distinte e chiare. <Tout est bien! — dirà un
imperatore cinese, — le Mal est dans le monde comme un esclave
qui fait monter l'eau; la Justice maintient tout et la Miséricorde
recrée tout >. Nel mondo errano sempre Satana e Mammone, ma
158 PAUL CLAUDEL
terra e cielo « enarrant gloriam Dei >, e basta che l'uomo sappia
leggere nelle Scritture Sacre e nel libro aperto delle seimila Ple-
iadi.
La cattedra si sposta con l'ufficio consolare in paesi stranieri,
ma il poeta sacerdote non farà che cercare dappertutto prove e
conferme della stessa Legge. Mentre nel paesaggio «western»
dclVEchange (1893-'94) uomini senza scrupoU che si scambiano le
donne (l'onesta francese Marthe e la folle americana Lechy) peri-
scono nella loro miseria, nella favolosa Cina del Repos du Sepùè-
me Jour (1896) l'imperatore di un paese invaso dai morti scende
nel regno dei morti per cercare la ragione del disordine, trova la
Verità nei colloqui con il Demonio e con l'Angelo dell'Impero,
risale alla luce, come Coeuvre, portando il messaggio che ristabi-
lisce l'ordine insieme con lo scettro trasformato in Croce. Anche
un giusto come il Mesa del Partage de Midi (1905: tre versioni)
può cedere al peccato di Eva (o di una Ysé debole di carne) e
trovarsi coinvoko nel duro giuoco di avventurieri e di sinistri
eventi, ma si salva con la donna in articulo mortis, nel mistico
matrimonio davanti a Dio. < La chair ignoble frémit, — canta il
morituro Mesa, — mais l'esprit demeure inextinguible >. « Me voi-
ci prete à étre libérée >, risponde la donna prigioniera dei sensi. E
la gloria di Dio vince la tenebra della notte « dans la transfigura-
tion de Midi».
Finora Claudel ha visto il mondo dall'interno, come dice lui,
liricamente traducendo nel teatro il proprio « dramma interiore ».
È venuto il tempo in cui egli cerca di guardare dall'esterno per
tentarne una rappresentazione oggettiva. Nell'Otó^tf (1909), la cui
azione si svolge verso il 1812 nell'abbazia di Coùfontaine (dove
si nasconde Pio VII sfuggito alla prigionia di Napoleone), e il
fatale urto fra la vecchia società e il nuovo mondo ed è il sacrificio
della nobile Sygne che per salvare l'Ostaggio si dà all'odiato e
potente plebeo Toussaint Turelure. Il dramma continua nella
Francia di Luigi Filippo, con Le Pain dur (1914), evolvendo nella
trista commedia del denaro e dei torbidi intrighi della famiglia
Turelure, per risolversi nella Roma del 1869-71, con la moralità
del Pére humilié (1916). Amata dai due nipoti del Santo Padre —
dai fratelli Orian e Orso de Homodarmes, egualmente generosi
PRESENTAZIONE 159
c di indole diversa — Pensee, figlia cieca dell'ambasciatore fran-
cese Louis Turelure, si dà all'idealista Orian e, morto questo, si
unisce in spirituali nozze con il fratello Orso, affinché l'anima
della sposa vada al morto attraverso il vivo. cO frères inscpara-
bles, — canta una Voce, — l'un amène Pensee et l'autre l'a rejue ».
Il traduttore di Eschilo ha tentato la sua moderna trilogia. E nel
complesso l'ha fallita. Storia, realismo borghese. Grand Guignol
ed enfasi eroica fanno un grezzo tessuto nel quale il corso forzoso
dell'azione s'intreccia con il cursus oratorio di un lirismo restato
nel disagio della materia prosaica.
Fra viaggi, missioni ed opere di edificazione, Claudel si di-
strae intanto con «nugae» drammatiche: con il grosso comico
del dramma satiresco Protée (1913) messo in musica da Darius
Milhaud, con la patetica favola realistica de La Nuit de Noci 1914
(1915), con la farsa lirica de L'Ours et la Lune (1917), con scenari
di balletti e mimodrammi composti per Nijinsky. Inoltre, dal 1919
al 1924, fra Parigi, Copenaghen e Tokio (e fra Positions et Propo-
sitions, Odi giubilavi per Dante e per Santa Genoveffa, « sguardi
sull'anima giapponese») va scrivendo Le Soulier de Satin (nel
1943 ridotto da Barrault per la scena) e opus mirandum» (Clau-
del dixit) e dramma fiume che ha per scena «le monde et plus
spécialement l'Espagne à la fin du XVIe siècle» (o press'a poco),
rapsodia epica, tragicommedia e romanzo d'avventura, dove, in
quattro giornate e in innumerevoli episodi, sono « compresi di-
versi paesi ed epoche» che debbono formare un solo orizzonte.
«Le Pire n'est pas toujours sur» è il sottotitolo annunciato dal-
l'Annoncier. Ed infatti dal meglio di stupende scene e dal peggio
di lunghi sonni d'Omero, dagli intrighi della terra e del cielo, dei
tempi e dei contrattempi (vi sono lettere che mettono dieci anni
per giungere a destinazione), dall'assurdo di eventi fatali e dal-
l'impossibile di amori colpevoli, nasce il torrente poetico che, per-
correndo ancora una volta gli oscuri sotterranei dei dolori e dei
peccati umani, risale come sempre verso l'Oceano della luce di-
vina.
« L'ordre, — scrive Claudel, — est le plaisir de la raison : mais
le désordre est le délice de l'imagination ». E mai, come in questo
immenso e caotico affresco, l'immaginazione s'è abbandonata con
160 PAUL CLAUDEL
tanto ardore ai propri disordini e alle delizie del verbo per rac-
contare la storia di Dona Merveille Prouhèze (Isotta che, presa
per « volonté intervenante > della Vergine da un amore adultero,
lascia alla Vergine, « grande Maman efirayante », la sua scarpetta
di seta per correre incontro al male con un piede zoppicante) e
di Don Rodrigue (Tristano conquistatore che fa dipingere e fcuil-
Ics de saints >, che sarà venduto come schiavo e deriso dagli aguz-
zini come Cristo), amanti nell'anima e non nella carne, che dalla
Spagna e dall'Africa all'America si cercano per mare e per terra,
si incontrano, si rifiutano, consumano in vita il dramma del tem-
po, dell'amore e della morte, aspettando di ricongiungersi nel-
l'eternità dei cieli. «C'est le resumé, — dichiara ancora Claudel,
— de toutc mon oeuvre poétique et dramatique»: ed in verità
vecchi temi e nuove fantasie s'incrociano nello scintillante ed
opaco arazzo, nella confusione di lingue familiari ed esotiche, nel
dissonante e suggestivo coro di voci alterne e diverse, in pesanti
facezie e in tirate sublimi, in angeliche e diaboliche disquisizioni,
in sermoni di santi e in preghiere di frati crocefissi, in sottili col-
loqui con l'Angelo Guardiano e in allegoriche farneticazioni di
Dona Musica, in graziose chiacchiere di Maria dalle Sette Spade,
in filosofici colloqui con servi cinesi.
Dopo la grande fatica viene lo stanco riposo del settimo gior-
no, o la rimasticatura della lezione nelle varianti della singolare
fantasia: La Sagesse ou la Parabole du Festin (la Saggezza che
in compagnia delle virtù teologali raccoglie gli sfigurati del corpo
e dell'anima con i quali costruisce la Città evangelica), Le Livre
de Christophe Colomb (1927; il navigatore è visto dal suo « dop-
pio > nell'atto di riunire il globo sotto la Croce), Jeanne d'Are au
bàcher (1933; San Domenico spiega alla Pulzella il senso del mar-
tirio e il piano divino), UHistoire de Tobie et de Sara, moralità
in tre atti, la burlesca « extravaganza radiophonique > de Z^ Lune
à la recherche d'elle-méme,
«Le genie, — è scritto nel Lipre de Christophe Colomb, —
est comme un miroir dont un coté re^oit la lumière et l'autre est
toujours rugueux et rouillc». Lo specchio Claudel presenta con-
temporaneamente le due facce nella confusione di accecanti ba-
PRESENTAZIONE 1 6 1
glìori e di scorie rugginose, di figure sfocate e di immagini mai
viste. Fin dal 1890 il giovane Maeterlinck si chiedeva se Téte d'or
era l'opera di un pazzo furioso o di un genio eccezionale. Sessan-
t'anni dopo, lo stesso Claudel diceva a un giornalista : « Il f aut me
prendre comme je suis >. E prenderlo com'è significa accettare un
fenomeno letterario (o, come dicono, una «forza della natura»)
sottratto alla comune legge e misura: creatore e vittima di una
sintassi spirituale e verbale a carattere « eruttivo > (il termine e
suo) e «lourd compcre» delle Muse, profeta rapito in poetiche
estasi e demiurgo della città divina in colloquio e in diverbio con
l'Angelo petulante e con il Lucifero delle vanità puerili. « Poèmes
de Paul Claudel qu'il composa en Asie >, < Paul Claudel interroge
l'Apocalypse », Paul Claudel che interpreta il Cantico dei Cantici,
che restaura o rifa la creazione e che detta legge a mezzo mondo
(a Gide, a Valéry, come a Budda, a Tao): lo specchio mirabile e
irritante dei traslati e delle analogie non fa che riflettere l'imma-
gine iperbolica del Narciso solitario.
A un siffatto teatro — ricco di eroici imperativi e indicativi,
ma privo di patetici condizionali — è naturalmente inutile cercare
precedenti e chiedere rispetto delle comuni norme. < Ce n'est pas
le cierge qui fait la flamme, — e detto in Positions et Prepositions
II, — c'est la flamme qui a fait le cierge ». E nel teatro di Claudel
è lo Spirito che impasta la sconnessa materia senza curarsi della
sostanza e della verosimiglianza, che trasforma l'atto gratuito in
massiccia azione, che soffia caoticamente in anime liberate dalla
servitù del « carattere >, che scrive prezioso — e spesso illeggibile
— in allegorie e simboli, che parla con un superbo disprezzo delle
convenienze, del limite e del senso del ridicolo: e l'intrepido Ver-
bo va con la stessa disinvoltura dal grottesco sillabario del rito
magico cinese («Orni a, a, i i, u, u, ri, ri, li, li, e, ai, o ou! >) e
dalla biblica Voce della moglie di Tobia («Kha kha kha kha
kha! >) al canto gregoriano, alla cantata straripante, allo stupendo
adagio.
Il fenomeno Claudel continua a restare sospeso nel suo enig-
ma, fra l'intronizzazione e l'acerbo giudizio della critica. Ma e
certo che con lui è scomparsa l'ultima grande figura della straor-
11. • Teatro francese
162 PAUL CLAUDEL
dinaria stagione che ha conosciuto l'opera di Francis Jammes e
di Charles Pcguy, di Valéry, Gide, Proust, Giraudoux.
Fra le molte edizioni, cfr. quella di Jacques Madaule (Théàtre,
Bibl. de la Plèiade 2 voi., 1951.'52).
Fra le opere critiche più recenti, vedasi Madaule J., L^ gènte de P.
C, 1933; Le dram e de P. C, 1934; Chaigne L., La rencontre de P, C,
1942; Truc G., P. C, 1945; Chonez C, Introducùon à P, C, 1947;
Perche L., P. C, 1948; Guillcmin H., C. et son art d'écrire, 1955; Fu-
mct S., C, 1958.
rannniizio a Nana
PERSONAGGI
ANNE VERCORS
GIACOMO HURY
PIETRO DI CRAON
LA MADRE
VIOLAINE
MARA
Comparse
La messa in scena è la stessa per i primi due atti e per il prologo: si ispira alla
hall di un costalo inglese del 1240 e restato da allora intatto: Stoc^sey Hall.
Sul muro, dalla parte della corte, c'è un crocifisso.
Per il 111 atto saranno date indicazioni speciali.
(Redazione definitiva per il teatro, 1948)
L'ANNUNZIO A MARIA
PROLOGO
(PIETRO DI CRAON, COTI ufìu lontcma in mano, traversa la scena e si di-
rige verso la porta che dà sulla corte)
vioLAiNE (scendendo dalla scala) - Piano, piano, mastro Pietro!
È COSI che si scappa dalla casa, come un ladro, senza salutare
come si deve le signore?
(Violaine va a prendere del fuoco dal caminetto e se ne serve per ac-
cendere il cero davanti al Crocifisso)
PIETRO DI CRAON - Violaine, rientrate. È ancora notte fonda e noi due
siamo qui soli.
E voi sapete che non sono un uomo di cui si possa essere
troppo sicuri.
VIOLAINE - Io non ho paura di voi, muratore! Non basta volerlo per
essere malvagi!
Non si riesce a fare di me quel che si vuole!
Povero Pietro! Non siete nemmeno riuscito ad uccidermi
con il vostro pessimo coltello! Nient'altro che un piccolo taglio al
braccio, di cui nessuno s'è accorto.
PIETRO DI CRAON - Violaine, bisogna perdonarmi.
VIOLAINE - È proprio per questo che sono qui.
PIETRO DI CRAON - Voi siete la prima donna che abbia toccata. Il dia-
volo, che approfitta delle occasioni, mi ha afferrato tutt'a un tratto.
VIOLAINE - Ma avete visto che son piò forte di lui.
PIETRO DI CRAON - Violaine, qui io sono piò pericoloso di allora.
VIOLAINE - Dovremo dunque batterci di nuovo?
PIETRO DI CRAON - La mia sola presenza è per se stessa funesta.
VIOLAINE - Non vi capisco.
(silenzio)
PIETRO DI CRAON - Non avevo io forse abbastanza pietre da assembrare
e legname da commettere e metalli da foggiare?
166 PAUL CLAUDEL
La mia opera, la sola mia opera, perché tutt'a un
tratto
Mettessi la mia mano sull'opera di un altro ed em-
piamente desiderassi un'anima, un'anima viva?
vioLAiNE - Nella casa di chi è mio padre e vostro ospite! Signore! Che
avrebbero detto se avessero saputo? Ma io vi ho ben protetto.
E, tutti, come prima, vi credono un uomo sincero e irre-
prensibile.
PIETRO DI CRAON - Dio giudica. Ì cuori al di là delle apparenze.
VIOLAINE - Questo resterà dunque un segreto fra noi tre.
PIETRO DI CRAON - Violaine!
VIOLAINE - Mastro Pietro?
PIETRO DI CRAON - Mettetevi là presso il candelabro perché possa guar-
darvi bene.
{ella fi mette sorridendo sotto il Crocifisso. Egli la guarda a lungo)
VIOLAINE - Mi avete ben guardata?
PIETRO DI CRAON - Chi siete voi, fanciulla, e qual è dunque la parte
che Dio in voi s'è riservata
Perché la mano che vi tocca con desiderio e la stes-
sa carne sia cosi
Colpita come se si fosse accostata al mistero della
sua sede?
VIOLAINE - Che vi è accaduto dunque in quest'anno?
PIETRO DI CRAON - Proprìo all'indomani di quel giorno che voi sapete...
VIOLAINE - Ebbene?
PIETRO DI CRAON - ... ho scoperto sul mio fianco l'orribile male.
VIOLAINE - Il male, voi dite? Che male?
PIETRO DI CRAON - La lebbra di cui si parla nel libro di Mosè.
VIOLAINE - Che cos'è la lebbra?
PIETRO DI CRAON - Non vi hanno mai parlato di quella donna che vi-
veva sola fra le rocce del Geyn
Tutta velata dalla testa ai piedi e che portava in
mano le castagnette?
VIOLAINE - È quel male, mastro Pietro?
PIETRO DI CRAON - Esso è di tal natura
Che colui che ne è contagiato in tutta la sua mali-
gna forza
Deve essere subito isolato
Che non vi è un essere vivente per quanto sano al
quale la lebbra non possa attaccarsi.
VIOLAINE - Come potete dunque restare fra di noi in libertà?
l'annunzio a maria 167
PIETRO DI CRAON - Il Vcscovo mi ha accordato questo privilegio, e voi
vedete che mi mostro brevemente e di rado
E solo ai miei operai per dare ordini, e il mio male
è ancora coperto e nascosto.
E chi senza me porterebbe alle loro mistiche nozze
queste nascenti chiese che Dio mi ha commesso?
vioLAiNE - Perciò non siete venuto questa volta a Combernon?
PIETRO DI CRAON - Non potevo esimermi dal ritornare qui,
Che il mio compito è quello di aprire il fianco di
Monsanvergine
E di fendere la parete ogni volta che un nuovo volo
di colombe vi vuole entrare dall'alta Arca le cui finestre sono solo
verso il cielo aperte I
E questa volta portavamo all'altare una illustre
ostia, un insigne incensiere.
La Regina stessa, madre del Re, che vi saliva, pro-
prio lei.
Per suo figlio, privato del suo regno.
Ed ora me ne torno a Reims.
VIOLAINE - Costruttore di porte, lasciate che vi apra questa.
PIETRO DI CRAON - Non c'cra alla fattoria nessun altro per rendermi
questo servigio?
VIOLAINE - Alla fantesca piace dormire e perciò m'ha consegnato le
chiavi facilmente.
PIETRO DI CRAON - Non avete timore e orrore del lebbroso?
VIOLAINE - Dio è là che mi sa proteggere.
(Violaine apre la porta; ella e Pietro di Craon guardano a lungo la
campagna)
VIOLAINE - Questa pioggerella è stata per tutti una benedizione.
PIETRO DI CRAON - La polvere della strada si sarà abbassata.
VIOLAINE (a bassa voce, affettuosamente) - Pace a voi, Pietro!
{a Monsanvergine suona L'Ave Maria: il Coro canta Regina coeli,
laetare, laetare. Intanto Violaine si fa lentamente il segno della cro-
ce, mentre Pietro ne traccia rapidamente la figura sul suo petto)
PIETRO DI CRAON - È tempo di partire.
VIOLAINE - Conoscete bene la strada? Questa siepe prima
E poi quella casa bassa nella macchia di sambuchi dove
vedrete cinque o sei alveari.
E cento passi più in là raggiungete la strada Reale.
(pausa)
168 PAUL CLAUDEL
PIETRO DI CRAON - PaX tibi.
Come tutta la creazione è con Dio in un mistero
profondo!
Ciò che era nascosto ritorna visibile con Lui ed io
sento sul mio viso un soffio di una freschezza di rosa.
Loda il tuo Dio, terra benedetta, nelle lacrime e nel-
l'oscurità!
Il frutto è per luomo, ma il fiore è per Dio, e il
buon odore di tutto ciò che nasce.
Cosi, al pari della foglia di menta, l'odore della
santa anima nascosta ha svelato la sua virtù.
Violaine che mi avete aperto la porta, addio! io non
tornerò piò verso di voi.
O giovane albero della scienza del Bene e del Ma-
le, ecco che io comincio a disfarmi perche ho portato la mano su
voi.
£ digià la mia anima e il mio corpo si dividono
come il vino nel tino, mischiato al grappolo calpestato!
Che importa? Io non avevo bisogno di donna. Io
non ho posseduto una donna corruttibile.
L'uomo che ha preferito Dio nel suo cuore, quan-
do muore, vede l'Angelo che lo custodiva.
Verrà ben presto il tempo in cui un'altra porta si
dissolva.
Quando colui che è piaciuto a pochi in questa vita,
si addormenta^ avendo condotto a termine la sua opera, fra le brac-
cia dell'Uccello eterno:
Quando digià attraverso i muri diafani da tutti i
lati appare l'oscuro Paradiso.
E gli incensieri della notte si mescolano all'odore
del sozzo lucignolo che si spegne.
VIOLAINE - Pietro di Craon, io so che voi non vi aspettate da me dei
« Pover'uomo » e dei falsi sospiri e dei «Povero Pietro».
Giacché per chi soffre le consolazioni di un consolatorc
felice non hanno grande importanza e il suo male non è per noi
quello che è per lui.
Soffrite con Nostro Signore.
Ma sappiate che la vostra cattiva azione è cancellata;
Per quel che dipende da me, e io sono in pace con voi.
E che io non vi disprezzo e non vi aborrisco perché siete
colpito e malato
l'annunzio a maria 169
Ma vi tratterò come un uomo sano e come Pietro di Craon,
il nostro vecchio amico che onoro, amo e temo.
Io ve lo dico. È vero.
PIETRO DI CRAON - Grazic, Violaine.
vioLAiNE - Ed ora vi devo domandare qualcosa.
PIETRO DI CRAON - Dite.
VIOLAINE - Che cos'è questa bella storia che mio padre ci ha raccon-
tata? Che cos'è questa «giustizia» che costrutte a Reims e che
sarà pili bella di S. Remigio o di Nostra Signora?
PIETRO DI CRAON - È la chiesa che le corporazioni di Reims mi hanno
dato da costruire sul luogo dell'antico Parc-aux-Ouilles,
Là dove l'antico Marc-de-l'Evéque è stato bruciato
Tanno passato.
VIOLAINE - E donde proviene il nome che è dato alla nuova chiesa?
PIETRO DI CRAON - Non avetc mai sentito parlare di Santa Giustizia
che fu martirizzata al tempo dell'imperatore Giuliano in un campo
di anice?
(Quei grani che si mettono nel nostro pan pepato
per la fiera di Pasqua)
Tentando di deviare l'acqua di una sorgente sotter-
ranea per le nostre fondamenta,
Abbiamo trovato la sua tomba con questa iscrizio-
ne su una lastra spez2Uita in due: lustitia ancilla Domini in pace.
Il fragile piccolo cranio era fracassato come una
noce, era una bambina di otto anni,
E alcuni denti di latte sono ancora confitti nella
mascella,
E tutta Reims è piena di stupore e infiniti segni e
prodigi si accomjpagnano al corpo
Che abbiamo posto in una cappella aspettando la
fine dell'opera.
Ma abbiamo lasciato i piccoli denti come una se-
mente sotto il grande blocco del basamento.
VIOLAINE - Che bella storia! E il padre ci diceva anche che tutte le
dame di Reims donano i loro gioielli per la costruzione della Giu-
stizia?
PIETRO DI CRAON - Ne abbiamo un gran mucchio, e molti Ebrei intor-
no, come mosche.
(Violaine tiene gli occhi bassi, girando con fare esitante un grosso
anello d'oro che porta all'anulare)
170 PAUL CLAUDEL
PIETRO DI CRAON - Chc anello è questo, Violainc?
vioLAiNE - Un anello che mi è stato dato da Giacomo.
(silenzio)
PIETRO DI CRAON - Mi coHgratulo con voi.
(ella gli porge l'anello)
VIOLAINE - Non è ancora deciso. Mio padre non ha detto nulla.
Ebbene! proprio questo vi volevo dire.
Prendete il mio bell'anello : è tutto quello chc ho e Giaco-
mo me rha dato in segreto.
PIETRO DI CRAON - Ma io non lo voglio!
VIOLAINE - Prendetelo subito, che io non avrei piò la forza di staccar-
mene.
{egli prende l'anello)
PIETRO DI CRAON - Che dirà il vostro fidanaato?
VIOLAINE - Non è ancora veramente il mio fidanzato.
La mancanza dell'anello non cambia il cuore. Egli mi co-
nosce.
Me ne darà un altro d'argento.
Questo era troppo bello per me.
PIETRO DI CRAON {esaminandolo) - È d'oro vegetale, come ne sapevano
fare un tempo, mescolandolo al miele.
È malleabile come la cera e niente può romperlo.
VIOLAINE - Giacomo l'ha trovato mentre arava, in un luogo dove si
trovano spesso vecchie spade tutte verdi e graziosi pezzi di vetro.
Mi impauriva portare questo oggetto pagano che appartie-
ne ai morti.
PIETRO DI CRAON - Accetto quest'oro puro.
VIOLAINE - E baciate per me mia sorella Giustizia.
PIETRO DI CRAON {guardandola improvvisamente e come colpito da una
idea) - È tutto quello che voi potete donarmi per lei? Un po' d'oro
tolto dal vostro ditoP
VIOLAINE - Non basta a pagare una piccola pietra?
PIETRO DI CRAON - Ma Giustizia è essa stessa una grande pietra.
VIOLAINE {ridendo) - Ma io non sono della stessa cava.
PIETRO DI CRAON - Quella che occorre per la base non è certo quella
che occorre per il fastigio.
VIOLAINE - Una pietra, se mai io ne sono una, che sia quella pietra la-
boriosa chc macina il grano, accoppiata alla mola gemella.
l'annunzio a maria 171
PIETRO DI CRAON - Ed anchc Giustizia non era che un'umile fanciulla
accanto alla madre
Fino all'istante in cui Dio la chiamò al martirio.
vioLAiNE - Ma nessuno mi vuol male! Bisogna ch'io vada a predicare
il Vangelo ai Saraceni?
PIETRO DI CRAON - Non tocca alla pietra scegliersi il posto, ma al Mae-
stro dell'opera che l'ha scelta.
VIOLAINE - Lodato dunque sia Dio che mi ha dato subito il mio senza
che io debba più cercarlo. E non gliene domando un altro.
Io sono Violaine, ho diciotto anni, mio padre si chiama
Anne Vercors, mia madre si chiama Elisabetta,
Mia sorella si chiama Mara, il mio fidanzato si chiama
Giacomo. Ecco, è finito, non c'è piti nulla da sapere.
Tutto è perfettamente chiaro, tutto è stabilito in precedenza
ed io sono molto contenta.
Sono libera, non mi devo preoccupare di nulla, è un altro
quello che mi guida, pover'uomo, e che sa tutto ciò che si deve
fare.
Seminatore di campanili, venite a Combernon! Vi daremo
e pietre e legname, ma non avrete la ragazza della casa!
E d'altra parte, non è già questa casa di Dio, terra di Dio,
servizio di Dio?
E il nostro compito non è forse quello di nutrire e custo-
dire il solo Monsanvergine, fornendo il pane, il vino e la cera.
Dipendendo da questo solo nido di angeli dalle ali a metà
dispiegate?
Cosi come i grandi signori hanno la loro colombaia noi
abbiamo la nostra, che si riconosce da lontano.
PIETRO DI CRAON - Un tempo, passando per la foresta di Fisme, ho
udito due belle querce che parlavano fra loro
Lodando Dio che le aveva create incrollabili là do-
ve erano nate.
Ora, alla prua d'una galera, una fa la guerra ai
Turchi sull'Oceano,
L'altra, fatta tagliare da me, attraverso la Torre di
Laon,
Sorregge Giovanna la buona campana, la cui voce
s'ode a dieci leghe di distanza.
Fanciulla, nel mio mestiere non si tengon gli occhi
in tasca. Riconosco la buona pietra sotto i ginepri e il buon legno
come il più abile picchio:
172 PAUL CLAUDEL
E cosi gli uomini e le donne.
vioLAiNE - Ma non le fanciulle, mastro Pietro! È troppo sottile per
voi.
E del resto non c'è proprio nulla da conoscere.
PIETRO DI c^AON (sottovocc) - L'amate mdto, Violaine?
VIOLAINE {con gli occhi bassi) - È un gran mistero fra noi due.
PIETRO DI CRAON - Benedetta sii tu nel tuo casto cuore!
La santità non consiste nell'andare a farsi lapidare
dai Turchi o nel baciare un lebbroso sulla bocca,
Ma nell'obbedire al comando del Signoi^e, subito,
Sia che si tratti
Di restare al nostro posto, o di salire più in alto.
VIOLAINE - Ah! come il mondo è bello e come sono felice!
PIETRO DI CRAON (sottovocc) - Ah! come il mondo è bello e come sono
infelice!
VIOLAINE {tendendo un dito verso il cielo) - Uomo della città, ascol-
tate!
{pausa)
Sentite là in alto, in alto, quella piccola anima che canta?
PIETRO DI CRAON - È l'allodola.
VIOLAINE - È l'allodola. Alleluia! L'allodola della terra cristiana; alle-
luia, alleluia!
La sentite gridare quattro volte di seguito hi! hi! hi! hi!
più alto, più alta!
La vedete, con le ali distese, piccola croce veemente, come
i serafini che son tutt'ali, senza piedi e una voce acuta davanti al
trono di Dio?
PIETRO DI CRAON - La seuto.
E cosi l'ho sentita una volta sul far dell'aurora, il
giorno in cui consacrammo mia figlia, Nostra Signora della Ci-
catrice.
E brillava un po' d'oro, alla punta estrema di quella
grande cosa che avevo fatto, come una stella nuova!
VIOLAINE - Pietro di Craon, se voi aveste fatto di me a vostra voglia,
Forse che ne sareste più lieto, ora, o forse che io
ne sarei più bella?
PIETRO DI CRAON - No, Violaiue.
VIOLAINE - Forse che io sarei quella stessa Violaine che voi amavate?
PIETRO DI CRAON - Nou lei, ma un'altra.
VIOLAINE - E che cosa vale di più, Pietro? Che vi dia parte della mia
gioia o che prenda parte del vostro dolore?
l'annunzio a maria 173
pi£TRO DI CRAON - Canta nel piti alto dei cieli, allodola di Francia!
vioLAiNE - Perdonatemi perché son troppo felice 1 Perché colui ch'io
amo
Mi ama e io sono sicura di lui, e so che mi ama e tutto è
uguale fra noii
E perché Dio mi ha creata affinché fossi felice e non per
il male e per la pena.
PIETRO DI CRAON - Sali al cielo d'un solo slancio!
Quanto a me, per salire un po', mi è necessaria tut-
ta la mole di una cattedrale e le sue profonde fondamenta.
VIOLAINE - E ditemi che perdonate a Giacomo di sposarmi.
PIETRO DI CRAON - No, non gli perdono.'
VIOLAINE - L'odio non vi fa bene, Pietro, e a me fa male.
PIETRO DI CRAON - Siete voi che mi fate parlare.
Perché costringermi a mostrare l'orrenda piaga che
non si vede?
Lasciatemi partire e non chiedetemi altro. Noi non
ci rivedremo più.
E tuttavia io porto con me il suo anello!
VIOLAINE - Lasciate il vostro odio al suo posto ed io ve lo renderò quan-
do ne avrete bisogno.
PIETRO DI CRAON - Auchc io, Violaiuc, sono molto infelice!
È duro esser lebbroso e portare in sé l'infame piaga
e sapere che non si guarirà e che niente la vince.
Ma che ogni giorno essa si allarga e penetra, ed
essere solo a sopportare il proprio veleno e sentirsi corrompere tut-
to vivo!
E assaporare non solo la morte, non solo una volta
o dieci volte, ma, senza perderne niente fino alla fine, la spaven-
tosa alchimia della tomba!
Voi mi avete fatto questo male con la vostra bel-
lezza, che prima di vedervi ero puro e lieto.
Dedito soltanto al mio lavoro e ai miei progetti
agli ordini di un altro,
E ora che sono io a comandare a mia volta e da
me si viene per i piani di lavoro,
Ecco che vi volgete verso di me con quel sorriso
pieno di veleno!
VIOLAINE - Il veleno non era in me, Pietro.
PIETRO DI CRAON - Lo so; era in me e c'è sempre e questa carne ma-
lata non ha guarito l'anima corrotta.
174 PAUL CLAUDEL
O piccola mia, era mai possibile che vi vedessi sen-
za amarvi?
vioLAiNE - £ certo avete mostrato che mi volevate benel
PIETRO DI CKAON - È colpa mia se il frutto è attaccato al ramo?
E chi, amando, non vuole avere tutto di ciò che
ama?
VIOLAINE - Ed è per questo che avete cercato di distruggermi?
PIETRO DI CRAON - L'uomo oltraggiato ha anch'egli le sue tenebre, co-
me la donna.
VIOLAINE - In che cosa io vi ho offeso?
PIETRO DI CRAON - O immagine della Bellezza eterna, tu non sei mia!
VIOLAINE - Io non sono un'immagine 1 Non è una maniera, questa, di
dir le cosel
PIETRO DI CRAON - Un altro prende in voi quello che mi apparteneva.
VIOLAINE - Resta l'immagine.
PIETRO DI CRAON - Un altro mi prende
Violaine e mi lascia questa carne colpita e questo
spirito devastato.
VIOLAINE - Siate uomo, Pietro! Siate degno della fiamma che vi consu-
ma. E se bisogna esser divorati, che ciò sia su un candelabro d'oro,
come il Cero Pasquale in pieno coro per la gloria di tutta la Chiesa!
PIETRO DI CRAON - Tanti fastigi sublimi! Non vedrò io mai quello del-
la mia casetta fra gli alberi?
Tanti campanili la cui ombra, girando, scrìve l'ora
su tutta la città! Non farò io mai il disegno di un forno e della
camera per i bimbi?
VIOLAINE - Io non dovevo prendere per me sola quello che appartiene
a tutti.
PIETRO DI CRAON - A quando le nozze^ Violaine?
VIOLAINE - A San Michele, suppongo, quando la mietitura è finita.
PIETRO DI CRAON - Quel giorno, quando le campane di Monsanvergine
avran fatto silenzio, tendete l'orecchio e mi sentirete ben lontano
da Reims rispondere.
VIOLAINE - Chi avrà cura di voi laggiù?
PIETRO DI CRAON - Son Sempre vissuto come un operaio; una manciata
di paglia mi basta, fra due pietre, un abito di cuoio, un po' di
lardo sul pane.
VIOLAINE - Povero Pietro!
PIETRO DI CRAON - NoD è per questo che mi si deve compiangere: noi
siamo di un'altra razza.
l'annunzio a maria 175
Io non vivo sullo stesso piano degli altri uomini,
ma sempre sottoterra con le fondamenta o nel cielo con il cam-
panile.
vioLAiNE - Ebbene 1 non avremmo potuto vivere insieme! Io non posso
salire nel granaio senza sentirmi girare la testa.
PIETRO DI CRAON - Quella chiesa sola sarà la mia donna che sarà tratta
dal mio costato come un'Eva di pietra, nel sonno del dolore.
Possa io ben presto sotto di me sentire innalzarsi
la mia vasta opera, posare la mano sulla cosa indistruttibile che io
ho fatto e che è ben connessa in tutte le sue parti, opera compatta
che ho costruita di solida pietra affinché il principio vi abbia inizio,
opera mia che Dio abitai
Non scenderò più.
VIOLAINE - Dovete scendere. Chi sa se io non avrò bisogno di voi, un
giorno?
PIETRO DI CRAON - Addio, Violaine, anima mia, non vi rivedrò piò.
VIOLAINE - Chi sa se non mi rivedrete piò?
PIETRO DI CRAON - Addio, Violaine.
Quante cose ho già fatto! Quali cose mi restano da
fare
Dell'ombra con Dio,
Eguale a quella dell'anima umana perché l'ostia ri-
sieda nel centro.
Porto con me il vostro anello. E chi sa se io non
porto insieme l'anima di Violaine?
L'anima di Violaine, mia amica, nella quale il mio
cuore si compiace,
L'anima di Violaine, mia fanciulla, perch'io ne fac-
cia una chiesa.
(MARA VERCORS è entrata e li osserva dalla sommità della seda senza
che essi la vedano)
VIOLAINE - Addio Pietro!
PIETRO DI CRAON - Addio, Violaine!
VIOLAINE - Povero Pietro!
(a questo punto il bado, che deve essere dato con grande solennità,
Violaine stando in basso prende la testa di Pietro fra le mani e ne
aspira l'anima, Mara fa un gesto di sorpresa ed esce)
176 PAUL CLAUDEL
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
In mezzo alla stanza una grande tavola sulla quale la madre sta stirando un
pezzo di tela, anne vercors è seduto voltando te spalle alla tavola, con un
libro di conti sulle ginocchia.
ANN£ VERCORS - Ehi, Madfc; se credi che sia facile raccapezzarsi in
mezzo alle tue croci e ai tuoi cerchi!
LA MADRE - Canzonami pure, gran canzonatore, che tu sei proprio bra-
vo per tenere i conti! È la paletta, come si dice... Giusto, come si
dice?
ANNE VERCORS - È la paletta che si burla dell'attizzatoio.
LA MADRE - Proprìo COSI... È la paletta...
{essa spruzza la tela con la punta delle dita prendendo l'acqua da un
recipiente sulla tavola)
È la paletta che si burla dell'attizzatoio.
ANNE VERCORS - E tu che cosa stai attizzando?
LA MADRE - Vorrcsti Saperlo, eh, mio furbacchione?... È un mio se-
greto.
ANNE VERCORS - Anch'io ho forse un segreto.
(si è alzato e la guarda)
LA MADRE (scnza guordorlo) - Perché mi guardi cosi?
ANNE VERCORS - O donna! ecco da quando ci siamo sposati
Con Fanello che ha la forma di Si, un mese,
Un mese di cui ciascun giorno è un anno.
E per lungo tempo tu mi sei restata sterile
Come un albero che produce solo ombra,
E un giorno noi ci siamo come oggi
Considerati nel mezzo della nostra vita,
Elisabetta! E io ho visto le prime rughe sulla tua fron-
te e intorno ai tuoi occhi.
E, come nel giorno del nostro matrimonio.
Noi ci siamo abbracciati e presi, non più nell'alle-
grezza.
Ma nella tenerezza e nella compassione e nel rispetto
della nostra fede reciproca.
Scenografia di Jean Variot per L'Annunzio a Maria, di Paul Claudel (1912).
significa
l'annunzio a maria 177
Ed ecco fra noi la bimba e la gentilezza
Di questo dolce narciso, Violai ne.
E poi, la seconda ci nasce,
Mara la nera. Un'altra figlia e non era un figlio.
(pausa)
Suvvia, dimmi, ora, quel che devi dire perché so che
Quando tu ti metti a parlare senza guardare, dicendo
qualche cosa e niente. Sentiamo!
LA madre - Sai bene che non ti si può dir nulla. Ma tu non sei mai
qui, ma bisogna che ti afferri a volo per attaccarti un bottone.
Ma tu non ci ascolti. Ma tu sei sempre qui, come un cane,
a sbirciare e a spiare attendendo non so che cosa.
Gli uomini non capiscono niente!
ANNE VERCORS - Le bambine, eccole grandi ormai!
LA MADRE - Non sono poi cosi grandi!
ANNE VERCORS - A chi Ic mariteremo?
LA MADRE - Abbiamo tutto il tempo di pensarci.
ANNE VERCORS - O falsità femminile! Dimmi quand'è che tu pensi
una cosa senza dire prima il contrario, malizia! Io ti conosco.
LA MADRE - Non dirò più niente.
ANNE VERCORS - Giacomo Hury.
LA MADRE - Ebbene?
ANNE VERCORS - Ecco. Gli darò Violaine.
E prenderà il posto del figlio che non ho avuto. È un
uomo retto e coraggioso.
Lo conosco da quando era bambino, da quando sua
madre ce l'ha affidato. Sono io che gli ho tutto insegnato,
Le sementi, le bestie, gli uomini, le armi, gli arnesi,
i vicini, i superiori, le usanze — Dio —
Il tempo che fa, le consuetudini di questa terra antica.
Il modo di riflettere prima di parlare.
L'ho visto diventare uomo mentre mi guardava.
E non era di quelli che contraddicono, ma di quelli
che riflettono, come una terra che accetta tutte le sementi.
E ciò che è falso, non mettendo radici, muore;
E COSI per quel che e vero non si può dire ch'egli vi
creda, ma ciò cresce in lui, avendo trovato nutrimento.
LA MADRE - Bisognerebbe sapere se davvero si piacciono.
ANNE VERCORS - Violaine
12. - Teatro francese
178 PAUL CLAUDEL
Farà quello che io le avrò detto.
E in quanto a lui, so che l'ama e che lo sai bene an-
che tu.
Tuttavia lo sciocco non osa dirmi niente. Ma io gliela
darò se vuole. £ sarà questo e cosi sarà.
LA MADRE - Bene, bene, s(, be', si.
Certamente va bene cosi. Certamente sarà bene cosL
ANNE VERCORS - È tutto? Non hai altro da dire?
LA MADRE - Che devo dire?
ANNE VERCORS - Ebbene! vado a cercarlo.
LA MADRE - Come, a cercarlo? Come, a cercarlo? Anne!
ANNE VERCORS - Bisogna che tutto sia sistemato immediatamente. Avrò
qualcosa da dirti fra poco.
LA MADRE - Da dirmi? Che cosa da dirmi? Anne, ascoltami un po'...
Ho paura...
ANNE VERCORS - Ebbene?
LA MADRE - Mara
Dormiva nella mia camera quest'inverno, quando tu eri
malato e si parlava la sera nei nostri letti.
Sicuro che è un bravo ragazzo e io l'amò come un figlio,
quasi.
Non possiede nulla, è vero, ma è un buon lavoratore e di
buona famiglia.
A loro due potremmo dare
Le nostre rendite dei Demi-Muids con le terre di sotto che
son troppo lontane per noi. Volevo parlarti anche di lui.
ANNE VERCORS - Ebbene?
LA MADRE - Ebbene! niente.
Certamente Violainc è la maggiore.
ANNE VERCORS - Sentiamo, e poi?
LA MADRE - E poi? Come sai tu di sicuro se egli l'ama?
— Il nostro compare, mastro Pietro,
(Perché s'è tenuto in disparte stavolta senza vedere nes-
suno?)
Tu l'hai visto l'anno scorso quand'è venuto.
E come la guardava mentre lei ci serviva. — Certamente
non ha terre, ma guadagna molto denaro.
— E lei, mentre lui parlava,
Come lo ascoltava, con gli occhi spalancati come una scc-
l'annunzio a maria 179
Dimenticandosi di versare da bere, tanto che mi son do-
vuta arrabbiare!
— £ Mara, tu la conosci! Tu sai com'è ostinata!
Se si è messa in testa, dunque,
Di sposare Giacomo, eh, eh, — lei è dura come il ferro.
Io, non sol Forse sarebbe meglio...
ANNE VEROORS - Che cosa sono queste sciocchezze?
LA MADRE - Bene! Bene! Si può parlare tanto per parlare. Non c'è bi-
sogno di adirarsi.
ANNE VERcoRS - lo lo voglio. E Sarà cosi.
Giacomo sposerà VicJaine.
LA MADRE - Ebbene, cari miei, sta bene; la sposerà, dunque.
ANNE VERCORS - E adesso, povera mamma, ho altro da dirti, vecchia
mia. Io parto.
LA MADRE - lo parto? Tu parti?
Ma che vai dicendo? Tu parti, tu parti, vecchio mio?
ANNE VERCORS - Proprio per questo è necessario che Giacomo sposi Vio-
laine senza tardare e ch'egli sia l'uomo, qui, al mio posto.
LA MADRE - Signore! Tu parti? Davvero? E dove vai?
ANNE VEROORS (jocendo un vago cenno verso il sud) - Laggiù.
LA MADRE - A ChàtCau?
ANNE VERCORS - Piu lontano di Chàteau.
LA MADRE (obbossando la voce) - A Bourges, dall'altro Re? *
ANNE VERCORS - Dal Re dei Re, a Gerusalemme.
LA MADRE - Santa Vergine, mio dolce Gesd!
(si siede)
Forse che la Francia non è più abbastanza buona per te?
ANNE VEROORS - C'è troppo dolore in Francia.
LA MADRE - Ma uoi Stiamo bene e nessuno tocca Reims.
ANNE VEROORS - Proprio per questo.
LA MADRE - Comc proprìo per questo?
ANNE VERCORS - Proprìo per questo, noi siamo troppo felici.
E gli altri non abbastanza.
LA MADRE - Anne, la colpa non è nostra.
ANNE VERCORS - E nemmeno loro.
^ Durante la guerra dei Cent'anni, quando gli Inglesi occupavano Parigi, Car-
lo Vn aveva trasportato la corte a Bourges. Lo chiamavano ironicamente « Le Roi
de Bourges ».
180 PAUL CLAUDEL
LA MADRE - lo Don lo SO. lo SO chc tu sci quì c che ho due figlie.
ANNE V£Rcx)RS - Ma vedi almeno che tutto è sconvolto e tratto fuor
dal suo posto, e come ciascuno cerchi disperatamente dove esso sia.
E il fumo che si vede talvolta in lontananza, non è
vuota paglia che brucia.
E quelle grandi schiere di poveri che ci arrivano da
tutte le parti.
Non c'è più un Re sulla Francia, secondo quanto è
stato predetto dal Profeta.
LA MADRE - È quello che ci leggevi Taltro giorno?
ANNE VERcoRs - Al posto del Re abbiamo due ragazzi.
Uno, ringlese, nella sua isola
E Taltro, cosi piccolo che non lo si vede più, fra i
canneti della Loira.
Al posto del Papa, ne abbiamo tre e al posto di Ro-
ma, non so quale concilio in Isvizzera.
Tutto è in lotta e fermento
Non essendo più tenuto saldo dalla mano superiore.
LA MADRE - E anche tu, ecco che ora te ne vuoi andare?
ANNE VERcoRS - Non posso piu restare qui.
LA MADRE - Anne, ti ho dato qualche dispiacere?
ANNE VERCORS - No, Elisabetta mia.
LA MADRE - Ecco che tu m'abbandoni nella mia vecchiaia.
ANNE vERCORs - Dammi congedo tu stessa.
LA MADRE - Tu non mi ami più e non sei più felice con me.
ANNE VERCORS - Sono stanco di essere felice.
LA MADRE - Non disprezzare il dono che il Buon Dio ha fatto.
ANNE VERCORS - Sia lode a Dio che m'ha colmato dei suoi beni!
Fanno ora trent'anni dacché possiedo questo feudo di
mio padre e dacché Dio fa piovere sui miei solchi.
E da dieci anni non c'è un'ora del mio lavoro
Ch'egli non abbia pagata quattro volte e un'altra an-
cora,
Come se egli non volesse lasciare nulla in sospeso fra
me e Lui, ma regolare tutti i conti.
Tutto perisce e io sono risparmiato.
Cosicché io comparirò davanti a Lui vuoto e senza
merito, fra quelli che hanno ricevuto la loro ricompensa.
LA MADRE - È abbastanza, un cuore riconoscente.
ANNE VERCORS - Ma io non sono sazio dei suoi beni.
l'annunzio a maria 181
E perche ho ricevuto questi, dovrei lasciare ad altri
quelli più grandi?
LA MADRE - Noil ti CapisCO.
ANNE VERCORS - Chi riceve di più, il vaso pieno o quello vuoto?
£ chi ha bisogno di maggior copia d'acqua, la cister-
na o la sorgente?
LA MADRE - La nostra è quasi inaridita, con un'estate cosi calda.
ANNE VERCORS - Tale è il male del mondo che ognuno ha voluto go-
dersi i suoi beni, come se fossero stati creati per lui.
LA MADRE - Tu hai un dovere da compiere verso di noi.
ANNE VERCORS - No, se tu me ne sciogli.
LA MADRE - lo non te ne scioglierò.
ANNE VERCORS - Tu vedì che la parte che mi spettava è stata fatta.
Le due ragazze sono grandi, Giacomo sta per pren-
dere il mio posto.
LA MADRE - Chi ti chiama lontano da noi?
ANNE VERCORS (sorridendo) - Un angelo che suona la tromba.
LA MADRE - Quale tromba?
ANNE VERCORS - La tromba senza suono che tutti sentono.
LA MADRE - Gerusalemme è cosf lontana!
ANNE VERCORS - Il Paradiso lo è ancor di più.
LA MADRE - Dio nel tabernacolo è con noi anche qui.
ANNE VERCORS - Ma non quella gran buca nella terra!
LA MADRE - Quale buca?
ANNE VERCORS - Quclla fatta dalla Croce quando vi fu confitta.
Eccola attirare tutto a sé.
Là è il punto che non può essere disfatto, il nodo che
non può essere disciolto.
LA MADRE - Che può UD solo pellegrino?
ANNE VERCORS - Non sono solo!
Eccoli tutti in cammino con me; tutte queste anime,
alcune che mi spingono e altre che mi trascinano e altre che mi
tengono la mano.
LA MADRE - Chi sa se non avremo bisogno di te, qui?
ANNE VERCORS - Chi sa se non vi è bisogno di me altrove?
Tutto è in movimento, chi sa se non turbo l'ordine
di Dio restando a questo posto
Dove il bisogno che c'era di me è cessato?
LA MADRE - So che Sei un uomo inflessibile.
ANNE VERCORS {teneramente, cambiando tono di voce) - Tu sei sempre
182 PAUL CLAUDEL
giovane e bella per me e Tamore che provo per la mia dolce Eli-
sabetta dai capelli neri è grande.
LA MADRE - I miei Capelli sono grìgi!
ANNE VERCORS - Di' di sC, Elisabetta...
LA MADKE - Annc, tu non m'hai lasciata durante questi trent'anni. Che
diverrò io senza il mio capo e il mio compagno?
ANNE VERCORS - ... il SI che ci divide, in quest'ora, a bassa voce,
Pieno come quello che ha fatto di noi un tempo un
solo essere.
{silenzio)
LA MADRE {a bossa voce) - Si, Anne.
ANNE VERCORS - Pazienza, Zabiletta! Presto sarò di ritorno.
Non puoi avere fede in me per un po' di tempo,
senza che io sia qui?
Presto verrà un'altra separazione.
— Suvvia, mettimi nella sacca il cibo per due giorni.
Devo partire.
LA MADRE - Ma comel oggi, oggi stesso?
ANNE VERCORS - Oggi stesso. Addio, Elisabetta!
{le mette la mano sulla testa. La Madre gli prende la mano e la bacia)
ANNE VERCORS - Ebbene, vado a dire alle nostre genti di venire, gli
uomini, le donne, i bambini; vado a suonare la campana. Bisogna
che tutti siano qui, ho qualcosa da annunziare.
{esce)
SCENA SECONDA
Durante questa scena si sente sonare la campana che convoca tutti alla fattoria.
Entra mara.
MARA {alla Madre) - Va' e dille che non lo sposi.
LA MADRE - Mara! come, tu eri li?
MARA - Vattene, ti dico, a dirle che non lo sposi!
LA MADRE - Chi, lei? Chi, lui? Che ne sai tu, se non la sposa?
MARA - Ero li, ho sentito tutto.
LA MADRE - Ebbene, figlia mia! È tuo padre che lo vuole.
Hai visto che ho fatto quello che ho potuto e non si riesce
a fargli cambiare idea.
l'annunzio a maria 183
MARA - Vai a dirle che non lo sposi o mi ammazzo!
LA MADRE - Mara!
MARA - M'impiccherò nella legnaia,
Là dove è stato trovato il gatto impiccato.
LA MADRE - Mara! cattiva!
MARA - Ecco che ancora lei viene a prendermelo!
Eccola che viene a prendermelo proprio ora! Sono io
Che dovevo da sempre essere sua moglie, non lei. .
Lei sa benissimo che sono io.
LA MADRE - Lei è la maggiore.
MARA - E che cosa importa questo?
LA MADRE - È tuo padre che lo vuole.
MARA - Non m'interessa.
LA MADRE - Giacomo Hury
L'ama.
MARA - Non è vero! So bene che voi non mi amate!
L'avete sempre preferita! Oh! quando parlate della vostra Vio-
laine, è tutto zucchero,
È come ima ciliegia che si succhia, nel momento in cui si spu-
ta il nocciolo!
Mara invece la irrita! È dura come il ferro e aspra come la
marasca.
E per di più, è cosi bella, la vostra Violaine!
Ed ecco che ora avrà Combernon!
Che cosa sa fare, la bietolona? Chi è fra noi due che fa andare
avanti la carretta?
Lei si crede la santa Undicimilavergini! Ma io, io sono Mara
Vercors che non ama l'ingiustizia e darla a bere,
Mara che dice la verità ed è questo che fa andare la gente in
collera!
Che provino un po'! Io gli faccio le fiche. Non c'è una di
queste donne che si muova davanti a me, le sciocche! Tutto va
come in un mulino.
— Ed ecco che tutto è per lei e niente per me.
LA MADRE - Tu avrai la tua parte.
MARA - Sicuro! I ciottoli di lassù! Dei pantani che a lavorarli ci vo-
glion cinque bestie! Le cattive terre di Chinchy.
LA MADRE - Ma rcndono bene lo stesso.
MARA - Certo.
E)ella gramigna e delle codedivolpe, della senna e del verbasco!
184 PAUL CLAUDEL
Avrò di che farmi delle tisane.
LA MADRE - Sai bene che non è vero!
Sai bene che non ti si fa torto in nulla!
Ma sei tu che sei stata sempre cattiva. Quando eri piccola.
Non gridavi quando ti si picchiava,
Di', neraccia, cattiva!
Forse che lei non è la maggiore? Che cos'hai da rimpro-
verarle,
Gelosa! Ma lei fa sempre quello che tu vuoi.
Ebbene! lei si mariterà per prima e tu ti mariterai, anche
tu, dopo!
E del resto è troppo tardi, perché il padre se ne va, oh!
come sono triste!
È andato a parlare a Violaine e poi andrà a cercare Gia-
como.
MARA - È vero. Va* subito! Vattene subito!
LA MADRE - E dove?
MARA - Madre, via... Tu sai bene che son io...
Dille che non lo sposi, mamma!
LA MADRE - Non lo farò certamente.
MARA - Ripetile soltanto quello che t'ho detto. Dille che mi ammaz-
zerò. Mi hai ben capita?
{la guarda fisso)
LA MADRE - Ah!
MARA - Credi forse che non lo farò?
LA MADRE - Si, SI, mio Dio!
MARA - E va' allora!
LA MADRE - O
Testa!
MARA - Tu non c'entri affatto.
Ripetile solamente quel che ho detto.
LA MADRE - E lui, che Sai tu se lui ti vorrà sposare?
MARA - Certamente non vorrà.
LA MADRE - E allora...
MARA - E allora?
LA MADRE - NoD credcre che io le consigli di fare quello che vuoi tu!
Al contrario!
Ripeterò solamente quello che hai detto. Certo
Che non sarà cosi sciocca da cedere davanti a te, se mi
crede.
(esce)
l'annunzio a maria 185
SCENA TERZA
Entrano anxe vercors e Giacomo hury. Quest'ultimo spinge davanti a sé un
uomo dall'aspetto spiacevole, con le mani legate dietro la schiena. È seguito da
due servitori, uno dei quali porta un fascio di legna verde, mentre l'altro,
dietro di lui. tiene un cane al guinzaglio.
ANNE VERCORS (fermandosi) - Eh! che cosa mi vai raccontando?
GIACOMO HURY - Tale e quale come vi dico! Questa volta Tho colto sul
fatto, con la roncola in mano!
Io gli camminavo dietro piano piano e tutt'a un tratto
Flac! mi son gettato su di lui con tutto il mio corpo,
A tutta forza, come ci si getta su una lepre nel covo
al tempo della mietitura.
E venti giovani pioppi in fascio accanto a lui, quelli
che vi stavano tanto a cuore!
ANNE vERcx>RS - Perché non era venuto da me? Gli avrei dato il legno
che ci vuole.
GIACOMO HURY - Il legno che gli ci vuole è quello della mia frusta!
Non è il bisogno, è la malvagità, è il gusto di fare
il male!
Sono quei brutti tipi di Chevoche, sempre pronti a
fare non importa che cosa
Per bravata, per sfidare la gente!
Ma a questo qui, gli tagliere le orecchie con il mio
coltelluccio.
ANNE VERCORS - No.
GIACOMO HURY - Lasciatemelo legare all'erpice per i polsi davanti alla
Grande Porta.
Con il viso voltato contro i denti dell'erpice, con il
cane Faraud a fargli la guardia.
ANNE VERCORS - Neppure questo.
GIACOMO HURY - Che cosa dunque bisogna fare?
ANNE VERCORS - Rimandarlo a casa sua.
GIACOMO HURY - Con il SUO carico?
ANNE VERCORS - E con un altro che tu gli darai. Va' a prenderlo presto.
GIACOMO HURY - Padre, cosi non va bene.
186 PAUL CLAUDEL
ANNE VERCORS (strìzzando rocchio) ' Potrai legarlo in mezzo alla sua
legna, perché non la perda.
Ciò l'aiuterà a passare il guado di Saponay.
GIACOMO HURY (scoppiando a ridere) - Ah, padrone nostro! non ci siete
che voi per avere delle idee come questa!
{si legano i carichi sulla schiena e sul petto dell'uomo. Corteo comico.
Un servitore apre la marcia fingendo di suonare la tromba. Gli al-
tri seguono. Il cane salta e abbaia)
ANNE VERCORS - Ecco, ho amministrato la giustizia.
GIACOMO HURY - E bene, padrone nostro!
ANNE VERCORS - Sei tu, Giacomo, che ora dovrai amministrarla al mio
posto.
GIACOMO HURY - Che cosa dite?
ANNE VERCORS - Sei tu Giacomo che ora dovrai amministrarla al mio
posto. Sei tu quello che ho scelto. Sei tu ch'io metto a Combernon
al mio posto.
GIACOMO HURY - Che cosa dice, voi sentite. Madre? Che cosa dice? che
cosa dice?
LA MADRE {gridando con tutte le sue forze) - Se ne va in Palestina a
Gerusalemme.
GIACOMO HURY - Gerusalemme?
ANNE VERCORS - È vcro. E parto immediatamente.
GIACOMO HURY - Parto? Gerusalemme? Cosa vuol dir questo?
ANNE VERCORS - Hai capito benissimo.
GIACOMO HURY - E COSI, tutt'a un tratto, nel colmo del lavoro, ci la-
sciate?
ANNE VERCORS - Non sono necessari due capi a Combernon.
GIACOMO HURY - Padre mio, io non sono che vostro figlio.
ANNE VERCORS - Sei tu che sarai il padre, qui, al posto mio.
GIACOMO HURY - Non vi capisco.
ANNE VERCORS - lo me ne vado. Abbi Combernon al posto mio.
Come io l'ho da mio padre, e questi dal suo,
E Radolfo il Franco, primo della nostra stirpe, da San Remigio di
Reims,
Che a sua volta da Genoveffa di Parigi
Ebbe questa terra allora pagana tutta orrida di cattivi alberi e di
spine avvelenate.
Cosi questa terra è libera che a noi viene da San Remigio che è in
cielo, pagando decima lassò come cimiero al volo
un istante qui posato di colombe gementi.
l'annunzio a maria 187
Le bestie qui non sono mai malate, le poppe, i pozzi
non inaridiscono mai, il grano è duro come oro, la paglia rigida
come ferro.
E contro i predoni abbiamo armi, e le mura di Com-
bernon e il Re, nostro vicino.
Raccogli questa messe che ho seminato, come io stes-
so un tempo ho ribattuto la zolla sul solco che mio padre aveva
tracciato.
O buon lavoro dell'agricoltore, dove il sole è come
il nostro bove lucente e la pioggia il nostro banchiere, e Dio tutti
i giorni nella fatica è il nostro compagno, operando fra tutti me-
glio di tutti I
Gli altri attendono il loro bene dagli uomini ma noi
lo riceviamo direttamente dal cielo.
Cento per uno, la spiga per un granello, e l'albero
per un seme.
Che tale è la giustizia di Dio verso di noi, e la mi-
sura con la quale egli ci ripaga.
Tieni la stiva dell'aratro in vece mia, libera la terra
di quel pane che Dio stesso ha desiderato.
Offrì da mangiare a tutte le creature, agli uomini e
agli animali, e agli spinti e ai corpi, e alle anime immortali.
Voialtre, donne, servi, guardate! Ecco il figlio che ho
scelto, Giacomo Hury.
Io me ne vado e lui resta al mio posto. Prestategli
obbedienza.
GIACOMO HURY - Che sia fatto secondo la vostra volontà.
ANNE vERooRs - Violaine!
Figlia mia nata per prima al posto di quel figlio che
non ho avuto!
Erede del mio nome, in cui sto per essere dato ad
un altro!
Violaine, quando tu avrai un marito, non disprezzare
l'amore di tuo padre
Che non puoi rendere al padre quel ch'egli t'ha do-
nato, anche se tu lo volessi.
Tutto è uguale fra gli sposi, quel ch'essi ignorano,
lo accettano l'uno dall'altro nella fede.
Ecco il mutuo dovere, ecco il vincolo grazie al quale
il seno della donna si gonfia di latte!
188 PAUL CLAUDEL
Ma il padre vede i suoi figli fuori di lui e conosce
quel ch'era in lui deposto. Conosci, figlia mia, tuo padre!
L'amore del Padre
Non domanda contraccambio e il figlio non ha biso-
gno di guadagnarlo o meritarlo;
Come era con lui prima del principio, egli resta
Il suo bene e la sua eredità, il suo rifugio, il suo
onore, il suo tìtolo, la sua giustificazione!
La mia anima non si separa affatto da quell'anima
che io ho trasmesso.
— E adesso l'ora, l'ora, l'ora è venuta per noi di se-
pararci.
vioLAiNE - Padre! non dite questa cosa crudele!
ANNE VERCORS - Giacomo, tu sei l'uomo che io amo. Prendila. Io ti do
mia figlia Violaine. Toglile il mio nome.
Amala: essa e pura come l'oro.
Tutti i giorni della tua vita, come il pane di cui non
ci si sazia.
Essa è semplice ed obbediente, e sensibile e riservata.
Non le arrecare dispiacere e trattala con bontà.
Tutto qui è tuo, eccetto la parte che sarà data a Ma-
ra, secondo quanto ho stabilito.
GIACOMO HURY - E che, padre mio, vostra figlia, il vostro bene...
ANNE VERCORS - lo te li dono tutti insieme, come son miei.
GIACOMO HURY - Ma chi sa se lei mi vuole ancora?
ANNE VERCORS - Chi lo sa?
(ella guarda Giacomo e fa si senza dire niente con la bocca)
GIACOMO HURY - Voi mi volctc, Violaine?
VIOLAINE - È il padre che lo vuole.
GIACOMO HURY - Ma anche voi volete?
VIOLAINE - Anche io voglio.
GIACOMO HURY - Violaine!
Come dovrò comportarmi con voi?
VIOLAINE - Pensateci finché siete ancora in tempo!
GIACOMO HURY - Allora io vi prendo in nome di Dio e non vi lascio
più!
(la prende con le due mani)
Vi tengo per davvero, la vostra mano e con essa il braccio e tutto
ciò che al braccio si accompagna.
l'annunzio a maria 189
Genitori! vostra figlia non vi appartiene più! è mia
soltanto!
ANNE VERcoRs - Ebbene; essi sono sposati, è fatto. Che dici, madre?
LA MADRE - Sono bcn felice!
(piange)
ANNE VERCORS - Piange, la donna!
Va*, ecco che ci prendono i figli e noi resteremo soli.
La vecchia donna che si nutre d'un po' di latte e d'un
pezzetto di focaccia,
E il vecchio dalle orecchie piene di peli bianchi co-
me un cuore di carciofo.
— Che si prepari il vestito nuziale!
— Figliuoli, io non assisterò al vostro matrimonio.
vioLAiNE - Come, padre!
LA MADRE - Anne!
ANNE VERCORS - Parto. Adesso.
VIOLAINE - O padre, come mai! prima che noi siamo sposati?
ANNE VERCORS - È necessario. Tua madre ti spiegherà tutto.
LA MADRE - Quanto tempo resterai laggiù?
ANNE VERCORS - Non SQ. Poco, forse. Presto sarò di ritorno.
(pausa)
VOCE DI RAGAZZO IN LONTANANZA - Compare rigogolo
Che mangia le marasche e lascia il nocciolo!
ANNE VERCORS - Il rigogolo Canta tra le fronde dell'albero rosa e do-
rato!
Che cosa dice? Che la pioggia di questa notte è stata
come oro per la terra
Dopo questi lunghi giorni di calura. Che cosa dice?
Dice che è bene arare i campi.
Che cosa dice ancora? Che il tempo è bello, che Dio
è grande, che ancora mancano due ore a mezzogiorno.
Che cosa dice ancora, l'uccellino?
Che è tempo che il vecchio se ne vada
Altrove e lasci il mondo alle sue occupazioni.
— Giacomo, ti lascio i miei beni, proteggi queste
donne.
GIACOMO HURY - Come? Voi partite?
190 PAUL CLAUDEL
A2WE VERCORS - Crcdo chc non abbia capito niente.
GIACOMO HURY - Cosi, tutt*a un tratto?
ANNE VERCORS - È l'oia.
LA MADRE - Tc nc Val piìma di aver mangiato?
(frattanto le serve hanno fre parato la tavola grande per il pranzo della
fattoria)
ANNE VERCORS (a Una serva) - Suvvia, la mia sacca, il mio cappello.
Portami anche le scarpe, porta il mantello.
Non ho tempo di prendere questo pasto con voi.
LA MADRE - Anne, quanto tempo resterai laggiù! Un anno, due anni?
Piò di due anni?
ANNE VERCORS - Un auno, due anni. Sì, proprio cosi.
Per la prima volta io ti lascio, o casa!
Combernon, alta dimora!
Vigila bene su tutti! Giacomo
Prenderà qui il mio posto.
Ecco il camino ov'è sempre il fuoco, ecco la grande
tavola dove do da mangiare alla mia gente.
Prendete tutti posto! Per l'ultima volta vi distribuirò
il pane.
(si siede a un capo della lunga tavola avendo la Madre alla sua destra.
I servi e le serve sono in piedi, ciascuno al proprio posto. Egli pren-
de il pane, vi fa un segno di croce con il coltello, lo taglia e lo
fa distribuire da mara e da Violaine. Tiene per sé l'ultimo pezzo.
Poi si volta con solennità verso la Madre e apre le braccia)
Addio, Elisabetta!
LA MADRE (piangendo, fra le sue braccia) - Non mi rivedrai più.
ANNE VERCORS (a vocc piu bassa) - Addio, Elisabetta.
(si volta verso Mara e la guarda a lungo e gravemente, poi le tende la
mano)
Addio, Mara! sii buona.
MARA (baciandogli la mano) - Addio, padre!
(silenzio. Anne Vercors sta in piedi, guardando davanti a sé, come se
non vedesse Violaine che gli sta, tutta turbata, a fianco. Infine si
volta un po' verso di lei e lei gli getta le braccia al collo, piangendo
l'annunzio a maria 191
con il viso contro il suo petto, Anne Vercors, come se non se ne
accorgesse, ai servitori)
A voi tutti, addio!
Sono sempre stato giusto con voi. Se qualcuno dice
il contrario, mente.
Io non sono come gli altri padroni. Ma approvo quan-
do è giusto e rimprovero quand'è necessario.
Ora che me ne vado, fate come se io fossi qui.
Perché tornerò. Tornerò quando voi non mi aspettate.
{dà a tutti la mano)
Che si porti il mio cavallo!
{silenzio. Piegandosi verso Violaine che lo tiene sempre abbracciato)
Che c'è, bambina?
Tu hai un marito al posto di tuo padre.
violaine - Ahimé! padre! ahimé!
{egli le scioglie dolcemente le mani)
LA MADRE - Di' quaudo ritornerai.
ANNE VERCX)RS - Non pOSSO dirfo.
Forse una mattina, forse a mezzogiorno quando si
mangia
E forse la notte, svegliandovi, sentirete il mio passo
sulla strada. Addio.
{esce. Tutti i presenti restano come impietriti, Giacomo Hury prende
la mano di Violaine, Si sente in lontananza il cuculo che dice:
« mee-zo-di mez-zo-di lag-giù lag-giù »)
ATTO SECONDO
Quindici giorni piti tardi. Primi di luglio. Mezzogiorno. Un grande verziere
piantato a intervalli regolari d'alberi tondeggianti. Più in alto, e un po' in
disparte, la cinta e le torri, e le lunghe costruzioni dea tetti di tegole di Com-
bernon. Poi il fianco della collina che s'innalza. E dominante in alto la for-
midabile arca di pietra di Pietro di Monsanvergine senza nessuna apertura con
192 PAUL CLAUDEL
le sue cinque torri sul tipo della cattedrale di Laon, e, nel fianco, la grande
cicatrice bianca della breccia per la qtude è entrata la Regina Madre di Francia.
Tutto vibra nel sole.
UNA VOCE DI DONNA NEL CIELO (dall'alto della più alta torre di Mon-
sant/erginé) -
Salve Regina mater misericordiae
Vita dtdcedo et spes nostra salve
Ad te damamus exides jilii Hevae
Ad te suspiramus gementes et flentes in hac lacrymarum valle.
Eia ergo advocata nostra illos tuos misericordes oculos ad nos con-
[converte
Et fesum benedictum fructum ventris tui nobis post hoc exilium
[ostende
O clemens
O pia
O dtdcis Virgo Maria!
Lunga pausa durante la quale la scena resta vuota.
SCENA PRIMA
{entrano la madre e mara)
MARA - Che cosa ha detto?
la madre - Le ho parlato della cosa. Tu vedi che da un po' di giorni
ha perduto la sua gaiezza.
MARA - Lei non parla mai molto.
LA MADRE - Ma Don fide più. Questo mi addolora.
Forse è perché Giacomino non è qui, ma ritorna oggi.
— E anche il padre e partito.
MARA - È tutto quello che le hai detto?
LA MADRE - È quello che le ho detto, e il resto, senza cambiare nulla,
come me l'hai fatto ripetere tu:
Giacomino e te: che tu l'ami, e tutto,
E che questa volta non bisogna essere stupidi e lasciarsi
imporre, questo l'ho aggiunto e ripetuto due e tre volte;
l'annunzio a maria 193
E rompere il matrimonio, che è come fatto, contro la vo-
lontà del padre.
E la gente, dunque, che cosa penserebbe?
MARA - E lei cos'ha risposto?
LA MADRE - Lei s'è messa a ridere e io, io mi son messa a piangere.
MARA - La farò ridere io!
LA MADRE - Non è il riso che mi piace della mia bambina e anch'io
mi son messa a piangere.
E dicevo: « No, no, Violaine, figlia mia! ».
Ma lei con la mano senza parlare mi ha fatto segno che
voleva restare sola.
Oh! quanta pena si ha con i figli!
MARA - Zitta!
LA MADRE - Che cosa c'è?
Mi rincresce quel che ho fatto.
MARA - Bene! La vedi là in fondo al chiuso? Cammina dietro agli al-
beri. Non la si vede più.
{silenzio. Si ode dietro la scena un suono di corno)
LA MADRE - Ecco Giacomino che ritorna. Riconosco il suono del suo
corno.
MARA - Andiamo via.
(escono)
SCENA SECONDA
{entra Giacomo hury)
GIACOMO HURY {guarda intorno a sé) - Non la vedo.
Eppure mi aveva fatto dire
Che voleva vedermi questa mattina stessa
Qui.
{entra mara. Si dirige verso Giacomo e a sei passi di distanza gli fa
una cerimoniosa riverenza)
GIACOMO HURY - Buongiomo, Mara!
MARA - Monsignore, son serva vostra!
13. - Teatro francese
194 PAUL CLAUDEL
GIACOMO HUKY - Chc cosa SODO qucstc smorfie r
UARA - Non vi òe\o forse rendere omagpor Non siete ve» il padrone
dd luogo, dipendendo 62 Dio solunco. oxne 3 Re di Franda, per
l'appunto, e llmperatorc CaHomagnor
GiAomo Hu»y - Scherzate pure, ma questo e pur tctoI Su Mara, è
bello! Cara sorella* sono troppo felice*
MAKA ' Io non sono la vostra « cara sorella »' Sono la vostra serva poi-
ché bisogna chc sia cosL
Uomo di Braine! Figlio della gleba! io non sono vostra sorel-
la, voi non siete del nostro sangue!
GiAOOMo ifiTET - lo sono lo sposo di Violai ne.
MAKA - Non lo siete ancora.
GIACOMO HUKT - Lo sarò domani.
MAKA - Chi lo sa?
GIACOMO HUKY - Mara, d ho pensato a lungo
E credo chc avete sognato qudla storia che mi avete
raccontato l'altro giorno.
MAKA - Quale storia?
GIACOMO HUKY - Non fatc la meravigliata.
Quella storia del muratore, qud bacio clandestino sul
far dell'alba.
MAKA - È possibile. Ho visto male. Ho buoni occhi, tuttavia.
GIACOMO HUKY - E mlian detto in gran segreto che lui è lebbroso.
MAKA - Io non vi amo, Giacomo.
Ma voi avete il diritto di saper tutto. Bisogna che tutto sia
limpido e chiaro a Monsanvergine chc è in vista di tutto il Regno.
GIACOMO HUKY - Tutto Sarà chiarito subito.
MAKA - Voi siete fino e niente vi sfugge.
GIACOMO HUKY - Vcdo per lo meno che voi non mi amate.
MAKA - Ah! Ah! Che dicevo? Che dicevo?
GIACOMO HUKY - Noo tutti qui la pensano come voi.
MAKA - Parlate di Violaine? Arrossisco per quella ragazzina.
È vergognoso darsi cosi,
Anima, carne, cuore, pelle, il fuori, il dentro, e la radice.
GIACOMO HURY - So chc mi appartiene interamente.
MARA - Si.
Come lo dice bene! Come e sicuro di quello chc gli appartiene!
Tanghero di Braine!
Solo ci appartiene quel che si è fallo, o preso, o guadagnato.
l'annunzio a maria 195
GIACOMO HURY - Ma a me, Mara, voi mi piacete e io non ho niente
contro di voi.
MARA - Come tutto quello che è qui, senza dubbio?
GiA€x>Mo HURY - Non è colpa mia se non siete un uomo e se io vi pren-
do i vostri benil
MARA - Com'è fiero e contento! Guardatelo che non può trattenersi dal
rìderei
Suvvia! che non v'abbia a far male! ridete!
(egli ride)
So ben leggere nel vostro viso, Giacomo.
GIACOMO HURY - Vi secca non potermi far dispiacere.
MARA - Come l'altro giorno, mentre il padre parlava.
Ridevate con un occhio e piangevate senza lacrime con l'altro.
GiA€X>Mo HURY - Non sono forse padrone di un bel possedimento?
MARA - E il padre era vecchio, nevvero? £ voi sapete una o due cose
più di lui?
GiA€X>Mo HURY - Ad Ogni uomo la sua stagione.
MARA - È vero, Giacomo, siete un gran bel giovane.
Ecco che diventa tutto rosso.
GIACOMO HURY - Non mi tormentate.
MARA - E tuttavia, è peccato!
GIACOMO HURY - Che cos'è che è peccato?
MARA - Addio, sposo di Violaine! Addio, padrone di Monsanvergine,
ah, ah!
GIACOMO HURY - Vi farò vedere che lo sono.
MARA - Prendete i modi ed il carattere di qui, allora, tanghero di
Braine!
Lui crede che tutto sia suo, come un contadino; vi si farà ve-
dere il contrario!
Come un contadino che è lui solo ciò che vi è di più alto nel
mezzo del suo piccolo campo tutto piatto!
Ma Monsanvergine è di Dio e il padrone di Monsanvergine
è l'uomo di Dio, che non ha nulla
Di suo, avendo tutto ricevuto per un altro.
Questa è la lezione che ci viene fatta qui, di padre in figlio.
Non vi è posto piti altero del nostro.
Prendete i modi e il carattere dei vostri padroni, villano,
villano!
(falsa uscita)
196 PAUL CLAUDEL
Ah!
Violaine che ho incontrata, m*ha incaricato di un'ambasciata
per voi.
GIACOMO HURY - Pcrchc noH dirmelo prima?
MARA - Vi aspetta presso la fontana.
SCENA TERZA
GIACOMO HURY - O mia fidanzata fra i rami in fiore, salve!
(violaine è fuori, invisibile)
Violaine, come siete bella!
violaine - Giacomo! buongiorno, Giacomo!
Ah! quanto siete restato laggiù!
GIACOMO HURY - Dovevo tutto svincolarc e vendere, rendermi del tut-
to libero
Per essere l'uomo di Monsanvergine soltanto
E il vostro.
— Che cos'è questo meraviglioso abito?
VIOLAINE - L'ho messo per voi. Ve ne avevo parlato. Non lo ricono-
scete?
È l'abito delle monache di clausura di Monsanvergine, pres-
s'a poco, eccetto la sola manopola, l'abito che portano nel coro,
La dalmatica del diacono che esse hanno il privilegio di
portare, qualche cosa del sacerdote, ostie esse stesse,
E che le donne di Combernon hanno il diritto di mettere
due volte:
La prima volta il giorno del fidanzamento,
(entra)
La seconda volta il giorno della morte.
GIACOMO HURY - È dunque vero, e il giorno del nostro fidanzamento,
Violaine?
VIOLAINE - Giacomo, siamo ancora in tempo, ancora non siamo sposati!
Se avete voluto soltanto far piacere a mio padre, potete
ritirarvi ancora, è di noi che si tratta. Dite una parola solamente:
non ve ne vorrò, Giacomo.
Che non ci sono ancora promesse fra noi due e io non so
se vi piaccio ancora.
l'annunzio a maria 197
GIACOMO HURY - Comc sictc bclU, Violainc! e come è bello questo
mondo dove siete voi,
La parte che mi era stata riservata!
vioLAiNE - Siete voi, Giacomo, quel che c'è di meglio al mondo.
GiAcx)Mo HURY - È vero che voi accettate di essere mia?
VIOLAINE - Si, è vero, buongiorno, mio amato!
Io sonp vostra.
GIACOMO HURY - Buougiomo mio sposa! Buongiorno, dolce Violaine!
VIOLAINE - Son cose dolci a udirsi, Giacomo!
GIACOMO HURY - Nou bisognerà più smettere di esser qui! Dite che non
smetterete mai di essere la stessa e l'angelo che mi è mandato!
VIOLAINE - Sempre quello che è mio non cesserà d'essere vostro.
GIACOMO HURY - E quauto a me, Violaine...
VIOLAINE - Non dite niente. Non vi domando niente. Voi siete qui
e questo mi basta.
Buongiorno, Giacomo!
Ah, come quest'ora è bella e io non ne chiedo altre.
GIACOMO HURY - Domani sarà ancora più bello.
VIOLAINE - Domani non avrò più il meraviglioso vestito.
GIACOMO HURY - Ma Sarete cosi vicina a me che io non vi vedrò più.
VIOLAINE - Molto vicina a voi, davvero!
GIACOMO HURY - Ma domani davanti a tutti prenderò questa Regina
fra le mie braccia.
VIOLAINE - Prendila e non la lasciare andar via.
Ah! prendete la vostra piccola con voi che non la si trovi
più e che non le si faccia alcun male!
GIACOMO HURY - E voi non rimpiangerete allora il lino e l'oro?
VIOLAINE - Ho avuto torto a farmi bella per una povera piccola ora?
GIACOMO HURY - No, mio bel giglio, non posso stancarmi di contem-
plarti in tutta la tua gloria.
VIOLAINE - O Giacomo! dite ancora che mi trovate bella!
GIACOMO HURY - SÌ, Violaine!
VIOLAINE - La più bella di tutte le donne e le altre non sono niente
per voi?
GIACOMO HURY - SÌ, Violaiue!
VIOLAINE - E che voi mi amate unicamente come lo sposo più tenero
ama il povero essere che si è dato a lui?
GIACOMO HURY - SÌ, Violaine!
VIOLAINE - Che si dà a lui con tutto il suo cuore, Giacomo, credetelo, e
che nulla si riserva.
GIACOMO HURY - E voi, Violaine, non mi credete dunque?
198 PAUL CLAUDEL
vioLAiNE - Vi credo, vi credo, Giacomo I Credo in voi! Ho fiducia in
voi, mio amato 1
GIACOMO HURY - Pcrché dunque quest'aria di inquietudine e di spa-
vento?
Mostratemi la mano sinistra.
{ella la mostra)
Il mio anello non c'è pió«
VIOLAINE - Vi spiegherò subito. Sarete soddisfatto.
GIACOMO HURY - Lo sono, Violaine. Ho fede in voi.
VIOLAINE - Io sono piti che un anello, Giacomo. Io sono un grande
tesoro.
GIACOMO HURY - Ecco che dubitate ancora di me.
VIOLAINE - Giacomo! Dopo tutto non faccio niente di male amandovi.
È la volontà di Dio e di mio padre.
Siete voi che dovete avere cura di me! £ chi sa se voi non
saprete ben difendermi e preservarmi?
Basta che io mi dia a voi completamente. E il resto è affare
vostro, e non più mio.
GIACOMO HURY - Ed è cos( che vi siete data a me, mio fiore di sole?
VIOLAINE - S{, Giacomo.
GIACOMO HURY - Chi dunque potrà togliervi dalle mie braccia?
VIOLAINE - Ah! com'è grande il mondo e come noi vi siamo soli!
GIACOMO HURY - Povera bambina! So che vostro padre è partito.
Ed anch'io non ho più nessuno con me a dirmi ciò che
bisogna fare e ciò che è bene e male.
Bisognerà che voi mi aiutiate, Violaine, come io vi amo.
VIOLAINE - Mio padre mi ha abbandonata.
GIACOMO HURY - Ma io, Violainc, io vi resto.
VIOLAINE - Né mia madre mi vuol bene, né mia sorella, benché non
abbia fatto loro alcun male.
E non mi resta piò che questo grande terribile uomo che
non conosco.
{egli fa il gesto di prenderla fra le braccia. Ella lo respinge pronta-
mente)
Non mi toccate, Giacomo!
GIACOMO HURY - Sono forse un lebbroso?
VIOLAINE - Giacomo, vi voglio parlare, ah! com'è difficile!
Non mi abbandonate, non ho che voi solo!
GIACOMO HURY - Ma chi vi vuol male?
VIOLAINE - Sappiate bene quel che fate prendendomi come moglie!
l'annunzio a maria 199
Lasciate che vi parli in piena umiltà, Giacomo mio Signore,
Che state per ricevere la mia anima ed il mio corpo affi-
dativi dalla mano di Dio e di mio padre che li hanno fatti
E considerate la dote che vi porto, che non è quella delle
altre donne,
Ma questa santa montagna in preghiera giorno e notte da-
vanti a Dio, come un altare sempre fumante,
E questa lampada sempre accesa di cui è nostro compito
alimentare Tolio.
E testimone non è al nostro sposalizio alcun uomo, ma
quel Signore del quale noi teniamo solo il feudo,
Che è rOnnipotente, il Dio degli Eserciti.
E non è il sole di luglio che ci rischiara, ma la luce stessa
del Suo Volto.
GIACOMO HURY - Violainc, no, io non sono chierico, né monaco, né
santo.
Non sono il padre guardiano e il converso di Monsanver-
gine.
Ho un incarico e l'eseguirò
Che è quello di nutrire quegli uccelli mormoranti
E riempire quel paniere che fanno calare dal cielo ogni
mattina.
Cosi è scritto. Cosi sta bene.
Ho ben capito questo e me lo son messo in testa, e non
bisogna chiedermi di più.
Non bisogna chiedermi ciò che è al di sopra di me e per-
ché quelle sante donne si sono murate là in alto in quella colombaia.
Agli esseri celesti il cielo, e la terra ai terrestri.
Che il grano non cresce da solo e c'è bisogno di un buon
lavoratore per quello di qui.
E per questo posso dire senza vantarmi che io lo sono, e
nessuno m'insegnerà nulla, nemmeno vostro padre, forse.
Che egli era vecchio e attaccato alle sue idee.
A ciascuno il suo posto, in ciò è la giustizia.
E vostro padre dandovi a me
Insieme a Monsanvergine, ha saputo quel che faceva e ciò
era giusto.
vioLAiNE - Ma io, Giacomo, io non vi amo perché ciò è giusto!
E anche se non lo fosse, vi amerei lo stesso e di più.
GIACOMO HURY - Non vi capìsco, Violaine.
VIOLAINE - Giacomo, non mi costringete a parlare! Voi mi amate tan-
to ed io non posso che farvi male.
200 PAUL CLAUDEL
Lasciatemi! Non ci può essere giustizia fra noi due! ma la
fede solamente e la carità. Allontanatevi da me quando è ancora
possibile.
GIACOMO HURY - Non capisco, Violainc.
vioLAiNE - Mio diletto, non mi costringete a dirvi il mio grande se-
greto.
GIACOMO HURY - Un grande segreto, Violaine?
VIOLAINE - Cosi grande che tutto è consumato e voi non mi doman-
derete più di sposarvi.
GIACOMO HURY - Non vi capisco.
VIOLAINE - Non sono forse abbastanza bella in questo momento, Gia-
como? Che mi domandate di più?
Che cosa si domanda a un fiore
Se non che sia bello e odoroso per un attimo, povero fiore,
e poi sarà finito.
Il fiore ha breve vita, ma la gioia che ha dato per un attimo
Non è di quelle cose che han principio e fine.
Non sono bella abbastanza? Manca qualche cosa?
Ah! io vedo i tuoi occhi, mio diletto! C'è forse niente in
te che in questo momento non mi ami e che dubiti di me?
Forse che la mia anima non basta? Prendila, io sono an-
cora qui e aspirala fino alle radici perché e tua!
Basta un momento per morire, e la morte stessa Tuno nel-
l'altro
Non ci annienterà più dell'amore, e c'è forse bisogno di
vivere quando si è morti?
Che cos'altro vuoi fare di me? Fuggi, allontanati! Perché
vuoi sposarmi? perché vuoi tu
Prendere per te quel che appartiene a Dio solo?
La mano di Dio è su me e tu non puoi difendermi!
O Giacomo, noi non saremo marito e moglie in questo
mondo!
GIACOMO HURY - Violaine, che voglion dire queste parole strane, si
tenere, si amare? per quali sentieri insidiosi e funesti mi conducete?
Credo che vogliate mettermi alla prova e prendervi
giuoco di me che sono un uomo semplice e rozzo.
Ah, Violaine, come siete bella cosi! e tuttavia ho pau-
ra e vi vedo in questa veste che mi atterrisce!
Che non è l'abbigliamento di una donna, ma la veste
del Sacrificatore all'altare,
l'annunzio a maria 201
Di colui che assiste il sacerdote, lasciando il fianco
scoperto e le braccia libere'
Ah! lo vedo, è lo spirito di Monsanvcrgine che vive
in voi e il fiore supremo al di fuori di quel giardino sigillato!
Ah, non volgere verso di me quel viso che non è più
di questo mondo! non è più la mia cara Violaine.
Abbastanza angeli servon la messa in cielo!
Abbiate pietà di me che sono un uomo senza ali e
gioivo di questa compagna che Dio mi aveva data e che io avrei
sentita sospirare con la testa sulla mia spalla!
Dolce uccello! il cielo è bello, ma è una bella cosa
anche Tesser presi!
E il cielo è bello! ma è una bella cosa, anche, e degna
di Dio stesso, un cuore d'uomo che si riempie senza lasciarvi alcun
vuoto.
Non mi dannate con la privazione del vostro viso!
£ senza dubbio sono un uomo senza luce e senza
bellezza
Ma io vi amo, mio angelo, mia regina, mia diletta!
VIOLAINE - Cosi vi ho inutilmente avvertito e voi volete prendermi in
isposa e non vi lascerete distogliere dal vostro proposito?
GIACOMO HURY - Si, Violainc.
VIOLAINE - Chi ha preso una sposa non e piti con lei che un'anima e
una sola carne e niente li separerà più.
GIACOMO HURY - Si, Violainc.
VIOLAINE - Voi lo volete!
Non conviene più dunque che io riservi qualcosa e che
conservi per me più oltre
Il grande, l'ineffabile segreto.
GIACOMO HURY - Ancora questo segreto, Violaine?
VIOLAINE - Cosi grande, Giacomo, in verità,
Che il vostro cuore ne sarà saziato
E che voi non mi domanderete più nulla
E che noi non saremo più strappati l'uno all'altra.
Una comunione cosi profonda
Che né la vita, Giacomo, né l'inferno, né il cielo stesso
La faranno più cessare, né faranno cessare mai questo
Momento in cui ve l'ho rivelato nella
Fornace di questo terribile sole che quasi c'impedisce di
vederci in viso!
GIACOMO HURY - Parla, dunque!
202 PAUL CLAUDEL
vioLAiNE - Ma ditemi prima ancora una volta che mi amate.
GIACOMO HURY - Vi amo!
VIOLAINE - E che io sono la vostra signora e il vostro solo amore?
GIACOMO HURY - Mia signora, mio solo amore.
VIOLAINE - Conosci dunque il fuoco dal quale sono divorata!
Conoscila dunque questa carne che hai tanto amata!
Venite più vicino a me.
{egli si avviano)
Più vicino! piò vicino ancora! proprio contro il mio fianco.
Sedetevi su questo banco.
(silenzio)
E datemi il vostro coltello.
(egli le dà il coltello. Ella incide la stoffa di lino su un fianco, nel po-
sto che è sul cuore e sotto la mammella sinistra, e, (negata su lui,
scostando con le mani i lembi, gli mostra la carne dove appare il
primo segno della lebbra. Silenzio)
GIACOMO HURY {distogliendo un poco il viso) - Datemi il coltello.
Violaine, non mi sono sbagliato? che cos*è questo fiore
d'argento di cui la vostra carne è stemmata?
VIOLAINE - Non vi siete sbagliato.
GIACOMO HURY - È il male? è il male, Violaine?
VIOLAINE - Si, Giacomo.
GIACOMO HURY - La lebbra!
VIOLAINE - Certo siete difficile da convincere.
E vi è necessario aver visto per credere.
GIACOMO HURY - E quale lebbra è più ripugnante,
Quella dell'anima o quella del corpo?
VIOLAINE - Non posso dire niente dell'altra. Non conosco se non quella
del corpo che è un male assai grande.
GIACOMO HURY - No, tu non conosci l'altra, dannata?
VIOLAINE - Io non sono una dannata.
GIACOMO HURY - Infame, dannata.
Dannata nella tua anima e nella tua carne!
VIOLAINE - Allora non domandate più di sposarmi, Giacomo?
GIACOMO HURY - Non Scherzare, figlia del diavolo!
VIOLAINE - Questo è il grande amore che avevate per me.
GIACOMO HURY - Questo è il giglio che avevo scelto.
VIOLAINE - Questo è l'uomo che è al posto di mio padre.
GIACOMO HURY - Questo è l'angelo che Dio mi aveva mandato.
l'annunzio a maria 203
vioLAiNE - « Ah, chi ci strapperà l'uno all'altra? Io ti amo, Giacomo,
ed io so che non ho niente da temere fra le tue braccia ».
GIACOMO HURY - Non Scherzare con queste orribili parole!
VIOLAINE - Di',
Ho mancato alla mia parola? La mia anima non ti basta-
va? Ne hai abbastanza del mio corpo, ora?
Dimenticherai la tua Violaine e il cuore che ti ha rivelato?
GiA€x>Mo HURY - Allontanati da me!
VIOLAINE - Va', sono abbastanza lontana, Giacomo, e non hai niente
da temere.
GIACOMO HURY - Si, SI.
Più lontana di quanto tu non sia stata dal tuo porco
lebbroso!
Quel fabbricante d'ossa dalla carne marcia.
VIOLAINE - È di Pietro di Craon che parlate?
GIACOMO HURY - Proprio di lui parlo, che voi avete baciato sulla bocca.
VIOLAINE - E chi ve l'ha raccontato?
GIACOMO HURY - Mara vi ha visti con i suoi occhi
E mi ha detto tutto, com'era suo dovere.
E io, miserabile, io non le credevo!
Suvvia, dillo, ma dillo dunque. È vero? Di' che è vero!
VIOLAINE - È vero, Giacomo.
Mara dice sempre la verità.
GIACOMO HURY - Ed è vero che voi l'avete baciato in viso?
VIOLAINE - È vero.
GIACOMO HURY - O dannata! Le fiamme dell'inferno vi attirano tanto
da farvele desiderare cosi da viva?
VIOLAINE (a voce bassissima) - Non dannata.
Ma dolce, dolce Violaine! dolce, dolce Violaine!
GIACOMO HURY - E non negate che quest'uomo vi abbia avuta e posse-
duta?
VIOLAINE - Non nego niente, Giacomo.
GIACOMO HURY - Ma io ti amo ancora, Violaine! Ah, questo è troppo
crudele! Di' qualche cosa, se tu hai qualcosa da dire, e io ti cre-
derò! Parla, te ne supplico! dimmi che non è vero!
VIOLAINE - Non posso diventare nera in un attimo, Giacomo, ma fra
qualche mese digià, qualche mese ancora.
Non mi riconoscerete più.
GIACOMO HURY - Ditemi che tutto questo non è vero.
VIOLAINE - Mara dice sempre la verità ed anche questo fiore su me, che
voi avete veduto.
204 PAUL CLAUDEL
GIACOMO HURY - Addio, Violainc!
vioLAiNE - Addio, Giacomo.
GIACOMO HURY - Dite, che cosa intendete fare, miserabile?
VIOLAINE - Lasciare queste vesti. Lasciare questa casa. Adempiere la
legge. Presentarmi al sacerdote. Andare...
GIACOMO HURY - Ebbene?
VIOLAINE - ... nel luogo che è riservato alla gente della mia specie.
Nel lebbrosario laggiù del Geyn.
GIACOMO HURY - Quando?
VIOLAINE - Oggi. Stasera stesso.
(lungo silenzio)
Non c'è altro da fare.
GIACOMO HURY - Bisogna evitare lo scandalo.
Andate a svestirvi e a mettervi un abito da viaggio e
vi dirò che cosa si deve fare.
(escono)
SCENA QUARTA
La sala del Primo Atto.
Tutta questa scena può essere rappresentata in modo che il pubblico non veda
che i gesti e non senta le parole.
MARA (entrando di furia) - Vengono qui. Credo che il matrimonio sia
andato allaria. Mi senti?
Sta' zitta,
E non dire nulla.
LA MADRE - Come?
O cattiva! brutta! hai ottenuto quello che volevi!
MARA - Lascia fare. Non è che un momento.
In nessun modo
Si sarebbe fatto. Giacché son io
Che lui deve sposare, non lei. Sarà meglio anche per lei. Bi-
sogna che sia cosi. Intendi?
Sta' zitta!
LA MADRE - Chi te l'ha detto?
MARA - Ho forse bisogno che mi si dica qualcosa? Ho tutto visto ben
chiaro nei loro visi. Li ho acchiappati caldi caldi. Ho sbrogliato
tutto in un battibaleno.
l'annunzio a maria 205
E Giacomo, poveretto, mi fa pena.
la madr£ - Ho rimorso di quello che ho detto.
MARA - Tu non hai detto niente, tu non sai niente, sta* zitta!
E se ti dicono qualcosa, e non importa che cosa ti raccontino.
Di' come loro, fa' quello che vorranno. Non c'è più nulla da
fare.
LA MADRE - Spero che tutto sia per il meglio.
SCENA QUINTA
(entrano Giacomo hury e poi violaine, tutta in nero, vestita come per
un viaggio)
LA madre - Che c'è, Giacomo? Che c'è, Violaine?
Perché ti sei messa quest'abito come se stessi per partire?
VIOLAINE - Sto per partire anch'io.
LA madre - Partire? partire anche tu?
Giacomo! che cos'è successo fra voi due?
GIACOMO HURY - Non è successo niente.
Ma sapete che sono andato a vedere mia madre a
Braìne e ne ritorno in quest'istante.
LA MADRE - Ebbene?
GIACOMO HURY - Sapete che è vecchia e inferma.
Essa dice che vuol vedere e benedire
La nuora prima di morire.
LA MADRE - Non può aspettare il matrimonio?
GIACOMO HURY - È malata, non può aspettare.
E il tempo della mietitura, inoltre, quando c'è tanto
da fare,
Non è adatto per sposarsi.
Abbiamo parlato di questo poco fa, Violaine ed io,
poco fa, molto gentilmente,
E abbiamo deciso ch'era preferibile attendere
L'autunno.
Nel frattempo lei starà a Braine da mia madre.
LA MADRE - Sei tu che vuoi cosi, Violaine?
VIOLAINE - Si, madre.
LA MADRE - Ma come? vuoi partire oggi stesso?
206 PAUL CLAUDEL
vioLAiNE - Stasera stesso.
GIACOMO HURY - L'accompagiierò io.
Il tempo urge ed anche il lavoro, in quest'epoca di
fienagione e di mietitura. Son già restato troppo a lungo assente.
LA MADRE - Rcsta, Violaine! Non andartene da questa casa, anche tu!
VIOLAINE - È solo per un po' di tempo, madre!
LA MADRE - Un po' di tcmpo, me lo prometti?
GIACOMO HURY - Un po' dì tempo, e quando verrà l'autunno,
Eccola con noi di nuovo, per non lasciarci piti.
LA MADRE - Ah, Giacomo! perché la lasciate partire?
GIACOMO HURY - Credete forse che per me non sia penoso?
MARA - Madre, quel che dicono tutti e due è ragionevole.
LA MADRE - È peuoso Vedere mia figlia abbandonarmi.
VIOLAINE - Non siate triste, madre!
Che importa se aspettiamo qualche giorno? Si tratta solo
di lasciar passare un po' di tempo.
Non sono io sicura del vostro affetto? e di quello di Mara?
e di quello di Giacomo, mio fidanzato?
Giacomo, non è vero? Egli è mio come io son sua e niente
può separarci! Guardatemi, caro Giacomo. Ecco che piange a ve-
dermi partire!
Non è il momento di piangere, madre! Non sono giovane e
bella, e amata da tutti?
Mio padre è partito, è vero, ma mi ha lasciato lo sposo piò
tenero, l'amico che mai mi abbandonerà.
Non è dunque il momento di piangere, ma di rallegrarsi.
Ah, cara madre, come la vita è bella e come sono felice!
MARA - E voi, Giacomo, che dite voi? Non avete un'aria lieta.
GIACOMO HURY - NoD è naturale che sia triste?
MARA - Suvvia! è solo una separazione di qualche mese.
GIACOMO HURY - Troppo luuga per il mio cuore.
MARA - Senti, Violaine, come l'ha detto bene!
E che, sorella mia, cosi triste anche voi? Sorridetemi con quel
la bocca graziosa! Alzate quegli occhi azzurri che tanto piacevano
a nostro padre. Guardate, Giacomo! Guardate vostra moglie, co-
m'è bella quando sorride!
Non ve la prenderanno! Chi sarebbe triste quando c'è a ri-
schiarare la casa questo piccolo sole?
Amatela molto, cattivo! Ditele di farsi coraggio.
GIACOMO HURY - Coraggio, Violaine!
l'annunzio a maria 207
Non mi avete perduto, non siamo perduti l'uno per
l'altra!
Vedete che io non dubito del vostro amore, forse che
voi dubitate del mio?
Forse che io dubito di voi, Violaine? Forse che io
non sono sicuro di voi,
Violaine?
Ho parlato di voi a mia madre, pensate ch'essa è
cosi felice di vedervi.
È duro lasciare la casa dei vostri genitori. Ma dove
andrete troverete un rifugio sicuro, che nessuno violerà.
Né il vostro amore né la vostra innocenza, cara Vio-
laine, hanno nulla da temere.
LA MADRE - Sono parole ben gentili.
Eppure c'è in esse, e in quelle che tu ora mi hai dette,
bambina mia.
Non so cosa di strano e che non mi piace.
MARA - Io non vedo niente di strano, madre mia.
LA MADRE - Violaine! se ti ho fatto dispiacere, poco fa, bambina mia.
Dimentica quel che t'ho detto.
VIOLAINE - Non mi avete fatto dispiacere.
LA MADRE - Lascia allora che ti abbracci.
(le apre le braccia)
VIOLAINE - No, madre.
LA MADRE - Ma comc?
VIOLAINE - No.
MARA - Violaine, è brutto, questo! Hai paura che ti tocchino? perché
ci tratti come dei lebbrosi?
VIOLAINE - Ho fatto un voto.
MARA - Che voto?
VIOLAINE - Che nessuno mi tocchi.
MARA - Fino al tuo ritorno qui?
(silenzio. Violaine abbassa la testa)
GiA€X>Mo HURY - Lasciatela. Vedete che è addolorata.
LA MADRE - Allontanatevi un istante.
(si allontanano)
Addio, Violaine!
Tu non m'ingannerai, bambina mia, tu non ingannerai
la madre che t'ha fatto.
208 PAUL CLAUDEL
Quel che t'ho detto è duro, vedimi che son piena di do-
lore, che sono vecchia.
Tu, tu sei giovane e dimenticherai.
Il mio uomo è partito ed ecco mia figlia che si allontana
da me.
La pena che si ha non è nulla, ma quella che si è fatta
agli altri,
Impedisce di mangiare il proprio pane.
Pensa a questo, mio agnello sacrificato, e di' a te stessa:
Cosi io non ho fatto pena a nessuno.
T'ho consigliato quel che ho creduto il meglio! Non vo-
lermene, Violaine, salva tua sorella. Bisogna forse lasciare che si
perda?
E c'è il buon Dio con te, che è la tua ricompensa.
Questo è tutto.
Non rivedrai più la mia vecchia faccia. Che Dio sia con te'
E tu non vuoi abbracciarmi, ma io posso almeno bene-
dirti, dolce, dolce Violaine!
VIOLAINE - Si, madre! si, madre!
(s'inginocchia e la madre traccia su di lei il segno della croce)
GIACOMO HURY {rientrando) - Venite, Violaine, e ora.
MARA - Va' e prega per noi.
VIOLAINE {gridando) - Ti do le mie vesti, Mara, e tutte le mie cose!
Non aver paura, sai che non le ho toccate.
Non sono entrata in quella camera.
— Ah, ah! la mia povera veste di sposa, che era cosi bella!
{allarga le braccia come per cercare un appoggio. Tutti restano lontani
da lei. Essa esce vacillando seguita da Giacomo)
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Il paese dt Chevoche. ha vigilia di "Natale. Dei contadini, uomini » donne e ra-
gazzi, sono al lavoro nella foresta. Nel mezzo è acceso un fuoco sopra il quale
è sospesa una pentola. Da ciascun lato della scena due specie di colossi fatti dt
fascine, con un collarino e un camiciotto di tela bianca con una croce rossa sul
petto, e per testa un barile i cui bordi sono intagliati come i denti di una sega.
l'annunzio a maria 209
come se volesse rappresentare una corona, con una specie di viso grossolana-
mente dipinto di rosso; una lunga tromba è inserita nel cocchiume, tenuta fer-
ma da un'asse, come se fosse un braccio.
È il crepuscolo. Neve in terra e cielo di neve.
IL SINDACO DI cHEvocHE - Ecco. Il Re può vcnirc.
UN OPERAIO - Può venire ormai. Noi abbiamo ben fatto la nostra parte.
IL SINDACO DI CHEVOCHE (guordando soddisfatto) - È molto bello. È
vero che ci si son messi tutti, quanti erano, uomini donne e ra-
gazzini,
E che era la più sporca parte con tutto
quel ciarpume e gli spini e il pantano.
Non saran certo quei furbacchioni di Bru-
yères a farci la barba.
UN OPERAIO - È la loro strada che ce Tha, la barba, e con i denti per
giunta, con tutti quei mozziconi che han lasciato!
{ridono)
l'apprendista (pedantescamente, con una voce orribilmente aspra e
stridula) - « Vox clamantis in deserto: Parate vias Domini et erunt
prava in directa et aspera in vias planas ».
— È vero che avete ben lavorato. Mi congratulo con
voi, brava gente. È come la strada per la Processione del Corpus
Domini.
{indicando i Giganti) E chi sono, Signori, quelle belle
e reverende persone?
UN OPERAIO - Nevvero che son belle? È babbo Vincenzo, quel vecchio
ubriacone, che l'ha fatte.
Lui dice che e il gran Re d'Abissinia e sua moglie Bei-
lotte.
{gli manda un bacio)
l'apprendista - Per me credevo che fossero Gog e Magog.
IL SINDACO DI CHEVOCHE - Sono i duc Angeli di Chevoche che ven-
gono a salutare il Re loro signore.
Gli daremo fuoco quando passerà.
— Ascoltate!
{ascoltano tutti)
UN OPERAIO - Oh! no, non è ancora lui. Si sentirebbero suonare le cam-
pane di Bruyères.
UN ALTRO - Non sarà qui prima di mezzanotte. Ha cenato a Fismes.
UN ALTRO - Saremo ben qui a vedere. Io non mi muovo certo.
14. - Teatro francese
210 PAUL CLAUDEL
UN ALTRO - Hai qualcosa da mangiare, Pierotto? Io non ho più che
un pezzo di pane che e tutto gelato.
IL SINDACO DI CHE VOGHE - Non avcf paura, c'è un quarto di porco
nella pentola, e salsicce, e il capriolo che abbiamo ucciso.
£ tre braccia di sanguinaccio, e un buon
botticello di vino della Marna.
l'apprendista - Resto con voi.
UNA DONNA - PropHo quel che si dice un buon Nataluccio.
l'apprendista - E il giorno di Natale che il re Clodoveo fu in Reims
battezzato.
un'altra donna - È il giorno di Natale che il nostro re Carlo ritorna
a farsi consacrare.
un'altra - È una semplice ragazza, inviata da Dio, che lo riconduce
nella sua casa.
un'altra - Giovanna, la chiamano.
un'altra - La Pulzella!
un'altra - Che è nata la notte dell'Epifania.
un'altra - Che ha scacciato gli Inglesi da Orléans che assediavano.
UN ALTRO - E che li caccerà anche di Francia tutti quanti. Cosi sia!
UN ALTRO (canticchiando) - Natale! Ki Ki Ki Ki Ki Natale! Natale no-
vellino! Brr! Come fa freddo!
(si stringe addosso il mantello)
UNA DONNA - Bisogna ben guardare se ci sarà un ragazzetto tutto in
rosso accanto al Re. È lei.
un'altra - Su di un grande cavallo nero.
LA PRIMA - Sei mesi fa pascolava ancora le vacche di suo padre.
un'altra - E ora porta uno stendardo dov'è Gesù in iscritto.
UN operaio - E gli Inglesi scappano davanti a lei come sorci.
UN ALTRO - Attenzione ai cattivi Borgognoni di Saponay!
UN ALTRO - Che cosa fanno quelli di laggiù?
l'apprendista - Le due campane della Cattedrale, Baldone e Baldo,
Cominciano a suonare al « Gloria » di Mezzanotte e
fino all'arrivo dei Francesi non smetteranno più di scampanare.
Tutti tengono in casa un cero acceso fino al mattino.
Si aspetta che il Re sia qui per la messa dell'Aurora
che è « Lux fulgebit ».
Tutto il clero gli andrà incontro, trecento preti con
l'Arcivescovo, in cappe d'oro, e i monaci, e il Sindaco, e il comune.
Sarà davvero bello sulla neve sotto il sole limpido e
forte e con tutto il popolo che, canta gli inni di Natale!
l'annunzio a makia 211
E dicono che il Re vuole scendere da cavallo ed en-
trare nella sua buona città su un asino, come Nostro Signore.
IL sindaco - Come mai dunque non siete restato laggiù?
l'apprendista - È mastro Pietro di Craon che m'ha mandato a pren-
dere della sabbia.
il sindaco - Toh! guarda! Di questo s'occupa in questo momento?
l'apprendista - Dice che il tempo è breve.
IL sindaco - Ma a che cosa impiegarlo meglio che a fare questa strada,
come noialtri?
l'apprendista - Dice che il suo mestiere non è di fare delle strade per
il Re, ma una dimora per Dio.
IL sindaco - Ma a che serve Reims, se il Re non può andarci?
l'apprendista - A che serve la strada, se in fondo non c'è una chiesa?
IL SINDACO - Non e un buon Francese...
l'apprendista - Lui dice che non sa altro che il suo mestiere. Chi par-
la di politica da noi, gli tingiamo il naso col fondo della padella.
IL sindaco - Non ha potuto nemmeno condurre a termine la sua Giu-
stizia dopo dieci anni che ci lavorano.
l'apprendista - Si, invece! Tutta la parte muraria è finita e l'armatura
è completata, non manca più che la guglia che non ha ancora fi-
nito di crescere.
il sindaco - Dicono ch'è lebbroso.
l'apprendista - Non è vero! L'ho visto tutto nudo, l'estate scorsa, che
si bagnava nell'Aisne a Soissons. Io posso dirlo!
Ha la carne sana come quella di un bambino.
IL sindaco - È strano, però. Perché s'è tenuto nascosto tanto tempo?
l'apprendista - È una menzogna!
IL sindaco - So io, io sono più vecchio di voi. Non dovete arrabbiarvi,
ragazzino. Non fa niente che sia malato nel corpo.
Non è col corpo che lavora.
l'apprendista - Non vi fate sentir dire cosi da lui! Mi ricordo come
ha punito uno di noi che restava tutto il tempo nel suo cantuccio
a disegnare:
L'ha mandato per tutta la giornata sulle impalcature
con i muratori per servirli e passar mastelli e pietre,
Dicendo che alla fine della giornata avrebbe impara-
to COSI due cose meglio che per regolo e disegno; il peso che un
uomo può portare e l'altezza del suo corpo.
E come la grazia di Dio moltiplica ognuna delle no-
stre buone azioni,
Cosi egli ci ha insegnato quello che chiama « il Siclo
212 PAUL CLAUDEL
del Tempio» e questa dimora di Dio della quale ogni uomo che
fa quel che può
Con il suo corpo, è come un fondamento segreto;
Quello che sono il pollice e la mano e il cubito della
nostra ampiezza e il braccio teso e il cerchio che si fa con esso
E il piede e il passo;
£ come niente di tutto questo è mai lo stesso.
Credete voi che del corpo non importasse al padre
Noè quando fece Tarca? e che non importi
Il numero dei passi che c'è dalla porta all'altare, e l'al-
tezza alla quale è permesso all'occhio di innalzarsi, e il numero
d'anime che i due lati della Chiesa contengono raccolte? Che l'ar-
tista pagano faceva tutto dall'esterno, e noi facciamo tutto dall'in-
terno come le api,
E come l'anima fa per il corpo: niente è inerte, tutto
vive.
Tutto è (( azione » di grazia.
IL SINDACO - Parla bene, il giovanotto.
UN OPERAIO - Ascoltatelo come una pica tutto pieno delle parole del
suo maestro.
l'apprendista - Parlate con rispetto di Pietro di Craon!
IL SINDACO - È vero che è un cittadino di Reims e lo chiamano il
Maestro del Compasso,
Come un tempo chiamavano Messer Loys
Il Maestro del Regolo.
UN ALTRO - Getta legna nel fuoco, Pierotto, ecco che comincia a ne-
vicare.
{nevica infatti. La notte è del tutto scesa. Entra mara, vestita di nero,
portando una specie di pacco sotto il mantello)
MARA - È qui la gente di Chevoche?
IL SINDACO - Siamo noi.
MARA - Sia lodato Gesù Cristo.
IL SINDACO - Così sia.
MARA - È dalle vostre parti la celletta del Gcyn?
IL SINDACO - Dove abita la lebbrosa?
MARA - Si.
IL SINDACO - Non è proprio dalle nostre parti, ma vicino.
UN ALTRO - Volete vedere la lebbrosa?
MARA - Si.
l'uomo - Non è possibile vederla; ha sempre un velo sulla faccia com'è
prescritto.
l'annunzio a maria 213
UN ALTRO - E ben prescritto! Non sarò certo io ad aver voglia di guar-
darla!
MARA - È da molto tempo che l'avete fra voi?
l'uomo - Ora fanno ott'anni, e vorremmo bene non averla.
MARA - Forse che fa del male a qualcuno?
l'uomo - No, ma porta male lo stesso avere vicino questa gente ver-
minosa.
IL SINDACO - £ poi è il comune che la mantiene.
MARA - E vive cosi sola sola, nei boschi come una bestia?
l'uomo a - Ehi, dite dunque, ne avete delle belle voi! Non ci man-
cherebbe altro che vi attaccasse la malattia!
l'uomo b - Ce il prete che va a dirle la messa di tanto in tanto.
l'uomo c - Ma non c'è pericolo che entri, voi lo capite! Gli hanno
fatto di fuori una specie... Come si dice? una specie di leggio.
l'apprendista - Un palco.
l'uomo c - Ecco, un palco. E lei se ne serve per dire la messa alle
bestie selvatiche.
MARA - Che dice?
UNA DONNA - È la Verità nuda e cruda, come vi si sta dicendo, lei pre-
dica ai caprioli e ai conigli al chiaro di luna.
È il nostro Thibaut la miseria che Tha vista una volta
la notte che ritornava dalla festa a Coincy.
un'altra DONNA - Tutti i conigli lui diceva che erano seduti per be-
nino tutti in cerchio sui loro sederini per ascoltarla.
un'altra DONNA - È la volpe che faceva da guardaportone e il grande
lupo bianco da fabbriciere.
L*uoMo B - È piacevole avere una roba simile nel comune!
IL SINDACO - Nel comune che ha l'obbligo di mantenerla per colmo di
disgrazia.
l'uomo a - Toh! giust 'appunto che ci siam dimenticati di portarle da
mangiare da tre giorni, con 'st'affare della strada.
UNA DONNA - E che volete da 'sta donna?
{Mara non rispande e resta in piedi a guardare il fuoco)
UNA DONNA - È come chi direbbe un bambino quello che portate nelle
braccia?
un'altra - Fa troppo freddo per portare in giro i marmocchi a 'st'ora.
MARA - Lui non ha freddo.
{silenzio. Si sente nella notte sotto gli alberi il rumore delle casta-
gnette)
214 PAUL CLAUDEL
UNA VECCHIA - Guardate! eccola per l'appunto I Queste sono le sue ca-
stagnette! Santa Vergine! Che peccato che non sia morta!
UNA DONNA - Viene a chiedere il suo mangiare. Non c'è pericolo che
si dimentichi!
UN UOMO - Che disgrazia dover nutrire questo verme.
UN ALTRO - Gettatele qualche cosa. Non deve avvicinarsi a noi. Ci
mancherebbe altro che ci attaccasse il veleno.
UN ALTRO - Niente carne, Pierotto! È di magro, oggi, è la vigilia di
Natale!
{ridono)
Gettatele questo tozzo di pane ch'è gelato.
È anche troppo per lei.
l'uomo (gridando) - Ehi, Senza-£accia! Ehi, Giovanna, ti dico! Ehi là,
rosicchiata!
{si vede la figura nera della lebbrosa sulla neve, Mara la guarda)
To'!
{le getta a tutta forza un pezzo di pane, violaine si china per raccat-
tarlo, poi si allontana. Mara s'incammina per segtùrla)
un uomo - Ma dov'è che va?
UN ALTRO - Ehi, quella donna! dove diavolo andate, ma che vi piglia?
{esse si allontanano)
Il sipario si abbassa un momento. Violaine velata e facendo risuonare le casta-
gnette passa sul davanti della scena seguita da Mara.
SCENA SECONDA
La messa in scena è la stessa degli altri atti ma senza le scale. Nel vano in alto
è stata messa una campana, in quello in basso una specie di statua mutila.
Davanti, una specie di predella abbastanza larga alla quale si accede per mezzo
di due o tre gradini sormontati da una grande croce di legno alla quale è
addossato un sedile.
Davanti, un leggio sormontato da una lampada sospesa ad un gancio.
VIOLAINE - Chi è qui,
Che non ha temuto di unire i suoi passi a quelli della
Lebbrosa?
E sappiate che la sua vicinanza è un pericolo e il suo fiato
pernicioso.
l'annunzio a maria 215
MARA - Sono io, Violainc.
vioLAiNE - O voce da lungo tempo non più udita!
Siete voi, madre mia?
MARA - Sono io, Violaine.
VIOLAINE - È la vostra voce ed un'altra.
Lasciatemi accendere questo fuoco, perché fa molto freddo.
£ questa torcia anche.
{accende un fuoco di torba e di felci con braci conservate in un vaso,
e poi la torcia)
MARA - Sono io, Violaine, Mara tua sorella.
VIOLAINE - Cara sorella, salute! Com'è bello che tu sia venuta!
Ma non hai paura di me?
MARA - Non ho paura di niente al mondo.
VIOLAINE - Come la tua voce è diventata simile a quella della mamma!
MARA - Violaine, la nostra cara madre non è più.
{silenzio)
VIOLAINE - La pezza di tela che aveva tessuta con le sue mani perché
le servisse da lenzuolo funebre...
MARA - Non aver paura, ce ne siamo serviti.
VIOLAINE - Povera mamma! Dio abbia la sua anima!
MARA - E il padre non è tornato ancora.
VIOLAINE - E voi due?
MARA - Noi due bene.
VIOLAINE - Tutto va come voi volete, a casa?
MARA - Tutto va bene.
VIOLAINE - So che non può essere altrimenti
Con te e Giacomo.
MARA - Tu vedessi quel che abbiamo fatto! Abbiamo tre aratri di più.
Non riconosceresti Combernon.
E noi abbatteremo quelle vecchie mura.
Ora che il Re è ritornato.
VIOLAINE - E voi siete felici insieme, Mara?
MARA - Si. Siamo felici. Mi ama
Come io l'amo.
VIOLAINE - Sia lodato Dio.
MARA - Violaine!
Tu non vedi quel che tengo fra le braccia?
VIOLAINE - Non vedo.
MARA - Leva dunque codesto velo.
VIOLAINE - Ne ho sotto questo un altro.
216 PAUL CLAUDEL
MARA - Tu non vedi più?
vioLAiNE - Non ho più occhi.
L'anima sola resiste nel corpo distrutto.
MARA - Cieca!
Come dunque cammini cosi dritto?
VIOLAINE - Io sento.
MARA - Che senti?
VIOLAINE - Le cose esistere con me.
MARA {con tono profondo) - E me, Violaine, mi senti?
VIOLAINE - Dio m'ha dato l'intelligenza
Che e con tutti noi nel medesimo tempo.
MARA - Mi senti tu, Violaine?
VIOLAINE - Ah! povera Mara!
MARA - Mi senti, Violaine?
VIOLAINE - Che vuoi da me, cara sorella?
MARA - Lodare con te quel Dio che t'ha fatta appestata.
VIOLAINE - Lodiamolo dunque in questa vigilia della sua Natività.
MARA - È facile essere una santa quando la lebbra ci serve di aiuto.
VIOLAINE - Non lo so, giacché non lo sonò.
MARA - Bisogna bene rivolgersi a Dio quando non resta altro.
VIOLAINE - Lui almeno non mancherà.
MARA {piano) - Forse, chi lo sa di sicuro, Violaine, di'?
VIOLAINE - La vita manca e non la morte dove ormai io sono!
MARA - Eretica! sei sicura della tua salvezza?
VIOLAINE - Lo sono della Sua bontà, che ha provveduto.
MARA - Ne vediamo le arre.
VIOLAINE - Ho fede in Dio che mi ha fatta la mia parte.
MARA - Che sai tu di Lui che è invisibile e che niente rivela?
VIOLAINE - Egli non lo è diventato per me più di quanto non lo sia il
resto.
MARA (ironicamente) - Egli è con te, colombella, e t'ama?
VIOLAINE - Come con tutti i miseri. Lui stesso.
MARA - Certo il suo amore è grande!
VIOLAINE - Come quello del fuoco per il legno quando prende.
MARA - Egli t'ha duramente castigata.
VIOLAINE - Non più di quanto avessi meritato.
MARA - E digià quello a cui tu hai dato il tuo corpo ti ha dimenticata.
VIOLAINE - Io non ho dato il mio corpo!
MARA - Dolce Violaine! Mentitrice Violaine! Non t'ho forse vista te-
neramente baciare Pietro di Craon quel mattino di un bel giorno
di giugno?
l'annunzio a makia 217
vioLAiNE - Hai visto tutto e non c'è altro.
MARA - Perché allora lo baciavi cosi preziosamente?
VIOLAINE - Il poveretto era lebbroso ed io ero così felice quel giorno I
MARA - In tutta innocenza, ncvvcro?
VIOLAINE - Come una bambina che abbraccia un povero bambino.
MARA - Devo crederlo, Violainc?
VIOLAINE - È la verità.
MARA - Non vorrai certo dire che di tua spontanea volontà m'hai la-
sciato Giacomo.
VIOLAINE - No, non di mia spontanea volontà, io l'amavo! Io non sono
COSI buona!
MARA - Doveva amarti ancora, lebbrosa com'eri?
VIOLAINE - Non me l'aspettavo.
MARA - Chi amerebbe una lebbrosa?
VIOLAINE - Il mio cuore è puro.
MARA - Ma che cosa ne poteva sapere Giacomo? Egli ti crede colpevole.
VIOLAINE - Nostra madre mi aveva detto che tu l'amavi.
MARA - Non dirai che è stata lei a renderti lebbrosa.
VIOLAINE - Dio mi ha prevenuta con la sua grazia.
MARA - Cosicché quando la madre ti ha parlato...
VIOLAINE - Era Lui stesso ancora che udivo.
MARA - Ma perché lasciarti credere spergiura?
VIOLAINE - Non avrei dovuto dunque far niente per parte mia?
Povero Giacomino! Dovevo lasciargli qualche rimpianto
di me?
MARA - Di' che non lo amavi.
VIOLAINE - Io non lo amavo, Mara?
MARA - Ma io, io non lo avrei cosi abbandonato!
VIOLAINE - Ed io forse l'ho lasciato?
MARA - Ma io sarci morta!
VIOLAINE - E forse che io sono viva?
MARA - Ora sono felice con lui.
VIOLAINE - La pace sia con voi.
MARA - E gli ho dato un figlio, Violaine! Una cara bambina. Una dol-
ce bambina.
VIOLAINE - La pace sia con voi.
MARA - La nostra gioia è grande. Ma la tua lo è di più, con Dio.
VIOLAINE - Ed io pure ho conosciuto la gioia or sono otto anni, e il
mio cuore ne era rapito,
Tanto che domandai follemente a Dio, ah! ch'essa durasse
e non avesse mai fine.
218 PAUL CLAUDEL
E Dio mi ha stranamente ascoltata! Forse che la mia leb-
bra guarirà? No certamente, finché vi sarà una particella di carne
mortale da divorare.
Forse che l'amore nel mio cuore guarirà? Giammai finche
vi sarà un*anima immortale per fornirgli alimento.
Tuo marito ti conosce, Mara?
MARA - Quale uomo conosce una donna?
vioLAiNE - Felice chi può esser conosciuta a fondo e darsi tutta quanta.
Giacomo, di tutto quello che io potevo dare, che cosa ne
avrebbe fatto?
MARA - Tu hai riversato su Un Altro la tua fede?
VIOLAINE - L'amore ha fatto il dolore e il dolore ha fatto l'amore.
Il legno a cui si è appiccato il fuoco non dà cenere sol-
tanto ma anche una fiamma.
MARA - A che cosa serve questo fuoco cieco che non dà agli altri
Né luce né calore?
VIOLAINE - Non è già abbastanza che mi serva?
Non rimproverare questa luce alla creatura calcinata, visi-
tata quasi fin nelle sue fondamenta, che le fa vedere in se stessa!
E se tu passassi una sola notte nella mia pelle non diresti
che questo fuoco non ha calore.
Il maschio è sacerdote, ma non è proibito alla donna di es-
sere vittima.
Dio è avaro e non permette che alcuna creatura bruci
Senza che un po' d'impurità in lei si consumi,
La sua o quella che la circonda, come la brace nel turibolo
che si attizza!
E certo la sventura di quest'epoca e grande.
Essi non hanno padre. Guardano e non sanno più dov'è il
Re e il Papa.
Ecco perché il mio corpo è qui travagliato al posto della
Cristianità che si dissolve.
Potente è la sofferenza quand'essa è volontaria come il
peccato!
Tu m'hai visto baciare quel lebbroso, Mara? Ah! il calice
del dolore è profondo
E chi vi accosta una volta il labbro non lo ritrae più a
suo piacimento!
MARA - Prendi dunque con te anche il mio!
VIOLAINE - L'ho già preso.
l'annunzio a maria 219
MARA - Violainc! se ce ancora qualcosa di vivo e che sia mia sorella
sotto codesto velo e codesta figura distrutta,
Ricordati che siamo state bambine insieme! Abbi pietà di me!
vioLAiNE - Parla, cara sorella! Abbi fiducia! Di' tutto!
MARA ' Violaine, sono una sventurata e il mio dolore è più grande
del tuo!
VIOLAINE - Più grande, sorella?
MARA [con un grande grido aprendo il mantello e levando in alto fra
le braccia un cadaverino) - Guarda! prendilo!
VIOLAINE - Che cos*è?
MARA - Guarda, ti dico! prendilo! Prendilo, te lo do.
(le mette il cadavere fra le braccia)
VIOLAINE - Ah! sento un piccolo corpo rigido! una povera piccola fac-
cia gelata!
MARA - Ah! ah! Violaine! Mia figlia, la mia piccola bimba!
È la sua piccola faccia si dolce! è il suo povero piccolo corpo!
VIOLAINE (a bassa voce) - Morta, Mara?
MARA - Prendila, te la do.
VIOLAINE - Calma, Mara!
MARA - Volevano strapparmela, ma io non me la son lasciata prendere!
e son fuggita con lei.
Ma tu prendila, Violaine! Tieni, prendila, tu vedi, te la do.
VIOLAINE - Che cosa vuoi che faccia, Mara?
MARA - Cosa voglio che tu faccia? non mi senti?
Ti dico ch'è morta! io ti dico ch*è morta!
VIOLAINE - La sua anima vive in Dio. Ella segue l'Agnello. Ella è con
le bambine beate.
MARA - Ma lei e morta per me!
VIOLAINE - Tu mi dai pure il suo corpo. Dà il resto a Dio.
MARA - No! No! No! tu non m'imbroglierai con le tue parole di be-
ghina! No, non mi lascerò affatto calmare.
Questo latte che mi brucia il petto, grida verso Dio come il
sangue di Abele!
Forse che ho cinquanta figli da strapparmi dal corpo? forse
che ho cinquanta anime da strappare dalla mia?
Sai tu che cosa sia spaccarsi in due e metter fuori un esserino
che grida?
E la levatrice mi ha detto che non avrò più figli.
E quand'anche ne avessi cento, di figli, non sarebbe mai la
mia piccola Aubaine.
220 PAUL CLAUDEL
vioLAiNE - Accetta; rassegnati.
MARA - Violaine, tu lo sai, io ho la testa dura. Sono quella che non
si arrende e che non accetta niente.
VIOLAINE - Povera sorella!
MARA - Violaine, son si dolce cosa, questi piccoli, e fa cosi male, que-
sta piccola bocca crudele, quando vi morde dentro!
VIOLAINE (carezzando il viso) - Come il suo visino è freddo!
MARA (a bassa voce) - Lui non sa ancora niente.
VIOLAINE (a bassa voce) - Non era in casa?
MARA - È a Reims, per vendere il grano. Lei è morta all'improvviso,
in due ore.
VIOLAINE - A chi rassomigliava?
MARA - A lui, Violaine. Non è nata soltanto da me, è nata anche da
lui. I suoi occhi soltanto son miei.
VIOLAINE - Povero Giacomino!
MARA - Non e per sentirti dire: Povero Giacomino! ch'io son venuta
qui.
VIOLAINE - Che cosa vuoi dunque da me?
MARA - Violaine, questo vuoi vedere? Di'! sai che cosa sia un'anima
che si danna?
Di suo proprio volere per l'eternità?
Sai che cosa c'è nel cuore quando si bestemmia per davvero?
Ho un demonio, mentre correvo, che mi cantava una canzon-
cina.
Vuoi sentire le cose che mi ha insegnato?
VIOLAINE - Non dire queste cose orribili!
MARA - Rendimi dunque la mia bambina che io t'ho dato!
VIOLAINE - Tu non mi hai dato che un cadavere.
MARA - E tu rendimela viva!
VIOLAINE - Mara, che osi dire?
MARA - Io non accetto che la mia bambina sia morta.
VIOLAINE - Forse che è in mio potere risuscitare i morti come Dio?
MARA - A che cosa servi, allora?
VIOLAINE - A soffrire e a supplicare.
MARA - Ma a che cosa ti serve soffrire e supplicare se non mi rendi la
mia bambina?
VIOLAINE - Dio lo sa, a cui basta che io lo serva.
MARA - Ma io, io sono sorda e non sento! E grido verso te dall'abisso
in cui mi trovo! Violaine! Violaine!
Rendimi la bimba che t'ho dato! Ebbene io cedo, io mi umi-
lio! abbi pietà di me'
l'annunzio a maria 221
Abbi pietà di me, Violaine, e rendimi la bimba che m'hai
preso!
VIOLAINE - Quegli che Tha presa può renderla.
MARA - Rendimela dunque. Ah! io so che tutto questo è colpa tua.
VIOLAINE - Colpa mia?
MARA - E sia, no
È colpa mia, perdonami! Ma rendimela, sorella mia!
VIOLAINE - Ma tu vedi che è morta.
MARA - Tu mentisci! non e morta! Ah! donnaccia, ah! cuore di pe-
cora! Ah! se io potessi comunicare, come te, col tuo Dio,
Egli non mi strapperebbe i miei piccoli cosi facilmente!
VIOLAINE - Domandami di creare nuovamente il cielo e la terra!
MARA - Ma è scritto che tu puoi soffiare su questa montagna e gettarla
nel mare.
VIOLAINE - Lo potrei, se fossi una santa.
MARA - Bisogna essere una santa quando una miserabile ti supplica.
VIOLAINE - Ah! tentazione suprema!
Io giuro, e dichiaro e protesto davanti a Dio che non sono
una santa!
MARA - Rendimi dunque la mia bambina.
VIOLAINE - Mio Dio, voi Vedete il mio cuore!
Io giuro e protesto davanti a Dio che non sono una santa!
MARA - Violaine, rendimi la mia bambina!
VIOLAINE - Perche non mi lasci in pace? perché vieni cosi a tormen-
tarmi nella mia tomba?
Forse che io valgo qualche cosa? forse che io dispongo di
Dio, forse che io sono come Dio?
Tu non mi domandi altro che di giudicare Dio stesso.
MARA - Io non ti domando altro che la mia bambina.
(pausa)
VIOLAINE (alzando il dito) - Ascolta.
(silenzio. Campane in lontananza, quasi impercettibili)
MARA - Non sento niente.
VIOLAINE - Sono le campane di Natale, le campane che ci annunziano
la Messa di Mezzanotte.
O Mara, un bambino ci è nato!
MARA - Rendimi dunque la mia.
(trombe in lontananza)
VIOLAINE - Cos'è questo?
222 PAUL CLAUDEL
MARA - È il Re che va a Rcims. Non hai sentito di quella strada che
i contadini tagliavano attraverso la foresta?
(E questa e anche tanta legna per loro)
È una pastorella che lo conduce, attraverso la Francia,
A Reims perché egli vi si faccia consacrare.
vioLAiNE - Lodato sia Iddio che fa queste grandi cose!
(le campane di nuovo, chiarissime)
MARA - Come le campane suonano il Gloria! Il vento sofiSa verso di noi.
Son tre villaggi che suonano insieme.
VIOLAINE - Preghiamo con tutto l'universo! Non hai freddo, Mara?
MARA - Io non ho freddo che al cuore.
VIOLAINE - Preghiamo. È passato molto tempo dacché abbiamo fatte
Natale insieme.
Non temere. Ho preso il tuo dolore con me. Guarda! e
quel che tu m'hai dato è nascosto nel mio cuore con me.
Non piangere! Non è il momento di piangere, quando la
salvezza di tutti gli uomini è già nata.
(campane in lontananza, meno distinte)
MARA - Non nevica più e le stelle scintillano.
VIOLAINE - Guarda! vedi questo libro?
MARA - Lo vedo.
VIOLAINE - Prendilo, vuoi? e leggimi l'Uffizio di Natale, la prima le-
zione di ciascuno dei tre Notturni.
MARA - A chi dovrei leggerlo?
VIOLAINE - Leggilo a Dio. Leggilo agli Angeli. Leggilo a tutta la terra.
Io rientro nella notte passando al disopra della mia notte per ascol-
tarti.
(Violai ne è scesa dalla predella portando con sé la bambina. Si adden-
tra nel fondo della cella sistemata nella parete dell'edificio in ro-
vina che le serve da ricovero. Mara sale sulla predella, s'installa
davanti al leggio e di qui procede alla lettura. Legge « recto tono »
le prime righe della profezia. A poco a poco la sua voce si affievo-
lisce mentre nella foresta i canti sovrannaturali si fanno sentire)
MARA (leggendo) -
PROFEZIA d'iSAIA
Nel primo tempo fu alleviata la terra di Zàbulon e la terra dt
Nephtali e nell'ultimo fu aggravata la via del mare al di là del
Giordano della Galilea delle Nazioni. Il popolo che camminava
l'annunzio a maria 223
nelle tenebre ha visto una grande luce; a quelli che abitavano nella
regione dell'ombra della marte la luce è nata.
(silenzio. Canti)
MARA (riprendendo la lettura) -
SERMONE DI SAN LEONE PAPA
// nostro Salvatore, miei dilettissimi, è nato in questo giorno. Sia-
mo in letizia. E in verità non vi è adito alla tristezza, quando è
il di natale della vita : che, consumato il timore della morte, in-
fonde in noi la gioia dell'eternità promessa. Nessuno dalla par-
tecipazione a quest'allegrezza è escluso,
(suono clamoroso e prolungato di trombe, vicinissimo. Alte grida at-
traverso la foresta)
MARA - Il Re! il Re di Francia!
(di nuovo e un'altra volta ancora suono di trómbe indicibilmente lace-
rante, solenne e trionfale)
MARA (a bassa voce) - Il Re di Francia che va a Reims!
(silenzio)
Violainc!
(ella grida con tutte le sue forze)
Mi senti, Violaine?
(silenzio. Ella riprende la lettura)
. . . Che il peccatore si rallegri perché è invitato al perdono! Che
il Gentile speri perché è invitato alla vita! Imperocché il Figlio di
Dio, secondo la pienezza del tempo che l'imperscrutabile profon-
dità del divino consiglio ha disposto . . .
(silenzio. Canto degli Angeli)
MARA - Violaine! Io non son degna di leggere questo libro!
Violaine> so di essere troppo dura e me ne rammarico; vorrei
essere diversa.
(silenzio)
MARA (con sforzo, riprendendo il libro, con voce tremante) -
LETTURA DEL SANTO VANGELO SECONDO SAN LUCA
(si alza)
In quel tempo appunto l'editto fu promulgato di Cesare Augu-
224 PAUL CLAUDEL
Sto che si facesse il censimento per tutta la terra. E il resto . . .
OMELIA DI SAN GREGORIO PAPA
Perciocché, per grazia del Signore, noi dobbiamo oggi tre volte
celebrare la solennità della Messa.
Cosi..,
{il libro trema violentemente fra le mani di Mara. Ella finisce col la-
sciarlo cadere e resta in piedi nel chiaro di luna in un atteggiamen-
to di panico. Comincia a spuntare il giorno)
vioLAiNE (improvvisamente mandando un grido soffocato) - Ah!
{Mara si dirige verso la cella, vi si inoltra e ne ritorna camminando
dVindietro e trascinando con sé Violaine. La conduce fin sul da-
vanti della scena e là, tutfa un tratto, avendo visto la bimba muo-
versi, vivamente indietreggia)
MARA - Violaine, che cose quel che si muove su di te?
Che cose quel che si muove su di te? Ti domando cosa si
muove cosi su di te!
VIOLAINE - Abbi pace, Mara! ecco il giorno di Natale quando ogni
gioia è nata!
MARA - Quale gioia può esservi per me se non che la mia bimba viva?
VIOLAINE - Ed anche a noi, anche a noi è nato un bambino!
MARA - Si muove, si muove, si muove! O mio Dio, vedo che si muove
di nuovo.
In nome del Dio vivente, che cosa mai dici?
VIOLAINE - Ecco che io vi annunzio una grande gioia . . .
Povera sorella! piange. Ha avuto .troppo dolore anch'ella.
Prendi, Mara! Vuoi lasciarmi sempre questa bimba?
MARA - Vive!
{Mara si getta sulla bambina e la strappa violentemente a sua sorella)
VIOLAINE {sale sulla predella con le mani giunte e grida) - Gloria a Dio!
MARA - Vive!
VIOLAINE - Pace agli uomini sulla terra!
MARA - Vive! vive!
VIOLAINE - Ella vive e noi viviamo.
E la faccia del Padre appare sulla terra risorgente e con-
solata.
MARA - La mia bambina vive!
L'Annunzio a Maria, di Claudel, al Thcàtre Hcbertot di Parigi (1948).
Regia di Andre Barsacq, scena e costumi di Mariano Andreù.
l'annunzio a maria 225
vioLAiNE {alzando il dito) - Ascolta!
{silenzio)
Sento l'Angelus suonare a Monsanvergine.
{si fa il segno della croce e prega. La bimba si desta)
MARA {a voce bassissima) - Sono io, Aubaine, mi riconosci?
{la bimba si agita e geme)
Che gnc gne, gioia mia, che gne gne, mio tesoro?
{la bimba apre gli occhi, guarda la madre e si mette a piangere, Mara
la guarda attentamente)
Violaine'
Che vuoi dire questo? I suoi occhi erano neri,
E ora sono diventati azzurri come i tuoi.
(silenzio)
Ah!
E cos'è questa goccia di latte che vedo sulle sue labbra?
{si sentono le campane di Monsanvergine suonare in lontananza)
ATTO QUARTO
SCENA PRIMA
La seconda metà della notte. La sala del Primo Atto. Nel caminetto i tizzoni
mandano una debole luce» Nel mezzo una lunga tavola sulla quale è una
stretta tovaglia i cut lembi ricadono in misura uguale alle due estremità. La
porta è aperta a due battenti, mostrando una notte stellata. Un «mdelabro ac-
ceso è posto nel mezzo della tavola. Entra Giacomo hury, come se cercasse
qualcuno. Esce e riconduce mara tirandola per un braccio.
GIACOMO HURV - Che cosa fai li?
MARA - Mi sembrava di sentire un rumore di carri, laggiù in fondo
alla valle.
GIACOMO HURY {tendendo l'orecchio) - Non sento niente.
MARA - È vero, tu non senti niente. Ma io ho l'orecchio attento e l'oc-
chio aperto.
15. • Teatro francese
226 PAUL CLAUDEL
GIACOMO HURY - Farcsti meglio a dormire.
MARA - Di' un po', neanche tu dormi sempre cosi bene.
GIACOMO HURY - Penso, cerco di capire.
MARA - Che cos'è che cerchi di capire?
GIACOMO HURY - Aubaine. La bambina malata che stava per morire. E
un bel giorno io ritorno e mi dicono che tu sei fuggita con lei,
come una pazza.
Era di Natale. E il giorno degli Innocenti, eccola che
torna con la bambina. Guarita!
Guarita! Essa era guarita.
MARA - È un miracolo.
GIACOMO HURY - Si, un po' c la Santa Vergine, se ti si prestasse fede,
e un po' è non so quale anima santa non so dove che ha fatto il
miracolo.
MARA - Né l'uno né l'altro. Sono io che ho fatto il miracolo.
(con un soprassalto)
Ascolta!
(tendono l'orecchio)
GIACOMO HURY - Non sento niente.
MARA (rabbrividendo) - Chiudi codesta porta. È fastidioso.
(egli chiude la porta)
GIACOMO HURY - QuA che è sicuro è che il suo viso non è più lo stesso.
Lo stesso, certamente, e non lo stesso. Gli occhi, per
esempio, son cambiati.
MARA - Di' un po', furbo, hai trovato questo da solo?
Ecco che cosa capita quando il buon Dio si impiccia dei no-
stri affari.
E tu, impicciati dei tuoi!
(con violenza)
E che cosa hai mai da guardare tutto il tempo 'sta porta?
GIACOMO HURY - Sei tu che non smetti mai di stare in ascolto.
MARA - Aspetto.
GIACOMO HURY - Aspetti chi? aspetti cosa?
MARA - Aspetto mio padre!
Mio padre, Anne Vercors, che è partito, or son sctt'anni!
Parola mia, credo che l'ha già dimenticato!
Quel vecchio galantuomo, tu ti ricordi? Anne Vercors lo chia-
mavano.
l'annunzio a maria 227
Per quanto sia, il padrone di Combernon non è sempre stato
Giacomo Hury.
GIACOMO HURY - Bene! Se ritorna troverà le terre in buono stato.
MARA - £ la casa anche. Sette anni già che è partito.
{a bassa voce)
Lo sento che torna.
GIACOMO HURY - Non SÌ ritorna spesso dalla Terra Santa.
MARA - E se fosse vivo, dopo sette anni avrebbe trovato modo di darci
sue notizie.
GIACOMO HURY - È lontana, la Terra Santa, bisogna passare il mare.
MARA - Ci sono i pirati, ci sono i Turchi, ci sono le disgrazie, c'è la
malattia, ci sono i delinquenti.
GIACOMO HURY - Anche qui non si sente parlare che di delinquenza.
MARA - Quella donna, per esempio, che mi dicono è stata ritrovata in
fondo a una cava di sabbia.
GIACOMO HURY - Qualc donna?
MARA ' Laggiù. Una lebbrosa, dicono.
Può essere che è lei che c'è caduta da sola.
Che bisogno aveva di mettersi a passeggiare?
Tanto peggio per lei!
£ può essere anche che le abbiano dato una spinta. Qualcuno...
GIACOMO HURY - Una lebbrosa?
MARA - Ah! ah! questo ti fa drizzare le orecchie? Anche una lieve
lebbra dicono che rovina gli occhi. E quando non ci si vede bene,
non si deve passeggiare.
£ a nessuno piace una simile vicinanza. Una disgrazia fa pre-
sto a capitare.
GIACOMO HURY - Tuttavia, se il padre ritorna, non è sicuro che sarà poi
tanto soddisfatto.
MARA - Mara! dirà subito. Era Mara la sua preferita.
Che piacere sapere che è proprio lei alla fine che ha acchiap-
pato il signor Giacomo!
E che dorme tutte le notti al suo fianco come una spada nuda^
GIACOMO HURY - E sua figlia, la sua nipotina, non sarà forse contento
di abbracciarla?
MARA - «Che bella bambina!», dirà. «E che begli occhi azzurri! Que-
sto mi ricorda qualcosa!».
GIACOMO HURY (comc sc forlossc al posto del padre) - «E la madre,
dov'è? ».
MARA (con una riverenza^ - Non qui per il momento. Monsignore!
228 PAUL CLAUDEL
Perbacco, quando si va a Gerusalemme non bisogna aspettarsi di
ritrovare tutti quanti. Son lunghi sette anni!
È Mara adesso che occupa il suo posto accanto al focolare.
GIACOMO HURY (cofite prima) - « Buongiorno, Mara ».
MARA - Buongiorno, padre!
(ANNE VERcoRs frattanto è entrato dal lato della scena e si trova dietro
ad essi. Porta il corpo di Violaine fra le braccia)
ANNE VERCORS - Buongiomo, Giacomo!
SCENA SECONDA
ANNE VERCORS (fa il giro della tavola e va a situarsi dietro ad essa, là
dove si trova la cattedra, U guarda l'uno dopo l'altro) - Buongior-
no Mara!
(MARA non risponde niente)
GIACOMO HURY - Padre! cos'è questa cosa che ci portate nel vostro
mantello?
E che cos'è questo corpo morto fra le vostre braccia?
ANNE VERCORS - Aiutami a stenderlo su questa tavola.
Piano, piano, ragazzo mio!
(stendono il corpo sulla tavola e Anne Vercors lo copre col suo man-
tello)
Eccola! è lei! è la tavola sulla quale ho diviso il pane
a tutti, il giorno della mia partenza.
Buongiorno, Giacomo! Buongiorno, Mara!
Tutti e due sono qui al mio posto ed il mio regno
nella loro persona continua.
La terra su cui, da un estremo all'altro, come un
grande pioppo
Ora più lunga ed ora accorciandosi,
Si stende l'ombra di Anne Vercors.
E per quel che riguarda la Madre, ho inteso.
E so ch'ella mi aspetta in quel luogo dove io non tar-
derò a raggiungerla.
GIACOMO HURY- Padre! Io vi domando che cos'è quello che ci avete
portato fra le braccia.
l'annunzio a maria 229
E cos'è il corpo morto che è là steso sulla tavola?
ANNE VERooRS - Non Hiorto, Giacomo, non morto del tutto. Non vedi
che respira?
GIACOMO HURY - Padrc, chi è?
ANNE VERCORS - Qualcosa che ho trovato lungo il mio cammino ieri,
in una grande cava di sabbia.
Ho sentito la sua voce che mi chiamava debolmente.
GIACOMO HURY - Una lebbrosa, nevvero?
ANNE VERCORS - Una lebbrosa. Chi te Tha detto? Tu lo sapevi già?
È Mara certamente che te l'ha detto.
GIACOMO HURY - E potrei domandarvi perché mi riportate in questa
casa onorata che è la mia, una lebbrosa?
ANNE VERCORS - Vuoi metterci alla porta tutt'e due?
È lei che me l'ha chiesto, con la bocca contro il mio
orecchio.
Di portarla qui. Di riportarla qui.
Può parlare ancora. Ma, ahimé, che son divenuti i
begli occhi di Violaine, la mia bambina? Non ci sono più.
GIACOMO HURY - Sente quello che diciamo?
ANNE VERCORS - Non lo SO. Domanda la pace. Domanda che tu non
sia più in collera con lei.
E anche Mara, se è in collera,
{egli guarda Violtùne distesa)
Io domando perdono.
GIACOMO HURY - lo non sono in collera.
ANNE VERCORS - I suoi occhi, povera bambina! Non ha più occhi! Ma
il cuore batte ancora.
Debolmente, debolmente!
Tutta la notte ho sentito il cuore della mia bambina
che batteva contro il mio e lei cercava di stringermi forte a se:
Debolmente, debolmente!
E il cuore di tanto in tanto si fermava e poi ripren-
deva la sua piccola corsa malata.
Pan pan pan! pan pan pan! Padre! Padre!
GIACOMO HURY - E vi ha parlato anche di me?
ANNE VERCORS - Si, Giacomo.
GIACOMO HURY - E di quell'altro anche... lei era la mia fidanzata!...
dico quell'altro un mattino di maggio...
ANNE VERCORS - DÌ chi VUOI parlare?
GIACOMO HURY - Di Pietro di Craon! Quel lebbroso, quel marcio! quel
230 PAUL CLAUDEL
ladro! Quel muratore, sette anni fa, che era venuto per aprire il
fianco di Monsanvergine!
(silenzio)
ANNE VERCORS - Non c'è stato peccato fra Violaine e Pietro.
GIACOMO HURY- E che dite di quel casto bacio che ha scambiato con
lei un mattino di maggio?
(silenzio. Anne Vercors fa lentamente un segno di diniego con la testa.
Giacomo Hury va a prendere Mara trascinandola per il polso e le
fa alzare la mano destra)
Un mattino di maggio! Mara giura che un mattino di
maggio, essendosi alzata di buon'ora,
Ha visto questa Violaine qui presente che baciava te-
neramente Pietro di Craon sulla bocca.
(silenzio)
ANNE VERCORS - lo dicO di nO.
GIACOMO HURY - E allora la vostra Mara ha mentito?
ANNE VERCORS - Non ha mentito.
GIACOMO HURY - lo, io, io SUO fidanzato! A me non aveva mai permesso
che la toccassi!
ANNE VERCORS - Ho visto Pietro di Craon a Gerusalemme. Era guarito.
GIACOMO HURY - Guarito?
ANNE VERCORS - Guarito. E per questo appunto era andato laggiù a
compimento del suo voto.
GIACOMO HURY - Lui è guarito ed io son dannato!
ANNE VERCORS - Ed è anchc per guarirti, Giacomo figlio mio, che sono
venuto a portarti queste reliquie viventi.
GIACOMO HURY- Padre! Padre! avevo una figlia anche, che era vicina
a morire,
Aubaine, si chiama,
Ed ecco che essa è stata guarita!
(gesto di Anne Vercors)
Dio sia ringraziato!
Ma quella bocca, quella bocca di vostra figlia, quella
bocca che mi avevate dato, quella figlia che voi mi avevate dato!
Quella bocca non era sua, è mia! Io dico questa bocca e il soffio
di vita che è dentro le labbra!
ANNE VERCORS - La bocca della donna prima che dell'uomo è di Dio,
l'annunzio a maria 231
che nel giorno del battesimo Tha salata con il sale. E a Dio sol-
tanto ella dice: Ch'Egli mi baci con un bacio della Sua bocca!
GIACOMO HURY - Lei non mi apparteneva piò. Io le avevo dato il mio
anello!
ANNE VERCORS - Guardalo che brilla al suo dito.
GIACOMO HURY (stUptto) - È VCFo!
ANNE VERCORS - È Pietfo di Craon laggiù che me Tha consegnato ed io
l'ho messo di nuovo al dito della donatrice.
GIACOMO HURY - E il mioj non è vero, è questo che pensate, fa il paio
con quello di Mara!
ANNE VERCORS - Rispettalo di più.
GIACOMO HURY - Un mattino di maggio! Padre! padre! tutto rideva in-
torno a lei. Lei mi amava ed io l'amavo! Tutto era suo ed io le
avevo tutto dato!
ANNE VERCORS - Giacomo, figlio mio! ascolta, comprendi! Era troppo
bello! Non era possibile.
GIACOMO HURY - Che volete dire?
ANNE VERCORS - Giacomo, figlio mio! Il medesimo appello che il padre
ha inteso, anche la figlia gli ha prestato orecchio!
GIACOMO HURY - Quale appello?
ANNE VERCORS (comc sc reàtussc) - U Angelo di Dio recò l'annunzio
a Maria ed ella ha concepito per opera dello Spirito Santo.
GIACOMO HURY - Che cosa ha concepito?
ANNE VERCORS - Tutto il grande dolore di questo mondo intorno a lei,
e la Chiesa tagliata in due, e la Francia per cui Giovanna è stata
bruciata viva, lei l'ha visto! Ed è per questo che ha baciato quel
lebbroso, sulla bocca, sapendo quel che faceva.
GIACOMO HURY - Un attimo! in un attimo ha deciso questo?
ANNE VERCORS - Ecco Vancclla del Signore . . .
GIACOMO HURY - Lci ha salvato il mondo ed io son perduto!
ANNE VERCORS - No, Giacomo non è perduto, e Mara non è perduta,
quand'anche lo volesse, e Aubaine, Aubaine è viva!
E niente è perduto e la Francia non è perduta, ed
ecco che dalla terra fino al cielo per amore o per forza
Di speranza e di benedizione s'innalza uno slancio
irresistibile!
Il Papa è a Roma e il Re è sul suo trono*.
E io, io mi ero scandalizzato come un Giudeo, per-
1 È la fine dello scUma d'Occidente (1378-1429).
232 PAUL CLAUDEL
che il volto della Chiesa era oscurato, e perché ella segue titubando
il suo cammino nell'abbandono di tutti gli uomini.
E ho voluto di nuovo abbracciare il sepolcro vuoto,
mettere la mano nel foro della croce, come l'apostolo in quello del-
le mani e dei piedi e del cuore.
Ma la mia piccola Violaine è stata più saggia!
Forse che scopo della vita è il vivere? forse che i pie-
di dei figli di Dio sono attaccati a questa terra miserabile?
Non è il vivere, ma il morire! E non e il costruire la
croce, ma il salirvi e dare quello che possediamo in letizia!
Qui è la gioia, qui è la libertà, qui la giovinezza eter-
na! e lode a Dio se il sangue del vegliardo sulla tovaglia del sacri-
ficio accanto a quello del giovane
Non fa una macchia cosi rossa, cosi fresca come quel-
lo dell'agnello di un solo anno!
O Violaine! figlia della grazia! carne della mia carne!
Cosi lontano quanto il fuoco fumoso della fattoria lo è dalla stella
del mattino.
Quando quella bella vergine sul seno del sole posa la
sua testa illuminata.
Possa tuo padre vederti lassù in alto per l'eternità al
posto che ti è stato riservato!
Lode a Dio se dove passa la sua piccola, non passa
anche il padre!
Qual valore ha il mondo in confronto alla vita? e
qual valore ha la vita se non per servirsene e donarla?
E perché tormentarsi quando è cosi semplice obbe-
dire e quando l'ordine è li?
È COSI che Violaine tutta sollecita segue la mano che
prende la sua.
GIACOMO HURY - O Violaine! o crudele Violaine! desiderio della mia
anima, tu m'hai tradito!
O detestabile giardino! o amore inutile e disprezzato,
giardino nella mala ora piantato!
Dolce Violaine, perfida Violaine! o silenzio e abisso
della donna!
Non mi dirai niente? Non mi rispondi? Continue-
rai a tacere?
Avendomi ingannato con parole perfide.
Avendomi ingannato con quel sorriso amaro e gra-
zioso.
l'annunzio a maria 233
Ella se ne va dove non la posso seguire,
E io con questo dardo avvelenato nel fianco,
10 dovrò vivere e continuare!
(rumori della fattoria che si sveglia)
L allodola sale in alto,
Prega Dio che faccia bello!
Per il padre, per la madre
E per tutti i suoi piccini!
ANNE VERcoRs - Spunta il giorno! Sento la fattoria che si risveglia e
tutta la cavalleria della mia terra nella sua pesante bardatura a
quattro a quattro,
Ix pesanti quadrighe di cui parla la Bibbia che si
preparano alFevangelo del vomere e del mannello.
{va a spalancare il portone. La luce penetra a fiotti nella grande sala)
GIACOMO HURY- Padre, guardate! guardate questa terra che è vostra
e che vi aspettava, col sorriso sulle labbra!
11 vostro possesso, questo oceano di solchi, fino al
confine della Francia! Non ha demeritato, affidato alle mie mani!
La terra almeno non mi ha ingannato, lei, ed io nem-
meno la ho ingannata, questa terra fedele, questa terra possente!
C'è un uomo a Combernon! La fede giurata, il matrimonio che
c'è fra me e lei, io Tho rispettato.
ANNE vERGORS - Non è più il tcmpo della raccolta, ma quello della
semina. La terra a lungo ci ha nutriti ed è tempo che io la nutra
a mia volta.
(volgendosi verso violaine)
Con questo seme inestimabile.
GIACOMO HURY (torccndosi le braccia) - Violaine, Violaine, mi senti tu,
Violaine?
MARA (facendosi avanti con violenza) - Non sente! La vostra voce non
arriva fino a lei! Ma io, io saprò farmi sentire.
(con voce bassa e intensa)
Violaine! Violaine! sono tua sorella! mi senti tu? Violaine!
GIACOMO HURY - La sua mano! Ho visto la sua mano muoversi!
MARA - Ah ah ah! Lo vedete? sente! ha sentito!
Quella voce, quella stessa voce di sua sorella che un certo gior-
no di Natale ha fatto forza fino al fondo delle sue viscere!
GIACOMO HURY - Padre, padre! è pazza! Sentite che cosa dice?
234 PAUL CLAUDEL
Quel miracolo... quella bambina... io sono pazzo... lei
è pazza!
ANNE VERCORS - Ha dctto la verità. So tutto.
MARA - No, no, no! non sono pazza! E lei, guardate! lei sente; lei sa,
lei ha capito!
Pan pan pan!...
Che cosa diceva il padre, poco fa, che cosa dice il primo tocco
dell'Angelus?
ANNE VERCORS - U Angelo di Dio ha portato V annunzio a Maria ed
ella ha concepito per opera dello Spirito Santo,
MARA - E che cosa dice il secondo tocco?
ANNE VERCORS - Ecco VanccUa del Signore, sia fatto di me secondo la
vostra volontà.
MARA - E che cosa dice il terzo tocco?
ANNE VERCORS - E il Vcrbo /è fatto carne ed ha abitato fra noi,
MARA - E il Verbo /è fatto carne ed ha abitato fra noi.
E il grido di Mara, e Tappello di Mara e il ruggito di Mara,
anch'esso, anch'esso s'è fatto carne nel seno di quest'orrore, nel
seno di questa nemica, nel seno di quest'essere in disfacimento, nel
seno di questa abominevole lebbrosa!
E questa bimba che lei m'aveva preso.
Dal fondo delle mie viscere io ho gridato cosi forte che alla
fine gliel'ho strappata, l'ho strappata a questa tomba vivente.
Questa bambina mia che io ho concepito ed è lei che l'ha mes-
sa al mondo.
GIACOMO HURY - È lei che ha fatto questo?
MARA - Tu sai tutto! Si, quella notte, la notte di Natale!
Aubaine, t'ho detto che era malata, non è vero, era morta! un
corpicino ghiacciato!
E tu dici che e lei che ha fatto questo? È Dio, è Dio che ha
fatto questo? Dopo tutto sono stata io la più forte! È Mara, è Mara
che ha fatto questo!
(Giacomo Hury lancia una specie di urlo, e, respingendo Mara, si get-
ta ai piedi di Violaine)
MARA - Si mette in ginocchio! Questa Violaine che l'ha tradito per un
lebbroso,
(E questa terra, che basta a tutti, non era buona per lei!)
E quella parola che aveva giurata, con le sue labbra lei l'ha
messa fra le labbra di un lebbroso...
GIACOMO HURY - Taci!
MARA - Violaine! È lei sola ch'egli ama. È lei sola che amavano tutti!
l'annunzio a maria 235
È lei sola che amavano tutti! ed ecco suo padre che l'abban-
dona, e sua madre che tanto dolcemente la consiglia, e il suo fidan-
zato come ha creduto in lei!
E questo era tutto il loro amore. Il mio è di un'altra specie!
GIACOMO HURY- È vcro! E so anche che sei tu che hai condotto Vio-
laine fino a quella cava di sabbia,
Una mano che la trae per mano e Taltra che la spinge.
MARA - Lui sa questo! niente gli sfugge.
GIACOMO HURY - Ho detto la verità o no?
MARA - E bisognava che quest'uomo che mi appartiene e che è mio
fosse tagliato in due? una metà qui e l'altra nel bosco di Chevoche?
£ bisognava che la mia bambina che è mia fosse tagliata in
due e che avesse due madri? Una per il corpo e l'altra per l'anima?
Sono io, sono io che ho fatto questo!
(accasàata e con voce sorda, guardandosi le mani)
Sono io, sono io che ho fatto questo!
ANNE vERcoRs - No, Mara, non sci tu, e un altro che si era imposses-
sato di te. Mara, bambina mia! tu soffri ed io vorrei consolarti!
È tornato alla fine, è tuo per sempre questo padre
che un tempo amavi!
Mara, Violaine! o mie due figliuoline, o mie due pie-
coline nelle mie braccia! Tutt'e due vi amavo e i vostri cuori uniti
ne facevano uno solo con il mio.
MARA (con un grido straziante) - Padre, padre! la mia bambina era
morta ed è lei che l'ha risuscitata!
VOCE DI BAMBINO {fuort) -
Margherita di Parigi
Dammi i tuoi scarpini grigi
Per andare in ciel da Dio!
Com'è caldo, com'è bello!
Sento il canto del fanello
Che fa ciò ciò ciò!
(a metà della canzone Violaine alza lentamente il braccio e lo lascia
ricadere accanto a Giacomo)
VIOLAINE - Padre, è graziosa questa canzone, la riconosco! è quella che
cantavamo un tempo quando andavamo a cogliere le more lungo
le siepi.
Noi due Mara!
ANNE x-ERcoRS - Violaine. è Giacomo quello che è vicino a te.
236 PAUL CLAUDEL
vioLAiNE - È sempre in collera?
ANNE VEROORS - NoD è più in Collera.
VIOLAINE {gli mette una mano sulla testa) - Buongiorno, Giacomo!
GIACOMO HURY {con voce sorda) - O mia fidanzata tra i rami in fiore,
salve!
VIOLAINE - Padre, ditegli che l'amo.
ANNE VERcoRS - Ascoltalo chc non dice niente.
VIOLAINE - Pietro di Craon...
ANNE VERCORS - Pietro di Craon?
VIOLAINE - Pietro di Craon, ditegli che l'amo.
Quel bacio che gli ho dato, bisogna che ne faccia una
chiesa.
ANNE VERCORS - È già incominciata.
VIOLAINE - £ Mara, lei mi ama! Lei sola, lei sola ha creduto in me!
ANNE VERCORS - Giacomo, ascolta attentamente!
VIOLAINE - La bimba che lei m'ha dato, la bimba che mi è nata fra le
braccia.
Ah, gran Dio com'era bello, ah, com'era dolce!
Mara! Ah come ha bene obbedito, ah, come ha fatto tutto
quello che doveva fare!
Padre! padre! ah com'è dolce, ah com'è terribile mettere
un'anima al mondo!
ANNE VERCORS - Questo mondo qui, vuoi dire, o ce n'è un altro?
VIOLAINE - Ce n'è due e io dico che non ce n'è che uno e che basta, e
che la misericordia di Dio è immensa!
GIACOMO HURY - La felicità è finita per me.
VIOLAINE - È finita, che cosa importa?
Non ti è stata affatto promessa la felicità, lavora, è tutto
quello che ti si domanda.
Interroga la vecchia terra e sempre essa ti risponderà con
il pane e il vino.
Per me, io ho finito e passo oltre.
Di', che cos'è un giorno lontano da me? Ben presto sarà
passato.
E allora quando verrà la tua volta e tu vedrai la grande
porta scricchiolare e muoversi,
Ci sarò io dall'altra parte, vicina.
GIACOMO HURY - O mia fidanzata tra i rami in fiore, salve!
VIOLAINE - Ti ricordi?
Giacomo, buongiorno, Giacomo!
l'annunzio a maria 237
{a questo punto entrano i servi della fattoria, tenendo dei ceri che ac-
cendono)
vioLAiNE - Giacomo, sei ancora qui?
GIACOMO HURY - SoDO qiÙ.
VIOLAINE - L'annata è stata buona e il grano rigoglioso?
GIACOMO HURY - Tanto che non si sa più dove metterlo.
VIOLAINE - Ah!
Che cosa bella una ricca messe!
Si, anche ora mi ricordo e trovo che è bello!
GIACOMO HURY - Si, Violainc.
VIOLAINE - Com'è bello vivere! (con profondo fervore) e come la gloria
di Dio è immensa!
GIACOMO HURY - Vìvì dunque e resta con noi.
VIOLAINE (ricade sul giaciglio) - Ma com'è bello anche
Morire quando è ben finito e che si stende su noi a poco
a poco
L'oscuramento come di un'ombra molto scura.
(silenzio)
l'angelus (voce)'.
Pax pax pax
Pax pax pax
Pére ph-e pére
(a distesa)
Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis.
Lae ta re
Lae ta re
Lae ta rei
(Anne Vercors va a prendere Mara e la conduce tenendola per mano
vicino a Violaine, di fronte a Giacomo Hury, Con la mano sinistra
prende la mano di Giacomo Hury e la solleva a mezz'aria, A que-
sto punto Mara libera la sua mano e prende quella di Giacomo
Hury che resta a testa bassa a guardare Violaine. Il padre prende
le due mani con le sue e fa con esse solennemente un atto di ele-
vazione. Solo a questo punto Giacomo alza la testa e guarda Mara
che tiene gli occhi fissi con durezza su lui. Le campane suonano)
La presente traduzione è a cura di Dora Siciliano.
JEAN filRAVDOUX
Nato il 1882 a Bellac, nel Limosino, morto a Parigi al prin-
cipio del 1944, Jean Giraudoux* passa eia brève et pleine» av-
ventura della vita rappresentandovi brillantemente — cioè con
estrema modestia e cortesia — la difficile parte del primo della
classe. Scolaro nutrito di studi classici, «normalien», giornalista,
diplomatico, funzionario, combattente, colleziona menzioni ono-
revoli, ferite, medaglie, diplomi di civiche benemerenze, schede
di biografie ideali e documenti di esemplare esistenza. Dalla pen-
sosa giovinezza provinciale alle sale del Quai d'Orsay, da Bellac
— immobile paese delle nostalgie e dei ritorni — al continuo mo-
vimento dei viaggi che lo portano dall'adorata Francia all'amata
(e ingrata) Germania o all'c Amica America», dai paesi baltici
all'Australia (nel 1934 è nominato Ispettore degli uffici consolari),
Giraudoux attraversa zone e antipodi in compagnia di Simone il
Patetico, di Siegfried ed il Limosino, del Controllore di Pesi e
Misure (e senza esclusione di Susanne, Alcmene ed altre e elette >)
distribuendo strette di mano, buoni sentimenti, lezioni di borghese
conformismo e felici paradossi. Viaggiatore solitario in definitiva,
egli mette un'arte ed uno spirito di specie rara al servizio cordiale
della tribù, cercando sulP* oceano profondo» che sarebbe la vita,
€ la schiuma leggera della saggezza » : ed è afiar suo e suo segreto
quel correre da un estremo all'altro senza infrazioni di limiti e
senza cadute nell'abisso, quel tenere la sensibile bilancia dei com-
pensi e delle riparazioni fra realtà e sogno, il trovare il comune
denominatore umano fra Ulisse e Ettore (o tra Filippo Berthelot
e Poincaré), la misura fantastica che fa sembrare giuste le piace-
voli combinazioni di atticismo ed alessandrinismo, di razionale ele-
* Cfr. e Panorama teatro francese » voi. I, pag. 59.
16. • Teatro francete
242 JEAN GIRAUDOUX
ganza francese e di romanticismo germanico, di abito provinciale
e di vocazione europea, di vocabolario ricercato e di sintassi natu-
rale. Ed è, nel romanzo come nel teatro, la pratica dclFcà re-
bours > che nel rovescio della medaglia cerca il contrappunto che
autentifica la verità del diritto, che nell'altro lato dello specchio
trova la lezione e il senso eterno della grandezza delPeffimera crea-
tura umana.
Non è meraviglia che, partendo dagli esercizi di Provinciales
ed École des indifférents, costeggiando i vaghi paesi e le cose viste
di Letture per un'ombra e òtW Adorabile Clio, i romanzi di Gi-
raudoux — si ricordino Simon le Pathétique (1918), Suzanne et
le Pacifique (1921), Siegfried et le Limousin (1922), Juliette au
pays des hommes (1924), Bella (1926), Eglantine (1927), Aven-
tures de Jerome Bardini (1930), Combat avec l'Ange (1934), Choix
des Blues (1938) — errino fra cronaca e mito, fra e divagazioni poe-
tiche > e digressioni culturali, fra il saggio, la tesi, il problema po-
litico, il giuoco con l'ambigua Sfinge, la raffinata sofisticazione e
il pezzo di bravura. E non sorprende che il romanzo del romanzo
abbia irritato, più che sedotto, il pubblico del romanzo vero, gli
affezionati delle favole tradizionali e i nuovi Ispettori della natu-
ralistica fenomenologia. Ma la scommessa fra ragion poetica e
ragione di stato comune, fra < l'idée refuc > e la libera interpreta-
zione del paradosso, sarà vinta al banco di prova del cosiddetto
specchio del vero e del verosimile — sulla scena — quando Girau-
doux trova in Jouvet il regista e l'attore ideale che ha scoperto in
Giraudoux l'autore ideale.
Alla base di questo teatro c'è quasi sempre un semplice pro-
blema alla ricerca di dimostrazioni per assurdo, un luogo comune
in crisi di novità, un vecchio tema in sommossa contro l'ordinaria
accezione: e colloqui, conflitti, intese, malintesi hanno luogo alla
frontiera che unisce e divide la terra cognita degli uomini e il
mondo dei miti sediziosi, nella zona neutra dove le ombre e le
luci hanno eguali probabilità di prendere corpo nella tragica realtà
della circostanza o- di dissolversi nell'ironia del caso; e in ogni
caso la peripezia delle alternative e dei contrari si risolve nel po-
stulato di una morale superiore o nella catarsi dì un patetico
miraggio.
PRESENTAZIONE 243
Semplice problema di guerra e pace risolto dall'ottimistica
avventura di Siegfried (1928) o dalle catastrofiche manovre di giu-
risti, chauvinisti e poetastri {La guerre de Troie n'aura pas lieu,
1935), eterna lotta del Bene e del Male finita nella disfatta della
€ coppia», {Sodome et Gomorrhe, 1943) o nella benefica vittoria
dell'angelo folle {La Folle de Chaillot, rappresentata il 1945), eter-
no connubio del naturale col sovrannaturale conchiuso nel lieto
incidente di Intermezzo (1933) o nel dramma di Ondine (1939),
moralità leggendarie di Amphytrion 38 (1929), di Judith {\9Z\\
di Electre (1937) che danno l'ennesima — e inedita — dimostra-
zione della permanente incompatibilità o dell'iato che esiste fra
quello che è scritto dal cieco destino e quello che leggono gli occhi
umani, fra il vero e il falso di < un povero universo infestato dagli
dei », dagli idoli e dagli aruspici.
Ed è. nell'iato — o nel percorso che va dalla premessa nota
alla fine prestabilita — che tragedia possibile e commedia virtuale
trovano le risorse dell'ipotesi eroica e la dignità del libero arbitrio
che si vendica del caso e del fato col giuoco delle sorprese e delle
parole, che si nobilita col ricorso alla fantasia della ragione, che
cerca di inverarsi nella logica eteronoma del paradosso. Siegfried
stabilirà dunque l'accordo di Francesi e Tedeschi sulle differenze
e sui difetti dei due popoli, l'immortale Giove è vinto nella gara
di grandezza dalla creatura nata per morire, il delitto inespiabile
di Elettra e di Egisto si trasforma nel processo di purificazione
che farà rifiorire l'aurora sulla terra contaminata dalla menzogna,
Andromaca e Penelope, Ettore ed Ulisse gettano l'ideale ponte
della solidarietà umana sul mondo perduto dei demagoghi, Giu-
ditta uccide per amore un Oloferne che ama i giardini, le case
ordinate e le belle stoviglie, diviene suo malgrado disperata santa
e vittima di un'odiosa religione. Tragicommedie in sordina che si
svolgono nella quarta dimensione di un universo sospeso fra !'< hic
et nunc > del dato umano e la necessaria evasione, attraverso l'uso
di una quarta unità nella quale l'azione dell'inverso si fonde con
l'imprevisto della seconda verità, con il verosimile dell'assurdo,
con le rivelazioni del dizionario dei lapsus, con gli ozi di vna
Capua letteraria dove la malinconica saggezza della vita si abban-
244 JEAN GIRAUDOUX
dona alle delizie delle consolanti metafore e delle metatesi ripa-
ratrici.
Il teatro degli armistizi in terre neutre, degli interregni fra
la repubblica dei sogni e la dittatura del risveglio dà in Intermezzo
la pili caratteristica rappresentazione e forse la misura più origi-
nale dello spirito di Giraudoux. Nella commedia di costumi pro-
vinciali e di intreccio eterodosso, buon senso e ironia tengono so-
spesa fra il pieno e il vuoto la bilancia che pesa i valori della vita
e gl'imponderabili del mistero, facendola piacevolmente oscillare
fra i due poli, barando leggermente per fissare l'irreparabile punto
esatto: e mentre nel piatto delle antipatie si trovano miopi signo-
rine Mangebois che vedono giusto e un grottesco Ispettore che ha
ragione avendo torto, nel piatto delle simpatie son messi alla rin-
fusa uno speziale che vende lucciole filosofiche e maneggia dia-
pason illusori, delle bambine svagate e saccenti, una brava ragazza
afflitta da bovarismo metafisico e da retorici vapori: e fra l'uno e
l'altro polo errano uno Spettro di modesta immaginazione che
dovrebbe incarnare le infinite seduzioni dell'irreale ed un goffo
funzionario che si rivela estremamente abile nell'estrarre dalla sua
banale realtà il lirismo della vita e la magia delle cose. Il dio delle
ingegnose macchine ristabilirà l'ordine dell'Ispettore con una tro-
vata dello speziale, ma è nel disordine dell'intermezzo o nella
fluidità del crepuscolo, che linguaggio poetico ed arte del para-
dosso tessono la tela dove il filo d'oro ed il burlesco s'intrecciano
nell'incantevole «distrazione» della fatalità umana.
È di prammatica imbarcare Giraudoux insieme con Marivaux
e con Musset, ma la nave Fantasia che veleggia verso la Citerà
delle sorprese, dei felici stratagemmi e delle tristi favole porta vi-
sitatori solitari che si conoscono appena e che vivono alla loro
inconfondibile maniera.
Oltre i numeri speciali di Confluences e de L'Arche (1944), cfr.
Magny C.-E., Précicux G., 1945; Bcuclcr A., Les instants de G., 1948;
Marker Chr., G. par lui-méme, 1952; Mcrcier Campiche M., Le Théà-
tre de G. et la condition humaine, 1954; Debidour V. H., /. G., 1955.
Intermezzo
PERSONAGGI
isabella
armanda mangebois
leonide mangebois
il controllore
l'ispettore
il sindaco
lo speziale
cambronne
CRAPUCE
LO SPETTRO
LUCE
GISELLA
DAISY
GILBERTA
IRENE
NICOLETTA
MARIA LUISA
VIOLA
I due boia
le bambine
INTERMEZZO
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
La campagna. Una bella prateria. Dei boschetti. Verso sera.
IL SINDACO, poi LO SPEZIALE
IL SINDACO {entrando solo e parlando ad alta voce) - Oh! Ohi Eviden-
temente il posto è strano. Nessuno risponde, nemmeno l'eco... Oh!
Oh!
LO SPEZIALE (entrando dietro di lui) - Oh! Oh!
IL SINDACO - M avete fatto paura, caro Speziale.
LO SPEZIALE - Vi chiedo scusa, signor Sindaco, avete creduto che fos-
se lui?
IL SINDACO - Non scherzate! So bene che non esiste, forse, che tutti
coloro che pretendono di averlo incontrato in questi paraggi sono
forse vittime di un'allucinazione. Ma dovete ammettere che questo
luogo è strano.
LO SPEZIALE - Perché l'avete scelto per il nostro incontro?
IL SINDACO - Per la stessa ragione che senza dubbio lo fa scegliere a
lui. Per essere lontani dalla vista dei curiosi. Non vi ci sentite a
disagio?
LO SPEZIALE - Per nulla. Tutto è verde e calmo. Sembra di essere su
un terreno di golf.
IL SINDACO - Non se ne incontrano mai, sui terreni di golf?
LO SPAZIALE - Forse se ne incontreranno più tardi, quando sotto il va
e vieni di giocatori maschi e femmine si sarà formata quell'humus
di banali parole e di sincere confessioni, di cicche di sigaro e di
piumini da cipria, di rivalità e di simpatie che è necessaria per
umanizzare un suolo ancora primitivo. Per il momento, questi bei
248 JEAN GIRAUDOUX
terreni ben tracciati, soffici e sorvegliati sono certamente i meno
malefìci. Tanto più che sono coperti di erbetta inglese, cioè della
graminacea meno carica di misteri... Niente giusquiamo, né centau-
rca ^. È vero che qui avete queste piante, a quel che vedo, e anche
la mandragora.
IL SINDACO - È vero quel che si racconta della mandragora?
LO SPEZIALE - A proposito della stitichezza?
IL SINDACO - No, deirimmortalità. Che i bambini concepiti da un im-
piccato sotto una mandragora divengono esseri demoniaci e vivono
senza fine?
LO SPEZIALE - Tutti i simboH hanno un senso. Basta interpretarli.
IL SINDACO - Forse abbiamo da fare con un simbolo di questo genere.
LO SPEZIALE - Come appare, di solito: mingherlino, deforme?
IL SINDACO - No. Alto, con un bel viso.
LO SPEZIALE - Si ebbero in passato degli impiccati, nella regione?
IL SINDACO - Da quando sono sindaco, ho avuto in tutto due suicidi.
Il mio vignaiuolo che si fece saltare in aria con il suo cannone anti-
grandine e la vecchia droghiera che si impiccò, ma per i piedi.
LO SPEZIALE - Ci vuole un impiccato uomo, da venti a quarant'anni...
Ma comincio a credere che quei signori si siano smarriti. L'ora
della riunione è passata.
IL SINDACO - Nulla da temere. Ho pregato il Controllore dei Pesi e Mi-
sure di far da guida all'Ispettore. Cosi saremo in quattro a for-
mare la commissione incaricata delle indagini.
LO SPEZIALE - Una commissione di tre membri sarebbe stata più che
sufficiente.
IL SINDACO - Il nostro giovane Controllore è tuttavia molto simpatico.
LO SPEZIALE - Simpaticissimo.
IL SINDACO - E coraggioso! Al nostro pranzo del mercoledì, dove prima
che venisse lui i discorsi erano piuttosto spinti, non si lascia sfug-
gire nessuna occasione per difendere la virtù delle donne. Ieri, in
due parole ci ha definitivamente riabilitata Caterina II, nonostante
che l'Ispettore fosse molto mal disposto verso di lei.
LO SPEZIALE - Io intendevo parlare dell'Ispettore. Perché averlo fatto
venire da Limogcs? Si dice che sia brutale. Agii spettri non piac-
ciono gli uomini grossolani.
IL SINDACO - Ma è venuto da solo. Vuole scomodarsi di persona per
combattere le cose anormali o misteriose che avvengono nel suo
^ Nel testo si parla anche di vertadine, parola probabilmente inventata da
Giraudoux.
INTERMEZZO 249
distretto. Appena si manifesta qualche fenomeno inesplicabile nella
fauna, nella flora o nella stessa geografìa della regione, arriva
rispettore che riporta l'ordine. Conoscete le sue ultime imprese?
LO SPEZIALE - Nel Berry, con le sue pretese ondine ?
IL SINDACO - Nello stesso Limosino! Prima a Rochechouart, dove ha
fatto murare dal genio militare la fonte che chiamava. E allo stal-
laggio di Pompadour, dove impose i paraocchi agli stalloni che
s'erano messi ad usare gli occhi come uomini, a guardarsi di tra-
verso, a farsi cenni con pupille e palpebre. Potete immaginare come
l'abbia allettato quel che sta accadendo nella nostra città... Mi stu-
pisco soltanto che sia in ritardo.
LO SPEZIALE - Chiamiamolo!
IL SINDACO - No, no. Non gridate. Non vi pare che l'acustica di questo
prato abbia qualcosa di torbido, di inquietante?
LO SPEZIALE - Il Controllore ha la più bella voce di basso della contra-
da. Lo sentiremo da un chilometro. Oh! Oh!...
SCENA SECONDA
GLI STESSI, ISABELLA, LE SCOLARE
(si sentono voci acute di bambine che rispondono-. « Ohi Ohi » e su-
bito Isabella e le scolare entrano in scena)
IL SINDACO - Ah! È la signorina Isabella. Buon giorno, Signorina Isa-
bella.
ISABELLA - Buon giomo. Signor Sindaco.
LO SPEZIALE - Erborizzate, bambine mie?
IL SINDACO - Da tre mesi, da quando la maestra è malata, la Signorina
Isabella ha accettato di sostituirla. Essa vuole soltanto tenere le le-
zioni all'aria aperta, con un tempo cosi bello.
ISABELLA ' E raccogliamo anche erbe. Signor Speziale. È necessario che
le piccole conoscano la natura con tutti i suoi nomi e cognomi. Ho
già un sacco pieno di erbe curiose... Scusateci, ma adesso siamo alla
ricerca di quella che mi è pili necessaria per la lezione... So dove
trovarla.
LO SPEZIALE - Quale?
LE BAMBINE - La mandragora! La mandragora!
250 JEAN GIRAUDOUX
SCENA TERZA
IL SINDACO, LO SPEZIALE
LO SPEZIALE - Che amabile persona! E com'è commovente vedere l'in-
nocenza che gira cosi senza sospetto e senza pericolo attorno ai
simboli del male!
IL SINDACO - Vorrei che le Signorine Mangebois avessero su di lei la
stessa opinione.
LO SPEZIALE - Che vogliono da Isabella quelle due talpe?
IL SINDACO - Lo sapremo fra poco. Hanno chiesto di essere sentite dal-
l'Ispettore; m'hanno fatto supporre che si trattasse di Isabella, e di
una denuncia.
LO SPEZIALE - Che hanno da denunciare? Isabella è cosi semplice, cosi
pulita, cosi differente da tutte le altre. Le altre le conoscete, Signor
Sindaco: passano i pomeriggi a smarrirsi nei boschi al braccio del
cugino, a prendere il bagno con l'impiegato negro della sottopre-
fettura, a leggere, sdraiate sul prato, il marchese de Sade illustrato...
Ragazze, insomma. Isabella, al contrario, non soffre di languori e
di curiosità anticipate... Guardate l'onestà della sua figura. Accanto
ad ogni essere, ad ogni oggetto, essa sembra la chiave destinata a
renderlo comprensibile. Guardatela, a cavallo di quel querciolo, a
far danzare quel somarello agitando un cardo, mentre le scolarette
fanno attorno ad essi il girotondo, ed ecco che la necessità dei so-
marelli in questo basso mondo vi appare folgorante... Anche quella
delle ragazzine, d'altronde... Guardatele, Signor Sindaco: che gra-
ziose figurine, che graziosi piccoli dorsi...
IL SINDACO - Via, via, caro Speziale!
LO SPEZIALE - Ah, ecco il Signor Ispettore.
SCENA QUARTA
GLI STESSI, l'ispettore, IL CONTROLLORE .
l'ispettore - La prova, caro Controllore? La prova che gli spiriti non
esistono, che il mondo invisibile non esiste? Volete che ve la serva
su due piedi, in un minuto?
INTERMEZZO 25 1
IL CONTROLLORE - Venendomi da un alto funzionario, mi sarà preziosa.
l'ispettore - Ammettete che, se esistono, gli spiriti debbono sentirmi?
IL CONTROLLORE - A parte gli spiriti sordi, è indubbio che vi sentano.
l'ispettore - Che sentano dunque questo: Spiriti, forme di vuoto e di
bianco d'uovo (vedete che non ho peli sulla lingua; se hanno un
minimo di dignità sanno quel che resta loro da fare), l'umanità in
mia persona vi sfida a comparire. Vi si offre un'occasione unica,
data l'importanza dei presenti, di riacquistare un po' di credito nel
circondario. Non vi chiedo di estrarre dalla mia tasca una pappa-
gallina viva, operazione classica, a quanto sembra, presso gli spi-
riti. Io vi sfido a far si che un volgare passerotto prenda il volo da
quest'albero, dal bosco, dalla foresta, quando avrò contato fino a
tre... Conto, Signor Controllore: uno... due... tre... Vedete? roba
da far pietà, {gli vola il cappello) Dio, che vento!
LO speziale - Noi non sentiamo il minimo soffio, Signor Ispettore.
l'ispettore - Basta. Pietoso!
IL CONTROLLORE - Forse gli Spiriti non credono agli uomini.
IL SINDACO - O forse l'evocazione aveva un carattere un po' generale.
l'ispettore - Volete che li chiami ciascuno col proprio nome? Volete
che chiami Asflarotte?
LO speziale - Asflarotte, il più suscettibile e il più crudele degli spi-
riti, colui che, si dice, penetra nell'organismo umano e prova pia-
cere a torturarlo? Badate, Signor Ispettore! Non si sa mai dove
portano simili giuochi.
l'ispettore - Tu mi senti, Asflarotte? I più vili e i più ridicoli dei
miei organi oggi ti sfidano. Non i polmoni, non il cuore, ma la
vescichetta biliare, la glottide e la membrana starnutatoria. Colpisci
uno di essi col minimo dolore, con la più piccola contrazione, ed
io crederò in te: uno... due... tre... aspetto!... (scivola) Com'è
umido, qui!
il sindaco - Non piove da tre settimane.
LO speziale . Gli spiriti hanno una nozione del tempo diversa dalla
nostra. Forse Asflarotte ha risposto ai vostri insulti con grande an-
ticipo... Posso chiedervi la causa delle cicatrici del vostro naso?
l'ispettore - Una tegola che m'è caduta sulla testa quando camminavo
apjpena.
LO speziale - Ecco la spiegazione del suo silenzio. Vi ha già risposto
quarant'anni fa.
l'ispettore - Non mi aspettavo altro da lui: non esiste ed è vile e se
la prende con i bambini... Signori, la prova e fatta, inconfutabil-
252
JEAN GIRAUDOUX
mente... Mi permcitcrò dunque di sorridere quando mi dite che il
vostro borgo e infestato dagli spettri.
IL SINDACO - È infestato, Signor Ispettore...
l'ispettore - So che cos'è in realtà un borgo infestato. Batterie di cu-
cina che risuonano di notte negli appartamenti dai quali si vuol
cacciare il locatario, apparizioni nelle terre divise per scoraggiare la
parte avversa. Onde le comari al lavoro. Onde suspicioni e agita-
zioni spinte alla calunnia e fino al delitto. Voi dovevate eleggere
un consigliere generale. Ne nacquero risse attorno alle urne, evi-
dentemente, risse sanguinose. In fede mia, tanto peggio: l'urna, an-
che elettorale, chiama il cadavere.
IL SINDACO - Nient 'affatto. Signor Ispettore, al contrario.
l'ispettore - Si è votato senza effusione di sangue? È appena demo-
cratico, e per nulla demoniaco.
IL sindaco - Non si è votato. Nessuno ha votato, né pensato a votare.
Gli elettori tuttavia si erano alzati all'alba, coscienti del loro dovere,
e si sono precipitati verso i manifesti. Ma splendeva il sole e tutti
pretendono di aver letto sui cartelli: per il sole, nessuna astensione!
E sono andati a passeggiare fino a sera.
l'ispettore - Sono stati assoldati dalla reazione.
LO SPEZIALE - D'accordo con il sole.
IL controllore - Certamente no. Signor Ispettore, e il Signor Sindaco
non vi ha detto che, da alcune settimane, cose egualmente strane
accadono nella città. Un'influenza ignota, i cui effetti mi sembrano
simpatici, sovverte a poco a poco tutti i principi, d'altronde falsi,
sui quali si fonda la società civile.
l'ispettore - Vi dispenso dai commenti personali e vi invito a spie-
garvi.
IL CONTROLLORE - Mi spiego. I ragazzi, per esempio, che son picchiati
dai genitori abbandonano la casa. I cani maltrattati dai padroni
mordono la mano del padrone. Le donne che hanno un vecchio
marito ubriacone, brutto e peloso, l'abbandonano senz'altro per
qualche giovane amante sobrio e dalla pelle liscia. Gli ercoli che
venivano impunemente insultati dai tisicuzzi non esitano più a
romper loro la testa. In una parola, la debolezza ha cessato di essere
qui una forza e l'affetto un'abitudine.
l'ispettore - E voi mi avvertite cosi tardi di un simile stato di cose?
IL SINDACO - Aggiungo che diverse strane circostanze rivelano l'intru-
sione, nella nostra vita municipale, di potenze occulte. La scorsa
domenica abbiamo sorteggiato la nostra lotteria mensile, ed è stato
il più povero a guadagnare il primo premio in denaro e non il
INTERMEZZO 253
vincitore abituale, il milionario Signor Dumas, che del resto ha
incassato molto bene il colpo; ed è stato il nostro giovane campione
a vincere la motocicletta e non, come accadeva regolarmente, la
superiora delle buone monache. Questa settimana abbiamo avuto
due decessi: i due abitanti più vecchi, e per di più Tuno era il
più avaro e l'altro il più scorbutico. Per la prima volta la sorte ci
libera e il caso va a colpo sicuro.
l'ispettore - è la negazione della libertà umana.
LO SPEZIALE - Voi potrcstc forsc parlargli del censimento. Signor Sin-
daco.
l'ispettore - Che censimento?
IL SINDACO - Il censimento quinquennale. Non ho osato ancora tra-
smettere i fogli in Prefettura.
l'ispettore - I vostri amministrati hanno scritto dichiarazioni menzo-
gnere?
IL siNDAcx) - Al contrario, tutti hanno risposto con una verità cosi ec-
cessiva e cinica che sembra una sfida airamministrazione. Al capi-
tolo famiglia, per darvi un esempio, i più non hanno dichiarato
come figli veri i figli ingrati o brutti, ma i loro cani, i loro appren-
disti, o i loro uccelli, insomma quelli che veramente amavano co-
me creature loro.
IL CONTROLLORE - Altri hanno dichiarato come sposa non la moglie ve-
ra, ma la donna sconosciuta che sognarono, o la vicina con la quale
intrattengono rapporti segreti, o addirittura l'animale femmina che
per loro rappresenta la compagna perfetta, la gatta o la scoiattola.
IL SINDACO - Al capitolo appartamenti, i ricchi nevrastenici hanno pre-
teso di abitare delle casupole e i poveri felici dei palazzi.
l'ispettore - e da quando, tutti questi scandali?
IL sindaco - Press'a poco da quando si incontra il fantasma.
l'ispettore - Non adoperate questa stupida parola. Non esiste nessun
fantasma.
il sindaco - Lo spettro, se preferite.
l'ispettore - Lo spettro non esiste.
LO speziale - Non e questo il parere della scienza. Esistono spettri di
ogni cosa, del metallo, dell'acqua. È possibile che ce ne sia uno
degli uomini.
{si sentono, fra le quinte, le voci delle Signorine Mangebois)
254 JEAN GIRAUDOUX
SCENA QUINTA
GLI STESSI, LE SIGNORINE MANGEBOIS
{la maggiore delle signorine è sorda. Porta appeso al collo un apparec-
chio con il quale la sorella la tiene al corrente della conversazione)
ARMANDA MANGEBOIS - Possiamo avvicinarci, Signor Sindaco?
IL SINDACO - Venite, Signorine, venite! Signor Ispettore, ecco appunto
le Signorine Mangebois che ci hanno promesso delle rivelazioni.
ARMANDA {comporcndo con la sorella) - Spero, Signor Sindaco, che non
vi deluderemo.
IL SINDACO - Le Signorine Mangebois sono le figlie del nostro defunto
giudice di pace, resosi celebre per aver fatto tagliare la membrana
di due sorelle siamesi che erano contese da due saltimbanchi.
{scambiati i saluti, le due sorelle si seggono su degli sgabelli portatili)
l'ispettore - I mici rallegramenti, Signorine. Un vero giudizio di Sa-
lomone. Vi ascolto.
ARMANDA - Dcsidcro anzitutto chiedervi. Signor Ispettore, di scusare
mia sorella Leonide. È un pò* dura d'orecchio.
LEONIDE - Che stai dicendo?
ARMANDA - Dico al Signor Ispettore che sei un pò* dura d'orecchio.
LEONIDE - Perché me lo dici, a me? Io lo so.
ARMANDA - Vediamo, Leonide, vuoi che ti ripeta tutto quello che dico?
LEONIDE - Salvo che tu dica che io sono sorda.
l'ispettore - Signorine, se noi vi abbiamo pregate di venire in questi
luoghi, scelti in ragione della loro discrezione...
LEONIDE - Tu russi, tu. Te lo dico io forse?
ARMANDA - lo UOU rUSSO.
LEONIDE - Se non russi, significa che hai cessato di russare proprio ncl-
Tistante in cui io divenivo sorda...
l'ispettore - Pregate vostra sorella di tacere. Signorina, altrimenti non
finiremo più.
ARMANDA - Ciò mi è difficile. Signor Ispettore; è la sorella maggiore.
LEONIDE - Che dici?
ARMANDA - Nulla che t'interessi.
LEONIDE - Se è cosa che non m'interessa è che stai dicendo che sei la
sorella minore.
ARMANDA - Il Signor Ispettore ti fa dire che desidera il silenzio.
INTERMEZZO 255
LEONIDE - Se sapesse cos'è il silenzio, non lo desidererebbe. Starò zitta.
l'ispettore - Signorine, mi si dice che voi siete al corrente di tutto
quello che si racconta o accade nel circondario.
ARMANDA - Siamo infatti le segretarie dell'Opera dei Corredi.
l'ispettore - E di che cosa si parla attualmente all'Opera dei Corredi ?
ARMANDA - DÌ che cosa si parlerebbe se non delio spettro?
l'ispettore - Voi ci credete, a questo spettro? L'avete visto?
ARMANDA - Ho visto delle persone che l'hanno visto.
l'ispettore - Testimoni degni di fede?
ARMANDA - Uno di essi è commendatore del Gran Drago dell'Annam.
l'ispettore - Se crede al Gran Drago dell'Annam è già sospetto. Fa-
temi i loro nomi.
ARMANDA - Il nostro lattaio, la bella Fatma — questi signori chiamano
cosi la droghiera — e il comandante Lescalard. È lui il commen-
datore.
l'ispettore - L'avrei giurato... E come hanno visto lo spettro? Coperto
da un sudario, naturalmente, con la testa fatta da una zucca vuota
e bucata, nella quale è piazzata una lampadina elettrica?
ARMANDA - Per nulla, Signor Ispettore. Tutte le testimonianze sono
concordi nel dire che è un giovane alto, vestito di nero. Appare
quando comincia ad annottare e sempre nei dintorni del lago di
cui scorgete laggiù le canne.
l'ispettore - E come spiegate queste apparizioni? Si sono avuti altri
spettri nella regione?
ARMANDA - Mai. Mai prima del delitto.
l'ispettore - Che delitto?
IL CONTROLLORE - Un delitto superbo, Signor Ispettore, direi addirit-
tura mondano. Un giovane straniero e la moglie avevatno affittato
il castello, a Pasqua. Un amico venne a raggiungerli. Il mattino la
donna e l'amico furono trovati uccisi, selvaggiamente uccisi, e, sulla
sponda dello stagno fu trovato soltanto il cappello del marito. Que-
sto saluto alla morte è di grande classe. Si suppone che sia anne-
gato.
ARMANDA - All'Opera crediamo tutte che sia l'annegato che torna. In-
fatti è a capo scoperto.
l'ispettore - Egli può tornare senza essersi annegato. Il criminale tor-
na sul luogo del delitto, come il boomerang ai piedi del padrone.
LEONIDE - Che dice l'Ispettore?
ARMANDA - Che il boomerang torna ai piedi del padrone.
LEONIDE - Molto interessante. Quando sarete arrivati al fucile a canna
piegata fammelo sapere.
256 JEAN GIRAUDOUX
l'ispettore - E voi credete che gli eventi insoliti che hanno per teatro
la vostra città abbiano rapporto con lo spettro?
ARMANDA - Oh no! Si tratta di un'altra storia. Ma a parer nostro le due
storie non tarderanno a congiungersi. È questo pericolo che ci ha
indotte a parlare.
IL SINDACO - Spiegatevi, Signorina Mangebois.
ARMANDA - Signor Ispettore, non so se questi signori vi hanno dipinto
lo scandalo in tutto il suo orrore.
l'ispettore - Si, SI, Signorina, abbreviate. So che nella vostra città
tutta la morale borghese è in questo momento a gambe in aria.
LEONIDE - Che dice l'Ispettore?
ARMANDA - Nulla di speciale.
LEONIDE - Esigo che tu mi ripeta le tre ultime parole, come al solito.
ARMANDA - Comc vuoi... Come sei noiosa... A gambe in aria.
LEONIDE - Ah! parlate della Signora Lambert!
ARMANDA - Non parliamo della Signora Lambert...
LEONIDE - Non può essere che della Signora Lambert o della moglie
dell'esattore.
l'ispettore - Chi è questa Signora Lambert?
ARMANDA - La moglie dell'orologiaio... e di alcuni altri...
IL CONTROLLORE - Come?
ARMANDA - E di alcuni altri.
IL CONTROLLORE [subito riscaldandosi) - Pardon! Io non permetterò che
si sospetti la condotta della Signora Lambert.
l'ispettore - Signor Controllore, la nostra inchiesta è già abbastanza
difficile. Qui non si tratta della Signora Lambert.
il controllore - Ebbene, se ne tratterà. Voi non vi stupite a Parigi,
quando, nelle terrazze dei caffé o nei salotti letterari, vedete un
poeta alzarsi improvvisamente e fare l'elogio della primavera. La
Signora Lambert è la primavera della nostra città.
ARMANDA - Qucsto giovanotto è matto!
il sindaco - Signor Controllore!
IL CONTROLLORE - Che noi si sfiori la Signora Lambert in piedi sulla
soglia della bottega fingendo di controllare l'ora su cento quadranti
che si contraddicono, o che la si scorga, attraverso la vetrina, in-
tenta — mentre nello sforzo i suoi graziosi denti mordicchiano la
lingua — a legare un orologio al polso di una comunicanda o far
saltare con la sua rosea unghia la cassa dell'orologio di un militare,
bisogna convenire che la più commovente specialità della Francia
non sono le sue cattedrali e le sue locande, ma la donna il cui busto
teneramente fasciato di raso o di organzino calamita in ogni cit-
INTERMEZZO 257
ladina e ad ogni ora della giornata l'itinerario del sottoprefetto,
degli studenti di liceo e di tutta la guarnigione!
LEONIDE - Che dice il Controllore?
ARMANDA - Assolutamente nulla!
IL CONTROLLORE - In breve, questa bellezza di provincia, alla quale
nulla mi impedirà in questo minuto di fare omaggio nella persona
della Signora Lambert, e sotto tutti i nomi e le forme assunti dalla
Signora Lambert nel corso della mia pur breve carriera, quand'essa
si chiamava Signora Merle ed era libraia a Rodez, Signora I^spi-
nard che faceva bendaggi a Moulins, o Signora Tribourty, guantaia
a Castres... Questi guanti di capretto vengono dalla sua bottega...
Non il minimo strappo... Io mi faccio garante della Signora Lam-
bert...
l'ispettore - Signori, tolgo la seduta. Non approderemo a nulla con
tutto quest'imbroglio. Una nota di biasimo per voi, Controllore.
ARMANDA - E la Signorina Isabella, Signor Controllore, vi fareste ga-
rante anche della Signorina Isabella?
LO speziale - Non vorrete mica mescolare la Signorina Isabella a que-
sti scandali?
IL controllore - Essa è la purezza e l'onore in persona.
IL sindaco - Ed io mi compiaccio di averle affidato, in assenza della
titolare, la classe delle bambine.
ARMANDA • Come sono ciechi gli uomini! La Signorina Isabella è là, in
quel campo. Voi avete una nipote nella sua classe. Signor Sindaco.
Chiamatela... Vedrete quel che viene insegnato alla piccola Daisy!
IL SINDACO - Che cosa le viene insegnato?
ARMANDA - Approfittate della presenza del Signor Ispettore per farle
un esame, e vedrete.
l'ispettore - Ma c'è dell'altro?
ARMANDA - Noi sospcttavamo da molto tempo che Isabella avesse parte
nelle macchinazioni che corrompono la nostra città. Da stamane ne
abbiamo la certezza.
IL CONTROLLORE - Calunnie!
ARMANDA - Leonide, di' a questi signori perché noi siamo sicure che
Isabella è colpevole.
LEONIDE - Perché l'agenda dov'essa scrive tutto quello che ha fatto du-
rante la giornata ce ne ha fatto la confessione.
l'ispettore - Come ne siete venuta in possesso?
LEONIDE - L'ho trovata sul marciapiede.
LO speziale - E avete avuto l'impudenza di leggerla?
ARMANDA - Hai avuto l'impudenza di leggerla?
17. - Teatro france$e
258 JEAN GIRAUDOUX
LEONIDE - Ti chiedo forse il tuo parere? L*ho sfogliata per trovare il
nome del proprietario.
IL CONTROLLORE - Quel taccuino apparteneva alla Signorina Isabella.
Voi dovevate restituirglielo.
ARMANDA - Quel taccuino apparteneva alla Signorina Isabella. Tu do-
vevi restituirglielo.
LEONIDE - Occupati dcgli affari tuoi. Eccolo, Signor Sindaco. Apritelo
a caso. Voi vedrete la vostra protetta all'opera: a darsi da fare per
separare gli sposi male accoppiati, ad eccitare con droghe i cavalli
contro i carrettieri brutali, a moltiplicare le lettere anonime per
segnalare ai mariti o alle mogli le virtù dei loro congiunti. Guar-
date, per esempio, alla data del 21 marzo se volete sapere come siete
stato bene ispirato ad affidarle una scolaresca! Che cosa? Che di-
cono?
ARMANDA - Ma Sei tu che parli...
l'ispettore - Leggete, Signor Sindaco.
IL sindaco (leggendo) - « 21 marzo... 21 marzo!... Organizzata piccola
festa della primavera. Colta l'occasione per fare alle mie scolare
l'elogio del corpo e spiegarne la bellezza. Sottolineati i benefici e
la sincerità della civetteria. Per esercitarle, eleggiamo l'uomo più
bello della città. La loro scelta va al sottoprefetto. Non c'è male ».
ARMANDA - Il Signor Controllore non era ancora fra noi.
l'ispettore - Ma è davvero un'infamia! Alla quale bisogna porre
subito rimedio. Controllore, avvertite questa signorina che deve
venire immediatamente qui con le sue scolare. Farò « illieo » l'esa-
me. Ero sicuro che vi dovevano essere delle donne all'origine di
queste turpitudini. Appena si concede a queste formiche un po' di
libertà nell'edificio sociale, tutte le travi ne sono corrose in un bat-
ter d'occhio.
IL CONTROLLORE {sul putito di usàfc, SI voito) - Vi chicdo scusa, Signor
Ispettore...
l'ispettore - Vi rifiutate di andare a chiamare la Signorina Isabella?
IL CONTROLLORE - No, Signor Ispettore. Volevo rispettosamente conte-
stare l'esattezza della vostra metafora e farvi osservare che c'è tut-
tavia una certa differenza fra le donne e le formiche.
l'ispettore - Se voi trovate la minima differenza siete più furbo di
me. Sbrigatevi, vi prego.
IL controllore - Notate che io non disprezzo le formiche. Ne ricono-
sco le qualità eccezionali. So che mungono le pulci e che hanno
dei soldati. Ma che per questo si possano paragonare alle donne, a
tutte le donne, no!
INTERMEZZO 259
AUMANDA - Per una volta, bravo, Signor Controllore...
IL CONTROLLORE - Voi avcte dctto una cosa in aria, a caso. Quali sono
le caratteristiche fisiche della formica?
l'ispettore - Vi ho dato un ordine, Controllore.
LEONIDE - Che dicono?
ARMANDA - Llspettore pretende che non è possibile distinguere una
donna da una formica.
LEONIDE - È ammogliato?
l'ispettore (scattando) - No, non faccio nessuna differenza, Signorina.
La stessa agitazione, lo stesso chiacchierìo appena due s'incontrano.
La stessa crudeltà per chi penetra nel loro gruppo. £ la loro taglia.
E tutti quei pacchetti che portano. Son proprio formiche, assoluta-
mente.
l'ispettore - Vi ingiungo per l'ultima volta di andare a chiamare la
Signorina Isabella.
(// Controllore esce)
IL sindaco - Ma, insomma. Signor Ispettore, noi ci eravamo riuniti per
parlare dello spettro e non di Isabella!
ARMANDA - È la stessa cosa.
LO speziale - Vorrete darci anche ad intendere che la Signorina Isabel-
la è una strega?
ARMANDA - Aprite il taccuino alla data del 14 giugno e leggete.
l'ispettore - Il 14 giugno era ieri. Oggi ne abbiamo 15, è vero?
ARMANDA - Noi ci chiedevamo perche da qualche tempo la Signorina
Isabella scegliesse le rive dello stagno per le sue uscite notturne.
L'ultima pagina del suo taccuino vi darà la spiegazione.
l'ispettore - Leggete, Signor Sindaco.
IL SINDACO {leggendo) - « 14 giugno. Sono sicura che quello spettro ha
capito che io credo in lui e che posso aiutarlo. Com'è possibile non
credere agli spettri? Egli mi cerca, che il suo passaggio è segnalato
in tutti i posti dove ho condotto le ragazze a passeggio. Vicino a
qualche bosco,, sul cader del giorno, certamente mi apparirà, e qua-
li consigli mi darà per rendere la città alfine perfetta! Sono sicura
che sarà domani».
l'ispettore - E domani è oggi.
LEONIDE - Che dice l'Ispettore?
ARMANDA - Che domani è oggi.
LEONIDE - È un'opinione...
ARMANDA - Andiamo, Leonide, Isabella sta per venire.
l'ispettore - Vi ringrazio, Signorine. Spero che, grazie alle vostre
indicazioni, finiremo per vedere la verità tutta nuda
260 JEAN GIRAUDOUX
ARMANDA - È tutto quclio che possiamo offrire al Signor Ispettore, dato
che non disponiamo della Signora Lambert...
l'ispettore - Vedo, Signorina, che sapete maneggiare la freccia dd
Parto.
LEONIDE - Che dice?
ARMANDA - L*Ispettore parla della freccia del Parto.
LEONIDE - Che panoplia!
{le Signcfrìne Mangebois escono)
IL CONTROLLORE (guordondo Isabella che si avvicina) - Se le formiche
che vanno nelle praterie rassomigliano alla Vittoria di Samotracia
con la testa, alla Venere di Milo con le braccia, se il sangue della
melagrana colora le loro gote e quello del lampone il loro sorrìso,
allora si Signor Ispettore, e soltanto in questo caso. Isabella rasso-
miglia a una formica. Guardatela!
SCENA SESTA
l'ispettore, il CONTROLLORE, LO SPEZIALE, IL SINDACO, ISABELLA,
poi LE BAMBINE
ISABELLA - M'avete fatto chiamare, Signor Ispettore?
l'ispettore - Signorina, le voci più spiacevoli corrono sul vostro conto.
Voglio vedere subito se sono fondate e prendere i provvedimenti
del caso.
ISABELLA - Non vi capisco. Signor Ispettore.
l'ispettore - Basta! Cominciamo Tesame... Entrate, scolare... {le ragaz-
ze ridono) Perché ridono?
ISABELLA - Perché voi dite «entrate», mentre non c*è nessuna porta,
Signor Ispettore.
l'ispettore - Questa pedagogia all'aperto è stupida... Il vocabolario
degli Ispettori vi perde metà della sua efficacia... {bisbigli) Si-
lenzio, laggió... La prima che chiacchiera spazzerà la scuola, il
campo, voglio dire, la campagna... {risa) Signorina, le vostre scolare
sono insopportabili!
IL SINDACO - Sono tanto graziose. Signor Ispettore, guardatele.
l'ispettore - Non hanno da essere graziose. Con la loro grazia non ce
n'c una che non pretenda di avere la sua maniera speciale di sor-
ridere o di socchiudere l'occhio. Io intendo che le scolare mostrino
INTERMEZZO 261
al maestro dei visi severi e unifonni come le tessere di un dòmino.
LO SPEZIALE - Non ci Huscirete mai, Signor Ispettore.
l'ispettore - E perché?
LO SPEZIALE - Perché sono gaie.
l'ispettore - Non hanno da essere gaie. Nel programma c'è un diplo-
ma di studi e non d'ilarità. Sono gaie perché la loro maestra non
le punisce abbastanza.
ISABELLA - E come potrei punirle? Con queste scuole a cielo aperto
non sussiste quasi alcun motivo di punire. Tutto quello che è sba-
glio in una scuola diviene prova di iniziativa e di intelligenza in
mezzo alla natura. Punire uno scolaro che guarda il soffitto? Guar-
datelo, questo soffitto!
IL CONTROLLORE - Giusto! Guardiamolo.
l'ispettore - Il soffitto, nell'insegnamento, deve essere inteso in modo
da dar rilievo alla figura dell'adulto nei confronti della statura del
ragazzo. Un maestro che adotti l'aria aperta ammette di essere piò
piccolo dell'albero, meno corpulento del bue, meno mobile dell'ape,
e sacrifica la parte migliore della sua dignità, {risa) Che c'è ancora?
il sindaco - C'è un bruco che vi sale addosso, Signor Ispettore!
l'ispettore - È capitato bene. Tanto peggio per lui!
ISABELLA - Oh, Signor Ispettore, non l'uccidete. È la (( collata azurea ».
Fa il suo ufficio di bruco!
l'ispettore - Menzogna. L'ufficio della <( collata azurea » non è di ar-
rampicarsi sugli Ispettori, (singhiozzi) Che hanno adesso? Pian-
gono?
LUCE - Perché voi avete ucciso la « collata azurea ».
l'ispettore - Fosse stato un merlo a rapire la « collata azurea» esse
avrebbero trovato superba l'impresa, naturalmente, e si sarebbero
estasiate.
LUCE ' È che il bruco è il nutrimento del merlo!...
IL CONTROLLORE - Giustissimo. Il bruco considerato come alimento per-
de qualsiasi simpatia.
l'ispettore - E così, ecco, Signorina, dove il vostro insegnamento ha
portato le vostre scolare: a pretendere che un Ispettore mangi i
bruchi che uccide! Ebbene, no, saranno disilluse. Io ucciderò i miei
bruchi senza mangiarli e avverto tutti i vostri abituali compagni di
scuola, ragazze mie, avverto insetti, rettili e roditori che se saltasse
loro il ticchio di sfiorare il mio collo o d'infilarsi nelle mie calze,
io li ucciderei!... Tu, la bruna, bada alle tue talpe perché io schiac-
cerò le talpe, e tu, la rossa, se uno dei tuoi scoiattoli mi capita vi-
cino gli romperò la sua nuca di scoiattolo, con queste mani, come
262 JEAN GIRAUDOUX
è vero che quando sarò morto sarò morto... (grandi risate)
LE BAMBINE - Pff...
l'ispettore - Che hanno da ridere sgangheratamente?
ISABELLA - Per ridea che quando sarete morto, sarete morto, Signor
Ispettore...
IL SINDACO - Se cominciassimo Pesame?
l'ispettore - Chiamate la prima della classe, {movimenti) Perché que-
st'agitazione?
ISABELLA ' Perché, Signor Ispettore, non c'è la prima, né la seconda,
né la terza. Non state a credere che io farei nascere in loro le fri-
zioni dell'amor proprio. C'è la più alta, la più chiacchierona, ma
sono tutte prime.
l'ispettore - O tutte ultime, piuttosto. Tu, laggiù, comincia. In che
materia sei più brava?
GiLBERTA - In botanica, Signor Ispettore.
l'ispettore - In botanica? Spiegami dunque la differenza fra i mono-
cotiledoni e i dicotiledoni.
GILBERTA - Ho detto in botanica, Signor Ispettore.
l'ispettore - Ma sentitela un po'! Sa almeno che cos'è un albero?
GILBERTA - È proprio quello che so meglio. Signor Ispettore.
ISABELLA - Se lo sai, dillo, Gilberta. Questi signori ti ascoltano.
GILBERTA - L'albcro è il fratello non mobile dell'uomo. Nel suo lin-
guaggio, gli assassini si chiamano boscaioli, i becchini carbonai, le
pulci picchi verdi.
IRENE - Con i suoi rami, le stagioni ci fanno dei segni sempre esatti.
Con le sue radici, i morti sof&ano fino alla sua cima i loro desideri,
i loro sogni.
VIOLA - I quali sono i fiori di cui si coprono tutte le piante in prima-
vera.
l'ispettore - Già, soprattutto gli spinaci... Dimodoché, bambina mia,
se ti capisco bene, le radici sarebbero il vero fogliame, mentre le
foglie sarebbero le radici.
GILBERTA - Esattamente.
l'ispettore - Zero!... {la ragazza ride) Perché quest'allegria, piccola
sfacciata?
isabella - Perché nel mio linguaggio ho adottato lo zero come il pun-
to migliore, per la sua rassomiglianza con l'infinito.
IL controllore - Interessante.
l'ispettore - Signor Sindaco, proprio non ne posso più... Continuate,
Signorina, interrogate voi stessa.
ISABELLA - Parla del fiore, Daisy.
INTERMEZZO 263
DAisY - Il fiore è la più nobile conquista deiruomo.
l'ispettore - Brava. Promette bene.
DAisy - Nel fiore, la mia attenzione si ferma sul pistillo e sugli stami.
Sono essi che ricevono il polline degli altri fiorì per il tramite del
vento. È COSI che nasce la pianta con una procedura diversa da
quella adottata dall'uccello.
GiLBERTA - L' Ornitorinco...
VIOLA - E soprattutto il carnivoro!...
l'ispettore - È uno scandalo, Signor Sindaco, uno scandalo! So ormai
quel che debbo pensare sugli eventi del vostro borgo.
IL SINDACO - Passiamo alla geografia, Signor Ispettore... Tu, piccola
Viola, chi produce le eruzioni dei vulcani?
VIOLA - L'Ordinatore*, Signor Sindaco.
l'ispettore - Che cosa?
VIOLA - L'Ordinatore.
le bambine - L'Ordinatore!
l'ispettore - L'Ordinatore? Sono pazze?
isabella - Signor Ispettore, io bado a che le ragazze non credano al-
l'ingiustizia della natura. Presento loro tutte le grandi catastrofi
come particolari, spiacevoli certo, ma necessari per ottenere un uni-
verso soddisfacente nel suo insieme: ed è per questo che chiamiamo
Ordinatore lo spirito, la potenza che le provoca.
IL controllore - Giustissimo! Ragionevolissimo!
l'ispettore - E suppongo. Signorina, se ho ben capito il vostro metodo,
che avete immaginato, per spiegare i piccoli fastidi e le piccole
sorprese della vita, un altro personaggio invisibile e maligno che si
compiace di sbattere di notte le imposte o che porta un vecchio
signore a sedersi sulla torta di prugne messa per negligenza sopra
una sedia...
VIOLA - Si, Signor Ispettore! È Arturo!
l'ispettore - È Arturo oppure l'Ordinatore che fa salire i bruchi sugli
Ispettori in visita?
LE BAMBINE - È Arturo! È Arturo!
l'ispettore - Ed è Arturo che fa uccidere il bruco dall'Ispettore?
LE BAMBINE - No, no, l'Ordinatore, l'Ordinatore!
tutti gli altri - L'Ordinatore!
l'ispettore - C'è da disperare. Signor Sindaco. Non ho mai visto cose
simili.
^ Nel testo « l^ensemblicr >, artista o arredatore che crea un insieme di cose e
di oggetti decorativi.
264 JEAN GIRAUDOUX
IL SINDACO - Forse sono più brave in storia...
l'ispettore - In storia? Ma non vedete a che cosa tende tutta questa
educazione? Nientemeno che a sottrarre queste giovani menti alla
rete di verità che il nostro magnifico Ottocento ha stesa sul nostro
paese. In storia! Sarà come in aritmetica o in geografìa. Ora ve-
drete. Tu, che cosa regna tra la Francia e la Germania?
IRENE - L'amicizia eterna. La pace.
l'ispettore - È dir troppo poco. Tu, cos'è un angolo retto?
LUCE - Non c'è angolo retto. L'angolo retto non esiste nella natura. Il
solo angolo press'a poco retto si ottiene prolungando con una linea
immaginaria il naso greco fino al suolo greco...
l'ispettore - Naturalmente! Tu, quanto fa due più due?
DAisY - Quattro, Signor Ispettore.
l'ispettore - Vedete, Signor Sindaco... Ah! Pardon! Queste piccole
imbecilli mi fanno perdere la testa. Del resto come mai anche per
loro due più due fa quattro? Per quale nuova aberrazione, per
quale sadica raffinatezza questa donna ha immaginato una falsa
tavola pitagorica assolutamente conforme alla vera?... Son sicuro
che il suo quattro è un falso quattro, un cinque svergognato e dis-
simulato. Due più due fa cinque, non è vero, piccola?
DAISY - No, Signor Ispettore, quattro.
l'ispettore - Ed anche testarde sono! Tu, cantami la Marsigliese.
il SINDACO - È nel programma, Signor Ispettore?
l'ispettore - Che canti la Marsigliese.
ISABELLA - Ma la sa, Signor Ispettore. La Marsigliese delle bambine,
s'intende.
DioNiGiA - La so, Signor Ispettore, la so! {canta)
Il Paese delle ragazzine è di avere più tardi un marito, che si chia-
mi Paolo, John a Dimitri, purché sappia amare e vestirsi bene,
ISABELLA - Il ritornello, piccole mie.
LE BAMBINE - A Marsiglia, a Marsiglia, la patria è il sole. Il vero 14
luglio è Marsiglia soleggiata.
l'ispettore - Che vergogna! E pettinate ciascuna a suo modo! E quel
segno che hanno sul collo, di matita rossa, è un vaccino?
LUCE - No, Signor Ispettore, e per gli spettri.
l'ispettore - Ci siamo! Le Signorine Mangebois avevano ragione. Gli
spettri?
LUCE - Gli spettri, i fantasmi. È il segno che fa riconoscere loro gli
amici. È la stessa signorina che ce lo traccia ogni mattina.
l'ispettore - Cancellatelo!
INTERMEZZO 265
LUCE E LE BAMBINE - Giammai! Giammai!
VIOLA - Abbiamo troppa paura.
LE BAMBINE - Abbiamo troppa paura. Lo spettro è nelle vicinanze!
l'ispettore - Tacete. Sappiate, piccole sfacciate, che dopo la morte non
ci sono spettri, ma delle carcasse; non fantasmi, ma ossa e vermi.
E ripetete tutte quel che vi ho detto. Tu, che cosa c*è dopo la
morte?
LO SPEZIALE - Non guastatc loro Tidea ch'esse si fanno della vita, Si-
gnor Ispettore.
l'ispettore - Ne avranno sempre un'idea troppo favorevole. Signor
Speziale. Ora insegnerò a queste sciocche che cos'è la vita: una
pietosa avventura con — per gli uomini — stipendi iniziali mise-
rabili, promozioni di tartaruga, pensioni inesistenti, bottoni di col-
letto in rivolta; e per le sciocche come loro, vuota conversazione e
cornifìcazione^ casseruola e vitriolo. Queste piccole imbecilli mi
fanno parlare in versi per la prima volta in vita mia. Ah! Voi inse-
gnate la felicità alle vostre scolare, Signorina!
isabella - Insegno quel che Dio ha previsto per loro.
l'ispettore - Menzogna. Dio non ha previsto la felicità per le sue
creature: ha previsto solo delle compensazioni, la pesca alla canna,
l'amore e il rammollimento. Signor Sindaco, la mia decisione è
presa. Il Controllore, le cui occupazioni non sono massacranti, as-
sicurerà provvisoriamente la condotta della classe. Dove andate,
Signorina? È l'Ordinatore che vi fa uscire senza salutare?
isabella - Fate l'inchino, ragazze.
l'ispettore - Per due, e chiudete le bocche; i casi di aerofagia pullu-
lano nel circondario. Che cosa porti con te?
GiLBERTA - La lavagna azzurra, Signor Ispettore.
l'ispettore - La lavagna azzurra resti qui. E resti con il gesso dorato,
con l'inchiostro rosa e con la matita cacca d'oca. Da ora in poi,
avrete una lavagna nera. E inchiostro nero! E vestiti neri. Il nero è
stato sempre nel nostro bel paese il colore della gioventù... E guar-
datemi. Alla buon'ora, cominciano a mettersi in ordine. Un mese
di disciplina e non sarà piò possibile distinguerle l'una dall'altra.
In quanto a voi. Signorina, scrivo immediatamente ai vostri geni-
tori che voi disonorate la vostra famiglia e la nostra Università.
ISABELLA - Sono Orfana, Signor Ispettore.
l'ispettore - Tanto meglio per loro. Almeno non vi vedono.
ISABELLA - Mi vedono. Signor Ispettore, e mi approvano.
l'ispettore - Rallegramenti. Ciò mi dà un'alta idea dell'insegnamento
elementare che viene impartito agli Inferi.
266 JEAN GIRAUDOUX
ISABELLA - Uscite, Signof Ispettore!
l'ispettore - Esco, Signorina Isabella. Non c'è porta, ma esco. Ci
rivedremo. Resto qui fino a quando avrò liquidato questo scandalo...
Venite, Signori. Chi ha messo un rìccio al posto del mio cappello?
VIOLA - È stato Arturo, Signor Ispettore...
LE BAMBINE - È Arturo! Signor Ispettore! Arturo!
(escono tutti, salvo Isabella e lo Speziale)
SCENA SETTIMA
ISABELLA, LO SPEZIALE
ISABELLA - Avete da dire qualcosa, Signor Speziale?
LO SPEZIALE - No. Non ho assolutamente nulla da dire.
ISABELLA - Da fare, allora?
LO SPEZLVLE - No, non ho assolutamente nulla da fare. Resto un minu-
to, per la transizione.
ISABELLA - Che transizione?
LO SPEZIALE - Alla mia età, Isabella, ciascuno si rende conto della parte
che il destino gli ha assegnato sulla scena della vita. Io sono utiliz-
zato per le transizioni.
ISABELLA - Certo, voi siete sempre il benvenuto.
LO SPEZIALE - Non è proprio quel che voglio dire. Ma io sento che la
mia presenza serve sempre di cateratta fra due istanti che non sono
allo stesso livello, di tampone fra due episodi che si urtano, fra la
felicità e la sventura, il preciso e il torbido, o inversamente. È noto
in città... Sono sempre io che ho l'incarico di far sapere a delle
donne che giocano al brìdge Tincidente d'auto in cui è perito il loro
amico, o di annunziare a un cardiaco la vincita del milione alla
lotteria. Sono io che ho portato la notizia della dichiarazione di
guerra all'Unione delle madri dei soldati in servizio attivo... Arri-
vo, e per questa sola presenza il passato dà la mano al presente più
inaspettato.
ISABELLA - £ voi Vedete la necessità di una transizione in questo mo-
mento?
LO SPEZIALE - In sommo grado. Eccoci installati, per opera dell'Ispet-
tore, in un presente ridicolo, triviale, crudele, e non c'è bisogno di
essere gran dottore per sentire che tuttavia, in questo minuto, un
INTERMEZZO 267
momento di dolcezza e di calma suprema cerca, nella sera, di po-
sarsi. £ c'è inoltre da regolare la transizione fra Tlsab^Ua che cono-
sciamo, cosi viva, cosi terrestre, e una non si sa quale Isabella in-
namorata e sovrannaturale, che ci è ignota.
ISABELLA - E come farete?
LO SPEZIALE - G)n voi, nulla di più facile. Con la donna del bridge, il
cui amante s'era annegato, ho avuto bisogno di un buon quarto
d'ora. Aveva cento d'assi, tre re senza atout, e le venivano «con-
trati)) i tre senza atout dichiarati. Èssa « surcontrava » ^ natural-
mente. Portarla da questo delirio al suo Emanuele annegato non è
stato affar da poco... Ma con voi, Isabella, per fare che il mistero
scenda sul momento più volgare, basta un nulla, un gesto... questo
gesto..., un silenzio, questo silenzio... {breve silenzio) Vedete, è
quasi fatto. I miei colleghi di transizione, il pipistrello, la civetta,
già cominciano piano il loro giro... Dite soltanto il nome di que-
st'ora: e tutto sarà pronto.
ISABELLA - Ad alta voce?
LO SPEZIALE - Si, che sia inteso.
ISABELLA - Mi è stato detto altra volta che si chiamava crepuscolo.
LO SPEZIALE - Non vi hanno mentito... E al crepuscolo, quale eco viene
dalle piccole città?
ISABELLA - Quello delle trombe che fanno gli esercizi, {trombe)
LO SPEZIALE - Ascoltatele... Vi sono tre rumori che danno il diapason
del nostro paese, il rastrellamento dei viali nel sonno dell'alba, lo
sparo dopo i vespri e le trombe al crepuscolo...
ISABELLA - Adesso tacciono.
LO SPEZIALE - E quando tace l'ultima tromba, chi si drizza fra le can-
ne e i salici, chi indossa la sua cappa nera e circola attraverso i
cipressi e i tassi, addossandosi alle ombre già rapprese della futura
notte?...
ISABELLA {sorridendo) - I/> spettro! Lo spettro!
LO SPEZIALE {uscendo) - Ecco... ho finito!
Sono i francesismi di uso italiano ne! giuoco del bridge.
268 JEAN GIRAUDOUX
SCENA OTTAVA
ISABELLA, LO SPETTRO
(Isabella è seduta sul monùcello. Ha cavato lo specchio, si guarda, si
guarda gli occhi, i capelli. Il fantasma sorge alle sue spalle. Bel-
l'uomo giovane. Farsetto di velluto. Viso pallido e nitido. Un mo-
mento di confronto come una conversazione muta. Isabella abbassa
lo specchietto, lo rialza, manda un raggio di sole, del sole che tra-
monta, sullo spettro che sembra soffrirne)
ISABELLA - Chiedo scusa di questa macchia di sole.
LO SPETTRO - È passata. È sorta la luna.
ISABELLA - Voi scntitc quel che dicono i vivi, tutti i vivi?
LO SPETTRO - Vi sento.
ISABELLA - Tanto meglio. Desideravo tanto parlarvi.
LO SPETTRO - Parlarmi di chi?
ISABELLA - Dei vostri amici, miei amici anche, ne sono sicura: dei
morti. Sapete molte cose sui morti?
LO SPETTRO - Comincio adesso.
ISABELLA - Me le direte?
LO SPETTRO - Venite qui ogni sera, a questa stessa ora, e ve le dirò.
Come vi chiamate?
ISABELLA - Il mio nome non ha nessuna importanza. Me le direte, cre-
do, in maniera un po' meno grave. Non mi vorrete fare credere
ch'essi non sorridono mai.
LO SPETTRO - Chi, essi?
ISABELLA - Parliamo dei morti.
LO SPETTRO - Perché dovrebbero sorridere?
ISABELLA - Che cosa fanno allora quando succede qualcosa di buffo nel
regno dei morti?
LO SPETTRO - Di buffo ncl regno dei morti?
ISABELLA ' Di buffo o di tcnero o d'inaspettato. Vi saranno dei morti
maldestri, dei morti comici, dei morti distratti...
LO SPETTRO - Che cosa potrebbero lasciar cadere? Su che cosa scivole-
rebbero?
ISABELLA - Su quello che nel loro dominio corrisponderebbe al cristallo
o alla buccia d'arancia... Sopra un ricordo... sopra un oblio...
LO SPETTRO - No, tutti i morti sono straordinariamente abili... Non in-
INTERMEZZO 269
ciampano mai contro il vuoto, non s'agganciano mai all'ombra, non
s'impigliano mai il piede nel nulla... E il loro viso, nulla mai lo
rischiara...
ISABELLA - È una cosa che non riesco a capire, che i morti stessi ere-
dano alla morte. Da parte dei vivi, si può concepire una tale scioc-
chezza. È giusto credere che la stupidità, la menzogna, l'obesità
avranno la loro fine, credere anche che la bontà, la bellezza mor-
ranno. La fragilità è il loro lustro. Ma dai morti io mi aspettavo
altro! Ben altro mi aspettavo da quei morti di cui ogni parte è no-
bile, purificata, pura!
LO SPETTRO - Ch'essi credano alla vita, è vero?
ISABELLA - Alla vita dei morti, certo... Volete che vi parli francamente?
Ho spesso l'impressione che si lascino andare. Non parliamo di
voi, che siete qui, che io ringrazio di essere qui. Ma credo che ba-
sterebbe loro un po' più di volontà, di gaiezza, per evadere e venire
verso di noi. Non c'è dunque stato nessuno fra di loro che abbia
fatto nascere questo desiderio?
LO SPETTRO - Aspettano voi...
ISABELLA - Verrò... Verrò... Ma non ho l'impressione che sarò partico-
larmente forte e volitiva, quando sarò scomparsa. Sento benissimo
invece che quel che mi piacerà nella morte è la pigrizia della
morte, quella fluidità un po' densa e appesantita della morte, che
fa insomma che non vi siano dei morti, ma unicamente degli anne-
gati... Quel che posso per la morte posso farlo soltanto in questa
vita... Ascoltatemi... Fin dalla mia infanzia sogno una grande im-
presa... È il sogno che mi rende degna della vostra visita. Ditemi:
non c'è stato ancora un morto di genio, un morto che renda la
folla dei morti cosciente della sua forza, della sua realtà, un im-
peratore, un messia dei morti? Non credete che tutto sarebbe me-
ravigliosamente cambiato, per voi e per noi, se sorgesse un giovane
morto, una giovane morta — o una coppia, sarebbe cosi bello —
che facesse amare ai morti il loro stato e capire che sono immor-
tali?
LO SPETTRO - Essi non lo sono.
ISABELLA - Come?
LO SPETTRO - Muoiono anch'essi.
ISABELLA - È curioso Vedere come tutte le razze si conoscano male! La
razza degli Indiani si crede rossa, la razza dei negri si crede nera,
la razza dei morti si crede mortale.
LO SPETTRO - Capita che li prenda una specie di stanchezza, che passi
su di loro una peste dei morti, che un tumore del nulla li roda...
270
JEAN CIRAUDOUX
li bel grigio della loro ombra si inargenta, si liquefa. Allora è ben
presto la fine, la Bne di tutto...
ISABELLA - Via, non vorrete credere una cosa simile... Esiste certamen-
te una spiegazione di questa debolezza!
LO SPETTRO - La fine della morte.
ISABELLA - No, Certamente. Non siate ostinato... Raccontatemi tutto ed
io son sicura di spiegarvi tutto nel migliore dei modi...
LO SPETTRO - Tutto? Il vostTo nome anzitutto.
ISABELLA - Vi ripeto che il mio nome non ha importanza... Io mi chia-
mo come tutti... Parlate... Abbiate fiducia!
LO SPETTRO - Dopo la morte della morte...
ISABELLA - Benissimo... È appunto adesso che la cosa comincia a diven-
tare interessante. Dopo la morte della morte che succede?... Vi
ascolto... Ecco... {si volta a guardare indietro) Nessuno può sentir-
ci... nessuno... {mentre si voltava lo Spettro è scomparso) Dove sie-
te? Dove siete? {si guarda attorno disperata e grida) Isabella! Mi
chiamo Isabella!
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Un altro aspetto della campagna. Boschetti di faggi. Siepi. Crepuscolo ancora
lontano.
IL CONTROLLORE, LE BAMBINE fornite di lampadine elettriche^
poi LO SPEZIALE
IL CONTROLLORE - Formate il triangolo, ragazze mie.
(le bambine formano una specie di triangolo, cantando)
LE BAMBINE {cantano) - «Il grande brivido che provò Bougainville fu
una sera a Numea quando vide le luci del Triangolo immobile
inondare le buganvillee!... ».
IL CONTROLLORE - Benissimo. Adesso la Libra.
LE BAMBINE {cantando e formando una bilancia, il cui raggio è rap-
presentato dalla ragazza pia alta) - «Se potesse essere esaudito il
sogno della mia infanzia, per pesare il peso della notte, nel cielo
australe io sarei la Bilancia, i cui piatti sono la gioia e la noia... ».
INTERMEZZO 271
IL CONTROLLORE - I QuattTO Lupi ^.
LO SPEZIALE {entrando) - Buon giorno, ragazze. Giocate ai quattro
cantoni?
LE BAMBINE - Si, ai quattro cantoni dei cielo.
IL CONTROLLORE - Buona notte, Signor Speziale, buona notte.
LO SPEZIALE - Perché buona notte? Siamo ancora in pieno giorno. Che
fa quella li, con le gambe allargate e con la sua lampadina elettrica?
GiLBERTA - lo sono il Compasso australe. Signor Speziale.
IL CONTROLLORE - Ci Cogliete in piena lezione di astronomia. Alza la
tua lampadina, Gilberta. Tu sei di prima grandezza.
LO SPEZIALE - Avete scelto bene la sera. Potete vedere le stelle sorgere
Tuna dopo l'altra. Bella notte per le ragazze che vogliano imparare
a contare fino al miliardo. Avrete anche Orione.
IL CONTROLLORE - Ahimé, no. L'Ispettore esige che le mie scolare vada-
no a letto con il sole.
LO SPEZIALE - E voi parlate loro degli astri davanti a un cielo vuoto?
Cattivo sistema, che rischia di eccitare la concupiscenza di queste
fanciulle: si daranno a desiderare le stelle come dei diamanti.
IL CONTROLLORE - Me ne guardo bene. So fin troppo che le bambine
credono solo quello che vedono. I loro occhi non consentono di di-
stinguere, in pieno giorno attraverso l'aria, la volta celeste, ma è
facile per la loro fantasia vedere attraverso la terra tutti i particolari
dell'alta volta del firmamento. Si, siamo in piena notte australe.
LO SPEZIALE - E vi si raccapezzano ?
IL CONTROLLORE - Daisy, dov'è la Bilancia volante?
DAisY - Precisamente sotto il Signor Speziale.
LUCE - È per questo che lo si vede cosi bene.
IL CONTROLLORE - Il Vantaggio delle costellazioni oceaniche sta nel fatto
che gli antichi non le conobbero e che esse furono battezzate da
qualche astronomo fisico o frammassone. È un cielo completamente
moderno. Pieno non di eroi, ma di oggetti: l'orologio, il triangolo,
la bilancia, il compasso. Si direbbe un laboratorio. I ragazzi ado-
rano i laboratori. Viola, salta dal triangolo alla macchina pneu-
matica.
VIOLA - Attraverso la bussola?
IL CONTROLLORE - No, attraverso il pesce australe.
VIOLA - Ma vi sono undici miliardi di leghe.
' Si tratta sempre di costellazioni dcircmisfero australe.
272 JEAN GIRAUDOUX
IL CONTROLLORE - Fa' un salto doppio, grulla. Molto bene. Formate di
nuovo la Croce del Sud, ragazze.
(le bambine formano una croce, cantando)
LE BAMBINE - (( Non c*è bisogno, raccontava La Pcrouse, di conoscere
il Talmud per scoprire l'antipode gelosa \ Il mio timone fu la Cro-
ce del Sud ».
IL CONTROLLORE - L*inconveniente del mio sistema, evidentemente, è
che io finisco per mostrare loro il cielo come un pavimento e non
come un soffitto, la notte come qualcosa sulla quale si cammina.
LO SPEZIALE - Non abbiate paura. Al primo giro completo del loro
cuore, la ritroveranno sulle loro teste. Esse sono logiche.
IL CONTROLLORE - Souo logiche nel fatto che con loro ottengo sempre
il risultato contrario al previsto. Questa settimana, per esempio, per
far intender loro la nozione più utile all'uomo, quella del volume
e del peso, ho fatto loro soppesare della ghisa, ho rotto un termo-
metro per riempire di mercurio i loro ditali. Esse hanno voluto
portarmi tutte insieme per vedere quel che pesa un uomo. Risul-
tato: sono tutte innamorate dello spettro.
LO SPEZIALE - Come la Signorina Isabella!
IL CONTROLLORE - Sarai punita, Luce! Spegni la tua lampada. Per dieci
minuti sarai una stella morta. Vuoi spegnere?
LUCE - Le stelle morte brillano ancora due milioni d'anni, dopo la
loro morte.
IL CONTROLLORE - Si, e gli uomini due secondi. Spegni. Del resto, è l'ora
della ricreazione. Andate.
{le bambine escono)
LO SPEZIALE - Vi interessate molto alla Signorina Isabella?
IL CONTROLLORE - Disgrazlatamcnte non sono il solo. Da questa mat-
tina ho l'impressione che anche l'Ispettore sia al corrente.
LO SPEZIALE - Al corrente di che cosa?
IL CONTROLLORE - Non fate l'ingenuo. Sapete benissimo che lo spettro
continua ad apparire e che la Signorina Isabella si aggira troppo
spesso nei luoghi delle apparizioni.
LO SPEZIALE - Ne ha il diritto.
IL CONTROLLORE - Non ne ha il diritto. Essa che ci apparteneva a tutti,
che è il buon senso della città, della natura intera, non ne ha il
^ Bisogna sottintendere isola, probabilmente Vanikoro, nella Melanesia, dove La
Pelouse (1741 -'88) fu ucciso dagli indigeni.
Anfitrione 38, di Giraudoux, al Teatro Guild di New York (1938).
INTERMEZZO 273
diritto. Che non vorrete farmi credere, caro Speziale, che voi cre-
dete davvero all'esistenza di questo spettro.
LO SPEZIALE - Che già esista non sono sicuro, infatti. Ma è possibilis-
simo che esista stasera.
IL CONTROLLORE - Non vi capisco.
LO SPEZIALE - Ho l'impressione che potremmo benissimo assistere que-
sta sera alla nascita di uno spettro.
IL CONTROLLORE - La nascita di uno spettro? Come? Perché?
LO SPEZIALE - Come, non saprei. Sarà la nostra sorpresa. Perché? Per-
ché non riesco a credere che una simile atmosfera si sia addensata
sulla nostra città scnzai una ragione. Ogni volta che la natura ha pre-
so verso gli uomini questo tono d'ironia, il corrugamento comico ed
inquietante della fronte di un elefante irritato dal suo conduttore,
ne e nato qualche evento misterioso, nascita di un profeta, crimine
rituale, scoperta di una nuova specie animale. È in uno di questi
momenti che il cavallo è improvvisamente apparso davanti alla ca-
verna dei nostri antenati. Noi non faremo eccezione.
IL CONTROLLORE - In quanto a questo, è esatto. La nostra città è folle.
LO SPEZIALE - Essa è piuttosto in quello stato in cui tutti i voti sono
esauditi, in cui tutte le divagazioni si rivelano giuste. Nell'indivi
duo ciò si chiama stato poetico. La nostra città è in delirio poetico.
Non l'avete constatato su voi stesso?
IL CONTROLLORE - Appunto. Questa mattina, alzandomi, ho pensato, sa
Dio perché, alla scimmia denominata mandrillo, il cui di dietro è
tricolore. Che cosa ho urtato spingendo la mia porta? Un mandril-
lo. Un mandrillo addomesticato tenuto al guinzaglio da zingari,
ma, comunque, c'era un mandrillo sul mio marciapiede.
LO SPEZIALE - £ se voi aveste pensato a un armadillo o ad una Marti-
nicana, vi sareste imbattuto in un armadillo o in una Martinicana,
e tutto si sarebbe spiegato nel modo più naturale con il passaggio
di un circo o con il cambiamento di casa di un funzionario colo-
niale in pensione. La città è in stato di fortuna come un giocatore
di roulette che ad ogni colpo vince in pieno.
IL CONTROLLORE - Ma allora non dobbiamo vegliare più attentamente
sulla Signorina Isabella?
LO SPEZIALE - Senza dubbio. Che la natura non è mai impunemente
incinta. Le montagne non hanno mai partorito un topo né i tem-
porali un uccello, ma lava e fulmini. Tutto congiurerà per crearci
uno spettro, la luce, l'ombra, la stupidità, l'immaginazione, gli stes-
si spettri, se esistono, senza contare l'Ispettore.
IL CONTROLLORE - Abbiamo il nostro « en plein ». Eccolo...
18. • Teatro france$e
274 JEAN GIRAUDOUX
SCENA SECONDA
IL CONTROLLORE, l'iSPETTORE, IL SINDACO, LO SPEZIALE
l'ispettore - Affare urgente, Signori, ecco la lettera che il governo mi
manda con un corriere speciale. Leggete, Signor Sindaco, la lettera
vi interessa.
IL SINDACO - Credete davvero che m'interessi?
l'ispettore - Quanto me, soprattutto la fine.
IL SINDACO - Il governo è molto tenero con voi, a quanto sembra?
l'ispettore - Lo è, per mia fortuna.
IL SINDACO - Esso dcponc un bacio sulla vostra bocca adorata, vi chiede
cento franchi e firma « la tua Adele ».
l'ispettore - Pardon. Ho fatto confusione. Ecco la vera lettera. Vi
chiedo di esser seri, Signori. L*ora è tragica.
il SINDACO (leggendo) - «Il Consiglio superiore ha preso nota degli
eventi strani che turbano la vostra circoscrizione. Appassionatamen-
te laico, esso si rallegra di vedere che l'isterismo collettivo trova in
Francia un cauterio ben diverso dal miracolo. Non si aspettava
meno dalla terra limosina che ha saputo gettare fra il naturalismo
dei druidi e il radicalismo contemporaneo, al disopra delle super-
stizioni clericali e pur avendo dato tre papi alla cristianità, un'arca
di credenze locali e poetiche».
IL controllore - Com'è scritto bene! Da chi è composto il Consiglio
Superiore?
l'ispettore - Il suo stesso nome lo dice: da spiriti superiori.
IL SINDACO (leggendo) - «Tuttavia il carattere delle perturbazioni pro-
vocate da codesto spettro nella vita comunale non è abbastanza de-
mocratico per giustificare una tacita collaborazione del governo.
Pertanto il governo vi conferisce pieni poteri per arieggiare defini-
tivamente il circondario e mette a vostra disposizione le autorità
civili e militari».
l'ispettore - Dunque, Signori, all'opera. Terminiamo la nostra caccia.
IL SINDACO - Non vi sembra terminata. Signor Ispettore? Dopo quin-
dici giorni di caccia agli esseri ed agli animali sospettati di stra-
nezza, la selvaggina si esaurisce.
l'ispettore - Davvero, e quale era il bilancio di ieri?
IL SINDACO - Insignificante.
l'ispettore - Per quel che riguarda gli uomini?
INTERMEZZO 275
IL CONTROLLORE - Abbiamo messo sotto sequestro ii registro sul quale
il Conservatore delle Ipoteche scriveva segretamente le ipoteche
morali e demoniache dei nostri concittadini.
l'ispettore - E per quello che riguarda gli animali?
IL SINDACO - Abbiamo preso al cappio, e purtroppo privato della vita,
un cane che rassomigliava stranamente ad uno dei nostri agenti
di pubblicità piò in vista, ma che morendo ha ritrovato l'espressione
di umanità e di onestà caratteristica della sua razza. Poca cosa.
l'ispettore - Poca cosa. E che avete sognato questa notte, caro Sindaco?
IL SINDACO - Che ho sognato, perché?
l'ispettore - Se l'atmosfera della città è cosi purificata, i suoi abitanti
debbono godere i sogni più normali della Francia. Vi ricordate
quel che avete sognato?
IL sindaco - Sicuro. Mi dibattevo contro due maggiolini giganti che per
sfuggirmi finirono per diventare i miei piedi. Una cosa imbaraz-
zante. Essi rodevano l'erbetta del prato, e non c'è nulla di piò
difficile che camminare con dei piedi che brucano. Poi si trasfor-
marono in millepiedi e allora tutto andò bene, troppo bene!
l'ispettore - E voi, caro Controllore?
IL CONTROLLORE - È molto delicato da dire.
l'ispettore - Voi siete in servizio comandato.
IL CONTROLLORE - Amavo alla follia una donna che saltava in stiffelius
attraverso un cerchio, col seno destro scoperto, e questa donna era-
vate voi.
l'ispettore - Cosi, miei Signori, questo e il sogno, lusinghiero per me,
ne convengo, che voi chiamate un sogno francese normale. E se voi
lo moltiplicate per quarantadue milioni, pretendete che questo resi-
duo notturno sia degno del più sensato e pratico popolo dell'univer-
so?
IL CONTROLLORE - In rapporto al residuo dei sessantaquattro milioni di
sogni tedeschi, è abbastanza probabile.
LO SPEZIALE - Insomma, Signor Ispettore, voi cominciate ad essere im-
pressionato da questo sovrannaturale?
l'ispettore - Vengo a voi. Speziale. Per quel che vi riguarda, il vaso
e colmo. È grazie al vostro eterno sorriso e al vostro perpetuo si-
lenzio che la nostra lotta contro l'influenza di Isabella non ha fatto
un passo nella sottoprefettura. Ho l'impressione che voi non siate
estraneo a queste mistificazioni continue che in altri tempi pote-
vano piacere in qualche residenza della Turingia, ma che rivoltano
lo stomaco del cittadino colto. A mezzanotte, una mano faceta ag-
giunge un tredicesimo colpo ai dodici colpi del campanile. Basta
276 JEAN GIRAUDOUX
che un alto funzionario si segga sopra un banco perché questo
banco divenga dipinto di fresco, o ad una terrazza perché lo zuc-
chero rifiuti di sciogliersi nel caffè anche bollente. Un rondone,
abituato senza dubbio ad attraversare i vostri spettri, è venuto poco
fa a sferzarmi in pieno petto. Io gli ho opposto per sua sventura
la densità umana, ma intanto le mie lenti di ricambio sono andate
in pezzi. Io fremo all'idea delle deroghe al buon senso che ci ver-
ranno domani dal sorteggio della vostra lotteria mensile. Perciò vi
avverto. Io intendo porre termine a queste divagazioni umilianti
fin da questa sera, togliendo di mezzo Isabella.
IL SINDACO - Che c'entra Isabella in questa storia?
l'ispettore - Signor Sindaco, tutti meno voi sanno in città che da due
settimane la Signorina Isabella accetta un convegno quotidiano.
il controllore - È falso.
IL sindaco - Che scherzo è mai questo?
l'ispettore - Non è uno scherzo. Ogni sera, verso le sei, verso que-
st'ora. Isabella si allontana attraverso i sobborghi con l'aria falsa-
mente oziosa di chi va ad approviggionare un evaso nel suo nascon-
diglio. Ma essa è più che mai rosea, con l'occhio più che mai vi-
vace e tenero, e, dato che le sue mani sono vuote, è indubbio che
i viveri che porta al suo protetto sono quel sangue, quella vita e
quella tenerezza... Un pasto da spettro, insomma, e forse con le
frutta.
IL controllore - Signor Ispettore!
il sindaco - Via, Signor Ispettore. Se questa mattina ho cercato di
portarvi a colazione con lei è stato appunto per mostrarvi come in
lei tutto è reale, vivente. Avete mai visto un appetito più umano?
l'ispettore - È quel che v'inganna. Io l'ho osservata bene. Evidente-
mente ha preso due volte la lepre alla salsa reale e causato seri
danni al clan dei dolci. Ma ho notato che accanto alla vera cola-
zione di carni e di creme spiluzzicava, senza rendersene conto,
molliche di pane, granelli di riso, briciole di nocciuola, che insom-
ma faceva uno di quei pasti che si sogliono mettere nelle tombe.
Chi nutriva cosi in se stessa? E nel suo abbigliamento, accanto al
suo vestito, alla sua collana, ho distinto un'altra Isabella, pallida,
adornata e preparata per un convegno infernale. Almeno cosi cre-
de. È quella che in questo momento si mette ipocritamente in cam-
mino verso il margine della foresta e della quale ci occuperemo
senza indugio.
il sindaco - Ma che cosa è opportuno fare, secondo voi?
il controllore - Signor Ispettore, evitiamo incidenti e scandali. La
INTERMEZZO 277
Signorina Isabella si compiace talvolta di fare quattro chiacchiere
con me. Lasciate che le parli, che le faccia intendere i pericoli della
sua condotta. Sono sicuro di convincerla.
LO SPEZIALE - Ed è lecito chiedervi con quali mezzi intendete ridurre
Isabella alla ragione?
l'ispettore - Con la forza. Non e senza motivo che ho aspettato per
agire che il governo mettesse a mia disposizione le forze armate
della città. Bisogna liquidare questa storia di spettro. Cosi soltanto
io posso colpire il prestigio di Isabella, dato che la mia opinione dif-
ferisce dalla vostra in quanto io credo che abbiamo da fare non
con uno spettro ma con l'assassino del castello. È qui ch'essi s'in-
contrano, ed a quest'ora. Adesso son venuto a tendere la trappola.
Nascosti dietro questo boschetto, gli agenti della forza pubblica si
impadroniranno di lui, al mio segnale.
il sindaco - Non contate sulla guardia campestre. Signor Ispettore. È
l'apertura della pesca ed egli è in giro d'ispezione.
l'ispettore - Allora ricorrerò ai gendarmi.
IL sindaco - I gendarmi sono in quarantena, sia per gli onesti che per
i delinquenti. S'è verificato un caso di scarlattina nella caserma.
l'ispettore - Poco importa che un Ispettore prenda la scarlattina.
IL sindaco - Non è dello stesso parere il tribunale che, dall'usciere al
sostituto, sarebbe contagiato dal delinquente. Una giustizia che vuol
essere sana esige delinquenti sani.
l'ispettore - Non mi prendete alla sprovvista, Signor Sindaco. Preve-
devo lo scarso slancio che si sarebbe messo nell'assecondare i mici
sforzi, e ho preso tutte le precauzioni.
il sindaco - Che avete escogitato ancora?
l'ispettore - Una cosa semplicissima. Ho saputo che la città vicina
ospita l'uomo di Francia che meno teme di prendere per il collo
i banditi morti e vivi.
IL SINDACO - L'antico boia che vi si è ritirato in pensione?
l'ispettore - Proprio lui. E l'ho convocato con un annunzio che gli
promette cinquecento franchi. Lo conoscete?
IL sindaco - Nessuno lo conosce. Vive lontano da tutti. Ma l'effetto del
vostro annunzio e, ahimé, troppo sicuro! Dove devo raggiungervi?
l'ispettore - Qui stesso, e l'aspetto. Con le armi.
IL SINDACO - Ma l'altro può resistere, difendersi!
IL CONTROLLORE - Signor Ispettore, vi prego, permettetemi, prima che
sia troppo tardi, che io parli con la Signorina Isabella.
l'ispettore - Zitti, Signori, eccola! Le mie previsioni trovano confer-
ma. Signor Controllore, vi do cinque minuti per convincerla. Poi
278 JEAN GIRAUDOUX
passo airazione... Vi lascio con lei. Noi andremo incontro al boia
che mi sembra in ritardo.
LO SPEZIALE - Il boia non è puntuale che all'alba.
(escono)
SCENA TERZA
IL CONTROLLORE, pOt ISABELLA
IL CONTROLLORE - Che andatura leggera è la vostra, Signorina Isabella.
Che sia sulla ghiaia o sulle foglie, vi si sente appena. Come i ladri
che nelle case riescono a non far scricchiolare la scala, camminando
giusto sulla testa delle punte che l'hanno inchiodata, cosi voi por-
tate i passi sulla costura stessa della provincia.
ISABELLA - Voi parlate bene, Signor Controllore. È assai piacevole sen-
tirvi.
IL CONTROLLORE - Si, parlo bene quando ho qualcosa da dire. Non che
io arrivi a dire precisamente quel che voglio dire. Mio malgrado,
dico una cosa del tutto diversa. Ma questa la dico bene... Non so
se mi capite.
ISABELLA - Capisco chc parlandomi della costura della provincia volete
esprimermi un po' di simpatia. Voi siete molto gentile con le don-
ne... È molto bello quel che avete detto della Signora Lambert!
IL CONTROLLORE - Giusto! Parlando di lei, non pensavo soltanto alla
Signora Lambert.
ISABELLA - Voi pensavate ad assumere un atteggiamento opposto a
quello dell'Ispettore. Vi ringrazio. Tutto quello che fa quell'indi-
viduo mi riesce incomprensibile e odioso: lo sapete voi perché
mi spia?
IL CONTROLLORE - Ce lo ha detto poco fa. Egli pensa che sia anormale
credere agli spettri.
ISABELLA - E voi. Signor Controllore? Non credete mai a quello che è
anormale?
IL CONTROLLORE - Comincio ad abituarmi: è anormale che esista un es-
sere perfetto come Isabella.
ISABELLA - Molto ben detto. Certamente non è quello che volevate dire.
IL CONTROLLORE - Oh! Signorina Isabella...
ISABELLA (gli sorride, commossa) - Anormale credere agli spettri! Quel
che a me sembra anormale è l'indifferenza che i vivi hanno per i
INTERMEZZO 279
morti. O noi viviamo nell'ipocrisia — e i miliardi di cristiani che
proclamano che i morti hanno un'altra vita lo dicono senza cre-
derci — oppure, appena si parla di loro, si diventa egoisti e miopi.
IL CONTROLLORE - Non siete più miope, voi, Signorina Isabella? Voi li
vedete?
ISABELLA - Non vcdo ancora molto chiaro. Non ne vedo che uno.
IL CONTROLLORE - Ma che è bello, a quel che si dice in città.
ISABELLA - Non c'c male.
IL CONTROLLORE - E forsc anchc giovane?
ISABELLA - Sui trent'anni. Tanto vale entrare nell'eternità a trent'anni
piuttosto che con una barba bianca, è vero?
IL CONTROLLORE - SÌ avvicina a voi? Gli permettete di toccarvi?
ISABELLA - Non si avvicina. Io non faccio un passo verso di lui. So
troppo bene quello che un soffio umano può appannare.
IL CONTROLLORE - Restate lunghe ore cosf, l'una di fronte all'altro?
ISABELLA - Delle ore.
IL CONTROLLORE - E la cosa vi sembra molto ragionevole?
ISABELLA - Caro Signor Controllore, per obbedire ai miei maestri, io
mi sono ostinata per tutta la mia giovinezza a rifiutare tutti gli in-
viti che non venissero da questo mondo. Tutto quello che ci è stato
insegnato, ai miei compagni ed a me, è una civiltà di egoisti, una
cortesia da termiti. Ragazzine, giovanette, noi dovevamo chinare
gli occhi davanti agli uccelli dai colori troppo vivaci, alle nuvole
troppo modellate, agli uomini troppo uomini, davanti a tutto quello
che nella natura è richiamo o segno. Noi siamo uscite dal convento
conoscendo a fondo soltanto una parte molto ristretta dell'universo,
la fodera interna delle nostre palpebre. È assai bello, certo, con i
cerchi d'oro, le stelle, le losanghe porpora o azzurre, ma è poco,
anche se si costringe la migliore amica a premere col dito sui vo<
stri occhi.
IL CONTROLLORE - Ma voi sictc riuscita prima nell'esame di diploma.
Signorina Isabella. Vi hanno insegnato il sapere umano?
ISABELLA - Quello che si chiama cosi è tutt'al più la religione umana,
ed è un egoismo terribile. Il suo dogma è di rendere impossibile o
sterile qualsiasi legame estraneo agli uomini, a disimparare, ad ec-
cezione^ dell'umana, tutte le lingue che sa già un bambino. In que-
sto falso pudore, in questo stupido ossequio ai pregiudizi, quante
meravigliose offerte non abbiamo rifiutate, che ci venivano da tutti
i piani del mondo e da tutti i regni. Io sola ho osato rispondere.
Tardi, del resto. Ma voglio rispondere. La mia risposta ai morti
non è che la prima.
280 JEAN GIRAUDOUX
IL CONTROLLORE - Ed ai vìvi, intcndctc rispondere, un giorno?
ISABELLA - Io fìspondo 3 tutto quello che m'interroga.
IL CONTROLLORE - Risponderete al vivo che vi chiederà di vivere con
lui, di essere vostro marito?
ISABELLA - Risponderò che accetterò soltanto un marito che non mi
proibisca di amare insieme la vita e la morte.
IL CONTROLLORE - La vita e la morte, ciò può ancora andare, ma un
vivo e un morto è molto, dato che, se ho ben capito, voi continue-
reste a ricevere lo spettro.
ISABELLA - Senza dubbio; dal momento che ho la fortuna di contare
degli amici fuori dei domini della terra, intendo approfittarne.
IL CONTROLLORE - E non temete che i rapporti della vita comune ne
siano diminuiti o turbati?
ISABELLA - In che cosa? In che cosa potrebbe sentirsi diminuito o umi-
liato un marito che tornando dalla caccia o dalla pesca trovasse una
moglie che crede alla vita suprema o che rientrando la sera, da una
riunione politica, chiudesse le imposte su una donna che crede al-
l'altra luce? L'ora vuota della giornata, che le altre spose danno a
visitatori ben più pericolosi, ai loro ricordi, alle loro speranze, allo
spettro della propria vita, al loro amante, perché non dovrebbe es-
sere per lei l'ora di una amicizia invisibile?
IL CONTROLLORE - Perché vostro marito potrebbe non voler ammettere
fra voi e lui nemmeno l'invisibile e l'impalpabile.
ISABELLA - Vi sono già tante cose impalpabili fra due sposi. Una più
o una meno...
IL CONTROLLORE - Fra due sposi?
ISABELLA - Non foss'altro che i loro sogni... Non foss'altro che la loro
ombra. Voi non vi divertite mai a calpestare, a loro insaputa, l'om-
bra delle persone che amate, a introdurvi in essa, ad accarezzarla?
IL CONTROLLORE - L'ombra di vostro marito è sua e non sente nulla.
ISABELLA - Allora, la sua voce?
IL CONTROLLORE - I^ SUa VOCe?
ISABELLA - Ci sarà certamente nella voce di mio marito un timbro che
mi piacerà e che non sarà lui, e che amerò senza dirglielo. £ le sue
pupille? Credete voi che penserò sempre a mio marito, caro Signor
Controllore, guardando le sue pupille? Io vorrei un marito come
vorrei un diamante, per le gioie e le luci che mi darà senza ren-
dersene conto. Mille cose sue mi faranno continuamente dei segni
che .lo tradiscono, e lo spettro sarà per lui certamente più leale che
la sua propria apparenza.
IL CONTROLLORE - Tutto qucl che si sa degli spettri è che sono terribil-
INTERMEZZO 281
mente fedeli. La mancanza d'occupazioni lo permette loro. Voi ve-
drete apparire la sua macchia grigia nelle ore in cui egli non sarà
che un importuno, e alla fine voi non avrete guadagnato, a guar-
dare la morte in faccia, che i disturbi di vista che si hanno quando
si guarda fissamente il sole.
ISABELLA - Vi sono due soli. L'oscuro non è per me meno tiepido e
meno necessario.
IL CONTROLLORE - Badate, Isabella, badate!
ISABELLA - A chi? A che cosa?
IL CONTROLLORE - Diffidate dei morti o dei pretesi morti che si aggirano
intorno ad una ragazza. Le loro intenzioni non sono pure.
ISABELLA - E quelle dei vivi lo sono di più?
IL CONTROLLORE - Il loro giuoco è ben noto. Essi si danno da fare per
separare un essere dalla massa degli uomini. Lo attirano con la
pietà o con la curiosità lontano dal gregge che si compiace di ve
stiti e di cravatte, che ama il pane e il vino, e lo assorbono. Il vostro
spettro non fa altro.
ISABELLA - Non insistete, caro Signor Controllore. Pensate che dalla
folla innumerevole dei morti, il mio spettro, come dite voi, è il solo
che sia potuto pervenire fino a me. E siate sicuro ch'egli non sarà
stato il solo ad essere tentato da questo viaggio... Spesso sento che
dall'oceano delle ombre si formano delle correnti, si orientano dei
marosi verso questa giovane donna che crede in loro. Io sento il
desiderio che ciascuna prova di separarsi dalle altre, di ritrovare un
corpo, un'apparenza. Io sento che esse mi hanno capita e che mi
segnalano alle miriadi delle altre. Tutte sanno che non le accoglie-
rei con tremori e scongiuri, ma umanamente, semplicemente. Quel
che vogliono i morti, nella loro visita, è che si dica: « Riposatevi del
vostro eterno riposo. Sedete! Farò come se voi non foste qui». È
come vedere un pezzo di pane, come sentire un canarino nella sua
gabbia, come sfiorare quel modello di suprema attività che dev'es-
sere per loro un funzionario in pensione, come respirare addosso
ad una ragazza il piò nuovo dei profumi ottenuti dai vivi con es-
senze e fiorì... (( Andiamo a vedere Isabella, » dicono laggiù miliardi
di silenzi, « essa ci aspetta... Andiamo... Forse avremo anche la for-
tuna di vedere l'ispettore stradale, il ricevitore... ». Ma non hanno
la forza per un tal viaggio: e, a portata di voce dalla ricevitorìa,
ma senza voce, in vista della sottoprefettura ma ciechi, essi esitano
e un'ondata li disperde o li riporta via... Solo il mio spettro, per un
prodigio di forza o di volontà, ha potuto restare a galla sul gorgo.
Avrei io il coraggio di rigettar velo?
282 JEAN GIRAUDOUX
IL CONTROLLORE - IsabcUa! Non toccate i confini della vita umana ed
i suoi limiti. La grandezza della vita è nell'esser breve e piena fra
due abissi. Il suo miracolo è nell'essere varia, sana, stabile fra dei
vuoti e degl'infiniti. Introducete in essa una goccia, una sola goc-
cia del sangue delle ombre e il vostro gesto diventa gravido di con-
seguenze come quello di un abitante del nostro sistema solare che
un bel giorno, per una disgraziata esperienza, per la sintesi di un
metallo più pesante o per una maniera inedita di ridere o di star-
nutire, falsasse la nostra gravitazione. Che intervenga il minimo
giuoco nella ragione umana, ed essa è perduta. Ogni uomo non
dev'essere che una sentinella alle sue porte. Voi forse tradite apren-
do, cedendo alla spinta del primo venuto.
ISABELLA - Uno solo ha forzato, ma dei miliardi spingevano.
IL CONTROLLORE - Appunto, dci miliardi possono tener dietro.
ISABELLA - E che male ci sarebbe? Non insistete, caro Signor Control-
lore. Voi avete chiesto il mio parere sull'uomo che vorrà, un gior-
no, a prendermi nelle sue braccia. Ve l'ho detto. Se è per sottrarmi
a tutto quello che mi chiama, per chiudere le mie parole con la sua
bocca, i miei sguardi con i suoi occhi, se è per aiutare tutte quelle
altre coppie, delle quali non si vede che il dorso, a formare il mi-
serabile blocco umano, che allora egli non si avvicini. Se voi lo
conoscete, avvertitelo. Io rivedrò lo spettro. Bisogna scegliere... Ad-
dio: egli mi aspetta!
IL ooNTROLLORE - Vi asf)etta? Vi supplico. Signorina Isabella! In ogni
caso, evitate d'incontrarlo oggi.
ISABELLA - Vado.
IL CONTROLLORE - Vi scongiuro. Per il bene suo, non andate. L'Ispet-
tore vi tende un agguato. Non cercatelo oggi.
ISABELLA - Lo rivedrò, e oggi stesso e in questo stesso istante. E vi
prego di allontanarvi, caro Signor Controllore, perché si avvicina
l'ora.
IL CONTROLLORE - Ebbene, io resto. Lo vedrò anch'io.
ISABELLA - Ne dubito. Egli mi darebbe una grande delusione se si ren-
desse visibile ad altri.
IL CONTROLLORE - lo lo vcdrò, lo toccherò, vi darò una prova della sua
mistificazione.
ISABELLA - Voi non lo vedrete mai.
IL CONTROLLORE - Perché?
ISABELLA - Perché? Perché è già qui.
IL CONTROLLORE - DoVC, qui?
ISABELLA - Qui, vicino a noi. Ci guarda sorridendo..
INTERMEZZO
283
IL CONTROLLORE - Noii Scherzate. Il momento e serio. L'Ispettore sta
appostando degli uomini armati per prenderlo vivo o morto.
ISABELLA - Uno Spettro vivo o morto, è abbastanza divertente... Ah!
ecco la luna. Ed è l'autentica, Signor Controllore, come potete ve-
dere da tutti quei punzoni! (esce)
SCENA QUARTA
IL CONTROLLORE, l'iSPETTORE, IL SINDACO, LO SPEZIALE, pOÌ 1 BOIA
l'ispettore - Ebbene, caro Controllore? Dalla vostra faccia non si di-
rebbe che la vostra impresa abbia avuto successo.
IL CONTROLLORE - Avrò pili fortuna domani.
l'ispettore - Già, domani! Per oggi fatemi il piacere di raccogliere le
vostre scolare che errano nella foresta e che rischiano di smarrirsi
con la notte.
(// Controllore esce)
l'ispettore {fa segno ai due boia che sono dietro le quinte) - A noi
due, giovanotti. Tu, tu pretendi di essere l'antico boia?
IL primo boia - Lo sono.
l'ispettore - Allora quest'altro che cos'è?
IL secondo boia - Io? Sono io l'antico boia!
l'ispettore - Uno di voi due mente. Uno di voi due è un impostore
che vuole incassare il premio di cinquecento franchi.
(/ due protestano contemporaneamente)
I documenti! Ah, ecco il falso. I tuoi documenti ti tradiscono. Tu
sei l'antico fagotto del Casinò d'Enghien.
il primo boia - Potete bene immaginare che la Polizia non mette la
vera professione sulle nostre carte. Per evitarci delle noie, indica
una professione inoffensiva, per lo piiS nel campo della musica.
IL secondo boia - Esatto. Io sono dichiarato come piccolo flauto.
l'ispettore - Fatemi vedere quel che avete nelle tasche... Signor Sin-
daco, cerchiamo in questi indizi il vero boia.
il sindaco - Questo ha un cavatappi regalo, una vecchia conchiglia di
San Giacomo e due stuzzicadenti.
l'ispettore - Normale.
il sindaco - Quest'altro ha un pezzo di matita copiativa, due confetti
e un pettinino da donna.
284 JEAN GIRAUDOUX
l'ispettore - È press'a poco quello che si trova nelle perquisizioni im-
provvise.
IL SINDACO - Mi sembra tuttavia che non dovrebbe essere difficile distin-
guere un boia da un pacifico cittadino.
l'ispettore - Provate voi.
LO SPEZIALE - Pare che il pelo dei cani si rizzi davanti ad un boia.
Cerchiamo qualche cane pastore.
IL CONTROLLORE - Non abbiamo tempo. Fate piuttosto delle domande
sul loro mestiere. Gli esami sono la vostra specialità.
l'ispettore - E sia, preferisco Tcsame dei boia a quello delle ragaz-
zine. Tu, di che legno è fatta la ghigliottina?
IL PRIMO BOIA - Del legno della croce cristiana, di quercia, eccetto il
quadrato della scanalatura...
IL SECONDO BOIA - Che è fatta del legno della croce indiana, di legno
di teck...
l'ispettore - Tu, che cosa disse la Dubarry salendo sul patibolo?
IL PRIMO BOIA - Disse: «Ancora un momentino. Signor boia, ancora
un momentino... ».
l'ispettore - E te adesso! Chi disse al boia: «Fa' attenzione alla mia
barba, boia. Voglio che resti intatta, che io sono condannato ad
avere la testa tagliata e non la barba ».
IL SECONDO BOIA - Tommaso Moro o Morus, Tanno 1535.
l'ispettore - Non riuscirò a pizzicarli! Tu, che cos'è il decreto del
gennaio 1847?
il primo boia - è il decreto Dunoyer de Segonzac con il quale si ricor-
da ai condannati a morte che un'esecuzione è un avvenimento serio.
IL SECONDO BOIA - E chc proibisce di ridere o scherzare sul palco per
provocare l'allegria del pubblico.
l'ispettore - Tu, qual è la canzone (Jel boia?
IL PRIMO boia - Quale? Quella del boia damerino?
IL SECONDO BOIA - Quella della donna boia?
l'ispettore - Quella del boia damerino. Tu la sai?
IL primo BOIA - Canzone del boia damerino
Sulla piazza del mercato
Quando manovro la ghigliottina
Un'aurora fior di pesco
Mi unge di brillantina.
IL SECONDO BOIA -
Niente Houbigant, niente Guerlain
Qualche condannato senza brio
Direbbe che gli do alla testa.
INTERMEZZO 285
IL PRIMO BOIA -
Ma che l'Aurora fior di pesco
IL SECONDO BOIA -
Tinga di rosa le mie mani
IL PRIMO BOIA -
Maria Stuarda me Tha rimproverato
IL SECONDO BOIA -
E non Ravachol lo scellerato.
l'ispettore - Al diavolo l'esame. Giacche vi ostinate a essere in due,
vi dividerete il compenso. Va bene? (apffrovazioni) Avete le armi?
(affermazioni) Delle pistole? Benissimo. Preparatele e nascondetevi
dietro il boschetto.
il primo boia - Non ci sarà da aspettar molto? Se veglio, dopo mezza-
notte, io vomito.
l'ispettore - Tutto sarà finito fra un quarto d'ora... Da questa strada
sta per venire una ragazza...
il secondo foia - Salute al solo vero boia, all'amore!
l'ispettore - Di fronte al boschetto si vedrà apparire immediatamente
un giovanotto...
IL primo boia - Salute al solo vero condannato, all'amante!
l'ispettore - Lasciateli parlare cinque minuti. Poi stabilite un segnale
per far fuoco su di lui. È un assassino pericoloso. Il governo ve ne
dà l'autorizzazione.
il secondo boia ' Sarà quando, per esempio, pronuncerà la frase: Obe-
lisco e Piramide?
l'ispettore - Perché?
IL secondo boia - Sono parole che si sentono bene. Con il mio aiutante,
per i nostri segnali, erano quelle le parole convenute.
l'ispettore - È possibile ch'egli non abbia nessuna ragione di pronun-
ciare per degli anni le parole Obelisco e Piramide. Ma c'è una pa-
rola che piace a questo genere di personaggi e che torna spesso
nella loro conversazione.
IL sindaco - Quale?
l'ispettore - La parola: vivo!
IL PRIMO BOIA - Inteso, appena pronuncerà la parola vivo.
IL secondo boia - Vivo!
LO speziale - Metteteli in guardia, Signor Ispettore.
l'ispettore - Ho infatti da mettervi in guardia. Con un'ultima do-
manda. Chi fu Axel Petersen, amici miei?
il primo boia - Fu il boia macellaio di Goteborg.
il secondo boia - Che ghigliottinò né più né meno che uno spettro.
286 JEAN GIRAUDOUX
l'ispettore - Adesso siete avvertiti... Non perdiamo tempo. Andiamo
alla ricerca di Isabella che ci porterà certamente a lui. {risa dello
Speziale) Quanto a voi, Speziale, al lavoro anche voi.
LO SPEZIALE - Che posso fare per voi?
l'ispettore - Se è vero che in questo basso mondo la vostra specialità
consiste nel cambiar con una frase o con un gesto il diapason del-
l'atmosfera e nel rendere naturali gli avvenimenti meno previsti, al
lavoro! Voi potete attaccare un buon bemolle o un buon diesis!
LO speziale - Contate su di me.
(l'Ispettore e i boia escono)
SCENA QUINTA
il sindacx), lo speziale
il sindaco - Voi sorridete in un momento simile, Speziale?
LO speziale - Sorrido perche in questo momento li ho ritrovati.
il sindaco - Che avete ritrovato?
LO speziale - I miei diapason. Guardateli. Questo modello nel quale
si sofiSa — non soffiate ancora, amico mio — e che si direbbe il
flauto di Pan, il vero, quello di una nota unica, io lo preferisco
a quest'altro in metallo che non rassomiglia che alla lira e alla ca-
lamita. Non prendetelo cosi, caro amico, voi lo tenete come un
ferro da ricci.
IL sindaco - Ciò mi stupisce. Non ho mai tenuto un ferro da ricci. È
in giuoco la vita di un uomo e voi scherzate, Speziale.
LO SPEZIALE - Credevo di averli perduti e li avevo con me. Se per caso
due monete da un soldo si fossero smarrite nella fodera della mia
tasca, avrei tintinnato come una mula con i suoi sonagli, mentre
tutta la musica del mondo vi si nascondeva in silenzio. Eccoci salvi!
IL SINDACO - Voi contate su questi diapason per salvare Isabella?
LO SPEZIALE - Mio caro Sindaco, credete che sia veramente necessario
proteggere Isabella? La rabbia dell'Ispettore contro di lei non vi
ricorda nulla?
IL SINDACO - Si, quella degli insetti da preda in prigionia che vogliono
divorarsi attraverso una parete di vetro.
LO SPEZIALE - L'avete detto. Tutti e due si muovono in mondi troppo
diversi perché l'uno possa nuocere all'altro. Non sono separati sol-
INTERMEZZO 287
tanto da un vetro. Essi vivono in due registri della vita del tutto
differenti, dove quello che è spettrale per Tuna è carne per l'altro,
e viceversa. L'unico pericolo è che, con la sua agitazione irragio-
nevole e con la sua voce stonata, l'Ispettore abbia lasciato qui ab-
bastanza dissonanze per turbare, quando essa arriverà, l'atmosfera
d'Isabella. Bisogna evitare che tutta questa natura, donde lei trac
la verità intima, suoni improvvisamente falso sotto le sue dita. Ma
il pericolo non è tanto grande.
IL SINDACO - Vi capisco; basta un accordatore.
LO SPEZIALE - Non vi preoccupate di ciò. Piace assai alla natura che
proprio da questo essere che, parlando e camminando dà ordina-
riamente un suono cosi falso — dall'uomo — parta l'armonia su-
prema.
IL SINDACO - Credete davvero che io possa andare senza che Isabella
corra alcun rischio?
LO SPEZIALE - Il mio diapason ve ne dà la garanzia.
IL SINDACO - Ad ogni modo, starò a sorvegliarli.
(esce)
LO SPEZIALE {solo) - Sopra una nota giusta l'uomo è più sicuro che su
una nave da guerra.
{lo Speziale soffia nel diapason. La natura si accorda sulla sua nota e
risuona tutta intera mentre egli si allontana)
SCENA SESTA
LO SPETTRO, ISABELLA
LO SPETTRO - Mi aspettavate?
ISABELLA - Non avete da scusarvi. Anch'io, se fossi spettro, indugerei
in questo crepuscolo e in questi valloni dove finora non ho potuto
portare che un corpo opaco. Cespugli, ruscelli, mi sentirei tratte-
nuta da tutto quello che non mi fermerebbe più. Non sarei ancora
qui se potessi, come voi, avviluppare con la mia ombra quello che
posso soltanto toccare o vedere, se, secondo i miei umori, potessi
darmi per scheletro un uccello immobile sul ramo, o un bambino
o, di sbieco, una pianta di rosa canina con tutti i suoi fiori. Conte-
nere è il solo modo di avvicinare... Ma il rimprovero che vi faccio
288 JEAN GIRAUDOUX
è di essere tornato anche questa sera solo, sempre solo. Nessuno dei
vostri ha potuto ancora essere toccato da voi, unirsi a voi?
LO SPETTRO - Nessuno.
ISABELLA - Ieri, dopo tutti i nostri tentativi falliti, abbiamo pensato che
il mezzo più efficace per attirare la loro attenzione, per commuo-
verli, per svegliare quelli che possono essere i nervi di un'ombra,
di una nebbia, dovesse essere un grido lungo, un lungo lamento
uniforme, ripetuto a lungo: come il grido, vero o sognato, di una
locomotiva che talvolta ci sveglia all'alba fra i vivi. Oppure il grido
della sirena dei battelli che di notte, negli estuari, colpisce iìnanco
le molli meduse. Questo grido l'avete voi lanciato? Avete passato
tutta la vostra veglia a lanciarlo?
LO SPETTRO - Si.
ISABELLA - Voi stesso? Solo? E alla vostra voce non si sono unite a
poco a poco migliaia di eguali lamenti?...
LO SPETTRO - Mi sono urtato contro il sonno dei morti.
ISABELLA - Essi dormono?
LO SPETTRO - È, il loro, un dormire? Il più delle volte, nel luogo do-
v'essi si ammucchiano, regna un fremito. Li prende un'agitazione
cosi intensa che talvolta potrebbe nascerne un riflesso o un suono.
I nuovi arrivati, in quei momenti, cadono in una specie di felice
vibrazione nella quale si placa l'ultimo riflusso della loro vita. Li
culla per sempre il dolce movimento della terra. Ma talvolta, inve-
ce, tutta la loro massa si condensa come un blocco di ghiaccio, è
vinta da un letargo invernale nel quale gli arrivati, morti sulla terra,
affondano con la fioca luce che resta del sonno dei vivi, che e splen-
dore e sole.
ISABELLA - Ed erano cosi, ieri? E ciò durerà a lungo?
LO SPETTRO - Dei secoli... dei secondi...
ISABELLA - E non c'è da sperare nessun soccorso?
LO SPETTRO - Da loro non credo...
ISABELLA - Non dite COSI. Fra coloro che la morte ha preso attorno a
me, ve ne furono di quelli che fin dal primo momento sentii scom-
parsi per sempre, cancellati ormai da ogni specie di vita e di morte.
Li ho lasciati cadere come una pietra nel nulla. Ma vi furono altri
che diedi alla morte come ad una missione, a un tentativo, e la cui
morte m'è sembrata invece un accesso di fiducia. Attorno al cimi-
tero vagava l'atmosfera del viaggio e del continente sconosciuto.
Non si era tentati a dir loro addio con delle parole ma con dei
gesti. Per tutto il pomeriggio li sentivo occupati a scoprire un nuo-
vo clima, una nuova flora. Se c'era il sole li vedevo laggiù inon-
INTERMEZZO 289
dati improvvisamente dal nuovo sole. Se pioveva, su di loro cade-
vano le prime gocce della pioggia infernale. Non vorrete farmi
credere che, una volta arrivati, anche quelli dimenticano e deca-
dono?
LO SPETTRO - Quelli non sono arrivati, io non li ho visti.
ISABELLA - Ma voi, voi rinunciate? Basta alle vostre aspirazioni, ai
vostri desideri errare da spettro sopra una cittadina?
LO SPETTRO - Essi hanno talvolta i loro sonnambuli. Certamente io ne
sono uno.
ISABELLA - Non lo Credete. Sono io che vi ho attirato, preso in trappola.
LO SPETTRO - Che trappola?
ISABELLA - Posseggo una trappola per attirare i morti.
LO SPETTRO - Siete una maga?
ISABELLA - La mia magia è del tutto naturale. Quando immaginavo
quel che possono pensare i morti, non davo loro dei ricordi, delle
visioni, ma soltanto la coscienza del luccichio, dei frammenti di
luci posate sull'angolo di un caminetto, sul naso di un gatto, sopra
una foglia di aro, dei minuscoli relitti colorati che galleggiavano
sul loro diluvio...
LO SPETTRO - E allora?
ISABELLA - Allora, la mia camera è in apparenza una camera per vivi,
per una piccola viva provinciale, ma se si osserva bene, ci si accorge
che tutto è calcolato affinché questa impronta di luce su degli og-
getti familiari, sul ventre di un vaso giapponese, sul pomello di un
cassetto sia costantemente mantenuta, di giorno con il sole o con il
fuoco, di notte con la lampada o la luna. In questo consiste la mia
trappola, ed io non mi sono stupita la sera in cui vidi il vostro volto
alla mia finestra. Voi guardavate il riflesso della fiamma sul para-
scintille, la luna sulla tartaruga della sveglia, voi guardavate il dia-
mante delle ombre: voi eravate preso.
LO SPETTRO - Io ero preso.
ISABELLA - Adesso si tratta solo di sapere quel che vi ha trattenuto.
LO SPETTRO - Quel chc mi ha trattenuto? La vostra voce, anzitutto, il
chiacchierio della vostra voce, grazie al quale ogni sera, nel crepu-
scolo, ce adesso per le ombre quel che per gli uomini corrisponde
all'allodola nel sole. Ma soprattutto questa vostra fiducia cosi gene-
rosa, che non vi ha fatto mai sfiorare dal sospetto che io possa
avervi ingannata, che io sia...
ISABELLA - Che voi siate...
LO SPETTRO - Che io sia vivo!
(si odono due colpi di pistola. Lo Spettro cade a terra)
19. - Teatro francese
290 JEAN GIRAUDOUX
SCENA SETTIMA
ISABELLA, l'ispettore, LO SPEZIALE, IL SINDACO, I BOIA, fH>Ì LO SPETTRO
IL SINDACO - Chi ha tirato? Chi è li a terra?
l'ispettore - Lo vedete: un falso spettro e un vero morto.
LO SPEZIALE - Che avete fatto, sciagurati?
l'ispettore - Dovete ringraziarci. Abbiamo liberato Isabella dalla sua
follia, la città dall'ossessione, la provincia da un delinquente.
LO speziale - Nessuno credeva sul serio allo spettro, Ispettore. Ma che
uomo siete per non aver capito che una ragazza ha il diritto di
alzarsi al disopra della vita cittadina, di concedere un po' di svago
alla sua ragione!
IL sindaco - Venite, mia piccola Isabella. Questo povero giovane ha
pagato a caro prezzo la commedia che vi recitava.
IL PRIMO BOIA - Il suo cuorc non batte più.
l'ispettore - Perfetto. Nulla di più preoccupante, in un morto, di un
cuore che batte.
LO speziale - Com'è bello! Che bel regalo è per Dio un bel cadavere!
Non avete vergogna davanti a lui d'aver visto giusto. Ispettore?...
(s'inginocchia) Perdonate, Isabella. Perdonate, bel cadavere...
l'ispettore - Siete matto? Perdonare che cosa?
LO speziale - Che la volgarità indovini sempre giusto, che soltanto i
miopi vedano chiaro, che esistano dei cadaveri e non degli spettri.
{di fronte al bota, identico al corpo steso a terra, si leva uno spettro.
Tutti i presenti lo scorgono, uno dopo l'altro. Isabella e il Sindaco
si fermano. Soltanto lo Speziale, che è chinato, non vede nulla)
LO speziale - ...che il mondo non sia degno di voi e che non offra con
larghezza che la sua crudeltà e la sua stupidaggine: che l'Ispettore
abbia ragione.
[lo Spettro è al suo apogeo)
UN BOIA - Signor Ispettore...
l'ispettore - Speziale, ho le traveggole? Non c'è nessuno davanti a
noi?
{lo Speziale alza la testa)
LO SPEZIALE - Si.
IL SINDACO - Si.
INTERMEZZO 291
l'ispettore - Un giovane abete, senza dubbio, mosso dal vento e alte-
rato dalla nostra emozione.
IL SINDACO - No. Lui.
I BOIA {insieme) - Viene avanti.
l'ispettore - Calma, ragazzi. È un fenomeno molto frequente. È il
miraggio. È semplicemente il miraggio. Speziale, lo vedete normale
o con i piedi in aria?
LO speziale - Con la fronte alta.
l'ispettore - Allora è un alone. È il ben noto alone di Chevreul *. La
sua composizione è più fluida dell'acqua. Il minimo gesto basta per
dissolverlo.
(gesticola. Lo Spettro non scompare)
l'ispettore - Questa ragazza insensata può essere soddisfatta. L'allu-
cinazione collettiva ha preso fìnanco i funzionari distrettuali.
LO spettro - A domani, Isabella!
l'ispettore - Ed è accompagnata da follia auditiva. Che cosa racconta,
con il suo bicchiere di sangue?
IL primo boia - Non parla di sangue. Parla di ghigliottina.
LO SPETTRO - A domani, da te, alle sei. Verrò. Con loro, con tutti loro...
l'ispettore - Un'embolia! Da dove sa che avrò un'embolia?
IL SECONDO BOIA - Ed io un'amputaziouc?
l'ispettore - Mi volete accompagnare, Signor Sindaco?
IL sindaco - Andiamo, Isabella. Cade la notte, e tutto è finito!
{escono tutti)
LO spettro - Si, domani, tutto comincia.
SCENA OTTAVA
LO SPEZIALE, IL CONTROLLORE, LE BAMBINE
(si vede a tratti lo Spettro, lo Speziale si prepara ad andare quando si
odono le voci delle bambine che entrano, accompagnate dal Con-
trollore)
IL CONTROLLORE - Manca Luce, naturalmente. Luce!
LE BAMBINE - Luce! Luce!
(arriva Luce)
^ Chimico francese famoso per i suoi studi sugli acidi e sui corpi grassi.
292 JEAN GIltAUDOUX
IL CONTROLLORE - Pcrché ti sci fermata?
LUCE - Perché cercavo lucciole con la mia lampadina elettrica.
IL CONTROLLORE - Tu menti. Il solo modo di non vedere la luce delle
lucciole è di illuminarle.
LUCE - Perché avevo perduto una giarrettiera.
IL CONTROLLORE - Guarda la tua fionda. La ritroverai.
LUCE - Perché...
IL CONTROLLORE - Perché che cosa ancora? Come, caro Speziale, mi
aspettavate?
LO SPEZIALE - Vi aspettavo.
IL CONTROLLORE - Per darmi qualche brutta notizia? Abbiamo sentito
un colpo di pistola.
LO SPEZIALE - Per dirvi che la vostra ora è vicina.
IL CONTROLLORE - Qualc delle mie ore? Ne ho di ogni specie.
LO SPEZIALE - L ora in cui potrete combattere il vostro rivale davanti
a colei che voi amate.
IL CONTROLLORE - Amo qualcuno?
LE BAMBINE - La Signorina Isabella! La Signorina Isabella!
IL CONTROLLORE - E ho un rivale?
LE BAMBINE - Lo Spettro! Lo spettro!
{lo Spettro è ricomparso alle loro spalle)
LO SPEZIALE - Andate avanti, ragazze mie... {prendendo il braccio del
Controllore ed avviandosi con lui) Ascoltatemi bene, mio caro Con-
trollore. Io credo che voi esageriate le complicazioni di tutto que-
st'intrigo. Quel che accade qui accade ogni giorno in uno dei tren-
tottomila comuni della Francia... Voi sapete che cos*è una ragazza?...
IL CONTROLLORE - lo SO, SI, scnza sapcrc...
{escono discorrendo. Sulla scena resta soltanto Luce)
LUCE {terminando lentamente la sua frase) - Perché mi piace restare
sola la sera nelle foreste.
LA VOCE DEL CONTROLLORE - LuCc!
LUCE - Ho perduto il berretto.
{lanciando il berretto in aria, scorge lo Spettro. Si diverte a imitarne
l'ondeggiamento, le braccia cadenti, le gambe molli)
LA VOCE DEL CONTROLLORE - L'hai trovato, il tuo berretto?
{Luce lancia in alto il berretto, lo prende d volo)
LUCE - L'ho trovato! L'ho trovato!
{fa marameo dio Spettro ed esce)
INTERMEZZO 293
ATTO TERZO
La camera d'Isabella, Un balcone che lascia vedere la piazza, sulla quale dà
anche una porta chiusa. La filarmonica prova in una sala vicina durante tutto
Vasto.
SCENA PRIMA
IL SINDACO, L ISPETTORE, LE BAMBINE
{si apre una porta del fondo. L'Ispettore, il Sindaco, le bambine en-
trano, gli uni dopo gli altri, in punta di piedi)
IL siNDAcx) - Ma è un'effrazione!
l'ispettore - Non vi pare che, alla nostra età, solo per effrazione si
può penetrare nella camera o nel cuore di una ragazza? Che ora è?
il sindaco.- Le cinque e mezzo, al sole.
l'ispettore - Dubito che gli spettri prendano l'ora dal sole.
IL sindaco - Se la prendono all'Osservatorio, sono le cinque e tren-
totto.
l'ispettore - Ci restano allora ventidue minuti, dato che ha annunzia-
to la sua visita per le sei. Abbiamo tutto il tempo per organizzare
la nostra trincea.
IL SINDACO - Anche le trincee, adesso?
l'ispettore - Non vi rendete forse conto, mio caro Sindaco, che abbia-
mo l'onore, in questo momento d'angoscia in cui un'invasione di
carattere tutto speciale minaccia la città, di occupare le trincee più
vicine a quelle del nostro nemico?
IL SINDACO - Alle tombe?
l'ispettore - Bisogna pure cedere davanti all'evidenza. Ieri, dopo che
siamo venuti via, Cambronne e Crapuce hanno cercato invano il
corpo. Non hanno trovato che un cerchio d'erba bruciata a raso di
terra. Allucinazione o spettro, l'azione continua oggi.
IL SINDACO - Ma che dirà Isabella quando ci troverà qui?
l'ispettore - Isabella non ci troverà qui. Ho fatto ritardare di un'ora
l'orologio sul quale si regola la città. Del resto Gilberta si apposterà
nel vano della finestra per dare l'allarme appena si vedrà qualcuno.
GILBERTA - Vedo le Signorine Mangcbois.
l'ispettore - Annunzia tutto, salvo le Signorine Mangebois. Tu avre-
sti troppo da fare. Tu puoi segnalare anche gli animali. Tutto è
sospetto oggi.
294 JEAN GIRAUDOUX
GiLBERTA - Vcdo il bassotto del farmacista.
l'ispettore (sedendosi) - Quel che ti ho detto per le Signorine Man-
geboìs vale anche per il bassotto del farmacista... Mio caro Sindaco,
ho sempre deplorato che, accanto all'esorcismo religioso, il nostro
illuminato secolo non abbia ancora istituito una specie di benedi'
zione laica che interdica alla superstizione il locale che fosse una
volta consacrato. È ad una cerimonia del genere che assisterete, ed
io ho composto stamane il testo di uno scongiuro che adesso vi
leggerò.
GILBERTA - Debbo annunziare anche gli alberi?
l'ispettore - Gli alberi non camminano, merla.
GILBERTA [retrocedendo a poco a poco) - È perché credevo... Ma! È
perche credevo... Ma... Ma...
l'ispettore - Viola, sostituisci Gilberta. È nervosa.
il SINDACO - Non c'è da meravigliarsi.
l'ispettore - Lo sareste anche voi, Signor Sindaco?
IL SINDACO - Lo sono, Signor Ispettore. Tanto più che voi mi fate man-
care al sorteggio della nostra lotterìa mensile che ha luogo in que-
sto momento nella sede municipale ed al quale finora ho sempre
presieduto.
l'ispettore - Non vi occupate della lotteria. La sorte vi riserverà le
sorprese delle altre volte. Rendetemi conto piuttosto dell'inchiesta
che vi ho incaricato di fare presso i vostri concittadini. Non siamo
noi i loro rappresentanti, qui? Non avete il loro mandato?
IL sindaco - Lo abbiamo.
l'ispettore - Avete spiegato loro il pericolo che li minacciava per colpa
di Isabella? Avete chiesto loro quel che pensavano nel vedere al
seguito di questo spettro — e come l'ha annunziato lui stesso ieri
sera — tutti i loro defunti di ogni età ritornare, vivere con loro e
non lasciarli più?
IL SINDACO - Alla borghesia soltanto, compresi i funzionari.
l'ispettore - Naturalmente. La risposta dei settori alimentazione e
edilizia era nota in anticipo. Che cosa ha detto il presidente del
Tribunale?
IL sindaco - Che già non può soffrire la radio.
l'ispettore - Il notaio?
IL sindaco - Che conosceva già abbastanza morti per averli conosciuti
da vivi. Che non erano tanto raccomandabili.
l'ispettore - Il comandante dei pompieri?
IL sindaco - Che si cominciava appena adesso a star tranquilli, dopo la
guerra...
INTERMEZZO 295
l'ispettore - L'archivista municipale?
IL SINDACO - Nutre dei timori per la verità ch'egli ha cos{ faticosamente
strappata ai suoi archivi. I morti gli imbroglieranno tutto con la
loro cattiva memoria o con le loro menzogne.
l'ispettore - Insomma, l'unanimità contro di loro. Non mi resta ormai
che conoscere il vostro parere, Signor Sindaco.
IL SINDACO - Signor Ispettore, la mia sola passione è di collezionare
maioliche provenzali con soggetti licenziosi e francobolli non den-
tellati delle Antille. Io dedico le mie veglie a questa occupazione
e non mi vedo intento a classificare le mie Veneri di terra squamata
o a preparare la colla sotto gli sguardi congiunti dei miei ascen-
denti fino ad Eva. Sotto gli occhi dei Merovingi, per esempio, è
vero, Daisy? Avrei l'aria di un perfetto imbecille.
l'ispettore - Troppo giusto. Bisogna che ci siano i vivi per apprez-
zare la gravità delle occupazioni dei vivi...
il SINDACO - Naturalmente, nelle Antille io comprendo le isole Baha-
ma...
VIOLA - Ecco le case. Signor Ispettore!
l'ispettore - Le case non camminano, idiota.
VIOLA - È perche credevo... Ma... Perché credevo... Ma...
l'ispettore - Daisy, sostituisci Viola; e venite in circolo nel centro
della stanza, ragazze mie! Sapete che dovete ripetere con me l'ul-
tima parola di ogni frase importante.
LE BAMBINE - Importante!
l'ispettore - Non ancora... Adesso comincio, (si mette in mezzo alle
bambine e legge la sua invocazione) Si, sono io. Superstizione. Chi
io? Io l'Umanità.
le bambine - L'Umanità.
l'ispettore - Che cos'è l'umanità? Sono qui appunto per dirvelo: e
questa sola rivelazione sbarrerà la strada a voi ed ai vostri... L'uma-
nità è... è un'impresa sovrumana.
LE bambine - Sovrumana!
l'ispettore - Che ha per oggetto di isolare l'uomo dalla torba che è
il Cosmo...
LE bambine - Il Cosmo!
l'ispettore - Merce due forze invincibili che si chiamano Amministra-
zione e Istruzione obbligatoria.
le bambine - Obbligatoria.
l'ispettore - L'Amministrazione isola il suo corpo sottraendolo a tutti
i luoghi troppo carichi di virtù primitive... Bisogna vederla, aiu-
tata dai consigli municipali e dal genio militare...
296 JEAN GIRAUDOUX
LE BAMBINE - Dal gcnio militare...
l'ispettore - Occupata a frazionare i parchi, a demolire i chiostri, ad
erigere edicole di ardesia e di maiolica ai piedi di ogni cattedrale
o di ogni monumento storico, a fare delle fogne le vere arterie
della civiltà, a combattere l'ombra sotto ogni forma e soprattutto
sotto quella degli alberi. Chi non Tha vista abbattere le file dei
platani centenari sui lati delle strade nazionali non ha visto nulla!
LE BAMBINE - Non ha visto nulla!
l'ispettore [continuando a recitare) - E l'Istruzione obbligatoria isola
la sua anima, e ogni volta che l'Umanità si libera di una delle sue
pelli artificiali, essa le accorda, come premio, una scoperta perfet-
tamente corrispondente. L'Umanità ha cessato al diciottesimo se-
colo di credere al fuoco ed allo zolfo dell'Inferno e in dieci anni
essa ha scoperto il vapore e il gas...
LE BAMBINE - Il gaS.
l'ispettore - Ha cessato di credere agli spiriti, e nella decade seguente
ha inventato l'elettricità...
le bambine - Cita!
l'ispettore - Alla parola divina, e ha inventato il tele...
LE bambine - ...fono!
l'ispettore - Ch'essa cessi di credere allo stesso principio divino, e
all'Istruzione Obbligatoria succederà naturalissimamente la Luce
obbligatoria, che spazzerà dalla terra il sogno e l'inconscio, renderà
i mari trasparenti fino in fondo alle Curili, renderà la parola delle
ragazze finalmente sensata, e la notte. Signor Spettro, simile al sole.
l'ispettore e le bambine - Al sole!
DAisY - Eccolo, Signor Ispettore.
l'ispettore - Ecco chi?
DAisY - Lo Spettro!
l'ispettore - Che cosa dice? Che cosa chiami tu spettro, piccola idiota?
DAISY - Viene da questa parte.
l'ispettore - Troverà con chi parlare: dev'essere qualche complice
d'Isabella che mi prende per un imbecille!
LE bambine (in coro, molto serie) - Un imbecille!
(rispettore esce in fretta)
il sindaco - Andiamo, ragazze mie, andiamo.
DAISY - È una burla, Signor Sindaco. È la Signorina Isabella che entra
con lo Speziale dal portone...
IL SINDACO - Una ragione di piò!
{tutti escono dalla porta che dà sulla piazza)
INTERMEZZO 297
SCENA SECONDA
ISABELLA, LO SPEZIALE
ISABELLA - Grazie, caro Speziale, mercé vostra arrivo a tempo. Ma era
proprio necessario arrivare a tempo? Credete davvero ch'egli ri-
torni?
LO SPEZIALE - Verrà, ne sono sicuro.
ISABELLA - Voi restate con me, vero?
LO SPEZIALE - Non voletc riceverlo sola?
ISABELLA - E lui desidera essere ricevuto solo? Da ieri ha creduto op-
portuno rendersi visibile ad altri. Non è più lo spettro di Isabella,
ma lo spettro della città. Voi avete visto tutte le vecchie alle finestre.
Le Signorine Mangebois tengono in permanenza consiglio sul sa-
grato. Tutte le bocche oggi non hanno che un soggetto di conver-
sazione: il nostro segreto. Gli occhi si preparano a vedere un solo
spettacolo: lo spettro. La nostra relazione non aveva senso che nella
sua intimità. Perché dovrebbe tornare?
LO SPEZIALE - Perché ha bisogno di voi.
ISABELLA - Per restare su questa terra?
LO SPEZIALE - No, per sparire da essa.
ISABELLA - Non vi capisco.
LO SPEZIALE - Cara Isabella, non vi sono due specie di dannazioni e
due specie di spettri. Vi sono soltanto quelli, che privati della vita,
non trovano modo di raggiungere i morti. Io mi convinco sempre
più che il vostro amico appartenga a questa specie.
ISABELLA - Tuttavia egli non ha nulla di comune, di volgare. Voi stesso
lo credevate un poeta.
LO SPEZIALE - Proprio per questo, forse. Quella sopravvivenza che è la
morte non è aperta d'uflScio a quelli che parlano bene o pensano
profondo. La gente crede che Tingegno, il genio diano diritto alla
morte. È piuttosto il contrario. Essi sono un*esasperazione della
vita. Essi consumano in quelli che ne sono dotati tutta l'immor-
talità. I poeti sono coloro che si sacrificano per morire interamente,
per assicurare l'esistenza futura alla silenziosa sorella del poeta,
all'umile domestica. Ricordatevi di quello che è venuto il mese
scorso da Parigi a parlarci della sua opera: che eloquenza! Egli
rimava anche nella prosa senza volerlo come un cavallo che si rag-
298 JEAN GIRAUDOUX
giunge ^; ma tutto ciò era caduco. Salvo un breve momento in cui,
durante il discorso, si distrasse improvvisamente; egli sorrìdeva a
se stesso. Pensava senza dubbio alla sua collezione di bastoni, alla
sua gatta che beveva il latte troppo caldo... Era per lui la sola pos-
sibilità di raggiungere un giorno i morti.
ISABELLA - Ma in che cosa potrei guidarlo, io, una ragazza?
LO SPEZIALE - Conoscete voi avventure di spettro senza ragazze? È ap-
punto, la loro, l'età che conduce naturalmente alla morte. Solo le
ragazze pensano ad essa senza diminuirla o senza amplificarla. Sol-
tanto loro l'avvicinano, non nel pensiero o in teoria, ma fisicamente,
con il loro vestito o con la loro carne. Vi sono in voi dei passi che
menano alla morte e che voi intrecciate nelle vostre stesse danze.
Esistono nelle vostre più allegre conversazioni delle frasi del voca-
bolario infernale. Un giorno, davanti a lui, il caso vi farà dire la
parola che gli aprirà la porta del sotterraneo: a meno che non ve
lo spingiate con uno di quegli slanci o di quegli abbandoni che
conducono i vivi alla passione o all'entusiasmo. Credetemi, egli non
è lontano... Addio.
ISABELLA - Restate, vi supplico. Non c'è vista per me che la vostra
presenza non renda più preziosa.
LO SPEZIALE - Se volete... Che ora e?
ISABELLA - È l'ora.
{tutti e due vanno alla finestra. Suona l'orologio. Si bussa un colpo alla
porta. Non si muovono. Un secondo colpo. Soltanto lo Speziale si
volta)
LO SPEZIALE - Ah, è il Controllore! Vi lascio. Isabella.
ISABELLA - Il Controllore?... Si, caro Speziale, a più tardi.
^ Cheval qui jorge^ « cavallo che si raggiunge » o « che si batte » è il cavallo
che galoppando urta i ferri degli zoccoli anteriori con i ferri dei posteriori.
INTERMEZZO 299
SCENA TERZA
ISABELLA, IL CONTROLLORE
{la porta si apre piano ed entra il Controllore, Questi è in tight e in
guanti gidlo canarino. Porta in mano la bombetta e un bastone con
il pomo d'oro)
IL CONTROLLORE - Noii Una paroU, Signorina! Non una parola, ve ne
supplico! Per il momento, io non vi vedo e non vi sento. Non po-
trei sopportare in una volta queste due voluttà; primo: essere nella
camera della Signorina Isabella; secondo: trovarvi la stessa Signo-
rina Isabella. Lasciate che io le goda una dopo l'altra.
ISABELLA - Caro Signor Controllore...
IL CONTROLLORE - Voi uou siete nella vostra camera ed io ci sono. Sono
solo con questi mobili e questi oggetti che mi hanno già fatto tanti
segni attraverso la finestra aperta: questo secrétaire che riprende
qui il suo nome, che rappresenta per me l'essenza del segreto (il
piede destro è rifatto, ma la cassa è intatta), questa stampa di Rous-
seau a Ermenoville (tu hai messo alla pubblica Assistenza i tuoi
figli, o ambiguo Elveta, ma a me tu sorridi), e questo portaliquori
dove l'acqua di cotogna aspetta impazientemente l'ora della dome-
nica che la porterà alle sue labbra... Del vero Baccarat... Della vera
cotogna... Che tutto è vero, da lei, e senza mescolanze.
ISABELLA - Signor Controllore, non so davvero che cosa pensare!
IL CONTROLLORE - Che tutto è vero, da Isabella. Se le teste cattive la
giudicano complicata è appunto perché essa è sincera. Di semplice
non esistono che l'ipocrisia e la routine. Se essa vede i fantasmi è
perché è anche la sola a vedere i vivi. Perché nella nostra provincia
è la sola pura. È il nostro Parsifal.
ISABELLA - Posso dirvi che aspetto qualcuno. Signor Controllore?
IL CONTROLLORE - Ecco, ho fìuito. Volevo soltauto concedermi una volta
nella vita il lusso di dirmi quel che pensavo di Isabella, di dirmelo
ad alta voce. Ci si parla troppo poco ad alta voce. Si ha senza dub-
bio paura di sapere quei che si pensa. Ebbene, adesso io lo so.
ISABELLA - Anch'io, e ne sono commossa.
IL CONTROLLORE - Ah! sicte qui, Signorina Isabella?
ISABELLA - Siamo seri! Si, eccomi qui.
IL CONTROLLORE - Tauto peggio. Signorina, tanto peggio! Bisogna dun-
que che vi parli...
300 JEAN GIRAUDOUX
ISABELLA - Parlarmi di chi?
IL CONTROLLORE - DÌ mc, scmpHcemente di me.
ISABELLA - Vi siete fatto molto bello per parlare di voi, Signor Con-
trollore.
IL CONTROLLORE - Non vi burlate del mio vestito. Esso solo mi sostiene
in questo momento. O piuttosto Tidea di colui, di coloro che do-
vrebbero indossare questo vestito. Si, insomma, coloro che dovreb-
bero essere qui sono appunto i possessori di questi indumenti: mio
nonno al quale apparteneva questo bastone, il mio prozio del quale
vedete la catena d'orologio, e mio padre che giudicò questo tight
ancora troppo nuovo per portarselo nella tomba. Soltanto questa
bombetta è mia. Perciò m'imbarazza, soprattutto moralmente. Per-
mettetemi che la lasci.
ISABELLA - Vostro padre? Vostro nonno? Che cosa vengono a chie-
dermi?
IL CONTROLLORE - Non Ti ndo vinate?... La vostra mano, Signorina Isa-
bella, essi hanno l'onore di chiedere la vostra mano.
ISABELLA - La mia mano?
IL CONTROLLORE - Non mi rispondete. Signorina. Io vi chiedo la mano
e non una risposta. Io vi chiedo di concedermi, rispondendomi sol-
tanto doman l'altro, il giorno piò felice della mia vita, le ventiquat-
tro ore durante le quali io mi dirò che alfine voi sapete tutto, che
non mi avete ancora detto no, che voi siete commossa, malgrado
tutto, di sapere che qualcuno quaggiù non vive che per voi... Qual-
cuno che si chiama Roberto, che mio padre vi avrebbe detto il mio
nome. Questo nome almeno; ed io ne ho altri due meno confessa-
bili. Qualcuno che è coraggioso, lavoratore, onesto, modesto, che
mio nonno non vi avrebbe fatto grazia di nessuna delle mie virtù...
Oppure non rispondetemi mai e lasciatemi fuggire tappandomi le
orecchie.
ISABELLA - No, uo, restate, Signor Roberto... Ma sono cosf sorpresa e
voi capitate in un momento!
IL CONTROLLORE - Ho scelto io questo momento. L'ho scelto perché non
ne sono indegno, perché d'un colpo m'è venuto in mente che, più
fortunato di quello spettro che vi porterà soltanto confusione ed an-
goscia, potevo combatterlo davanti a voi, mostrargli la sua inca-
pacità di aiutarvi, ed offrir\'i poi la sola strada, il solo incammi-
namento normale verso la morte e i morti...
ISABELLA - Come! Ne esistono altri, oltre a quello di andare loro in-
contro?
INTERMEZZO 301
IL CONTROLLORE - Quello di CUI parlo conduce a loro lentamente e pia-
no, ma sicuramente. Esso ci porta...
ISABELLA - £ qual è?
IL CONTROLLORE - La vita.
ISABELLA - La vita con voi.^
IL CONTROLLORE - Con me? Non parliamo di me, Signorina... Io c'en-
tro ben poco. No... È la vita con un funzionario. Che quel che
conta, in quest'affare, è il mio mestiere. Mi capite?
ISABELLA - S(, vi capisco. Voi volctc dire che soltanto il funzionario
può guardare la morte in faccia, da compagno; ch'egli non è come
il banchiere, il negoziante, il filosofo; ch'egli non ha fatto nulla per
sottrarsi ad essa o per mascherarla?
IL CONTROLLORE - EsattO.
ISABELLA - La contraddizione fra la vita e la morte è creata dall'agita-
zione umana. Ora, il funzionario ha lavorato, ma appunto senza
agitazione...
IL CONTROLLORE - Si, scnza troppo grave eccesso.
ISABELLA - Egli ha vissuto, ma senza sfruttamento forsennato della sua
personalità.
IL CONTROLLORE - Troppo forsennato, no.
ISABELLA - E ha disprezzato le ricchezze, perché il suo stipendio gli
arriva senza attesa, senza particolare sforzo, come se degli alberi gli
dessero frutti mensili in monete d'oro.
IL CONTROLLORE - Proprio così, frutti mensili, se non monete d'oro. E
se non ha avuto il lusso, egli si è purificato in tutto quello che il
mestiere comporta d'immaginazione.
ISABELLA - D'immaginazione? Vi confesso che su questo punto avevo
dei dubbi. Su questo punto la vita con un funzionario mi sgomen-
tava un po'. Il mestiere di un Controllore di Pesi e Misure richiede
molta immaginazione?
IL CONTROLLORE - Potctc dubitarne?
ISABELLA - Datemi qualche esempio.
IL CONTROLLORE - Mille, sc volctc. Ogni sera, quando il sole tramonta
ed io rientro dal mio giro, mi basta vestire il paesaggio con il vo-
cabolario dei controllori del medio evo, misurare le strade in leghe,
gli alberi in piedi, i prati in arpenti, financo le lucciole in pollici,
ed ecco che i fumi e le nebbie che salgono dalle torri e dalle case
fanno della nostra città una di quelle borgate saccheggiate durante
le guerre di religione, mentre io mi sento l'anima di un raitro o
di un lanzichenecco.
ISABELLA - Ah! Capisco!
302 JEAN GIRAUDOUX
IL CONTROLLORE - E il ciclo stcsso, Signorina, la stessa volta celeste...
ISABELLA - Lasciate che finisca io: basta che voi applichiate a questo
cielo, a questa volta, la nomenclatura greca o moderna, che voi cal-
coliate in dracme o in tonnellate il peso degli astri, in stadi o in
metri la loro corsa, perché esse divengano, a vostra volontà, il fir-
mamento di Pericle o quello di Pasteur.
IL CONTROLLORE - Ed è cosf che il lirismo di un funzionario non è egua-
gliato che dal proprio imprevisto.
ISABELLA - Per rimprcvisto vi confesso che non vedo troppo chiaro. E
mi spiace, che l'imprevisto è la cosa che adoro più di ogni altra.
Nella vostra vita esiste l'imprevisto?
IL CONTROLLORE - Un imprevisto di una qualità rara, discreta, ma com-
movente. Pensate, Signorina, che noi cambiamo residenza press'a
poco ogni tre anni...
ISABELLA - Appunto, son lunghi, tre anni.
IL CONTROLLORE - Ma ecco dove interviene l'imprevisto: fin dall'inizio
di questi tre anni, la previdente Amministrazione ci ha dato il
nome delle due città fra le quali sceglierà il nostro futuro posto...
ISABELLA - Sapete già in quale città andrete quando ci lascerete?
IL CONTROLLORE - So e nou SO. So soltanto che andrò a Gap o a Bres-
suire. Una mi sfuggirà, ahimé, ma avrò l'altra! Capite la delica-
tezza e la voluttà di questa incertezza?
ISABELLA - Oh, certo! Capisco che durante tre anni, e al disopra delle
nostre brughiere e dei nostri castagneti, il vostro pensiero vi farà
fare l'altalena fra Gap...
IL CONTROLLORE - Cioè gli abeti, la neve, le passeggiate dopo l'ufficio
in mezzo alle operaie che hanno passato la giornata a fare spille
con le stelle alpine...
ISABELLA - E Bressuirc...
IL CONTROLLORE - Cioc Ì pascoU, cioè — voi Capite che so già a memo-
ria il Joanne * — la bella fiera del 27 agosto, e quando settembre
arrossa financo le canne delle anguillaie nell'acqua delle paludi di
Vandea, la partenza in carrozza scoperta per le corse al trotto al-
l'incrocio delle strade Duguesclin e Generale-Picquart. È del previ-
sto, tutto ciò? Fra il vostro metodo e il mio, fra Gap, Bressuire e
la morte immediata, confessate che non c'è da esitare!
ISABELLA - Io iguoravo tutto ciò. È meraviglioso! Ed a Gap voi dovrete
aspettare cosi fra due altre città?
IL CONTROLLORE - Si, fra Vitry-lc-Fran^ois e Domfront...
ISABELLA - Fra la pianura e la collina...
^ Autore di guide e di dizionari geografici.
INTERMEZZO 303
IL CONTROLLORE - Fra lo Sciampagna naturale e il sidro in bottiglia...
ISABELLA - Fra la cattedrale Luigi XIV e il torrione...
IL CONTROLLORE - E cosf via di scguito, attraverso una serie di oscilla-
zioni e di meravigliosi crocicchi — dove saranno inclusi, nel giuoco
delle contrade, la caccia al fagiano di montagna o la pesca \ la par-
tita di bocce o le vendemmie, le gare di pallone o la rappresenta-
zione alle Arene dcW Avventuriera con la Commedia Francese —
arriverò un bel giorno alla cima della piramide.
ISABELLA - A Parigi?...
IL CONTROLLORE - Siete voi che Tavete detto.
ISABELLA - A Parigi!
IL CONTROLLORE - Che è 11, per una contraddizione inesplicabile, il col-
mo dell'imprevisto nelle carriere dei funzionari: che cioè esse fini-
scano tutte a Parigi. E nemmeno a Parigi, Signorina, c*è da temere
l'infiacchimento, che, a seconda dell'assegnazione al primo o al se-
condo distretto, avrò da oscillare fra Belleville con la sua prateria
Saint-Gervais e il suo Saint-Fargeau o Vaugirard con i suoi pozzi
artesiani.
ISABELLA - Che bel viaggio è la vostra vita! Se ne vede la scia fin nei
vostri occhi.
IL CONTROLLORE - Nei miei occhi? Non mi dispiace. Si parla sempre
degli ufficiali di marina. Signorina Isabella. Ciò accade perché i
contribuenti nel versare le loro imposte non guardano mai gli oc-
chi dell'esattore. Perché gli automobilisti, dichiarando la loro sel-
vaggina, non si tuffano nelle pupille dei doganieri. Perché i liti-
ganti non pensano mai di prendere fra le mani la testa del presi-
dente del tribunale e di voltarla lentamente, teneramente verso di
loro, in piena luce. Che allora vedrebbero il riflesso e la schiuma
di un oceano piò profondo di ogni altro, la saggezza della vita.
ISABELLA - È vero, io la vedo nei vostri.
IL CONTROLLORE - E che cosa vi ispira?
ISABELLA - La fiducia.
IL CONTROLLORE - Allora, non esito più.
{si precipita verso la porta)
ISABELLA - Che cosa fate, Signor Controllore?
IL CONTROLLORE - Mctto il catcnaccio a questa porta. Chiudo questa fi-
nestra. Abbasso la saracinesca del caminetto. Calafato ermeticamen-
te questa campana da palombaro che è una casa umana. Ecco, cara
^ Nel testo, péche à la tnosteUe. La e mostelle » è una specie di nasello che si
trova sulle coste francesi del Mediterraneo.
304 JEAN GIRAUDOUX
Isabella. L'aldilà è ricacciato al di là della vostra camera. Non ab-
biamo che da aspettare pazientemente che Torà sia passata. Guar-
datevi soltanto dall'avere un desiderio, dall'esprimere un rimpianto,
che il nostro spettro non mancherebbe di vedervi un richiamo e di
precipitarsi qui!
ISABELLA - Il nostro povero spettro!
{la porta chiusa si apre. Compare lo Spettro, già più trasparente e più
pallido)
SCENA QUARTA
LO SPETTRO, ISABELLA, IL CONTROLLORE
LO SPETTRO - Posso entrare?
IL CONTROLLORE - No. Questa porta e chiusa a chiave e a chiavistello.
Non sembra, ma lo è.
LO SPETTRO - Io ti porto la chiave dell'enigma, Isabella. Che quest'uo-
mo mi lasci solo con te.
IL CONTROLLORE - Mi dispiace, ma è impossibile.
LO SPETTRO - Io paHo ad Isabella.
IL CONTROLLORE - Ma sono io che rispondo. Io sono di guardia presso
di lei.
LO SPETTRO - La guardate da che cosa?
IL CONTROLLORE - Non lo SO ancora molto bene nemmeno io. Tanto più
debbo stare attento.
LO SPETTRO - Non abbiate alcun timore. Io sono inoffensivo.
IL CONTROLLORE - Lo è forsc mcno quella che vi manda.
LO SPETTRO - Di chi volctc parlare? Della morte?
IL CONTROLLORE - Vedete?... Se si fa chiamare così nel proprio regno
significa proprio che non c'è altro nome per lei.
LO SPETTRO - E voi Credete che basterebbe la vostra presenza ad allon-
tanarla?
IL CONTROLLORE - Infatti essa non è qui.
LO SPETTRO - Che ne sapete? Essa è forse qui. Forse voi solo non la
scorgete. Guardate il viso di Isabella: certamente lei vede qualcosa
di strano in questo momento.
IL CONTROLLORE - Poco importa. Attorno ad' una donna si aggirano
sempre delle figure e delle persone invisibili a suo marito o al suo
INTERMEZZO 305
fidanzato. Ma se il marito o il fidanzato è là, non c'è nulla da
temere.
LO SPETTRO - Tu m'hai nascosto il tuo fidanzamento, Isabella? Un re-
galo di nozze di tutti i morti riuniti non ti tentava? Allora mi trovo
in presenza del fidanzato di Isabella?
IL CONTROLLORE - Fidanzato è dir troppo. Io ho chiesto la sua mano
e lei non ha ancora detto no. Non so con precisione come si chiami
questo legame.
LO SPETTRO - Lx) si chiama fragile.
IL CONTROLLORE - È l'uiiico ad Ogni modo che leghi Isabella alla terra.
Perciò nulla mi sloggerà da qui finché voi sarete qui.
LO SPETTRO - E voi Credete che non potrei ritornare durante la vostra
assenza, questa notte o domani?
IL CONTROLLORE - Sono quasi sicuro di no. Se le forze invisibili che ci
assediano fossero eapaci di aspettare o di perseverare per un quarto
d'ora di seguito, da molto tempo non resterebbe più traccia degli
uomini. Ma non c'è nulla di più impaziente dell'eternità. Voi siete
tornato per effetto di un vecchio residuo di energia o dell'ostina-
zione umana. Ne avrete ancora per qualche ora. Datemi ascolto,
andatevene. Se voi non potete passare che attraverso le porte chiuse,
io posso chiudere anche quest'altra.
LO SPETTRO - È la tua volontà, Isabella?
ISABELLA - Caro Signor Controllore, vi prego. Apprezzo la vostra devo-
zione, la vostra amicizia. Domani vi darò ascolto. Ma lasciatemi
questo minuto, quest'ultimo minuto.
IL CONTROLLORE - Domani voi mi disprezzereste se io abbandonassi la
mia consegna.
ISABELLA - Non Vedete dunque che questo visitatore mi porta quello
che ho desiderato per tutta la mia infanzia, la parola di un segreto?
IL CONTROLLORE - Non è affar mio conoscere i segreti. Un segreto non
spiegato tiene spesso in voi un posto più nobile e più arieggiato
della sua spiegazione. È la vescichetta d'aria nei pesci. Noi ci diri-
giamo con sicurezza nella vita in virtù delle cose che ignoriamo e
non delle nostre rivelazioni. La parola di quale segreto?
ISABELLA - Lo sapetc, della morte!
IL CONTROLLORE - I>ella morte di chi o di che cosa? I>ei vulcani, degli
insetti?
ISABELLA - Degli uomini.
IL CONTROLLORE - È molto modesto, come problema. Voi vi divertite
con questi particolari? E d'altronde dove vedete un segreto in tutto
ciò? Noi sappiamo tutti, nei Pesi e Misure, che cos'è la morte. È
20, - Teatro frmncese
306 JEAN GIRAUDOUX
il riposo definitivo. Torturarsi per un riposo definitivo e piuttosto
incoerente. E chi vi dice che i morti posseggano questo segreto?
Se essi sanno che cos*è la morte come i vivi sanno che cos'è la vita,
mi rallegro con loro, sono proprio bene informati... Dunque io
resto.
ISABELLA - Che il nostro visitatore lo dica davanti a voi allora. Forse
acconsentirà.
LO SPETTRO - Giammai. Conosco troppo questa specie di uomini. Da-
vanti a loro il segreto più denso evapora e si sventa.
ISABELLA - Può tapparsi le orecchie.
IL CONTROLLORE - Mi dispiacc, ma è proprio quel che non posso. Le
mie dita, anche congiunte, non sono sufficientemente impermeabili.
Se le mie orecchie si chiudessero per mezzo di una membrana na-
turale, come gli occhi, potrei. Ma non è il caso...
LO SPETTRO - È questo Tessere di cemento armato con il quale il de-
stino è costretto a fabbricare delle ombre!
IL CONTROLLORE - Rassicuratevi. Se ho una certezza, è, al contrario,
che quando sarà venuta la mia volta, farò un'ombra perfetta di
controllore...
LO SPETTRO - Davvero?
IL CONTROLLORE - Divenendo, come nei miei cambiamenti di residenza,
in capo a pochi giorni, indispensabile ai miei nuovi colleghi.
LO SPETTRO - Si può sapere perché?
IL CONTROLLORE - Perché sarò stato coscienzioso. Perché i morti voglio-
no essere raggiunti da noi soltanto dopo una vita coscienziosa. È di
questa ch'essi ci chiedono conto. « Come, — dicono, — tu hai avuto
una guerra magnifica e non ne hai esaurito tutti i tormenti e le gio-
ie, tu hai avuto un'esposizione coloniale ed hai trascurato di visitare
Angkor, di sederti sul bacino dell'acqua della Guadalupa?... ». Per
me, non avrò da temere rimproveri del genere. Quanti giri avrò
fatto sulla mia strada per andare ad accarezzare, in omaggio agli
spettatori invisibili, un gatto sulla finestra o per sollevare, a carne-
vale, la maschera di un bambino. E qui stesso, avrò visto Isabella
in ogni giorno dei tre anni passati nel borgo di Isabella. Avrò una
volta, a mezzanotte, cancellato con la gomma e grattato col tempe-
rino gli scostumati graffiti tracciati sulla pietra della sua porta; avrò
una mattina, all'alba, raddrizzato il coperchio del bricco del latte, e
un pomeriggio spinto in fondo alla cassetta la lettera ch'essa vi
aveva introdotta male; avrò in minima misura attenuato attorno a
lei la malizia del destino... Avrò diritto alla morte!
ISABELLA - Caro Signor Roberto!
INTERMEZZO 307
LO SPETTRO - Che dicì, Isabclla?
ISABELLA - Non dico nulla.
LO SPETTRO - Perché hai detto: caro Signor Roberto?
ISABELLA - Perché sono commossa della devozione del Signor Control-
lore. Ho forse torto?
LO SPETTRO - Tu hai ragione ed io ti ringrazio. Stavo per commettere
la pili grande delle sciocchezze. Stavo per tradire per una ragazza.
Per fortuna, lei ha tradito prima di me.
ISABELLA - Che cosa ho tradito?
LO SPETTRO - E tutte Saranno sempre cosi. Ed è questa tutta l'avven-
tura delle ragazze.
IL CONTROLLORE - Perché mescolare le ragazze a questa storia?
LO SPETTRO - Sedute nelle praterie, con rombrellino aperto ma accanto
a loro, appoggiate alle barriere dei passaggi a livello e auguranti il
benvenuto al viaggiatore con un gesto d*addio, oppure sotto la lam-
pada dietro alla finestra, con un'ombra per la strada ed un'altra
per la camera, eguali ai fiori in estate, eguali in inverno al pensiero
che si ha dei fiorì, esse si dispongono cosi abilmente in mezzo alla
folla degli uomini, la generosa nella famiglia degli avarì, l'indoma-
bile fra genitori infiacchiti, che le divinità del mondo le prendono,
non per l'umanità in infanzia, ma per la suprema fioritura, per il
coronamento di questa razza i cui veri prodotti sono i vecchi. Ma
improvvisamente...
IL CONTROLLORE - È molto Semplicista.
LO SPETTRO - Ma improvvisamente arriva l'uomo. Allora esse tutte lo
contemplano. Egli ha trovato delle ricette per rialzare ai loro occhi
la sua dignità sulla terra. Egli si tiene dritto sulle zampe posteriori
per prendere meno pioggia e per appuntarsi delle medaglie sul
petto. Esse fremono davanti a lui di ipocrita ammirazione e di una
paura che non provano nemmeno di fronte ad una tigre, perché
non sanno che, fra tutti i carnivori, solo questo bipede ha denti
che si sbriciolano. Allora è fatta. Tutte le pareti della realtà, nelle
quali vedevano in trasparenza mille filigrane e mille blasoni, di-
vengono opache, e tutto è finito.
IL CONTROLLORE - Finito? Se voi alludete al matrimonio, tutto comincia.
LO SPETTRO - E comincia il piacere delle notti, e l'abitudine del piacere.
E comincia la ghiottoneria. E la gelosia.
IL CONTROLLORE - Cara Isabella I
LO SPETTRO - E la vendetta. E comincia l'indifferenza. Sul petto degli
uomini la sola collana di perle che essi abbiano perde la sua lumi-
nosità. Tutto è finito.
308 JEAN CntAUDOUX
ISABELLA - Perché tanta crudeltà? Salvatemi dalla felicità, se la ritenete
cosi spregevole!
LO SPETTRO - Addio, Isabella. Il tuo controllore ha ragione. Quel che
amano gli uomini, quello che tu ami, non è conoscere, non è sapere,
ma oscillare fra due verità o due menzogne, fra Gap e Bressuire.
Io ti lascio sull'altalena, dove la mano del tuo fidanzato ti spingerà,
per il piacere dei suoi occhi, fra le tue due idee della morte, fra
Tinferno di ombre mute e l'inferno dei rumori, fra la pace e il
nulla. Io non ti dirò altro. Nemmeno il nome del fiore delizioso e
comune che punteggia la nostra prateria, il cui profumo mi ha
accolto alle porte della morte e il cui nome dirò, fra quindici anni,
all'orecchio delle tue figlie. Prendila nelle braccia. Controllore! Pren-
dila nella trappola da lupi che sono le tue braccia e che mai piti
essa ne sfugga.
ISABELLA - Si, una volta ancora!
{si precipita verso lo Spettro che la stringe e scompare. Essa impallidi-
sce e viene meno)
IL CONTROLLORE (cercundo soccorso) - Speziale! Speziale!
SCENA QUINTA
ISABELLA, svenuta, l'ispettore, il CONTROLLORE
IL CONTROLLORE - Sìamo ancora in tempo. Respira.
l'ispettore - La testa è tiepida, le mani fredde, le gambe gelate. Il no-
stro visitatore d'oltretomba ha commesso l'errore di afferrarla dai
piedi. È una fortuna.
ISABELLA - Dove sono?
IL controllore - Nelle mie braccia... Ah! Ispettore, sviene di nuovo...
l'ispettore - Perché la vostra risposta è stata insuflSciente, giovanotto.
Il paese donde torna Isabella non è lo svenimento, ma la disincar-
nazione, forse, l'oblio supremo. Quello ch'essa richiede sono le ve-
rità universali e non piccoli fatti di ordine particolare.
ISABELLA - Dove sono?
l'ispettore - Vedete! Voi siete sul pianeta Terra, ragazza mia, satellite
del Sole. E se voi vi sentite girare, come si vede dal vostro sguardo
siete voi ad aver ragione e noi torto, perché essa gira...
ISABELLA - Chi sono?
INTERMEZZO 309
IL CONTROLLORE - Voi sictc IsabcUa!
l'ispettore - Voi siete un essere umano femmina, Signorina, una delle
due foime dello sviluppo dell'embrione umano. £ molto ben riu-
scita...
ISABELLA - Che chiasso!
IL CONTROLLORE - È la fanfara che fa le prove...
l'spettore - Sono vibrazioni di onda, piccola femmina umana, che
agiscono su delle parti differenziate del vostro derma o del vostro
endoderma chiamate sensi... Ecco... Il suo volto diviene roseo. La
scienza è ancora il migliore flacone di sali. Passate gli atomi e gli
ioni sotto il naso di una giovane maestra svenuta ed essa rinasce
immediatamente.
IL controllore - Ma niente affatto! Eccola di nuovo morta! Speziale!
Aiuto!
SCENA SESTA
GLI STESSI, LO SPEZIALE, scguito du Ulta foUa di curiosi
LO SPEZIALE - Eccomi, c rassicuratcvì: porto il rimedio.
IL signor ADRIANO - Sì son vistc dcUc fìanmie. È un incendio?
LO SPEZIALE - Voi arrivate al momento giusto. Signor Adriano. Sedete
a questa tavola.
IL VECCHIO TELLiER - La portiamo all'aria? È asfissiata?
LO SPEZIALE - Lasciatela qui, e sedetevi. Ecco delle carte. Appena ve lo
dirò, mettetevi a giocare a briscda ^.
LE BAMBINE - Vivc ancora. Signor Speziale, vive ancora?
l'ispettore - Vogliate uscire, Signorine.
LO SPEZIALE - Al contrario. Che entrino. Non saremo mai in troppi
per la mia esperienza. E che recitino la lezione quando darò il
segnale.
l'ispettore - Voi siete matto, Speziale. Si direbbe che mettiate a posto
un coro.
ARMANDA - È carboiùzzata, a quanto pare?
IL CONTROLLORE - Soltanto svenuta.
^ Nel testo € mauille », giuoco popolare che presenta qualche analogia con la
briscola.
310 JEAN GIRAUDOUX
ARMANDA - Avctc bisogno di sanguisughe?
LO SPEZIALE - Niente sanguisughe, Signorina Mangebois. Entrate con
vostra sorella e chiacchierate quando ve lo ordino io.
ARMANDA - Chiacchierare? Noi chiacchieriamo?
LEONIDE - Offri dunque le nostre sanguisughe. E non dimenticare che
la grigia è febbricitante.
ARMANDA - Non Ic vuole. Vuole noi.
LO SPEZIALE - Perfetto. L'inizio è buono.
l'ispettore - Vorrete spiegarci la vostra condotta, Speziale?
LO speziale - È davvero necessario ch'io mi spieghi, Ispettore? La Si-
gnorina Isabella non è né una bagnante annegata né un'alpinista
congelata. Essa è caduta, per crisi o per distrazione, in un'anestesia
di cui voi indovinate al pari di me il principio. Il solo massaggio,
la sola circolazione artificiale che noi possiamo praticare in questo
caso è di avvicinare quanto più è possibile alla sua coscienza addor-
mentata il rumore della sua vita abituale. Non si tratta di richia-
marla a se stessa, ma di richiamarla a noi. Proviamo. Ci siamo?
Avete capito?
l'ispettore - No, Speziale.
IL SINDACO - In realtà, non siete chiaro.
IL SIGNOR ADRIANO - Tu hai Capitò, Tellier?
IL VECCHIO tellier - lo, niente affatto.
LEONIDE - Che cosa dice lo Speziale?
ARMANDA - Che sì leggerà il dizionario per trovarvi una parola che ri-
svegli Isabella.
LE bambine - Per nulla. Essa non ha capito.
IL SINDACO - E tu hai capito. Luce?
LE BAMBINE - Noi abbiamo tutte capito.
VIOLA - È molto semplice. Bisogna rendere la vita attorno alla Signo-
rina Isabella più forte della morte.
LUCE - Il Signor Speziale vuol condensare attorno a lei tutti i rumori
della città e tutti quella delta primavera.
GiLBERTA - Come un fascio di raggi X.
DAisY - Come una sinfonia.
IRENE ' E quando sarà perfetto, quando questa musica...
LUCE - Quando questo calore l'avranno di nuovo penetrata...
DAisY - Una semplice parola, un semplice rumore la colpirà al cuore.
VIOLA - E il cuore tornerà a battere.
LO SPEZIALE - Brave, ragazze. Credo che adesso abbiate capito tutti.
Signor Sindaco, andate dunque fuori ad occuparvi dei suoni.
IL SINDACO - Il maniscalco? I battitoi?
INTERMEZZO
311
LO SPEZIALE - () un pistonc in lontananza. E voi, Signor Ispettore,
pronunciate a intervalli regolari alcuni dei termini astratti che so-
no così frequenti nel vostro linguaggio.
l'ispettore - Io non innpiego altre parole astratte che quelle richieste
dalla Giustizia e dalla Verità.
LO SPEZIALE - Molto bene... molto bene...
IL CONTROLLORE - lo vi amo, Isabella.
l'ispettore - E la I>emocrazia. *
LO SPEZIALE - L'«io vi amo )) è un po' debole, il «democrazia» un
po' forte. Cominciamo. Prima un secondo di silenzio. Uno... due...
tre...
(/ giocatori si mettono a giocare, le donne a chiacchierare, l'Ispettore
a monologare. Al posto dei rumori fittizi, i rumori della vita. Una
tromba d'auto. Un passante che fischia. La filarmonica che suona,
un fringuello che canta. Isabella comincia a fremerei
FUGA DEL CORO PROVINCIALE
LO SPEZIALE
LE BAMBINE
ADRIANO
le bambine
il vecchio tellier
le bambine
l'ispettore
le bambine
ARMANDA
IL controllore
le bambine
il signor adriano
le bambine
il vecchio tellier
le bambine
il vecchio tellier
le bambine
l'ispettore
le bambine
l'ispettore
le bambine
Uno, due, tre!
La Vienne ingrossata dalla Creuse.
Papà Tellier, cuore!
II Cher ingrossato dall' Auron.
Chi ne è malato ne muore.
L'Allier ingrossato dalla Sioule.
Laboriose popolazioni... Paludi stagnanti.
La Vienne ingrossata dalla Creuse.
C'è sgrassatore e c'è tintore.
10 vi amo.
11 Cher ingrossato...
La dama di picche.
Dall' Auron
L'è buona...
L'Allier ingrossato...
...e nuda
... dalla Siuole. La Vienne ingrossato
Paludi stagnanti...
... dalla Creuse. Il Cher ingrossato...
mentalità...
... dall'Auron.
312
JEAN GIRAUDOUX
LEONIDE
IL SIGNOR ADRIANO
ARMANDA
IL CONTROLLORE
LE BAMBINE
- La margarina non è mai stata burro...
- Due bitter al limone 1
- È una donna ch'egli ha trovato nel rigagnolo.
- Io vi adoro.
- La Vienne.
{intanto lo Speziale continua a dirigere con la sua bacchetta il coro
che si gonfia e si smorza a suo piacere)
uo SPEZIALE - Ed ecco che si avvicina lo scioglimento di questo nuovo
episodio di Faust e Margherita. Naturalmente ci manca il coro dei
Serafini, ma il rumore dei giocatori, delle Mangebois e delle ragaz-
ze costituisce oggi il coro che nella sua curiosità, nella sua indif-
ferenza supplica per lei; e non lo credo meno potente.
{mentre lo Speziale recita)
IL CORO
LE BAMBINE - Il Cher ingrossato dall*Auron.
ARMANDA - SÌ diviene cuoco ma si nasce rosticciere.
LE BAMBINE - L'AlHer ingrossato dalla Sioule.
l'ispettore - mentalità... distribuzioni salubri.
{lo Speziale fa segno di ampliare)
le bambine
il signor adriano
le bambine
il vecchio tellier
l'ispettore
ARMANDA
LE BAMBINE
ARMANDA
IL CORO
- Il Cher ingrossato dall' Auron.
- Papà Tellier, cuore!
- L'Allier ingrossato dalla Sioule.
- Chi è malato ne muore.
- Superstizione... freudismo...
- È come la mia mantellina
- La Vienne ingrossata dalla Creuse.
- Vi metterò una fodera di velluto!
LEONIDE - Ah, no, per esempio!
ISABELLA {fremendo) - Ah, no, per esempio!
TUTTI - Come? Che c'è? Ha parlato?
LO SPEZIALE - Non mi aspettavo meno dalla parola velluto. Va bene
così. Signorina Armanda, parlate come a vostra sorella. Uno strato
di silenzio ci separa anche da Isabella.
INTERMEZZO 313
LE BAMBINE - Il Chef ingrossato dall' Auron.
IL SIGNOR ADRIANO - La dama di picche.
l'ispettore - laboriose popolazioni.
LE BAMBINE - L'AlHer ingrossato dalla Sioule.
ARMANDA - Pensavo velluto di seta.
ISABELLA (svegliandosi a poco a poco) - Per foderare la vita velluto
di seta... per foderare la morte... Ma che cosa dico?
l'ispettore - Povera ragazza!
LEONIDE - E perchè non dovrei prendere crespo di Cina?
ISABELLA - E perchè non dovreste prendere crespo di Cina? Il ne-
gozio è ancora aperto, la filarmonica prova... Ah, siete qui, caro
Signor Roberto... La vostra mano!
l'ispettore - È perduta!
LO SPEZIALE - È salvata!
LEONIDE - Che dicono questi signori?
ARMANDA - Che la Signorina Isabella è perduta e salvata.
LEONIDE - Ha fatto tutto quello che poteva per finire così.
IL SINDACO {entrando con Viola) - Signor Ispettore, Signor Ispettore!
La lotteria.
l'ispettore - Che cos'ha, la vostra lotteria?
IL SINDACO - È stata sorteggiata.
l'ispettore - Perché tanta emozione? Lo scandalo continua?
IL SINDACO - Al contrario, tutto è rientrato nella normalità al momen-
to in cui cominciavamo a disperare. Parla, Viola, non ho piò
fiato.
l'ispettore - Normale? Chi ha vinto la motocicletta?
VIOLA - L'uomo senza gambe dell'orfanotrofio.
l'ispettore - e il primo premio in denaro?
VIOLA - Il signor Dumas, il milionario.
l'ispettore - Vittoria, Signori, vittoria! Le nostre pene non sono state
inutili. Grande è la nostra gioia, cari concittadini, nel constatare
che, in una città dove le nozioni umane erano in disaccordo, è
bastata la nostra presenza per ridurre le più diverse fantasie al
comune denominatore della democrazia illuminata. Permettetemi
ch'io mi congedi da voi. L'episodio Isabella è chiuso. L'episodio
Luce non si produrrà che fra tre o quattr'anni. Io posso filare su
Saint- Yrìeix dove è segnalata una guardia notturna sonnambula,
la forma peggiore di sonnambulismo, perchè, date le funzioni del
malato, agisce in pieno giorno e in mezzo a gente sveglia. Addio,
314 JEAN GIRAUDOUX
Signor Sindaco, io vi restituisco un paese in ordine. Il denaro va
di nuovo ai ricchi, la felicità ai felici, la donna al seduttore. La
mia missione presso di voi, cari concittadini, è terminata.
IL SINDACO - £ guarita Tanima di Isabella.
ARMANDA - E incoronato come si deve il lirismo dei funzionari!
LO SPEZIALE - E finito Tintermezzo!
Lm presente traduzione è a cura di Italo Siciliano.
JEAN ANOUILH
Nato a Bordeaux il 23 giugno 1910, venuto in giovane età a
Parigi, iscrittosi per poco più di un anno alla Facoltà di Giuri-
sprudenza, impiegato per due anni in un'agenzia di pubblicità,
segretario per altri due anni di Louis Jouvet, Jean Anouilh * è vis-
suto e vive quasi esclusivamente nel teatro e per il teatro. La cro-
naca non sa nulla, o quasi, dell'uomo discreto (e di scialba appa-
renza) e di una vita nella quale non accadde probabilmente nulla.
I critici che credono ai rapporti fra biografìa e creazione d'arte
sono perplessi davanti al fenomeno di un'opera che sembra de-
nunciare una lunga e sofferta conoscenza delle cose insieme con
una specie di complesso ossessivo e di senile stanchezza dell'esi-
stenza. € Il me parait impossible, — scrive l'eccellente Gabriel
Marcel, — de ne pas sentir à chaque instant que le tragique de ce
théàtre est enracinc dans une expcrience vécue >. Ma il fatto è che
LHermine (1931), Jizabel (1932), La Sauvage (1934), drammi che
già denunciano l'orrore della vita in tutto l'orrido sfacelo morale,
sono scritti da un uomo che aveva poco più di vent'anni. Scienza
infusa o precoce vocazione della tavola anatomica? Realtà vissuta
oppure respirata nell'anonimo ambiente, trovata nel libro, artifi-
cialmente coltivata fra il vero delle quinte e il fittizio della ri-
balta? Problema vano, per il quale bisogna ammettere la molte-
plicità delle ipotesi e dei fattori: la particolare ricettività dello
spirito, il grande potere assimilativo dei temi erratici, la capacità
di far tesoro e sapiente uso di cose viste e di apporti letterari, l'im-
moderato amore per una viscida realtà spietatamente denudata
^ Cfr. « Panorama del Teatro francese », voi. I, pag. 64.
318 JEAN ANOUILH
e travestita da una immaginazione incredibilmente fertile. E bi-
sogna pure registrare la rara padronanza del mestiere e la facoltà
poetica che apre nel iniserabile groviglio o nell'ironica rivolta uno
spiraglio sul mondo degli illusori riscatti e delle tragiche catarsi.
Fin dai primi saggi, Anouilh si rivela maestro in ogni genere.
Dopo la rivelazione di Hermine è il trionfo della Saut/age. Lo
stesso anno in cui scrive l'atroce Jézabel (1932) egli compone l'esila-
rante commedia-balletto del Bai des voleurs. E poi è l'ininterrotto
fiume delle «pièces noires» (Le Voyageur sans bagages, 1936;
Eurydice, 1941; Antigone, 1942; Romèo et Jeannette, 1945; Médée,
1946) che si alternano con le « pièces roses > o quasi (Le Rendez-
vous de Senlis, 1937; Léocadia, 1939; L'invitation au chàteau,
1947). In questo primo, ed approssimativo, periodo il nero sembra
dare la nota dominante. È il tempo amaro o variabile delle educate
proteste alla Giraudoux, dei travestimenti dei miti alla maniera
di Laforgue e di Cocteau, delle ultime ondate dello scettico deter-
minismo di Pirandello, delle triviali sommosse dell'inconscio e
dell'assurdo. Nel retroscena — dicevamo — si possono trovare
tutte le guide e le « ficelles > che si vogliono. Sulla scena i perso-
naggi di Anouilh sembrano figli di nessuno, parlano, anche quan-
do pretendono di essere Antigone (« Pas assez coquette, toujours
avec la méme robe et mal peignée >) o Medea, una lingua prolissa
e incisiva che « fa naturale > e li differenzia da tutti. Buffoni ve-
stiti da Ubu-roi, pellicani in maniaca esibizione delle proprie
< trippe >, poveri Cristi abbandonati in eterno nella notte umana,
gli eroi di questo teatro della disfatta appaiono come dei condan-
nati ai lavori forzati dell'esistenza, dei criminali senza grandi de-
litti o degli equivoci innocenti che si aggirano senza posa e senza
ragione fra le quattro mura del comune reclusorio. Che l'uomo
di ogni classe e razza è il prigioniero e la vittima di qualcosa o
di qualcuno: della luce e dell'ombra, della realtà e del sogno, del
proprio sistema glandolare e dell'altrui bestialità, del passato o
dell'ambiente, della nausea della vita e dell'orrore della mor-
te. In tanto fatalistico disordine, la presenza di un'ambigua sete
di purezza rende più disperate sia l'inutile rivolta che la triste
acquiescenza.
PRESENTAZIONE 319
Pareva ormai un mondo esaurito nei suoi angusti limiti, son-
dato in tutti gli angoli della tenebra e della cloaca. Ma Anouilh
è instancabile nello scoprire nuovi mostricciattoli e nel manipo-
lare salse nuove con vecchi ingredienti. Altre cpièces noires»,
quindi, e e picces brillantes > nelle quali lo sporco si fa una cinica
ragione e il grottesco romantico mescola in naturali dosi lagrime
e risa disgustose. E vengono Ardete ou la Marguerite (1949) com-
media tragica dell'amore restato puro soltanto nell'anima di una
gobba folle, La Répétition ou l'amour punì (1949) « marivaudagc >
della Doublé inconstance inserito negli intrighi di un bel mondo
vuoto e tarato, Colombe (1951) traduzione in chiave farsesco-na-
turalistica dell'eterna lotta fra «la bonté d'Homme» e «la Fcm-
me enfant malade et douze fois impur >, La Valse des Toréadors
(1952) allegra parodia di squallidi amori senili, Ornijle ou le cou-
rant d'air (1955) scintillante farsa di un maturo don Giovanni
fulminato da una crisi cardiaca al momento in cui sta perpetrando
l'ennesima cinica prodezza, Cécile (1955), altro «giuoco» alla
maniera di Marivaux (e di Beaumarchais) travestito alla maniera
di Anouilh, Pauvre Bitos (1956) imprevista satira politica accolta
con « movimenti diversi >. L'arco che sembra stanco scopre nuove
corde. Nel 1955 è il grande successo AéMAlouette, apoteosi di una
Pulzella d'Orléans in panni parigini e patriottica allodola che con-
tinua a salire nel cielo dell'eterna gloria. Secondo le ultime notizie,
L'Hurluberlu ou le riactionnaire amoureux, vaudeville nero e ca-
ricatura della quarta repubblica, fa attualmente il grande diverti-
mento dei Francesi. Anouilh ha quarantanove anni. È sempre
brillante e sembra inesauribile. «Di che cosa e fatto il suo do-
mani? ».
Del tormentato ieri, Eurydice è a parer nostro (non riusciamo
a partecipare al quasi unanime entusiasmo per Antigone) l'opera
dove il patetico nero di realtà e fantasia, l'arte e il felice espediente
si saldano meglio e servono con maggior fortuna i motivi fonda-
mentali e la filosofìa spicciola di un teatro nel quale, diremmo,
un Racine dei poveri ed un Pirandello della nausea esistenziale si
incontrano con un Baudelaire dei miserabili paradisi infantili e
delle angosciose albe spirituali. I luoghi — una stazione aperta.
320 JEAN ANOUILH
una camera d'albergo — forniscono gli scenari adatti agli appun-
tamenti dei predestinati ed agli urti dei prigionieri del sordido
e del sogno; la peripezia si svolge rapida e ricca di colpi di scena
fra il giuoco cieco della vita e la lucida regia del Destino, pietoso
commesso viaggiatore della morte; i personaggi sono i soliti inco-
municabili vasi nella cui vile creta un dio ironico ha nascosto la
particella nobile delle dolorose scissure e delle disgregazioni.
Ognuno ha la sua verità che è una mezza verità che confina con
la menzogna. Ognuno vede e si vede a modo suo (ed ha ragione
Orfeo, ha ragione Euridice e non ha torto nemmeno Dulac),
ognuno può essere uno o due, ma è sempre solo o, peggio, è
sempre con se stesso. E come se tutto ciò non bastasse ci sono le
complicazioni delle parole e delle illusioni, i mali della gelosia,
gl'incubi del passato, le offese brutali degli uomini e del caso. < È
troppo difficile», geme la piccola Euridice. Sembra soprattutto
impossibile risalire il fiume, fare indossare il vestito pulito al corpo
contaminato dalla vita. Il vestito candido e incorruttibile sarebbe
dall'altra parte: ma questo lo dice il Signor Enrico che fa il suo
mestiere e vende la sua merce ad uomini come Orfeo che gli cre-
dono solo per disperazione.
Problemi grossi, temi venerabili che rischiano di ingombrare
sia il patetico delle anime adolescenti in muda che il grottesco
delle vecchie marionette: ed invero la dimostrazione non sempre
evita la punta declamatoria e l'eccesso della caricatura. Ma filoso-
femi e farsa costituiscono l'humus e lo strame donde, insieme con
la larva del disfacimento, nasce il gracile fiore azzurro della com-
passione e magari della poesia. La grande abilità dell'oratore, il
dimesso discorrere e la stessa ingenuità delle umili vittime salvano
il melodramma romantico e il dramma naturalistico portandolo
nell'alone leggendario e nell'umana semplicità di una umana tra-
gedia senza coturno e senza grida. Il piccolo suonatore ambulante
e la sua tenera compagna non sospettano la fatalità che è legata
al loro nome, entrano nel mito come in una sala cinematografica,
non sanno nulla di Kierkegaard e di Sartre, credono di vivere la
loro «storia» piena di «cose dolci e terribili», non s'accorgono
nemmeno che il buon Signor Enrico sta facendo loro un corso di
>A
^
. A-. »,r,^mww.
Su/jnncf Fli>n ndi'J/af/r/?r, di Annuilk. Thcàifi: i!c Mo ti tpiir nasse.
PRESENTAZIONE 321
assurdo esistenziale dove la vita è rappresentata come un vivaio di
impassibili o schifose < mosche » e il suicidio come il coerente atto
liberatorio.
Sul teatro di Anouilh si sono scritti e si continuano a scrivere in-
numerevoli articoli di riviste e di giornali, ma non esiste uno studio
di insieme e comunque approfondito. Si segnalano tuttavia Gignoux
H., /. A„ 1946; Marcel G., «De Jézabel à Médéc, Le tragique chez
A.», in Ret/ue de Paris, giugno 1949; De Boisdcffre P., Métamor-
phose de la Uttérature, 11, 1951.
21. • Teatro francese
Enridiee
PERSONAGGI
ORFEO , . , , .
suonatori ambulanti
IL PADRE
EURIDICE
LA MADRE
attori
VINCENZO
MATTIA
DULAC, impresario
IL PICCOLO SEGRETARIO
DUE RAGAZZE DELLA COMPAGNIA
IL SIGNOR ENRICO
IL CAMERIERE d'aLBERGO
LO CHAUFFEUR DELl'aUTOBUS
IL SEGRETARIO DEL COMMISSARIATO
IL CAMERIERE DEL BUFFET
LA BELLA CASSIERA
EURIDICE
ATTO PRIMO
Buffet di una stazione di provincia. Mobili pomposi, logori e sporchi. TavoUnt
di marmo, specchi, panchette di velluto rosso, liso. Alla cassa troppo alta tro-
neggia come un Budda sull'altare la cassiera dalla grande chioma e dai seni
prepotenti. Camerieri calvi e dignitosi. Strofinacci puzzolenti in sfere di metallo.
Prima che si alzi il sipario si sente un violino. È orfeo che suona piano in un
angolo vicino al padre, assorto in sordidi conti, davanti a due bicchieri vuoti.
In fondo alla scena, un solo cliente, un giovane con impermeabile e còl cap-
pello abbassato sugli occhi, dall'aria assente. Un momento di musica, poi il
padre lascia i suoi conti e guarda Orfeo.
IL PADRE - Figliolo...
ORFEO {continuando a suonare) - Papà.
IL PADRE - Non vorrai mica costringere il tuo vecchio padre a fare la
questua in un buffet di stazione?
ORFEO - Io suono per me.
IL PADRE - Un buffet di stazione dove non c'è che un solo cliente che
finge di non ascoltare. Conosco il trucco. Fingono di non ascoltare
e poi fingono di non vedere il piattino. Ma io fingo di non vedere
ch'essi fingono. {Orfeo continua a suonare) Ma ti diverte proprio
tanto suonare il violino? Mi chiedo come puoi, facendo il musi-
cista, amare ancora la musica. Io, quando ho ben grattato per de-
gli imbecilli che giocano a carte in una birreria, non ho che un
solo desiderio...
ORFEO {continuando) - Andare a giocare a carte in un'altra birreria.
IL PADRE {sorpreso) - Vero... Chi te Tha detto?
ORFEO - Immagina che son vent'anni che lo sospetto.
IL PADRE - Vent'anni. Tu esageri. Vent'anni fa ero ancora qualcuno.
Come passa il tempo... Vent'anni fa, ai bei tempi dei concerti, chi
l'avrebbe detto a tuo padre che sarebbe finito a pizzicare l'arpa
nei caffé, chi gli avrebbe detto che si sarebbe ridotto a fare la
questua con un piattino?
ORFEO - La mamma, ogni volta che ti facevi mandar via da un posto...
326 JEAN ANOUILH
IL PADRE - Tua madre non mi ha mai amato. Nemmeno tu, del resto.
Tu non fai che umiliarmi. Ma non credere che sopporterò in
eterno. Lo sai che mi hanno offerto il posto di arpista nel Casinò
di Palavas-les-Flots?
ORFEO - Si, papà.
IL PADRE - E che ho rifiutato perche il posto di violino non era libero
per te?
ORFEO - Si, papà, cioè no, papà.
IL PADRE - No, papà? E perché no, papà?
ORFEO - Hai rifiutato perché sai che suoni molto male Tarpa e che ti
avrebbero cacciato il giorno dopo.
IL PADRE (indignato) - Non ti rispondo nemmeno.
{Orfeo riprende il violino)
IL PADRE - Continui?
ORFEO - Si, ti dà noia?
IL PADRE - Mi confonde le idee. Otto per sette?
ORFEO - Cinquantasei.
IL PADRE - Ne sei sicuro?
ORFEO - Si.
IL PADRE - Com'è buffo, avrei sperato che facesse sessantatré. Otto per
nove fa tuttavia subito settantadue... Sai che ci resta pochissimo
denaro, figliolo...
ORFEO - Si.
IL PADRE - È tutto quello che trovi da dirmi?
ORFEO - Si papà.
IL PADRE - Ci pensi, ai miei capelli bianchi?
ORFEO - No, papà.
IL PADRE - Bene. Ci sono abituato, (torna alle sue operazioni) Otto per
sette?
ORFEO - Cinquantasei.
IL PADRE (amaro) - Cinquantasei... Non avresti dovuto ripetermelo.
(chiude il libercolo e rinuncia ai suoi conti) Non abbiamo man-
giato male questa sera per dodici franchi e settantacinque.
ORFEO - No, papà.
IL PADRE - Hai fatto male a prendere il piatto di legumi. Se sai sce-
gliere, li puoi trovare nei piatti con contorno ed avere in cambio
un secondo « dessert » \ Nei pasti a prezzo fisso è più conveniente
prendere i due « desserts ». La cassata napoletana era una delizia.
In un certo senso, abbiamo mangiato meglio questa sera per do-
li « dessert » può essere formaggio, dolce o frutta.
EURIDICE 327
dici franchi e settantacinque che ieri a Montpellier per tredici
franchi e cinquanta alla carta... Mi dirai che c'erano veri tovaglioli
e non tovaglioli di carta. Era un locale che aveva delle pretese, ma
in fondo non si stava meglio. Hai visto che ci hanno fatto pagare
il formaggio tre franchi? Ci avessero almeno servito il vassoio, co-
me nelle grandi trattorie! Una volta, figliolo, fui invitato da Poe-
cardi, sai, al Boulevard des Italiens. Mi portano il vassoio...
ORFEO - Me rhai già raccontato dieci volte, papà.
IL PADRE (offeso) - Bene, bene, non insisto.
(Orfeo /è rimesso a suonare. Dopo un pò* il padre si annoia e ri-
nuncia a tenergli il broncio)
Lo sai, figliolo, che è triste quel che suoni?
ORFEO - È anche triste quel che penso.
IL PADRE - A che cosa pensi?
ORFEO - A te.
IL PADRE - A me? Sentiamo, che cosa stai per dirmi ancora?
ORFEO (smettendo di suonare) - A te e a me.
IL PADRE - Certo, la situazione non è brillante, ma facciamo quel che
possiamo.
ORFEO - Penso che da quando la mamma è morta, io ti seguo nei caffé
con il violino e la sera ti guardo alle prese con i tuoi conti. Sto a
sentirti parlare di pasti a prezzo fisso e poi vado a letto e mi rialzo
la mattina dopo.
IL PADRE - Quando avrai la mia età saprai che cos'è la vita.
ORFEO - Penso pure che tu, solo con la tua arpa, non potresti vivere.
IL PADRE (improvvisamente preoccupato) - Vuoi lasciarmi?
ORFEO - No. È probabile che non potrò mai lasciarti. Sono più bravo
di te, sono giovane e son sicuro che la vita mi serba dell'altro, ma
non potrei vivere se sapessi che tu crepi non si sa dove.
IL PADRE - È giusto, figliolo, pensare al proprio padre.
ORFEO - È giusto, si, ma anche gravoso. Talvolta penso a come po-
tremmo separarci...
IL PADRE - Ma via, noi andiamo cosi bene d'accordo...
ORFEO - Avere un posto molto buono che mi facesse guadagnare ab-
bastanza per passarti una pensione. Ma è un sogno. Un musicista
non guadagna mai tanto da avere due camere e quattro pasti al
giorno.
IL PADRE - Oh, tu sai, io sono molto modesto. Un pasto da dodici
franchi e settantacinque come oggi, il caffé, il cicchetto e un siga-
ro da tre soldi, e sarei l'uomo più felice di questo mondo, (una
pausa) Magari potrei rinunciare al cicchetto.
328 JEAN ANOUILH
ORFEO - Ci sarebbe anche il passaggio a livello dove il treno potrebbe
metter sotto uno di noi due...
IL PADRE - Eh, eh, quale dei due, figliolo?
ORFEO (piano) - Oh, per me fa lo stesso.
IL PADRE (sussultando) ' Sei proprio divertente. Ma io non ho nessuna
voglia di morire, io. Stasera hai delle idee lugubri, mio caro.
(emette un rutto elegante) Eppure quel coniglio era buono. Ah!
perbacco, mi fai ridere. Alla tua età, la vita mi sembrava magnifi-
ca, (adocchia la cassiera) E l'amore? Hai pensato che c'è l'amore?
ORFEO - L'amore? Che cosa credi che sia l'amore? Le donne che
posso incontrare con te?
IL PADRE - Ah, mio caro, si può mai sapere dove s'incontrerà l'amore?
(si avvicina) Di* un po', non sembro troppo spelato? Graziosa, la
cassiera. Un po' grassa forse. Andrebbe meglio per me che per te.
Quanti anni daresti, a quella bambina, quaranta, quarantacinque?
ORFEO (ha un triste sorriso, gli dà un colpetto sulla spalla) - Vado un
po' fuori; abbiamo ancora un'ora per il treno.
(quando è uscito, il padre si alza, va a girare attorno alla cassiera che
fulmina con lo sguardo quel miserabile cliente. Il padre si sente
improvvisamente brutto, povero e calvo. Si passa una mano sulla
testa e s'avvia mortificato a prendere gli strumenti per uscire)
EURIDICE (entrando di furia) - Scusi, signore. C'era qui qualcuno che
suonava il violino?
IL PADRE - Sf, signorina, era mio figlio. Mio figlio Orfeo.
EURIDICE - Com'era bello quello che suonava!
(// padre saluta, lusingato, ed esce con gli strumenti, la madre di Eu-
ridice fa un'entrata trionfale. Boa, cappello con piume. Non ha
smesso di ringiovanire dal 1920)
LA MADRE - Euridice, sei qui... Che caldo!... Non posso soffrire di
aspettare nelle stazioni. Questa a tournée » è male organizzata, co-
me al solito. Il segretario dovrebbe fare in modo che almeno le
prime parti non dovessero aspettare per delle ore la coincidenza.
Che cosa puoi dare la sera quando hai passato la giornata ad esa-
sperarti in una sala d'aspetto?
EURIDICE - C'è un solo treno, mamma, per i primi e i secondi attori,
e c'è un'ora di ritardo a causa del temporale di ieri. Il segretario
non può farci nulla.
LA MADRE - Ah, tu, tu difendi sempre gl'imbecilli!
IL CAMERIERE (chc si è avvictnoto) - Che cosa posso servire alle si-
gnore?
EURIDICE 329
LA MADRE - Crcdi chc prendiamo qualcosa?
EURIDICE - Sarebbe bene, dal momento che ti sei trionfalmente seduta
in questo caffé.
LA MADRE - Avete un eccellente pippermint? Allora un pippermint. In
Argentina o al Brasile, quando il caldo era insopportabile, ricor-
revo sempre al pippermint al momento di entrare in scena. È Sara ^
che mi ha insegnato il segreto. Allora un pippermint.
IL CAMERIERE - E per U signorina?
EURIDICE - Un caffé.
LA MADRE - Sta' dritta. Come mai non sei con Mattia? Erra come
un'anima in pena.
EURIDICE - Non ti occupare di lui.
LA MADRE - Fai male ad esasperare quel ragazzo. Egli ti adora. Anzi-
tutto hai sbagliato a prendertelo per amante. Allora te lo dissi,
ma ormai quel che è fatto è fatto. Del resto, è destino di noialtre
cominciare e finire con degli attori. Alla tua età ero più bella di
te, potevo avere la pretesa di essere mantenuta da chicchessia, e
stavo a perder tempo con tuo padre... Tu vedi con quale risulta-
to... Sta' dritta.
IL CAMERIERE (chc hu pOTtato le consumazioni) - Un po' di ghiaccio,
Signora?
LA MADRE - Mai ghiaccio, amico mio, per la voce. Pessimo, questo pip-
permint. Detesto la provincia, detesto le « tournées ». Ma Parigi fa
pazzie solo con le piccole imbecilli prive di seno, che sono incapaci
di dire tre parole senza impappinarsi... Ma che cosa t'ha fatto
quel ragazzo? Non siete saliti nello stesso scompartimento, alla
partenza da Montélimar? Mia piccola Euridice, una madre è una
confidente, soprattutto quando ha la vostra età, voglio dire quando
è una madre molto giovane. Allora, dimmi, che cosa ti ha fatto?...
EURIDICE - Nulla, mamma.
LA MADRE - « NuUa mamma » non vuol dire nulla. Quel che è certo
è che ti adora. È forse per questo che tu non l'ami. Siamo fatte
tutte COSI e nessuno può cambiarci. È buono, il tuo caffé?
EURIDICE - Te lo do, non lo voglio più.
LA MADRE - Grazie. A me piace molto zuccherato. Cameriere, un'al-
tra zolla di zucchero per la signorina. Non lo ami più?
EURIDICE - Chi?
LA MADRE - Mattia.
EURIDICE - Perdi il tempo, mamma.
^ Si tratta della famosa Sara Bernhard t.
330 JEAN ANOUILH
{il cameriere porta lo zucchero, di cattiva voglia)
LA MADRE - Gfazic, amico mio. È pieno di cacature di mosca, che
allegria! Io che ho fatto il giro del mondo in alberghi di lusso
sono arrivata a questo punto. Pazienza. Si scioglierà, {beve il caf-
fé) Del resto, tu hai ragione. Bisogna anzitutto seguire il proprio
istinto come la vera bestia da teatro che sono io. È vero che tu sci
poco artista. Sta' dritta. Ah, ecco Vincenzo. Caro! Sembra fuori
di sé. Sii gentile con lui, ti prego. Sai che è un ragazzo al quale
tengo molto.
VINCENZO {entra. Capelli argentati. Bello e molle sotto apparenze ener-
giche. Gesto largo, sorriso amaro, occhio vago. Baciamano) - Mia
buona amica, ed io che ti cercavo dappertutto.
LA MADRE - Ero qui, con Euridice.
VINCENZO - Quel piccolo segretario è troppo impossibile. Sembra che
si debba aspettare qui più di un'ora. Reciteremo ancora senza aver
pranzato, è la regola. È una cosa irritante, mia cara, si ha un bei-
Tessere pazienti come angeli, è estremamente irritante.
EURIDICE - Non è colpa del segretario se ieri sera c'è stato un tem-
porale.
LA MADRE - Vorrei proprio sapere perche prendi sempre le difese di
quel piccolo idiota.
VINCENZO - Un deficiente, è un deficiente!... Non capisco come Dulac
possa tenere a quel posto un simile incapace. Secondo le ultime
notizie, ha smarrito il baule dei posticci. E domani si danno Les
Burgraves, in diurna... Li vedi, senza barbe?
EURIDICE - Ma lo ritroverà, questo baule. Sarà restato a Montélimar...
VINCENZO - Nel qual caso lo ritroverà forse per domani, ma per sta-
sera, per il Disonore di Genoveffa,., tanti saluti. Pretende che la
cosa non abbia importanza perché si tratta di un'opera moderna,
ma, ad ogni buon conto, ho avvertito Dulac: senza pizzo non
faccio la parte del dottore.
IL CAMERIERE {chc /è avvicinato) - Che cosa prende?
VINCENZO - Nulla, amico mio. Un bicchiere d'acqua, {il cameriere si
dlontana, vinto) Per il primo e per il secondo atto potrà andare
ancora, ma tu capisci, amica mia, che con tutta la buona volontà
di questo mondo non posso recitare la grande scena dei rimpro-
veri del terzo senza il pizzo. Che figura ci farci?
{Euridice si allontana irritata)
LA MADRE - Dovc vai, bambina mia?
EURIDICE - Esco un po', mamma.
EURIDICE 331
{esce bruscamente. Vincenzo Vha guardata, olimpico. Quando è
uscita..,)
VINCENZO - Mia buon'amica, tu sai che non è mia abitudine dare in
escandescenze, ma l'atteggiamento di tua figlia nei miei riguardi
è, per parlar chiaro, proprio scandaloso.
LA MADRE (faccndo la vezzosa e cercando di prendergli la mano) - Mio
grosso gatto...
VINCENZO - La nostra situazione e forse delicata, lo riconosco — ben-
ché, dopo tutto, tu sia libera, dato che sei separata da suo padre
— ma si direbbe proprio ch'essa ci prenda gusto a invelenirla.
LA MADRE - È una piccola oca. Tu sai che protegge quel ragazzo come
protegge, sa Dio perché, tutti quelli che sono mal messi su questa
terra, i vecchi gatti, i cani smarriti, gli ubriachi. L'idea che tu
possa indurre Dulac a licenziarlo l'ha messa fuori di sé.
VINCENZO - Si può essere fuori di sé, ma c'è sempre la maniera.
LA MADRE - Ma Sai che è proprio quel che le manca. Ha un buon ca-
rattere, ma è un piccolo animale, (mattia entra bruscamente. Ha
la barba lunga, è cupo, teso) Guarda, buon giorno, Mattia.
MATTIA - Dov'è Euridice?
LA MADRE - È uscìta proprio adesso.
{Mattia esce. La madre lo guarda allontanarsi)
Povero ragazzo. Ha perduto la testa. Lei è stata molto carina con
lui fino a qualche giorno fa, e poi non so che cosa le è successo,
si direbbe che cerchi, che aspetti qualcosa... Che cosa, non saprei...
{si sente in lontanaza il molino di Orfeo) E che cos'ha quell'idiota
a grattare sempre il suo violino? Mi dà sui nervi.
VINCENZO - Aspetta il treno.
LA MADRE - Non è una buona ragione. Lui, le mosche... E questo
caldo!
(/'/ violino s'è avvicinato. I due ascoltano. Durante questo tempo Eu-
ridice passa in fondo alla scena come se cercasse)
LA MADRE (improvvisamcnte, cambiando voce) - Ti ricordi il grande
Casinò di Ostenda?
VINCENZO - Era l'anno in cui fu lanciato il tango messicano...
LA MADRE - Com'cri bcUol
VINCENZO - In quel tempo portavo ancora le basette...
LA MADRE - E avcvi uDa maniera di fare... Ti ricordi il primo giorno:
((Signora, vorrebbe accordarmi questo tango? ».
VINCENZO - <( Ma, Signore, non ballo il tango messicano ».
332 JEAN ANOUILH
LA MADRE - « Nulla di più sempUce, Signora. La condurrò io, non
avrà che da lasciarsi guidare». Come m'hai detto queste parole!...
Poi mi hai presa^ e allora tutto s'è confuso, la testa del vecchio im-
becille che mi manteneva e che è restato a friggere sulla sedia,
la faccia del barman che mi faceva la corte — era un Corso, di-
ceva che mi avrebbe uccisa — i baflB incerottati degli tzigani, i
grandi giaggioli malva e i ranuncoli verde pallido che decoravano
le pareti... Ah, era delizioso. Era il tempo in cui si usavano i ri-
cami inglesi... Io avevo un vestito tutto bianco...
VINCENZO - Io un garofano giallo all'occhiello e un vestito a quadrettini
verde e marrone...
LA MADRE - Tu mi avevi stretta cosi forte ballando che il vestito mi si
era stampato in rosso sulla pelle... Il vecchio imbecille se ne ac-
corse, mi fece una scenata, io gli diedi uno schiaffo e mi son tro-
vata senza un soldo sulla strada. Ma tu avevi affittato una carrozza
con le nappe rosa ed abbiamo passeggiato lungo il mare fino a
sera...
VINCENZO - Ah! incertezze e turbamenti del primo giorno! Ci si cerca,
ci si sente, ci si indovina, non ci si conosce ancora e tuttavia si sa
già che sarà per tutta la vita...
LA MADRE (camìnondo improvvisamente tono) - Perché ci siamo la-
sciati quindici giorni dopo?
VINCENZO - Non so. Non ricordo.
{Orfeo ha smesso di suonare, Euridice è di fronte a lui. Si guardano)
EURIDICE - Era lei che suonava poco fa?
ORFEO - Si, ero io.
EURIDICE - Come suona bene!
ORFEO - Le pare?
EURIDICE - Come si chiama quello che suonava?
ORFEO - Non so. Invento...
EURIDICE (suo malgrado) - Peccato!
ORFEO - Perche?
EURIDICE - Non saprei. Mi sarebbe piaciuto che avesse un nome.
(una RAGAZZA possa sul marciapiede, vede Euridice, la chiama)
LA RAGAZZA - Euridicc, sci lì?
EURIDICE (continuando a guardare Orfeo) - Si.
LA RAGAZZA - Ho visto adesso Mattia. Ti cerca, mia cara...
EURIDICE - Si. (guarda Orfeo) I suoi occhi sono azzurro chiaro.
ORFEO - Si. Ma non si capisce bene il colore dei suoi.
EURIDICE - Dicono che dipenda da quello che penso.
EURIDICE 333
ORFEO - In questo momento sono verde scuro come l'acqua profonda
vicino alle pietre delle banchine.
EURIDICE - Dicono che sono cosi quando sono molto felice.
ORFEO - Chi « dicono »?
EURIDICE - Gli altri.
LA RAGAZZA (rtpossa c grida dai maràapiedé) - Euridice!
EURIDICE (senza voltarsi) - Si.
LA RAGAZZA - Non dimenticare Mattia.
EURIDICE - Si. (chiede improvvisamente) Lei crede che mi farà soffrire
molto?
ORFEO (sorride con dolcezza) - Non lo credo.
EURIDICE - Non è che io abbia paura di essere infelice cosi come lo so-
no adesso. No, ciò fa male, ma ha qualcosa di buono. Quello
che mi fa paura è di essere infelice e sola quando lei mi lascerà.
ORFEO - Non la lascerò mai.
EURIDICE - Me lo giura?
ORFEO - Si.
EURIDICE - Sulla mia testa.
ORFEO (sorride) - Si.
(si guardano. Lei dice improvvisamente, con dolcezza)
EURIDICE - Mi piace tanto quando lei sorride.
ORFEO - E lei, lei non sorride?
EURIDICE - Mai quando sono felice.
ORFEO - Credevo che fosse infelice.
EURIDICE - Ma allora non capisce nulla? Anche lei dunque è un vero
uomo? Non vede in quali guai ci siamo messi tutti e due, qui
l'uno di fronte all'altra, con tutto quello che ci accadrà e che è già
tutto pronto alle nostre spalle?
ORFEO - Crede che ci accadranno molte cose?
EURIDICE - Ma tutte, tutte le cose che accadono ad un uomo e ad una
donna sulla terra, nessuna esclusa...
ORFEO - Le piacevoli, le dolci, le terribili?
EURIDICE - E le vergognose, e anche le sporche... Saremo tanto infelici.
ORFEO (prendendola fra le braccia) - Che gioia!
(Vincenzo e la madre che sognavano con le teste accostate ripren-
dono a parlare sommessamente)
VINCENZO - Ah! L'amore, l'amore! Vedi, mia bella, su questa terra do-
ve tutto ci ferisce, ci delude e ci fa male, è meraviglioso conforto
pensare che ci resta l'amore...
LA MADRE - Gatto mio...
334 JEAN ANOUILH
VINCENZO - Tutti gli uomini sono bugiardi, incostanti, falsi, ciarlieri,
ipocriti, orgogliosi o vili, Luciana, spregevoli o sensuali; tutte le
donne sono perfide, affettate, vane, curiose o corrotte. Il mondo
non è che una cloaca senza fondo dove bestie deformi strisciano
e si contorcono sopra montagne di fango. Ma esiste al mondo
una cosa santa e sublime, ed è l'unione di questi due esseri cosi
imperfetti e orridi!
LA MADRE - Si, gatto mio. È Perdicano *.
VINCENZO {si ferma, sorpreso) - Credi? Infatti l'ho recitato tante volte...
LA MADRE - Ti ricordi? Lo recitavi quella prima sera al Grande Ca-
sinò di Ostenda. Ed io recitavo la Vergine Folle, ma comparivo
soltanto nel primo atto. Son venuta ad aspettarti nel tuo camerino.
Tu uscivi di scena ancora tutto vibrante delle belle parole d'amo-
re che avevi pronunciato e mi hai amata cosf subito, in costume
Luigi XV...
VINCENZO - Ah, le nostre notti d'amore, Luciana. Unione dei corpi e
delle anime! Istante unico in cui non si sa più se sia la carne o
l'anima che palpita...
LA MADRE - Lo sai chc sci stato un amante meraviglioso, mio grosso
cane?
VINCENZO - E tu la più adorabile delle amanti!
LA MADRE - Ma chc sciocchezza ho detto, tu non eri un amante, tu
eri l'amante. L'incostante e il fedele, il forte e il tenero, il folle.
Tu eri l'amore. Come mi hai fatto soffrire...
VINCENZO - Ah, si è spesso ingannati, in amore, e spesso feriti e infe-
lici, Luciana, ma si ama. E quando si è sull'orlo della tomba, ci
si volge per guardare indietro e ci si dice: « Ho spesso sofferto, mi
sono talvolta ingannato, ma ho amato. Sono io che ho vissuto e
non un essere vano creato dal mio orgoglio e dal mio tedio! ».
LA MADRE (applaude) - Bravo, gatto mio, bravo!
VINCENZO - Era ancora Musset?
LA MADRE - Si, gatto mio.
(Orfeo ed Euridice li hanno ascoltati, stretti Vuno all'altra, come sgo-
menti)
EURIDICE - Li faccia tacere, per carità, li faccia tacere.
(Orfeo va verso la coppia mentre Euridice si nasconde)
ORFEO - Signore e signora, il mio atteggiamento vi sembrerà certa-
^ Il protagonista di On ne badine pus avec Vamour, di Musset.
EURIDICE 335
mente incomprensibile, strano, anzi molto strano, ma, ecco, bi-
sogna che voi usciate.
VINCENZO ' Che noi usciamo?
(MtFEo - S(, signore.
VINCENZO - Si chiude?
ORFEO - S{, per voi.
VINCENZO (alzandosi) - Ma insomma, signore...
LA MADRE {alzondosi onchc lei) - Non è uno del locale. Lo riconosco,
è quello che suonava il violino...
ORFEO - È necessario che voi scompariate immediatamente. Vi assi-
curo che se potessi darvi una spiegazione ve la darei. Ma non pos-
so spiegarvi, voi non capireste. Qui, in questo momento sta acca-
dendo qualcosa di grave.
LA MADRE - Ma è matto, questo giovane!...
VINCENZO - Ma insomma, perdìo, è un'assurdità, questo è un locale
pubblico.
CMIFEO - Non più, adesso.
LA MADRE - Ah, è troppo... (chiama) Signora, per favore, cameriere.
ORFEO (// spinge verso la parta) - No, non chiamate, vi prego. Pa-
gherò io le vostre consumazioni.
LA MADRE - Non Subiremo una simile prepotenza.
ORFEO - Io sono un giovane molto pacifico, molto cortese, e timido,
anche, molto timido. Le assicuro, signora, che prima non avrei
osato fare una cosa simile.
LA MADRE - Mai vista una cosa del genere.
ORFEO - Mai vista. Io almeno non Tho mai vista.
LA MADRE (a Vincenzo) - E tu non dici nulla, tu?
VINCENZO - Andiamo via, non vedi che non ha la testa a posto?
LA MADRE (escc gridando) - Andrò a protestare dal capostazione.
EURIDICE (uscendo dal suo nascondiglio) - Ah, com'erano brutti, è
vero? Com'erano brutti e stupidi!
ORFEO (si volge verso di lei sorridendo) - Zitta! Non parliamo più di
loro. Come tutto rientra nell'ordine adesso che siamo soli, come
tutto diviene semplice e luminoso! Mi sembra che sia la prima
volta che vedo dei lampadari, delle piante verdi, delle sfere di me-
tallo, delle sedie... Che cosa graziosa, una sedia. Sembra un in-
setto che spii il rumore dei nostri passi e che stia per scappare con
un balzo delle sue quattro magre gambe... Attenzione, fermi o
facciamo un salto... (salta, trascinando Euridice) L'abbiamo presa!
E com'è comoda una sedia. Ci si può sedere... (la fa sedere con
336 JEAN ANOUILH
un gesto comicamente cerimonioso, poi la guarda tutto triste) Sol-
tanto non capisco perché abbiano inventato la seconda.
EURIDICE (facendogli posto sulla sedia) - Era per le persone che non
si conoscono...
ORFEO (la stringe fra le braccia gridando) - Ma io la conosco. Poco
fa suonavo il violino e lei passava sul marciapiede della stazione
ed io non la conoscevo... Adesso tutto è cambiato, io la conosco!
È straordinario. Tutto è diventato improvvisamente straordinario
attorno a noi. Guardi... Com'è bella la cassiera, con i suoi grossi
seni delicatamente adagiati sul marmo della cassa. E il cameriere!
Guardi il cameriere. Quei lunghi piedi negli stivalini abbottonati,
la sua calvizie distinta e quell'aria nobile, cosi nobile... Era una
sera veramente straordinaria, questa sera. Noi dovevamo* incon-
trarci e incontrare anche il più nobile cameriere di Francia. Un ca-
meriere che avrebbe potuto essere prefetto, colonnello, membro
della Commedia Francese. Dica, cameriere...
IL CAMERIERE [si avvicina) - Signore.
ORFEO - Lei mi piace.
IL CAMERIERE - Ma, signore...
ORFEO - Proprio. E non protesti. Sa, io sono sincero e non uso far com-
plimenti. Lei è magnifico. La signorina ed io ci ricorderemo eter-
namente di lei e della cassiera. Glielo dirà, vero?
IL CAMERIERE - SÌ, signore.
ORFEO - Ah, com'è divertente vivere! Non immaginavo che fosse cosi
appassionante respirare, avere del sangue che circola nelle vene,
dei muscoli che si muovono...
EURIDICE - Le peso?
ORFEO - Oh no! Lei ha giusto il peso che era necessario al mio per
farmi tenere sulla terra. Fino a poco fa, ero troppo leggero, ondeg-
giavo, urtavo contro i mobili e le persone. Le mie braccia si sten-
devano troppo, le mani lasciavano cadere le cose. Com'è strano, e
come sono stati fatti alla leggera i calcoli degli scienziati sulla pe-
santezza. Mi accorgo adesso che mi mancava esattamente l'ag-
giunta del suo peso per far parte di questa atmosfera...
EURIDICE - Ah, caro, lei mi fa paura. Ne fa parte almeno, adesso?
Non volerà mai più?
ORFEO - Mai più.
EURIDICE - Che farei, io, tutta sola sulla terra, come una povera stu-
pida, se lei mi lasciasse? Mi giuri che non mi lascerà mai.
ORFEO - Glielo giuro.
EURIDICE - Si, ma questo è un giuramento facile! Che non abbia
EURIDICE 337
rintenzione di lasciarmi lo spero bene. Ma se vuole rendermi fe-
lice mi giuri che non avrà mai voglia di lasciarmi, nemmeno più
tardi, nemmeno per un minuto, nemmeno se la guardasse la più
bella ragazza del mondo.
ORFEO - Le giuro anche questo.
EURIDICE {si alza di scatto) - Ah, vede com'è falso lei! Mi giura che
non avrebbe voglia di lasciarmi nemmeno se la guardasse la più
graziosa donna del mondo, ma per sapere che quella la guarda
lei ha dovuto guardarla. Ah, Dio mio, come sono infelice! Lei ha
appena cominciato ad amarmi e già pensa ad altre donne. Mi giu-
ri, caro, che non la vedrà nemmeno, quella stupida...
ORFEO - Sarò cieco.
EURIDICE - £ poi, anche se lei non la vedesse, la gente è cosi cattiva
che si affretterà a dirglielo per farmi soffrire. Mi giuri che non
sentirà nessuno.
ORFEO - Sarò sordo.
EURIDICE - Oppure no, c'è qualcosa molto più semplice, mi giuri su-
bito, sinceramente, spontaneamente, e non per farmi piacere, che
nessuna donna le sembrerà graziosa, nemmeno quelle del genere
(( bella »... che non significa nulla, sa...
ORFEO - Glielo giuro.
EURIDICE (diffidente) - Nemmeno una che mi rassomigliasse.^
ORFEO - Nemmeno. Ne diffiderei per questo.
EURIDICE - E lo giura spontaneamente.?
ORFEO - Spontaneamente.
EURIDICE - Bene. E, s'intende, sulla mia testa.
ORFEO - Sulla sua testa.
EURIDICE ' Lei sa bene che quando si giura sulla testa, l'altra persona
muore se non si mantiene il giuramento.
ORFEO - Lo so.
EURIDICE {riflette un po') - Bene. Ma, per caso, non è possibile —
che c'è tutto da aspettarsi da lei, con quella sua aria angelica — non
è possibile che lei pensi dentro di sé: «Posso ben giurare sulla sua
testa. Che cosa rischio? Se muore al momento in cui vorrò la-
sciarla, sarà in fondo più comodo. Una morta si lascia facilmente,
senza scenate, senza lagrime...». Oh, la conosco!
ORFEO {sorride) - Ingegnoso, ma non ci avevo proprio pensato.
EURIDICE - Sul serio? È meglio che me lo dica subito.
ORFEO - Sul serio.
EURIDICE - Me lo giuri.
ORFEO {alza la mano) - Ecco.
22. - Teatro francete
338 JEAN ANOUILH
EURIDICE (avvicinandosi) - Bene. Allora adesso le dico una cosa. Vo-
levo soltanto metterla alla prova. Noi non abbiamo fatto veri giu-
ramenti. Per fare un vero giuramento non basta fare un piccolo
gesto con la mano, un piccolo gesto equivoco che si può inter-
pretare come si vuole. Bisogna stendere il braccio cosi, sputare per
terra.. Non rida, lei sa che è molto serio come lo faremo adesso.
Alcuni dicono che non solo la persona muore d'un colpo « le
si manca di parola, ma che soffre molto morendo.
ORFEO (gravemente) - Lo tengo presente.
EURIDICE - Bene. Adesso che lei sa a che cosa mi esporrebbe se mi
mentisse anche un pochettino, adesso mi giurerà, per favore, caro,
stendendo la mano e sputando per terra, che tutto quello che mi
ha giurato era vero.
ORFEO - Sputo, stendo la mano, giuro.
EURIDICE - Bene, adesso le credo. Del resto, è cosC facile ingannarmi,
sono cosi poco diffidente! Lei sorride, mi prende in giro?
ORFEO - Io la guardo. Mi accorgo che non avevo ancora avuto il tem-
po di guardarla.
EURIDICE - Sono brutta? Qualche volta, quando ho troppo pianto o
riso troppo, mi viene una piccola macchia rossa all'angolo del
naso. Preferisco dirglielo subito perché poi lei non abbia brutte
sorprese.
ORFEO - Mi rassegnerò.
EURIDICE - Inoltre sono magra. Non quanto sembra, no, mi vedo abba-
stanza ben fatta quando mi lavo, ma insomma non sono una di
quelle donne sulle quali ci si può appoggiare comodamente.
ORFEO - Non cercavo comodità.
EURIDICE - Non posso darle che quello che ho, nevvero? Allora, non
s'immagini chi sa che cosa... Sono anche stupida, non so dir nulla
e non bisogna contare su di me per la conversazione.
ORFEO (sorride) - Ha parlato sempre...
EURIDICE - Parlo sempre, ma non so rispondere. È per questo che
parlo sempre, per impedire che mi facciano delle domande. È la
mia maniera di essere muta. Si fa quel che si può. Naturalmente, lei
tutto ciò non lo può soffrire. Vede come sono fortunata? Lei non
troverà in me nulla che le piaccia.
ORFEO - S'inganna. Mi piace quando lei parla troppo. È un piccolo ru-
more che mi riposa.
EURIDICE - Macché! Son sicura che a lei piacciono le donne misteriose.
Genere Greta Garbo. Quelle che hanno due metri d'altezza, gran-
di occhi, grandi mani e che si smarriscono tutto il giorno nel bo-
EURIDICE 339
SCO, fumando... Io non sono per nulla cost. Bisogna che lei si ras-
segni subito.
ORFEO - È fatto.
EURIDICE - Si dice così, ma vedo bene nei suoi occhi... {gli si getta
fra le braccia) Ah, mio caro, caro, è troppo triste non essere quella
che le piace! Ma che vuole che faccia? Che diventi più alta? Pro-
verò. Farò ginnastica. Che abbia l'aria feroce?... Stralunerò gli
occhi, mi truccherò di più. Proverò ad essere tenebrosa, a fumare...
ORFEO - Ma no!
EURIDICE - Si, sf, cercherò di essere misteriosa. Ah, non creda che sia
molto difficile essere misteriosa. Basta non pensare a nulla. È alla
portata di qualsiasi donna.
ORFEO - Che matta!
EURIDICE - Lo sarò, ci conti. E saggia, anche. E spendereccia o eco-
noma, secondo i casi, e docile come una piccola odalisca che si può
rigirare come si vuole nel letto, o terribilmente ingiusta i giorni
in cui lei avesse voglia di essere un po' infelice per causa mia. Oh,
soltanto quei giorni, sia tranquillo... I quali saranno compensati
dai giorni in cui sarò materna — così materna da riuscire un po'
fastidiosa — i giorni del foruncolo o del mal di denti. Infine mi
resteranno da fare le parti della borghese, della maleducata, della
pudibonda, dell'ambiziosa, dell'eccitata, della molle, per i giorni
vuoti.
ORFEO - E lei crede di poter rappresentare tutte queste parti?
EURIDICE - Sarà ben necessario, caro, per tenerla, che lei avrà voglia
di tutte le donne...
ORFEO - Ma quand'è che sarà se stessa?
EURIDICE - Fra l'una e l'altra. Quando avrò cinque minuti me la
sbroglierò.
ORFEO - Sarà una vita da cani.
EURIDICE - È così l'amore. E ancora per le cagne le cose sono più
facili. Con i cani basta lasciarsi fiutare un po' e poi mettersi a trot-
terellare distrattamente per alcuni metri con l'aria di non accor-
gersi di nulla. Ma gli uomini sono tanto più complicati!
ORFEO {la trae a sé ridendo) - Temo che la farò soffrire molto.
EURIDICE - Oh s{. Io sarò tutta piccola, per nulla esigente. Basterà sol-
tanto che la notte mi lasci dormire sulla sua spalla, che mi tenga
la mano tutto il giorno...
ORFEO - A me piaceva dormire sul dorso, di traverso. E mi piacevano
le lunghe passeggiate solitarie...
EURIDICE - Potremo provare a metterci di traverso l'uno accanto all'ai-
340 JEAN ANOUILH
tra, e nelle passeggiate io camminerò stando un po' indietro, se
vuole. Ma non troppo. Quasi accanto a lei, però. Ma Tamerò tan-
to, anche! E le sarò fedele, tanto fedele. Bisognerà soltanto par-
larmi continuamente, per non lasciarmi il tempo di pensare delie
stupidaggini.
ORFEO (pensa un momento in silenzio tenendola fra le braccia) - Chi
è lei? Mi sembra di conoscerla da tanto tempo.
EURIDICE - Perche chiedere chi siamo? È cosi poco importante sapere
chi siamo!
ORFEO - Chi è lei? Ormai è troppo tardi, lo capisco, ed io non posso
più lasciarla... Lei è sorta improvvisamente in questa stazione. Io
ho smesso di suonare il violino ed ora Tho qui fra le mie braccia.
Chi è lei?
EURIDICE - Nemmeno io so chi è lei. Eppure non ho nessun desiderio
di saperlo. Mi sento bene, non chiedo altro.
ORFEO - Non so perché, ma ho paura che mi capiti di colpo qualcosa
di triste.
LA RAGAZZA {passa sul marciapiede) - Ma come, sei ancora lì? Mattia
ti aspetta nella sala d'aspetto di terza classe. Se non vuoi avere
ancora delle storie, piccola mia, faresti bene ad andare...
ORFEO {lasciando Euridice) - Chi è questo Mattia?
EURIDICE (rapida) - Nessuno, caro.
ORFEO - Son tre volte che vengono a dirle che la cerca.
EURIDICE - È uno della compagnia. È nessuno. Mi cerca. Ebbene si,
mi cerca. Ha forse qualcosa da dirmi.
ORFEO - Chi è questo Mattia?
EURIDICE (grida) - Io non l'amo, caro, non l'ho mai amato!
ORFEO - È il suo amante?
EURIDICE - Oh, si fa presto a dire le cose, a dare a tutte le cose lo
stesso nome. Ma preferisco dirle subito la verità e spontaneamente.
Bisogna che tutto sia limpido fra di noi. Si, è il mio amante.
(Orfeo si scosta)
Oh! non si allontani. Avrei voluto tanto poterle dire: sono una
bambina, ho aspettato lei, sarà la sua mano che mi toccherà per
la prima volta. Ho tanto desiderato dirglielo che, è stupido, mi
sembra che sia davvero cosi.
ORFEO - È da molto tempo il suo amante?
EURIDICE - Non so più. Forse da sei mesi. Non l'ho amato mai.
ORFEO - E allora perche?
EURIDICE - Perché? Oh, non mi faccia domande. Quando non ci si co-
EURIDICE 341
nosce ancora bene, quando non si sa tutto Tuno dell'altro, e non
è tutto spiegato, allora le domande divengono armi terribili...
ORFEO - Perché? Vorrei saperlo.
EURIDICE - Perché? Ebbene, egli era infelice, io ero stanca. Ero sola.
Lui mi amava.
ORFEO - E prima?
EURIDICE - Prima, caro?
ORFEO - Prima di lui.
EURIDICE - Prima di lui?
ORFEO - Non ha avuto altri amanti?
EURIDICE {ha un'esitazione impercettibile) - No, mai.
ORFEO - Allora è lui che le ha rivelato l'amore? Risponda. Perché ta-
ce? Mi aveva detto che fra noi non voleva che la verità.
EURIDICE {grida disperatamente) - Si, caro, ma io cerco quello che le
farà meno male!... Che sia lui, che lei forse non vedrà, oppure un
altro, molto tempo fa, che lei non avrà mai conosciuto...
ORFEO - Non si tratta di sapere quello che mi farà meno male. Si
tratta di sapere quello che è vero.
EURIDICE - Ebbene, quando ero ancora una bambina, un uomo, uno
straniero mi ha presa, quasi di forza... È durata qualche settimana
e poi è ripartito.
ORFEO - Lo amava, quello lì?
EURIDICE - Soffrivo, avevo paura, avevo vergogna.
ORFEO {dopo un momento di silenzio) - È tutto?
EURIDICE - Si, caro. Lo vede, era una cosa tanto stupida, tanto mise-
revole, e tanto semplice.
ORFEO {sordamente) - Cercherò di non pensare mai a loro.
EURIDICE - Si, caro.
ORFEO - Cercherò di non immaginarmi mai il loro viso presso al suo,
i loro occhi su di lei, le loro mani su di lei.
EURIDICE - Si, caro.
ORFEO - Cercherò di non pensare mai che essi l'abbiano avuta fra le
braccia, {la riprende fra le braccia) Ecco, tutto ricomincia. Sono io
che adesso la tengo.
EURIDICE {con dolcezza) - Si sta bene fra le sue braccia. Come in una
casetta ben chiusa in mezzo al mondo, una casetta dove nessun
altro potrà mai piò entrare. {Orfeo si china su di lei) In que-
sto caffé?
ORFEO - In questo caffé. Io che arrossisco quando la gente mi guarda,
io vorrei che questo caffé fosse pieno di gente... Saranno ad ogni
modo delle belle nozze. Avremo avuto per testimoni la cassiera,
342 JEAN ANOUILH
il cameriere più nobile di Francia, e un piccolo modesto signore
in impermeabile che finge di non vederci, ma che, ne sono sicuro,
ci vede...
{la tacia. il giovane in impermeabile che era restato muto in fondo
alla scena, si alza piano e viene ad appoggiarsi ad una colonna più
vicino a loro. Essi non lo vedono. Improvvisamente Euridice si
scioglie dair abbraccio)
EURIDICE - Adesso bisogna che mi lasci. Ho ancora qualcosa da fare.
Non mi chieda nulla. Esca un minuto, la richiamerò.
(accompagna Orfeo, poi va rapidamente verso la porta spalancata sul
marciapiede. Si ferma e resta un momento immobile sulla soglia.
Si capisce che guarda qualcuno che non si vede e che la guarda
anche lui in silenzio. Poi improvvisamente, con voce dura, grida:
« Entra! ». Mattia avanza lentamente senza smettere di guardarla.
Si ferma sulla soglia)
EURIDICE - M'hai vista? L'ho abbracciato. Lo amo. Che cosa vuoi, tu?
MATTIA - Chi è?
EURIDICE - Non lo so.
MATTIA - Sei pazza.
EURIDICE - Si, sono pazza.
MATTIA - Da otto giorni tu mi sfuggi.
EURIDICE - Da otto giorni ti sfuggo, si; ma non per lui, lo conosco
da un'ora appena.
MATTIA (vede negli occhi di Euridice qualcosa che lo spaventa) - Che
cosa stai per dirmi?
EURIDICE - Lo sai, Mattia.
MATTIA - Euridice, tu sai che non posso vivere senza di te.
EURIDICE - Si, Mattia, l'amo.
MATTIA - Tu sai che preferisco crepare subito piuttosto che continuare
questa vita solo, adesso che ti ho avuta accanto a me. Non ti chie-
do nulla, Euridice, ti chiedo soltanto di non lasciarmi tutto solo...
EURIDICE - Io l'amo, Mattia.
MATTIA - Ma allora non sai dirmi altro?
EURIDICE (calma, implacabile) - L'amo.
MATTIA (uscendo di furia) - Va bene, sarà colpa tua.
EURIDICE (correndogli dietro) - Ascolta, Mattia, cerca di capire: io ti
voglio bene, ma l'amo...
(sono usciti. Il giovane daìV impermeabile li segue con lo sguardo, poi
esce lentamente anche lui. La scena resta per un momento vuota.
EURIDICE 343
Si sente il suono del campanello e il fischio del treno in lontanan-
za, Orfeo rientra guardando Euridice e Mattia che si allontanano.
Dietro di lui irrompe il padre con la sua arpa)
IL PADRE - Arriva il treno, figliolo. Secondo binario... Vieni? (ja qual-
che passo, con aria distratta) Di', hai pagato? Mi pare che sei
stato tu ad invitarmi.
ORFEO (calmo, senza guardarlo in faccia) - Non parto, papà.
IL PADRE - Perché aspettare sempre Tultimo momento? Il treno sarà
qui fra due minuti e dobbiamo attraversare il sottopassaggio. Con
Tarpa faremo appena in tempo.
ORFEO - Non prendo questo treno.
IL PADRE - Come non prendi questo treno? E perché mai? È l'unico
che ci possa portare questa sera a Palavas.
ORFEO - Allora prendilo, io non parto.
IL PADRE - Che cos'è questa novità? Che ti piglia?
ORFEO - Ecco, papà. Io ti voglio molto bene, so che hai bisogno di me
e che per te sarà una cosa terribile, ma un giorno o l'altro doveva
accadere: io ti lascio...
IL PADRE (come se cadesse ddle nuvole) - Che dici?
ORFEO (mettendosi a gridare) - Tu m'hai capito benissimo! Non te lo
fare ripetere per dare inizio alla commedia patetica. Non tratte-
nere il respiro per impallidire, non cominciare a fingere di tre-
mare e di strapparti i capelli! Conosco il giuoco. Ti riusciva quan-
do ero bambino. Adesso non attacca più. (ripete a bassa voce) Do-
vrò lasciarti, papà.
IL PADRE (cambiando tattica e assumendo i modi di una dignità esa-
gerata) - Mi rifiuto di ascoltarti, ragazzo mio. Non hai la testa
a posto. Vieni.
ORFEO - -\nche la dignità sarà inutile. Ti ripeto che conosco tutti i
tuoi trucchi.
IL PADRE (esacerbato) - Oblia i miei capelli bianchi, oblia pure i miei
capelli bianchi! Ci sono abituato. Ma ti ripeto che mi rifiuto di
ascoltarti. È chiaro?
ORFEO - Bisogna tuttavia ascoltarmi perche non hai che due minuti di
tempo per capirmi.
IL PADRE (ghigna nobilmente) - Ah! Ah!
ORFEO - Non ghignare nobilmente, ti prego. Ascoltami. Dovrai par-
tire solo, con questo treno. È la sola possibilità che ti resta di avere
il posto di arpista che ti hanno offerto a Palavas-les-Flots.
IL PADRE (stride) - Ma l'ho rifiutato, quel posto. L'ho rifiutato per te.
ORFEO - Dirai che ci hai ripensato, che mi abbandoni, che accetti. Pro-
344 JEAN ANOUILH
babilmente Tortoni non ha trovato da sostituirti. È un tuo amico.
Ti preferirà agli altri.
IL PADRE {amaramente) - Ah, si, gli amici, i figli, le cose sacre. Tutto
ciò un bel giorno vi scoppia fra le mani. Ne so qualcosa, io.
L'amicizia di Tortoni, ah! ah! (ghigna nobilmente)
ORFEO - Credi che non ti darà il posto?
IL PADRE - Son sicuro che me lo rifiuterà.
ORFEO - Tuttavia te l'aveva offerto.
IL PADRE - Me l'aveva offerto, ma ho rifiutato. Ha sentito profonda-
mente l'affronto. E non dimenticare che è italiano, gente che non
perdona.
ORFEO - Prendi lo stesso il treno, papà. Appena sarai partito, telefonerò
al Casinò di Palavas. Ti assicuro che lo convincerò a dimenticare
il tuo rifiuto.
IL PADRE (grida con una forza insospettata in un corpo cosi debole) -
Giammai !
ORFEO - Non urlare. Tortoni non è cattivo. Son sicuro che mi presterà
ascolto.
IL PADRE ' Giammai, capisci! Tuo padre non si umilierà mai.
ORFEO - Ma sarò io ad umiliarmi. Dirò che la colpa è stata mia.
IL PADRE - No, no. (/'/ fischio del treno si fa più uiano. Il padre si pre-
cipita nervosamente sugli involti) 11 treno, il treno, figliolo. Tron-
chiamo questa scena penosa che mi riesce inesplicabile. Seguimi,
mi spiegherai in treno.
ORFEO - Non posso partire, papà. Forse ti raggiungerò più tardi.
IL PADRE - Ma perché venire dopo? Non abbiamo i nostri due bi-
glietti?
(// treno fischia)
ORFEO - Telefono subito, (si avvicina alla cassa) Signora, posso tele-
fonare da qui?
IL PADRE (lo raggiunge) - Ascolta, figliolo, non telefonare a quell'in-
dividuo. Preferisco dirti subilo che il posto di arpista...
ORFEO - Ebbene?
IL PADRE - Non mi è stato mai offerto.
ORFEO - Come?
IL PADRE - Dicevo cosi per darmi importanza davanti a te. Ero io che
avevo sentito parlare della cosa. L'avevo supplicato di prendermi,
ma lui ha rifiutato.
ORFEO (dopo un momento di silenzio) - Capisco... Pensavo che tu po-
tessi avere quel posto. Peccato. Sarebbe stata una soluzione.
(pausa)
EURIDICE 345
IL PADRE (sommessamente) - Io sono vecchio, Orfeo...
(U treno fischia di nuovo)
ORFEO {bruscamente, con una specie di jebbre) - Prendi lo stesso il
treno, te ne supplico, papà; parti lo stesso per Palavas-les-Flots; ci
sono là dei caffé, è la stagione, son sicuro che ti guadagnerai la
vita.
IL PADRE - Soltanto con Tarpa... Tu scherzi!
ORFEO - Ma quello che colpiva la gente era soprattutto Tarpa. Non è
comune. Il violino è lo strumento di tutti i mendicanti. L*arpa,
lo dicevi spesso tu stesso, ci dava Taria di artisti.
IL PADRE - Si, ma tu suonavi bene il violino, e poi le donne ti vede-
vano giovane, piacente ed allora davano un colpetto al gomito dei
loro uomini perché mettessero un franco nel piattino. Per me solo
non daranno la spintarella.
ORFEO (cerca di scherzare) - Ma si, papà, le donne più mature; sai
bene che sei un vecchio don Giovanni.
IL PADRE (getta uno sguardo sulla cassiera che poco fa lo ha umiliato,
dà una carezza dia testa calva) - Oh, detto fra noi, un vecchio don
Giovanni per serve di bettole e, per di più, brutte.
ORFEO - Tu esageri, papà, tu hai ancora molti successi.
IL PADRE ' Quelli che ti racconto io, ma le cose non sono sempre esat-
tamente come le racconto io... E poi, non te Tavevo mai detto — che
vuoi, sono io che ti ho formato, avevo il mio orgoglio di padre —
... non so se te ne sei già accorto, io... io Tarpa la suono molto male.
(un silenzio terribile; Orfeo abbassa la testa, ma non può trattenere
un sorriso)
ORFEO - È difficile non accorgersene, papà.
IL PADRE - Vedi? Lo dici tu stesso...
(una pausa. Il treno fischia da vicino)
ORFEO (lo scuote) - Papà, non posso fare nulla per te. Fossi ricco, ti
darei del denaro, ma non ne ho. Va' a prendere il treno, tieni per
te tutto quello che avevamo e buona fortuna. Non posso darti altro.
IL PADRE - Un momento fa tu dicevi che non potevi lasciarmi.
ORFEO - Era così poco fa, ma ora lo posso. (// treno entra in stazione)
Ecco il treno. Sbrigati, prendi Tarpa.
IL PADRE (che resiste ancora) - Hai incontrato qualcuno, e vero?
ORFEO - Si, papà.
IL PADRE - La piccola che poco fa è venuta a chiedermi chi suonava il
violino, vero?
346 JEAN ANOUILH
ORFEO (in ginocchio davanti alle t/olige) - Sf, papà, (toglie alcuni og-
getti da una valigia e li passa nelVdtra)
IL PADRE - Ho fatto quattro chiacchiere con quella gente. Sai che è
un'attricetta di una compagnia da nulla, che recita nei baracconi.
Quella donnina ti spennerà.
ORFEO - Si, papà, fa' presto...
IL PADRE {anche lui in ginocchio a frugare nelle valige) - E dire che
ti avevo trovato una ragazza stupenda, scultorea, primo premio
del Conservatorio di Marsiglia, dal profilo greco. Una pianista I
Avremmo fatto un trio. Io mi sarei messo al violoncello... Non
avrei mai immaginato una cosa simile da te, Orfeo...
ORFEO - Nemmeno io, papà, fa' presto.
IL PADRE - Ti maledico! La pagherai cara!
ORFEO - Si, papà.
IL PADRE {si alza) ' Ridi, ridi, ho un biglietto della lotteria, posso di-
ventare ricco da un giorno all'altro, e tu non avrai nulla.
ORFEO {ride suo malgrado, lo prende per le spalle) - Papà mio, mio
vecchio papà, mio tremendo papà, io ti voglio molto bene, mal-
grado tutto, ma non posso più nulla per te.
l'altoparlante - I viaggiatori per Béziers, Montpellier, Séte, Palavas-
les-Flots, in carrozza.
ORFEO - Presto, finirai per perdere il treno. Hai l'arpa e la valigia
grande? Io ho duecento franchi. Prendi per te tutto il resto.
IL PADRE {i^un tratto) - Credi che mi rimborseranno il tuo biglietto?
ORFEO {abbracciandolo) - Non so. Sono felice, papà. Ti voglio bene.
Ti scriverò. Dovresti essere un po' contento di vedermi felice, ho
tanto desiderio di vivere!
IL PADRE {che va raccogliendo i fagotti) - Non ce la farò a portare
tutto da solo.
ORFEO - Ti aiuterò. Prenderai un facchino.
IL PADRE {lancia dalla soglia una specie di ridicola maledizione fa-
cendo cadere una parte dei fagotti) - Tu abbandoni tuo padre per
una donnina, per una donnina che forse non t'ama nemmeno!
ORFEO {grida anche lui seguendolo) - Io sono felice, papà.
VOCI dall'esterno - In carrozza, in carrozza.
IL PADRE - £ per me sarà la fine.
ORFEO {lo spinge) - Presto, presto, papà.
{fischi, rumori di portiere, soffi di vapori, il treno si mette in moto.
Entra Euridice con una piccola valigia e va a sedersi in un angolo,
Orfeo ritorna, va verso di lei, che lo guarda)
ORFEO - Ecco, è fatto.
EURIDICE 347
EURIDICE (con voce strana) - Anch'io. È fatto.
ORFEO (china la testa) - Le chiedo scusa. È un po' ridicolo. Era mio
padre.
EURIDICE - Non c'è bisogno di chiedermi scusa. La signora che poco
fa tubava amorosamente era mia madre. Non avevo osato dir-
glielo.
(sono uno di fronte all'altro e si sorridono con dolcezza)
ORFEO - Ho piacere che anche lei abbia dovuto arrossire. È un po' co-
me se fossimo fratelli.
EURIDICE (sorride) - Mi sembra di vederla bambino a trottare dietro
di lui con il suo violino.
ORFEO - Aveva un posto in un'orchestra, ma mi faceva già suonare nel-
le terrazze dei caffè, tra i tavoli. Un giorno una guardia ci portò
via. Papà gridava che era cugino di un ministro, che la cosa sa-
rebbe finita male, la guardia rideva, io, che avevo dieci anni, pian-
gevo, mi vergognavo, credevo che sarci finito in galera.
EURIDICE (con le lagrime agli occhi) - Oh, caro, ed io non ero con lei!
L'avrei preso per mano, sarei venuta con lei, le avrei spiegato che
la cosa non era tanto grave. A dieci anni io sapevo già tutto.
ORFEO - Allora suonava il trombone. Ha provato tutti gli strumenti,
il poveretto, senza successo. Io dicevo alla porta « Sono il figlio del
trombone » e mi lasciavano entrare nel cinema. Erano belli « I
Misteri di New York » !...
EURIDICE - E « La Maschera dai denti bianchi », quando, al quarto
episodio^ non se ne poteva più dall'angoscia... Oh, come avrei vo-
luto essere accanto a lei, su quelle dure poltroncine... Avrei voluto
mangiare mandarini con lei, negli intervalli, chiederle se il cugino
di Pearl White era davvero un traditore e che cosa potesse mai
pensare il Cinese... Oh, avrei voluto essere bambina con lei. Che
peccato!
ORFEO - Tutto ciò è passato adesso e non possiamo farci nulla. T man-
darini sono sbucciati, i cinema ridipinti e l'eroina sarà divenuta
vecchia.
EURIDICE (a bassa voce) - Non è giusto...
(suono del campanello, un fischio di treno in arrivo)
l'altoparlante - I viaggiatori per Tolosa, Béziers, Carcassona, bi-
nario 7. Il treno entra in stazione.
UN ALTRO ALTOPARLANTE (pili lontano) - I viaggiatori per Tolosa, Bé-
ziers, Carcassona, binario 7. Il treno entra in stazione.
(dalla porta spalancata sul marciapiede passano gli attori con le valige)
348 JEAN ANOUILH
LA PRIMA RAGAZZA - Pfcsto, piccola. Aiicora una volta dovremo viag-
giare in piedi. Ma naturalmente le stelle vanno in seconda. Chi
paga il supplemento, di', chi paga il loro supplemento?
LA SECONDA (pTOsegucndo il suo racconto) - E allora sai che cosa mi
rispose lei? Mi rispose: non me n'importa nulla, ho la mia posi-
zione da difendere...
(son passate. Passano la madre e Vincenzo sovraccarichi di cappel-
liere e di valige)
LA MADRE - Vinccnzo, gatto mio, la valigia grande e la cappelliera
verde?
vmcENZo - Le ho io. Va' avanti.
LA MADRE - Fa' attenzione, la cinghia non regge. Ciò mi ricorda quel
che ci accadde un giorno a Buenos Aires. La cappelliera di Sara
si apre in mezzo alla stazione. Piume di struzzo fin sopra ai
binari...
{son passati. Passa un omone che sbuffa e grida e qualcuno che lo
segue)
DULAc - Presto, Dio bono, presto. E controlla il carico sul bagagliaio,
pezzo d'asino! Sali in coda. Noi siamo tutti in testa.
EURIDICE (piano) ' Ecco tutti i personaggi della mia vita che passano.
(affannato e impacciato, comico, pietoso, passa infine il piccolo segre-
tario trascinando troppe valige e troppi pacchi che cadono da ogni
parte. Gridi lontani, fischi piti vicini del treno)
EURIDICE (a bassa voce) - Chiuda la porta. (Orfeo va a chiudere la
porta. Silenzio improvviso) Ecco. Adesso siamo soli al mondo.
(Orfeo è tornato lentamente verso di lei. Fracasso del treno che entra
in stazione, e poi un grido, un grido che diventa clamore, si gonfia,
è seguito da un terribile silenzio. La cassiera s'è alzata e cerca di
vedere^
IL CAMERIERE (attravcrsa di corsa la scena e grida correndo) - Qualcu-
no s'è gettato sotto il treno, un giovane!
(della gente passa di corsa sul marciapiede. Orfeo ed Euridice sono di
fronte e non osano guardarsi, senza dire nulla. Il giovane dall'im-
permeabile, entra, richiude la porta, li guarda)
EURIDICE (sommessamente) - Non potevo farci nulla. Ti amavo e non
l'amavo.
EURIDICE 349
{una pausa. Guardano nel vuoto. Il giovane dalV impermeabile si è av-
vicinato)
IL GIOVANE (con vocc neutra, senza cessare di guardarli) - S'è gettato
sotto la locomotiva. L'urto stesso ha dovuto ucciderlo.
EURIDICE - Che orrore!
IL GIOVANE - No. Ha scelto uno dei modi migliori. Il veleno è lento
e fa soffrire molto. E poi si vomita, ci si contorce, è sporco. È
come per i barbiturici: c'è gente che crede che sarà soltanto un ad-
dormentarsi. Che illusione! Si muore fra singulti e cattivi odori.
(si avvicina, tranquillo, sorridendo) Mi credano... la cosa più facile
quando si è ben stanchi, quando si è molto camminato con la stessa
idea fissa, è di lasciarsi scivolare nell'acqua come in un letto... Un
attimo, in cui ci si sente soffocare, con un gran lusso di immagini
del resto, e poi è il sonno, finalmente!
EURIDICE - Non avrà sofferto molto?
IL GIOVANE (pianamente) - Non si ha mai male quando si muore, si-
gnorina. La morte non fa mai soffrire. La morte è dolce... Quel
che fa soffrire, con certi veleni, con certe maldestre ferite, è la vita,
il resto della vita. Bisogna darsi alla morte con fiducia, come ad
un'amica. Un'amica dalla mano delicata e forte.
(Orfeo ed Euridice si stringono l'uno all'altra)
EURIDICE (a voce bassa, come per dare una spiegazione) - Non poteva-
mo fare diversamente. Noi ci amiamo.
IL GIOVANE - Lo so. Vi ho ascoltati poco fa. Un bel giovane ed una
bella ragazza! e pronti a fare il giuoco senza barare, fino in fondo,
senza le piccole concessioni alla comodità o alla facilità che fanno
gli amanti vecchi e prosperi. Due piccoli animali coraggiosi, dalle
ntembra agili e con lunghi denti, disposti a battersi fino all'alba,
come si deve, e a cadere feriti insieme.
EURIDICE (mormora) - Ma, signore, noi non la conosciamo.
IL GIOVANE - Ma io vi conosco. E sono lietissimo di quest'incontro. Par-
tirete insieme? Non c'è più che un treno questa sera, il treno di
Marsiglia. Lo prenderemo insieme, forse?
ORFEO - Certamente.
IL GIOVANE - Anch'io vado laggiù. Avrò forse il piacere di incontrarvi.
(saluta ed esce, Orfeo ed Euridice si volgono l'uno verso l'altra. Sono
in piedi, piccoli in mezzo alla grande sala deserta)
ORFEO (con dolcezza) - Amore mio.
EURIDICE - Amore mio caro.
350 JEAN ANOUILH
ORFEO - Ecco la Storia che comincia...
EURIDICE - Ho paura un po'... Sei buono? Sei cattivo? Come ti chiami?
ORFEO - Orfeo. E tu?
EURIDICE - Euridice.
ATTO SECONDO
Una camera in un albergo di provincia, grande, scura e sporca... soffitti troppo
alti perduti nell'ombra. Doppie tende polverose, un grande letto di ferro, un
paravento, una luce avara, orfeo ed Euridice sono coricati vestiti sul letto.
ORFEO - E dire che tutto ciò poteva non avvenire... Sarebbe bastato che
tu fossi passata a destra ed io a sinistra. Sarebbe bastato meno: il
volo di un uccello, il grido di un ragazzo che ti avesse fatto voltare
la testa un attimo, ed io sarei adesso a grattare il violino al caffé di
Perpignano in compagnia di papà.
EURIDICE - Ed io a recitare questa sera Le Due Orfanelle, Siamo io e
la mamma le due orfanelle.
ORFEO - Questa notte pensavo a tutte le fortunate combinazioni che ci
sono state necessarie. Pensavo a quel ragazzino e a quella bambina
che non si conoscevano e che un bel giorno, molti anni fa, si sod
messi in cammino verso quella stazione di provincia. E dire che
avremmo potuto non riconoscerci, sbagliare il giorno o la stazione.
EURIDICE - Oppure incontrarci quando eravamo troppo piccini con dei
genitori che ci avrebbero preso per mano e trascinati via a forza.
ORFEO - Ma per fortuna non ci siamo sbagliati né di un giorno né di
un'ora. Non siamo stati in ritardo nemmeno una volta durante
tutto questo lungo viaggio. Ah, siamo stati molto bravi!
EURIDICE - Si, caro.
ORFEO {sicuro e bonario) - Tutti e due, noi siamo terribilmente più
forti di tutto.
EURIDICE (con un sorriso) - Turco mio! Tuttavia ieri avevo molta paura
quando sei entrato in questa camera.
ORFEO - Ieri non eravamo ancora più forti di tutto. Non volevo che il
nostro amore fosse alla mercé di quest'ultima piccola prova.
EURIDICE (con dolcezza) - Vi sono cose al mondo che non si vorrebbe-
ro e che tuttavia sono là, tranquille, enormi, come il mare.
ORFEO - Quando si pensa che ieri, uscendo da questa camera, avremmo
potuto non essere più nulla l'uno per l'altro, nenuneno un fratello
EURIDICE 351
e una sorella, come in questo momento, ma soltanto due nemici
sorridenti, distaccati e cortesi che parlano di cose indifferenti. Oh,
io detesto l'amore.
EURIDICE - Zitto, non bisogna dirlo...
ORFEO - Ora almeno conosciamo, sappiamo il peso della nostra testa
addormentata, il suono del nostro riso. Ora abbiamo dei ricordi per
difenderci.
EURIDICE - Tutta una sera, un'intera notte, un giorno intero, come
siamo ricchi I
ORFEO - Ieri non avevamo nulla, non sapevamo nulla e siamo entrati a
caso in questa camera sotto gli occhi di quel terribile cameriere baf-
futo che pensava che avremmo fatto l'amore. E cominciammo a
spogliarci rapidamente, stando in piedi l'uno di fronte all'altro...
EURIDICE - Tu gettavi i vestiti per terra come un pazzo furioso...
ORFEO - Tu tremavi, non riuscivi a disfare i gancetti del tuo vestito e li
strappavi mentre io ti guardavo senza fare un gesto. E poi, quando
fosti nuda, hai avuto improvvisamente vergogna.
EURIDICE (china il capo) - Ho pensato che io, oltre a tutto, dovevo es-
sere anche bella e non mi sentii piti sicura...
ORFEO - Restammo a lungo in piedi, senza osare una parola o un gesto..
Oh, eravamo troppo poveri, troppo nudi, ed era troppo ingiusto
esser costretti a rischiare cosf, tutto in una volta, compresa la tene-
rezza che mi aveva preso alla gola alla vista della bollicina che
avevi sulla spalla.
EURIDICE - E poi tutto divenne cosi facile...
ORFEO - Tu hai appoggiata la testa su di me e ti sei addormentata. Ed
io, io mi sentivo diventare forte tutto d'un colpo, forte di tutto il
peso della tua testa. Mi sembrava che noi fossimo sdraiati nudi su
una spiaggia e che la mia tenerezza fosse una marea che saliva ri-
coprendo lentamente i nostri corpi... Come se fossero state necessa-
rie quella nostra lotta e quella nudità sopra un letto disfatto perché
potessimo divenire davvero due piccoli fratelli.
EURIDICE - Oh, caro, tu pensavi tutto ciò e mi lasciavi dormire...
ORFEO - Tu dicevi in sogno ben altre cose alle quali io non potevo ri-
spondere...
EURIDICE - Ho parlato? Parlo sempre dormendo. Non hai ascoltato,
spero.
ORFEO [sorride) - Si che ho ascoltato.
EURIDICE - Vedi come sei traditore? Invece di dormire onestamente
come me, mi spii. Come vuoi che io sappia quel che dico quando
dormo?
352 JEAN ANOUILH
ORFEO - Ho capito solo tre parole. Hai fatto un grande sospiro, hai
contratto un pò* la bocca ed hai detto: Com'è difficile!
EURIDICE (ripete) - Com'è difficile...
ORFEO - Che cosa era tanto difficile?
EURIDICE (resta un momento senza rispondere, poi scuote la testa e
dice con la sua voce gracile) - Non so, caro, sognavo.
(si bussa alla porta. È il cameriere che entra subito. Ha grossi baffi
grigi e Varia bizzarra)
IL cameriere - Il signore ha suonato?
ORFEO - No.
IL CAMERIERE - Ah, credevo che il signore avesse suonato, (esita un
istante, poi esce dicendo) Scusi, signore.
EURIDICE - Tu credi che siano veri?
ORFEO - Che cosa?
EURIDICE - Quei baffi.
ORFEO - Certamente. Sembrano falsi. Non ci sono che le barbe fìnte
che abbiano l'aria di essere vere, è noto.
EURIDICE - Non ha l'aria nobile del nostro cameriere della stazione.
ORFEO - Quello della Commedia Francese? Era nobile, ma convenzio-
nale. E, in fondo, sotto quell'aria imponente, era un molle. Ti as-
sicuro che questo qui ha più mistero.
EURIDICE - Si, troppo. Non mi piace la gente che ha troppi misteri.
Questo mi fa un po' paura. E a te?
ORFEO - Un po', non osavo dirtelo.
EURIDICE (stringendosi a lui) - Ah, caro, stringiamoci forte! Per fortu-
na siamo in due.
ORFEO - Abbiamo già tanti personaggi nella nostra storia... Due came-
rieri di caffé, uno nobile fiacco e l'altro baffuto bizzarro, la cassiera
e i suoi enormi seni...
EURIDICE - Peccato che non ci abbia detto nulla la bella cassiera!
ORFEO - In tutte le storie vi sono personaggi muti. Essa non ci ha detto
nulla, ma ci guardava continuamente e se per noi non fosse ormai
muta per l'eternità, vedresti tutto quello che ci racconterebbe di
noi...
EURIDICE - E l'impiegato della stazione?
ORFEO - Il balbuziente?
EURIDICE - Si, il caro piccolo balbuziente. Com'era piccolo e grazioso.
Si aveva voglia di prenderlo per mano e di portarselo, con la sua
grossa catena d'orologio e con il suo bel berretto, a mangiare dolci
dal pasticciere.
ORFEO - Ti ricordi come ci ha snocciolato tutte le stazioni dove non
EURIDICE 353
dovevamo cambiare per farci capire senza possibilità di errori quel-
la dove bisognava cambiare?
EURIDICE - Caro piccolo balbuziente! Ci ha portato sicuramente fortu-
na. Ma l'altro, l'orribile, il volgare, il controllore...
ORFEO - Ah, l'idiota! Quello che non voleva capire che con un biglietto
di seconda classe per Perpignano e un altro biglietto di seconda
classe per Avignone, noi volevamo due supplementi di seconda per
Marsiglia?
EURIDICE - Si, quello. Com'era brutto quello, com'era stupido con la
sua volgarità, con la sua presunzione e le sue grosse sporche gote
ben rasate e rosse sul colletto di celluloide.
ORFEO - È il nostro primo personaggio ignobile. 11 nostro primo tradi-
tore. Ne avremo altri, vedrai... È piena di traditori, una storia felice.
EURIDICE - Ma quello là io lo rifiuto. Lo licenzio. Gli dirai che lo li-
cenzio. Non voglio un simile imbecille nei miei ricordi con te.
ORFEO - Troppo tardi, mia cara, non possiamo più licenziare nessuno.
EURIDICE - Allora per tutta la nostra vita quell'omaccio sporco e soddi-
sfatto farà parte del nostro primo giorno?
ORFEO - Per tutta la nostra vita.
EURIDICE - E l'orribile vecchia vestita di nero alla quale ho fatto una
boccaccia, quella che si arrabbiava con la sua servetta magra, resterà
sempre anche lei?
ORFEO - Sempre, accanto alla ragazzina che aveva sempre gli occhi su
di te, accanto al grosso cane che voleva seguirti ad ogni costo, a
tutti i nostri personaggi amabili.
EURIDICE - Tu credi che non si potrebbe conservare il ricordo di un
primo giorno soltanto con il grosso cane, la ragazzina, le zingare
che la sera danzavano in piazza sui trampoli, e il caro piccolo
balbuziente, per esempio? Sei sicuro che non si possono eliminare
i cattivi personaggi e conservare soltanto i buoni?
ORFEO - Sarebbe troppo bello.
EURIDICE - Tu credi che non si possa nemmeno provare ad immagi-
narli un po' meno brutti almeno per quel primo giorno... Fare il
controllore un po' meno soddisfatto di se stesso, la sporca signora
borghese un po' meno acida e un po' meno ipocrita... oppure fare
la servetta un po' grassa, che le borse delle provviste le pesino
meno?
ORFEO - Impossibile. Ormai sono entrati, i buoni come i cattivi. Han-
no fatto la loro piccola piroetta, pronunciato le loro tre parole nella
tua vita... E restano cosi in te, per sempre.
{una pausa)
Teatro francese
354 JEAN ANOUILH
EURIDICE {bruscamente) - Allora, supponiamo, se si son viste molte
cose sporche nella nostra vita, esse restano tutte in noi?
ORFEO - Si.
EURIDICE • Bene allineate le une accanto alle altre, tutte le immagini
sporche, tutte le persone, anche quelle che si sono odiate, anche
quelle che si son fuggite? £ tutte le tristi parole udite, credi che
restino in fondo a noi? E tutti i gesti che si son fatti, credi che la
mano se li ricordi sempre?
ORFEO - Si.
EURIDICE - Sei sicuro che anche le parole che si son dette senza volerlo
e che non si son potute mai riprendere, siano ancora sulla nostra
hocca quando si parla?
ORFEO (cercando di abbracciarla) - Ma si, matta mia...
EURIDICE (scostandosi) - Aspetta, non mi abbracciare. Spiegami piutto-
sto. È certo quel che mi hai detto o sei tu che credi cosf? L'hanno
detto altri?
ORFEO - Sicuro.
EURIDICE - I dotti? Quelli insomma che debbono sapere le cose ed ai
quali si può credere?
ORFEO - Si.
EURIDICE - Ma allora non si è mai soli, con tutte quelle cose attorno.
Non si è mai sinceri, nemmeno quando lo si vuole con tutte le
forze. Se tutte le parole sono là e tutti gli sporchi scoppi di risa, se
tutte le mani che ci hanno toccato sono ancora incollate alla nostra
pelle, allora non si può mai divenire un'altra?
ORFEO - Ma che cosa vai dicendo?
EURIDICE - E tu credi che non cambierebbe nulla se, fin da bambina,
si sapesse che un giorno si avrà bisogno di essere tutta pulita e
netta? E che accade quando si dicono le cose? Quando si dice: ho
fatto questo gesto, ho pronunciato, ascoltato questa parola, ho la-
sciato qualcuno... (si ferma) quando quelle cose si dicono a un al-
tro, all'uomo che si ama, per esempio... i tuoi dottori pensano che
ciò le uccida attorno a noi?
ORFEO - Si. Ciò si chiama confessarsi. Dopo, sembra che si è lavati, lim-
pidi...
EURIDICE - Ah, e ne sono proprio sicuri?
ORFEO - Lo dicono.
EURIDICE (dopo aver riflettuto un istante) - Si, si, ma se per caso sba-
gliassero o se avessero detto cosi per sapere le cose; se per caso
queste continuassero a vivere due volte più forti, due volte piò
vive per essere state ridette, se per caso l'altro non sapesse più di-
EURIDICE 355
menticarle... Tu dirai ai tuoi dottori che non mi fido di loro, che
io credo sia meglio non dir niente... {Orfeo la guarda, lei se ne ac-
corge e aggiunge subito stringendosi a lui) Oppure, caro, quando le
cose sono semplici, come ieri per noi, dire tutto, certo, come ho
fatto io.
(// cameriere bussa ed entra)
IL CAMERIERE - Il signore ha suonato?
ORFEO - No.
IL CAMERIERE - Ah, chicdo scusa. {ja un passo e dice dalla soglia) Vo-
levo avvertire il signore che il campanello non funziona; se il si-
gnore volesse suonare, è meglio che mi chiami.
ORFEO - Va bene.
(pare che il cameriere voglia uscire, ma cambia parere, attraversa la
camera, va a provare le doppie tende)
IL CAMERIERE - Le doppie tende funzionano.
ORFEO - Lo vediamo.
IL CAMERIERE - Ho delle camere in cui accade il contrario. Il campa-
nello funziona e le tende no. (fa per uscire) Ma se eventualmente
non dovessero funzionare, il signore non ha che da suonare... (si
ferma) cioè da chiamare, dato che, come dicevo al signore, il cam-
panello... (fa un gesto ed esce)
ORFEO - Ecco il nostro primo personaggio strano. Ne avremo altri.
Questo d'altronde dev'essere un bravo alvergnate senza malizia.
EURIDICE - Oh no! Non fa che guardarmi. Non hai notato che non fa-
ceva che guardarmi?
ORFEO - Sogni.
EURIDICE - L'altro mi piaceva molto di più, quello della Commedia
Francese... Si sentiva che anche nelle tragedie non sarebbe stato
molto pericoloso...
(il cameriere bussa ed entra di nuovo. Si ha la precisa impressione che
fosse dietro la porta)
IL CAMERIERE - Chicdo scusa, ma avevo dimenticato di dire al signore
che la direttrice lo prega di scendere giù per completare la scheda
dove manca qualcosa. La signora deve consegnarla stasera stessa.
ORFEO - Desidera che scenda subito?
IL CAMERIERE - Si, SC pOSsibilc.
ORFEO - Va bene, vi seguo, (a Euridice) Intanto cambiati e scenderemo
per pranzare.
(il cameriere apre la porta per lasciar passare Orfeo ed esce dopo di
lui. Rientra quasi subito e va verso Euridice, che s'è alzata)
356 JEAN ANOUILH
IL CAMERIERE (porgendole una busta) - Ecco una lettera per lei. Dovevo
consegnarla a lei sola. La signora non è alla cassa. Ho detto una
bugia. L'albergo ha un solo piano. Lei ha mezzo minuto per leg-
gerla.
(resta in piedi davanti a lei, Euridice ha preso la lettera tremando un
po', Vapre, la legge, la fa in minuti pezzi, senza che il suo viso
tradisca nulla, li getta nel cestino)
IL CAMERIERE - Mai nel cestino, (corre al cestino, s'inginocchia e co-
mincia a raccogliere i pezzetti di carta che mette nella tasca del
grembiale) Vi conoscete da molto tempo?
EURIDICE - Da un giorno.
IL CAMERIERE - DÌ solito<, è ancora il tempo buono.
EURIDICE (piano) - Di solito, si.
IL CAMERIERE - Ne ho vìsti passare, in questa camera, stesi su questo
letto, come voi poco fa. E per nulla tutti belli. Troppo grassi o
troppo magri, dei mostri. E tutti a sbavare dicendo (( il nostro amo-
re ». Talvolta, quando viene la sera come adesso, mi sembra di ve-
derli tutti insieme. Un vermicaio. Ah, non è bello l'amore.
EURIDICE {impercettibilmente) - No.
ORFEO (rientrando) - Siete ancora qui?
IL CAMERIERE - No, signoie. Esco.
ORFEO - La padrona non era giù.
IL CAMERIERE - Avrò impiegato troppo tempo nel salire le scale per
avvertire il signore. Si vede che non ha avuto la pazienza di aspet-
tare. Non importa, signore, sarà per questa sera.
(// guarda ancora ed esce)
ORFEO - Che stava a fare qui?
EURIDICE - Nulla. Mi parlava di tutte le coppie che ha visto sfilare in
questa camera.
ORFEO - Allegro!
EURIDICE - Dice che certe volte gli sembra di vederle tutte insieme. La
camera ne formicola.
ORFEO - E sei restata ad ascoltare simili sciocchezze?
EURIDICE - Non sono forse sciocchezze, giacché tu, che sai tutto, hai
detto che tutti i personaggi che si son conosciuti continuano a vi-
vere nel nostro ricordo. Forse anche la camera ricorda... Tutti quelli
che son passati qui sono ancora attorno a noi, abbracciati, i troppo
grassi, i troppo magri, i mostri.
ORFEO - Matta mia!
EURIDICE - Il letto ne è pieno. Son brutti, i gesti.
EURIDICE 357
ORFEO {cerca di condurla via) - Andiamo a pranzo. Le strade sono già
rosee delle prime luci. Andremo a mangiare in una piccola osteria
profumata d'aglio. Anche li berrai un bicchiere dove hanno bevuto
mille bocche, e i mille sederi che hanno scavato le panche di tela
cerata ti faranno un posticino dove, comunque, starai bene. Andia-
mo, vieni.
EURIDICE (resistendo) - Tu ridi, ridi sempre. Sei forte, tu.
ORFEO - Da ieri sera! Un Turco! Sci tu che Thai detto.
EURIDICE - Si, SI, un Turco che non ascolta nulla, che non sente nulla,
che è ben sicuro di sé e va diritto. Ah, voi potete sentirvi ben leg-
geri voialtri — si — adesso che mi avete resa ben pesante... Voi
dite le cose, fate rivivere, quando meno lo si aspetta, tutte le spor-
che coppie che hanno fatto dei gesti fra queste quattro mura, ci
impiastricciate con tutta la pece di vecchie parole, e poi non ci pen-
sate più. Poi scendete per andare a mangiare dicendo: fa bello, si
sono accese le luci, c'è odore d'aglio.
ORFEO - Lo dirai anche tu, fra un minuto. Vieni, lasciamo questa ca-
mera.
EURIDICE - Per me non fa più bello, nulla più sa di buono. Com'è sta-
to breve...
ORFEO - Ma che cos'hai? Tu tremi.
EURIDICE - Si, tremo.
ORFEO - Sei tutta pallida.
EURIDICE - Si.
ORFEO - E che occhi hai! Non ti ho visto mai gli occhi cosi.
{cerca di attirarla a sé. Lei si scosta)
EURIDICE - Non mi guardare. Quando mi guardi il tuo sguardo mi
tocca. Si direbbe che tu m'abbia messo le mani addosso e che tu sia
penetrato tutto ardente in me. Non mi guardare.
ORFEO - Da ieri non faccio che guardarti.
(la trae a sé, lei cede, vinta)
EURIDICE - Tu sei forte, sai. Hai l'aria d'un ragazzino magro e sei più
forte di ogni altra cosa al mondo. Quando suoni il violino come
ieri in quella stazione, o quando parli, io mi sento come un piccolo
serpente. Non mi resta che strisciare docilmente verso di te.
ORFEO (la stringe nelle braccia, la riscalda) - Vi sentite meglio, piccolo
serpente?
EURIDICE - Certe volte tu fai silenzio e a me sembra di essere libera
come prima. Allora mi metto a tirare il filo per qualche minuto
con tutte le mie forze. Ma tu riprendi a parlare, il filo si riavvolgc
358 JEAN ANOUILH
attorno al rocchetto ed io ritorno verso la mia trappola, troppo fe-
lice...
ORFEO - Tu sei un piccolo serpente che si chiede troppe cose. I piccoli
serpenti debbono riscaldarsi al sole, bere il latte e fare le fusa,
tranquilli.
EURIDICE (dolcemente) - Sono i piccoli gatti che fanno le fusa.
ORFEO {accarezzandole i capelli) - Non importa, fa' le fusa, io ti tengo.
EURIDICE - Tu sei un traditore. Mi gratti dolcemente la testa ed io mi
addormento al tuo buon sole.
ORFEO - £ mi dici « è difficile ».
EURIDICE (grida dVimprowiso, staccandosi) - Caro!
ORFEO - Ebbene?
EURIDICE - Ho davvero paura che sia troppo difficile.
ORFEO - Ma che cosa?
EURIDICE - Il primo giorno tutto sembra tanto facile. Il primo giorno
basta inventare. Sei sicuro che non abbiamo inventato tutto?
ORFEO (le prende la testa) - Io son sicuro che io t*amo e che tu m'ami
Sicuro come delle pietre, delle cose di legno e di ferro.
EURIDICE - Si, ma forse tu m'hai creduta un'altra. E poi quando mi
vedrai in faccia come sono...
ORFEO - Da ieri ti guardo in faccia, ti ascolto parlare quando dormi.
EURIDICE - Si, ma non ti ho detto molto. E se stasera mi riaddormento
e dico tutto?
ORFEO - Tutto, che cosa?
EURIDICE - Le vecchie parole che sono restate appiccicate, le vecchie
storie. Oppure se qualcuno, uno dei personaggi, venisse a dirti...
ORFEO - Che vuoi che vengano a dirmi su di te? Io ti conosco meglio
di loro, adesso.
EURIDICE - Lo credi?
(cdza la testa e guarda Orfeo, che continua con una forza gioiosa)
ORFEO - Mio piccolo soldato, dopo tutto un giorno che ti ho sotto i
miei ordini, ti conosco bene. Che da ieri io sono stato un po' odio-
so, è vero?, a fare sempre il capitano. «Presto, ecco il treno. Sali
nell'ultimo vagone. Tieni i posti, vado a cercare dei cuscini. Sve-
gliati. Siamo a Marsiglia. Scendiamo. Coraggio, l'albergo è un po'
lontano, ma non abbiamo denaro per il taxi... ». E il piccolo sol-
dato imbambolato, con gli occhi ancora tutti pesti di sonno impu-
gna le sue valige con un buon sorriso. E, uno due uno due, segue
coraggiosamente il suo capitano nella notte. E dire che avrei potuto
portare con me una qualche signora con cappello di piume e con
alti tacchi sonori. Sarei morto di paura al momento di chiedere la
EURIDICE 359
camera. £ nel treno, sotto gli occhi di tutti quegli uomini che fa-
cevano finta di dormire per poterti spogliare a loro agio... Chi sa,
l'altra avrebbe forse sorrìso, tirato su la gonna con un piccolo gesto,
abbandonato la testa, contenta di tutto quel compartimento che la
desiderava fìngendo di dormire. Ed io sarei morto di vergogna...
Ma il mio silenzioso fratellino accanto a me divenne subito di le-
gno. Scomparse le gambe, misteriosamente allungata la gonna, se-
polte le mani: una rigida piccola mummia senza sguardo, che i
fìnti dormenti delusi si misero a dimenticare, russando l'uno dopo
l'altro... £ non ti ho nemmeno ringraziata.
EURIDICE {dolcemente, a testa bassa) - Non c*è bisogno.
ORFEO - Non ti ho detto grazie nemmeno per il tuo coraggio.
EURIDICE (balbetta) - Il mio coraggio?
ORFEO - Per i giorni, che non si faranno aspettare, in cui tu lascerai
passare l'ora del pranzo fumando con me l'ultima sigaretta, una
boccata per ciascuno. Per i vestiti che fìngerai di non vedere nelle
vetrine, per i negozianti sardonici, per i padroni d'albergo diffi-
denti, per i portinai. Non ti ho ringraziato per i letti da rifare, per
le camere spazzate, per i piatti da lavare, per le mani arrossate, per
il guanto che si buca, per l'odore di cucina che resta nei capelli.
Per tutto quello che m'hai donato accettando di seguirmi. {JEuri-
dice ascolta con la testa china) Non credevo che fosse possibile in-
contrare un giorno l'amico che vi accompagna, serio e pronto, che
porta il suo sacco e non fa nemmeno sorrisi. Il piccolo compagno
silenzioso, che si combina in tutte le salse, e che la sera diviene
accanto a voi la donna bella e calda. Donna per voi solo, più mi-
steriosa e più tenera di quelle che gli uomini sono costretti a tra-
scinarsi dietro tutto il giorno in ricche vesti. Mia scontrosa, mia
selvaggia, mia piccola straniera... Mi sono svegliato questa notte
chiedendomi se non fossi anch'io un uomo volgare come gli altri,
con rozze mani e stupido orgoglio, se io fossi degno di te.
{Euridice ha alzato la testa e lo guarda fissamente nell'ombra che si
addensa)
EURIDICE {con grande dolcezza) - Tu pensi davvero tutto questo di me?
ORFEO - Si, amore mio.
EURIDICE {dopo aver riflettuto un momento) - È vero. È proprio una
Euridice meravigliosa.
ORFEO - Sei tu!
EURIDICE - Si, ed hai ragione, è proprio la donna per te. {una pausa,
poi sommessamente, con una strana vocina, accarezzandogli i co*
pelli) La signorina Euridice, tua moglie...
360 JEAN ANOUILH
ORFEO (allegramente) - Io vi saluto! Acconsentite adesso ad andare a
pranzo? L'incantatore di serpenti non ce la fa più a soffiare nel suo
flauto: muore di fame.
EURIDICE {cambiando voce) - Accendi la luce, ora.
ORFEO - Ecco finalmente una parola ragionevole! Fari dappertutto. Fiu-
mi di luce. Via i fantasmi.
(Orfeo gira l'interruttore. Una luce cruda inonda e fa apparire piti
brutta la camera)
EURIDICE - Caro, non vorrei andare in una trattoria, vedere gente. Se
vuoi, andrò io a comprare qualcosa e mangeremo qui.
ORFEO - Nella camera, dove tutto pullula?
EURIDICE - Si, adesso non importa...
ORFEO (si muove) - Sarà divertente. Verrò con te.
EURIDICE (pronta) - No, lasciami andare sola. Mi farebbe piacere fare
una volta per te la spesa come una persona per bene.
ORFEO - Allora compra molte cose.
EURIDICE - Si.
ORFEO - Bisogna fare un pranzo con i fiocchi.
EURIDICE - Si, caro.
ORFEO - Proprio come se avessimo denaro. È un miracolo che i ricchi
non capiranno mai. Compra un ananas, ma vero, del buon Dio e
non un triste ananas americano in scatola. Non abbiamo coltello,
non riusciremo a mangiarlo, ma è giusto che anche l'ananas si di-
fenda.
EURIDICE (sorride con gli occhi pieni di lacrime) - Si, caro.
ORFEO - Compra anche dei fiori per il pranzo, molti fiori...
EURIDICE (balbetta, col suo povero sorriso) - Son cose che non si man-
giano.
ORFEO - È vero, li metteremo sulla tavola, (si guarda attorno) Non ab-
biamo tavola, ma compra lo stesso molti fiori. E compra anche del-
le frutta, delle pesche, delle albicocche, delle susine. Un po' di pane
per mostrare il lato serio del nostro carattere e una bottiglia di vino
bianco che berremo nel bicchiere dello spazzolino. Sbrigati, muoio
di fame. (Euridice va a prendere il suo piccolo cappello e se lo
mette davanti allo specchio) Ti metti il cappello?
EURIDICE - Si, caro, (poi si volta improvvisamente e dice con una stra-
na voce rauca) Addio, caro.
ORFEO (le grida ridendo) - Tu dici addio come a Marsiglia? *
EURIDICE (dalla soglia) - Si.
' Invece di arrivederci.
EURIDICE 361
{lo guarda ancora un momento, sorridente e impietosita, poi esce dt
scatto. Orfeo resta qualche minuto immobile continuando a sorri-
dere a Euridice che è uscita. Improvvisamente il suo sorrisa scom-
pare, il suo volto si contrae, mentre lo assale una vaga angoscia.
Corre alla porta chiamando: « Euridice! ». Apre la porta e retrocede
stupefatto: davanti a lui trova il giovane che li aveva avvicinati
alla stazione)
IL GIOVANE - È scesa adesso. {Orfeo retrocede sorpreso, stentando a ri-
conoscerlo) Non si ricorda di me? Ci siamo conosciuti ieri nel buf-
fet della stazione al momento dell'incidente..., del giovane che s*è
gettato sotto al treno. Mi son permesso di venire a salutarla. Mi
siete riusciti simpatici. Siamo vicini di camera. Ho la camera un-
dici, {fa un passo nella stanza e gli tende un pacchetto di sigarette)
* Fuma? {Orfeo prende macchinalmente una sigaretta) No, non fu-
mo, {il giovane gli accende la sigaretta)
ORFEO - Grazie, {richiude la porta e domanda macchinalmente) Con
chi ho l'onore ?...
IL GIOVANE - C'è un certo piacere ad ignorare la vera identità delle per-
sone conosciute in viaggio. Il mio nome non le direbbe nulla. Mi
chiami signor Enrico.
{s*è avanzato nella camera. Guarda Orfeo sorridendo; Orfeo lo guarda
come affascinato)
IL SIGNOR ENRICO - Bclla città, Marsiglia, col suo formicaio umano, la
sua canaglia e la sua sporcizia. Meno delitti di quanto si dica, nei
vicoli del vecchio porto, ma è pur sempre una bella città. Pensa di
restarvi a lungo?
ORFEO - Non so.
IL SIGNOR ENRICO - Ieri le ho rivolto la parola senza tante cerimonie,
ma eravate cosi commoventi tutti e due, stretti l'uno all'altra al
centro dell'immensa sala deserta. Bello scenario, è vero? Rosso e
cupo, con la notte che scende ed i rumori della stazione nel fondo...
{lo guarda a lungo e sorride) Il piccolo Orfeo e la signorina Euri-
dice... Non è una fortuna che capita tutti i giorni... Avrei potuto
non parlarvi... Di solito non parlo a nessuno. A che prò? Per voi,
non so, non ho resistito al piacere di conoscervi meglio. Lei è mu-
sicista?
ORFEO - Si.
IL SIGNOR ENRICO - Amo la musica. Amo tutto quello che e dolce e
felice. In verità, amo la felicità. Ma parliamo di lei. Non è interes-
sante parlare di me. E anzitutto beva qualcosa. Ciò facilita la con-
362 JEAN ANOUILH
versazionc. {si alza e suona. Durante la breve attesa guarda Orfeo
sorridendo) Mi fa molto piacere scambiare due chiacchiere con lei.
{entra il cameriere) Cosa beve? Un cognac?
ORFEO - Come vuole.
IL SIGNOR ENRICO - Un cognac, prego.
IL CAMERIERE - Solo UnO?
IL SIGNOR ENRICO - Si. {a Orfeo) Mi scusi, io non bevo, {uscito il came-
riere, continua a guardare Orfeo sorridendo) Sono molto lieto di
questo incontro.
ORFEO {con un gesto imbarazzato) - Grazie.
IL SIGNOR ENRICO - Ella si chiederà perche m'interessi tanto a lei... {ge-
sto pago di Orfeo) Ero in fondo alla sala, ieri, quando essa è venuta
verso di lei come chiamata dalla sua musica. Quei brevi istanti in
cui si vede il destino nell'atto di porre le sue pedine fanno un certo
effetto, è vero? {entra il cameriere) Ah, ecco il suo cognac.
IL CAMERIERE - Ecco uu coguac, siguore.
ORFEO - Grazie.
(// cameriere esce)
IL SIGNOR ENRICO {ckc l'ha scguito con lo sguardo) - Ha notato l'inso-
lita lentezza del cameriere?
ORFEO - No.
IL SIGNOR ENRICO {va od ascoltore dia porta) - Si è certamente rimesso
al suo posto, dietro la porta, {toma verso Orfeo) Son sicuro ch'egli
è entrato già diverse volte in camera con vari pretesti, son sicuro
che ha cercato di parlarle.
ORFEO - Si, ha provato.
IL SIGNOR ENRICO - Come vede, non sono il solo ad interessarmi a lei,
oggi... Scommetto che i negozianti, gl'impiegati della stazione, le
ragazzine in strada le sorridono da ieri in una maniera insolita...
ORFEO - Tutti sono gentili con gl'innamorati.
IL SIGNOR ENRICO - Nou si tratta soltanto di gentilezza. Non le pare
che la guardino un po' troppo fissamente?
ORFEO - No. Perché?
IL SIGNOR ENRICO {sorrìdc) - Per nulla... {medita un istante, foi lo pren-
de improvvisamente per il braccio) Mio caro, esistono due specie di
esseri. Una razza numerosa, feconda, felice, una grossa pasta da
impastare, che mangia salsicce, fa figli, maneggia i suoi attrezzi,
conta i suoi soldi, l'anno buono e il cattivo, malgrado epidemie e
guerre, fino al limite d'età; gente fatta per vivere, gente per tutti
i giorni, che non riusciamo ad immaginare morta. E poi vi sono
gli altri, i nobili, gli eroi. Quelli che si immagina ben distesi, pai-
EURIDICE 363
lidi, con un foro rosso nella testa, trionfanti, con una guardia d'ono-
re o fra due gendarmi, secondo i casi: la crema. Questa non Tha
mai tentata?
ORFEO - No, e questa sera meno che mai.
IL SIGNOR ENRICO {gli mette una mano sulla spalla e lo guarda quasi
con tenerezza) - Peccato. Non bisogna credere esageratamente alla
felicità, soprattutto quando si è di buona razza. Si va incontro alle
disillusioni.
(// cameriere bussa ed entra)
IL CAMERIERE - Signore, c'è una ragazza che chiede della signorina Eu-
ridice. Le ho detto che è uscita, ma non sembra persuasa. Insiste
per parlare con il signore. Debbo farla salire?
LA RAGAZZA (cntTondo e scostando il cameriere) - Sono già salita. Dov'è
Euridice?
ORFEO - È uscita, signorina. Chi è lei?
LA RAGAZZA - Una delle sue amiche della compagnia. Bisogna che le
parli subito.
ORFEO - Le ripeto che è uscita. E poi credo che non abbia nulla da
dirle.
LA RAGAZZA - Lei s'inganna. Ha invece molte cose da dirmi. Da quanto
tempo è uscita? Ha preso con sé la valigia?
ORFEO - La valigia? E perche dovrebbe prenderla? Essa è scesa per
comprare la nostra cena.
LA RAGAZZA - Sarà scesa per comprare la vostra cena, ma aveva delle
buone ragioni per portare con sé la valigia perché doveva raggiun-
gerci alla stazione per prendere con noi il treno delle otto e dodici.
ORFEO (grida) - Raggiungere chi?
IL CAMERIERE {guardando il suo grosso orologio di metallo) - Sono le
otto, dieci minuti e quaranta secondi.
LA RAGAZZA {comc sc parlasse per conto suo) - Dev'essere già alla sta-
zione con lui. Grazie, {si volta per uscire, Orfeo l'afferra sulla porta)
ORFEO - Alla stazione con chi?
LA RAGAZZA - Mi lasci. Mi fa male. Perderò il treno.
IL CAMERIERE {ckc consulta Sempre l'orologio) - Otto e undici precise.
DULAc {comparendo sulla soglia. Al cameriere) - E tredici. Il vostro oro-
logio va indietro. Il treno è partito, {a Orfeo) Lasci questa ragazza.
Posso risponderle io. Alla stazione con me.
ORFEO {retrocede) - Chi è lei?
DULAC - Alfredo Dulàc, l'impresario di Euridice. Dov'è?
ORFEO - Che cosa vuole da lei?
364 JEAN ANOUILH
DULAc {entra tranquillamente nella camera masticando un vecchio si-
garo) ' E lei?
ORFEO - Euridice è la mia amante.
DULAC - Da quando?
ORFEO - Da ieri.
DULAC - Si figuri che è anche la mia. Da un anno.
ORFEO - Lei mente!
DULAC {sorride) - Perché ha forse dimenticato di dirglielo?
ORFEO - Euridice mi ha detto tutto prima di seguirmi. Da tre mesi era
l'amante del giovane che ieri s'è gettato sotto il treno.
DULAC - Bisogna essere proprio stupidi. Era un ragazzone che mi fa-
ceva le parti del cattivo. Tutti nella compagnia ne avevano paura.
La piccola gli dice che lo lascia ed egli si schiaffa sotto il treno di
Perpignano, Quel che del resto non capisco è perché l'abbia dovuto
dire proprio a lei. E poi ha filato senza un grido come im'uccella.
ORFEO - Probabilmente perché era il solo al quale dovesse render conto.
DULAC - No. C'ero io. Anzitutto come impresario. Son già due sere che
debbo sostituirla su due piedi, il che non è mai comodo. E poi
perché avant'ieri, non le spiaccia, ha passato la notte con me.
ORFEO {lo guarda) - Non so se lei è piti odioso o ridicolo.
DULAC {avanza ancora un poco) - Davvero?
ORFEO - Credo tuttavia che, malgrado le arie che si dà, sia soprattutto
ridicolo.
DULAC - Forse perché ieri sera la piccola era in questo letto invece che
nel mio? Lei è un ragazzo, caro mio. Ad una donna come Euri-
dice bisogna pur passare i capriccetti. È stata anche dell'imbecille
che si è ucciso ieri. Per lei almeno capisco. Ha dei begli occhi, è
giovane...
ORFEO {grida) - Io amo Euridice e lei mi ama!
DULAC - È lei che glielo ha detto?
ORFEO - Si.
DULAC {va a sedersi tranquillamente in una poltrona) - È una donna
straordinaria. Per fortuna la conosco.
ORFEO - E se io la conoscessi meglio di lei?
DULAC - Da ieri?
ORFEO - Si, da ieri.
DULAC - Senta, non voglio fare il furbo. Si trattasse di altra materia —
lei sembra più intelligente di me — le direi forse « Sarà cosf », ma
vi sono due cose che io conosco bene: prima il mio mestiere...
ORFEO - E poi Euridice?
DULAC - No, non ho una simile pretesa. Stavo per dire una parola mol-
EURIDICE 365
to più modesta: le donne. Faccio Timpresario da vent'anni. Le
donne, ragazzo mio, io ne vendo all'ingrosso, perché alzino la gam-
ba nelle riviste di provincia o strillino la grande aria della Tosca
nei casinò, non m'importa, e poi mi piacciono. Ora Euridice sarà
un tipo assai strano, ma dato che entrambi abbiamo potuto vedere
com'è fatta, lei converrà che, ad ogni modo, e una donna...
ORFEO - No.
DULAC - Come no? Le è sembrata un angelo, la sua? Mi guardi bene,
amico mio. Euridice è stata con me un anno. Ho l'aria di un se-
duttore di angeli, io?
ORFEO - Lei mente. Euridice non ha potuto essere sua!
DULAC - Lei è il suo amante, io pure. Vuole che gliela descriva?
ORFEO {retrocede) - No.
DULAC (si avvicina, ignobile) - Com'è, la sua? Bisogna gettarla giù dal
letto la mattina? Strapparla ai suoi romanzi polizieschi, ed alle sue
sigarette? Per cominciare, l'ha mai vista un solo istante senza una
cicca al becco come un piccolo teppista? E le sue calze? Le ha ri-
trovate, le calze, la mattina? Sia dunque sincero. Confessi almeno
che la camicia era appesa in cima all'armadio, le scarpe nella vasca
da bagno, il cappello sotto la poltrona e la borsetta irreperibile.
Gliene ho già comprate sette.
ORFEO - Non è vero.
DULAC - Come non è vero? Ha visto un'Euridice ordinata, lei? Non
credo ai miracoli. Spero, in ogni caso, che le abbia già fatto comin-
ciare le fermate davanti alle vetrine. Quanti vestiti le ha chiesto da
ieri? e quanti cappelli?, detto fra noi...
ORFEO - Euridice mi ha seguito con un solo vestito, con una sola vali-
getta.
DULAC - Comincio a credere che non parliamo della stessa, oppure
ch'essa pensasse che era per poco tempo... Le diceva che era per la
vita? Son sicuro che era sincera. Ella pensava: «sarà per la vita se
egli è abbastanza forte per tenermi, se il vecchio Dulac non ritro-
verà le mie tracce, se non verrà a riprendermi ». E in fondo era
ben sicura che il vecchio Dulac l'avrebbe ritrovata. Anche questo
è nel suo carattere...
ORFEO - No.
DULAC - Ma si, mio caro, ma sì... Euridice è un essere raro, d'accordo,
ma tuttavia ha la mentalità di tutte quelle buone donnette...
ORFEO - Non è vero!
DULAC - Nulla è vero per lei, ma sa che lei è buffo? Da quanto tempo
è uscita?
366 JEAN ANOUILH
ORFEO - Da venti minuti.
DULAc - Bene. Questo è almeno vero?
ORFEO - Si.
DULAC - Ha voluto uscire sola, vero?
ORFEO - Si, la divertiva Tidea di andare a comprare sola la nostra cena.
DULAC - Anche questo è vero?
ORFEO - Sf.
DULAC - Ebbene, mi ascolti, cinque minuti prima le avevo fatto conse-
gnare una lettera nella quale le dicevo di venire a raggiungermi
alla stazione.
ORFEO - Nessuno ha potuto consegnarle una lettera. Da ieri non l'ho
lasciata un solo istante.
DULAC - Ne è proprio sicuro?
(Dulac guarda il cameriere. Lo guarda pure Orfeo senza sapere perché)
IL CAMERIERE (chc si è impTOvvisamente turbato) - Mi scusino, credo
che mi chiamino, {esce)
ORFEO - Ubo lasciata un minuto, è vero. Quell'uomo è venuto a dirmi
che mi volevano alla direzione.
DULAC - L avevo incaricato di consegnare un biglietto a Euridice. Glie-
lo ha dato mentre lei era giù.
ORFEO - Che cosa le diceva in quel biglietto?
DULAC - Che l'aspettavo al treno delle otto e dodici. Non avevo bisogno
di aggiungere altro... Giacché il destino era venuto a bussare alla
sua porta per dirle « Euridice, è finita », ero sicuro che lei avrebbe
obbedito. Non ci sono che gli uomini che si gettino dalla finestra...
ORFEO - Lei vede tuttavia che non è venuta a raggiungerla.
DULAC - È vero. Non è venuta. Ma Euridice, quella mia, è sempre in
ritardo. Non ci bado troppo. Alla sua ha detto di fare grandi spese?
ORFEO - Pane, frutta...
DULAC - Ed è scesa da venti minuti. Ho l'impressione che sia molto
per comprare pane e frutta. La strada è piena di negozi. Non sa-
rebbe per caso in ritardo anche la sua Euridice? (alla ragazza) A
quest'ora sarà alla stazione a cercarci, va' a vedere.
ORFEO - Vengo anch'io.
DULAC - Allora lei comincia a credere che sia potuta venire a raggiun-
gerci? Io resto qui.
ORFEO (si ferma e grida alla ragazza) - Se la vede le dica che...
DULAC - È inutile. Se è alla stazione, avevo ragione io: la sua piccola
Euridice fedele e ordinata era un sogno. E in questo caso lei non
ha pid nulla da dire.
ORFEO (grida alla ragazza) - Le dica che l'amo!
EURIDICE 367
DULAC - Le strapperà forse qualche lagrima. È sensibile. E sarà tutto.
ORFEO - Le dica che non è come credono gli altri, che è come la so io.
DULAC - Troppo complicato per poter essere spiegato in una stazione.
Fa* presto tu; e guardi, son buon giuocatore io, riconducila qui.
Fra un minuto lei stessa potrà dirci come è.
{la ragazza sta per uscire quando urta il cameriere che appare sulla
soglia)
IL CAMERIERE - Signore...
ORFEO - Che c'è?
IL CAMERIERE - C'è un agente con la camionetta della polizia.
ORFEO - Che vuole?
IL CAMERIERE - Viene a chiedere se c'è qualcuno qui che era parente
della ragazza, perché ha avuto un incidente nell'autobus di Tolo-
ne...
ORFEO (grida come un pazzo) - È ferita? È giù?
{si precipita nel corridoio; Dulac lo segue soffocando una bestemmia;
la ragazza scompare anche lei)
DULAC {uscendo) - Che cosa andava a fare nell'autobus di Tolone?
{U cameriere è restato solo di fronte al signor Enrico che non ha fatto
un gesto)
IL CAMERIERE - Non lo Sapranno mai quello che andasse a fare... Non
è ferita, è morta. Uscendo da Marsiglia, l'autobus ha urtato un carro
cisterna. Gli altri viaggiatori hanno avuto soltanto delle schegge di
vetro. Non c'è stata che lei... Io l'ho vista, l'hanno stesa in fondo
alla camionetta. Non ha che una piccolissima ferita alla tempia. Si
direbbe che dorma.
{il signor Enrico non sembra ascoltarlo. Con le mani sprofondate nelle
tasche del suo soprabito passa davanti a lui. Sulla soglia si volta)
IL SIGNOR ENRICO - Dite chc mi preparino il conto. Parto questa sera.
{esce)
368 JEAN ANOUILH
ATTO TERZO
// buffet della stazione nell'ombra. È notte. Una fioca luce viene dai marcia-
piedi dove brillano soltanto le luci dei segnali. Da lontano l'incerto gracidio di
un campanello.
Il buffet è deserto. Le sedie sono ammucchiate sui tavoli. La scena resta per un
momento deserta, poi si socchiude una porta-, entra il signor Enrico, che ja
entrare OR^EO senza cappello con un impermeabile. È smunto e stanco.
ORFEO (sì guarda attorno senza capire) - Dove siamo?
IL SIGNOR ENRICO - Non Hconosci il posto?
ORFEO - Non posso più camminare.
IL SIGNOR ENRICO - Adcsso ti riposerai, (prende una sedia) Ecco una
sedia.
ORFEO (si siede) - Dove siamo? Ho bevuto? Tutto gira attorno a me.
Che cosa è accaduto da ieri?
IL SIGNOR ENRICO - È Sempre ieri.
ORFEO (si rende conto d'un tratto e grida cercando di alzarsi) - Lei mi
aveva promesso...
IL SIGNOR ENRICO (gli mette una sulla spalla) - Si, t'ho promesso. Resta
seduto. Riposati. Vuoi fumare?
(gli porge una sigaretta che Orfeo prende macchinalmente)
ORFEO (si guarda ancora attorno mentre il fiammifero brucia) - Dove
siamo?
IL SIGNOR ENRICO - Indovina.
ORFEO - Voglio sapere dove siamo.
IL SIGNOR ENRICO - Tu m*hai detto che non avresti avuto paura.
ORFEO - Non ho paura. Voglio soltanto sapere se siamo finalmente ar-
rivati.
IL SIGNOR ENRICO - Si, siamo arrivati.
ORFEO - Dove?
IL SIGNOR ENRICO - Un po* di pazicHza. (accende un altro fiammifero,
segue le pareti, va ad un interruttore elettrico. Un piccolo rumore
nell'ombra, una lampada si accende sulla parete di fondo spanden-
do una luce avara) Riconosci adesso?
ORFEO - È il buffet della stazione.
IL SIGNOR ENRICO - Si.
ORFEO (si drizza) - Lei mi ha mentito, è vero?
IL SIGNOR ENRICO (lo costringc a sedersi) - No, non mento mai. Resta
seduto. Non gridare.
Una scena di Euridice di Anouilh, rappresentato a Roma nel 1947.
Interpreti: Morelli, Stoppa, Gior>;io De Lullo.
EURIDICE 369
ORFEO - Perché è entrato nella mia camera poco fa? Ero coricato su
quel letto disfatto. Soffrivo. Stavo quasi bene chiuso nel mio male.
IL SIGNOR ENRICO (sordamente) - Non avevo più il coraggio di sentirti
soffrire.
ORFEO - Che cosa può importarle che io soffra?
IL SIGNOR ENRICO - Non SO. È la prima volta. Qualcosa di strano ha
cominciato a cedere in me. E avrebbe sanguinato come una piaga
se tu avessi pianto, sofferto ancora... Stavo per lasciare l'albergo. Ho
lasciato le valige e sono entrato per calmarti. E siccome nulla ti
calmava, allora ti ho fatto questa promessa per farti tacere.
ORFEO - Adesso taccio. Soffro in silenzio. Se lei ha i nervi delicati ciò
dovrà bastarle.
IL SIGNOR ENRICO - Tu non mi credi ancora?
ORFEO {si prende la testa fra le mani) - Vorrei crederle con tutte le mie
forze, ma non vi riesco.
IL SIGNOR ENRICO (ha UH piccolo sovriso silenzioso; tira i capelli di Or-
feo) ' Testa dura, piccolo uomo. Tu piangi, gemi, soffri, ma non
vuoi credere. Ti voglio bene. Ti ho dovuto voler bene, ieri sera,
se non son fuggito subito, come al solito, se sono entrato in quella
camera dove tu singhiozzavi. Io odio il dolore, (gli tira ancora i
capelli con una specie di strana dolcezza) Ben presto non piangerai
più, testolina, non avrai più da chiederti se bisogna credere o no.
ORFEO - Essa sta per venire?
IL SIGNOR ENRICO - È già qui.
ORFEO - In questa stazione? (grida) Ma è morta, ho visto gli uomini
che la portavano via.
IL SIGNOR ENRICO - Tu vuoi Capire, è vero? piccolo uomo. Non ti
basta che il destino fàccia per te una grande eccezione. Hai messo
senza tremare la tua mano nella mia, mi hai seguito senza nem-
meno chiedermi chi fossi, senza allentare il passo fino in fondo alla
notte, ma vuoi capire lo stesso...
ORFEO - No. Voglio soltanto rivederla.
IL SIGNOR ENRICO - Non chiedi altro? Io ti conduco alle porte della
morte e tu non pensi che alla tua amica, piccolo uomo... Hai ra-
gione, la morte non merita che il tuo disprezzo. Essa getta le sue
immense reti, falcia a caso, grottesca, spaventosa. È un'imbecille
capace di infliggere qualche cieco colpo anche a se stessa. Per chi
ha visto gli uomini all'opera, saldi al calcio di una mitragliatrice
o al timone di una nave, per chi li ha visti trarre profitto da tutto
e abbattere con precisione il nemico, gli uomini sono ben più temi-
bili. Povera morte... Goffa pazza, (si è seduto, un po' stanco, ac-
24. - Teatro francese
370 JEAN ANOUILH
canto ad Orfeo) Ti dirò un segreto, a te solo perché mi sei caro.
Essa non ha che un merito, che tutti ignorano. È buona, straordi-
nariamente buona. Ha paura delle lacrime, dei dolori. Quando può,
quando la vita glielo permette, essa fa presto... Scioglie, distende,
risolve, mentre la vita si ostina, si aggrappa come una mendica
anche quando ha perduto la partita, anche quando l'uomo non può
pid muoversi, è sfigurato, anche quando è condannato a soffrire
sempre. Solo la morte è un'amica. Col tocco delle sue dita rida al
mostro il suo volto, calma il dannato, libera.
ORFEO {grida d'un tratto) - Io avrei preferito Euridice sfigurata, soffe-
rente, vecchia.
IL SIGNOR ENRICO (chìna la testa scoraggiato) - Sicuro, piccola testa,
siete tutti gli stessi.
ORFEO - La buona amica mi ha rubato Euridice. Col tocco delle sue
dita ha spento Euridice giovane, Euridice leggera, Euridice sorrì-
dente...
IL SIGNOR ENRICO (si dzo bruscamente, irritato) - Te la restituirà.
ORFEO {alzandosi anche lui) - Quando?
IL SIGNOR ENRICO - Subito. Ma ascoltami bene. La tua felicità era in
ogni caso finita. Quelle ventiquattro ore, quel povero giorno era
tutto quello che la vita, la tua cara vita, riserbava al piccolo Orfeo
ed alla piccola Euridice. Oggi tu non avresti forse pianto Euridice
morta, ma saresti a piangere Euridice fuggita...
ORFEO - Non è vero. Non era andata all'appuntamento di quell'uomo!
IL SIGNOR ENRICO - No, ma non era nemmeno tornata nella tua camera.
Aveva preso l'autobus per Tolone, sola, senza denaro e senza vali-
gia. Dove correva? E chi era precisamente quella piccola Euridice
che hai creduto di poter amare?
ORFEO - Chiunque fosse, io l'amo ancora. Voglio rivederla. Ah, la sup-
plico, signore, me la renda, anche imperfetta. Voglio aver male e
vergogna per causa sua. Voglio riperderla e ritrovarla. Voglio odiar-
la e cullarla come una bambina. Voglio lottare, voglio soffrire, vo-
glio accettare... Voglio vivere.
IL SIGNOR ENRICO {irritato) - Vivrai...
ORFEO - Con le macchie, le concellature, le disperazioni e i ricomincia-
menti. Con la vergogna...
IL SIGNOR ENRICO {lo guorda con un misto di disprezzo e di tenerezza) -
Piccolo uomo... {va verso di lui, cambiando tono) Addio, ti è resti-
tuita. Essa è U, sul marciapiede, allo stesso posto dove l'hai vista
ieri per la prima volta, ad aspettarti eternamente. Ti ricordi il
patto?
EURIDICE 371
ORFEO {che guarda già verso la porta) - Si.
IL SIGNOR ENRICO - Ripeti. Se tu dimenticassi il patto, non potrei più
nulla per te.
ORFEO - Non debbo guardarla in faccia.
IL SIGNOR ENRICO - Non Sarà cosa facile.
ORFEO - Se la guardo in faccia una sola volta prima dell'alba, la riperdo.
IL SIGNOR ENRICO (W ferma sorridendo) - Tu non mi chiedi più perché
e come, testa dura?
ORFEO (che guarda sempre la porta) - No.
IL SIGNOR ENRICO {sorridc aticora) - Bene... Addio. Tu puoi ricomin-
ciare dal principio. Non mi ringraziare. A presto.
(esce. Orfeo resta un istante immobile, poi va verso la porta e l'apre
sul marciapiede deserto. Dapprima non dice nulla, poi chiede senza
guardare)
ORFEO - Sei qui?
EURIDICE - Si, caro. Quanto m'hai fatto aspettare.
ORFEO - Mi hanno permesso di venire a riprenderti... Soltanto non do-
vrò guardarti prima dell'alba.
EURIDICE - Si, caro, lo so, me l'hanno detto.
(Orfeo la prende per la mano e la conduce senza guardarla. Attraver-
sano la scena, in silenzio, fino ad una panchetta)
ORFEO - Vieni. Aspetteremo l'alba qui. Quando i camerieri verranno
per il primo treno, sul far del giorno, saremo liberi. Noi ordinere-
mo un caffé ben caldo e da mangiare. Tu sarai viva. Non hai avuto
troppo freddo?
EURIDICE - Si, piò di tutto. Un freddo terribile. Ma non posso dire
nulla, me l'hanno proibito. Posso soltanto dire fino al momento in
cui l'autista ha fatto quel sorriso nello specchietto e in cui il ca-
mion cisterna ci è venuto addosso come una bestia impazzita.
ORFEO - L'autista s'era voltato per sorridere nello specchietto?
EURIDICE - Si, sai, quei meridionali credono che tutte le donne li guar-
dino. Eppure non avevo nessuna voglia di essere guardata.
ORFEO - A te sorrideva?
EURIDICE - Si, ti spiegherò piti tardi, caro. Ha dato un colpo allo sterzo
e tutti hanno gridato insieme. Ho visto il camion fare un balzo e
il sorrìso del giovanotto trasformarsi in una smorfia. È tutto, (dopo
una pausa, con la sua vocina) Di quello che è accaduto dopo non
mi è permesso dirti nulla.
ORFEO - Ti senti bene?
EURIDICE - Oh SI, stretta a te.
372 JEAN ANOUILH
ORFEO - Prendi il mio cappotto sulle spalle.
{le copre le spalle. Pausa. Si sentono bene)
EURIDICE - Ti ricordi il cameriere della Commedia Francese?
ORFEO - Lo rivedremo domani mattina.
EURIDICE - E la bella cassiera muta? Forse sapremo finalmente quello
che pensa di noi. È comodo rivivere... È come se ci si incontrasse
per la prima volta, (eh tede come la prima volta) Sei buono, sei
cattivo, come ti chiami?
ORFEO {seguendo il giuoco e sorridendo) - Orfeo, e tu?
EURIDICE - Euridice... {e poi aggiunge, con dolcezza) Soltanto, questa
volta siamo avvertiti, (china la testa e dice dopo una piccola pausa)
Ti chiedo scusa. Hai dovuto avere tanta paura...
ORFEO - Si. Da principio è una presenza sorda che ci accompagna, vi
guarda alle spalle, vi ascolta parlare. E poi, tutto a un tratto, vi
salta addosso come una bestia. Dapprima è un peso sempre più
grave che si sente sulle spalle, e poi si muove, si mette a scavarvi
la nuca, a strangolarvi. E intanto si guardano gli altri, che sono
calmi, gli altri che non hanno la bestia sul dorso, che non hanno
paura e dicono: « No, non c*è nulla di straordinario, la ragazza ha
forse perduto il tram, s'è fermata a chiacchierare per strada... )). Ma
adesso la bestia urla, straziandovi la scapola. «È forse vero che si
perde il tram della vita? No, si scivola sotto, scendendo in corsa,
vi si urta contro volendo attraversare la strada. Ci si ferma a chiac-
chierare nella vita? No. Sarà divenuta improvvisamente folle, o
rhanno rapita, o è fuggita... ». Per fortuna il cameriere venne a
liberarmi con una sventura precisa scritta sul viso. Poi, quando ti
ho vista giù, stesa in quella camionetta, tutto s'è fermato, non ho
avuto più paura.
EURIDICE - Mi avevano messa in una camionetta?
ORFEO - Nella camionetta della polizia. Ti avevano stesa sulla panchetta
in fondo, con una guardia accanto, come una piccola ladra che è
stata arrestata.
EURIDICE - Ero brutta?
ORFEO - Avevi soltanto un po' di sangue sulla tempia. Sembravi addor-
mentata.
EURIDICE - Addormentata? Se tu sapessi come correvo. Correvo diritta
come una folle, {una pausa) E hai dovuto soffrire tanto.
ORFEO - Si.
EURIDICE - Ti chiedo scusa.
ORFEO {sordamente) - Non c'è bisogno.
EURIDICE (dopo un'altra pausa) - Mi avevano portata alFalbergo perché
EURIDICE 373
tenevo ancora in mano una lettera. Te Tavcvo scritta nell'autobus
aspettando la partenza. Te l'hanno data?
ORFEO - No. L'hanno dovuta trattenere al commissariato.
EURIDICE - Ah! {subito inquieta) Credi che la leggeranno?
ORFEO - È possibile.
EURIDICE - Credi che non si possa impedire che la leggano? Non si
può fare qualcosa subito? Mandare qualcuno, telefonare, dir loro
che non hanno il diritto...
ORFEO - Troppo tardi.
EURIDICE - Ma quella lettera l'avevo scritta per te. Quello che dicevo
era per te. Com'è possibile che un altro la legga? Che un altro
mormori quelle parole? Un omone con sporchi pensieri, forse, brut-
to e contento di sé? Riderà, rìderà certamente della mia sofferen-
za... Oh, impediscigli di leggerla, te ne supplico. Mi sembra di
essere nuda davanti a un altro...
ORFEO - Forse non hanno aperto la busta.
EURIDICE - Ma non l'avevo ancora chiusa; stavo per farlo quando il
camion ci venne addosso. Ed è certamente per questo che l'autista
mi ha guardata nello specchio. Tiravo fuori la lingua, ciò l'ha fatto
sorridere, sorrisi anch'io...
ORFEO - Hai sorriso pure tu? Allora tu potevi sorridere?
EURIDICE - Ma no, io non potevo sorrìdere, tu non capisci! Avevo finito
la lettera nella quale ti dicevo che ti amavo, che soffrìvo, ma che
era necessario che me ne andassi... Ho tirato fuori la lingua per
leccare la colla della busta; quello M ha detto una frase scherzosa
come fanno quei giovanotti. Tutti ridevano attorno a me... (si fer-
ma, scoraggiata) Ah, non è la stessa cosa quando si racconta. È
diflScile. Lo vedi? Lo vedi? Tutto è troppo difficile.
ORFEO {riprende sordamente) - Che cosa andavi a fare nell'autobus di
Tolone?
EURIDICE - Fuggivo.
ORFEO - Avevi ricevuto la lettera di Dulac?
EURIDICE - Si, era per questo che partivo.
ORFEO - Perché non me l'hai mostrata, quella lettera, quando son ri-
salito?
EURIDICE - Non potevo.
ORFEO - Che ti scriveva?
EURIDICE - Di raggiungerlo al treno delle otto e dodici, altrimenti sa-
rebbe venuto a prendermi lui stesso.
ORFEO - Ed è per questo che sei fuggita?
EURIDICE - Si, non volevo che tu lo vedessi.
374 JEAN ANOUILH
ORFEO - Non hai pensato che sarebbe venuto lo stesso e che l'avrei visto?
EURIDICE - Si, ma ero vile, non volevo essere presente.
ORFEO - Sei stata la sua amante?
EURIDICE (grida) - No, te l'ha detto lui? Lo sapevo che ti avrebbe
detto cosi e che tu l'avresti creduto! Mi perseguita da molto tem-
po, mi detesta. Sapevo che ti avrebbe parlato di me. Ho avuto
paura.
ORFEO - Perché non me l'hai confessato ieri, quando ti ho chiesto di
dirmi tutto, perché non mi hai detto che eri stata anche la sua
amante?
EURIDICE - Non lo sono stata.
ORFEO - Euridice, adesso è meglio dir tutto. In ogni caso, noi siamo
due poveri esseri feriti su questa panchetta, due poveri esseri che
sì parlano senza vedersi...
EURIDICE - Che debbo dunque dirti perché tu mi creda?
ORFEO - Non so. Ed è quello, capisci, che è terribile: non so piò
come potrò mai crederti... (una pausa; poi dolcemente, umilmente)
Euridice, perché io possa essere senza inquietudine dopo, quando
tu mi dirai le cose più semplici — che sei uscita, che ha fatto bel
tempo, che tu hai cantato — dimmi adesso la verità, anche se è
terribile, anche se dovesse farmi male. Non mi farà piti male di
quello che provo — è come se mi mancasse l'aria — da quando so
che mi hai mentito... Se è troppo difficile da dire, non rispondermi
piuttosto che mentire. Quell'uomo ha detto la verità?
EURIDICE (dopo un'esitazione impercettibile) - No, ha mentito.
ORFEO - Non sci stata mai sua?
EURIDICE - No.
(una pausa)
ORFEO (guardando davanti a sé, con voce sorda) - Se in questo mo-
mento tu dici la verità è facile saperlo: gli occhi tuoi saranno lim-
pidi come uno stagno nella pace della sera. Se tu menti o non sei
sicura di te... ci sarà un cerchio di un verde più cupo che andrà
restringendosi attorno alla pupilla...
EURIDICE - Il giorno sorgerà ben presto, caro, e potrai guardarmi...
ORFEO (grida improvvisamente) - Si, fino in fondo ai tuoi occhi, d'un
tratto, come quando ci si getta nell'acqua. A capofitto, in fondo ai
tuoi occhi, e ch'io vi resti e che mi ci anneghi...
EURIDICE - Si, caro.
ORFEO - Perché, alla fine, è intollerabile essere due! Due pelli, due in-
volucri ben impermeabili, ciascuno per sé col proprio ossigeno,
con il proprio sangue ben chiuso, nella solitudine del proprio sac-
EURIDICE 375
CO di pelle. Ci si stringe Tuno airaltro, ci si strofina per uscire da
questa orrenda solitudine, si prova un piccolo piacere, si ha una
povera illusione, ma ben presto ci si ritrova soli, col proprio fe-
gato, con la propria milza, con le proprie trippe, unici amici.
EURIDICE - Taci!
ORFEO - Allora si parla. È stato inventato anche questo: un rumore
d'aria nella gola e contro i denti, un sommario apparecchio Morse.
Due prigionieri che picchiano al muro della cella. Due prigionieri
che non si vedranno mai. Ah, si è soli. Non ti pare che si è trop-
po soli?
EURIDICE - Stringiti forte a me.
ORFEO - Del calore, sf. Un calore diverso dal proprio. È qualcosa di
quasi sicuro. Anche una resistenza, un ostacolo. Un ostacolo tie-
pido. Via, c'è qualcuno. Non sono completamente solo. Non biso-
gna chieder troppo!
EURIDICE - Domani potrai voltarti. Mi abbraccerai.
ORFEO - Si, penetrerò per un momento in te. Potrò credere per un mi-
nuto che siamo due steli intrecciati nella stessa radice. E poi ci se-
pareremo e saremo di nuovo due. Due misteri. Due menzogne.
Due. (l'accarezza) Ecco, vorrei che una volta tu mi respirassi con
l'aria, m'inghiottissi. Sarebbe meraviglioso. Io sarei una piccolis-
sima cosa in te, avrei caldo, mi sentirei bene.
EURIDICE {con dolcezza) - Non parlare più. Non pensare più. Lascia
che la tua mano erri sul mio corpo. Lasciala essere felice. Tutto
tornerebbe tanto semplice se tu lasciassi la tua mano sola ad amar-
mi senza dire più nulla.
ORFEO - Tu credi che sia questa la felicità?
EURIDICE - Si. La tua mano è felice in questo momento. La tua mano
mi chiede soltanto che io sia qui, docile e calda sotto di essa, e
non domanda altro. Non mi chiedere nulla nemmeno tu. Ci amia-
mo, siamo giovani, vivremo. Accetta di essere felice.
ORFEO {alzandosi) - Non posso.
EURIDICE . Accetta, se mi ami.
ORFEO - Non posso.
EURIDICE - Allora taci, almeno.
ORFEO - Non posso nemmeno. Non tutte le parole sono state ancora
dette. E bisogna che le diciamo tutte, ad una ad una. Bisogna an-
dare in fondo adesso, di parola in parola. E son tante, vedrai.
EURIDICE - Taci, caro, ti supplico!
ORFEO - Tu non senti? È uno sciame, da ieri, attorno a noi. Le pa-
role di Dulac, le tue parole, le mie, le parole dell'altro, tutte le
376 JEAN ANOUILH
parole che ci hanno portato qui. E quelle di tutte le persone che
ci guardavano come due bestie condotte al macello, e quelle che
non sono state ancora pronunciate ma che sono già qui attratte
dall'odore delle altre; le piò banali, le più volgari, le più odiate.
Le diremo, le diremo certamente. Finiscono sempre per essere
dette.
EURIDICE {si alza gridando) - Caro!
ORFEO - Ah, no, basta con le parole. Da ieri siamo impeciati di parole.
Adesso bisogna che ti guardi.
EURIDICE {gli si gena addosso e lo afferra a mezza vita) - Aspetta,
aspetta, per favore. Bisogna lasciar passare la notte. Ben presto
sarà Talba. Aspetta. Tutto ridiventerà semplice. Verranno con il
caffè, con le tartine...
ORFEO - È troppo lungo aspettare il mattino, troppo lungo aspettare
di esser vecchi...
EURIDICE {lo tiene abbracciato; supplica con la testa stretta al suo dor-
so) ' Oh ti prego, caro, non ti voltare, non mi guardare... A che
scopo? Lasciami vivere... Tu sei terribile, sai, terribile come gli an-
geli. Tu credi che tutti avanzino sicuri e chiari come te, mettendo
in fuga le ombre dei due lati della strada. Ma vi sono altri che non
hanno che una piccola incerta luce che il vento fa vacillare. E le
ombre si allungano, ci spingono, ci trascinano, ci fanno cadere...
Oh, per favore, non mi guardare, caro, non mi guardare ancora...
Io non sono forse quella che tu volevi che fossi, quella che hai in-
ventata nella felicità del primo giorno... Ma tu mi senti, è vero,
addosso a te. Io sono qui, io sono calda, sono dolce e ti amo. H
darò tutte le gioie che posso darti. Ma non mi chiedere più di
quello che posso, accontentati... Non mi guardare... Lasciami vi-
vere... Te ne prego... Ho tanta voglia di vivere...
ORFEO (grida) - Vivere, vivere, come tua madre e il suo amante, forse,
con intenerimenti, sorrìsi, indulgenze, con dei buoni pranzetti, do-
po dei quali si fa Tamorc e tutto si accomoda? Ah, no. Ti amo
troppo per vivere!
{si volta e la guarda. Adesso sono l'uno di fronte all'altra separati da
uno spaventoso silenzio. Poi egli chiede con voce sorda)
ORFEO - Ti ha tenuta fra le sue braccia, quell'uomo? Ti ha toccata
con le sue dita cariche di anelli?
EURIDICE - Si.
ORFEO - Da quando sei la sua amante?
EURIDICE 377
EURIDICE (adesso gli risponde con la stessa avidità di straziarsi) - Da
un anno.
ORFEO - È vero che tu eri con lui l'altro ieri?
EURIDICE - Si; il giorno prima che t'incontrassi venne a prendermi do-
po lo spettacolo. Mi fece un ricatto. Mi faceva ogni volta un ricatto.
DULAc {entra improvvisamente) - Confessa che quel giorno mi hai se-
guito volentieri, piccola bugiarda.
EURIDICE {si strappa dalle braccia di Orfeo e corre verso di lui) - Vo-
lentieri? Volentieri? Sputavo ogni volta che mi baciavi.
DULAc {tranquillamente) - Si, colomba mia.
EURIDICE - Appena mi lasciavi, correvo a mettermi tutta nuda nella
mia camera, mi lavavo, mi cambiavo tutto. Tu non l'hai mai sa-
puto, questo?
DULAC {a Orfeo) - Che matta!
EURIDICE - Tu puoi ridere, ma ti conosco, tu ridi verde.
ORFEO - Perché dai del tu a quest'uomo?
EURIDICE {grida, sincera) - Ma io non gli do del tu.
DULAC {ghignando, a Orfeo) - Vede? E tutto il resto è cosi. Le assi-
curo che lei è fuori strada.
EURIDICE - Non prendere le tue arie di spaccone, non fare l'uomo
superiore... {a Orfeo) Scusa, caro, ma tutti si danno del tu, a tea-
tro. Vincenzo gli dà del tu, la mamma gli dà del tu; e per questo
che dico che non gli do del tu. Gli do del tu non perché sono stata
la sua amante, ma perché tutti gli danno del tu. {si ferma, sco-
raggiata) Ah, com'è difficile, com'è difficile spiegare sempre tutto!...
ORFEO - È necessario tuttavia che adesso tu spieghi tutto. Hai detto
che quella sera ti aveva fatto un ricatto, come ogni sera. Che ri-
catto?
EURIDICE - Sempre lo stesso.
DULAC - Adesso vuoi darci ad intendere che per un anno tu hai preso
sul serio quel ricatto, piccola bugiarda?
EURIDICE - Vedi, tu stesso riconosci che me l'hai fatto per un anno
intero.
DULAC - Non fare la stupida, Euridice, che non lo sei. Io ti chiedo
se tu, tu hai creduto per un anno a quel ricatto.
EURIDICE - E perché me lo facevi allora ogni volta se pensavi che non
ci credevo?
DULAC - Era diventata una formalità, quella minaccia. Te la facevo
perché, nella tua sporca superbietta, tu potessi dirti che eri costretta
a seguirmi, senza doverti confessare che lo facevi per piacere. Non
bisogna essere galanti con le signore?
378 JEAN ANOUILH
EURIDICE - Come, quando venivi a minacciarmi tu non credevi, tu, a
quel ricatto? Tu m'ingannavi ogni volta? Tu mi trascinavi ogni
volta, e non era vero, tu non l'avresti licenziato sul serio?
DULAc ' Ma no, piccola oca.
ORFEO - Di che cosa ti minacciava?
{entra il piccolo segretario, meschino, goffo. Si toglie il cappelluccio
prima di parlare)
IL PICCOLO segretario - La minacciava ogni volta di licenziarmi.
DULAC {vedendolo ha un esplosione di collera) - È un cretino! Perde
sempre tutto! Non voglio un simile cretino nella mia compagnia.
EURIDICE (a Orfeo) - Capisci, caro, questo ragazzo è solo con un fra-
tello di dieci anni; e debbono vivere con quello che guadagna lui...
E poi è troppo ingiusto: tutti lo detestano e non pensano che a
farlo mandar via.
IL SEGRETARIO - Capisce, signore, bisogna che io mi occupi di tutti i
bauli, di tutti gli scenari, e sono solo, (cade a sedere sopra una
panca e si mette a piangere) Non ce la farò mai, non ce la fa-
rò mai.
DULAC - È una bestia, vi dico che è una bestia!
EURIDICE - Sei tu che l'intontisci a forza di gridargli nelle orecchie.
Son sicura che se gli parlassero con calma capirebbe. Ascoltami,
piccolo Luigi...
IL SEGRETARIO - Si, t'ascolto, Euridice...
EURIDICE {a Orfeo) - Vedi, anche a lui do del tu. Tutti si danno del
tu. (si rivolge al piccolo) Ascolta, Luigi, è una cosa molto sem-
plice. Tu arrivi alla stazione di coincidenza, scendi subito dal tre-
no, corri al bagagliaio. Avrai già avuto cura di montare in coda
per essere là appena cominciano a scaricare. Conti i bauli per es-
sere sicuro che gl'impiegati non ne abbiano dimenticato nessuno...
IL SEGRETARIO - Si, ma gli altri hanno fretta di arrivare in città. Ven-
gono già a consegnarmi le loro valige...
EURIDICE - Tu dovrai dir loro di aspettare, che tu devi occuparti pri-
ma dei bauli.
IL SEGRETARIO - Si, ma loro lasciano le valige accanto a me sul mar-
ciapiede dicendomi di stare attento e se ne vanno. E il marciapiede
è pieno di gente che passa...
EURIDICE - Non bisogna lasciarli andare. Correre loro dietro...
IL SEGRETARIO - Ma allora perdo di vista i bauli! Ah, non ce la farò
mai, non ce la farò mai! È meglio lasciarmi...
DULAC (esplode) - È un idiota, n assicuro che è un idiota. Questa volta
è deciso. Visto, finito. Lo sbarco a ChStellerault!
EURIDICE 379
EURIDICE - Ma non gridare sempre, tu. Se gridi, come vuoi che ca-
pisca?
DULAc - Non capirà mai. Ti dico che è un deficiente. A Chatellerault
passerai alla cassa, pezzo d'asino!
IL PICCOLO SEGRETARIO - Signor Dulac, se mi licenzia, non so più dove
andare. Siamo perduti tutti e due, io ed il mio fratellino... Le giu-
ro che farò attenzione, Signor Dulac.
DULAC - Alla cassa, alla cassa, ho detto.
EURIDICE - Lo aiuterò io. Ti prometto che farò in modo ch'egli non
perda mai più nulla...
DULAC - Le conosco, le tue promesse! No, no, è un salame. Licen-
ziato, sbarcato! Non lo voglio più.
EURIDICE (si attacca a lui supplicando) - Ti giuro che farà attenzione,
Dulac, te lo giuro...
DULAC {la guarda) - Ah, tu giuri sempre, ma non mantieni spesso.
EURIDICE {a voce più hasso) - Se...
DULAC {a mezza voce) - Se lo tengo ancora, sarai buona?
EURIDICE {chinando gli occhi) - Si. {ritoma verso Orfeo) Ed ecco quel
che accadeva ogni volta... Perdonami, caro, ero vile, ma allora non
ti conoscevo ancora. Non amavo nessuno. E non c'ero che io che
potessi difenderlo, {una pausa; poi mormora) So bene che adesso
tu non potrai più guardarmi...
ORFEO {indietreggia, con voce sorda) - Ti vedrò sempre con le mani
di quell'uomo addosso. Ti vedrò sempre come ti ha descritta in
quella camera.
EURIDICE {umilmente) - Si, caro.
ORFEO - Non era nemmeno geloso quando venne a cercarti. «Una
donna come Euridice, bisogna passarle i suoi capriccetti ».
EURIDICE - Ti ha detto cosi?
ORFEO - ((Com'è la vostra? Bisogna gettarla fuori dal letto la mattina,
strapparla ai suoi romanzi polizieschi, alle sue sigarette? ». Sapeva
pure che eri vile e che se fosse venuto a riprenderti non saresti re-
stata con me. Che tu sei vile, è vero? Egli ti conosce meglio di me?
EURIDICE - Sf, caro.
ORFEO - Ma difenditi, almeno! Perché non ti difendi?
EURIDICE {retrocede) - Come vuoi che mi difenda? Mentendo? Io so-
no disordinata, è vero, sono pigra, sono vile...
IL Pic(x>Lo SEGRETARIO {grida impTovvisamcnte) - Non è vero!
EURIDICE - Che ne sai tu, piccolo Luigi?
IL PICCOLO SEGRETARIO - Tu non eri vile quando mi difendevi con-
tro tutti loro. Lo so, io. Tu non eri pigra quando ti alzavi alle
380 JEAN ANOUILH
sei per venire ad aiutarmi di nascosto prima che gli altri scen-
dessero...
DULAc {sbalordito) - Come, tu ti alzavi la mattina per aiutare questo
imbecille a spedire i bauli?
EURIDICE - Sf, Dulac.
IL PICCOLO SEGRETARIO - E lei cHe non ritrova mai nulla, che imbroglia
tutto, era lei che metteva in ordine le mie bollette, che mi impe-
diva di sbagliare...
DULAC " È il colmo!
ORFEO - Ma se questo ragazzo dice il vero, parla! Difenditi meglio.
EURIDICE (con dolcezza) - Dice il vero, ma anche Dulac ha ragione. È
troppo difficile!
(tutti i personaggi della commedia sono intanto entrati, e si sono am-
massati nell'ombra dietro ad Euridice, in fondo alla scena)
ORFEO - È vero, è troppo difficile; tutte le persone che ti hanno cono-
sciuta sono attorno a te; tutte le mani che ti hanno toccata sono
qui che ti toccano. E tutte le parole che hai dette sono sulle tue
labbra...
EURIDICE (retrocede ancora un pò* con un povero sorriso) - Allora,
vedi, è meglio che io muoia di nuovo.
LO CHAUFFEUR (si stacca dal gruppo e si avanza) - Non capite dunque
che questa piccola è stanca? E che, poi, ha vergogna di difen-
dersi, alla lunga. Io sono cacciatore; ebbene, vi sono delle bestiole
COSI, che si lasciano prendere per stanchezza, per disgusto. Si vol-
tano verso i cani e lasciano fare. È come quella storia dell'autobus,
nella quale sento che si sta imbrogliando da qualche momento...
ORFEO - Chi è lei?
EURIDICE - È lo chauffeur dell'autobus, caro, {dio chauffeur) Vi rin-
grazio d'esser venuto.
LO CHAUFFEUR - Egli s'immagiua che lei mi ha sorriso. Prima di tutto,
vi pare che io abbia una faccia alla quale possa fare dei sorrisi,
questa piccola? Lui s'immagina che lei, signorina, sia partita col
sorriso. E da li a credere che lei non l'ama il passo è breve, nello
stato in cui si trova. Ebbene, io ero li, io l'ho vista.
IL PICCOLO SEGRETARIO - Oh, sono coutento, lui ti difenderà. Glielo di-
rà lei, è vero, signore?
LO CHAUFFEUR - Ma certo che glielo dirò. Sono qui per questo.
ORFEO - Che cosa vuole dirmi?
LO CHAUFFEUR - Pcrchc ha sorriso. Da qualche minuto la guardavo con
la coda dell'occhio... Scriveva con una piccola matita in un angolo,
aspettando la partenza... Scriveva, scriveva e intanto piangeva.
EURIDICE 381
Quando fini di scrivere sì asciugò gli occhi col suo moccichino fat-
to a pallottola e trasse la lingua per chiudere la busta... Allora io,
per dire qualcosa, le dissi: «Spero che almeno ne varrà la pena
quello al quale scrive!».
EURIDICE - Allora io sorrisi perché pensai a te, caro.
LO CHAUFFEUR - EcCO,
{un momento di silenzio. Orfeo rialza la testa e guarda Euridice che
sta di fronte a lui tutta umile)
ORFEO - Se mi amavi perché sei partita?
EURIDICE - Pensavo che non sarei mai riuscita...
ORFEO - A che cosa?
EURIDICE - A farti capire.
(sono l'uno di fronte all'altra, silenziosi)
LA MADRE {escluma d'un tratto) - Quel che proprio non capisco è per-
ché tutto debba sembrare cosi triste, a questi ragazzi! Insomma,
mio grosso gatto, anche noi fummo appassionati amanti, ma era-
vamo forse tristi?
VINCENZO - Per nulla, per nulla! Ed io lo dicevo sempre: un po' di
amore, un po' di denaro, un po' di successo, e la vita è bella!
LA MADRE - Un po* d'amore? Molto amore! Questa bambina s'imma-
gina di aver inventato tutto lei col suo piccolo violinista. Anche
noi ci siamo adorati. Anche noi abbiamo voluto ucciderci l'uno
per l'altro. Ti ricordi a Biarritz, nel 1913, quando mi volevo get-
tare dall'alto della Rupe della Vergine?
VINCENZO - Per fortuna son riuscito ad afferrarti per la mantellina,
mia adorata!
LA MADRE {lancia un piccolo strillo a quel ricordo e si mette a spie-
gare ad Orfeo) - Era delizioso. Quell'anno si usavano delle piccole
mantelline guarnite di fettucce di seta, della stessa stoffa della giac-
ca. Perché avevo voluto uccidermi, quella volta?
VINCENZO - Perché la principessa Bosco m'aveva trattenuto presso di
lei a recitarle dei versi...
LA MADRE - Ma DO. La principessa Bosco fu quando volli bere l'aceto.
Ma sbagliai bottiglia. Era vino. Restai proprio male!
VINCENZO - Ah, che sciocchi! Era il giorno del professore di patti-
naggio.
LA MADRE - Ma no, la storia dei professore di pattinaggio fu a Losan-
na, durante la guerra. No, no. Il giorno della Rupe della Vergine,
eri stato tu a tradirmi, ne sono proprio sicura. Del resto, i parti-
colari precisi non contano. Quel che conta è che anche noi ci siamo
382 JEAN ANOUILH
amati appassionatamente, da morirne... Ebbene, siamo forse morti P
EURIDICE {che retrocede) - No, mamma.
LA MADRE - Vedi, povera idiota, se avessi dato ascolto a tua madre!
Ma tu non mi ascolti mai...
EURIDICE {allontanandola) - Lascia andare adesso, mamma, non al>-
biamo tempo... {ad Orfeo che, immobile, la guarda tdlontanarsi)
Vedi, caro, non dobbiamo dolerci troppo... Avevi ragione; per vo-
ler essere felici saremmo forse divenuti come loro... Che orrore!
LA MADRE - Come, che orrore?
VINCENZO - Perché che orrore?
ORFEO - Perché non mi hai confessato tutto fìn dal primo giorno? Il
primo giorno avrei forse potuto capire...
EURIDICE - Credi che non Tabbia fatto perché ero vile? Ebbene, non
fu per questo...
ORFEO - Perché, allora, perché?
EURIDICE - È troppo difficile, caro, mi confonderei di nuovo. E poi,
non ho più tempo. Ti chiedo scusa. Non muoverti... {retrocede an-
cora, si ferma dat/anti ad un personaggio) Ah, lei è la bella cas-
siera, quella che non diceva mai nulla. Ho sempre pensato che
lei avesse qualcosa da dirci.
LA CASSIERA - Come eravate belli, tutti e due, quando vi siete andati
incontro, in quella musica! Eravate belli, innocenti e terrìbili co-
me ramorc...
EURIDICE (/^ sorride e retrocede ancora un poco) - Grazie, signora.
{si ferma davanti ad un altro personaggio) Ah, il cameriere della
Commedia Francese. Il nostro primo personaggio. Buon giorno!
IL CAMERIERE {con un gcsto assai nobile) - Addio, signorina!
EURIDICE {sorride suo malgrado) - Lei è molto nobile, sa, e tanto
amabile. Buon giorno, buon giorno... {retrocede ancora. Si ferma
davanti ad un giovanotto vestito di nero e lo guarda stupita) Ma
chi è lei, signore? Ha dovuto sbagliarsi. Io non mi ricordo di lei.
IL GIOVANOTTO - Sono il Segretario del Commissariato di Polizia, si-
gnorina. Lei non mi ha mai visto.
EURIDICE - Ah, è lei allora che ha la mia lettera? Me la restituisca,
per favore, signore, me la restituisca...
IL GIOVANOTTO - Non posso, signorina.
EURIDICE - Non voglio che quel grosso uomo sporco e contento la
legga!
IL GIOVANOTTO - Posso promettervi che il signor Commissario non la
leggerà, signorina. Anch'io ho sentito che era impossibile che un
uomo come il signor Commissario leggesse quella lettera. L'ho
EURIDICE 383
tolta dairincartamento. La pratica è archiviata e nessuno se ne ac-
corgerà. L'ho qui. La rileggo tutti i giorni... Ma, io, non è la stes-
sa cosa...
(si inchina nobile e triste, cava la lettera dalla tasca, inforca gli oc-
chiali e comincia a leggere, camminando, con la sua voce un po'
scialba)
«Caro, io sono in quest'autobus e tu mi aspetti nella camera, ed
io so che non tornerò. Ed invano penso che tu, tu non lo sai an-
cora, sono triste lo stesso, tanto triste per te. Sarebbe stato ne-
cessario che io potessi prendere per me tutta la pena. Ma come
fare? Anche quando si è colmi di pena, cosi pieni che bisogna
mordersi le labbra perché essa non sfugga dalla bocca in un la-
mento, cosi pieni che le lagrime sgorgano da sole, anche allora non
si è presa per sé tutta la pena; ne resta sempre abbastanza per
due. La gente mi guarda in questo autobus, pensa che si tratti di
una cosa triste dalle mie lagrime, ma io detesto le lagrime. Le
lagrime sono stupide Si piange anche quando si picchia contro
qualcosa o quando si sbucciano cipolle. Si piange anche quando si
è irritati o per qualche altra pena. Per la mia pena di adesso avrei
voluto non piangere. Sono troppo triste per piangere.
(il giovanotto volta la pagina e continua a leggere con voce più si-
cura)
Me ne vado, caro. Già da ieri avevo paura e, mentre dormivo, tu
l'hai sentito, dicevo già che era troppo difficile. Tu mi vedevi cosi
bella, caro, voglio dire bella moralmente, che so bene che fisica-
mente non ti sono sembrata molto, molto bella. Tu mi vedevi cosi
forte, cosi pura, proprio come una tua piccola sorella... Non ci sa-
rei mai riuscita. Soprattutto adesso che l'altro sta per venire. Mi
ha mandato una lettera. Un altro che è stato mio amante e dei
quale non ti ho parlato. Non credere che io l'abbia amato, quello
li; tu lo vedrai, non è possibile amarlo. Non credere che io abbia
ceduto perché abbia avuto paura di lui, come forse ti dirà. Tu non
potresti capire, lo so bene. Ma allora io mi sentivo cosi sicura e
nello stesso tempo mi stimavo cosi poco. Allora tu non c'eri, caro,
ecco tutto il segreto; allora io non ti amavo, io non sapevo. Il pu-
dore delle ragazze per bene mi faceva ridere. La loro maniera di
conservare qualcosa per orgoglio o per un compratore scelto mi
pareva tanto brutta... Da ieri, caro, sono più pudica di loro. Da
ieri arrossisco se mi guardano, tremo se mi sento sfiorata. Piango
all'idea che qualcuno abbia osato desiderarmi... È per questo che
384 JEAN ANOUILH
me ne vado, caro, tutta sola... Non soltanto perché ho paura che
egli ti dica come m'ha conosciuta, non soltanto perché temo che
tu non mi voglia più... Non so se capirai bene, me ne vado perché
sono tutta rossa di vergogna. Me ne vado, capitano mio, e vi la-
scio precisamente perché mi avete insegnato che io ero un buon
soldatino... ».
{durante la lettura, Euridice ha continuato ad allontanarsi. Adesso è
arrivata in fondo dia scena)
ORFEO - Perdono, Euridice.
EURIDICE (gentilmente, dal fondo) - Non c'è di che, caro; sono io che
ti chiedo perdono, (agli altri) Mi scusino, debbo andare.
ORFEO (grida) - Euridice!
(corre come un pazzo in fondo dia scena. Lei è scomparsa. Scom-
parsi tutti gli dtri personaggi. Orfeo è restato solo, immobile. Sorge
il mattino. Un fischio di treno in lontananza. Il gracidio del cam-
panello. Quando la luce del giorno è divenuta quasi rede, entra
il cameriere, con l'aspetto ben vivo)
IL CAMERIERE - Buon giomo, signore. Non fa caldo questa mattina.
Prende qualcosa?
ORFEO (cade a sedere) - Si, quel che vuole, un caffé.
IL CAMERIERE - Bene, signore.
(comincia a togliere le sedie dai tavoli. La cassiera entra e va dia cassa
canticchiando una canzone sentimentde di prima della guerra. Un
viaggiatore passa sul marciapiede, esita e poi entra tìmidamente, È
carico di vdige e di strumenti di musica. È il padre di Orfeo)
IL PADRE - Tu sei qui, figliolo? Sai, non ho preso il treno di Palavas.
Completo, arcicompleto, mio caro. E quegli animali volevano far-
mi pagare un supplemento di seconda. Allora sono sceso. Prote-
sterò con le Ferrovie. Un viaggiatore ha diritto ad un posto a se-
dere in qualsiasi classe. Avrebbero dovuto farmi gratis il passaggio
di classe. Bevi un caffé?
ORFEO (che non ha l'aria di vederlo) - Si.
IL PADRE (sedendosi accanto a lui) - Lo prenderei volentieri anch*io.
Ho passato la notte nella sala d'aspetto, (gli dice dVorecchio) Sai,
a dirti il vero, mi sono infilato in quella di prima classe. Un ec-
cellente divano di cuoio, caro mio, ho dormito come un papa.
(vede la cassiera, la squadra. Lei volge lo sguardo dtrove; anche
lui) Vedi, alla luce del giorno perde molto, quella donna. Ha del-
le belle tette, ma un aspetto estremamente volgare... Allora, che
EURIDICE 385
cosa hai deciso, figliolo? La notte porta consiglio. Tu vieni dun-
que con me?
ORFEO - Si, papà.
IL PADRE - Lo sapevo che non avresti abbandonato il vecchio padre.
Per festeggiare l'evento ci regaleremo una bella colazioncina a
Perpignano. Pensa, mio caro, che conosco laggiù un piccolo prezzo
fisso a quindici franchi settantacinque, compreso il vino, il caffé e
il cicchetto. Si, mio caro, un cognac eccellente. E con quattro fran-
chi di supplemento, ti danno l'astice al posto dell'antipasto. La
bella vita, insomma, figliolo, la bella vita...
ORFEO - Si, papà.
ATTO QUARTO
La camera d* albergo, orfeo è mezzo steso sul letto, il signor Enrico è in
piedi, appoggiato al muro. Sprofondato nell'unica poltrona, il padre juma un
enorme sigaro.
IL PADRE (d signor Enrico) - È un merveillitas?
IL SIGNOR ENRICX) - Si.
IL PADRE - Deve costare qualcosa un sigaro come questo.
IL SIGNOR ENRICO - Sì.
IL PADRE - E lei non fuma?
IL SIGNOR ENRICO - No.
IL PADRE - Non capisco come, non fumando, lei tenga dei sigari di
questo valore. È commesso viaggiatore, forse?
IL SIGNOR ENRICO - AppuntO.
IL PADRE - Grossi affari, probabilmente.
IL SIGNOR ENRICO - Si.
IL PADRE - Allora si capisce. Bisogna invogliare il cliente. Al mo-
mento buono si tira fuori un merveillitas. Lei fuma? L'altro dice
di SI, tutto contento, e il colpo è fatto. Non resta che da sottrarre
il prezzo del sigaro dal prezzo di vendita, nel quale del resto era
stato calcolato. Siete tutti dei burloni. Mi sarebbe piaciuto tanto
fare affari. A te no, figliolo? (Orfeo non gli risponde) Bisogna
scuoterti, ragazzo mio, bisogna scuoterti. Toh, gli offra un mer-
veillitas. Se non lo finirai tu, lo finirò io... Quando sono triste, un
buon sigaro... {né Orfeo né il signor Enrico gli badano. Il pa-
de sospira e continua con minore sicurezza) Insomma, ciascuno
25. - Teatro francese
386 JEAN ANOUILH
ha i suoi gusti, (si rimette a fumare gettando occhiate sui due uo-
mini silenziosi)
IL SIGNOR ENRICO (dopo Una pausa, con dolcezza) - Devi alzarti, Orfeo.
IL PADRE - Non è vero? Non faccio che dirgli questo...
ORFEO - No.
IL PADRE - Ma lui non ascolta mai suo padre.
IL SIGNOR ENRICO - Bisogiia alzarsi e riprendere la vita dove l'hai la-
sciata, Orfeo...
IL PADRE ' Siamo appunto aspettati a Perpignano.
ORFEO {si alza a metà e gli grida) - Taci!
IL PADRE (si fa piccina) - Dico che ci aspettano a Perpignano. Non
c*è nulla di male.
ORFEO - Non tornerò mai con te.
IL SIGNOR ENRICO - Tuttavia la tua vita è là che ti aspetta come una
vecchia giacca che bisogna indossare la mattina.
ORFEO - Ebbene, non l'indosserò.
IL SIGNOR ENRICO - Ne hai un'altra? {Orfeo non risponde. Il padre
fuma) Perché non dovresti tornare con lui? To lo trovo piacevole,
tuo padre.
IL PADRE - È quel che gli dico io.
IL SIGNOR ENRICO - E poi lo conosci. È già molto. Tu puoi dirgli di
star zitto, camminare accanto a lui senza parlare. Immagini il sup-
plizio che ti aspetta senza di lui? Il compagno di tavola che ti
mette al corrente dei suoi gusti, la vecchia signora che ti fa delle
domande con affettuoso interesse. E l'ultima delle donnine incon-
trate per strada che pretende che si parli di lei. Se non vuoi pagare
il tuo tributo di parole inutili, sarai spaventosamente solo.
ORFEO - Sarò solo. Ne ho l'abitudine.
IL SIGNOR ENRICO - Diffida di questa parola. Essere solo fa pensare al-
l'ombra, al fresco, al riposo. Grossolano errore. Tu non sarai solo,
non si è mai soli. Si è con se stessi, che è ben altra cosa, lo sai...
Riprendi dunque la vita con tuo padre. Ti servirà ogni giorno le
sue considerazioni sulla durezza dei tempi e sui menù dei pasti
a prezzo fìsso. Sarà un'occupazione. Tu sarai piò solo di quando
sei tutto solo.
IL PADRE - In quanto a prezzi fìssi, ne conosco appunto uno a Perpi-
gnano, il « Restaurant Bouillon Jeanne Hachette ». Lo conosce for-
se anche lei? È molto frequentato dai suoi colleghi.
IL SIGNOR ENRICO - No.
IL PADRE - Per quindici franchi e settantacinque servono, vino com-
preso, antipasto (o astice, con quatto franchi di supplemento), piat-
EURIDICE 387
to di carne con contorno (molto abbondante), legumi, formaggio^
frutta o dolce (aspetti, non è finito), caffé, e cicchetto, cognac o,
per le signore, liquore dolce. Ecco, il piccolo menu del «Jeanne
Hachette». Con un sigaro cosi!... mi dispiace quasi di averlo fu-
mato subito, (non avendo avuto col suo discorso il successo spe-
rato, sospira) Insomma, tu vieni a Perpignano, figliolo? Tinvito io.
ORFEO - No, papà.
IL PADRE - Hai torto, ragazzo, hai torto.
IL SIGNOR ENRICO - È vero, Orfeo, hai torto. Tu dovresti dare ascolto
a tuo padre. È al « Restaurant Bouillon Jeanne-Hachette » che po-
trai meglio che altrove dimenticare Euridice.
IL PADRE - Oh, non saranno delle orgie, ma insomma si mangia bene.
IL SIGNOR ENRICO - Il solo posto al mondo dove non vi sia il fantasma
di Euridice è il «Restaurant Bouillon Jeanne Hachette» a Per-
pignano. Tu dovresti corrervi, Orfeo.
ORFEO - Lei crede dunque che io voglia dimenticarla?
IL SIGNOR ENRICO - Bisogua, caro mio, e al più presto possibile. Tu sei
stato un eroe per un giorno. In quelle poche ore hai esaurito la
tua parte di patetico per tutta la vita. Ora è finita, tu sei tranquillo.
Dimentica, Orfeo, dimentica financo il nome di Euridice. Prendi
tuo padre per il braccio e ritorna alle sue trattorìe. La vita può ri-
prendere per te il suo volto rassicurante, la morte la sua abituale
percentuale di probabilità, la disperazione la sua forma sopporta-
bile. Via, alzati e segui tuo padre. Tu hai ancora una bella car-
riera di vivo davanti a te. {queste ultime parole sono pronunciate
in tono più aspro)
IL PADRE [dopo una pausa) - Sai, figliolo, anch'io ho amato.
IL SIGNOR ENRICO - Vedi, anche lui ha amato. Guardalo.
IL PADRE - È vero, guardami. So bene che è triste. Ho sofferto anch'io.
Non ti parlo nemmeno di tua madre. Quando morì, era da un
pezzo ormai che non ci amavamo più. Ho perduto una donna che
adoravo. Una Tolosana tutta fuoco. Spacciata in otto giorni. I
bronchi! Piangevo come una fontana seguendo il funerale. Mi
hanno dovuto portare in un caffé. Guardami.
IL SIGNOR ENRICO - È vero, guardalo.
IL PADRE - Non dico che quando mi capita di sedermi al «Grand
Comptoir Toulousain» dove andavamo insieme, non abbia nello
spiegare il tovagliolo una piccola stretta al cuore, ma basta! la
vita è là. Che vuoi farci? Bisogna viverla, [tira pensosamente boc-
cate di fumo, sospira, mormora) Quel «Grand Comptoir Toulou-
388 JEAN ANOUILH
sain )) però... quando ci andavo con lei, prima della guerra, si man-
giava per un franco e settantacinque!
IL SIGNOR ENRICO {chifio SU Orfco) - La vita è H. La vita e li, Orfeo.
Dà ascolto a tuo padre.
IL PADRE (incoraggiato dalle parole del Signor Enrico) - Adesso ti dirò
anche cose dure, che ti faranno indignare, ma io ho più esperien-
za di te e quando avrai la mia età riconoscerai che avevo ragione.
Si soffre dapprima, beninteso, ma poi — vedrai — si prova no-
stro malgrado una dolcezza nuova... Un bel mattino — a me è
capitato un mattino — vi levate, vi annodate la cravatta, c'è il
sole, uscite, e tutt'a un tratto, pff!, vi accorgete che le donne sono
ridivenute graziose. Siamo terribili, mio caro, e tutti gli stessi:
dei bricconi.
IL SIGNOR ENRICO - Ascolta bene, Orfeo...
IL PADRE - Non dico che si faccia il pazzerellone con la prima incon-
trata. No. per quanto sia, non si è dei bruti e la cosa ai primi
approcci fa uno strano effetto. È anzi curioso: non si può fare a
meno di cominciare parlandole dell'altra. Le si dice che ci si sente
soli, sbandati. Il che in fondo è vero! Ah, non puoi immaginare,
mio caro, come questo genere di discorsi intenerisse le donne! È
ben semplice, voi mi direte che sono un corsaro, ma dieci anni do-
po io mi servivo ancora dello stesso trucco.
ORFEO - Taci, papà.
IL SIGNOR ENRICO - Perché vuoi farlo tacere? Egli ti parla come la vita
ti parlerà da tutte le sue bocche; ti dice quello che domani legge-
rai in tutti gli occhi quando ti alzerai e tenterai di vivere...
IL PADRE {ormai lanciato) - La vita! Ma la vita è magnifica, mio caro...
IL SIGNOR ENRICO - Ascolta bene.
IL PADRE - Non devi dimenticare che tu sei un ragazzo sen2ui espe-
rienza e che l'uomo che ti parla in questo momento ha vissuto, in-
tensamente vissuto. Eravamo terribili al Conservatorio di Niort!
Dei matti! La gioventù brillante. Sempre con il bastoncino in ma-
no e con la pipa al becco, e sempre a combinarne delle belle. In
quel tempo non avevo ancora pensato all'arpa. Studiavo il fagotto
e il corno inglese. Ogni sera facevo sette chilometri a piedi per
andare a suonare sotto le finestre di una donna. Ah, eravamo
gente in gamba, dei forsennati, degli eccentrici. Una volta, alla
lezione degli strumenti a corda, sfidammo gli ottoni. Scommettem-
mo di bere trenta mezzi litri. Ah, quel che abbiamo potuto vo-
mitare! Eravamo giovani, insomma, eravamo allegri. Avevamo ca-
pito la vita, noi!
EURIDICE 389
IL SIGNOR ENRICO - Vedi, Orfeo?
IL PADRE - Quando si ha la salute, il muscolo e la scintilla, non c'è,
amico mio, che da andare avanti. Io non ti capisco, mio caro. An-
zitutto il buon umore, che è questione di equilibrio. E un solo
segreto: la ginnastica tutti i giorni. Se sono cosi in forma, è per-
ché non ho mai smesso di fare ginnastica. Dieci minuti ogni mat-
tina, non di più, ma dieci minuti che contano, {si alza e comincia
dei ridicoli movimenti di ginnastica svedese) Uno, due, tre, quat-
tro, cinque. Uno, due, tre, quattro, cinque. Uno, due. Uno, due.
Uno due. Con questo, niente pericolo di pancia o di varici... L'al-
legria che dà la salute, la salute che dà l'allegria e viceversa.^ Uno,
due, tre, quattro, respirate profondamente. Uno, due, tre, quattro,
respirate profondamente. Uno, due, tre, quattro. Ecco tutto il mio
segreto.
IL SIGNOR ENRICO - Vedi, Orfeo, e molto semplice.
IL PADRE {che si è seduto soffiando come una foca) - È questione di
volontà. Tutto nella vita è una questione di volontà. È la mia vo-
lontà che mi ha permesso di superare i momenti più difficili. Una
volontà di ferro! Ma, s'intende, c'è il modo... Tutti mi hanno sem-
pre giudicato estremamente amabile. Del velluto, ma sotto c'era
l'acciaio. Andavo diritto, senza conoscere ostacoli. Un'ambizione
smisurata. L'oro, la potenza. Ma, badate, avevo una forte prepara-
zione tecnica. Primo premio di fagotto al Gjnservatorio di Niort.
Secondo premio di corno inglese; seconda menzione onorevole di
composizione. Potevo avanzare, avevo un bagaglio. Io, vede, caro
signore, voglio che la gioventù sia ambiziosa! E che?, perdio, ti
dispiacerebbe tanto di essere milionario?
IL SIGNOR ENRICO - Rispondi a tuo padre, Orfeo...
IL PADRE - Ah, il denaro, il denaro, ma è tutta la vita, mio caro.
Adesso hai dei dispiaceri, ma sei giovane. Pensa che puoi diven-
tare ricco. Il lusso, l'eleganza, la buona tavola, le donne. Pensa alle
donne, figliolo, pensa all'amore! Le brune, le bionde, le rosse, le
tinte. Quanta varietà, quante possibilità di scelta. E tutte per te.
Tu sei il sultano, fai due passi, alzi un dito. Quella là. Tu sei ric-
co, sei giovane, sei bello, e quella accorre. Ed allora sono le notti
folli... La passione, le grida, i morsi, i baci pazzi, l'ombra calda,
qualcosa di spagnolo. Oppure, sui divani di un salottino, dalle cin-
que alle sette, fra pellicce chiare, i riflessi della fiamma del ca-
minetto sulla nudità di una fanciulla bionda e perversa, ed altri
piacevoli e piccanti giuochi. Non ho bisogno di aggiungerti altro,
mio caro! Le sensazioni! Tutte le sensazioni. Una vita di sensa-
390 JEAN ANOUILH
zioni. Dov*è la pena? Andata in fumo, (ha un gesto, diviene gra-
ve) Ma non è solo quello la vita. C'è il decoro, la vita sociale. Ec-
coti divenuto forte, potente, alla testa di un'impresa industriale.
Tu hai abbandonato la musica... Maschera dura, impenetrabile...
Consigli di amministrazione, fra volponi, dove sono in giuoco le
sorti dell'economia europea. (Ma tu li giuochi tutti). E poi lo scio-
pero, gli operai in armi, la violenza. Tu ti avanzi solo sulla so-
glia della fabbrica. Parte un colpo che ti sbaglia. Tu non hai un
attimo di esitazione. Scandendo le parole, tu parli. Si aspettavano
delle promesse, una mezza ritirata. Si vede che non ti conoscevano.
Tu sei terribile. Tu li sferzi. Essi chinano il capo, riprendono il
lavoro. Vinti! È splendido... Allora, consigliato dai migliori amici,
tu ti dai alla politica. Pieno di onori, potente, decorato, senatore.
E sempre sulla breccia. Esequie nazionali, fiori, enormi quantità
di fiori, tamburi coperti di crespo nero, discorsi. Ed io, modesto in
un angolo — ci hanno tenuto che assistessi alla cerimonia — bel
vegliardo (ah, si, caro, sarò incanutito) che domino il mio dolore
ali '((attenti)): (declama) ((Rendiamo un commosso omaggio al do-
lore di un padre!...)), (è troppo Mio, esplode) Ah, amico mio,
amico mio, ma è magnifica, la vita!...
IL SIGNOR £NRicx> - Vedi, Orfeo?
IL PADRE - E quest'uomo che ti parla ha sofferto! Ha bevuto tutti
i calici. Ha spesso taciuto mor(lendosi le labbra a sangue per non
gridare. I suoi compagni di baldoria non hanno sospettato le sue
torture, certe volte, e tuttavia... Il tradimento, il disprezzo, l'in-
giustizia... Ti stupisci talvolta, ragazzo, di vedermi con il corpo
piegato, con i capelli precocemente incanutiti? Se tu sapessi il peso
di una vita sulle spalle di un uomo... (succhia invano il mozzi-
cone del sigaro; lo guarda scocciato e lo getta con un sospiro. Il
Signor Enrico gli si avvicina e gli porge ^astuccio)
IL SIGNOR ENRICO - Un altro sigaro?
IL PADRE - Grazie, sono confuso. Si, si, sono confuso. Che aroma! Il
cerchietto è un piccolo gioiello. Senta, mio caro, lo sa che mi han-
no dato ad intendere che le ragazze che fabbricano questi sigari
li rotolano tutte nude sulle loro cosce? (lo fiuta) Sulle cosce... (si
ferma) Che stavo dicendo?
IL SIGNOR ENRICO - Il pcso di ima vita...
IL PADRE (che ha perduto lo slancio lirico) - Come, il peso di una vita?
IL SIGNOR ENRICO - Se tu sapcssi il peso di una vita sulle spalle di
un uomo...
IL PADRE (tagliando con i denti la punta del sigaro) - Ah, si. Se tu
EURIDICE 391
sapessi, ragazzo, il peso della vita sulle spalle di un uomo... (si
ferma; accende con cura il sigaro e conchiude sempUcetnente) è
molto pesante, figliolo, estremamente pesante, {tira una lunga boc-
cata con devozione^ Meraviglioso! (strizza l'occhio al Signor En-
rico) Mi sembra di fumare la coscia, (uuol ridere, ma si strozza
col fumo. Il Signor Enrico si è ai/vicinato ad Orfeo)
IL SIGNOR ENRICO - Hai Sentito tuo padre, Orfeo? Bisogna sempre
ascoltare il padre. I padri hanno sempre ragione. (Orfeo leva gli
occhi e lo guarda) Anche gl'imbecilli, Orfeo. La vita è cosi fatta
che i padri imbecilli ne sanno quanto gl'intelligenti e talvolta di
più. La vita non ha bisogno dell'intelligenza: è anzi la cosa più
imbarazzante ch'essa possa incontrare nella sua allegra corsa.
ORFEO (mormora) - La vita...
IL SIGNOR ENRICO - Non dime male. Ieri sera la difendevi.
ORFEO - È COSI lontano, ieri sera.
IL SIGNOR ENRICO (con dolcczza) - Te l'avevo pur detto ch'essa ti avreb-
be fatto perdere Euridice.
ORFEO - Non accusi la vita... « La vita » non vuol dire nulla. La colpa
è mia, solo mia.
IL SIGNOR ENRICO (sorHdc) - Solo tua. Gjme sei orgoglioso.
ORFEO - Precisamente... è il mio orgoglio.
IL SIGNOR ENRICO - Il tuo orgoglio! Davvero, piccolo uomo? Pretendi
che anche l'orgoglio ti appartenga? Il tuo amore, il tuo orgoglio,
adesso la tua disperazione, senza dubbio. Che bisogno avete di
mettere sempre un possessivo davanti ai vostri piccoli trucchi?
Siete straordinari. E perché non il mio ossigeno, il mio azoto? Bi-
sogna dire l'Orgoglio, l'Amore, la Disperazione. Sono nomi di
fiumi, mio piccolo uomo. Da essi si stacca un rivolo che ti bagna
fra mille altri. È tutto. Il fiume Orgoglio non è tuo.
ORFEO - E nemmeno il fiume Gelosia, lo so. E la pena che mi affoga
viene senza dubbio dallo stesso fiume Pena che in questo momento
affoga milioni di altri uomini. È la stessa acqua gelata, la stessa
corrente anonima, e con questo? Io non sono di quelli che si con-
solano del loro male dicendo « è la vita ». Che cosa volete che mi
importi, a me, che sia la vita?... Che un milione di granelli di
sabbia siano macinati nello stesso momento?
IL SIGNOR ENRICO - Sono i tuoi fratelli, come si dice.
ORFEO - Io li odio tutti, uno per uno... e che non mi si venga a fare
della folla una grande sorella che intenerisce. Si è soli, completa-
mente soli. È l'unica certezza.
IL SIGNOR ENRICO (si è chinoto SU di lui) - E almeno tu, tu sei solo
392 JEAN ANOUILH
perché hai perduto Euridice. Ma pensa che la vita, la tua cara vita
ti riserbava di trovarti, un giorno, solo accanto ad Euridice viva.
ORFEO - No.
IL SIGNOR ENRICO - Si. Un giomo o l'altro, fra un anno, fra cinque an-
ni, fra dieci se vuoi, senza cessare di volerle bene, forse, ti saresti
accorto che non avevi più desiderio di Euridice, come lei non ave-
va desiderio di te.
ORFEO - No.
IL SIGNOR ENRICO - Si. Sarebbe stato qualcosa di cosi stupido. Tu sa-
resti stato il signore che tradisce Euridice.
ORFEO - Giammai!
IL SIGNOR ENRICO - Perché gridi cosi forte, per me o per te stesso? Po-
niamo, se preferisci, che saresti stato il signore che ha voglia di
tradire Euridice. Che è la stessa cosa.
ORFEO - Le sarei stato sempre fedele.
IL SIGNOR ENRICO - Forsc a lungo. Con delle occhiate, che non osano,
alle altre donne. Con un odio lento e sicuro che si sarebbe messo
a crescere fra di voi, a causa di tutte le donne che tu non avresti
potuto seguire nella strada per colpa sua...
ORFEO - Non è vero.
IL SIGNOR ENRICO - Si. Fino al giorno in cui una di loro fosse passata
davanti a te, giovane e dura, senza traccia di dolori, senza ombra
di pensieri; una donna nuova, Orfeo, davanti alla tua stanchezza.
Allora tu avresti potuto vedere la morte, il tradimento, la menzo-
gna presentarsi improvvisamente come i rimedi più semplici, avre-
sti visto l'ingiustizia prendere un altro nome, la fedeltà un altro
volto...
ORFEO - No. Avrei chiuso gli occhi. Sarei fuggito.
IL SIGNOR ENRICO - La prima volta forse, e tu avresti continuato a
camminare ancora per qualche tempo accanto a Euridice con gli
occhi di un uomo che cerca di perdere il cane per strada. Ma alla
centesima volta, Orfeo!... (fa un gesto) D'altronde, Euridice ti
avrebbe abbandonato per prima...
ORFEO {con un lamento) - No.
IL SIGNOR ENRICO - Perché no? Perche ti amava ieri? Un uccellino,
anche lei, capace di volar via senza saper perché, salvo a morire.
ORFEO - Non avremmo potuto cessare di amarci.
IL SIGNOR ENRICO - Lei non avrebbe forse cessato di amarti, la pove-
rina. Non è facile cessare di amare. La tenerezza ha la vita te-
nace. Ella avrebbe forse avuto una particolare maniera di darsi a
te prima di andare a trovare il suo amante, una maniera cosi
EURIDICE 393
umile, così gentile che tu avresti potuto essere ancora un po' felice.
È vero.
ORFEO - No, non noi, non noi.
IL SIGNOR ENRic» - Voi comc gli altri. Voi più degli altri. Con la vo-
stra maniera di essere teneri vi sareste torturati senza pietà.
ORFEO - No.
IL SIGNOR ENRICO - Si. Oppure un giorno stanchi, sorridenti, vuoti,
avreste deciso in tacito accordo di sopprimere il patetico fra di
voi e di essere alfine felici e gentili Tun per Taltro. Si sarebbe
allora potuto vedere un Orfeo e un'Euridice condiscendenti...
ORFEO - No! Sarebbe durato sempre, fino a quando fossimo diventati
vecchi e bianchi Tuno accanto all'altro.
IL SIGNOR ENRICO - La vita, la tua cara vita, non ti avrebbe fatto arri-
vare fin li. Non avrebbe risparmiato l'amore di Orfeo e di Eu-
ridice.
ORFEO - Si.
IL SIGNOR ENRICO - No, piccolo uomo. Voi siete tutti gli stessi. Siete
assetati di eternità, e fin dal primo bacio diventate verdi di paura
perché sentite oscuramente che la cosa non può durare. I giura-
menti si consumano presto. Allora vi costruite delle case perche
le pietre, esse, durano; fate dei figli, come altri, in altri tempi, li
sgozzavano, per essere ancora amati. In questo incerto combatti-
mento voi puntate allegramente la felicità di una piccola recluta
innocente su quel che c'è di più fragile al mondo, sul vostro amore
d'uomo e di donna... E anche questo si dissolve, si sbriciola, si
spezza proprio comc per coloro che non avevano giurato nulla.
IL PADRE (mezzo addormentato) - Quando ve lo dico io che la vita è
magnifica... (si gira nella sua poltrona, la mano che tiene il si-
garo si abbandona; mormora beato) Sulla coscia... (Orfeo e il Si-
gnor Enrico lo guardano un momento)
IL SIGNOR ENRICO (si avvicina ad Orfeo e gli parla rapidamente, a bas-
sa voce) - La vita non t'avrebbe lasciato Euridice, piccolo uomo. Ma
Euridice può esserti restituita per sempre. L'Euridice della prima
volta, eternamente pura e giovane, eternamente simile a se stessa...
ORFEO (lo guarda e dopo una pausa dice scuotendo la testa) - No.
IL SIGNOR ENRICO (sorridc) - Perché no, piccola testa?
ORFEO - No, non voglio morire. Odio la morte.
IL SIGNOR ENRICO (con dolcczza) - Sei ingiusto. Perche odi la morte?
La morte è bella. Essa sola dà all'amore il suo vero clima. Tu hai
sentito poco fa tuo padre che ti parlava della vita. Era grottesco,
pietoso, è vero? Ebbene è cosi... Quella pagliacciata, quell'assurdo
394 JEAN ANOUILH
melodramma, quella grossolanità, quei gesti teatrali, è la vita. Va'
a cacciarti li dentro con la tua piccola Euridice, e tu la ritroverai
all'uscita con il vestito pieno di macchie di mani, mentre tu ti
ritroverai sfinito. Dato che la ritrovi, o ti ritrovi. Io t'offro invece
un'Euridice intatta, un'Euridice col suo vero volto, che la vita non
ti avrebbe mai dato. La vuoi? {il padre si mette a russare strepi-
tosamente) Tuo padre russa, Orfeo. Guardalo. È brutto. È com-
passionevole. Egli ha vissuto. Chi sa? Forse non era cosi stupido
come diceva poco fa. C'è stato forse un minuto in cui egli è pas-
sato accanto all'amore o alla bellezza. Guardalo adesso aggrappato
all'esistenza con la sua povera carcassa afflosciata su quella poltro-
na. Guardalo bene. La gente crede che il logorio della vita su un
volto sia l'opera spaventosa della morte. Che errore! La cosa spa-
ventosa è invece di ritrovare l'insipida mollezza dei visi di quin-
dici anni, deformati ma intatti, sotto le barbe, gli occhiali, le ma-
niere dignitose. È lo spavento della vita. Adolescenti rugosi, sem-
pre beffardi, sempre impotenti, sempre piò vuoti e sempre più
sicuri di se stessi! Sono gli uomini... Guarda bene il tuo giovane
padre e pensa che Euridice ti aspetta.
ORFEO {improvvisamente, dopo una pausa) - Dove?
IL SIGNOR ENRICO {sorridendo) - Tu vuoi sempre saper tutto, piccolo
uomo... Ti voglio bene... Ero desolato di vederti soffrire. Ma ades-
so tutto ciò sta per finire. Vedrai come tutto diventerà puro, lumi-
noso, limpido... Un mondo fatto per te, piccolo Orfeo...
ORFEO - Che cosa bisogna fare?
IL SIGNOR ENRICO - Prendi il cappotto, la notte è fresca. Esci dalla
città per la strada che hai davanti. Quando le case si diraderanno,
tu arriverai sopra una collina, vicino ad un boschetto di ulivi. È là.
ORFEO - Che cosa, là?
IL SIGNOR ENRICO - Il tuo appuntamcnto con la morte. Alle nove. È
quasi l'ora. Non la fare aspettare.
ORFEO - Rivedrò Euridice?
IL SIGNOR ENRICO - Immediatamente.
ORFEO {prende il cappottò) - Bene, addio.
IL SIGNOR ENRICO - Arrivederci, piccolo uomo.
{// russare del padre si accentua fino a divenire una specie di rullo di
tamburo che accompagna tutta la scena, L illuminazione si modifi-
ca impercettibilmente. Il Signor Enrico è restato immobile d suo
posto con le mani nelle tasche; ad un tratto dice piano: « Entra ».
La porta s'apre lentamente. Entra Euridice che resta in fondo alla
stanza)
EURIDICE 395
L' RIDICE - Accetta?
SIGNOR ENRICO - Si, accctta.
iDicE {a mani giunte) - Non soffrirà almeno?
-^NOR ENRICO - Hai sofferto, tu?
lERiERE [hussa ed entra) - Se il signore permette, preparo il
per la notte, (chiude le tende e si mette a preparare il letto,
diverse volte davanti ad Euridice senza vederla. Guarda il
arrìdendo] Il signore russa. Pare che sia segno di buona sa-
ri c\ sono che i buontemponi che russino, diceva mia ma-
fn sentivo il signore che parlava. Temevo di disturbarlo.
u> Parlavo solo.
*• \Rchc a me capita. Ci si dice talvolta delle cose stra-
gli altri non ci avrebbero dette. Come sta il giova-
Hene.
IL CAMERIERE - Dev cssere stato un colpo terribile.
IL SIGNOR ENRICO - Si.
IL CAMERIERE - Crede che si consolerà mai?
IL SIGNOR ENRICO - Si. Che ora fate?
IL CAMERIERE - Lc nove meuo due minuti, signore.
(prepara il letto in silenzio. Si sente, sempre piti forte, il russare del
padre)
IL SIGNOR ENRICO (improvvisamcntc) - Cameriere!
IL CAMERIERE - Signore?
IL SIGNOR ENRICO - Fate preparare il conto. Parto stasera.
IL CAMERIERE - Il signore m'aveva detto ieri...
IL SIGNOR ENRICO - Ci ho pensato, questa volta parto.
IL CAMERIERE - Bene, signore. Il signore ha finito i suoi affari a Mar-
siglia?
IL SIGNOR ENRICO - Si. (// Cameriere sta per uscire) Che ora è adesso?
IL CAMERIERE - Le nove precise, (esce lasciando la porta spalancata)
IL SIGNOR ENRICO (a Euridice che è restata immobile) - Eccolo.
EURIDICE (chiede a bassa voce) - Potrà guardarmi?
IL SIGNOR ENRICO - Adesso SI, senza timore di perderti.
(Orfeo, entra, esita sulla soglia come abbagliato dalla luce. Euridice
gli corre incontro, lo abbraccia)
EURIDICE - Caro, quanto m'hai fatto aspettare!
(suonano le nove in lontananza. Il padre cessa bruscamente di russare
e si sveglia emettendo dei borborigmi)
396 JEAN ANOUILH
IL PADRE (succhiando il sigaro spento) - Guarda, ho dormito? Dov'è
Orfeo? (// Signor Enrico non risponde. Il padre si guarda attorno,
inquieto) È uscito? Ma insomma, mi risponda, perbacco. £)ov*è
Orfeo?
IL SIGNOR ENRICO (mostrandogli la coppia abbracciata, che il padre
non vede) - Orfeo è con Euridice, finalmente!
(// padre si alza sbalordito lasciando cadere il sigaro)
La presente traduzione è a cura di Italo Siciliano.
HENRI D8 MONTHERLAIIT
Henri de Montherlant ha soltanto quattordici anni più di
Anouilh (è nato a Parigi il 21 aprile 1896), è venuto dopo di lui
al teatro, ma nell'attuale mondo letterario sembra il superstite
campione di un'epoca abolita. Egli s'è dato tuttavia e si dà un
gran da fare per mescolarsi alla folla e per correre col t^mpo, ha
partecipato alla prima guerra riportandone ferite, eroiche fantasie
e lezioni di lirica grandezza (Le Songe, 1922; Chant funebre pour
les morts de Verdun, 1924), ha praticato vari sport e preso parte
alle corride, riportandone cornate e brillantemente celebrando tau-
romachie e stadi {Olympiques, 1924; Bestiaires, 1926), ha avuto
crisi e le ha superate, ha avuto avventure e le ha romanzate, ha
viaggiato, polemizzato, adorato e bruciato idoli (Aux jontaines
du Désir, 1927; La Petite Infante de Castille, 1929; Service inu-
tile, 1935; UEquinoxe de Septembre, 1938), non ha ignorato le
miserie della seconda guerra e dell'occupazione, ha rischiato di
passare per collaborazionista, per spirito di contraddizione e per
certi incauti disprezzi di Solstice de Juin (1941), ha insomma con-
tinuamente affermato con rumore e con varia fortuna la sua
< presenza > : il che non toglie che, soprattutto alla ribalta, lo spor-
tivo, il dinamico, l'invadente Montherlant abbia l'aria di arrivare
in ritardo, faccia la figura del cavaliere del tempo andato, del
domatore di leoni e di tori imbalsamati.
E ciò non perché porta sulla scena vecchi ricordi e miti an-
tichi, ma per Io spirito e la maniera del restauro, che hanno qual-
cosa di antiquato, che tradiscono un non troppo sicuro gusto del
bric-à-brac. Mentre infatti il praticante dell'* à rebours>, il can-
tore della voluttà, della giovinezza e della guerra (« royaume des
forts où fleurit l'antique amitié militaire >) dà l'impressione di es-
400 HENRI DE MONTHERLANT
sersi attardato nella decadente bottega di Des Esseintes (o di d'An-
nunzio) e di non aver impunemente conosciuto i vitalistici idoli
della Belle Epoque, il ribelle solitario non riesce a superare un
eclettico dilettantismo nel quale l'inedito si mescola con il noto
e lo scaduto, nel quale, per essere più precisi, il culto dell'io, del
toro e del dio Mitra (in « sincretica > combinazione col dio cri-
stiano) rivela analogie e incroci che vanno dal barocco spagnoli-
smo corneliano alla mistica pagana di Charles Maurras, che par-
tono dalla stendhaliana professione di energia per arrivare — e
fermarsi — al complesso di potenza di Nietzsche ed all'egotismo
di Philippe Barrès: il tutto messo all'insegna delle gidiane «al-
ternanze > e < disponibilità > trasferite e rivissute nei brutali « fer
vori> e nelle frivole «pietà» di un Montherlant-Costals ondeg-
giante fra un Valmont tutto sensi e un don Giovanni debole di
cuore. Affinità elettive e incontri fatali, ma in un mondo piuttosto
polveroso, in un terreno la cui mobilità è fertile di romantiche
incoerenze e di strani abbagli. È così che il realistico «Todo»
ostenta ascetiche aspirazioni al «Nada>, che l'Assoluto razzola
nella voluttuaria pratica del «carpe diem» e dell'istante, che in-
fine il Montherlant sensibile a tutte le mondane concupiscenze e
dissipazioni potè credersi (e fu creduto!) di natura e di stretta
osservanza giansenista.
Il matador è sceso relativamente tardi nell'arena teatrale. A
diciotto anni aveva scritto L'Exilé, drammetto della sua equivoca
vocazione bellica, nel 1938 ha portato sulla scena il frammento
drammatico — composto dieci anni prima — di una Pasiphaé che
moralizza la sua mostruosa colpa secondo l'immoralistica «au-
tenticità » gidiana, ma la prima vera e propria opera teatrale è La
Reine morte (tratta dal Reinar despuès morir di L. Velez de Gue-
vara) rappresentata nel 1942 con vivo successo. Dopo di che, Mon-
therlant apre i cassetti, riesuma manoscritti, passioni e problemi
di diversa natura, porta alla ribalta drammi che per lo più sono
di antica genesi e di lunga ruminazione. Mentre il 1943 presenta
in Fils de personne un superuomo dei nostri giorni (un Carrion
che rifiuta un figlio naturale perché di « mediocre qualità »), l'an-
no dopo si lascia sedurre dalle barbariche raffinatezze rinascimen-
tali e ci dà in Malatesta (che sarà rappresentato nel 1950) un uomo
PRESENTAZIONE 401
di eccezionali contrasti e qualità che si muove fra l'ambiguo Lo-
renzaccio di Musset e la grossa marionetta dei teatro hughiano.
Quindi, ispirato da un quadro e da una frase letta nel lontano
1933, si getta nel severo e nudo mondo di un fanatico eroe della
Spagna secentesca e compone nel 1945 Le Maitre de Santiago, che
è portato sulla scena il 1948 con gran successo (ottocento recite).
Nel 1949, lasciato don Alvaro alla sua eroica follia, riprende Car-
rion, che riporta ai tempi ormai passati dell'occupazione e della
resistenza, mostrandoci in Demain, il fera jour (continuazione di
Fils de personné) il superuomo decaduto, divenuto, per viltà e
calcolo, pili spregevole del disprezzato figlio.
Montherlant «si batte i fianchi >, stuzzica la storia e la sua
memoria, ritrova e rinfresca vecchi progetti e immagini sbiadite.
Nel 1950 drammatizza in Celles qu'on prend dans ses bras l'en-
nesima avventura di un Ravier-Costals che conquista senza gloria
una diciottenne di mediocre qualità, Tanno dopo, con La Ville
doni le Prince est un enfant, risale addirittura all'epoca delle in-
nocenti ed inquietanti amicizie di collegio. Poi, riprendendo una
idea suggeritagli nel 1928 dalla famosa opera di Sainte-Beuve,
presenta nel 1953 il dramma (che aveva avuto una prima reda-
zione nel 1942-'43) delle povere ed eroiche monache di Port RoyaL
Poi viene l'annunzio solenne della « retraite >, o rinuncia al teatro
(onde l'eccitato agiografo Jacques de Laprade rievoca le ombre
di Racine, di Siila e di Carlo Quinto!) seguito dalla smentita di
Brocéliande (1955), farsa tragica di un vecchio «travet» che,
persuaso da un maniaco di essere discendente di San Luigi, si
uccide quando scopre che la sua gloria è divisa da altri quindici-
mila eredi presuntivi. Infine è il disastro di Don Juan (1958), scon-
nessa tragicommedia di un Costals di sessantatré anni che buffo-
neggia, in compagnia di un figlio naturale, fra grottesche imprese
amatorie e lugubri sermoni.
Il semplice enunciato dei soggetti basta a dare un'idea delle
disparate fonti e della « disponibilità » di una immaginazione che
volubilmente passa dal mito solare agli « autos sacramentales >,
dal « noeud épouvantable de contradictions > che e il re Ferrante
della Reine morte al monolitico rudere senza porte e senza fine-
stre che è il Maestro di Santiago, dal retorico groviglio di spade,
26. • Teatro franceit
402 HENRI DE MONTHERLANT
congiure, donne e veleni di Malatesta alla schematica parafrasi
giansenista, dai disordinati fervori di adolescenti alle senili con-
fusioni mentali di Carrion, di Ravier, di Persilcs, di Don Gio-
vanni. L'esegesi gratulatoria spiega tutto ciò con la storia dell'al-
ternanza e della versatilità del genio drammatico montherlaniano,
ma è lecito credere che si tratti ancora di dilettantismo e di man-
canza di una vera vocazione teatrale. Ad ogni modo, sembra in-
dubbio che, oltre a restare legato al mondo del saggio e del ro-
manzo, il teatro trasferisce sulla scena gli atteggiamenti caratte-
ristici — pose, idolatrie, nostalgie, fratture e debolezze — del pri-
mo attore Montherlant. La cosa, del resto, è pacifica. «Il n'est
pas un des personnages de mon théàtre, — dichiara, — avec lequel
je ne sois d*accord, que je n'aie tire d'un de mes moi-mcme>. E
al momento di scrivere La Reine morte si chiede: «Comment
chacun des personnages de Reinar et chacune de ses situations,
pouvaient-ils étre branchés sur ma vie intcrieure, de fa^on à en
ctre irrigués? >. E la risposta è esplicita. La regola che governa
tutte le sue opere — dice con Goethe — è che tsst sono, l'una o
l'altra, frammenti delle sue memorie. Frammenti, s'intende, tra-
sfigurati e più o meno abilmente drammatizzati in casi e perso-
naggi immaginari, o nell'cautre soi-mcme>. E l'irrigazione si
risolve per lo più nell'arte oratoria del Narciso che si contempla
nella sua ideale e mutabile fonte.
Disuguale e irto di contraddizioni anche lo scrittore. Con
tutte le sue discutibili lezioni e malgrado le appassionate inge-
nuità dell'autodidatta, Montherlant trova nell'innato dono lette-
rario qualcosa di quella « grandeur > di cui fa dottrinario spreco.
Lo dicono, a torto o a ragione, tragicommediante, arrivista, bal-
zano e disumano (il che non vieta, s'intende, le goffe esaltazioni),
ma nessuno resta indifferente davanti all'irritante giuoco né po-
trebbe negare la ricchezza di una fantasia che, accoppiata all'ori-
ginalità ed alle stravaganze dello stile, dà vita al saggio e al ro-
manzo, va alla deriva fra gli alti e i bassi delle amorose conquiste
di Costals {Les Jeunes Filles, Pitie pour Ics jemmes, Le Démon
du bien, Les Lépreuses^ 1936-1939), raggiunge il capolavoro nei
Célibataires (1934).
Secondo l'autore e certi suoi interpreti, i motivi dominanti
PRESENTAZIONE 403
del teatro della potenza e delle contraddittorie verità umane sa-
rebbero dati dai temi della solitudine, dell'esilio e del sacrificio.
Il che può sorprendere quando si pensi agli aspetti pid vistosi
della psicologia e della mentalità di un Montherlant in perma-
nente esibizione sulla scena e in dichiarata professione di egoti-
stico possesso. In realtà Montherlant potrà credersi < potente e so-
litario > come il Mosè di Vigny, ma difficilmente potrebbe far
credere che lui e i suoi eroi siano afflitti dal complesso della torre
d'avorio o da quello di Abramo. In realtà, quando gli uni sacri-
ficano Isacco (ovvero Ines de Castro, Gillou Sandoval, Mariana,
Sandrier) lo fanno per disgusto di Isacco o per grande amore di
se stessi, mentre l'altro cerca talvolta la torre ma come un rifugio
provvisorio o come il luogo eminente donde può meglio insultare
e blandire la tribù. E quando gli uni hanno cessato di provocare
o di stupire il pubblico, l'altro continua a erudire e a malmenare
il lettore con un profluvio di €préfaces>, «postfaces>, storie in-
terne ed esterne della «pièce», allocuzioni, chiose, avvertimenti,
autocritiche, critiche dei critici, sarcasmi, nota prima, nota secon-
da, nota terza, e cosi via dicendo tra futili discorsi e osservazioni
acute.
Un cosi intemperante polemizzare con l'ombra, tanto girare
su se stesso con orgogliose spiegazioni ed inviti all'applauso (e alla
«pietà») può essere messo in conto della petulanza del Nostro,
ma può anche far pensare ad altro, all'irrequietezza dell'ansioso,
al cosiddetto «trac» dell'attore che adora e teme la ribalta e la
platea. Si pensa allora che Montherlant s'è confessato il «voya-
geur traqué > che non ha mai cessato di correre dietro qualcosa
di irraggiungibile, che l'inquieto ha cercato « instants de bonheur >
dappertutto e m opposte direzioni senza trovare mai il centro e
l'equilibrio, che la famosa «alternanza» è in realtà un'altalena
fra gloriose partenze e rassegnate accettazioni del «servizio inu-
tile », fra la prepotente ricerca del Tutto e la cupidigia del Nulla.
Bellezza di olimpionici e di corride, ma è noto che adeti e pro-
fessionisti dell'energia hanno crisi di nervi, oscuri cedimenti, im-
provvisi collassi.
È probabile che l'innesto (e l'irrigazione) fra Montherlant e i
suoi eroi, piuttosto che nel roveto ardente di Mosè e nella libido
404 HENRI DE MONTHERLANT
autolesionista di Abramo, abbia luogo proprio nel caratteristico
terreno psicologico aperto all'assalto brutale ed al passeggero crol-
lo, all'ostentata iattanza ed alla mal celata nausea. È un fatto, ad
ogni modo, che non c'è personaggio dell'energico teatro che ad
un certo momento della sua spettacolare « azione intcriore >, non
conosca una certa frattura interna, non abbia paura del toro, non
ceda alla tentazione della fuga o all'istante « felice > del dissolvi-
mento. Non esuli nella grandezza della propria solitudine, ma
succubi di qualcuno, ma vinti, decaduti o rinunciatari sono il
vacuo Filippo di Exil e il fatuo superuomo Carrion, l'ambiguo ed
ansioso abate de Prandts e lo scettico Ravier, i grotteschi Persilès
e Don Giovanni, la stessa esaltata Mariana, la stessa nobile e ras-
segnata Suor Angelica de Saint-Jean. Il contrasto e l'intreccio fra
il mito solare e l'ombra dell'ovile si manifestano con analoga pro-
cedura nelle zone mediocri come nelle superiori. «Et je me re-
poserai enfin dans le rien que je convoite>, declama il Minos dei
Crétois in preda al complesso di potenza e di distruzione. E Pa-
sifae « osa quello che nessuno ha osato >, va a viso scoperto in-
contro all'orrenda colpa, sfida il mondo e la morale, per poter far
rientrare nel suo essere il riposo e la pace del mondo. E l'Infanta
vede bene che il mostro Ferrante è un debole che « suona il flauto
per amore di Dio > senza credere, che uccide quello che ama per
non sapere quello che vuole. E i duri hanno gli stessi inesplicabili
smarrimenti dei molli. Il terribile signorotto di Rimini ha qual-
cosa di femminile, si commuove e piange istericamente davanti
al papa che vuole pugnalare, mentre questo, che non e fatto di
tenera pasta, si sente improvvisamente sommerso da una « strana
e straordinaria tristezza >. E la stanchezza vince, ad un certo mo-
mento, i grandi e i piccoli. « Je me fatigue quelquefois moi-mc-
me >, « J'en ai assez d'étre toujours de fer >, confessa Malatesta.
< Je suis fatiguée d'avoir peur >, geme la mite Francesca dell'Eu-
carestia smarrita nell'aspra guerra giansenista. Ferrante è un ener-
gumeno del fallimento e della rinuncia. Lo stesso Alvaro tutto
d'un pezzo è uno stanco, sopraffatto dalla mania dell'assoluto e
dall'angoscioso bisogno di salvare la sua anima. « Vous n'avez pas
de respect pour la faiblesse humaine>, dice l'abate de Pradts al
suo chiaroveggente Superiore. E il patetico — quando c'è — dei
PRESENTAZIONE 405
rivoltosi, degli irregolari, dei forti scaturisce proprio dalle incon-
gruenze della loro umana debolezza. Votati ad un perpetuo celi-
bato (come il loro padre spirituale) gU eroi montherlaniani ne co-
noscono le grandezze e gl'infortuni, ma hanno bisogno del calore
dello stadio, sono sempre pronti a ricacciarsi nella mischia e ad
agitare la muleta.
Dissertando su Pasiphaé, Montherlant assicura di essere in-
sieme un moralista (uno, cioè, che studia le passioni) e un mora-
lizzatore, che € propone una certa morale >. È un'idea, o un'illu-
sione momentanea. La costante è data piuttosto dal memorialista
vagabondo che porta sulla scena ricordi, avventure personali, ar-
zigogoli e scommesse: un candido, in definitiva, che si lascia rac-
contare che «l'infinito è dalla sua parte» e non s'accorge che il
suo assoluto è alla mercé del frammentario e alla ricerca del suc-
cesso popolare. Un teatro, il suo, che vive, per cosi dire, alla gior-
nata, di impressioni, di esplosioni, di incontri fortuiti, di vecchie
fantasie, di brillanti acrobazie. Teatro soprattutto oratorio, con
tutte le risorse e le alternative della dialettica del paradosso, nel
lusso di un superbo stile facile a frequenti e volontarie cadute nel
brutale e magari nel volgare. Teatro di urto, € di classe > anche, che
luccica e che stanca (i successi sono andati soltanto alla Reine
Morte, al Maitre de Santiago, a Port Royal), che dà l'impressione
di non resistere alla distanza, di non essere sicuro di vincere la
gara col tempo.
Il Teatro di M., fino a Port-Royaly è stato pubblicato nella Biblio-
thèque de la Plèiade a cura di J. de Laprade.
Per la critica, cfr. Faurc-Biguet, Enjances de M. e M. homme de la
Renaissance, 1948; De Saint-Pierre M., M, bourreau de soi-méme,
1949; De Laprade J., Le Théàtre de Af., 1950; Sipriot P., M. par lui-
méme, 1953; Bordonovc G., H, de M., 1954.
Il gran maestro dì Santiago
PERSONAGGI
DON ALVARO DABo, quaratitasette anni, cavaliere dell'Ordine di San-
tiago (San Giacomo)
Allo stesso Ordine appartengono i seguenti cavalieri:
DON BERNAL DE LA ENCiNA, cinquantaduc anni
DON FERNANDO DE OLMEDA, scssantaduc anni
DON GREGORIO OBREGON, trcntacinquc anni
IL MARCHESE DE VARGAS, cinquanta anni
DON ENRiQUE DE LETAMENDi, diciannove anni
IL CONTE DE soRiA, gcntHuomo di Camera e inviato straordinario
del Re, trentanni
MARIANA, figlia di don Alvaro, diciotto anni
TiA CAMPANiTA (« Zia Campanella >), governante, cinquantacinque
anni
Nei gennaio dei 1519, ad Avìia {Vecchia Castiglia)
IL GRAN MAESTRO DI SANTIAGO
Caballeros, y piedras.
ATTO PRIMO
// salone d'onore nella casa di don Alvaro Dabo.
Muri del tutto nudi, di color grigio ocra, piuttosto scuro; sono mitri mal ri-
dotti', si vedono quasi le pietre. A sinistra, una finestra con una robusta in-
ferriata esterna, attraverso la quale si vedono di tanto in tanto cadere fiocchi
di neve. A destra, sul muro di fondo, un grande crocifisso accanto al quale
è appeso l'ampio mantello capitolare — di seta bianca, con una spada rossa
dall'impugnatura a forma di giglio ricamata sul lato sinistro del petto — dei
cavalieri dell'Ordine di Santiago.
Sotto l'architrave spiccano sul muro tre stemmi scolpiti, sormontati da elmi
e messi di traverso, quasi fossero battuti e scompigliati da una bufera. Essi
spiccano, riccamente, stranamente e quasi convulsamente ornati, sulla nudità
del muro come oasi lussureggianti in un andò deserto.
In mezzo alla scena, una piccola tavola con sette ciotole e due brocche. Sette
sedie.
Un braciere.
Di tanto in tanto, a volontà del regista, un suono discreto di campane, ma
senza abusarne. E niente campane nella scena finale del III atto.
SCENA PRIMA
MARIANA, TIA CAMPANITA
TiA CAMPANITA - Oggi soltaiito scttc sedic. Quei signori dunque sa-
ranno solo sei? Il mese scorso erano otto.
MARIANA - Cinque solamente hanno fatto sapere che sarebbero venuti.
La neve fa paura a molti.
TIA CAMPANITA - Cinque? ah! è veto, c'è la sedia per l'ospite scono-
sciuto.
MARIANA - Mio padre vuole che ci sia sempre una sedia in più, nel caso
che qualche cavaliere dell'Ordine volesse venire senza essersi fatto
annunziare.
410 HENRI DE MONTHERLANT
TiA CAMPANITA - Ma qucsto inaspettato visitatore non arriva mai. No,
Mariana, non è la neve che fa paura a quei signori. È un altro
gelo, quello che si insinua nell'uomo quando si disamora di qual-
che cosa. Come tutti gli ordini cavallereschi, quello di Santiago
è in decadenza: non arde più veramente se non nel cuore di
vostro padre. E non senza ragione vostro padre viene chiamato il
Maestro di Santiago, benché non ci sia più un Gran Maestro di que-
st'Ordine.
MARIANA - No, scusate, da venticinque anni in qua è il Re il Gran
Maestro degli Ordini cavallereschi spagnoli. Appena fu riconqui-
stato, togliendolo ai Mori, il regno di Granata, il Re Ferdinando
ha distrutto gli ordini cavallereschi che gli avevano permesso di li-
berare tutto il territorio e li ha messi tutti nelle sue mani. Non
aveva più bisogno di loro, e ne aveva paura. E poi, è proprio cosi
che si fa con quelli che han faticato per noi.
TIA CAMPANITA - Ora i Cavalieri non esistono piò come corpo militare.
Se non ci fosse vostro padre, credo che quelli di Avila non si co-
noscerebbero nemmeno fra di loro.
MARIANA - Due anni fa, ritornando da Paular, ci fermammo una notte
in quella che fu un tempo la sede dell'Ordine d'Isla. L'erba cre-
sceva sull'imboccatura dei pozzi inariditi e fra gli stalli della cap-
pella in rovina. Asini erano legati nella sala del capitolo, là dove
un tempo si riunivano i cavalieri a consiglio. Ed io sentivo passare
nella notte lo scuro fiume irresistibile che mi parlava di tutto ciò
che viene trascinato via per sprofondare nel nulla.
TIA CAMPANITA - Oggi questi signori vengono in cinque, il mese prossi-
mo saranno tre. Soprattutto se don Alvaro persiste a offrir loro
un'ospitalità cosi austera. Perché non li invita a pranzo, come
farebbe chiunque al suo posto?
MARIANA - Mio padre trova sconveniente mescolare preoccupazioni di
cibo a questioni di una certa importanza. E loda molto l'usanza
araba secondo la quale il padrone di casa, quando ha ospiti, assiste
al pranzo senza prendervi parte.
TIA CAMPANITA - Va bene; ma offrire dell'acqua quando il vino delle
nostre cantine non è poi così cattivo! Si, lo so, me l'avete detto; il
simbolo della purezza... Ma i cavalieri di un tempo non facevan
certo tante storie quando si trattava di bere il vino!
MARIANA {bevendo da una ciotola) - Com'è fresca! Irresistibile. E come
capisco che mio padre non voglia altra bevanda che questa per i
suoi cavalieri.
TIA CAMPANITA - Ma Smettete ora: vi prenderete un malanno. Ancora!
IL GRAN MAESTRO DI SANTIAGO 411
Bere a grandi sorsate dell'acqua gelata quando fuori è tutto ghiac-
ciato!
MARIANA - Io non la bevo, la mangio! Oh! Signora, è gelata, eppure
mi brucia. Si direbbe che mangio del fuoco. È l'acqua di San Lu-
car...
TiA CAMPANITA - Dite piuttosto che è l'acqua del nostro pozzo.
MARIANA - È l'acqua della sorgente di San Lucar, credete forse che
non la riconosca? Mio padre ha voluto l'acqua più pura, per quei
signori, (beve) Ancora! Ancora! Ah! ha qualcosa che mi piace
straordinariamente.
TIA CAMPANITA - C'è un proverbio che dice: «Il leone e l'usignuolo
sono sempre assetati...». Mio Dìo! questa polvere! È naturale; Isi-
dro non può contemporaneamente cucinare, aprire la porta e fare
la pulizia. Finché don Alvaro non si deciderà a prendere un altro
servitore... Sono sicura che quando era viva vostra madre, la casa
era ben tenuta.
MARIANA - Mio padre non s'interessa a queste cose.
TIA CAMPANITA - Ed ecco perchc voi vivete in una camera che ha un
muro tutto scrostato senza che si pensi a farlo intonacare. E con
dei buchi da poterci mettere un pugno. Avete l'aria di abitare fra
i ruderi. Un grazioso fiorellino come voi!
MARIANA - Mio padre tutto questo non lo vede o, se lo vede, se ne com-
piace. Quanto a me, vi assicuro che non ne provo alcun fastidio e
che capisco benissimo come un uomo serio non gli dia importanza.
TIA CAMPANITA - E che cosa allora è importante?
MARIANA - L'anima, signora, non lo sapete? per mio padre solo è im-
portante o piuttosto solo è essenziale, o piuttosto solo è reale quello
che avviene nell'intimo dell'anima.
TIA CAMPANITA - Anche nei conventi ci si occupa dell'anima, mi pare.
Ma non vi è luogo meglio tenuto di un convento. Don Alvaro pre-
tende di non essere ricco. Ma se non lo è, di chi è la colpa? Piccoli
o grandi, tutti vivono alle sue spalle, tutti lo derubano senza ch'egli
se ne preoccupi.
MARIANA - Sapete bene che prova piacere a lasciarsi spogliare.
TIA CAMPANITA - È chiaro che non è ricco; o almeno si comporta come
se non lo fosse. Ma, certe volte, fa mostra di una pazza generosità.
MARIANA - Si conforma alla nostra più antica divisa: Dedi et daho
« Ho donato e donerò ». Donare: ecco la sua torre e il suo castello.
TIA CAMPANITA - Avcte saputo, nevvero, la storia della saliera?
MARIANA - La storia della saliera?
TIA CAMPANITA - La Saliera rubata da un gentiluomo.
412 HENRI DE MONTHEULANT
MARIANA - Non la conosco, questa storia.
TiA CAMP ANITA - Ma allora ve la voglio raccontare!
MARIANA - Se è una storia nella quale mio padre ha fatto un bella
figura, proprio per questo non me l'ha raccontata e perciò è inutile
che io la sappia.
TIA CAMPANITA - Si, SI, ve la racconterò, ne ho troppa voglia! Un mese
fa^ un povero gentiluomo, che vostro padre non conosceva, viene da
lui per chiedergli di aiutarlo a trovare un impiego. Dopo che se
ne va, don Alvaro s'accorge che una delle saliere che erano sulla
credenza è sparita. Dopo qualche giorno il gentiluomo ritorna e
vostro padre nota che ha delle brache nuove al posto di quelle
consunte e rappezzate che indossava la volta precedente. Allora
va a prendere le altre due saliere, ne fa un involto e gliele dà di-
cendogli: «Non ho potuto trovarvi un lavoro, ma, ve ne prego,
prendete questa roba per amore di Dio e pregate per me ». Il gen-
tiluomo si mette a piangere, gli bacia le mani e confessa la sua
colpa.
MARIANA - Signora, se vi volessi raccontare gli episodi di tal genere
che so intorno a mio padre, dovrei parlare per l'intera notte.
TIA CAMPANITA - E dirc che un uomo cosi buono può trascurarvi a
tal punto! può trattarvi con quella malagrazia cos( tipicamente
maschile, cosf raggelante... State a guardare se arrivano i signori
deirOrdine?
MARIANA - Vorrei tanto che don Bernal arrivasse per primo.
TIA CAMPANITA - Ah! perché don Bernal non ha tenuto suo figlio con
sé! Se don Jacinto venisse qui con suo padre, allora si restereste
appiccicata a codesta finestra!
MARIANA - Vi sbagliate di molto, ecco una cosa che io proprio non
farei.
TIA CAMPANITA - Innamorata come siete!
MARIANA - Non mi sento piti innamorata quando vi sento dire che lo
sono.
TIA CAMPANITA - Voi sietc innamorata, e voglia il Cielo che don Ber-
nal e dona Isabella riescano a strappare a vostro padre il con-
senso per questo matrimonio e che voi andiate a vivere ben presto
nella casa di un uomo che non vi dirà ogni giorno: « Oh! che
cos'è questo bel vestito? » davanti a un vestito che portate da due
anni.
MARIANA - Per l'appunto, ecco don Bernal. Lasciateci soli. Signora.
Vorrei tanto parlare un po' con lui.
IL GRAN MAESTRO DI SANTIAGO 413
SCENA SECONDA
MARIANA, DON BERNAL DE LA ENCINA
MARIANA - Don Bernal, sono molto contenta di vedervi.
BERNAL - Anche io, Mariana. La nostra odierna riunione sarà molto
importante per voi. Tre di noi sono in procinto di imbarcarsi per
il Nuovo Mondo.
MARIANA - Ma voi, voi non partite, vero? E neppure don Jacinto?
BERNAL - La mia salute non me lo consente. £ in quanto a Jacinto, le
sue mansioni al Consiglio delle Indie lo trattengono a Valladoiid.
Ma vorremmo persuadere vostro padre a partire.
MARIANA - Mio padre I Partirei
BERNAL - Voi, io, Jacinto, per la vostra felicità, abbiamo tutti bisogno
ch'egli parta. Oh, non per molto tempo: diciotto mesi, un sol anno,
forse. Durante la sua assenza, voi potreste andare a vivere nella
casa di vostra zia Cristina, come un tempo le donne dei nostri
cavalieri, quando questi volevano vivere soli, andavano ad abitare
nel convento di CozoUos. Ho delle buone ragioni per credere che
vostro padre, in breve tempo, può fare fortuna laggió; gliene of-
frirò io la possibilità. E un'altra volta vi spiegherò perché, se vo-
gliamo che si faccia il vostro matrimonio, è necessario che la vo-
stra situazione diventi più solida.
MARIANA - Lo capisco bene.
BERNAL - Lo capite davvero? Come siete più ragionevole di vostro
padre!
MARIANA - Ma badate di non dirgli che deve andare laggiù a fare for-
tuna I Sapete che orrore prova per tutto ciò che riguarda i suoi
interessi.
BERNAL - Non glielo dirò, si capisce. Accamperemo altre ragioni; non
ne mancano certo. Avvertirò anche quei signori, appena arriveran-
no: non una parola che alluda al denaro. Nessuno di loro sa, d'al-
tra parte, che ho degli interessi personali in quest'affare. Se il
nostro piano fallisse, bisognerà bene che gii parli da solo a solo
e in tutta franchezza.
MARIANA - Ve ne prego, procedete con cautela. In questo periodo, mio
padre è particolarmente triste. L'altra sera, l'ho sorpreso nella sua
camera, addormentato presso il braciere. Il suo viso era tutto nuovo,
pieno di dolore; la sua testa era un po' piegata sulla spalla, come
414 HENRI DE MONTHERLANT
quella di Gesù sulla croce. Egli mormorava delie parole, sembrava
che gemesse. Mi sono piegata su di lui, ho sentito le sue parole...
BERNAL - Che diceva?
MARIANA - Diceva: « O Spagna! Spagna!)).
SCENA TERZA
MARIANA, DON BERNAL, DON ALVARO DABO
BERNAL - Quanta neve, amico mio! Si può a mala pena aprirsi un varco
fino alla vostra porta.
ALVARO - Sapete che cosa mi ricorda questa neve? Una scena di una
canzone di gesta tedesca. Un cavaliere, mi pare dell'Ordine Teu-
tonico, sta ritto davanti al ponte levatoio alzato di una fortezza.
Con la testa bassa, umilmente, sotto il fioccar della neve, aspetta
che si abbassi il ponte, che viene a pagare il riscatto della sua bam-
bina, tenuta prigioniera nella fortezza. Passano le ore e di ora in
ora viene rimandato il momento di riceverlo; lo scherniscono, il
scrvidorame gli getta palle di neve e ossa rosicchiate; e lui aspet-
ta sempre; lui, il superbo, lui, il feroce, lui, il terrore dei suoi
nemici, sopporta tutto perché si tratta della sua bambina...
BERNAL - E voi, amico mio, fareste lo stesso, per Mariana?
ALVARO - Certo!
BERNAL - Davvero?
ALVARO - Certo!
BERNAL - Me lo immaginavo,, ma sono contento di sentirvelo dire.
{colpi d martello della porta d'entrata)
MARIANA - Stanno arrivando i vostri amici.
ALVARO - I miei amici?
MARIANA - I signori dell'Ordine.
ALVARO - I signori dell'Ordine sono i miei pari, non i miei amici.
(mettendo la mano sul braccio di Bernal) Eccetto lui.
(Mariana esce. Entra don Fernando de Olmeda)
IL GRAN MAESTRO DI SANTIAGO 415
SCENA QUARTA
ALVARO, BERNAL, DON FERNANDO DE OLMEDA, pOÌ il MARCHESE DE VARGAS C
DON GREGORIO OBREGON, insieme. Poi DON ENRIQUE DE LETAMENDI
ALVARO - Dicevo a don Bernal che questa neve mi ricordava il cavaliere
teutonico davanti alla fortezza.
OLMEDA - A me la neve ricorda sempre le nevi eterne della Sierra
Nevada che ci dominavano dall'alto mentre entravamo a Granata,
ventisette anni or sono. Tutto il cielo, in gennaio, era un cielo az-
zurro di giugno; si sarebbero dette, quelle nevi, i lenzuoli fune-
bri dei nostri nemici, sospesi nel cielo. E noi piangevamo di dol-
cezza, perché la Spagna era finalmente la Spagna.
ALVARO - La sera di Granata, ho contemplato Dio nel suo manto di
guerra. Era come un albero, al quale, dopo la battaglia, i combat-
tenti hanno appeso le loro spade.
BERNAL - Ecco dunque riuniti i tre reduci dell'assedio di Granata, i
tre che hanno preso parte alla grande battaglia che ha ridato Tin-
dipendenza al nostro paese!
OLMEDA - Non riuscirò mai a capire perche don Alvaro dopo essersi
coperto di gloria, a vcnt'anni, all'assedio di Baza, abbia abbandonato
l'esercizio delle armi.
ALVARO - Ho combattuto ancora due anni al Marocco. Ma... il Marocco...
OLMEDA - Proprio laggiù, a quel che si racconta, la vigilia della con-
quista di Tlemcen, avete detto quella strana frase: «La vittoria e
certa, ma non vale la pena conseguirla».
ALVARO - Non mi ricordo. È possibile...
(dopo aver bussato col martello alla porta d'entrata entrano, insieme,
il marchese de V or gas e don Gregorio Oberon, V or gas zoppica.
Scambio di saluti)
OLMEDA - Manca soltanto don Enrique. Ho notato che, agli appunta-
menti, di solito sono i giovani quelli che arrivano in ritardo.
ALVARO - È naturale, i giovani ritardano sempre un po'.
(colpi di martello, poi entrata di don Enrique de Letamendi. Scambio
di saluti. Poi i cavalieri, restando ognuno in piedi davanti alla pro-
pria sedia, si fanno il segno della croce e recitano ad alta voce il
« Veni Creator », infine si siedono. Un attimo di silenzio)
BERNAL - Vorrei sottomettere una proposta a don Alvaro ed ai compa-
gni qui presenti. L'altro giorno, un uomo di cui tacerò il nome.
416 HENRI DE MONTHERLANT
perseguito da un potere che ugualmente non nominerò, si preoc-
cupava di sapere dove avrebbe potuto trovare un rifugio. «Per-
che, — gli dissi, — non andate nel tal convento? ». «Mi vendereb-
bero», fu la sua risposta. Una risposta cosi atroce che m'impedi
per tutta la notte di dormire. E io pensai che non potrò avere più
pace finche non sarò sicuro che un fuggìasco il quale bussi alla
porta di uno dei conventi dell'Ordine, qualunque sia la ragione per
la quale e perseguito, abbia la certezza di esservi accolto e protetto.
Se voi siete della mia opinione, facciamo quel che bisogna fare.
OBREGON - Fra una quindicina di giorni vado a Valladolid. Potrei
recarmi dall'Arcivescovo e insistere perché egli intervenga presso
i priori delle nostre case.
ALVARO - Farete bene.
OBREGON - Durante il mio soggiorno a Valladolid vorrei definire un'al-
tra questione. Don Juan de Anchorena, cavaliere dell'Ordine, è
fuggito da Orano, dov'era prigioniero del re sulla parola. Che cosa
ne pensate?
ALVARO - Aveva realmente data la sua parola?
OBREGON - Si, l'ha ammesso lui stesso.
ALVARO - Ogni ufficiale che, prigioniero sulla parola, fugge, qualun-
que possa essere la ragione che ne adduce, non è uomo di onore.
Propongo di domandare al Re che Anchorena venga radiato dal-
l'Ordine.
LETAMENDi - E se il Re rifiuta?
ALVARO - Siamo noi, appartenenti all'Ordine, che stabiliamo la scala dei
valori morali. Non tocca al Re, che ha diciannove anni e che non
è spagnolo, dire dov'è il bene e dov'è il male nella Spagna. Un re
di diciannove anni, e imberbe! Don Gregorio, firmeremo una ri-
chiesta al Re e ve la consegneremo.
OLMEDA - Parlo a nome di tutti i nostri compagni qui riuniti che sono
d'accordo con me su tutto ciò che dirò e chiederò. Tre di noi
partono alla volta del Nuovo Mondo con la flotta di Fuenleal,
che salpa il mese prossimo. Don Gregorio Obregon, che riprende il
grado di comandante delle truppe di sbarco, don Enrique de Leta-
mendi, che si appresta a mettere al servizio di Fuenleal il suo gio-
vane valore già sperimentato in Italia, e infine io stesso che non
ho piti la forza di combattere ma che mi fermerò a Cuba, dove
il Re si è degnato di promettermi la carica di governatore di Ca-
maguey.
BERNAL - Partirei anch'io, se la salute me lo permettesse.
VARGAS - E anch'io, se non fosse per questa sciagurata ferita.
m
Henri Rolland e
Hclènc Vcrcors ne
// gran maestro dt
Santiago^ di Mon-
thcrlant, al Théàtre
Hébcrtot di Parigi
(1948).
V
IL GRAN MAESTRO DI SANTIAGO 417
OBREGON - Un tempo, la Spagna fu orribilmente vinta, invasa tutta
quanta dai Mori. Mentre la maggior parte della popolazione ac-
cettava il giogo dei dominatori, un pugno d'uomini dell'esercito
sconfìtto, rifugiatosi nelle montagne, dava inizio contro gli inva-
sori ad una lotta che, guadagnando un po' per volta terreno nel
corso di otto secoli, si conchiudeva, ventisette anni fa, con la libe-
razione totale del territorio. Abbandonato a se stesso, privo dell'aiu-
to dei suoi capi e talvolta da essi tradito, il popolo aveva conseguito
da solo la liberazione. In quello stesso anno 1492, quando il potere
degli Infedeli viene abbattuto nella Spagna, Colombo scopre San
Salvador ed è ancora una volta un pugno di Spagnoli quello che
parte alla conquista di un impero, come già un tempo un pugno di
Spagnoli aveva costituito il nucleo della riconquista del suolo patrio.
Si, lo stesso anno! Il Dio che regna nei cieli ha voluto che non
vi fosse la più piccola frattura in questa grandiosa continuità;
l'anello si salda all'anello. Se vi è mai stato qualcosa di sublime
al mondo è proprio questo.
OLMEDA - Veniamo al fatto. Don Alvaro, voi che noi chiamiamo cosi
rispettosamente ed affettuosamente « il Gran Maestro di Santiago »,
non credete che sarebbe per voi onorevole venire con noi nelle
Indie? Conoscete certamente il proverbio: « C'è sempre una crocia-
ta nella Spagna». Questa è la nuova crociata.
BERNAL - E precisiamo subito: per un uomo come voi, non si tratta,
si capisce, di traffico d'oro o di perle, o di terreni, o di schiavi;
so che, fedele alla nostra grande tradizione cristiana, piuttosto che
trafficare, preferireste, se fosse necessario, vivere d'elemosina. Nel-
la spedizione di Fuenleal voi sbarcate da soldato, con la spada in
mano. Appena possibile, diventate amministratore; me ne assumo
io l'incarico: credetemi sulla parola. Se — come sarebbe più che
naturale — ora non vi sentite più in grado di combattere, potrebbe
esservi affidata immediatamente una carica in una delle regioni
già da tempo conquistate ed in pace. Hg saputo che presto saranno
liberi a Cuba e a Giamaica dei posti importanti...
ALVARO - Scorri, torrente dell'inutilità!
BERNAL - Che dite?
ALVARO - Vi chiedo scusa, ma trovo del tutto ridicole tutte queste storie
di conquiste.
LETAMENDi - SÌ soffoca, a Avila...
ALVARO - Dal fondo dei vicoli angusti come appaiono splendenti le
stelle!
27. - Teatro francese
418 HENRI DE MONTHERLANT
VARGAS - Non sentite nostalgia della gloria, voi che l'avevate un tempo
SI fulgida?
ALVARO - Se avessi mai avuto una qualche fama direi d'essa quel che
diciamo dei nostri morti: «Dio me l'ha data. Dio me l'ha tolta.
Sia fatta la sua volontà». Non ho sete che di un immenso racco-
glimento.
VARGAS - Ecco quel che rende difficile il nostro compito.
ALVARO - Si, so quale intralcio può creare in una comunità un uomo
che non ha nessuna ambizione.
OBREGON - Nessuna ambizione, e nel fiore dell'età... Ma, allora, che cosa
fate voi della vostra vita?
ALVARO - Aspetto che tutto finisca.
VARGAS - Vivere nell'ombra, quando si può brillare... Un uomo che non
sa farsi valere scoraggia quelli che cercano il suo bene. Non tocca
certo a me vantare l'eccellenza del Signor Tale, se non lo fa un po'
lui stesso.
ALVARO - Mi piace essere misconosciuto.
OBREGON - Se la vostra gloria vi pesa, c'è quella dell'Ordine che è im-
pegnata laggiù in una guerra santa.
ALVARO - Una guerra santa? In una guerra del genere la causa santa
è quella degli indigeni. Cavalleria vuol dire soprattutto difesa dei
perseguitati. Se andassi nelle Indie, lo farei per proteggere gli
Indiani, cioè, secondo voi, per «tradire». Conoscete certamente la
storia di quel soldato spagnolo che è stato impiccato come traditore
perché aveva prestato le sue cure a un Indiano ferito*. Questo è
peggio ancora delle peggiori crudeltà.
OBREGON - Molti cavalieri dell'Ordine sono laggiù — come Hernando
Cortez, e Pizarro... — che senza dubbio non sono stati della vostra
opinione.
LETAMENDi - Ed è a tutti noto che in occasione di un certo scontro
il nostro stesso patrono m persona, Monsignor San Giacomo, e ap-
parso agli Spagnoli sul suo cavallo bianco.
ALVARO - Si, lo so che al grido di « Santiago » vengono commesse le
più odiose infamie. So che quando Ovando attirò in un tranello
l'innocente e fiduciosa regina degli Indiani, che ci era amica,
dette il segnale del misfatto mettendo la mano sulla sua decora-
zione di cavaliere di Alcantara, che rappresentava Dio padre': la
Regina fu impiccata e i cacichi bruciati vivi. In quanto a quello
* Storico. (Nou dell'A.)
2 Storico. (Nota dell'A.)
IL GRAN MAESTRO DI SANTIAGO 419
che gli ordini cavallereschi stanno a coprire nel Nuovo Mondo, non
ho parole abbastanza forti per dire la nausea che ne provo.
OBREGON - Le grandi idee non sono caritatevoli.
VARGAS ' Com'è possibile evitare spiacevoli eccessi quando un pugno
di uomini ne deve soggiogare delle migliaia?
ALVARO - Ma che bisogno c'è di soggiogarli?
OBREGON - La gloria della Spagna...
ALVARO - I^ gloria della Spagna è stata quella di vincere un invasore
la cui presenza era un insulto per la sua fede, la sua anima, il
suo spirito, i suoi costumi. Ma conquistare dei territori? È una cosa
talmente puerile... E talmente assurda. Voler cambiare qualcosa
nei territori conquistati quando è cos( urgente riformare la patria
stessa, è come voler cambiare qualcosa nel mondo esterno quando
tutto è da cambiare in se stessi. E talmente inutile. I principi si
danno da fare per conquistare nuovi possessi che non sapranno
come amministrare e come difendere, che, invece di renderli più
forti, li indeboliranno e che infine perderanno in maniera misere-
vole dopo averne ricavato ogni sorta di fastidi. Noi infatti perde-
remo le Indie. Le colonie son fatte per essere perdute. Nascono
con la croce della morte impressa sulla fronte.
OBREGON - Voi dinienticate che delle migliaia, dei milioni di Indiani
brucerebbero per l'eternità nell'inferno se gli Spagnoli non portas-
sero loro la fede.
ALVARO - Ma dei milioni di Spagnoli bruceranno per l'eternità nell'in-
ferno perché saranno andati nel Nuovo Mondo 1
OLMEDA - Che dite mai!...
ALVARO - Tutto ciò che riguarda il Nuovo Mondo è sozzura e sporci-
zia. Il Nuovo Mondo corrompe tutto quello che tocca. E Torribilc
malattia che i nostri compatrioti portano in patria da laggiù non
è che il simbolo di questa corruzione. Più in là^ quando si vorrà
rendere onore ad un uomo si dirà di lui: «Non ha preso parte
alcuna agli affari delle Indie».
OLMEDA - Don Alvaro!
LETAMENDi - Voi ci offendete!
ALVARO - Attraverso la conquista delle Indie si sono installati in Ispa-
gna la passione del lucro, il traffico di tutto e su tutto, l'ipocrìsia,
l'indifferenza alla vita del prossimo, il vergognoso sfruttamento
dell'uomo da parte dell'uomo. Le Indie rappresentano l'inizio del
crepuscolo della Spagna.
OBREGON - Andiaoio via. Il nostro posto non è più qui.
420 HENRI DE MONTHERLANT
VARGAs - Confessatelo finalmente: voi l'aspettate, l'ora in cui la Spagna
sarà ridotta alla disperazione.
ALVARO - Ma dimentichiamo la causa del male. Qualunque sia la sua
origine, vi è uno stato di cose, in Ispagna, al quale voglio restare
estraneo. La Spagna e la mia più profonda umiliazione. Non ho
niente da fare in un'epoca in cui l'onore è punito, in cui la gene-
rosità è punita, in cui la carità è punita, in cui tutto ciò che è
grande è avvilito e deriso, in cui dappertutto io vedo la canaglia
nei primi posti, in cui dappertutto è assicurato il trionfo a chi è
più stupido e più abietto. Una regina, l'Impostura, ha ai suoi
piedi, come paggi, il Ladroneggio e il Delitto. L'Incapacità e l'In-
famia, sue sorelle, si danno la mano. E gli imbroglioni venerati, ado-
rati dalle loro vittime... Forse che invento? Ricordatevi le parole
pronunziate dal re Ferdinando sul letto di morte: « I vostri con-
temporanei, che di giorno in giorno degenerano... ».
VARGAS - Tutte le epoche hanno parlato cosi di loro stesse.
OBREGON - Anche nella sua epoca migliore, cioè nel XII secolo, la caval-
leria aveva bisogno di essere riformata.
ALVARO - È vero: tutto, e sempre, ha bisogno di essere riformato.
VARGAS - Cristiano come siete, andate dunque fino in fondo al vostro
cristianesimo. Da tremila anni le nazioni periscono. Da tremila anni
i popoli cadono in schiavitù. Il cristiano non può prendere solo al
tragico tali sciagure. Se voi siete coerente, non c'è che una patria,
quella che sarà creata dagli Eletti.
ALVARO - Io mi riservo l'altra per soffrirne.
BERNAL - Voi condannate la vostra epoca come fanno gli uomini molto
vecchi. Non avete ancora cinquant'anni e parlate come se ne ave-
ste ottanta. Ed esagerate molto. Se prendeste più viva parte agli
avvenimenti, se foste più informato di quel che accade...
ALVARO - Ne so abbastanza. Ogni volta che arrischio la testa fuori dal
mio guscio, ricevo un colpo sulla testa. La Spagna per me non è
più se non qualcosa da cui cerco di difendermi.
BERNAL - Si, ma a forza di appartarvi, il mondo vi appare deformato
dalla vostra visione personale. E cosi rifiutate un'epoca perché non
riuscite a vederla nella sua realtà.
OBREGON - Ritto sulla soglia di una nuova era, rifiutate di entrarvi.
ALVARO - Ritto sulla soglia di una nuova era, rifiuto di entrarvi.
VARGAS - Ammettiamo pure che sia eroico il volere essere solo, per
fedeltà alle proprie idee. Ma non sarebbe altrettanto eroico svol-
gere la propria missione in una società che vi contraria, perché
IL GRAN MAESTRO DI SANTIAGO 421
vi trionfino quelle idee che, se non prendono corpo, resteranno piò
o meno vane?
BERNAL - E poi, quello che è bello ed umano non e l'irrigidirsi, ma
l'adattarsi; non il fuggire per essere virtuoso comodamente, ma es-
ser virtuoso nel mondo, .là dove è difficile esserlo.
ALVARO - Sono stanco del continuo divorzio fra me e tutto ciò che
mi circonda. Sono stanco dell'indignazione. Ho sete di vivere in
mezzo a gente diversa dai furbi, dalle canaglie, dagli imbecilli.
Prima, noi eravamo insozzati dall'invasore. Ora ci insozziamo noi
stessi; non abbiamo fatto che cambiare di dramma. Ah! perché
non sono morto a Granata quando la mia patria era ancora intatta?
Perché son sopravvissuto alla mia patria? Perché mai vivo?
BERNAL - Amico mio, che cosa avete? Non ci avete mai tenuto un si-
mile linguaggio!
ALVARO - Il collare dei cavalieri di Cipro era adorno della lettera S,
che voleva dire: « Silenzio ». Oggi tutto quel che c'è di buono nel
nostro paese, tace. C'è un Ordine del Silenzio; anche di quell'ordi-
ne dovrei essere Gran Maestro. Perché avermi provocato a par-
lare?
OLMEDA - Fatevi monaco, don Alvaro. Ormai questo è il solo stato
che vi conviene.
ALVARO - Non so in effetti che cosa mi trattenga, se non una certa
mancanza di decisione e di energia.
OLMEDA - E aggiungo che è molto più elegante, quando ci si ap-
parta dal mondo, appartarsi senza biasimarlo. Il biasimo, in tal
caso, è molto volgare.
ALVARO - Sapete che cos'è la purezza? Lo sapete? {sollevando il man-
tello dell'Ordine, che è appeso al muro sopra il crocifisso) Guardate
il mantello del nostro Ordine; è bianco e puro come la neve là
fuori. La spada rossa è ricamata dov'è il posto del cuore, come se
proprio il cuore la tingesse del suo sangue. Questo vuol dire che
la purezza alla fine è sempre ferita, sempre uccisa, ch'essa riceve
sempre il colpo di lancia che ricevette il cuore di Gesù sulla croce.
(bacia l'orlo del mantello. Dopo una breve esitazione, Olmeda, che
si trova piti vicino al mantello, ne bacia anch'egli l'orlo) Si, i no-
bili ideali alla fine sono sempre vinti; la storia non è che il racconto
delle loro rinnovellate sconfìtte. Solamente non devono minarli pro-
prio quelli che si sono assunti la missione di difenderli. Per quan-
to decaduto, l'Ordine è il reliquario di tutto quel che ancora resta
di magnanimo e di onesto nella Spagna. Se non lo credete, dimet-
422 HENRI DE MONTHERLANT
tetevi. Se noi non siamo i migliori, non abbiamo nessuna ragione
d'essere. Per me, il mio pane è il disgusto. Dio m'ha dato in abbon-
danza la facoltà della nausea. Questo orrore e questo continuo la-
mento che costituiscono la mia vita e di cui io mi nutro... Ma
voi, pieni di indifferenza e di indulgenza per l'ignominia, voi
patteggiate con essa, voi vi fate suoi complici! Uomini della terrai
Cavalieri della terra!
OBREGON (a voce bassa, a Vargas) • Dice tutto questo perché non è
troppo intelligente.
ALVARO - Prima della presa di Granata, c'era a Frontera, sulla sommità
di un picco, una fortezza dove i giovani cavalieri facevano il loro
noviziato. Là per l'ultima volta ho sentito il canto dell'Uccello.
Nessuno più ormai lo sentirà.
LETAMENDi - Quale uccelloP
ALVARO ' Il canto della Colomba ardente che ci ispira quello che bi-
sogna dire o fare per non demeritare.
VARGAS - Non da Granata, quando la conquistammo, ma dall'Italia,
e cento anni fa, ci è venuto uno spirito di cose nuove...
OBREGON - Il cavaliere del 1519 non può essere il cavaliere del Mille.
Non ci sono piò né gnomi né mostri.
ALVARO - Ci sono ancora i mostri. Non ce ne sono mai stati tanti.
Ne siamo premuti, dominati, oppressi. Là... là... là... Sventura agli
onesti!
BERNAL - Signori, rimandiamo...
ALVARO (fl/ colmo dell'esaltazione) - Sventura agli onesti! Sventura
agli onesti!
BERNAL - Rimandiamo a un'altra volta la fine di questo consiglio...
ALVARO {tuffa un tratto depresso) - Sventura agli onesti... Sventura ai
migliori...
{Vargas e Obregon si ritirano rapidamente con aria contegnosa)
BERNAL {a Alvaro) - Devo parlarvi in privato, amico mio. Volete ri-
cevermi domani?
ALVARO - Venite alle sedici.
BERNAL - A domani, dunque, se Dio vuole.
ALVARO . A domani, se Dio vuole.
IL GRAN MAESTRO DI SANTIAGO 423
SCENA QUINTA
ALVARO, LETAMENDI, OLMEDA
LETAMENDi - Sono tufbato...
ALVARO - E perché mai?
LETAMENDI - Mi domaiìclo se devo partire,
ALVARO - Ma SI, bisogna partire.
LETAMENDI - Dopo quello che avete detto?
ALVARO - Partite. Lo desiderate e avete diciannove anni. Quando si han-
no diciannove anni si finisce sempre col fare ciò che si desidera.
LETAMENDI - Voi mi disprczzate! Non avete il diritto di disprezzarmi
cosi!
ALVARO - Non ne ho il diritto* Voi decidete dei miei diritti!
LETAMENDI - No, non resterò in questa città spaventosa, in questa tom-
ba delle tombe. Ma ora partirò col cuore pieno di incertezza e di
inquietudine. Avete distrutto tutta la mia gioia. Siete almeno sicuro
di essere nel vero, per turbarmi cosi?
ALVARO - Si, sono sicuro di essere nel vero.
LETAMENDI - Ah! voi mi riducete alla disperazione!
ALVARO - È quello che voglio. {Letamendi esce, con un gesto di smar-
rimento) Giovinezza: tempo di sconfitte.
SCENA SESTA
ALVARO, OLMEDA
OLMEDA - Anche a me direte di partire?
ALVARO - Forse che anche voi esitate?
OLMEDA - Il più giovane e il più vecchio fra di noi, voi li avete scossi.
Ah! siete veramente il Gran Maestro di Santiago.
ALVARO - Io non sono il maestro di niente e di nessuno. Sono il servo
dei servi di Dio.
OLMEDA - Perché avete spinto quel ragazzo a partire?
ALVARO - Perché per lui ciò non ha importanza. I giovani non hanno
Taudacia di niente, il rispetto di niente, rintclligenza di niente. A
loro spettano le spedizioni per mare; è proprio quello che ci vuole
424 HENRI DE MONTHERLANT
per loro. Ma le alte avventure sono per gli uomini della nostra
età, e le alte avventure sono sempre spirituali. Voi, Olmeda,
restate!
(Olmeda ha uno slancio verso don Alvaro, I due uomini si abbrac-
ciano in silenzio. Olmeda esce)
SCENA SETTIMA
ALVARO, solo
O mia anima, esisti ancora? O mia anima, finalmente tu ed io!
ATTO SECONDO
La stessa scena.
Ma fuori non cade più la neve. E si vede una delle massiccie torri della cinta
di mura di Avila, nell'aria dal limpidissimo grigio che è caratteristico di que-
sta città.
SCENA PRIMA
Durante questa scena, alcune galline entrano ogni tanto nella stanza e vengono
a becchettare non si sa che fra i piedi di don Alvaro e don Bernal.
ALVARO, BERNAL
BERNAL - ... in questo momento è al padre che mi rivolgo.
ALVARO - Mariana è Tessere per me più caro al mondo.
BERNAL (sorridendo) - Più del vostro cavallo?
ALVARO (serio) - Molto più del mio cavallo.
BERNAL - Mariana vi parla un po' della sua vita intima?
ALVARO - Abbastanza perché sappia che teme Dio. Sebbene non mi
parli di lui quanto desidererei.
BERNAL - Forse lo fa per pudore. Io non pensavo, però, alla sua vita
IL GRAN MAESTRO DI SANTIAGO 425
religiosa, ma alla sua vita sentimentale... Dopo il suo ritorno dal-
ritalia e il suo soggiorno a Valladolid, Jacinto ha visto solo tre
volte Mariana, ma ha concepito per lei una tenera ammirazione,
che dona Isabella e io approviamo. Credo che Mariana, per parte
sua, è... insomma non ha... {silenzio) Lei non vi ha detto niente?
ALVARO ' Lei sa che non ho competenza alcuna in questo genere di
affari.
BERNAL - Se sono venuto a parlarvi di questo duplice sentimento è
perché abbiamo pensato, dona Isabella ed io, che poteva non re-
stare senza esito, (silenzio) Siete davvero taciturno.
ALVARO - Tante cose non meritano d'essere dette. E tanta gente non
merita che le si dicano le altre cose. Ciò fa molto silenzio.
BERNAL - Mi sembra che il nostro progetto non vi piaccia molto.
ALVARO - Mi prendete alla sprovvista.
BERNAL - Insomma, mio caro amico, non vi siete accorto dell'inclina-
zione di vostra figlia?
ALVARO - Poniamo che non me ne sia accorto perché non volevo accor-
germene.
BERNAL - Dunque vi dispiace?
ALVARO - Ogni attaccamento mi dispiace.
BERNAL - Non avete mai pensato all'avvenire di Mariana?
ALVARO - Per cercare di sistemare Mariana avrei dovuto perdermi in
preoccupazioni di vita mondana e in spreco di tempo. Non l'ho
voluto fare. Ho pensato che Dio m'avrebbe tenuto conto della mia
volontà di non perdermi e che avrebbe provveduto lui stesso a
questa sistemazione. E cosi infatti è successo, dal momento che voi
siete qui. Se la vostra proposta consente che un tal matrimonio si
conchiuda senza che io me ne debba occupare, è il Cielo che vi
manda.
BERNAL - Non ci siete soltanto voi, c'è anche la felicità dei nostri figli.
E non devo pensarci io per due? Pare infatti che questa questione
non vi preoccupi affatto.
ALVARO - Mariana sarà felice. La mia casa non è gaia. E anch'io, forse,
sarò più felice quando lei non sarà più qui.
BERNAL - Davvero!
ALVARO - Non sapete fino a che punto sono affamato di silenzio e di
solitudine: qualche cosa di sempre più spoglio... Ogni essere uma-
no è un ostacolo per chi tende a Dio. Gli impulsi che Dio mi fa
la grazia di suscitare in me, non posso percepirli che in una com-
pleta astrazione, come chi ascolta la musica ad occhi chiusi. Ciò
di cui avrei bisogno sono delle giornate vuote, cosi vuote... Tutto
426 HENRI DE MONTHERLANT
quello che vi entrasse, perfino ramicìzia, perfino e soprattutto l'af-
fetto, non vi entrerebbe che per turbarle.
BERNAL ' Mariana...
ALVARO - I-a sentivo camminare; accadeva talvolta ch'ella cantasse. Mi
stancava, spesso, e talvolta mi faceva spazientire; la vitalità può
diventare un dono assai temibile. E poi, è un peso avere una figlia
in un'epoca in cui tutto quello che si può fare per lei è di pro-
teggerla. Si, tutta l'educazione è ormai senz'altro ridotta a proteg-
gere da ciò che si vede, da ciò che si legge e da ciò che si sente.
BERNAL - Cercate di isolarla?
ALVARO - Talvolta di isolarla e talvolta di non isolarla. Come gli Spar-
tiati mostravano ai loro figli un ilota ubriaco, capita che le mostri
il mio paese perche veda che cosa lei non deve essere.
BERNAL - Le hanno insegnato, credo, alcune piccole cose.
ALVARO - Conosce bene i libri santi. Le ho insegnato anche un po'
di storia: saprà come muoiono gli imperi.
BERNAL - Insomma Mariana è una nota falsa nella vita che vi siete
creata. Mi sembra che quando era piccola vi dava più gioia.
ALVARO - Ma anche mi degradava.
BERNAL - Vi degradava!
ALVARO - I figli degradano. Noi non ci vedevamo che all'ora dei pasti
ed ogni volta ne uscivo un po' diminuito. Quando s'è fatta gio-
vinetta, la sua vita è divenuta qualcosa che bisognava prendere
sul serio, e che tuttavia non m'interessava.
BERNAL - Che non vi interessa, e che vi interessa quanto basta per
farvi sentire irritato di non potervi penetrare.
ALVARO - Irritato? No. Solamente stanco. Lo sforzo che facevo, spinto
da un sentimento di carità verso di lei, per darle l'impressione di
interessarmi ad una vita che mi era cosi estranea, mi sfiniva.
BERNAL - Ancora la carità!
ALVARO - Tutto ciò che passa per quella testolina... In seguito, non
ho più cercato di capirlo, persuaso d'altronde che tutto ben presto
sarebbe cambiato e che la mia ricerca sarebbe stata superflua.
BERNAL - Sapete che Mariana, sia pur con dolcezza, si lagna che non
parliate mai con lei di cose serie?
ALVARO - Non le parlo mai di cose serie perché è incapace di capirle.
Voi potreste pregare se sapeste che Dio non vi comprende?
BERNAL - Un po' più d'amore porterebbe rimedio a tutto questo.
ALVARO - Con un po' più d'amore, vorrei dirigerla, m'irriterei se la
giudicassi in errore, se la credessi inferiore a ciò che mi aspetto
da lei. Amandola in maniera ragionevole, invece, non le domando
IL GRAN MAESTRO DI SANTIAGO 427
niente, non le rimprovero niente, non abbiamo mai alcun contra-
sto. E poi, mio caro amico, l'avete visto ieri; non sono di quelli
che amano il loro paese anche quando ne è indegno: amo la Spa-
gna secondo i suoi meriti, come farei per un paese straniero.
Nello stesso modo, il fatto che Mariana sia mia figlia non mi in-
durrà mai ad esagerare in suo favore. Suvvia, credetelo pure, lon-
tani Tuno dall'altra saremo più felici e migliori.
BERNAL - Che quadro mi dipingete! Dite pure, in una parola, che
non potete sopportare la sua giovinezza. Se Dio vuole, domani ella
avrà una casa dove il suo canto farà fiorire in ogni animo un cespo
di fiori. Se Dio vuole, cioè se il mio sogno diventerà realtà. Ma
intanto sarà necessario che vi parli con una franchezza brutale.
Lo farò pensando ad una frase che ho trovato in una delle nostre
vecchie cronache. Un nobile parla in nome della classe dei nobili,
e dice: «Noialtri veritieri...». Si, a noialtri nobili tocca esser
veritieri, semplicemente perché è indegno di noi prenderci la pena
d'inventare menzogne.
ALVARO - In tutto l'anno che ora si è conchiuso, non ho mentito che
quattro volte.
BERNAL - La mia franchezza, in quest'occasione, è pericolosa. Ho ben
capito, dal nostro consiglio di ieri, quanto sia facile irritarvi.
ALVARO - Sono severo con quelli che offendono i miei prìncipi, anche
quando sono amici miei. E indulgente con quelli che mi offen-
dono come uomo. Se avessi il peggiore dei miei nemici fra le mani,
10 lascerei libero senza fargli alcun male.
BERNAL - Per spirito di carità? O per disprezzo?
ALVARO - Per tutto quello che volete.
BERNAL - Ancora una volta vi avverto; vi dispiacerò. Ecco. Voi non
ignorate la nostra situazione. La sola eredità, si può dire, che ho
ricevuto dai mici genitori è l'onore. Per il resto... vi devo dire che
non tanto mi ha dato fastidio il non aver denaro, quanto il ren-
dermi conto di non essere abbastanza abile per saperlo guadagnare.
11 Re Ferdinando non aveva alcuna simpatia per me. La nostra
casa è andata sempre decadendo fino all'incoronazione del Re Car-
lo e all'entrata di Jacinto nel Consiglio delle Indie, che ci hanno
riaperto le porte della speranza. Jacinto nella sua carica si afferma
con molto successo, ma ciò comporta spese gravose e, quanto piii
andrà avanti, tanto più darà fondo ai suoi beni. Come aiutare una
carriera cosi ricca di promesse? Il Nuovo Mondo dove Jacinto è
in grado di avere domani una considerevole influenza? In quanto
a me, la mia salute mi impedisce di andarvi; non c'è nemmeno da
428 HENRI DE MONTHERLANT
parlarne. In quanto a lui tutto il suo successo è legato alla sua
presenza qui; a Valladolid ha in mano uomini ed affari; per
nessuna ragione al mondo deve lasciare la sua presa; da Vallado-
lid per l'appunto trae la sua vita e perirebbe se l'abbandonasse.
Conclusione: bisogna che Jacinto sposi una ragazza ricca. £ perciò
quello che ieri vi domandavamo per questa e quest'altra ragione,
oggi io ve lo domando da uomo a uomo, da amico a amico, da pa-
dre a padre. Andate a passare due anni soltanto, soltanto un anno,
nel Nuovo Mondo e ne tornerete ricco. Q)n una carica come quel-
la alla quale penso per voi, attraverso i più onesti mezzi, e come se
vi cadesse dal cielo, l'oro affluisce nelle vostre mani. Herrera, Con-
treras, Luzan, in posti simili, hanno fatto fortuna in dodici mesi.
Vi sono notevoli gratificazioni...
ALVARO - Vi chiedo scusa... È proprio a me che parlate in questo mo-
mento?
BERNAL - Suppongo chc la parola gratificazione vi abbia urtato. È as-
surdo! Herrera, Contreras sono uomini di alto valore morale con-
tro i quali nessuno...
ALVARO - E dire che soprattutto i miei amici si accaniscono perché io
mi degradi. Non continuate. Non andrò nel Nuovo Mondo.
BERNAL - Neppure per vostra figlia?
ALVARO - Dunque, quel che io sono agli occhi di Dio, quel che io sono
ai miei propri occhi, dovrebbe essere compromesso, dovrebbe es-
sere rovinato per colpa di qualche cosa che esiste soltanto per un
mio momento di debolezza! Giammai!
BERNAL - Qualcosa che esiste soltanto per... È così che chiamate vostra
figlia? Ah! Alvaro, che razza d'uomo siete mai!
ALVARO - Potessi io csserc quel miserabile che voi credete, potessero le
vostre parole di disprezzo colpire nel segno! Ma no, ahimé, io sono
l'uomo che tutti dovrebbero essere.
BERNAL - Aveva ragione Olmeda quando ieri sera mi parlava della vo-
stra « crudeltà ».
ALVARO - Olmeda, che ha sessantadue anni, e che pensa a fare il gover-
natore invece di pensare a fare una buona morte, si dimostra
frivolo.
BERNAL - Voi sacrificate vostra figlia a voi stesso, a voi stesso, a nient'al-
tro che a voi stesso.
ALVARO - O razza degli uomini intransigenti, come sei infelice!
BERNAL - Infelice quando si vede giudicata, lei che vuole giudicare.
ALVARO - Dio è il solo giudice che riconosco, adorando, trepido e tran-
quillo, la sentenza che darà di me.
IL GRAN MAESTRO DI SANTIAGO 429
BERNAL - Vi siete rifugiato nella carità. Se doveste agire, quello che
si dice agire, vi infanghereste come gli altri.
ALVARO - Solo una norma soprannaturale può permettermi di nutrire
benevolenza verso i miei compatrioti.
BERNAL - Vostra figlia compresa!
ALVARO - Ancora nel secolo scorso, un cavaliere doveva mettere suo
figlio, ragazzo o adolescente, nella casa di un altro cavaliere, per
non esser vincolato dalla tenerezza paterna. Io non voglio vincoli di
tal fatta.
BERNAL - Forse che il cavaliere teutonico, davanti al ponte levatoio del
castello non accettava tutto, per salvare la sua bambina?
ALVARO - Accettava delle offese. Non avrebbe accettato delle macchie.
BERNAL - Il vostro amore per la cavalleria vi accieca. Siete una di quelle
anime affascinate dai loro propri sogni che possono divenire molto
pericolose per una società.
ALVARO - Voi, per la prima volta in vita vostra, mi parlate di denaro
e ciò a causa di vostro figlio. Sarò a mia volta brutale: volete ce-
derlo soltanto a peso d'oro. Ed io, io dovrei farmi spergiuro a
causa di mia figlia. Ecco dunque a che cosa servono i figli! Lo
avevo sempre presentito. Ma non pensavo mai che ne avrei avuto
una prova cosi evidente.
BERNAL - Mi rimproverate di parlarvi di denaro. Ma io credo che van-
tarsi di non parlar mai di denaro è indice di falsa eleganza, è segno
di spirito borghese. Tutte le persone più ragguardevoli che conosco
sono straordinariamente sincere per quel che riguarda i loro in-
teressi.
ALVARO - Non so qual cacico, essendogli stato chiesto chi fosse il dio
degli Spagnoli, ha mostrato col dito una pepita d'oro. E quando
s'è visto il Re stesso depredare, con la minaccia o con la violenza,
i beni dei nostri quattro Ordini, non c'è da meravigliarsi se, al gior-
no d'oggi, il mondo appartiene agli impudenti.
BERNAL - Come se, prima della conquista di Granata non si fosse mai
desiderato l'oro!
ALVARO - Si desiderava l'oro perché dava il potere e con il potere si
facevano grandi cose. Ora si desidera il potere perché dà l'oro e
con quest'oro se ne fanno di piccole.
BERNAL - Voi semplificate tutto a torto e a traverso.
ALVARO - Sono stato avvezzato a imparare che bisogna volontariamente
andare incontro ad un cattivo affare. Che non bisogna abbassarsi
per raccogliere un tesoro anche se è caduto dalla nostra stessa mano.
Che non bisogna mai stendere il braccio per prendere qualche
430 HENRI DE MONTHERLANT
cosa. Che questo, e forse soprattutto questo, è segno di nobiltà. Ho
il dolore di sentire che nel momento in cui l'aquila del Re Carlo
non ha artigli se non per cercare Toro, magari nelle viscere degli
uomini, sono proprio gli Indiani a dare prova di questa alta e san-
ta indifferenza per le cose del mondo.
BERNAL - Non bisogna cedere i propri beni con troppa facilità; cosi
facendo si dimostra lo stesso amor proprio che a difenderli aspra-
mente. E poi, chi non ama il denaro è disprezzato. È cosi.
ALVARO - In quanto a me, son quindici anni che Dio m'ha concesso
questa segnalata grazia di farmi povero. Ma non mi basta; voglio
essere ancor più povero. No, non mi strapperete la mia povertà!
Digià io vivo continuamente distratto dall'unica cosa che sia ne-
cessaria. E dovrei perdere il tempo — un tempo che potrebbe es-
sere impiegato per la cura della mia anima — nelle ripugnanti
preoccupazioni di una fonuna da amministrare! Non voglio che
mi si spogli della mia anima! Non voglio essere ricco, lo capite?
Non voglio essere ricco. Ne proverei troppa vergogna.
BERNAL - Ebbene, crepate pure di fame, se vi fa piacere. Ma Mariana?
ALVARO - Se Mariana e vostro figlio nutrono l'uno per l'altro il senti-
mento che voi dite, che si sposino cosi come sono. Saranno poveri,
ma Cristo laverà i loro piedi.
BERNAL - Saranno poveri: la questione è risolta facilmente!
ALVARO - Voi, che mi rimproverate di non amare Mariana come dovrei,
voi vorreste che io le donassi la ricchezza, questo peccato!
BERNAL - La ricchezza in sé non è peccato.
ALVAKo - Quando agisco e reagisco da cristiano, dovrei essere capito
da miliardi di uomini. Ma proprio allora non sono capito da nes-
suno. Talvolta mi sembra che tutto ciò che sento sia cosi lontano
dalla comprensione umana...
BERNAL - Non potete esigere da tutti gli esseri che si appaghino di
un assoluto che è privilegio di pochi.
ALVARO - Io non tollero che la perfezione.
BERNAL - In quanto a me, son stato ricco per tre anni, press'a poco.
Quando ho venduto le mie terre di Juncas. Non sapete che bella
cosa sia aver molto denaro; che pace, che sicurezza, che fiducia in
se stessi può dare la ricchezza! Come finalmente si può essere se
stessi! Appoggiati al potente denaro si può in tutta tranquillità es-
sere versatili, essere insolenti, avere torto, che so io! Ma ciò per-
mette anche la pazienza, il lavoro ben fatto, la magnanimità, la
costanza nelle prove morali, tutte le virtù dell'anima. Guardate, per
esempio, quella carità che voi amate tanto; la carità, per essere at-
IL GRAN MAESTRO DI SANTIAGO 431
tiva, ha bisogno di esser ben nutrita. Ah! mio caro amico, come
aiuta ad acquistare in altezza il fatto di essere milionario!
ALVARO - A me, come a voi, quando mio padre mori, il notaio dette
l'annunzio che improvvisamente ero diventato possessore di una
somma che, modesta per molti altri, per me invece era conside-
revole. Che cosa provai allora? Soltanto tristezza. Pensai: «Dire
che c*è gente che lavora dieci anni per guadagnare quanto ora ho
guadagnato in un minuto ». E cosi poi, per due anni, ho allo
stesso modo ricevuto somme non disprezzabili ed ogni volta ho
provato quello stesso disagio, direi quasi sconforto. Davanti ai sac-
chi di scudi mi chiedevo: « Che farne, mio Dio? ». Li ho regalati
alle case dell'Ordine.
BERNAL - E non vi è mai venuto in mente di impiegarli per fare la dote
a Mariana? No, questa sarebbe stata una reazione naturale. A voi
invece era necessario il sovrannaturale, a voi era necessaria la ca-
rità. Non dare alla propria figlia, e dare a dei poveri idioti che
vi odiano proprio perché li avete beneficati!
ALVARO - La carità non ha senso se non quando è ripagata con tale
odio.
BERNAL - Ah! voi mi date la nausea della carità.
ALVARO - E voi mi date la nausea dei sentimenti che chiamate naturali.
Della carità mi è tenuto conto al cospetto di Dio. Ma forse mi sarà
tenuto conto se accumulerò denaro per i mici eredi che dopo
tutto non hanno bisogno di essere più ricchi di quanto lo sia sta-
to io? Se fossi morto cinquant'anni fa, le mie ricchezze sarebbero
toccate all'Ordine; che tale allora era la regola. Non c'è che una
famìglia, quella di elezione e secondo lo spirito; la famiglia secondo
la carne è maledetta. Noi dell'Ordine, noi si che siamo una fa-
miglia...
BERNAL - L'Ordine non esiste piò, Alvaro, e voi lo sapete bene.
ALVARO - Lo so. Ma no: anche se esistesse in un solo cuore l'Ordine
esisterebbe ancora. Ed ecco che delle figlie, dei figli, vengono come
intrusi a insinuarsi nella nostra congregazione. A gran fatica sta-
vamo elevandoci un poco; essi arrivano, ci respingono giù, con ac-
canimento ci trattengono sulla terra. Il tradimento è sempre sotto
il nostro tettOj e non soltanto in cucina, come si dice, (chiamando)
Mariana!
BERNAL - Ve ne prego, non fate scene. Che avete intenzione di dirle?
ALVARO - Forse è bene che sappiate come certi padri pensano di dover
trattare i loro figli.
BERNAL - Ah! sono stanco di sentirvi darci sempre delle lezioni.
432 HENRI DE MONTHERLANT
ALVARO - Nei racconti marocchini c'è un personaggio classico: il padre
che medita di far uccidere la figlia perché la vede innamorata.
BERNAL - Ma che siete, pazzo?...
SCENA SECONDA
ALVARO, BERNAL, MARIANA
ALVARO - Mi si dice che voi nutrite non so qual sentimento per il fi-
glio di don Bernal. £ ciò in una stanza della mia casa, a due passi
da me! Sappiate che ho orrore di queste cose. Naturalmente voi
credete di essere la sola persona al mondo che ami, pensate di rac-
chiudere in voi l'universo, eccetera... E tuttavia che cosa siete?
Una scimm ietta e nulla più. E tutto questo amore fra uomini e don-
ne non è che una buffonata. Sappiate che siete sprofondata in pieno
nelle smorfie, nel ridicolo, nella stupidaggine.
BERNAL - Alvaro! non vi vergognate! Voi non avete sempre, rinnegato
la natura... Non oltraggiatela dunque cosi, in quello che dovrebbe
esservi sacro sopra ogni altra cosa al mondo.
ALVARO - Mariana, se sono stato brusco con voi, perdonatemi. Ma voi
mi colpite nel punto più sensibile. Mi sforzo di vivere una vita
non volgare. E proprio voi mi portate alla rovina! Voi, che do-
vreste sostenermi, siete la mia pietra d'inciampo!
MARIANA - Padre mio, io voglio solo ciò che voi volete. Come potrei
condurvi alla rovina?
ALVARO - Se aveste presentito una volta soltanto che cos'è il volto di
Dio, per la strada volgereste la testa per non vedere il volto di un
uomo, (a Bernal) Restate con lei, consolatela, voi a cui piace fare il
padre (ma essere padre di una ragazza è veramente essere padre?).
Quanto a me, ve lo ripeto: non andrò nel Nuovo Mondo. Mai! A
me piace cosi. E cosi piace a Dio. E perciò basta cosi.
BERNAL - Un giorno, vi ricordate? mi avete detto: «Quando esitate
fra più strade, scegliete sempre la più dolorosa ».
ALVARO - Che cosa diventerei, Dio mio, se non soffrissi?
BERNAL - Si, SI, ma in definitiva scegliete sempre la via che vi piace.
IL GRAN MAESTRO DI SANTIAGO 433
SCENA TERZA
BERNAL, MARIANA
BERNAL - Non vi tormentate, Mariana e ascoltate. Si trova ora ad Avi-
la, per qualche giorno, una persona molto potente, il conte de Soria.
Lo conoscete di nome, nevvero? (Mariana fa con la testa un cenno
di diniego) O figlia di vostro padre, che non sapete mai nulla di
quel che accade! Il conte de Soria, nonostante la sua giovane età, è
uno degli uomini più influenti a corte. Godo di un certo credito
presso di lui. Lo pregherò di venire da vostro padre e di dirgli
che il Re ha espresso in pubblico il desiderio che don Alvaro ac-
cetti un incarico nelle Indie. Conosco vostro padre: parla del Re
con rispettosa malevolenza, ma il Re è il suo signore e per nessuna
ragione al mondo non gli presterebbe obbedienza. Vostro padre pre-
tende che alla sua età non si hanno più progetti personali, ma
alla sua età c'è qualcosa che si può ancora fare: essere fedeli. La
lealtà si farà sentire in lui e fors'anche (perché no?) un pò* di
giusto amor proprio. Siete contenta? Ma come? non dite niente?
MARIANA - Il sangue è silenzioso quando scorre.
BERNAL - Ed anche le lacrime, non e vero?
MARIANA - Dove Vedete le lacrime?
BERNAL . Li.
MARIANA - Un*altra piange in me.
BERNAL - Siete una bambina... Ah! perché non sono io vostro padre!
MARIANA - Ma voi non lo siete.
BERNAL - Vi dispiacerebbe se fossi vostro padre?
MARIANA - Dio fa bene quel che fa.
BERNAL - Voi non mi volete bene!
MARIANA - Come potrei non voler bene a voi che volete bene a Jac...
(si arresta di botto)
BERNAL - Non perdonerò mai a don Alvaro le offese che fa alla virtù
con i suoi eccessi.
MARIANA - Mio padre è un uomo di una eccezionale rettitudine. È il
suo unico lusso, ma è un lusso che si paga caro.
BERNAL - Vostro padre è un santo, o poco ci manca. Tuttavia co-
mincio a capire che i santi dovevano essere un po' fastidiosi per
quelli che vivevano loro vicino.
MARIANA - Non mi infastidisce affatto.
28. • Teatro francese
434 HENRI DE MONTHERLANT
BERNAL - Voi lo difendete per principio.
MARIANA - È una cosa che vuol dir molto, sentire della stima per qual-
cuno.
BERNAL . I signori dell'Ordine la pensano come me.
MARIANA - Lo spettacolo della rettitudine disorienta la gente, non s'im-
pone alla sua ammirazione. £ basta un nulla perché questo fa-
stidio si trasformi in una specie di orrore.
BERNAL - Siete davvero filosofa, per i vostri diciotto anni.
MARIANA - Sono solapiente seria.
BERNAL - Forse è in don Alvaro una certa tendenza alla contraddi-
zione. Se la società nella quale viviamo fosse austera, forse si at-
teggerebbe a spregiudicato.
MARIANA - Lo conoscete da non so quanti anni, e potete credere que-
sto! Che cos'è dunque l'amicizia, se può sbagliare a tal punto? E
come ho avuto ragione a non volere amiche. Non c'è nessuna affet-
tazione in mio padre. Egli cammina dritto davanti a sé. La sal-
vezza della sua anima, e l'Ordine; questa è la sua strada: a destra
o a sinistra non vi è più nulla. La sua schiacciante indifferenza
per tutto quello che non porti il marchio del sublime... Unum,
Domine, « O mio Dio! una sola cosa è necessaria »: sapeva quel
che faceva il mio bisavolo quando sostituì questa divisa a quella
più antica della nostra famiglia.
BERNAL - E COSI voi, sua figlia, voi siete « a destra o a sinistra ». Egli
vi tiene lontana dalla sua vita.
MARIANA - Non sarebbe cosa normale, invece, che un uomo della sua
età e con le sue preoccupazioni, potesse compiacersi della compagnia
di una piccola donna come me.
BERNAL - Si, sempre lo « sguardo intcriore »... Quello sguardo inte-
riore con il quale guarda non tanto Dio quanto se stesso.
MARIANA - A tutto qucllo chc si fa contro di lui, egli contribuisce. E
voi pretendete che sia egoista!
BERNAL - Agisce contro se stesso perché vi prova piacere.
MARIANA - Se non vi conoscessi vi prenderei per un malvagio, poiché
lo diminuite cosf.
BERNAL - Non sono un malvagio, sono un uomo che vuol vedervi
felice.
MARIANA - Non cerco di essere felice.
BERNAL - Non volete sposare JacintoP
MARIANA - Si, ma non per essere felice.
BERNAL - E perché mai, allora?
MARIANA - E lui, pensate che lui sarà felice con me?
IL GRAN MAESTRO DI SANTIAGO 435
BERNAL - Ne sono SÌCUfO.
MARIANA - Credete che potrei essergli utile nelle cose importanti e
gravi? Io non vorrei una vita facile. Vorrei una vita per la quale
si dovesse aver bisogno di coraggio.
BERNAL - Si ha sempre bisogno di coraggio.
MARIANA - Ma credete ch'egli distingua chiaramente quello che è im-
portante e quel che non lo è? Perché questo è l'essenziale: non
dare che al primo e attenervisi duramente.
BERNAL - Glielo insegnerete voi, se io non Tho saputo fare.
MARIANA - Voglio entrare nel matrimonio e chiudere la porta come si
fa quando si è entrati in un oratorio, e non guardare più dietro a
me, mai più. Egli sarà il solo per me ed io la sola per lui. Per-
duta in lui solo per sempre.
BERNAL - Ci saranno poi anche i bambini...
MARIANA - Credo che anch'essi mi distrarrebbero da mio marito.
BERNAL - A voi la ricchezza non fa paura?
MARIANA - L'accoglierò come una prova e mi sforzerò di superarla.
BERNAL - Cara Mariana, siete come vostro padre, ma più saggia. E
qualche volta perfino nel modo di esprimervi. La vostra frase: « Dei
figli mi distrarranno da mio marito» mi ricorda una frase di don
Alvaro. Egli mi diceva poco fa, di sentire il bisogno di una solitu-
dine tale che perfino l'amicizia non farebbe che turbarla. S(, gli as-
somigliate straordinariamente...
MARIANA - Mi disprezzo troppo perché quel che io sono possa assomi-
gliare a mio padre.
BERNAL - Vi disprezzate, eppure siete fiera come un aspide. « Come un
aspide ». L'espressione è di Jacinto.
MARIANA - Don Jacinto è molto ardito a descrivermi, lui che non mi
conosce.
BERNAL - E voi siete molto cerimoniosa a chiamarlo don Jacinto davanti
a me.
MARIANA - Non chiamerò certo con il solo nome un uomo che non è
niente per me.
BERNAL - Suvvia, Mariana, ponete fine a questa finzione della fred-
dezza. Devo proprio farvi sapere che due settimane fa Jacinto mi
' scriveva: « Nella mia casa la sua dolcezza sarà come il gocciare del-
l'acqua? ». Che tre giorni fa mi scriveva: « Il mio amore per lei l'al-
tra notte mi ha svegliato. Sentivo quella voce stellata e lontana... ».
MARIANA - Quella voce stellata e lontana... È la mia voce?
BERNAL - È la vostra voce. Vi devo proprio fare sapere che due setti-
mane fa mi scriveva: «Soffoco di lei»? Che tre giorni fa mi seri-
436 HENRI DE MONTHERLANT
veva: «La scriminatura che divide i suoi capelli è come il cam-
mino che voi tracciate nella neve, andando verso la sua casa»?
MARIANA - Davvero vi ha detto tutto questo? Ma no, lo inventate per
farmi piacere!
BERNAL - Per Dio! non invento una sola parola.
MARIANA - Allora dite a quel signore della corte — quello che verrà
da noi — che perderà il tempo se, per convincere mio padre, in-
sisterà su ragioni di gloria; e che mio padre lo metterà alla porta
se parlerà di guadagni. Ditegli che deve far presente a mio padre
come il Re voglia inviare nelle Indie degli Spagnoli per bene, per
il prestigio morale della Spagna. Ditegli che deve parlargli dell'Or-
dine, dire che gli Indiani devono sapere che cos'è un vero cava-
liere di Santiago. Ditegli... ditegli infìne che il Re comanda... Gli
direte tutto questo, don Bernal, non è vero? E poi, non deve fare
a mio padre i frusti complimenti che gli fanno sempre; suggeri-
tegli voi qualcosa di delicato... saprete ben trovarlo... Io, mentre
quel signore sarà da lui, pregherò in ginocchio davanti al crocifisso
perché mio padre si lasci convincere.
BERNAL - Pregherete il Salvatore. Ma se pregaste anche vostro padre?
Dopo tutto, non dovete anche voi dire la vostra parola in questo
affare?
MARIANA - Io, pregare mio padre! Oh! questo mai!
BERNAL - Se questo matrimonio dipendesse da una parola vostra a vo-
stro padre, non la direste, quella parola?
MARIANA - No, mai.
BERNAL - Sempre il mai dei Dabo. Ah! come sono stancanti le persone
esagerate!
MARIANA - Vogliate scusarci: noi abbiamo il cuore tutto d'un pezzo.
{attraverso la finestra un pallido raggio di sole — grigio perla,
del grigio perla del cielo di Avila — filtra nella stanza) Mio Dio,
un raggio di sole! Il primo dopo due mesi!
BERNAL - Mariana! ed ecco che, per questo raggio di sole, l'acqua del
cuore vi viene ancora una volta negli occhi.
MARIANA - È il fumo del braciere.
BERNAL - No, mia piccola perla, non m'ingannerete.
MARIANA - Il primo sole dell'inverno... Esisteva dunque ancora il sole?
Presto la neve si scioglierà, presto sarà primavera.
BERNAL - Ahimé, non siamo che al principio dell'inverno.
MARIANA - La primavera è vicina! Domani sarà primavera!
BERNAL - E proprio voi dicevate che non volete essere felice!
MARIANA - No, don Bernal, non voglio essere felice.
IL GRAN MAESTRO DI SANTIAGO 437
ATTO TERZO
La stessa scena.
Fuori, la neve cade ininterrottamente.
SCENA PRIMA
ALVARO, MARIANA
MARIANA {leggendo) - Quando Diego Monzon si trovò prigioniero nel-
la sua cella, dopo la fallita evasione,
prigioniero di nuovo, e ferito, piombò nella disperazione, una
disperazione senza luce e senza fondo.
Ma improvvisamente capi che Dio stesso gli imponeva questa
prova, come un segno della sua predilezione.
Allora baciò le catene che avvincevano le sue mani e /ad-
dormentò pacificato,
ALVARO - Basta per oggi con le nostre antiche romanze; se continuaste,
temerei di commuovermi. So perché la guerra contro gli infedeli
è stata chiamata guerra santa: perché gli Spagnoli che la facevano
erano santi. Allora c*era un esercito di uomini puri; quando ci
penso mi vengono le lacrime agli occhi. Tutto è torbido, invece,
nell'esercito di oggi. Oggi, se incontro un militare, mi vien vo-
glia di alzare le spalle. £ dopo trent'anni che si sta combattendo,
non è stata ancora composta una romanza sulla guerra nel Nuovo
Mondo. {Mariana raccoglie in una paletta le braci non consumate
che si sono sparse sul pavimento) Queste braci vi danno fastidio?
MARIANA - Trovate che sia una bella cosa tutta questa brace sparsa nella
stanza, quando vi apprestate a ricevere un ospite di riguardo?
ALVARO - Lasciate stare, vi prego. Che cosa penserebbero Tia Campanita
e Isidro? Che mi do da fare per il conte de Soria, un farfallino
di Carlo di Gand? Che mi lascio impressionare da fantocci di tal
fatta? Andate, andate, so bene come ci si innalza nel mondo: cal-
pestando ad ogni passo qualche cosa di sacro.
MARIANA - Dovrà pur esserci, a Corte, un uomo integro, almeno uno.
ALVARO - No, nemmeno uno. E il conte de Soria non esisterebbe per
me se non pensassi che può portarmi qualche notizia concernente
rOrdine. Tre mesi fa abbiamo chiesto al Re che cercasse di otte-
438 HENRI DE MONTHERLANT
nere dal Papa uno dei privilegi che i Templari ebbero nel passato:
che, cioè, i cimiteri del nostro Ordine potessero accogliere i corpi
degli scomunicati. È un mio vivo, un mio appassionato desiderio...
oh! se voi sapeste... Non so immaginare per quale ragione uno della
Corte dovrebbe venire a trovarmi se non mi portasse la risposta a
tale richiesta. £, sapete, Mariana? ho il presentimento che la rispo-
sta sarà favorevole... Metterete il libro delle romanze nella mia ca-
mera, e rinnoverete la provvista di candele. Ieri sera leggevo il
Parsifal di Wolfram d'Eschenbach; è il Cantico dei Cantici della
cavalleria, e ho dovuto interrompere la lettura perche mi mancava
la candela. Comprerete anche del sapone; non ne ho più. £ ram-
menderete, per piacere, uno dei lenzuoli del mio letto, che si è
strappato.
MARIANA - Se lo rammendo, si strapperà ai lati. È tutto consumato.
ALVARO - È consumato dove ci sono dei buchi. Ma ai lati è ancora buo-
nissimo.
MARIANA - Non volete che ve ne comperi un altro paio?
ALVARO - È una spesa del tutto inutile; dite piuttosto che vi secca
rammendare, (con impazienza) E del resto, fate come vi pare. Io
non domando che una sola cosa, di non essere importunato con tutte
queste storie di lenzuola, [mentre si avvia airuscita, si ferma da-
vanti a Mariana e le spolvera leggermente il colletto) Avete dei ca-
pelli sul colletto della vostra giacca. Davvero, credo che state diven-
tando trascurata.
SCENA SECONDA
MARIANA, sola
0 mio bene! O caro fra tutti gli uomini! voi per cui ho conservato
un po' della mia infanzia e preparato qualcosa in fondo al mio
cuore da quando son nata, apritemi le braccia, accoglietemi nella
mia pena, e che questa pena sia l'ultima nata da me sola: che
ben presto non abbia altre pene che le vostre... Ma come! un estra-
neo è il mio rifugio, un estraneo che non mi ha mai vista spetti-
nata e che non conosce nemmeno la mia camera! Ed e contro mio
padre che cerco rifugio... Contro mio padre! Egli mi ha creata, io
1 amo e proprio lui io fuggo! (si picchia dia porta d'entrata. Rumori
di voci air esterno della stanza) Il conte! Mio Dio! poiché è uno
IL GRAN MAESTRO DI SANTIAGO 439
sconosciuto quello che deve trovare le ragioni e Taccento da cui
dipende la mia vita, ispirategli queste ragioni è quest'accento. È
necessario ed io lo voglio: scendete sulle cose che mio padre guarda
e illuminatele di quella luce in cui egli non le ha mai viste. Cosi
agisce la vostra Grazia; i libri lo dicono chiaramente: basta un nul-
la, un nulla impercettibile e tutto è mutato...
SCENA TERZA
ALVARO, IL CONTE D£ SORIA
ALVARO - Voi portate, Signore^ un'aria davvero nuova in una casa
dove si vive incredibilmente appartati.
SORIA - Porto soprattutto della neve sui miei stivali. Per Dio! che inver-
no! Son dovuto andare fino a Torral. La campagna non è che un
deserto di neve che per poco non ha fatto affondare i cavalli. La
neve spezza con il suo peso i rami degli alberi e si vedono cadaveri
di lupi stretti nella morsa delle acque ghiacciate, come grosse radici
dissotterrate.
ALVARO - Avila stessa, tutta coperta di neve, è più che mai la città del
raccoglimento. È la migliore culla per le grandi cose. La folgore
non sa che distruggere. Ma la germinazione avviene in un profondo
silenzio, nascosta, da tutti insospettata.
SORIA - Senza dubbio. Ma può anche darsi che il raccoglimento sia pure
azione, come lo è per voi. So che vi occupate con gran zelo degli
ospizi di Santiago. Avete cambiato la spada con il velo della Ve-
ronica.
ALVARO - Siete ancora troppo giovane, signore, per poterlo capire:
ma viene un'età in cui pare che gli uomini non esistano se non per
essere oggetto della carità. Se non ci fosse la carità, li dimentiche-
rei volentieri, cosi come desidero di essere dimenticato da essi.
SORIA - Ma essi non vi dimenticano.
ALVARO - È un onore essere dimenticati in un'epoca come la nostra:
il perfetto disprezzo desidera di essere disprezzato da chi disprezza
per trovare in ciò la sua giustificazione. Possa il mio nome essere
come una di quelle grandi nuvole che breve tempo basta a can-
cellare.
SORIA - Sfortunatamente, non è cosi. Il ricordo delle vostre gesta è sem-
pre vivo.
440 HENRI DE MONTHERLANT
ALVARO - Mi meraviglio che sia sempre vivo per gli altri, quando per
me e morto.
soRiA - Il rumore che fa il vostro silenzio...
ALVARO {in tono secco) - Ah! vi prego...
soRiA - Cosi, non un'ambizione? non un desiderio?
ALVARO - Che volete mai si desideri, quando tutto e disonorato?
soRiA (sogghignando) - Tutto è disonorato!... È mai possibile! Deve
esser ben triste non desiderare niente... Comunque sia, se voi non
avete ambizioni, gli altri ne hanno per voi. È tempo ormai che
conosciate lo scopo della mia visita. Siete a conoscenza della spe-
dizione che sta preparando Alesio Fuenleal...
ALVARO - Ah, signore, non andate oltre. Certo, non è quel che mi
aspettavo... Mi date una grande delusione... Se avete una qualche
intenzione di trascinarmi in quest'affare, lasciamo subito cadere
la cosa. Mi hanno già tormentato, con questa storia, a lungo e con
tenacia. Ci perdereste la fatica.
SCRIA - Ascoltatemi un po'. Sua Maestà, nella sua grande saggezza,
ha capito che l'evangelizzazione degli Indiani, fatta per lo più da
avventurieri, era impossibile. Perciò desidera che da ora in poi ven-
gano mandati nelle Indie degli uomini equilibrati e retti, la cui per-
sona rappresenti una garanzia per gli Indiani ed un esempio per
gli Spagnoli. Posso ben dirvelo: ben presto molti uomini ragguar-
devoli saranno mandati insieme nelle Indie.
ALVARO - Si lasceranno corrompere dalla funesta atmosfera di laggiù.
Ne abbiamo già avuti infiniti esempi. No, signore, sono irriducibile.
soRiA - Potete dare un rifiuto a me. Potrete darlo al Re?
ALVARO - Al Re?
soRiA - Sua Maestà ha fatto parecchi nomi. Ed ha fatto il vostro.
ALVARO - Qualcuno gliel'avrà suggerito.
soRiA - Nessuno gliel'ha suggerito. Io ero presente.
ALVARO - E che? il Re non mi conosce solo come il vecchio pazzo che
lo assilla con richieste e memoriali su Santiago?
soRiA - Le lusinghiere parole con cui ha accompagnato il vostro nome
mostrano in quale stima egli vi tenga.
ALVARO (jra sé) - Lusinghe del mondo, che cosa volete da me?
soRiA - Ed ora, signore, non ho bisogno di insegnarvi che cos'è un
desiderio del Re.
ALVARO - Tutto quel ch'io sono si oppone a una tale decisione.
soRiA - Si può essere infedeli a se stessi quando si tratta di essere
fedeli al Re.
ALVARO - Non ho le doti necessarie per riuscire nel Nuovo Mondo,
IL GRAN MAESTRO DI SANTIAGO 441
soRiA - Non vi si domanderà che la vostra presenza e il benefico influs-
so che da lei promana.
ALVARO - Voi dite, signore, che Sua Maestà ha detto alcune parole sul
mio conto. Vi ricordate con precisione quali furono?
soRiA - Ebbene... Esattamente... Ah! sì, ha detto «che le nobili anime
sono pronte alle imprese disperate e che proprio per questo, for-
se... ».
ALVARO - Proprio per questo... che cosa? Che io devo andare nelle
Indie?
SOR! A - Chi sa?
ALVARO - Ecco delle parole davvero profonde — sconvolgenti — per
un uomo cosi giovane. Che il Re sappia che le Indie sono una
tragedia senza via d'uscita... e che abbia pensato a me proprio per
questo... Davvero, ciò mi tocca vivamente.
soRiA - Allora, signore, la vostra risposta?
ALVARO - Vorrei pensarci ancora.
SORTA - Bisogna pensarci ancora quando il Re ha parlato? E, del resto,
io parto domani per Valladolid.
ALVARO - Ah! partite domani...
SCENA QUARTA
ALVARO, SORIA, MARIANA
MARIANA (entrando impetuosamente) - Padre mio, è tempo che vi di-
singanni. Tutto ciò è una orrenda commedia. Don Bernal ha
suggerito al conte di dirvi che il Re aveva parlato di voi. Il Re
non ci ha mai pensato.
soRiA - Eh! Madamigella, non eravate d'accordo con don Bernal? Non
gli avete detto proprio voi che...
MARIANA - Ero sconvolta. Parlavo così come si cammina nella nebbia.
La mia voce era così debole che non ha dovuto capirmi. E del
resto, no! confesso. Ho preso parte anch'io a quest'inganno.
soRiA - È ben strana, signore, la piega che prende quest'affare in cui
sono stato immischiato. È vero, mi sono prestato a recitare questa
commedia per richiesta di don Bernal. Ma se è vero che il Re non
ha fatto il vostro nome, è pur vero che io mi lusingo di godere
di una qualche influenza a corte, e mi faccio forte, se voi desi-
derate...
442 HENRI DE MONTHERLANT
ALVARO - Volete anche insultarmi, dopo esservi fatto giuoco di me?
soRiA - Vedo che fare un piacere è più pericoloso che buttarsi fuori da
una trincea!
ALVARO - Non ho niente da domandarvi e niente da offrirvi; è una
cattiva condizione, questa, perché possiamo interessarci Tuno al-
l'altro. Credo» conte de Sona, che il nostro colloquio sia termi-
nato.
soRiA - Non senza un'ultima parola da parte mia. Mi avete rimpro-
verato di essere alquanto giovane. Vi dirò questo: i giovani hanno
delle maniere brusche, ma hanno spesso il cuore modesto, mentre
i vecchi spesso, sotto sante apparenze, hanno il cuore duro ed orgo-
glioso.
ALVARO - Può dipendere anche dal distacco che, procedendo a testa
alta, prende l'apparenza dell'orgoglio, mentre la vile concupiscenza
si china verso la terra. Andate, signore; il vostro universo non è
il nostro. Turbato come sono, permettete che non vi accompagni.
SCENA QUINTA
ALVARO, MARIANA
ALVARO - Perché? Perché?
MARIANA - Ero nella mia camera, ai piedi della croce a pregare perché
quell'uomo vi convincesse. E improvvisamente ha visto voi, al
posto di Gesù Crocifìsso, con la testa piegata sulla spalla, come vi
avevo visto una sera, addormentato nella vostra poltrona, accanto
alle fascine spente. E ho sentito che vi si oltraggiava, come si ol-
traggiò Gesù Crocifisso, e che dovevo subito accorrere . in vostro
aiuto. Spezzata sia la mia vita e tutta la mia attesa, piuttosto che
vedervi dileggiato sotto i miei occhi, e dileggiato per colpa mia,
caduto in un'insidia che io ho contributo a tendervi.
ALVARO (mettendo un ginocchio a terra davanti a sua figlia, le prende
le mani e vi appoggia la fronte) - Perdonami, Mariana! perdonami!
Ho peccato contro di te tante volte nella mia vita. Come, adesso,
tutto mi appare chiaramente! Oggi tu sei nata perché oggi vedo
che sei degna di essere amata. Ma tu, tu, dunque, mi amavi? Tu
mi amavi, che strana cosa! Perché mi amavi?
MARIANA - E voi, voi che io contribuivo a ingannare, voi domandate
IL GRAN MAESTRO DI SANTIACX) 443
perdono a me? Alzatevi, ve ne scongiuro. Mi sento diventar pazza
quando vi vedo in ginocchio davanti a me.
ALVARO - La tua vita seguiva il suo corso, accanto alla mia, nelle te-
nebre; non sentivo nemmeno il suo fluire. E poi, d*un tratto, le
nostre acque si sono unite e noi scorriamo verso lo stesso mare. Ma-
riana! dimmi che non è troppo tardi!
MARIANA - Padre mio per il sangue e per lo Spirito Santo...
ALVARO - Mi hai trattenuto sull'orlo dell'abisso. Quando la parte mi-
gliore di me stava per cedere, tu, tu sei stata la mia parte mi-
gliore. Io ti ho dato la vita: tu mi hai reso la mia.
MARIANA - Non avrei potuto sopportare di vedere che smettevate d'es-
sere quel che siete. Mi avete rimproverato, l'altro giorno, di per-
dervi. Ho voluto salvarvi.
ALVARO - Ahimé, il Re... quelle parole... devo confessare che per un at-
timo ne ho avuto il cuore intenerito. I-.odc a Dio che mi ha per-
messo di scoprirmi miserabile e ridicolo e di mostrarnii tale alla
persona che meno di tutte le altre al mondo doveva vedermi così:
tu, tu mi hai visto fallire! Ma questa profonda caduta mi spinge di
nuovo verso l'alto. Ormai sto raggiungendo il mio scopo: di non
partecipare più alle cose della terra. Rientriamo nella realtà! Oh!
come e da sempre vi aspiro! Come facevo forza sulle mie àncore per
salpare verso l'alto mare! Appena avrò sistemato i miei affari mi
chiuderò per sempre nel convento di San Barnaba. Tu, figlia
mia, andrai a vivere presso tua zia. A meno che... A meno che...
Perché no? Lascia che ti trascini in quel Dio che mi trascina. Slan-
ciati verso il sole seppellendoti nella mia tomba. Prima sopportavo
che tu agissi un po' a tua guisa. Ora come potrei volere per te
altra cosa che non fosse la verità? Avvicinati a me ancor più, di-
venta me stesso! A San Barnaba c'è un Carmelo per le donne.
Vedrai che cosa sia, non esser niente.
MARIANA - Essere quanto poco si possa, per potere, in aiuto a chi si
ama...
ALVARO - Noi non esisteremo e saremo più potenti di tutto ciò che
esiste.
MARIANA - O mio Dio, quand'ero nelle braccia della tenerezza umana!
ALVARO - Sopita in Gesù Cristo, sopita, sepolta nel profondo abisso della
Divinità.
MARIANA - « Padre mio, rimetto la mia anima nelle vostre mani ».
ALVARO - Devo crederti? Si può credere alla propria gioia?
MARIANA - Un nulla, un nulla impercettibile e tutto è mutato...
ALVARO - Ciò che si è mosso si muoverà ancora.
444 HENRI DE MONTHEULANT
MARIANA - Improvvisamente, e stabilito per sempre.
ALVARO - Questa notte, alle tre, in tutti i conventi della Spagna migliaia
di uomini e di donne si alzeranno a pregare. Allora tu ti alzerai
e verrai a trovarmi. E mi dirai per la seconda volta se hai ri-
nunciato.
MARIANA - Si, padre mio.
ALVARO - Perché tu ti sacrifichi, non è vero? La generosità e sempre
il sacrifìcio di sé, ne è l'essenza. Tu ti sacrifichi, Mariana?
MARIANA - Si, padre mio.
ALVARO - E tuttavia niente lacrime? Lotta, soffri ancor più. Dove
non c'è combattimento non c'è redenzione.
MARIANA - Se è necessario, piangerò più tardi. Poi bacerò le mie catene,
come Diego Monzon, e mi addormenterò pacificata.
ALVARO - E quella piccola creatura, quel figlio di don Bernal?...
MARIANA - Grazie a lui, conosco la piena misura del sacrificio. Come
potrei non amarlo per sempre?
ALVARO - Che tu abbia amato, ti sembrerà un giorno cosa incompren-
sibile. Va', non avrai conosciuto l'infezione dell'amore del ma-
schio. Al nostro sangue non verrà a mischiarsi nessun altro san-
gue. Non ci sarà un uomo che ti volterà e rivolterà fra le sue brac-
cia. E nessun figlio per insozzarmi, nessuno per tradirmi: con
te mi spengo in tutta la mia purezza. Gli ultimi! Noi saremo gli
ultimi! Quale forza in questa parola ultimi che si apre sulla subli-
mità del nulla!
MARIANA - Vorrei...
ALVARO - Dio non vuole né cerca: è la calma eterna. Solo non volendo
nulla sarai lo specchio che riflette Dio. I fiocchi di neve cadono come
le lingue di fiamma sugli apostoli. Lo sai? nella Pentecoste soprat-
tutto venivano armati i cavalieri, {stacca dal muro il grande man-
tello bianco dell'ordine e, tenendo la mano sulla spalla di Mariana,
si avvolge con la figlia nel mantello che ricade fino in loro piedi)
Con la mia mano sulla tua spalla, ti conferisco la cavallerìa. Ed
ora partiamo col volo delle aquile, mio piccolo cavaliere! Dobbia-
mo compiere un viaggio tale che quello delle Indie, al confronto,
appare cosi sordido e grottesco!
MARIANA - Partiamo per morire, sentimenti e amore. Partiamo per
morire.
ALVARO - Partiamo per vivere. Partiamo per essere morti, e i vivi fra
i vivi.
(l'ombra si infittisce. Sulla scena non si vede più che il chiarore del
IL GRAN MAESTRO DI SANTIAGO 445
mantello che li ricopre entrambi, sotto il crocifisso, lui con le mani
giunte, lei con le braccia in croce sul petto. Dietro la vetrata, la
neve fiocca sempre più fitta)
ALVARO - Eternità! O eternità!
MARIANA ' Infinità! O infinità!
ALVARO - Religione! Religione!
MARIANA - Che silenzio! il silenzio della neve. Non ho mai sentito un
tal silenzio in Avila. Si direbbe che non ci siamo più che noi due,
sulla terra.
ALVARO - Avila? Che cos'è mai? Una città? E la terra? Forse che tu
vedi ancora la terra? Io la vedo tutta sepolta dalla neve, come noi,
sotto il mantello bianco deirOrdinc...
MARIANA - Neve... neve... la Castiglia sprofonda nella neve come una
nave nell'acqua. Sta per scomparire. Scompare. Dell'Aragona non
compare piti che la più alta cima della sierra di Utiel. La neve
inghiotte tutta la Spagna. La Spagna non c'è piò.
ALVARO - Lo sapevo da un pezzo. La Spagna non c'è piti. Ebbene! pe-
risca la Spagna, perisca l'universo! Se io conseguo la salvezza della
mia anima e tu della tua, tutto è salvato e tutto è compiuto.
MARIANA - Tutto è salvato e tutto è compiuto: vedo infatti un Essere
dallo sguardo fìsso che mi guarda con uno sguardo insostenibile.
ALVARO - Sangue del mio sangue, tu eri migliore di me: in un istante
tu mi superi, vedi prima di me quel che ho tanto sognato.
MARIANA - O rosa d'oro! Faccia di Icone! Faccia di miele! Prosternata,
prosternata, con la faccia a terra davanti a Colui che sento!
ALVARO - No, sali più in alto! sali più presto! Bevi e sii bevuta! Sali
ancora!
MARIANA - Bevo e son bevuta, e so che tutto è bene.
ALVARO - Tutto è bene! Tutto è bene!
MARIANA - So che una sola cosa è necessaria, ed è quella che dicevi
tu...
ALVARO E MARIANA (insieme) - Unum, Dominel
La presente traduzione è a cura di Dora Siciliano.
JEAN-PADL SARTRE
Nato a Parigi il 21 giugno 1905, brillante allievo della Scuola
Normale Superiore, professore nei licei di Le Havre, Laon, Pa-
rigi (fino al 1945), soldato di sanità durante la guerra, Jean-Paul
Sartre ^ è sempre vissuto fra scuola, biblioteca, caffè letterario e
redazioni di riviste. Un soggiorno, nel 1933-34, a Berlino, (dove
frequenta le lezioni del vecchio E. Husserl), qualche viaggio in
America e in Europa, ma nel complesso vita sedentaria e dalla
facciata borghesemente tranquilla. E vita spirituale intensa, in
perpetue sommosse di acqua marcia, straripante in rivoli di lim-
pida eloquenza. Fondatore della più originale rivista del dopo-
guerra (Les Temps modernes\ grande dialettico, acuto critico del
parziale (e dello specioso), politicamente « engagé > in volontario
ed ambiguo servizio (anticomunista, comunista, paracomunista),
romanziere di razza (e di gusto americano, genere Dos Passos e
Faulkner), drammaturgo fortunato, Sartre fu, fino a ieri, il più
ammirato, discusso e popolare dittatore della filosofica cappella
esistenzialistica. Compromesso dalla sciocca plebe di Saint-Ger-
main-des-Prés, seguito, con rispetto e scismi, da una élite di spi-
riti sottili, di neo-umanisti della indegna condizione umana.
Non è qui il luogo di esporre in particolare le manifestazioni
di un movimento filosofico-letterario che ha trovato condizioni
favorevoli di sviluppo nel clima delle due guerre. La parola è
nuova, ma l'esistenzialismo è sempre esistito allo stato vago o
frammentario, se espresso in vario modo ogni qualvolta l'uomo
s'è posto il problema della sua misteriosa realtà sperduta nel mi-
stero di un universo chiuso « nel silenzio eterno degli spazi infi-
niti»: e rassegnazione stoica o disperazione metafisica, fede o
^ Cfr. « Panorama del Teatro francese ». voi. I, pag. 63.
29. . Teatro francese
450 JEAN-PAUL SARTKE
ragione diedero all'ansiosa «canna pensante» le risposte fornite
dallo stesso pensiero, dall'intuizione o dall'immaginazione umana.
Era, per cosi dire, inevitabile che il romanticismo delle in-
quiete solitudini e dei vani interrogatori — e in particolare il ro-
manticismo che vede l'esistenza umana sospesa fra due abissi e
l'individuo chiuso e lacerato fra il tutto e il nulla del suo essere
— dovesse riproporsi in termini drammatici il filosofico problema.
Ed infatti è un romantico svedese, l'anti-hegeliano Sòren Kierkee-
gard (1813-1855) che, muovendo da procellose esperienze perso-
nali e ricorrendo ad una sua «intrepida dialettica» degli inconci-
liabili contrari, sbarazza l'uomo di tutte le false strutture razionali,
intellettuali e morali per lasciarlo nudo e diviso nelle sue contrad-
dizioni, nello scontro fra il finito e l'eterno, fra immanenza e tra-
scendenza, fra il paradosso del peccato e il paradosso della grazia,
fra l'assurdo del suo essere reale e l'assurdo necessario della fede.
«Sehnsucht» tedesca e «vago all'anima» francese, ontologia mi-
stica e pessimismo luterano si combinano nell'angoscia esistenziale
che è insieme coscienza del vuoto e catarsi, vana aspirazione all'as-
soluto e risoluzione della noia, ritorno allo stato primitivo d'inno-
cenza, premessa alla libertà — ed alla scelta — ragione del dram-
ma e della dignità umana.
È questo, sommariamente esposto, il cosiddetto esistenziali-
smo cristiano, che avrà recenti e diversi sviluppi nel tedesco Karl
Jaspers e nel francese Gabriel Marcel. Accanto al quale c'è un
esistenzialismo ateo che, passando attraverso la «fenomenologia»
(e r« eidetica », o dottrina delle forme ed essenze universali imme-
diatamente percepite dalla coscienza nel concreto delle cose) di
Husserl (1859-1938) perviene alla massiccia, rigorosa e ardua siste-
mazione nell'ontologia esistenziale di Martino Heidegger. Capo-
volgendo il rapporto fra essenza ed esistenza (dando cioè a questa
la precedenza e il primato su quella), il filosofo tedesco vede
l'essere chiuso interamente nel suo esistere che è realtà di tutti
gli attributi, che trova solo in sé l'essenza, l'immanenza e la tra-
scendenza insieme con la necessità di manifestarsi — e di farsi —
in un mondo per se stesso inesistente, nel finito di un tempo
escluso dall'eterno. L'esistente è dunque nel fatto, nell'avvenuto,
nel fenomeno concreto, nella presenza effettiva, ntìVesserci di
PRESENTAZIONE 451
persona, limitato in se stesso, circondato e costituito dal vuoto
universale. Nel 1929 Heidegger dichiarava che il Nulla è «la
struttura costitutiva dell'esistenza». Nel 1943 Sartre, presentando
le settecento pagine de L'Etre et le Néant, saggio di fenomeno-
logia ontologica, assicura che «ce qui compte dans un vase c'est
le vide du milieu». Ed è nel vuoto, o nel nulla, percepito ed
annientato dalla coscienza, che Tessere esiste, cioè si sente, si con-
diziona, si costruisce, si vede, è visto.
Questo vaso di dura ed ermetica fattura tedesca Sartre lo riem-
pie di chiaro spirito francese, di mondane formule e di ingegnosi
arzigogoli, ma anche di viscida materia, di contraddizioni interne
e di intestine guerre fra la solida «finitude» dell'esistente e la
condannata < facticité > delle astrazioni e delle illusioni che sa-
rebbero le imposture della morale e della religione, le favole della
trascendenza e dell'assoluto, le < tricheries > dell'amore, della spe-
ranza ed altri idoli dell'ipocrisia o della viltà umana. Volgarizzata,
esemplificata in romanzi e drammi, caduta su un terreno prepa-
rato dal disperato vitalismo dì Malraux e dalle amorali Nour-
ritures terrestres di Gide, la dottrina dell'Essere vuoto, determi-
nabile e determinato nell'c hic et nunc > dell'esistenza — e magari
nell'angoscia del quotidiano — trovò il «suo» momento nella
stagione in cui la vita apparve effettivamente come un incubo
vissuto nella disfatta di tutti i valori tradizionali. La predica-
zione sartriana conobbe quindi lo fortuna, gl'infortuni — e gli
equivoci — di una straordinaria popolarità, si trovò volente o no-
lente a raccogliere sotto l'insegna di un Assurdo spesso confuso
con l'inesplicabile e l'irrazionale (e di una libertà disancorata da
qualsiasi norma) i grotteschi delle «caves> e i letteratissimi pro-
feti dei « ternps modernes >, gli invertiti santificati e gli ansiosi
di una morale generosa.
La pili illustre, e patetica, vittima di un Assurdo perseguitato
da nostalgie razionali e di una fenomenologia del Male in fina-
listica funzione del Bene, è Albert Camus, antico sodale di Sar-
tre. Partito dalla panteistiche Noces (1938), celebrate, per dispe-
razione, fra il corpo umano e la natura, cercata o scoperta l'assurda
tragedia della condizione umana nel nihilismo vegetativo del-
VEtranger (1942), nella condanna all'inutile moto perpetuo del
452 JEAN-PAUL SARTRE
Mito di Sisifo (1942), nella bestiale rivolta di Caligola, neiratroce
capriccio del caso (o del Malcntendu, 1944), nel misterioso dila-
gare della peste, o del male, considerata l'ipotesi del suicidio,
Camus drizza contro l'Assurdo una serie di proteste e di postulati
ideali che riportano l'uomo alle sue vecchie speranze ed alle sue
eterne illusioni. Cosi l'automa estraneo al mondo scopre « in articu-
lo mortis » la < fraternità > con l'assurdo mondo. Sisifo trova in ci-
ma alla montagna la felicità che viene dalla coscienza della sua as-
surda fatica, l'assurdo della Peste (1947) serve a far scoprire la
solidarietà umana, e non c'è rivolta òéX'Homme révolté (1951)
che non si risolva in necessario — e quasi prestabilito — risultato
positivo. Camus continua ad errare nel tragico quotidiano di
Faulkner e di Dostoievski, ma la sua angoscia metafìsica, pur
rifiutando il « salto > nel Dio di Pascal o di Kierkeegard, continua
a fare il salto ideale e morale nella verità della storia, nella fede
nella giustizia, nella professione del sacrificio, nella ripresa dei
colloqui di Siegfried con il tedesco. Non è meraviglia che Sartre
l'abbia rinnegato. Ma anche Sartre fa il suo salto.
Sartre ha fatto il suo salto quando, messo l'individuo al cen-
tro del suo vuoto (o di una esistenza senza passato, senza ragione
e senza scopo) gli ha ordinato di costruirvi il suo concreto Tutto
con l'assoluto di una libertà coatta, priva di meriti e di sanzioni,
ma ricca di illimitati poteri individuali e impegnata in responsa-
bilità collettive. L'uomo di Sartre (o di Heidegger coniugato con
Chestov e Marx) deve « faire et cn faisant se faire, et n'étre rien
que ce qu'il s'est fait > : e cosi facendo e facendosi, assume l'ansia
e la responsabilità di scegliere per se e per gli altri, «se réalise
en réalisant un tyj^ d'humanité >, crea la sua storia senza passato,
il suo destino senza Dio e senza limiti, «s'engage» al servizio
della propria esistenza e dell'umana solidarietà. L'esistenzialismo
sarebbe quindi un « umanismo ».
Tutto ciò è bello e buono, e potrebbe essere convincente se
questa «libertà per la libertà», che ha un venerabile passato ro-
mantico e recenti affinità con Tatto gratuito, non assumesse nella
sua azione tutti i caratteri e gli attributi della « facticité », o degli
idoli di morale e di immaginazione, che dovrebbe annientare.
Secondo gli exempla e i vari saggi di Sartre, essa sarebbe infatti
PRESENTAZIONE 453
«originello come il peccato, assurda perché sottratta ad ogni
spiegazione razionale, dittatoriale in quanto costringe l'uomo a
scegliere in ogni caso (o a «bere senza sete»), paradossale in
quanto libererebbe l'uomo per metterlo al servizio obbligatorio
di € un tipo di umanità > : e non si vede bene, dal momento che
essa è innata, fatale e determinante, in che cosa si distinguerebbe
dai suoi nemici, dalla grazia efficace e sufficiente, dal mito mo-
rale, dall'imperativo categorico, dal dio dei cieli e delle macchine.
In compenso si vede bene che, volendo annettersi dei poteri estranei
alle sue funzioni, è costretta alle acrobazie dialettiche ed alle fu-
tilità del sofisma. Davanti al fatto che l'uomo non è libero di
scegliere la nascita e il carattere, che la sua vita pratica e in parte
condizionata dalla natura e dall'ambiente, è < situata >, Sartre as-
sicura che la libertà ha agito lo stesso anche quando non ha pos-
sibilità di azione, che la scelta è volontaria anche quando sembra
imposta dalle circostanze. «Ma peur, — scrive, — est libre et
je me suis choisi pcureux en telle ou telle circostance >.
Quando infine si passa dalla teoria alle applicazioni ed ai
risultati pratici, il nuovo umanismo rivela la fenomenologia piut-
tosto allarmante di una umanità che prende coscienza del suo
vuoto per esistere liberamente nella solitudine della cloaca. Il gio-
vane Sartre aveva esordito con un saggio intitolato L'Ange du
morbide (1923). È un angelo carico di anni e di magagne (e si
pensa ad un Blake in immoralistico didattismo, ad un Baudelaire
senza «albe spirituali» e senza catarsi poetica, a un Maldoror
senza complessi di colpa e di rimorsi) che tradisce nella lettera-
tura dimostrativa sartriana una singolare tendenza al parziale e
al partito preso con l'irresistibile attrattiva del ripugnante viscido,
nella « finitude > del sordido, del sesso e dell'osceno. Dal romanzo
Im Nausee (1938) e dalla raccolta di novelle Le Mur (1939) al
ciclo dei romanzi a tesi dei Chetnins de la liberté è infatti la
marcia forzata di una umanità che gira perdutamente nella sua
scelta prigione: e mai fu visto libero gregge così oppresso dal-
l'assurdo fatalistico, cosi disperato nella rivolta e nel rifiuto, cosi
«ingaggiato» in processi a porte chiuse nei quali Sade, Masoch,
Lafcadio, Erostrato, l'esibizionista e l'invertito espongono i loro
454 JEAN-PAUL SARTRt
miserabili casi dettando le sentenze ossessive del senso unico, della
mano sporca, del repellente morbido, della gratuita lubricità di
atti e di parole. Anche costoro, si dice, hanno il diritto di < mani-
festarsi >. Resta da chiedersi quali valori universali può avere una
dottrina filosofica fondata sugli arbitri della libertà individuale ed
esemplificata sulla costante eccezione di individui tarati.
Ma Sartre è scrittore di abbondante fantasia, signore di uno
stile € lascivo > e incisivo, dotato della grazia efficace del racconto
e della rappresentazione. Tesi più o meno discutibili, polemica 1
politica e religiosa costituiscono il sostrato ideologico dell'opera !
d'arte, restano, nelle cose migliori, allo stato di suggestione o di
grezzo tessuto riscattato dalla vivacità della favola, magari da un
torbido senso poetico. Il primo successo teatrale fu ottenuto con
il dramma in tre atti Les Mouches (1943) dove il mito degli Atri-
di è presentato in veste < sbracata >, alla maniera di un Anouilh
senza patetismi (Elettra parla plebeo, lava i piatti e la biancheria
sporca, eccetera) e in sartriana soluzione eroica. Nella nuova esegesi
dell'antica tragedia ogni personaggio, oltre a portare il peso del
destino e la responsabilità dei suoi atti, incarna una simbolica
parte della « moralità > esistenziale. Clitennestra è legata in eterno
al suo atto invano rinnegato (e alla «legge giusta e ingiusta del
pentimento >), Egisto è lo stanco « salaud > complice di un ansioso
e scettico Giove che ha inviato sulla città di Argo le schifose mo-
sche (simboli del rimorso, del sentimento di colpa e dell'espiazio-
ne), Elettra è la ribelle che non riesce a vincere la < viscosità » del-
l'odio e della paura, mentre Oreste è il predestinato cavaliere puro
del Graal-libertà, ovvero l'uomo < affranchi de toutes les servitudes
et de toutes les croyances, sans patrie, sans famille, sans religion >,
sottratto cioè a tutta la « facticité > umana e divina, padrone della
sua esistenza e del suo destino. «Appena m'hai creato, — dice a
Giove, — ho cessato di appartenerti >. E giacché sono un uomo —
spiegherà — non riconosco la tua legge, sono < condannato » soltan-
to alla mia, debbo, come ogni uomo, inventare la mia strada. Ma
anche Giove è condannato a «danzare» in eterno davanti agli
uomini per esercitare il suo criminoso potere e per nascondere il
suo «doloroso segreto» che è la libertà degli uomini, contro la
quale egli non può nulla e con la quale l'uomo può tutto. L'uno
PRESENTAZIONE 455
e l'altro sono soli nell'eguale angoscia di una condanna che li
porta fatalmente ad affrontarsi. E, s'intende, sarà l'uomo libero
che vince il dio, compiendo — e rivendicando in faccia al sole —
il suo delitto, con il quale libera anche i cittadini di Argo dalle
mosche, dalle Erinni e da Giove.
cLa vie humaine commence de l'autre cote du désespoir»,
proclama Oreste annunziando il crepuscolo degli dei. Ma le cose
esistenziali non si risolvono sempre in commedia eroica, possono
trovare dall'altra parte la disperazione della vita fìssata per sem-
pre nel vissuto, e nello scacco — o nei vecchi schemi — di una
libertà che imprigiona, di una scelta che non funziona, di una
volontà che non può quel che vuole. Che la dottrina anti-fato
ammette non solo la fatalità del fatto, ma anche il dubbio certame
fra l'oggetto e il soggetto, che ricorda qualcosa di simile ai rap-
porti dell'Io con il Non-Io, della coscienza con la realtà, dell'uni-
verso esterno con la rappresentazione individuale. Secondo la
nuova terminologia, l'essere esistente è infatti composto da un « En
soi> (l'oggetto statico, identico a se stesso, pieno come un uovo,
senza coscienza) ed un « Pour-soi >, che è il cosciente variabile e
contraddittorio che assume !'< En soi >, lo determina e vi si deter-
mina. Fra l'c In-sc > e il « Per-sc > è quindi la continuità del conflit-
to, in scambi di creazioni e di annientamenti, nello stato neutro di
una < viscosità > donde nascono la nausea, l'angoscia, e donde pos-
sono nascere il valore autentico della libertà o il sentimento dello
scacco, che è la caduta nell'esistere bruto del corpo e delle cose.
Inoltre il connubio discorde e minacciato dal « Pour-soi > degli
altri, che ci vede nel nostro < En-soi > o, come diceva Pirandello,
fìssati nell'immobilità di un atto o di un'apparenza.
È questo il concetto esistenzialistico drammatizzato con la
solita ingegnosità ed arte in Huis clos (1944), tragedia dell'umana
coabitazione forzata e della incomunicabilità dei vasi chiusi. La
tesi e chiaramente esposta. «L'enfer, c'est les Autres>, dice Gar-
cin. « Le bourreau, — aveva precisato Inés, — c'est chacun de nous
]x>ur les deux autres >. L'inferno è la prigione senza specchi dove
ciascuno vede il suo finito nello specchio deformante del fittizio,
si vede com'è e come non è, è visto come appare. Prigionieri in
eterno dei loro atti, i tre sciagurati eroi continuano a girare nel
456 JEAN-PAUL SARTRE
conflitto del proprio essere in conflitto con quello altrui, fra inu-
tili confessioni e vani tentativi di liberazione. Mentre le due donne
restano nella « viscosità > dei sensi, Garcin ha velleità di rivolta,
di scelta e di evasione (« Je veux choisir mon enfer >, < Peut-on
juger une vie sur un acte? », « Cet hcroì'sme, je l'ai choisi. On est
ce qu'on veut>), ma resta anche lui l'uomo dello scacco, nel vi-
schio dell'illusione e della menzogna. «Tu n'es rien d'autre que
ta vie », gli risponde Ines. Sulla vita < fatta » s'è chiusa per sempre
la porta del finito, mentre continua senza fine il supplizio di un
processo a porte chiuse dove la coscienza non ha ormai più pos-
sibilità di scelta e dove i giudici sono insieme vittime e carnefici
di se stessi e degli altri.
Dopo le due brillanti prove, vengono, fra romanzi e saggi,
altri drammi sempre pili «impegnati» in tesi, problemi e natu-
realistica rappresentazione di un'umanità oppressa dall'assurdo
della vita, dei pregiudizi e del destino. Nello stesso anno 1946 in
cui La Putain respectueuse (la letteratura sartriana si è natural-
mente sottratta allo « sporco » pudore del vocabolario) ci presenta
una banale storia di ipocrisia borghese-razzista (per salvare un
senatore sud-americano una prostituta accusa un innocente negro
di averla violata), son portate sulla scena, con Morts sans sepolture,
le atroci torture e la spietata legge della guerra partigiana. Poi il
complesso dramma Les Mains sales (1948) presenta in termini
problematici il conflitto ideologico (invischiato nel passionale) del
comunista militante nella pratica del fine che giustifica i mezzi
(anche sporchi) e del puro intransigente che, nauseato dal pro-
prio ambiguo atto (l'uccisione del compagno realista) e tradito
nella sua cieca fede, sceglie la libertà nella rivolta che per lui
significa condanna a morte. Dopo di che, in Le Diable et le bon
Dieu (1951) è l'allegorica, macchinosa rappresentazione (nel vuoto
dell'assurdo, dimostrato per assurdo e con la prova del nove) del
vecchio tema romantico della lotta fra Dio e Satana, fra il Bene
e il Male, incarnati da un bestiale capitano di ventura che vince
sempre finché commette ogni sorta di atrocità e di ribalderie,
mentre perde tutto quando per scommessa, e barando, sceglie di
fare il santo. Egli rientra quindi nella sua diabolica natura che
gli consente di ritrovare l'autenticità della sua libera condizione
PRESENTAZIONE 457
umana incompatibile con il fittizio della morale e di Dio. Trovate,
formule e virtuosismi oratori salvano ancora il salvabile dal peso
della polemica anti-teistica. Ma lo sforzo esistenziale s'è messo
ormai sulla china della «platitude». E in Ne\rassov (1955) il
fatto di cronaca di un truffatore internazionale che si fa passare
per un ministro sovietico il quale avrebbe scelto la libertà, cade
irreparabilmente nella goffa e prolissa satira della società borghese
rappresentata nei puerili e grotteschi intrighi della sua stampa,
della sua politica e della campagna antibolscevica.
In questi giorni (settembre 1959) Sartre è tornato al teatro
con il dramma Les sequestrés d'Altana, accolto con discordi, e nel
complesso negativi, giudizi della critica.
I € tempi moderni > della rivolta esistenziale, della libertà sca-
tenata nel massiccio orrido naturalista, della terra e della gioventù
bruciata, bruciano rapidamente gl'idoli. Sartre non è più quello
di ieri ed il pubblico è facile alla nausea ed al fittizio degli umori
e delle mode. Al momento attuale, avanguardia scapigliata e bor-
ghesia resistente hanno scoperto, e apprezzano, le angosce del
vuoto assoluto di Beckett e le assurde miscele del surrealismo edul-
corato di Eugenio lonesco.
Si cfr., nella congerie di saggi critici e di articoli, Troisfontaincs O.,
Le choix de J.-P, Sartre, 1945; Campbell R., /.-P. Sartre, 1945; Beig-
bcder M., Uhomme S., 1947; Simon P.-A., Lhomme en procès, 1950;
Alberès R. M., /.-P. Sartre, 1953; Jcanson F., S. par lui-méme, 1956.
Porte ehìnse
PERSONAGGI
INES
ESTELLA
GARCIN
IL CAMERIERE
PORTE CHIUSE
a quella Signora
Un salotto stile Secondo Impero. Sul caminetto una statua di bronzo.
SCENA PRIMA
GARCIN, IL CAMERIERE
GARciN {entra guardandosi intorno) - Allora, ecco qua.
IL CAMERIERE - EcCO qua.
GARCIN - È COSI...
IL CAMERIERE - È COSI.
GARCIN - Io... io penso chc a lungo andare uno finisca con l'abituarsi
ai mobili.
IL CAMERIERE - Dipende dalle persone.
GARCIN - Sono tutte uguali, le stanze?
IL CAMERIERE - Macché. Ci capitano dei Cinesi, degli Indiani. Cosa vo-
lete che se ne facciano di una poltrona stile Secondo Impero?
GARCIN - E io, cosa volete chc me ne faccia, io? Sapete chi ero? Bah!
è una cosa che non ha nessuna importanza. I>opo tutto, ho sem-
pre vissuto in mezzo a mobili che non mi piacevano e in situazioni
false; ne godevo un mucchio. Una situazione falsa in una sala da
pranzo stile Luigi Filippo, non vi dice nulla?
IL CAMERIERE - Vedrete: le cose non andranno poi tanto male neppure
in un salotto Secondo Impero.
GARCIN - Ah? Bene. Bene, bene, bene, (si guarda intomo) Però non
mi sarei aspettato... Voi, certo, sapete che cosa si racconta laggiù?
IL CAMERIERE - Su che cosa?
GARCIN - Ebbene... {facendo un gesto ampio e vago) su tutto questo.
IL CAMERIERE - Comc potete credere a queste stupidaggini? Delle per-
sone che non hanno mai messo i piedi qui. Giacché insomma, se
ci fossero venute...
GARCIN - Si. {ridono tutti e due, Garcin ritornando improvvisamente
serio) Dove sono i pali?
IL CAMERIERE - CoSa?
462 JEAN-PAUL SARTRE
GARCiN - I pali, le graticole, gli imbuti di cuoio.
IL CAMERIERE - Lo ditc per scherzo?
GARciN (guardandolo) - Ah? Ah, bene. No, non volevo scherzare, {una
pausa. Passeggia su e giù) Niente specchi, niente finestre, natural-
mente. Niente di fragile, {con improvvisa violenza) E perché mi
hanno levato lo spazzolino da denti?
IL CAMERIERE - Ecco. Ecco la dignità umana che si riaffaccia. È straor-
dinario.
GARciN {battendo incollerito sul bracciolo della poltrona) - Fatemi il
piacere, risparmiatemi la vostra familiarità. Non ignoro nulla della
mia posizione, ma non sopporterei che voi...
IL CAMERIERE - Là! Là! Scusatemi. Cosa volete, tutti i clienti chiedono
le stesse cose. Arrivano: «Dove sono i pali? ». In quel momento,
vi assicuro che non pensano a far toilette. E poi, non appena si
sentono rassicurati, ecco lo spazzolino da denti. Ma, per Tamor di
Dio, non potete proprio riflettere? Perché poi, ve lo chiedo, perché
vi lavereste i denti?
GARciN (calmato) - Già, infatti, perché? (si guarda intorno) E perche
guardarsi negli sp)ecchi? Invece la statua di bronzo, almeno... Penso
che in certi momenti sarò tutt occhi a guardarla... Tutt'occhi, eh?
Andiamo, andiamo, non c'è nulla da nascondere; vi dico che non
ignoro nulla della mia posizione. Volete che vi racconti come suc-
cede? Uno soffoca, va a fondo, annega, solo il suo sguardo è fuori
dell'acqua e cosa vede? Una statua di bronzo di Barbediennc. Che
incubo! Capisco, vi hanno certamente proibito di rispondermi, e io
non insisto. Ma ricordatevi che non mi lascio coglier di sorpresa,
non venite poi a vantarvi d'avermi sorpreso; io guardo la situazione
in faccia, (ricomincia a camminare su e giti) Dunque, niente spaz-
zolino da denti. E neppure il letto. Giacché non si dorme mai,
naturalmente?
IL CAMERIERE - Diamine!
GARciN - Ci avrei scommesso. Perché si dormirebbe? Il sonno vi pren-
de dietro le orecchie. Sentite gli occhi che si chiudono, ma p)erché
dormire? Vi stendete sul divano e pfft... il sonno se ne va. Biso-
gna allora stropicciarsi gli occhi, rialzarsi e tutto ricomincia.
IL CAMERIERE - Quanta fantasia avete!
GARciN - Voi state zitto. Non mi metterò a gridare, né a gemere, ma
voglio guardare la situazione in faccia. Non voglio che mi salti
addosso cogliendomi alle spalle, senza aver potuto rendermene con-
to. Sono fantasioso? Allora vuol dire che non c'è neppur bisogno
di sonno. Perché dormire se non si ha sonno? Benissimo. Aspettate.
PORTE CWIUSE 463
Aspettate: perché è tanto penoso? Perché è necessariamente pe-
noso? Ci sono: è la vita senza stacco.
IL CAMERIERE - Qiiale stacco?
GARciN {imitandolo) - Quale stacco? {sospettoso) Guardatemi. Ne ero
sicuro! Ecco la spiegazione dell'indiscrezione grossolana e insoste-
nibile del vostro sguardo. Parola mia, sono atrofizzate.
IL CAMERIERE - Ma di che parlate?
GARciN - Delle vostre palpebre. Noi, noi battiamo le palpebre. Un bat-
ter d'occhio, si chiamava. Un piccolo guizzo nero, un sipario che
cala e si rialza: lo stacco è fatto. L'occhio s'inumidisce, il mondo
scompare. Voi non potete sapere quant'era riposante. Quattromila
riposi in un'ora. Quattromila piccole evasioni. E quando dico quat-
tromila!... Allora? Vivrò senza palpebre? Non fate lo sciocco. Sen-
za palpebre, senza sonno, è lo stesso. Non dormirò piò... Ma come
riuscirò a sopportarmi? Cercate di capire, fate uno sforzo: ho un
carattere cavilloso, sapete, e... ho l'abitudine di stuzzicarmi. Ma io...
non posso stuzzicarmi sensa sosta: laggiù c'erano le notti. Dormivo.
Avevo il sonno piacevole. Per una specie di compenso. Mi propo-
nevo dei sogni semplici. C'era una prateria... una prateria, e basta.
Sognavo di passeggiarci. È giorno?
IL CAMERIERE - Lo Vedete da voi, le lampade sono accese.
GARciN - Perbacco. È questo il vostro giorno. E fuori?
IL CAMERIERE {sbalordito) ' Fuori?
GARciN - Fuori! al di là di questi muri?
IL CAMERIERE - C'è un corridoio.
GARciN - E in fondo al corridoio?
IL CAMERIERE - Ci sono altre stanze e altri corridoi e scale.
GARciN - E poi?
IL CAMERIERE - PoÌ baSta.
GARciN - Avrete pure un giorno libero. Dove andate?
IL CAMERIERE - Da mio zio, che è capo-cameriere al terzo piano.
GARciN - Avrei dovuto immaginarmelo. Dov'è l'interruttore?
IL CAMERIERE - Non ce n'è.
GARciN - Allora? Non si può sp)cgnere?
IL CAMERIERE - La direzione può togliere la corrente. Ma non ricordo
che l'abbia mai fatto a questo piano. Abbiamo l'elettricità a vo-
lontà.
GARciN - Benissimo. Allora bisogna vivere a occhi aperti.
IL CAMERIERE {irofiico) - Vivere...
GARciN - Non starete a sottilizzare su una questione di vocabolo. A oc-
chi aperti. Per sempre. Sarà sempre pieno giorno nei miei occhi.
464 JEAN-PAUL SARTRE
£ nella mìa testa, (tina pausa) E se scagliassi la statua di bronzo
contro la lampadina elettrica, sì spegnerebbe?
IL CAMERIERE - È troppo pesantc.
GARciN {prende la statua fra le mani e cerca di sollevarla) - Avete ra-
gione. È troppo pesante.
(un momento di silenzio)
IL CAMERIERE - Ebbene, se non avete più bisogno di me, vi lascio.
GARciN (di soprassalto) - Ve ne andate? Arrivederci, (il cameriere va
verso la porta) Aspettate. (;7 cameriere si volta) È il campanello,
quello là? (// cameriere fa un cenno affermativo) Posso suonare
quando voglio e voi siete obbligato a venire?
IL CAMERIERE - In tcoHa, SI. Ma è un campanello capriccioso. C'è
qualcosa di scassato nel meccanismo.
GARciN {si dirige verso il campanello e schiaccia il bottone. Suoneria) -
Funziona!
IL CAMERIERE {stupito) - Funzìona. {suona anche lui) Ma non entusia-
smatevi, non durerà. Me ne vado, ai vostri ordini.
GARciN {fa un gesto per trattenerlo) - Io...
IL CAMERIERE - EH?
GARciN - No, nulla, {va verso il caminetto e prende il tagliacarte) Che
cos'è questo?
IL CAMERIERE - Lo Vedete bene: un tagliacarte.
GARciN - Ci sono dei libri, qui?
IL CAMERIERE - No.
GARciN - E allora a che serve? (// cameriere si stringe nelle spalle) Va
bene. Andatevene.
{il cameriere esce)
SCENA SECONDA
GARCIN, solo
{si avvicina alla statua di bronzo e la liscia. Si mette a sedere. Si rial-
za. Si avvicina al campanello e schiaccia il bottone. Il campanello
non suona. Prova due o tre volte. Ma invano. Si dirige allora verso
la porta e cerca di aprirla. Quella resiste. Chiama)
Cameriere! cameriere!
Porte Chiuse di Sartre, al Vicux-Colombicr, nel 1944. Messinscena di Rouleau. In-
terpreti: Asin-Michel Vitold (Garcin), Tania Balachova (Ines), Michel Alfa (Estella).
PORTE CHIUSE 465
{nessuna risposta. Tempesta di pugni la porta continuando a chiamare
il cameriere. Poi si calma improvvisamente e va di nuovo a sedersi.
In quel momento la porta si apre e Ines entra, seguita dal came-
riere)
SCENA TERZA
GARCIN, INES, IL CAMERIERE
IL CAMERIERE (tf Gorcin) - Mi avete chiamato?
GARCIN {sta per rispondere, ma lancia un'occhiata a Ines) - No.
IL CAMERIERE {voltOTidosi vcrso Incs) - Sicte in casa vostra, signora.
{silenzio di Ines) Se avete qualche domanda da farmi... {Ines
tace. Il cameriere deluso) In genere ai clienti piace informarsi...
Non insisto. Del resto, per lo spazzolino da denti, il campanello e
la statua di Barbedienne, il signore è al corrente e vi risponderà
come potrei farlo io.
{esce. Un momento di silenzio, Gorcin non guarda Ines, Ines si guarda
intorno, poi si avvicina bruscamente a Gorcin)
INES - Dov*è Fiorenza? {silenzio di Gorcin) Vi domando dov'è Fio-
renza?
GARCIN - Non ne so nulla.
INES - È tutto qui quello che avete trovato? La tortura della lontanan-
za? Ebbene, vi siete sbagliato. Fiorenza era una piccola sciocca
e non la rimpiango.
GARCIN - Scusate: per chi mi prendete?
INES - Voi? voi siete il carnefice.
GARCIN {ha un sussulto e poi scoppia a ridere) - È un equivoco proprio
divertente. Il carnefice, ma davvero! Siete entrata, mi avete guar-
dato e avete pensato: è il carnefice. Che stravaganza! Il cameriere
è stato ridicolo, avrebbe dovuto presentarci Tuno all'altra. Il car-
nefice! Io sono Giuseppe Garcin, pubblicista e letterato. La verità
è che siamo alloggiati sotto lo stesso tetto. Signora...
INES {seccamente) - Ines Serrano. Signorina.
GARCIN - Benissimo. Perfetto. Ebbene, il ghiaccio è rotto. Cosi, voi tro-
vate che ho la faccia di un carnefice? E da che cosa si riconoscono,
i carnefici, per favore?
Teatro francese
466 JEAN-PAUL SARTRE
INES - Hanno l'aria di aver paura.
GARciN - Paura? È proprio buffo. E di chi? Delle loro vittime?
INES - Via! So quel che dico. Mi son guardata allo specchio.
GARciN - Allo specchio? {si guarda intorno) È insopportabile: hanno
tolto tutto quello che poteva somigliare a uno specchio, {una pausa)
In ogni caso, posso affermarvi che non ho paura. Non prendo la
situazione alla leggera e sono perfettamente conscio della sua gra-
vità. Ma non ho paura.
INES {stringendosi nelle spalle) - La cosa vi riguarda, (una pausa) Vi
capita di tanto in tanto di andar fuori a fare un giro?
GARciN - La porta è sprangata.
INES - Pazienza.
GARciN - Capisco benissimo che la mia presenza vi importuna. E per-
sonalmente, preferirei rimaner solo: devo mettere in ordine la mia
vita e ho bisogno di raccoglimento. Ma son sicuro che potremo
sopportarci a vicenda: io non parlo, non mi agito mai, e faccio
poco rumore. Soltanto, se posso permettermi un consiglio, sarà
bene conservare fra noi un'estrema gentilezza. Sarà la nostra mi-
gliore difesa.
INES - Io non sono gentile.
GARciN - Lo sarò dunque per due.
{un momento di silenzio. Garcin è seduto sul divano, Ines passeggia
su e gid)
INES {guardandolo) - La vostra bocca.
GARCIN {scosso dolla sua meditazione) - Prego?
INES - Non potreste tener ferma la bocca? Gira come una trottola sotto
il vostro naso.
GARCIN - Vi chiedo scusa: non me ne rendevo conto.
INES - È proprio quel che vi rimprovero, {tic di Garcin) Ancora! Pre-
tendete d'esser gentile e non vi preoccupate del vostro viso. Non
siete solo e non avete il diritto d'infliggermi lo spettacolo della
vostra paura.
{Garcin si alza e le si avvicina)
GARCIN - Non avete paura, voi?
INES - A che serve? La paura, andava bene prima, quando avevamo
ancora della speranza.
GARCIN {con dolcezza) - Non c'è più speranza, ma siamo sempre prima.
Non abbiamo incominciato a soffrire, signorina.
INES - Lo so. (una pausa) Allora? Che cosa accadrà?
PORTE CHIUSE 467
GARciN - Non lo SO. Aspetto.
{un momento di silenzio. Garcin torna a sedersi, Ines ricomincia il
suo andirivieni. Garcin ha un tic alla bocca, pai, dopo un'occhiata
a Ines, nasconde il viso fra le mani. Entrano Estella e il cameriere)
SCENA QUARTA
INES, GARCIN, ESTELLA, IL CAMERIERE
{Estella guarda Garcin che non ha alzato la testa)
ESTELLA {a Garcin) - No! No, no, non alzar la testa. Lo so cosa na-
scondi con le mani, lo so che non hai piò viso. {Garcin si toglie le
mani dal viso) Ah! {una pausa. Con stupore) Non vi conosco.
GARCIN - Non sono il carnefice, signora.
ESTELLA - Non vi avevo preso per il carnefice. Ho... ho creduto che
qualcuno volesse farmi uno scherzo, {d cameriere) Aspettate qual-
cun altro?
IL CAMERIERE - Non Verrà piti nessuno.
ESTELLA {con solUcvo) - Ah! Allora rimarremo soli, il signore, la si-
gnora e io? {si mette a ridere)
GARCIN {seccamente) - Non c'è di che ridere.
ESTELLA {sempre ridendo) - Ma questi divani son cosi brutti. E guar-
date come sono stati disposti, mi sembra d'essere a Capodanno e di
trovarmi in visita dalla zia Maria. Ognuno ha il suo, suppongo.
È questo il mio? {d cameriere) Ma non potrò mai sedermici sopra;
è un disastro: io sono vestita di blu chiaro e questo e verde
scuro.
INES - Volete il mio?
ESTELLA - Il divano bordò? Siete molto gentile, ma sarebbe lo stesso.
No, che volete? A ciascuno il suo: ho avuto quello verde, me lo
tengo, {una pausa) L'unico che mi andrebbe veramente, è quello
del signore.
{un momento di silenzio)
INES - Avete sentito, Garcin?
GARCIN {di soprassdto) - II... divano... Oh! Scusate, {si dza) È vostro,
signora.
ESTELLA - Grazie, {si toglie il soprabito e lo butta sul divano. Una pau-
468 JEAN-PAUL SARTRE
sa) Facciamo conoscenza dato che dobbiamo vivere insieme. Sono
Estella Rigault.
{Garcin s'inchina e sta per dire il suo nome, ma Ines lo precede)
INES - Ines Serrano. Felicissima.
GARCIN {/inchina di nuovo) - Giuseppe Garcin.
IL CAMERIERE - Avete ancora bisogno di me?
ESTELLA - No, andate. Vi chiamerò.
{il cameriere s'inchina ed esce)
SCENA QUINTA
INES, GARCIN, ESTELLA
INES - Siete molto bella. Vorrei aver dei fiori per augurarvi il ben-
venuto.
ESTELLA - Dei fiori? Si. I fiori mi piacevano molto. Qui appassirebbero:
è troppo caldo. Mah! L'essenziale, vero?, è di mantenersi di buon
umore. Voi siete...
INES - Si, la settimana scorsa. E voi?
ESTELLA - Io? Ieri. La cerimonia non è finita, {parla con molta natu-
ralezza, ma come se vedesse ciò che descrive) Il vento agita il velo
di mia sorella. Fa quel che può per piangere. Su! Su! ancora uno
sforzo. Ecco! Due lacrime, due lacrimucce che brillano sotto il velo
nero. Olga Jardet è molto brutta stamani. Sostiene mia sorella per
un braccio. Non piange per via del rimmel e devo dire che al suo
posto... Era la mia migliore amica.
INES - Avete sofferto molto?
ESTELLA - No. Ero piuttosto istupidita.
INES - Che cosa...?
ESTELLA - Una polmonite, {stessa mimica di prima) Ebbene, ecco fatto,
se ne vanno. Buon giorno! Buon giorno! Quante strette di mano.
Mio marito è affranto dal dolore, è rimasto a casa, {a Ines) E voi?
INES - Il gas.
ESTELLA - E voi, signore?
GARCIN - Dodici pallottole in corpo, {gesto di Estella) Scusatemi, non
sono un morto di buona compagnia.
ESTELLA - Oh! caro signore! Vi chiederei solo di non adoperare parole
COSI crude. Mi... mi urtano. E alla fin fine, cosa vuol dire tutto
PORTE CHIUSE 469
ciò? Forse non siamo mai stati cosf vivi. Se si deve per forza dare
un nome a questo... stato di cose, io propongo di chiamarci assenti,
sarà più corretto. Siete assente da molto tempo?
GARCiN - Da un mese circa.
ESTEixA - Di dove siete?
GARciN - Di Rio.
ESTELLA - Io, di Parigi. Avete ancora qualcuno laggiù?
GARciN - Mia moglie, (stessa mimica di Estella) È venuta alla caserma
come ogni giorno; non Thanno lasciata entrare. Guarda attraverso
le sbarre del cancello. Non sa ancora che sono assente, ma se lo
immagina. Se ne va, ora. È tutta vestita di nero. Meglio cosf, non
avrà bisogno di cambiarsi. Non piange; non piangeva mai. Brilla
il sole e lei è tutta nera nella strada deserta, con i suoi occhioni
da vittima. Ahi Mi dà ai nervi.
(un momento di silenzio, Garcin va a sedersi sul divano di centro e
affonda la testa fra le mani)
INES - Estella!
ESTELLA - Signor, signor Garcin I
GAKCiN - Prego?
ESTELLA - Siete seduto sul mio divano.
GARCIN - Scusate, {si alza)
ESTELLA - Avete l'aria cosi assorta.
GARCIN - Metto in ordine la mia vita. {Ines scoppia a ridere) Quelli
che rìdono farebbero meglio ad imitarmi.
INES - È in ordine, la mia vita. Completamente in ordine. Si è messa
in ordine da sé, laggiù, io non ho bisogno di preoccuparmene.
GARCIN - Davvero? Se credete che sia tanto semplice! {si passa una
mano sulla fronte) Che caldo! Permettete? {ja per togliersi la
giacca)
ESTELLA - Ah no! {con pie dolcezza) No. Non posso sopportare gli
uomini in maniche di camicia.
GARCIN {rimettendosi la giacca) - Va bene, {una pausa) Io, passavo le
mìe notti nelle sale di redazione. C'era sempre un caldo da cani.
{una pausa. Stessa mimica di prima) C'è un caldo da cani. È
notte.
ESTELLA - Davvero, si, è già notte. Olga si spoglia. Come passa presto
il tempo, sulla terra.
INES ' È notte. Hanno messo ì sigilli sulla porta della mia camera. E
la camera è vuota nel buio.
GARCIN - Hanno posato le giacche sullo schienale delle sedie e rove-
470 JEAN-PAUL SARTRE
sciato le maniche delle camicie sopra i gomiti. C'è odor d'uomo e
di sigaro, {un momento di silenzio) Mi piaceva vivere in mezzo a
uomini in maniche di camicia.
ESTELLA (seccamente) - Ebbene, non abbiamo gli stessi gusti. Ecco cosa
vuol dire, (verso Ines) Vi piacciono, a voi, gli uomini in maniche
di camicia?
INES - In camicia o no, gli uomini non mi piacciono molto.
ESTELLA (guarda l'uno e l'altra con stupore) - Ma perché, perché ci
hanno riuniti?
INES (con uno scatto represso) - Che dite?
ESTELLA - Vi guardo tutti e due e penso che vivremo insieme... M'aspet-
tavo di ritrovare degli amici, dei parenti.
INES - Un grande amico con un buco in mezzo alla faccia.
ESTELLA - Anche lui. Ballava il tango come un professionista. Ma noi,
noiy perché ci hanno messo insieme?
GARciN - Ebbene, è il caso. Sistemano la gente dove possono, seguendo
l'ordine di arrivo, (a Ines) Perché ridete?
INES - Perché siete divertente col vostro caso. Avete cosi bisogno di
rassicurarvi? Loro non lasciano nulla al caso.
ESTELLA (timidamente) - Ma forse ci siamo già incontrati altrove?
INES - Mai. Non vi avrei dimenticata.
ESTELLA - O allora? Abbiamo forse delle relazioni comuni? Conoscete
i Dubois-Seymour?
INES - Mi stupirebbe.
ESTELLA - Ricevono tutti.
INES - Cosa fanno?
ESTELLA (sorpresa) - Non fanno nulla. Hanno un castello in Corrèze
e...
INES - Io, ero impiegata alle Poste.
ESTELLA (indietreggiando lievemente) - Ah? Allora effettivamente?...
(una pausa) E voi, signor Garcin?
GARciN - Non ho mai lasciato Rio.
ESTELLA - Se è COSI, avete perfettamente ragione: è il caso che ci ha
riuniti.
INES - Il caso. Allora questi mobili sono qui per caso. È per caso che
il divano di destra è verde scuro e quello di sinistra e rosso bordò.
Un caso, vero? Ebbene, provate un po' a cambiarli di posto e poi
me lo direte. E la statua di bronzo, anche quella è un caso? E
questo caldo? E questo caldo? (un momento di silenzio) Quando
vi dico che hanno regolato tutto. Fin nei minimi particolari, con
amore. Questa stanza aspettava noi.
. PORTE CHIV8E 471
ESTELLA - Ma come volete che sia possibile? Tutto è cosi brutto, qui,
COSI duro, COSI angoloso. Io detestavo gli angoli.
INES (stringendosi nelle spalle) - Credete forse che io vivessi in un
salotto Secondo Impero?
{una pausa)
ESTELLA - Allora tutto è previsto?
INES - Tutto. E noi siamo assortiti.
ESTELLA - Non è per caso che voi siete di fronte a mei (una pausa)
Che cosa aspettano?
INES ' Non lo so. Ma aspettano.
ESTELLA - Non posso Sopportare che qualcuno aspetti qualcosa da me.
È una cosa che mi fa venir subito la voglia di fare il contrario.
INES - Ebbene, fatelo I Fatelo allora! Non sapete neppure quello che
vogliono.
ESTELLA (battendo i piedi) - È insopportabile! E mi deve capitare qual-
che cosa da parte vostra? (// guarda) Da voi due. C'erano dei visi
che mi parlavano subito. E i vostri non mi dicon nulla.
GARciN (bruscamente a Ines) - Allora, perché siamo insieme? Avete
parlato troppo: andate fino in fondo.
INES (stupita) - Ma non ne so assolutamente nulla.
GARCiN - Bisogna saperlo, (riflette un momento)
INES - Se almeno ciascuno di noi avesse il coraggio di dire...
GARciN - Cosa?
INES - Estella!
ESTELLA - Prego?
INES - Che avete fatto? Perché vi hanno mandata qui?
ESTELLA (vivacemente) - Ma non so, non so proprio? Mi chiedo perfino
se non si tratta di un errore, (a Ines) Non sorridete. Pensate quanti
sono quelli che... che si assentano ogni giorno. Vengono qui a mi-
gliaia e si trovano a contatto solo con dei subalterni, con degli im-
piegati senza istruzione. Come volete che non capiti un errore. Ma
non sorridete, (a Garcin) E voi, dite qualcosa. Se si sono sba^iati
nel mìo caso, possono essersi sbagliati nel vostro, (a Ines) E anche
nel vostro. Non è forse meglio credere che siamo qui per sbaglio?
INES - È tutto quello che avete da dirci?
ESTELLA ' Che altro volete sapere? Non ho nulla da nascondere. Ero
orfana e povera, mi occupavo del mio fratello minore. Un vecchio
amico di mio padre ha chiesto la mia mano. Era ricco, e buono, ho
accettato. Che avreste fatto voi al mio posto? Mio fratello era ma-
lato e la sua salute aveva bisogno di grandi cure. Ho vissuto sei
anni con mio marito senza mai una nube. Due anni fa, ho incon-
472 JEAN-PAUL SARTRE
trato quello che dovevo amare. Ci siamo riconosciuti subito, voleva
che io partissi con lui e ho rifiutato. Dopo, ho avuto la polmonite.
Ecco tutto. Forse si potrebbe, in nome di certi principi, rimprove-
rarmi d'aver sacrificato la mia giovinezza a un vecchio, {a Gardn)
Credete che sia una colpa?
GARciN - No, certo, (una pausa) E voi, pensate che sia una colpa vivere
secondo i propri principi?
ESTELLA - Chi potrebbe rimproverarvelo?
GARciN - Dirigevo un giornale pacifista. Scoppia la guerra. Che fare?
Avevano tutti gli occhi fissi su di me. « Oserà? ». Ebbene, ho osato.
Ho incrociato le braccia e loro mi hanno fucilato. Dov'è la colpa?
Dov'è la colpa?
ESTELLA {gli posa la mano sul braccio) - Non c'è nessuna colpa. Voi
siete...
INES (conclude ironicamente) - Un Eroe. E vostra moglie, Garcin?
GARciN - Ebbene, ecco. L'ho tolta dalla strada.
ESTELLA (a Ines) - Vedete! Vedete!
INES - Vedo, (una pausa) Per chi recitate la commedia? Siamo fra noi.
ESTELLA (con insolcnzo) ' Fra noi?
INES - Fra assassini. Siamo all'inferno, bimba mia, e non esistono er-
rori e non si dannano mai le persone per nulla.
ESTELLA - Tacete.
INES - All'inferno! Dannati! Dannati!
ESTELLA - State zitta. Volete stare zitta? Vi proibisco di adoperare delle
parole grossolane.
INES - Dannata, la santarellina. Dannato, l'eroe senza macchia. Abbia-
mo avuto la nostra ora di piacere, non è vero? C'è chi ha sofferto
per noi fino alla morte e questo ci divertiva molto. Ora bisogna
pagare.
GARCIN (con la mano alzata) - Ci starete zitta?
INES ilo guarda senza paura, ma con un'immensa sorpresa) - Ah! (una
pausa) Aspettate! Ho capito, so perché ci hanno messo insieme!
GARCIN - Fate attenzione a quello che direte.
INES - Vedrete com'è sciocco. Sciocco come una rapa. Non c'è tortura
fisica, non è vero? Eppure, siamo all'inferno. E non deve venire
nessuno. Nessuno. Staremo soli, insieme sino alla fine. Non è così?
Insomma, c'è qualcuno che manca qui: è il boia.
GARCIN (sottovoce) - Lo SO bene.
INES - Ebbene, sono riusciti a realizzare un'economia di personale.
Ecco tutto. Sono i clienti che fanno il servizio da se stessi, come in
quei ristoranti in cui ognuno si serve da sé.
PORTE CHIUSE 473
ESTELLA - Cosa volctc dire?
INES - Il carnefice è ciascuno di noi per gli altri due.
(una pausa. Digeriscono la notizia)
GARciN (con voce dolce) - Io non sarò il vostro carnefice. Non desidero
farvi del male e non ho niente a che fare con voi. Niente. È sempli-
cissimo. Allora ecco: ciascuno al proprio posto; facciamo bella mo-
stra. Voi qui, voi qua, io là. E silenzio. Non una parola: non è
difficile, vero: ciascuno di noi ha abbastanza da fare con se stesso.
Credo, in quanto a me, che potrei stare diecimila anni senza
parlare.
ESTELLA - Devo Stare zitta?
GARciN - Si. E noi... saremo salvi. Tacere. Guardare in se stessi, senza
mai alzar la testa. D'accordo?
INES - D'accordo.
ESTELLA (dopo un attimo d'esitazione) - D'accordo.
GARciN - Allora, addio
(va verso il suo divano e si mette la testa fra le mani. Silenzio, Ines ss
mette a cantare per sé sola)
INES - Nella via dei Mantelli Bianchi
Hanno innalzato dei palchi
E messo della segatura in un secchio;
E era un patibolo.
Nella via dei Mantelli Bianchi.
Nella via dei Mantelli Bianchi
Il carnefice s'è alzato presto
Perché aveva del lavoro;
Deve decapitare dei Generali,
dei Vescovi, degli Ammiragli,
Nella via dei Mantelli Bianchi.
Nella via dei Mantelli Bianchi
Son venute delle signore eleganti
Con dei bei fronzoli in mostra.
Ma mancava loro la testa:
Era rotolata di lassù.
La testa col cappello.
Nel ruscello dei Mantelli Bianchi.
474 JEAN-PAUL SARTRE
{mentre canta, Estella si passa la cipria e si dà il rossetto. Estella s'in-
cipria e si volge intomo cercando uno specchio con aria inquieta.
Fruga nella borsetta e poi si rivolge a Garcin)
ESTELLA - Signore, avete uno specchio? (Garcin non rispande) Uno
specchio, uno specchietto tascabile, qualunque cosa? (Garcin non
risponde) Se mi lasciate sola sola, procuratemi almeno uno spec-
chio.
(Garcin continua a tenere la testa fra le mani, senza rispondere)
INES (con premura) - Ce Tho io uno specchio nella borsetta, (fruga
nella borsetta. Con stizza) Non ce l'ho più. Han dovuto toglier-
melo in tribunale.
ESTELLA - Com'è seccante.
(una pausa. Chiude gli occhi e vaàlla, Ines si precipita e la sorregge)
INES - Cosa avete?
ESTELLA (riapre gli occhi e sorride) - Mi sento strana, (si tocca) Non
vi fa lo stesso effetto, a voi: quando non mi vedo, ho un bel toc-
carmi, mi chiedo se esisto veramente.
INES - Siete fortunata. Io mi sento sempre dall'interno.
ESTELLA - Ah! SI, dall'interno... Tutto quello che accade nelle teste è
COSI vago, mi fa addormentare, (una pausa) Ci sono sei grandi
specchi nella mia camera. Li vedo. Li vedo. Ma loro non mi ve-
dono. Riflettono la poltrona, il tappeto, la finestra... com'è vuoto
uno specchio in cui non ci sono io. Quando parlavo, facevo in modo
che ce ne fosse uno in cui potessi guardarmi. Io parlavo, mi vedevo
parlare. Mi vedevo come gli altri mi vedevano, e questo mi te-
neva sveglia, (con disperazione) Il rossetto! Sono sicura che l'ho
messo male. Eppure non posso rimanere senza specchio per tutta
l'eternità.
INES - Volete che vi serva io da specchio? Venite, vi invito da me.
Sedetevi sul mio divano.
ESTELLA (indica Garcin) - Ma...
INES - Non occupiamoci di lui.
ESTELLA - Ci faremo del male, l'avete detto voi.
INES - Ho forse l'aria di volervi nuocere?
ESTELLA - Non si sa mai...
INES - Sei tu che mi farai del male. Ma che m'importa. Se devo sof-
frire, tanto vale che sia per causa tua. Siediti. Avvicinati. Ancora.
Guarda nei miei occhi: cosa ci vedi?
PORTE CHIUSE 475
ESTELLA - Sono piccoU piccola. Mi vedo molto male.
INES - Ma io sf, ti vedo. Tutta intera. Fammi delle domande. Nessun
specchio sarà più fedele.
{^stella, impacciata, si volge verso Garcin, come per chiedergli aiuto)
ESTELLA - Signore! Signore! Non vi annoiamo con le nostre chiac-
chiere?
{Garcin non risponde)
INES ' Lascialo stare; non conta più; siamo sole. Interrogami.
ESTELLA - Ho messo bene il rossetto?
INES - Fa' vedere. No, non molto.
ESTELLA - Me l'immaginavo. Per fortuna {getta un'occhiata a Garcin)
non mi ha vista nessuno. Me lo ridòé
INES - Cosi va meglio. No. Segui il disegno delle labbra; ti guiderò io.
Là, là. Va bene.
ESTELLA - Bene come prima, quando sono entrata?
INES - Meglio, più accentuato, più crudele. La tua bocca d'inferno.
ESTELLA - Hum! E va bene? Com'è seccante, non posso più giudicare
da me. Mi giurate che va bene?
INES - Non vuoi che ci si dia del tu?
ESTELLA - Mi giuri che va bene?
INES - Sei bella.
ESTELLA - Ma avete gusto voi? Avete il mio gusto? Com'è seccante,
com'è seccante.
INES - Ho il tuo gusto, giacché tu mi piaci. Guardami bene. Sorri-
dimi. Neanch'io sono brutta. Non valgo forse più di uno specchio?
ESTELLA - Non lo SO. M'intimidite. La mia immagine riflessa negli
specchi era addomesticata. La conoscevo cosi bene... Sorriderò: il
mio sorriso andrà fino in fondo alle vostre pupille e Dio sa che cosa
diventerà.
INES - E chi t'impedisce di addomesticarmi? {si guardano. Estella sor-
ride, un po' affascinata) Non vuoi proprio darmi del tu?
ESTELLA - Provo difficoltà a dar del tu alle donne.
INES - E in particolare alle impiegate di posta, suppongo? Che cos'hai
là, in fondo alla guancia? Una macchia rossa?
ESTELLA {sussultando) - Una macchia rossa, che orrore! E dove?
INES - Là! là! Sono lo specchietto per le allodole; ti tengo, mia lodo-
letta. Non c'è nessun arrossamento. Neppure piccolissimo. Eh? Se
lo specchio si mettesse a mentire? Oppure se chiudessi gli occhi,
se rifiutassi di guardarti, che ne faresti di tutta codesta bellezza?
476 JEAN-PAUL SARTRE
Non aver paura: bisogna che ti guardi, i mici occhi rimarranno
spalancati. E sarò gentile, gentile gentile. Ma tu mi dirai: tu.
{una pausa)
ESTELLA - Ti piaccio?
INES - Molto.
{una pausa)
ESTELLA {indicando Garcin, con un movimento della testa) - Vorrei
che mi guardasse anche lui.
INES - Ah! Perche è uomo, {a Garcin) Avete vinto. {Garcin non ri-
sponde) Ma guardatela, su! {Garcin non risponde) Non fate la
commedia; non avete perduto una sillaba di quel che dicevamo.
GARCIN (alzando bruscamente la testa) - Potete ben dirlo, non una
sillaba: avevo voglia di mettermi le dita nelle orecchie, mi chiac-
chieravate nella testa. Mi lascerete stare, ora? Non ho nulla a che
fare con voi.
INES - E con la piccola, avete a che fare? Ho visto il vostro maneggio:
è per rendervi interessante che vi siete dato delle arie.
GARCIN - Vi dico di lasciarmi stare. C'è qualcuno che parla di me al
giornale e vorrei ascoltare. Me ne infischio della piccola, se questo
può tranquillizzarvi.
ESTELLA - Grazie.
GARCIN - Non volevo essere sgarbato...
ESTELLA - Villano!
{una pausa. Sono in piedi uno in faccia all'altro)
GARCIN - Ecco fatto! {una pausa) Vi avevo supplicato di tacere.
ESTELLA - È lei che ha cominciato. È venuta a offrirmi il suo specchietto
e io non le chiedevo nulla.
INES - Nulla. Solo che ti strusciavi contro di lui e facevi delle smorfie
perché ti guardasse.
ESTELLA - E poi?
GARCIN - Siete pazze? Non vedete proprio dove andiamo a finire. Ma
state zitte! (una pausa) Ci metteremo di nuovo a sedere molto tran-
quillamente, chiuderemo gli occhi e ciascuno di noi cercherà di di-
menticare la presenza degli altri.
{una pausa. Si siede di nuovo, Ines e Estella vanno al loro posto con
passo esitante, Ines si volta bruscamente)
INES - Ah! dimenticare. Che puerilità! Sento la vostra presenza fin nelle
ossa. Il vostro silenzio mi grida nelle orecchie. Potete inchiodarvi
PORTE CHIUSE 477
la bocca, potete tagliarvi la lingua, vi impedirete forse di esistere?
Fermerete il pensiero? Io lo sento, fa tic tac, come una sveglia e
so che anche voi sentite il mio. Avete un bel rincantucciarvi sul vo-
stro divano, siete dappertutto, i suoni mi arrivano sporcati perché
li avete sentiti voi mentre passavano. Mi avete rubato perfino il viso;
voi lo conoscete e io non lo conosco. E lei? lei? me l'avete rubata:
se fossimo sole, credete che oserebbe trattarmi come mi tratta? No,
no: via quelle mani dal viso, non vi lascerò stare, sarebbe troppo
comodo. Restereste là, insensibile, immerso in voi stesso come un
budda; ma, anche se avessi gli occhi chiusi, sentirei che lei vi de-
dica tutti i rumori della sua vita, fino al fruscio del suo vestito, e
che vi rivolge dei sorrìsi che voi non vedete... Non voglio questo!
Voglio scegliere il mio inferno: voglio guardarvi con occhi bene
aperti e lottare a viso scoperto.
GARciN - Va bene. Credo che bisognasse arrivare a questo punto; ci han-
no giocato come dei bambini. Se mi avessero messo con degli uo-
mini... gli uomini sanno stare zitti. Ma non bisogna chiedere trop-
po, (t/a verso Estella e le passa la mano sotto il mento) Allora, pic-
cola, ti piaccio? A quanto pare mi facevi Tocchiolino?
ESTELLA - Non toccatemi.
GARciN . Bah! Non facciamo complimenti. Le donne mi piacevano mol-
to, sai? Ed io piacevo molto a loro. Non far complimenti, non ab-
biamo piò nulla da perdere. Della gentilezza, e perché? Delle ceri-
monie, e perché? Fra noi! Fra poco saremo nudi come bruchi.
ESTELLA - Lasciatemi!
GARciN - Come bruchi! Ah! vi avevo avvertite. Non vi chiedevo nulla,
nuU'altro che la pace e un po' di silenzio. M'ero messo le dita
nelle orecchie. C'era Gomez che parlava in piedi fra i tavoli, e
tutti gli amici del giornale ascoltavano. In maniche di camicia.
Volevo capire quel che dicevano, era difficile: gli avvenimenti
della terra passano cosf alla svelta. Non potevate proprio stare zitte?
Ora, tutto è finito, non parla piò, quello che pensa di me gli è
rientrato in testa. Ebbene, dovremo andare fino in fondo. Nudi co-
me bruchi: voglio sapere con chi ho a che fare.
INES - Lo sapete. Ora lo sapete.
GARciN - Finché ognuno di noi non avrà confessato il motivo per cui
l'hanno condannato, non sapremo nulla. Tu, bionda, comincia tu.
Perché. Dicci perché: la tua franchezza può evitare delle catastrofi;
quando conosceremo i nostri mostri... Su, perché?
ESTELLA - Quando vi dico che non lo so. Non hanno voluto dirmelo.
CARciN - Lo so. Neppure a me hanno voluto rispondere. Ma io mi co-
478 JEAN-PAUL SARTRE
nosco. Hai paura a parlare per prima? Benissimo. Comincerò io.
{un momento di silenzio) Non son bello davvero.
INES - No certo. Si sa che avete disertato.
GARciN - Lasciate stare. Non parlate mai di questo. Son qui perché
ho torturato mia moglie. Ecco tutto. Per cinque anni. Beninteso,
lei continua a soffrire. Eccola; non appena parlo di lei, la vedo. È
Gomez che m'interessa ed è lei quella che vedo. Dov'è Gomcz?
Per cinque anni. Pensate un po', le hanno restituito i miei vestiti;
lei è seduta vicino alla finestra e ha preso la mia giacca sulle ginoc-
chia. Una giacca con dodici buchi. Il sangue, si direbbe della rug-
gine. Gli orli dei buchi sono arrossati. Ah! È un pezzo da museo,
una giacca storica. E io Tho portata! Piangerai? Finirai per pian-
gere? Rientravo ubriaco fradicio, puzzavo di vino e di donne. Lei
mi aveva aspettato tutta la notte; non piangeva. Mai un rimpro-
vero, naturalmente. I suoi occhi, soltanto. I suoi occhioni. Non rim-
piango nulla. Pagherò, ma non rimpiango nulla. Fuori nevica. Ma
piangerai? È una donna che ha la vocazione del martirio.
INES {quasi con dolcezza) - Perché Tavete fatta soffrire?
GARciN - Perché era facile. Bastava una parola per farla cambiare di
colore; era una sensitiva. Ah! Mai un rimprovero! Sono molto pun
tiglioso. Aspettavo, aspettavo sempre. Ma no, non una lacrima, non
un rimprovero. L'avevo tolta dalla strada, capite? Passa la mano
sulla giacca, senza guardarla. Le sue dita cercano a tastoni i buchi.
Che aspetti? Che speri? Ti dico che non ho rimpianti. Insomma,
ecco: mi ammirava troppo. Capite?
INES - No. Nessuno mi ammirava.
GARciN - Tanto meglio. Tanto meglio per voi. Tutto questo deve sem-
brarvi astratto. Ebbene, ecco un episodio: m'ero portato a casa una
mulatta. Che notti! Mia moglie dormiva al primo piano, ci sentiva
certamente. Sì alzava per prima e, siccome noi passavamo la mat-
tinata a letto, lei ci portava la colazione.
INES - Lurido!
GARciN - Ma SI, ma si, il lurido beneamato. {sembra distratto) No, nul-
la. È Gomez, ma non parla di me. Un lurido, dicevate? Diamine:
se no, cosa farei qui? E voi?
INES - Ebbene, ero quel che chiamano, laggiù, una donna dannata.
Già dannata, vero? Allora, non è stata una gran sorpresa.
GARciN - Tutto qui?
INES - No, c'è anche quella storia con Fiorenza. Ma è una storia di
morti. Tre morti. Lui prima, poi lei e io. Non resta piò nessuno
laggiù, sono tranquilla; soltanto la camera. Vedo la camera di tanto
PORTE CHIUSE 479
in tanto. Vuota, con le imposte chiuse. Ah! Ah! Hanno finito per
togliere i sigilli. Affittasi... E da affittare. C*è un cartello sulla porta.
È ridicolo.
GARciN - Tre. Avete proprio detto tre?
INES - Tre.
GARciN - Un uomo e due donne.
INES - Si.
GARciN - Guarda, {un momento di silenzio) Lui s'è ucciso?
INES - Lui? Non ne era capace. Eppure, non era davvero per non aver
sofferto. No: l'ha schiacciato un tram. Roba da ridere! Abitavo da
loro, era mio cugino.
GARciN - Fiorenza era bionda ì^
INES - Bionda? (uno sguardo a Estella) Sapete, non rimpiango nulla,
ma non mi diverto poi tanto a raccontarvi questa storia.
GARciN - Via! via! Lui vi aveva nauseata?
INES - Piano piano. Una parola ora, una domani. Per esempio, faceva
rumore quando beveva; soffiava col naso dentro il bicchiere. Cose
da nulla. Oh! Era un poveraccio, vulnerabile. Perché sorridete?
GARciN - Perché io non sono vulnerabile.
INES - È una cosa da vedersi. Io sono entrata dentro di lei, lei Tha
visto coi miei occhi... Per farla corta, m'è rimasta sulle braccia.
Abbiamo preso una camera nella parte opposta della città.
GARciN - Allora?
INES - Allora c'è stato quel tram. Le dicevo tutti i giorni: ebbene,
bimba mia! L'abbiamo ucciso, {un momento di silenzio) Sono cat-
tiva.
GARciN - Si. Anch'io.
INES - No, voi, voi non siete cattivo. È un'altra cosa.
GARCiN - Come?
INES - Poi ve Io dirò. Io si, sono cattiva: voglio dire che ho bisogno
della sofferenza degli altri per esistere. Una vera torcia. Una torcia
nei cuori. Quando sono sola, mi spengo. Per sei mesi, ho bruciato
nel suo cuore; ho bruciato tutto. Una notte lei si è alzata; è andata
ad aprire il rubinetto del gas senza farsene accorgere, e poi è tor-
nata a letto accanto a me. Ecco.
GARciN - Hum!
INES - Come?
GARciN - Nulla. Non è una bella cosa.
INES - Ebbene, no, non è bella. E con questo?
GARciN - Oh! avete ragione, {a Estella) Tocca a te. Cosa hai fatto?
480 JEAN-PAUL SARTRE
ESTELLA - Vi ho già dctto chc non ne sapevo nulla. Ho un bell'inter-
rogarmi...
GARciN - Va bene. Allora, ti aiuteremo noi. Quel tipo dalla faccia spac-
cata, chi è?
ESTELLA - Quale tipo?
INES - Lo sai benissimo. Quello di cui avevi paura, quando sei entrata.
ESTELLA - È un amìco.
GARciN - Perché avevi paura di lui?
ESTELLA - Non avete il diritto d'interrogarmi.
INES - S*è ammazzato per colpa tua?
ESTELLA - Ma no, siete pazza.
GARciN - Allora, perché ti faceva paura? S'è tirato una fucilata in fac-
cia, eh? È questo che gli ha portato via la testa?
ESTELLA - Tacete! tacete!
GARciN - Per colpa tua! Per colpa tua!
INES - Una fucilata per colpa tua.
ESTELLA - Lasciatemi in pace. Mi fate paura. Voglio andarmene! Vo-
glio andarmene Y {si precipita verso la porta e la scuote)
GARciN - Vattene. Io non chiedo di meglio. Solo che la porta è chiusa
dal di fuori.
{Estella suona; il campanello non si sente, Ines e Garcin ridono.
Estella si volta verso di loro, addossandosi alla porta)
ESTELLA {con vocc roucu e lentamente) - Siete ignobili.
INES - Esattamente, ignobili. E con questo? Dunque quel tipo s'è am-
mazzato per colpa tua. Era il tuo amante?
GARCIN - Naturalmente, era il suo amante. E ha voluto averla per sé
solo. Non è vero?
INES - Ballava il tango come un professionista, ma era povero, m'im-
magino.
{un momento di silenzio)
GARCIN - Ti stiamo chiedendo se era povero.
ESTELLA - Si, era povero.
GARCIN - E poi, tu avevi la tua reputazione da salvare. Un giorno è
venuto, ti ha supplicato, e tu ti sei messa a rìdere.
INES - Eh? Eh? Ti sei messa a ridere? È per questo che s'è ammaz-
zato?
ESTELLA - È con codcsti occhi che guardavi Fiorenza?
INES - Si.
{una pausa. Estella si mette a ridere)
PORTE CHIUSE 481
ESTELLA - Non ci avctc azzeccato, (si raddrizza e li guarda, rimanendo
sempre appoggiata dia porta. Con tono secco e provocante) Voleva
farmi fare un bimbo. Ecco, siete contenti?
GARciN - E tu, non ne volevi sapere.
ESTELLA - No. Il bimbo è venuto lo stesso. Sono andata a passare cin-
que mesi in Svizzera. Nessuno ha saputo nulla. Era una bambina.
Ruggero era con me quando è nata. Avere una figlia lo divertiva.
Me, no.
GARciN - E poi?
ESTELLA ' C era un balcone, sopra un lago. Ho portato una gran pie-
tra. Lui gridava: « Estella, ti prego, ti supplico ». Lo detestavo. Ha
visto tutto. Se affacciato al balcone e ha visto dei cerchi sul lago.
GARciN - E poi?
ESTELLA - Poi basta. Sono tornata a Parigi. Lui ha fatto quel che ha
voluto.
GARciN - S*è fatto saltare le cervella?
ESTELLA - Eh SI. Non ne valeva la pena; mio marito non s'è mai ac-
corto di nulla, {una pausa) Vi odio, {ha una crisi di singhiozzi
senza lacrime)
GARciN - È inutile. Qui non esistono lacrime.
ESTELLA - Sono vile! Sono vile, {una pausa) Se sapeste quanto vi odio!
INES {abbracciandola) - Povera piccola mia! {a Garcin) L'inchiesta è
finita. Inutile continuare ad avere codesto muso da carnefice.
GARCIN - Da carnefice... {si guarda intorno) Darei qualunque cosa per
vedermi in uno specchio, {una pausa) Come fa caldo! {si toglie
macchinalmente la giacca) Oh! scusate, {fa il gesto di rimettersela)
ESTELLA - Potete rimanere in maniche di camicia. Ora...
GARCIN - Si. {getta la giacca sul divano) Non dovete essere in collera
con me, Estella.
ESTELLA - Non souo in collera con voi.
INES - E con me? Sei in collera con me?
ESTELLA - Si.
{un momento di silenzio)
INES - Ebbene, Garcin? Eccoci qui nudi come bruchi, ci vedete più
chiaro?
GARCIN - Non lo so. Forse un po' più chiaro, {timidamente) Non po-
tremmo cercare di aiutarci uno con l'altro?
INES - Non ho bisogno di aiuto.
GARCIN - Ines, hanno ingarbugliato tutti i fili. Al minimo gesto che
fate, se alzate la mano per farvi vento, Estella e io sentiamo una
31. - Ttrairo francese
482 JEAN-PAUL SARTRE
scossa. Nessuno di noi può salvarsi da solo; dobbiamo perderci o
trarci d'impaccio insieme. Scegliete, {una pausa) Che c'è?
INES - L'hanno affittata. Le finestre sono spalancate, c'è un uomo se-
duto sul mio letto. L'hanno affittata! l'hanno affittata! Entrate, en-
trate pure, fate il vostro comodo. È una donna. Si avvicina a lui
e gli mette le mani sulle spalle... Che cosa aspettano per accendere
la luce; non ci si vede più; stanno forse per baciarsi? Quella è
camera mia! È mia! E perché non accendono? Non riesco piò a
vederli. Che cosa bisbigliano? La accarezzerà sul mìo letto. Lei gli
dice che è mezzogiorno e che c'è tanto sole. Allora, vuol dire che
divento cieca, (una pausa) Finito. Pid nulla: non vedo più, non
sento più. Ebbene, penso d'averla finita con la terra. Non piò
alibi, (rabbrividendo) Mi sento vuota. Ora si, son morta del tutto.
Sono qui tutta quanta, {una pausa) Dicevate? Parlavate di aiutar-
mi, credo?
GARCIN - Si.
INES - A che cosa?
GARCIN - A sventare le loro astuzie.
INES - E io, in cambio?
GARCIN - Mi aiuterete. Ci vorrebbe poco, Ines: giusto un po' di buona
volontà.
INES - Della buona volontà... Dove volete che ne prenda? Sono marcia.
GARCIN - E io? {una pausa) Eppure, se provassimo?
INES - Sono arida. Non posso né dare, né ricevere; come volete che vi
aiuti? Un ramo secco, sta per prender fuoco, {una pausa; guarda
Estella che si tiene la testa fra le mani) Fiorenza era bionda.
GARCIN - Lo sapete che questa piccola sarà il vostro carnefice?
INES - Può darsi che me lo immagini.
GARCIN - È per suo mezzo che vi avranno.* Per quel che mi riguarda,
io... io... non le do nessuna importanza. Se da parte vostra...
INES - Cosa?
GARCIN - È una trappola. Vi spiano per sapere se ci cascherete.
INES - Lo so. E voi, siete voi una trappola. Credete forse che non ab-
biano previsto le vostre parole? E che non vi si nascondano dei
trabocchetti che non possiamo vedere? Tutto è trappola. Ma cosa
importa? Anch'io sono una trappola. Una trappola per lei. E forse
sarò io a pigliarcela.
GARCIN - Voi non piglierete nulla. Noi ci rincorriamo come i cavalli di
legno delle giostre, senza raggiungerci mai; state pur sicura che
hanno predisposto tutto. Lasciate perdere, Ines. Aprite le mani^
lasciate andare. Se no, causerete la disgrazia di tutti e tre.
PORTE CHIUSB 483
INES - Son forse un tipo da lasciare andare? So quel che mi aspetta.
Brucerò, brucio e so che non avrà fine; so tutto: credete che la-
scerò andare? L'avrò, lei vi vedrà coi miei occhi, come Fiorenza
vedeva l'altro. Cosa venite a parlarmi della vostra disgrazia: vi
dico che so tutto e che non posso neppure aver pietà di me. Una
trappola, ah! una trappola. Certo che son caduta nella trappola. E
con dò? Tanto meglio, se sono contenti.
GARciN (afferrandola per le spalle) - Io posso aver pietà di voi. Guar-
datemi: siamo nudi. Nudi fino al midollo e io vi conosco fino al
cuore. È un legame: credete che vorrei farvi del male? Non rim-
piango nulla, non mi lamento; anch'io sono arido. Ma di voi posso
avere pietà.
INES {che l'ha lasciato fare mentre parlava, si scuote) - Non toccatemi.
Non sopporto che mi si tocchi. E tenetevi la vostra pietà. Andia-
mo! Ci sono molte trappole anche per voi, Garcin, in questa stanza.
Per voi. Preparate per voi. Fareste meglio ad occuparvi dei vostri
affari, {una pausa) Se ci lascerete completamente tranquille, la pic-
cola e me, farò in modo da non nuocervi.
GARCIN {la guarda un momento, poi alza le spalle) - Va bene.
ESTELLA {alzando la testa) - Aiuto, Garcin.
GARCIN - Cosa volete da me?
ESTELLA {dzandosi e avvicinandosi a lui) - Me, potete aiutarmi.
GARCIN - Rivolgetevi a lei.
{Ines s'è avvicinata, si mette vicinissima a Estella, die sue spalle, senza
toccarla. Durante le battute seguenti, le parlerà quasi df orecchio.
Ma Estella, rivolta verso Garcin, che la guarda senza parlare, ri-
sponde unicamente a lui, come se fosse lui ad interrogarla)
ESTELLA - Ve ne prego, avete promesso, Garcin, avete promesso! Pre-
sto, presto, non voglio rimaner sola. Olga l'ha portato a ballare.
INES - Chi ha portato?
ESTELLA - Pietro. Ballano insieme.
INES - Chi è Pietro?
ESTELLA - Uno stupidcUo. Mi chiamava la sua acqua viva. Mi amava.
E lei l'ha portato a ballare.
INES - Lo ami?
ESTELLA - Ritornano al tavolo. Lei non ne può più. Perché balla? A
meno che non sia per dimagrire. Certo no. Certo che non l'ama-
vo: ha diciotto anni e io non sono un'orchessa, io.
INES - Allora lasciali stare. Che te ne importa?
ESTELLA - Era mio.
484 JEAN-PAUL SARTRE
INES - Non c'è più nulla di tuo sulla terra.
ESTELLA - Era mio.
INES - Si, era.y Prova a prenderlo, prova a toccarlo. Olga può toccarlo,
lei. Non è vero? Non è vero? Lei può prendergli le mani, sfio-
rargli il ginocchio.
ESTELLA - Gli avvicina il suo petto enorme, gli respira sul viso. Pol-
licino, povero Pollicino, che aspetti per scoppiarle a ridere in fac-
cia? Ah! Mi sarebbe bastato uno sguardo, lei non avrebbe mai
osato... Davvero non sono più nulla?
INES - Più nulla. Non c'è più nulla di tuo sulla terra: tutto quel che
t'appartiene è qui. Vuoi il tagliacarte? La statua di bronzo di Bar-
bedienne? Il divano azzurro è tuo. E io, bimba mia, io sono tua
per sempre.
ESTELLA - Ah! Mia? Ebbene, chi di voi due oserebbe chiamarmi la
sua acqua viva? Non vi s'inganna, voi altri, voi lo sapete che sono
una lordura. Pensa a me, Pietro, pensa solo a me, difendimi; fin-
ché tu pensi: la mia acqua viva, la mia cara acqua viva, io sono
qui solo per metà, sono colpevole solo per metà, sono acqua viva
laggiù, vicino a te. Lei è rossa come un pomodoro. Ma via, è
impossibile: cento volte abbiamo rìso insieme di lei. Che cos'è quel-
l'aria là? Mi piaceva tanto! Ah! è Saint Ljouìs Blues.., Ebbene, bal-
late, ballate. Vi divertireste, Garcin, se poteste vederla. E lei non
saprà mai che io la vedo. Ti vedo, ti vedo, tutta spettinata, la fac-
cia sfatta, vedo che gli pesti i piedi. C'è da morir da ridere. Via!
Più svelto! Lui la tira, la spinge. È una cosa indecente. Più svelto!
Mi diceva: siete cosi leggera. Su, Su! (balla mentre parlai Ti dico
che ti vedo. Lei se n'infischia, balla attraverso il mio sguardo. La
nostra cara Estella! Cosa, la nostra cara Estella! Ah! Ma taci! Non
hai neppure versato una lacrima al trasporto. Lei gli ha detto (da
nostra cara Estella ». Ha la faccia tosta di parlargli di me. Su! a
tempo. Lei non è certo capace di parlare e ballare nello stesso tem-
po. Ma cosa fa... No! no! non glielo dire! te lo lascio, portalo via,
tientelo, fanne quel che vuoi, ma non dirgli... (ha smesso di bal-
lare) Va bene. Va bene, puoi tenertelo ora. Gli ha detto tutto, Gar-
cin: Ruggero, il viaggio in Svizzera, il bimbo, gli ha raccontato
tutto. «La nostra cara Estella non era...» No, no, effettivamente
non ero... Lui scuote la testa con aria triste, ma non si può dire che
la notizia l'abbia sconvolto... Tientelo ora. Non sono certo le sue
lunghe ciglia né il suo aspetto da ragazzina, che io ti contenderò.
Ah! mi chiamava la sua acqua viva, il suo cristallo. Ebbene, il
cristallo è in briciole. «La nostra cara Estella ». Ballate, ballate, su!
PORTE CHIUSE 485
A tempo. Uno, due. (balla) Darei tutto al mondo per ritornare
sulla terra un istante, un solo istante, e per ballare, (balla; una
pausa) Non sento più molto bene. Hanno spento le luci come per
un tango; perché suonano in sordina? Più forte! Com'è lontano!
Non... non sento più nulla, (smette di ballare) Mai più. La terra
m'ha lasciato. Garcin, guardami, prendimi fra le braccia.
. (Ines, dietro le spalle di Estella, fa segno a Garcin di allontanarsi)
INES (imperiosamente) - Garcin!
GARCIN (indietreggia d'un passo e indica Ines a Estella) - Rivolgetevi
a lei.
ESTELLA (l'afferra) - Non andatevene! Siete un uomo, no? Ma guarda-
temi dunque, non guardate altrove: è dunque cosi penoso? Ho i
capelli d'oro, e, dopo tutto, c'è stato qualcuno che s'è ammazzato
per me. Vi supplico, bisogna pure che guardiate qualche cosa. Se
non guardate me, guarderete la statua di bronzo, il tavolino o ì
divani. Perlomeno son più piacevole a guardare. Ascolta: sono ca-
duta dai loro cuori come un uccellino cade dal nido. Raccoglimi,
prendimi, nel tuo cuore, vedrai come sarò carina.
GARCIN (respingendola con sforzo) - Vi dico di rivolgervi a lei.
ESTELLA - A lei? Ma lei non conta: è una donna.
INES - Non conto? Ma, uccellino mio, lodoletta, è tanto tempo che sei
al riparo nel mio cuore. Non aver paura, io ti guarderò senza so-
sta, senza batter ciglio. Vivrai nel mio sguardo come una pagliuzza
in un raggio di sole.
ESTELLA - Un raggio di sole? Ah! Piantatela. Avete tentato il colpo un
momento fa e avete ben visto che non è riuscito.
INES - Estclla! Mia acqua viva, mio cristallo.
ESTELLA - Il vostro Cristallo? È grottesco. Chi credete di prendere in
giro? Andiamo, lo sanno tutti che ho buttato la bimba dalla fine-
stra. Il cristallo è in briciole sulla terra e me ne infischio. Non son
più che una pelle, e la mia pelle non è per voi.
INES - Vieni! Sarai quello che vorrai: acqua viva, acqua sporca, ti
ritroverai in fondo ai miei occhi proprio come tu ti desideri.
ESTELLA - Lasciatemi! Non avete occhi! Ma che cosa devo fare perché
tu mi lasci? Tieni! (le sputa in faccia. Ines la lascia di scatto)
INES - Garcin! Me la pagherete!
(una pausa. Garcin si stringe nelle spalle e si avvicina a Estella)
GARCIN - Allora? Vuoi un uomo?
ESTELLA - Un uomo, no. Te.
GARCIN - Poche storie. Chiunque farebbe al caso tuo. Mi son trovato
486 JEAN-PAUL SARTRE
qui io, vuoi me. Bene, {la prende per le spalle) Non ho niente per
poterti piacere, sai: non sono uno stupidello e non balio il tango.
ESTELLA - Ti prenderò come sci. Forse ti farò cambiare.
GARciN - Ne dubito. Sarò... distratto. Ho altre cose per la testa.
ESTELLA - Quali cose?
€ARciN - Non ti interesserebbero.
ESTELLA - Mi metterò a sedere sul tuo divano. Aspetterò che tu ti
occupi di me.
INES (scoppiando a ridere) - Ah! cagna! Ai suoi piedi! Ai suoi piedi 1
E non è neanche bello!
ESTELLA {a Garcin) - Non l'ascoltare. Non ha occhi, non ha orecchie.
Non conta.
GARCIN - Ti darò quel che potrò. Non è molto. Non ti amerò: ti cono-
sco troppo.
ESTELLA - Mi desideri?
GARCIN - Si.
ESTELLA - È tutto qucllo che voglio.
GARCIN - Allora... (si china su di lei)
INES - Estella! Garcin! Perdete la testa! Ma son qui, io!
GARCIN - Lo vedo bene, e con questo?
INES - Davanti a me? Non... non potete!
ESTELLA - Perché? Mi spogliavo pure davanti alla cameriera.
INES (aggrappandosi a Garcin) - Lasciatela! Lasciatela! Non toccatela
con le vostre sporche mani d*uomo.
GARCIN (respingendola con violenza) - Va', va': non sono un gentiluo-
mo, non avrò certo paura a picchiare una donna.
INES - Mi avevate promesso, Garcin, mi avevate promesso! Ve ne sup-
plico, mi avevate promesso!
GARCIN - Siete stata voi a rompere il patto.
(Ines si svincola e indietreggia fino in fondo alla stanza)
INES - Fate quel che volete, siete voi i più forti. Ma ricordatevi che son
qui e vi guardo. Non vi toglierò gli occhi di dosso, Garcin; dovrete
baciarla sotto i miei occhi. Come vi odio tutti e due! Amatevi, ama-
tevi! Siamo all'inferno e avrò la mia rivincita.
(durante la scena seguente, li guarderà senza pronunciare una sillaba.
Garcin ritorna verso Estella e la prende per le spalle)
GARCIN - Dammi la bocca, (una pausa. Si china su di lei e si rialza
bruscamente)
ESTELLA (con un gesto di stizza) - Ah! (una pausa) 11 ho detto di non
fare attenzione a lei.
PORTE CHIUSE 487
GARciN ' Si tratta proprio di lei! (una pausa) Gomez è al giornale. Han-
no chiuso le finestre; allora è inverno. Sei mesi. Sono sei mesi che
mi hanno... Non t'ho avvertita che mi sarebbe capitato d'esser di-
stratto? Tremano; hanno tenuto le giacchette... È buffo che abbia-
no cosi freddo, laggiù; e io ho cosi caldo. Questa volta, parla di me.
ESTELLA - Durerà molto? {una pausa) Dimmi almeno quel che rac-
conta.
GARciN - Nulla. Non racconta nulla. È un porco, ecco tutto, {porge
l'orecchio) Un bel porco. Bah! {si avvicina a Estella) Ritorniamo
a noi? Mi amerai?
ESTELLA {sorridendo) - Chissà?
GARciN - Avrai fiducia in me?
ESTELLA - Che buffa domanda: ti avrò sempre sotto gli occhi e non è
certo con Ines che mi tradirai.
GARciN - Evidentemente, {una pausa. Lascia andare le spalle di Estella)
Io parlavo di un'altra fiducia, {ascolta) Va'! Va'! di' quel che vuoi;
io non sono li a difendermi, {a Estella) Estella, devi aver fiducia
in me.
ESTELLA - Quante difficoltà! Ma hai la mia bocca, le mie braccia, il
mio corpo intero, e tutto potrebbe esser cosi semplice... La mia
fiducia? Ma non ho fiducia da dare, io; tu mi dai una soggezione
terribile. Ah! Bisogna proprio che tu abbia fatto qualcosa di molto
brutto per reclamare la mia fiducia.
GARciN - Mi hanno fucilato.
ESTELLA - Lo so. Ti eri rifiutato di partire. E poi?
GARciN - Non... non avevo proprio rifiutato, {agli invisihilt) Parla bene,
sa biasimare come si deve, ma non dice quello che bisognava fare.
Dovevo entrare dal generale e dirgli: «Signor Generale, io non
parto? ». Che sciocchezza! Mi avrebbero messo in gabbia. Volevo
testimoniare, io, testimoniare! Non volevo che soffocassero la mia
voce, {a Estella) Ho... preso il treno. M'hanno pizzicato alla fron-
tiera.
ESTELLA - Dove volevi andare?
GARciN - Nel Messico. Contavo di fondarci un giornale pacifista, {un
momento di silenzio) Ebbene, di' qualcosa.
ESTELLA - Cosa vuoi che ti dica? Hai fatto bene, visto che non volevi
batterti, (gesto seccato di Garcin) Ah! mio caro, non posso indo-
vinare quel che bisogna risponderti.
INES - Tesoro mio, devi dirgli che è fuggito come un leone. Perché è
fuggito, il tuo grande amore. È questo che lo angustia.
GARCIN - Fuggito; partito; chiamatelo come volete.
488 JEAN-PAUL SARTRE
ESTELLA - Bisognava pure che tu fuggissi. Se tu fossi rimasto, ti avreb-
bero afferrato per la collottola.
CARciN - Certo, (una pausa) Esteila, sono forse un vile?
ESTELLA - Non nc so niente, amor mio, non son dentro di te. Tocca
a te decidere.
GARciN {con un gesto stanco) - Io non decido.
ESTELLA - Ma devi pur ricordarti; dovevi avere delle ragioni per agire
come hai agito.
GARCIN - Si.
ESTELLA - Ebbene?
GARCIN - Ma sono le vere ragioni?
ESTELLA {con stìzzu) - Come sei complicato!
GARCIN - Volevo testimoniare, io... avevo riflettuto a lungo... Ma sono
le vere ragioni?
INES - Ah! Ecco il punto. Sono le vere ragioni? Tu ragionavi, non
volevi impegnarti alla leggera. Ma la paura, l'odio e tutte le brut-
ture che uno nasconde, sono anche quelle delle ragioni. Andiatno,
cerca, interrogati.
GARCIN - Taci! Credi proprio che abbia aspettato i tuoi consigli? Cam-
minavo nella mia cella, di notte, di giorno. Dalla finestra alla por-
ta, dalla porta alla finestra. Ho spiato me stesso. Ho seguito le mie
orme. Mi sembra d'aver passato una vita intera a interrogarmi,
e poi, ecco, quel che era fatto era fatto. Ho... ho preso il treno.
La cosa è sicura. Ma perché? Perché? Alla fine ho pensato: sarà
la mia morte a decidere; se muoio bene, avrò dato la prova che
non sono un vigliacco...
INES - E come sci morto, Garcin?
GARCIN - Male. {Ines scoppia a ridere) È stata solo una semplice debo-
lezza fisica. Non ne provo vergogna. Soltanto tutto è rimasto in
sospeso per sempre, {a Estella) Vieni qui, tu. Guardami. Ho biso-
gno che qualcuno mi guardi mentre parlano di me sulla terra. Mi
piacciono gli occhi verdi.
INES - Gli occhi verdi? Guardate un po'! E a te. Estella? ti piacciono
i vigliacchi?
ESTELLA - Se tu sapessi quanto m'importa! Vigliacco o no, basta che
sappia baciar bene.
GARCIN - Scuoton la testa fumando il sigaro, si annoiano. Pensano:
Garcin è un vigliacco. Fiaccamente, debolmente. Tanto per pen-
sare a qualcosa. Garcin è un vigliacco! Ecco quel che hanno de-
ciso loro, i miei compagni. Fra sei mesi diranno: vigliacco come
PORTE CHIUSE 489
Garcin. Ne avete della fortuna, voi due; nessuno pensa più a voi
sulla terra. Io ho la vita pili dura.
INES - E vostra moglie, Garcin?
GARCIN - Ebbene, cosa, mia moglie. È morta.
INES - Morta?
GARCIN - Devo aver dimenticato di dirvelo. È morta poco fa. Circa
due mesi fa.
INES - Di dolore?
GARCIN - Di dolore, naturalmente. Di cosa volete che sia morta? Su,
tutto va bene: la guerra è finita, mia moglie è morta e io sono
passato alla storia, (ha un singhiozzo senza lacrime e si passa la
mano sul viso)
ESTELLA (si aggrappa a lui) - Mio caro! mio caro! Guardami, mio
caro! Toccami, toccami, (gli prende la mano e se la porta sul seno)
Mettimi la mano sul seno. (Garcin fa un movimento per liberarsi)
Lasciami la tua mano; lasciala, non ti muovere. Loro moriranno
uno dopo l'altro: che importa quel che pensano. Dimenticali. Non
ci son piò che io.
GARCIN (liberando la mano) - Loro non mi dimenticheranno. Moriran-
no, ma ne verranno altri che prenderanno le consegne. Ho lasciato
la mia vita fra le loro mani.
ESTELLA - Ah! pensi troppo!
GARCIN - Che altro posso fare? Una volta agivo... Ah! Ritornare un
giorno solo in mezzo a loro... quale smentita! Ma sono fuori gioco;
loro fanno il bilancio senza occuparsi di me e hanno ragione per-
ché son morto. Crepato come un topo, (ride) Son diventato di do-
minio pubblico.
(una pausa)
ESTELLA (dolcemente) - Garcin!
GARCIN - Sei qui? Ebbene, ascolta, fammi un piacere. No, non indie-
treggiare. Lo so: può sembrarti buffo che ti si possa chiedere un
aiuto, non ne hai l'abitudine. Ma se tu volessi, se tu facessi uno
sforzo, ci si potrebbe forse amare davvero? Vedi; son mille a ripe-
tere che sono un vigliacco. Ma che cos'è mille? Se ci fosse un'ani-
ma, una sola, per affermare con tutte le sue forze che non sono
fuggito, che non posso esser fuggito, che sono coraggioso, che sono
pulito, io... sono sicuro che sarei salvo! Vuoi credere in me? Ti
avrei più cara di me stesso.
ESTELLA (ridendo) - Idiota! caro idiota! Pensi davvero che potrei amare
un vigliacco?
GARCIN - Ma se dicevi...
490 JEAN-PAUL SARTRE
ESTELLA - Ti prendevo in giro. Nfi piacciono gli uomini, Garcin, i
veri uomini, dalla pelle rude, con delle mani forti. Tu non hai il
mento di un vigliacco, non hai la bocca di un vigliacco, non hai
la voce di un vigliacco, i tuoi capelli non sono quelli di un vi-
gliacco. Ed è proprio per la tua bocca, per la tua voce, per i tuoi
capelli che ti amo.
OARCIN - È vero? È proprio vero?
ESTELLA - Vuoi che te lo giuri?
CARCiN - Allora li sfido tutti, quelli di laggiù e quelli di qui. Estella,
noi usciremo dall'inferno. {Ines scoppia a ridere. Lui /interrompe
e la guarda) Che c'è?
INES (ridendo) - Ma se lei non crede una .sillaba di quel che dice;
come puoi essere cosi ingenuo? a Estella, sono un vigliacco? ». Se
tu sapessi come se ne infischia!
ESTELLA - Ines! {a Gardn) Non l'ascoltare. Se vuoi avere la mia fidu-
cia, devi cominciare col darmi la tua.
INES - Ma SI, ma s(l Abbi fiducia in lei. Ha bisogno di un uomo, cre-
dimi pure, del braccio di un uomo intorno alla vita, d'un odore
d'uomo, d'un desiderio d'uomo in uno sguardo d'uomo. Per il re-
sto... Ah! Sarebbe capace di dirti che sei Dio padre, se questo
potesse farti piacere.
«ARciN - Estella I È vero? Rispondi: è vero?
BSTELLA - Che vuoi che ti dica? Non capisco nulla di tutte queste sto-
rie, (batte i piedi) Come mi fa rabbia tutto questo! Ti amerei an-
che se tu fossi un vigliacco, ecco! Non ti basta?
(una pausa)
OARCiN (alle due donne) - Mi nauseate! (si avvia verso la porta)
ESTELLA - Cosa fai?
<5ARciN - Me ne vado.
INES (rapidamente) - Non andrai lontano: la porta è chiusa.
<3ARCiN - Bisognerà pure che l'aprano, (schiaccia il pulsante del cam-
panello. Il campanello non funziona)
ESTELLA - Garcin!
INES (a Estella) - Non ti preoccupare; il campanello è guasto.
•GARCIN - Vi dico che apriranno, (tamburella contro la porta) Non posso
pili sopportarvi, non ce la faccio più. (Estella corre verso di lui,
lui la respinge) Vattene. Mi disgusti ancor più di lei. Non voglio
insabbiarmi nei tuoi occhi. Sei viscida, sci flaccida. Sei una piovra,
sei un pantano, (picchia alla porta) Ma aprite?
ESTELLA - Garcin, ti supplico, non partire, non ti parlerò più, ti lascerò
PORTE CHIUSE 491
completamente tranquillo, ma non partire. Ines ha tirato fuori le
unghie^ non voglio più rimaner sola con lei.
GARciN - Sbrigatela da te. Io non t'ho chiesto di venire.
ESTELLA - Vigliacco! vigHacco! Oh! È proprio vero che sci un vigliacco.
INES {avvicinandosi a Estella) - Ebbene, lodoletta, non sci contenta?
M'hai sputato in faccia per piacere a lui e abbiamo litigato per
causa sua. Ma se ne va, il guastafeste, ci lascia sole fra noi donne.
ESTELLA - Non ci guadagnerai nulla; se questa porta s'apre, io scappo.
INES - Dove?
ESTELLA - In qualsiasi posto. Il più lontano possibile da te.
(Garcin ha continuato a tamburellare alla porta)
GARciN - Aprite! Ma aprite! Accetto tutto: gli stivaletti, le tenaglie, il
piombo fuso, le pinze, la garrotta, tutto quel che brucia^ tutto quello
che strappa, voglio soffrire per davvero. Cento morsi piuttosto,
piuttosto la sferza, il vetriolo, che questo tormento del cervello,
questo fantasma di sofferenza, che sfiora, che accarezza e che non
fa mai abbastanza male, {afferra la maniglia della porta e la scuote)
Aprirete? {la porta si apre bruscamente e per poco egli non casca)
Ah!
{un lungo silenzio)
INES - Ebbene, Garcin? Andatevene.
OARciN {lentamente) - Mi chiedo perché questa porta s'è aperta.
INES - Che cosa aspettate? Andate, andate presto!
CARCIN - Non me ne andrò.
INES - E tu, Estella? {Estella non si muove; Ines scoppia a ridere)
Allora? Chi? Chi dei tre? La via e libera, chi ci trattiene? Ah!
C'è da morir da ridere! Siamo inseparabili.
{Estella le balza addosso, alle spalle)
ESTELLA - Inseparabili? Garcin! Aiutami, aiutami presto. La trascine-
remo fuori e chiuderemo la porta; ora vedrà.
INES {dibattendosi) - Estella! Estella! Ti supplico, lasciami qui. Non
nel corridoio, non mi buttare nel corridoio!
<3ARciN - Lasciala.
ESTELLA - Sei pazzo, ti odia.
<5ARciN - È per lei che son rimasto.
{Estella lascia Ines e guarda Garcin con stupore)
JNES - Per me? {una pausa) Bene, va bene, chiudete la porta. Fa
dieci volte più caldo da quando è aperta. {Garcin va verso la porta
e la chiude) Per me?
492 JEAN-PAUL SARTRE
GARCiN - Si. Tu lo sai che cos'è un vigliacco.
INES - Si, lo so.
GARciN - Tu sai cos*è il male, la vergogna, la paura. Ci sono stati dei
giorni in cui ti sci vista fino al cuore e per questo ti sentivi spez-
zare braccia e gambe. E l'indomani non sapevi più cosa pensare,
non riuscivi piò a decifrare la rivelazione del giorno prima. Si,
tu lo conosci il prezzo del male. E se dici che sono un vigliacco,
sai bene quel che dici, eh?
INES - Si.
GARciN . Sei tu che devo convincere: tu appartieni alla mia razza. Pen-
savi forse che partissi? Non potevo lasciarti qui, trionfante, con
tutti questi pensieri in testa, tutti questi pensieri che mi riguar-
dano.
INES - Vuoi davvero convincermi?
GARciN - Non voglio nient'altro. Non li sento più, sai? Senza dubbio
perché con me hanno finito. Finito: l'affare è chiuso, non sono
più nulla sulla terra, neppure un vigliacco. Ines, eccoci qui soli: ci
siete solo voi due per pensare a me. Lei non conta. Ma tu, tu che
mi odi, se tu crederai in me, mi salverai.
INES - Non sarà facile. Guardami: ho la testa dura.
GARciN - Ci metterò il tempo che ci vorrà.
INES - Oh! Hai tutto il tempo. Tutto il tempo.
GARciN {afferrandola per le spalle) - Senti, ciascuno ha il suo scopo,
no? Io, mi fregavo del denaro, dell'amore. Volevo essere un uomo.
Un duro. Ho puntato tutto su un cavallo. È possibile che uno sia
un vigliacco quando ha scelto le vie più pericolose? Si può giudi-
care una vita da un atto solo?
INES - Perché no? Hai sognato per trent'anni di aver del coraggio; e
ti permettevi mille piccole debolezze perché agli eroi è permesso
tutto. Com'era comodo! E poi, al momento del pericolo, ti hanno
messo con le spalle al muro e... tu hai preso il treno per il Messico,
GARciN - Quest'eroismo non l'ho sognato. L'ho scelto. Si è quel che si
vuole.
INES - Provalo. Prova che non era un sogno. Solo le azioni decidono
di quel che s'è voluto.
GARciN - Sono morto troppo presto. Non mi hanno lasciato il tempo
per compiere le mie azioni.
INES - Si muore sempre troppo presto, o troppo tardi. Eppure la vita
è là, finita; il dado è tratto, bisogna tirar le somme. Tu non sei
nient'altro che la tua vita.
GARciN - Vipera! Trovi una risposta a tutto.
PORTE CHIUSE 493
INES - Su! su! Non perderti di coraggio. Ti deve esser facile persua-
dermi. Cerca degli argomenti, fa' uno sforzo. {Gardn si stringe
nelle spalle) Ebbene, ebbene? Ti avevo pur detto che eri vulnera-
bile. Ah! Come la pagherai cara, ora. Sei un vigliacco, Garcin, un
vigliacco perché io lo voglio. Lo voglio, capisci, lo voglio! Eppure,
guarda come sono debole, un soffio; non sono nient 'altro che que-
sto sguardo che ti vede, questo pensiero incolore che ti pensa, [lui
avanza contro di lei a mani aperte) Ah! Si aprono quelle grosse
mani d'uomo. Ma che speri? Non si afferrano i pensieri con le
mani. Andiamo, non hai scelta: bisogna convincermi. Ti tengo.
ESTELLA - Garcin!
GARCIN - Cosa?
ESTELLA - Vendicati.
GARCIN - Come?
ESTELLA - Baciami, la sentirai cantare.
GARCIN - È proprio vero, Ines. Mi tieni, ma anch'io ti tengo, {si china
su Estella, Ines getta un gridò)
INES - Ah! Vigliacco! Vigliacco! Va'! Va' a farti consolare dalle donne.
ESTELLA - Canta pure, Ines, canta pure!
INES - Che bella coppia! Se tu vedessi la sua zampaccia schiacciata
sulla tua schiena, che ti strizza carne e stoffa. Ha le mani umi-
dicce; suda. Ti lascerà una macchia scura sul vestito.
ESTELLA - Canta! Canta! Stringimi più forte contro di te, Garcin; ne
creperà.
INES - Ma si, stringila forte, stringila. Mescolate i vostri calori. L'amore
è bello, eh!, Garcin? È tiepido e profondo come il sonno, ma io
t'impedirò di dormire.
{gesto di Garcin)
ESTELLA - Non l'ascoltare. Prendi la mia bocca; sono tutta per te.
INES - Ebbene, che aspetti? Fa' quello che ti si dice. Garcin il vi-
gliacco tiene fra le braccia Estella l'infanticida. Le scommesse sono
aperte. Garcin il vigliacco la bacerà? Vi vedo, vi vedo; io da sola
sono una folla, la folla, Garcin, la folla, la senti? {mormorando)
Vigliacco! Vigliacco! Vigliacco! Vigliacco! Invano tu mi sfuggirai,
io non ti lascerò. Cosa vai a cercare sulle sue labbra. L'oblio? Ma
io non ti dimenticherò, io. È me che devi convincere. Me. Vieni,
vieni! T'aspetto. Guarda, Estella, allenta la stretta, e docile come
un cane... Non l'avrai!
GARCIN - Non farà dunque mai notte?
INES - Mai.
GARCIN - Mi vedrai sempre?
494 JEAN-PAUL SARTRE
INES - Sempre.
(Garcin lascia Estella e fa qualche passo per la stanza. Sì avvicina dia
statua)
GARCIN - I^ statua... (Vaccarezzà) Ebbene, il momento è venuto. La
statua è là, la contemplo, e capisco che sono all'inferno. Vi dico
che tutto era previsto. Avevano previsto che io sarei stato davanti
a questo caminetto, a premere con la mano questa statua, con tutti
questi sguardi su di me. Tutti questi sguardi che mi mangiano...
(si volta bruscamente) Ah! Siete due sole? Vi credevo molte di più.
(ride) Allora è questo l'inferno. Non avrei mai creduto... Vi ricor-
date: lo zolfo, il rogo, la graticola... Ah! che scherzo. Non c'è biso-
gno di graticola, l'inferno sono gli Altri.
ESTELLA - Amor mio!
GARCIN (respingendola) - C'è lei fra noi. Non posso amarti quando lei
mi vede.
ESTELLA - Ah! Ebbene, non ci vedrà più. (prende sul tavolo il coltello,
si precipita su Ines e le sferra vari colpi)
INES (dibattendosi e ridendo) - Che fai, che fai, sei pazza? Sai bene
che son morta.
ESTELLA - Morta?
(lascia cadere il coltello. Una pausa. Ines raccoglie il coltello e si col-
pisce con rabbia)
INES - Morta! Morta! Morta! Né il coltello, né il veleno, né la corda.
È già fatto, capisci? E noi siamo insieme per sempre, (ride)
ESTELLA (scoppiando a ridere) - Per sempre, mio Dio com'è buffo! Per
sempre !
GARCIN (ride guardandole tutte e due) - Per sempre!
(si buttano a sedere, ciascuno sul proprio divano. Un lungo silenzio.
Smettono di ridere e si guardano. Garcin si alza)
GARCIN - Ebbene, continuiamo.
La presente traduzione è a cura di Liano Petroni.
EUttÈNE I0NE8C0
Umano o disumano, realista di carattere e di filosofici co-
stumi, nemico dichiarato dei falsi dell'immaginazione, l'Assurdo
esistenzialista è di natura essenzialmente pessimista. I generi let-
terari che preferisce sono il saggio morale, il romanzo a tesi e la
tragedia a porte chiuse.
Ma c'è un altro Assurdo, di ottimistico carattere sovversivo,
che rifiutando i falsi della realtà e le censure della coscienza, eser-
cita la sua anti-logica dittatura nei meravigliosi regni del sogno
e dell'incubo, nella salutare anarchia dell'Inconscio, nelle magiche
rivelazioni del vocabolario in rivolta e della scrittura automatica.
I generi letterari praticati dall'Assurdo surrealista sono per lo più
il saggio di < critica paranoica», il romanzo a sintesi allucina-
toria e la farsa dell'umorismo nero.
I due assurdi vanno per strade diverse, che non escludono
tuttavia fortuiti o inevitabili incontri.
Fin dal 1918 Guillaume ApoUinaire, amico di futuristi e cu-
bisti, inaugurava, sotto il vecchio patronato dell'Ignoto, l'esposi-
zione dello Spirito Nuovo affermando che < bisogna dare realtà
ai mille imponderabili fantasmi > che regnano nelle strane regioni
del mistero. E alcuni anni prima, volendo dimostrare che il mi-
stero può accoppiarsi alla volontaria mistificazione, componeva
< poemi-passeggiata > fatti di frammenti di conversazione, di titoli
di giornali, del senza-senso di parole e di frasi cucite senza filo.
Ma ApoUinaire era poeta ed aveva ancora nostalgie sentimentali
e razionali debolezze. Alcuni suoi giovani ammiratori credettero
invece che la poesia fosse un senile farnetico borghese, che la let-
teratura dovesse essere anti-letteraria, che il mondo dovesse essere
demolito (ed eventualmente rifatto) dalla dinamite della rivista
92. • Teatro francete
498 eugìne ionesco
confìdenziale e dal dinamismo del caso e dell'assurdo. Sulla fine
del 1915, Tristan Tzara ed amici, aperto un dizionario, trovarono
nella prima parola caduta sotto i loro occhi (< dada >, trastullo in-
fantile) l'oracolo del dio sovvertitore e il principio del pensiero
<che si forma nella bocca». Altri, intanto, come Jacques Vaché,
brandiva un revolver predicando « l'inutilitc théàtrale (et sans joie)
de tout», mentre Francis Picabia scopriva piuttosto — secondo
Andre Brcton — che le parole (come i colori) raggiungono «il
massimo della virtù poetica nell'assoluto dell'incoerenza».
Minato da libido suicida e da congiure di palazzo, il dadaismo
ebbe vita breve. Nel 1924 il transfuga André Breton lanciava il
primo brillante manifesto (nel quale si trovano confusi e com-
promessi Freud e Hegel, Gerard de Nerval e Nietzsche, Sade,
Jarry ed altri legittimi o immaginari antenati) che apriva la cam-
pagna surrealista con l'espressa volontà di trasformare la vita e
di rifare da cima a fondo < l'entendement humain ». Iniziata con
prolissi monologhi dell'inconscio, con proclami incendiari, con ri-
cercati scandali, risse, processi e funerali farseschi, la grande ri-
forma ebbe pratica applicazione e dottrinari sviluppi in cerimonie
commemorative dell'isteria (< la plus grande dccouvcrte poctique
de la fin du XlXe sièclc >), in interrogatori di alienati (< gente di
onestà scrupolosa >), nella < debacle de l'intellect > e nella « activité
ultra-confusionnelle » del concreto irrazionale, della pantomima
« tragico-atmosferica >, dell'esposizione di oggetti a « truculenza
simbolica » ed in simili manifestazioni della realtà vista alla ro-
vescia e del mondo capovolto.
Il Surrealismo visse la sua età eroica fra le due guerre, in per-
manente stato rivoluzionario, invecchiando anch'esso fra scismi
e diserzioni, finendo anch'esso per riportare il < battello ebro > nel
porto della tribù o nel placido fiume della storia. Non riusci a
« risolvere i principali problemi della vita >, si mise addirittura a
cantare il «bel canto», la patria e l'amore, ma riuscì a guada-
gnarsi un brillante posto nel mondo delle arti e delle lettere con
pittori come Dali, Max Ernst, Miro, con vivaci scrittori come Bre-
ton e Aragon, con autentici poeti come Eluard e René Char, con
originali romanzieri come Julicn Gracq. Solo il teatro sembrava
refrattario alle sue metafisiche concrezioni, ma anche queste fini-
PRESENTAZIONE 499
ranno per conquistare la ribalta e la platea quando troveranno
l'uomo del momento, o l'esperto che porta il senso dello spetta-
colo nella rappresentazione del non-senso.
La « paranoia critica > e una trovata di Salvator Dali che risale
al 1929. Ma dadaisti e surrealisti praticavano già dei riti propizia-
tori destinati a far scendere nel precario del mondo visibile lo
spirito dell'assurdo e a dar vita reale ai fantasmi ed ai misteri
del verace inconscio. Si riunivano per raccontarsi i sogni e i mo-
stri che andavano inventando, si ipnotizzavano, cercavano di
provocare l'allucinazione e di simulare la follia, ma soprattutto
ricorrevano ad una serie di giuUerie dell'immaginazione e di giuo-
chi di parola ad automatica sorpresa con i quali il < sur-moi >
surrealista intendeva disorganizzare la logica comune per stabi-
lire la sua irrazionale dittatura. Fra le stravaganti procedure erano
tenuti in grande onore l'umorismo nero (accozzo di ricercate scem-
piaggini, di enormi freddure e di esercizi della < mystification
sinistre confìnant à l'assassinat amusant»), «l'ironisme d'affirma-
tion », € il cadavere squisito » (parole pescate a caso nel bussolotto
dell'inconscio collettivo), il proverbio impazzito, il dialogo dei
sordi, la girandola dell'allitterazione e della cacofonia. Ne veni-
vano fuori acrobazie verbali di questo genere: «S'il n'y avait
pas la guillotine, les guépcs enlèveraient leur corset », < Il faut
battre sa mère pendant qu'elle est jeune », « Rrose Sélavy et moi
esquivons les ecchymoses des Esquimaux aux mots cxquis»,
<Qu'est-ce que le jour? Une femme qui se baigne à la tombée
de la nuit», «Un ours mangeait des seins. Le canapé mangé,
l'ours cracha des seins», e cosi via dicendo.
Scherzi di questa lega sembravano da tempo sopraffatti dall'ir-
ruzione esistenzialista (e relegati in soffitta dagli stessi surrea-
listi), quando una sera del maggio 1950 il pubblico del piccolo Tea-
tro dei Nottambuli fu convocato alla rappresentazione di una < an-
ti-pièce» intitolata La Cantatrice chauve. In questa commedia
non c'è nessuna cantante calva (solo un personaggio ne chiede
notizie per sentirsi rispondere che la calva si pettina sempre alla
stessa maniera), ma una coppia inglese che parla in caricaturale
automatismo il linguaggio quotidiano (con brani tolti dai manuali
500 EUGÈNE lONESCO
di conversazione e con ameni guasti del disco: «Le yaourt est
excellent pour Testomac, pour Ics reins, l'appendicite et l'apo-
théosc >), un uomo e una donna che nel corso della conversazione
scoprono di essere marito e moglie vissuti sempre insieme, un pom-
piere che si prodiga in grotteschi fuochi di artifizio e in indovi-
nelli scemi. Quella che si suole chiamare azione è costituita dai
gratuiti colpi di scena dell'assurdo, dai salti di palo in frasca del-
l'idiozia borghese, soprattutto dal girotondo del discorso nel quale
il troppo vero dei luoghi comuni dà la mano al « gag > clownesco
(«Ce matin quand tu t'es regardé dans la giace, tu ne t'es pas
vu >. € C'est parce que je n'étais pas encore là >), mentre la frase
fatta incespica nel proprio vuoto, si disfa nel comico dell'umorismo
nero e del cadavere squisito (« Quand on s'enrhume il faut prendre
des rubans», «Prenez un cercle, caressez-le, il deviendra vi-
cicux >) o impazzisce in surrealistiche capriole (< Je peux acheter
un coutcau de poche pour mon frère, mais vous ne pouvez ache-
ter rirlande pour votre grand-pére >, < Toujours on s'empétre entre
les pattes du prétre >, eccetera). E, s'intende, nell'< anti-pièce > non
c'è intreccio né sviluppo, ma il crescendo della frenesia verbale che
si esaurisce nel farnetico dell'allitterazione, dell'onomatopea e del
suono inarticolato. E quando il non-senso è arrivato al colmo del
silenzio, si può ricominciare, rimettendo il disco che riporta la
fine del discorso e della commedia al punto di partenza.
Calato il sipario, si accesero le solite dispute fra il filisteo (che
tuttavia ha acquistato una certa esperienza in materia di < ironisme
d'affirmation > dell'assurdo) e i soliti intenditori pronti a scoprire
i mirabilia dell'arcano. Era evidente, ad ogni modo, che la nuova
farsa composta di stagionati ingredienti era di piacevole fattura e
che l'autore sapeva il suo mestiere. Si trattava di un romeno non
più giovane (nato a Slatina nel 1912), impiegato in una casa edi-
trice, collaboratore dei Cahiers du Sud, autore di un saggio sul-
l'Identità dei contrari. Eugène lonesco era insomma uno scono-
sciuto. Ma dal suo < coup d'essai >, non era difficile prevedere che
avrebbe fatto una rapida e felice carriera.
Fra illustri anziani e grandi arrivati l'avanguardia continua
dunque la sua marcia regolarmente rivoluzionaria, andando verso
PRESENTAZIONE 501
il miraggio del « teatro totale > oppure verso il teatro « festa della
distruzione» preconizzato dal genialoide surrealista che era An-
tonin Artaud. Di diversa forza e natura, la nuova leva presenta
nella varietà delle forme (nella vacua declamazione di Henri Pi-
chette, nelle laboriose fantasie poetiche di Georges Schéhadé, nel
favoloso realismo simbolico di Georges Adamov) l'attrazione del
vuoto o dell'abisso, sembra caratterizzata dal vago comune deno-
minatore dell'angoscia metafìsica, del processo alla realtà, del culto
dell'assurdo, della retorica dell'assurdo.
È, questo recentissimo Assurdo, un regista di buona memo-
ria, abile nello sfruttamento dei suoi classici e degli ultimi ritrovati
scenici, terribilmente consequenziario, deciso cioè a portare alle
estreme conseguenze ed applicazioni sia la logica del sillogismo
esistenziale che l'anti-logica del paradosso surrealista. Cosicché,
mentre Sartre si illudeva ancora di poter costruire nel nulla e
dal nulla il disperato tutto della libertà, l'irlandese Samuele Bec-
kett crede invece che dal nulla nasce il nulla, che il salto nel vuoto
finisce nel vuoto, che l'angoscia esistenziale vive nella sordida pri-
gione di un'esistenza dove la speranza (o l'attesa di Godot) è l'e-
strema irrisione dell'inesistente e dove la realtà umana, nata dallo
zero, fatta della somma di «istanti nulli», vissuta da servi e da
padroni legati alla stessa bestiale catena, fìnisce nel chiuso di una
pattumiera e nell'infinito dell'orrida solitudine. < L'infini du vide,
— dice il cieco moribondo della Fin de panie all'infermo ser-
vo, — sera autour de toi; tous les morts de tous les temps ressusci-
tés ne le combleraient pas » : e tutta la < picce » e l'arida, minuzio-
sa lezione di un anatomista che mette la sua grande perizia (e un
sadico piacere) a smontare la decrepita marionetta, a svuotarla
della stoppa della sua anima, delle molle dei suoi inutili movi-
menti, del motorino che traduce la vacuità del pensiero nel vano
rumore della parola, dei fili che la fanno girare su se stessa, nel-
l'immobilità senza tempo della nausea e della noia.
Bcckett vede tutto nero, anche quando fa buffoneggiare i suoi
miserabili straccioni. Più «umano», più ricco di fantasia e di ri-
sorse dialettiche, meridionalmente loquace, padrone sia della ri-
dicola sintassi di Monsieur Prudhomme che della stravagante mor-
fologia dada, lonesco si ricorda invece che l'umorismo nero oltre a
502 EUcèNE lONESCO
prestarsi a tutte le combinazioni e le astratte peripezie dei co-
lori, porta una doppia maschera che è la più adatta a rappre-
sentare la guerra intestina e «l'identità» dei contrari. Lancia
anche lui nel vuoto la sua marionetta, ma in un vuoto che è
quasi agli antipodi di quello di Beckett, che confina con il paese
delle infantili meraviglie e diviene lo spettacolare campo di ma-
novra e di urto fra il «precario» della realtà e il concreto del
sogno e del mito: marionetta nata nel teatro dei pupi (cioè del
Grand Guignol), cresciuta nell'assurdo quotidiano e pasciuta di
consunti luoghi comuni, colta nel momento dell'evasione nel pro-
digio (o nel salto nell'infinita probabilità dell'inverosìmile) che
trasforma la triste opacità dell'uomo nello spettro fertile di esila-
ranti rivelazioni e di tragici lapsus demenziali.
Iniziata con la Cantante calva (che voleva essere una parodia
del teatro), la caccia al mostro bicefalo si sviluppa in abbondanza
di trovate, in scoperte di bestie favolose, in orchestrato chiasso di
prosaici richiami e di echi burleschi o sinistri. Nello stesso anno
1950 lonesco scrive La Lcfon (buffonesca lezione di sregolamento
patologico finita nel crimine sessuale di un maniaco) e Jacques
ou la soumission, «conunedia naturalista» in stile abracadabra
degli innaturali costumi e degli sconnessi discorsi di una famiglia
borghese in conflitto con un figlio vittima di una nevrosi freu-
diana. Jacques infatti è un inibito in rivolta che rifiuta la bella
sposa (che non riesce, cioè, ad entrare nella banale normalità della
sua vita) perché non ha conosciuto il mondo fiabesco dell'infanzia.
«Lorsque je suis né, je n'avais pas loin de quatorze ans», con-
fessa ad una Roberta, la quale riesce a sedurlo quando Io riporta
alla perduta stagione raccontandogli incoerenti storie animalesche
e rivelandosi lei stessa assurdo animale con tre nasi sul volto e
con nove dita alla mano destra.
La farsa di scapigliato umore nero avrà un seguito nella
« pièce » L'Avenir est dans les oeufs (1951 : è la stessa coppia che,
restata tre anni allo stesso posto a fare le fusa, si decide, sotto gli
assillanti incitamenti dei familiari, a «produrre»; e mentre Jac-
ques soffre le doglie del parto, Roberta mette alla luce una inve-
rosimile quantità di uova), ma contemporaneamente lonesco com-
pone Les Chaises, «farce tragique» di un senile complesso di
PRESENTAZIONE 503
grandezza che « si libera » neirallucinante allucinazione di due
poveri diavoli. Ticchi ossessivi, cerimoniale grottesco e vaniloquio
delle goffe figure gesticolanti davanti ad una folla di invisibili
ombre mute creano — in quella che è forse la pili caratteristica
e suggestiva rappresentazione del dramma senza azione — l'at-
mosfera e l'avventura surreali del senza-senso che si specchia nel
senza-limite del vuoto, dove il comico e il tragico si fondono — e
si potenziano a vicenda — nella peripezia dell'euforico delirio e
nella catastrofe dell'indecifrabile «messaggio».
Dopo questo fortunato colpo, la macchina delle realistiche
disgregazioni e delle mitiche reintegrazioni continua il suo frene-
tico movimento, ma — si direbbe — comincia a tradire qualche
perdita di velocità, una certa debolezza per la meccanica razionale.
Mentre nello « pseudo dramma > Victimes du devoir (1952) le
vittime sono ancora quelle che, partite alla scoperta dei ricordi, o
del mondo sepolto nell'inconscio, periscono nella ricerca di un
«Mallot avec un t>, rivelandosi dei minuscoli Sisifi condannati
a masticare la loro materia-ombra, in Amédée ou comment seri
débarrasser (1954) l'assurdo scivola nel prolisso di una commedia
in tre atti e nella macabra allegoria di un cadavere che da quin-
dici anni vegeta e cresce in un appartamento di piccoli borghesi,
assumendo proporzioni enormi e riempendo le stanze di miste-
riosi funghi, che sembrano simboleggiare i rimorsi di un proba-
bile delitto.
E mentre Amedeo si sbarazza del mostruoso corpo (e della
coscienza) sottraendosi in volo alla vista ed alla vita della terra,
lonesco va scendendo verso la terra, cede a certi costumi del vec-
chio teatro. In Victimes du devoir era entrato in polemica con il
teatro prigioniero dell'evidenza, ntWImpromptu de l'Alma (1955)
si rappresenta (come Molière, come Giraudoux) alle prese con i
propri critici, con i dottori in < costumologia > e in « teatrologia >
che lo vogliono confondere con le loro buffonesche lezioni ed ai
quali impartisce una lunga lezione dove il luogo comune (« la
critica dev'essere descrittiva e non normativa», «il creatore e il
solo valido testimone del suo tempo », eccetera) si mescola all'im-
prevista dichiarazione di un teatro che trarrebbe la sua materia
dalle angoscie e dalle intime contraddizioni dell'autore.
504 EUGÈNE lONESCO
Il quale — inconvenienti del successo? — va sempre più ver-
so il pubblico e la formula, si lascia andare a spiegazioni che
hanno l'aria di compromessi con il quasi regolare, dà l'impres-
sione di non riuscire a dominare l'ingegnoso disco delle ripetizioni,
di essere a sua volta trascinato dal torrente delle parole e delle
rimasticature. In Tueur sans gages (1957) il paesaggio è sempre
metafisicamente realistico, l'allucinazione è sempre armata di un
coltello (un accessorio che ha una singolare importanza nel teatro
del Nostro) e rallegrata da spiritosi gags, e c'è sempre la trovata
della galeotta fotografia di un mitico colonnello, c'è soprattutto
la bellissima invenzione della catastrofe (l'incontro dell'Uccisore,
che si limita a ghignare, con il detective volontario che fa un
interminabile discorso «patetico e ingenuo, grottesco e sincero,
eloquente nell'esposizione di tutti i luoghi comuni tristemente
inutili e invecchiati » : ed il conferenziere, sconvolto dal sinistro
silenzio dell'altro e piò ancora dalla vuota eco dei propri contrad-
dittori argomenti che si distruggono a vicenda, finisce per esporsi
anche lui alla distruzione, al coltello dell'assassino gratuito), ma
tre lunghi atti sono troppi e troppo ingombri di oziose zeppe e
di «clichés» di ioneschiana fattura.
Allo stato attuale delle cose, sembra che il bilancio presenti,
con i nuovi acquisti, la perdita del mordente delle prime rapide
« pièces >, che l'assurdo, cedendo alla nevrosi logica, porti nella
romantica mania dell'irrazionale tabula rasa i ticchi, e le pigre
abitudini, di una tavola pitagorica che abusa dello straordinario
dei fattori e della monotonia dei prodotti. Cosi la prolifera mac-
china calcolatrice che ci ha dato l'allucinante moltiplicazione degli
invitati fantasma delle Chaises, delle uova di Roberta dai tre nasi,
dei funghi del volatile Amedeo, delle tazzine da caffè di Victimes
du devoir, dei mobili del Nouveau Locataire (1953) che invadono
una casa e sommergono una città intera, comincia a darci qualche
preoccupazione quando ci dà ancora — nelle duecento pagine del-
l'ultima « pièce > {Le rhinocéros, 1959) — la metamorfosi in massa
degli abitanti di una città che si moltiplicano in rinoceronti: ad
eccezione di un solo (anche lui vecchia conoscenza) che, escluso
— per cattiva coscienza o per mancata grazia — dalla felice tra-
smigrazione in un'altra anima e in un altro corpo, resta nella tra-
PRESENTAZIONE 505
gica solitudine, nella inutile protesta, e nella bruttezza, del suo
essere umano. Anche questa favola racchiuderebbe una filosofica
lezione (< Il faut reconstituer les fondements de notre vie, — va
dicendo un personaggio in muda, — il faut retourner à Tinté-
gritc primordiale»), ma la satira e la morale, oltre a non su-
perare l'ingenuo dettato di una ben nota dottrina, non riescono
nemmeno a nascondere la stanchezza del surrealistico cordame.
E come la novissima dottrina, a forza di cercare il vero nel-
l'inverosimile e il puro nel primordiale finisce per trovare i vecchi
abiti di Perrault e di Rousseau rifatti o rivoltati alla maniera di
André Breton, cosi l'anticonformista lonesco, a forza di discutere
con il pubblico e con i critici finisce per abbandonarsi anche lui alla
« cerimonia > del manifesto teatrologico, dandoci in un prezioso
e capzioso saggio (< Expcriences de thcàtre », in Nouvelle Revue
Francaise, febbraio 1958) la difesa e illustrazione del proprio tea-
tro.
Com'era da prevedere, la professione di fede e la precettistica
sono intransigenti e senza sfumature. Psicologico, ideologico, so-
ciale, a tesi o di costume, tutto il teatro — dalla noiosa pratica di
Molière e di Corneille alla tecnica antiteatrale di Piscator e di
Brecht — e condannato in blocco e senza appello, in quanto avreb-
be il doppio torto di tradire la realtà umana presentando l'uomo
in « proporzione ridotta > e di rendere impossibile la finzione tea-
trale affidandola a personaggi ed a attori in carne ed ossa. Ai
falsi del cosiddetto specchio della vita, lonesco sembra voler sosti-
tuire i meravigliosi veri della lanterna magica (munita di defor-
mante lente di ingrandimento) che ha il compito di portare sulla
scena il sogno e il mito («tutto quello che sogniamo è vero» e
« realizzabile >) nella < prodigiosa avventura > dell'insolito, dell'al-
lucinazione vissuta e del fantasma incarnato. Per arrivare a tanto,
bisogna eliminare la psicologia, o piuttosto darle dimensioni me-
tafisiche, disarticolare il linguaggio, disintegrare il reale apparen-
te, raggiungere quindi «une virginité nouvelle de l'esprit» e
< une nouvelle prise de conscience, purifiée, de la réalitc existen-
tielle», senza le quali non vi sarebbe né teatro né arte. L'opera-
zione va accompagnata dalla sovversione dei rapporti e dei valori
tradizionali del comico e del tragico (che il comico, «étant l'in-
506 eucìne ionesco
tuition de l'aòsurde > sarebbe « plus désespérant que le tragiquc >)
e dalla fusione-urto dei due opposti elementi che, spinti al massi-
mo della tensione e dello sregolamento, darebbero « une synthèse
thcatrale noùvelle».
Tutte queste novità le abbiamo sentite da Gerard de Neryal,
da Rimbaud, da Lautréamont, da ApoUinaire e dai loro epigoni.
La vera originalità di Ionesco è, più che nell'esoterico postulato,
nei modi pratici e nei risultati della teatrale dimostrazione. A dif-
ferenza della poesia pura, il teatro puro non abolisce il «bibelot
sonore > né disdegna i trucchi, i « clichés > e gli espedienti tradi-
zionali, sibbene li utilizza — e li compromette — portandoli al-
l'estremo della violenza e del paradosso. Le «ficelles> sono per-
tanto ingrossate enormemente, la parodia e la caricatura sono di
proposito spinte al parossismo, la parola diviene elemento di choc,
il discorso assume un carattere esplosivo fino a che tutto l'insieme
raggiunge la zona rarefatta dove — partecipando al sortilegio l'og-
getto che si anima e lo scenario che si muove — «il non-naturale
appare naturale e il troppo-naturale non naturalista». E lo spet-
tatore allora vede sulla scena quello che non ha mai visto, veden-
dosi come non s'è mai visto.
Teatro elettro<hoc, quindi, che, snebbiando la mente ottusa
e confusa dal reale, ci svelerebbe nella esasperata rappresentazione
del quotidiano l'assurdo del quotidiano dandoci in pari tempo la
concreta rappresentazione dell'assurdo metafisico. E teatro della
veggenza che manovra ingegnosamente «la machine à décerve-
ler > di Jarry, della quale Ionesco sembra la prima sincera vittima
e < l'apprenti sorcier ». < Io non sono riuscito, — dichiara nei Ca-
hiers des Saisons, 1959, — ad abituarmi all'esistenza del mondo e
soprattutto alla mia... E mi capita di sentire che le forme si svuo-
tano del contenuto, che la realtà è irreale, che le parole sono rumore
vuoto di senso... E in uno spazio senza spazio tutto sembra vola-
tizzarsi, tutto è minacciato — me compreso — da un imminente,
silenzioso crollo in non si sa quale abisso >.
Come a Sartre, è vano chiedere a Ionesco quale valore di
« autenticità > (come dicono) possano avere una concezione cosi
unilaterale dell'uomo e una così parziale visione del vero e del
tutto. Con Ionesco potremmo chiederci «par quelle sorcellerie
PRESENTAZIONE 507
tout cela pcut-il-encorc tenir > e per quale paradosso il teatro an-
tì-naturale e anti-lettcrario unisca nello stesso entusiasmo il grosso
pubblico, che ride, e i letterati che parlano di «teatro al quadra-
to», di «tromba marina», di magico «capovolgimento del pro-
blema dell'essere e del non essere » e di simili incantesimi e mera-
viglie. La risposta potrebbe essere data da quello che lo stesso
lonesco dice di Pirandello, che cioè, mentre la filosofìa e l'ideologia
pirandelliane son crollate, « c'est son langage théatral, son instinct
purement théatral qui fait que Pirandello est aujourd'hui cncore
vivant >. E lonesco possiede al sommo grado questo istinto, il lin-
guaggio e il dono teatrale che gli hanno consentito di vincere la
vecchia scommessa dei veggenti e dei visionari, di dare un'anima
illusoria e un massiccio corpo all'invisibile e all'inaudito.
FA è, quella di lonesco, la pili recente avventura romantica
del tragico che porta la grossa maschera del comico, dell'assurdo
che assume le favolose forme e le gratuite parvenze del naturale.
Le sedie
PERSONAGGI
IL VECCHIO, novantacinque anni
LA VECCHIA, novantaquattro anni
l'oratore, quarantacinque-cinquant'anni
E molli altri personaggi invisibili
LE SEDIE
farsa tragica
Pitreti circolari con un vano nel fondo. Sala molto spoglia. A destra, comin-
ciando dal proscenio, tre porte. Poi una finestra, uno sgabello davanti alla
finestra, e ancora una porta. Nel vano del fondo, una grande porta a due bat-
tenti e due porte minori che si fronteggiano: queste due porte, o almeno una,
sono quasi completamente nascoste agli occhi del pubblico. A sinistra della
scena, sempre cominciando dal proscenio, tre porte, una finestra con sgabello,
come a destra: poi una lavagna e una pedana.
A proscenio, due sedie fianco a fianco. Una lampada a gas appesa al soffitto.
Si apre il sipario. Penombra, il vecchio in piedi su uno sgabello,
è affacciato alla finestra di sinistra, la vecchia accende la lampada
a gas. Luce verde. La donna va a tirare il marito per la manica,
LA VECCHIA - Su, tesoro, chiudi la finestra. L'acqua stagnante fa cat-
tivo odore, e poi entrano le zanzare.
IL VECCHIO - Non seccarmi.
LA VECCHIA - Su SU, tcsorino, vienti a sedere. Non sporgerti, potresti
cadere nell'acqua. Ricorda cos'è successo a Francesco L Bisogna
fare attenzione.
IL VECCHIO - E dagliela con gli esempi storici! Lo sai, cocca, che ho
le tasche piene della tua storia di Francia. Io voglio guardare. Le
barche sull'acqua fanno delle chiazze al sole.
LA VECCHIA - Ma non puoi vederle! Non c'è il sole, è notte, tesoro mio.
IL VECCHIO - Ne restano le ombre, {si sporge molto)
LA VECCHIA (lo tira con tutte le forze) - Ah... mi farai morire, tesoro...
vieni a sederti, tanto non le vedrai arrivare. Non ne vai la pena.
È notte...
(// vecchio si lascia trascinare di malavoglia)
IL VECCHIO - Volevo guardare, mi piace tanto guardare l'acqua.
LA VECCHIA - Sci fantastico, tesoro mio; a me guardare giù dà le ver-
tigini. Ah! questa casa, quest'isola: non riesco ad abituarmici. Ac-
qua tutt'intorno... acqua sotto le finestre, acqua (ino all'orizzonte...
512 eugìne ionesco
(la vecchia trascina il vecchio; si dirigono verso le due sedie che si
trovano a proscenio; il vecchio, con la massima naturalezza, si siede
sulle ginocchia della vecchia)
IL VECCHIO - Sono le sci del pomeriggio... fa già buio. Ti ricordi? Una
volta non era cosi, era ancora chiaro alle nove di sera, alle dieci, a
mezzanotte.
LA VECCHIA - È vero. Che buona memoria hai!
IL VECCHIO - Tutto è cambiato.
LA VECCHIA - E perché, secondo te?
IL VECCHIO - Ah non saprei, Semiramide... Forse perché più si va, più
si sprofonda. È colpa della terra che gira, gira, gira, gira...
LA VECCHIA - Gira, gira, piccolo mio... {pausa) Ah si, tu sei certamente
un gran sapiente. Tu hai molto talento, tesoro mio. Avresti potuto
essere Presidente Capo, Re Capo, o persino Dottore Capo, Mare-
sciallo Capo, se tu avessi voluto, se avessi avuto un po' d'ambi-
zione...
IL VECCHIO - A che cosa sarebbe servito? Non ce la saremmo passata
meglio... e poi, dopo tutto, abbiamo una posizione, sono Mare-
sciallo anche cosi. Maresciallo d'Alloggio, dal momento che sono
portinaio.
LA VECCHIA {lo accorczza come fosse un bambino) - Povero piccino...
IL VECCHIO - Io crcpo di noia.
LA VECCHIA - Eri più allcgro guando guardavi Tacqua... Per distrarti,
fa' di nuovo finta, come l'altra sera.
IL VECCHIO - Fa' finta tu, oggi tocca a te.
LA VECCHIA - Tocca a te.
IL VECCHIO - A te.
LA VECCHIA - A te.
IL VECCHIO - A te.
LA VECCHIA - A te.
IL VECCHIO - Bevi il tuo tè, Semiramide.
{evidentemente non ce tè di sorta)
LA VECCHIA - Allora imita il mese di febbraio.
IL VECCHIO - Non mi piacciono i mesi dell'anno.
LA VECCHIA - Per il momento non ce ne sono altri. Via, fammi il pia-
cere...
IL VECCHIO - E sia. Eccoti il mese di febbraio, {si gratta la testa come
Stan Laurei)
LA VECCHIA (ride e applaude) - Magnifico, magnifico, grazie, sci deli-
LE SEDIE 513
zioso, tesoro mio. {lo bada) Oh! tu sei molto intelligente, avresti
potuto essere per lo meno Maresciallo in Capo, se avessi voluto....
IL VECCHIO - Sono Maresciallo d'Alloggio.
(pausa)
LA VECCHIA - Raccontami la storia, saiP quella: «Allora si arri...».
IL VECCHIO - Ancora?!... Adesso ne ho abbastanza... « Allora si arri... »?
(( Allora si arri... ». È monotono... Dopo settantacinque anni che
siamo sposati, tutte le sere, assolutamente tutte le sere, mi fai rac-
contare la medesima storia, mi fai imitare le medesime persone, gli
stessi mesi. È una musica troppo vecchia ormai... Parliamo d altro...
LA VECCHIA - Gioia mia, io non me ne stanco mai... È la tua vita, e
mi appassiona.
IL VECCHIO - La conosci a menadito.
LA VECCHIA - Per me è come se dimenticassi sempre tutto... Ho lo spi-
rito nuovo tutte le sere... Ma si, vedi, lo faccio apposta, prendo
delle purghe... ridivento nuova per te, mio tesoro, tutte le sere...
Su^ comincia, te ne supplico.
IL VECCHIO - Se proprio vuoi.
LA VECCHIA - Su, racconta la tua storia... È anche la mia: ciò che è
tuo, è mio: allora si arri...
IL VECCHIO - Allora si arri... anima mia...
LA VECCHIA - Allora si arri... cuoricino mio...
IL VECCHIO - Allora si arrivò presso un grande cancello. Eravamo tutti
bagnati, gelati fino alFosso, da parecchie ore, giorni, notti, setti-
mane...
LA VECCHIA - Mesi...
IL VECCHIO - ... nella pioggia... battevamo gli orecchi, i piedi, i ginoc-
chi, i denti... Son passati ottant'anni da allora... non ci hanno la-
sciati entrare... Avrebbero potuto aprire almeno la porta del giar-
dino...
(pausa)
LA VECCHIA - Nel giardino l'erba era bagnata.
IL VECCHIO - Il sentiero conduceva ad una piccola piazza e nel mezzo
della piazza c'era una chiesetta di villaggio... Dov'era quel villag-
gio? Ti ricordi?
LA VECCHIA - No, caro, non ricordo più.
IL VECCHIO - Come si faceva per arrivarci? La strada dov'era? Quella
località, io credo, si chiamava Parigi...
LA VECCHIA - Non è mai esistita la tua Parigi, carino mio.
IL VECCHIO - Si, che è esistita dal momento che è sprofondata... Era
Teatro francese
514 EUGÈNE lONESOO
la città della luce visto che si è spenta, spenta da quattrocentomila
anni... Oggi non ne resta più niente, salvo una canzone.
LA VECCHIA - Una canzone? È buffo. Quale canzone?
IL VECCHIO - Una ninna-nanna, un'allegoria: « Paris sera toujours Pa-
ris ».
LA VECCHIA - Si arrivava attraverso il giardino? Era lontano?
IL VECCHIO - La canzone?... la pioggia?...
LA VECCHIA - Tu Sei molto intelligente. Se avessi avuto un po' d'am-
bizione, saresti diventato un Re Capo, un Giornalista Capo, un
Attore Capo, un Maresciallo Capo... Nel vuoto tutto ciò, ahimé...
nel gran vuoto nero nero. Nel vuoto nero, ti dico.
(pausa)
IL VECCHIO - Allora arri...
LA VECCHIA - Ah SI, Continua... racconta...
{la vecchia intanto si metterà a ridere, prima sottovoce, leziosa, poi
sempre più forte; alla fine anche il vecchio riderà)
IL VECCHIO - Allora ha ri... ha ri... ha riso: a... a... aveva mal di pan-
cia, tanto ha... ha... ha riso, quando a... arrivò il buffone col pan-
cione a... a terra. A... a... aveva un valigione pi... pi...eno di ri...
riso di serra. Il ri... riso si rovesciò per terra e il buffone col pan-
cione sul valigione tra il riso, pumi, per terra. Allora ha... ha rìso...
so... so, pum^ pancione, riso, terra, la storia del mal di riso pan-
cione a terra, nel ri... riso, ha... ha riso, il pancione del buffone,
pumi nel riso...
LA VECCHIA {ridendo) - Allora ha... ha riso... so... so del buffone, arri...
ri...vato col valigione... pumi per terra...
I DUE VECCHI {insieme ridendo) - Allora ha... ha... ri... arri... arri...
Ah... Ah... ri... vò... arri... arri... il buffone, pum, col pancione..,
Ah... Ah... al riso arri... arrivò... al riso arri... arrivò... pancione..,
valigione... Ah... Ah... {poi i due vecchi a poco a poco si calmano)
...arri... arri... ri... ri...
LA VECCHIA - Non era che questo la tua famosa Parigi?
IL VECCHIO - E come si potrebbe dir meglio?
LA VECCHIA - Oh, tu sci davvero intelligente, mio caro, davvero, sai?
davvero! Tu avresti potuto essere qualcuno al mondo, molto più
che Maresciallo d'Alloggio.
IL VECCHIO - Cerchiamo d'esser modesti!... non domandiamo troppo...
LA VECCHIA - Forse hai infranto la tua vocazione?
IL VECCHIO {mettendosi d'un tratto a piangere) - L'ho infranta? L'ho
rotta? Ah, mamma, dove sei, mamma, mamma, dove sei?... Ih, ih,
LE SEDIE 515
ih, sono un orfanello I (geme) ... un orfanello, un orfanello...
LA VECCHIA - Ci sono io qui, di che hai paura?
IL VECCHIO - No, Semiramide, cocchina mia. Tu non sei la mia mam-
mina... orfanello, orfanello, chi mi difenderà?
LA VECCHIA - Tesoro, ci sono io!
IL VECCHIO - Non è la stessa cosa... io voglio la mia mamma, tu non
sei la mia mammina...
LA VECCHIA {accarezzandolo) - Mi spezzi il cuore, non piangere, stel-
lina!
IL VECCHIO - Ih, ih, son tutto infranto, son tutto rotto, ho male, la
vocazione mi fa male, s'è infranta, s'è rotta.
LA VECCHIA - Calmati.
IL VECCHIO {singhiozzando con la bocca spalancata come quella di un
bebé) ' Sono un orfanello... orfanello...
LA VECCHIA {cerca di consolarlo e lo coccola) - Il mio orfanello, il mio
micino, mi spezza il cuore!... {lo culla sulle sue ginocchia)
IL VECCHIO {singhiozzando) - Ih, ih, ih! Mamma! Dov'è la mia mam-
ma, la mia mamminina, io non ho la mia mamminina.
LA VECCHIA - Sono tua moglie, sono io, adesso, la tua mamma.
IL VECCHIO {cominciando ad arrendersi) - Non è vero, sono un orfa-
nello, ih, ih!
LA VECCHIA {cullandolo sempre) - Il mio micino, orfanellino, orfanuc-
cio, orfanettino...
IL VECCHIO {ancora imbronciato ma cominciando a lasciarsi persua-
dere) ' No!... Non voglio, io non vogliooooo!
LA VECCHIA {canticchia) - Orfanello-lo-lo, orfanino-no, orfanuccio-cio-cio,
lin-lon-lan!
IL VECCHIO - Noooo! Nooooo!...
LA VECCHIA - Orfa-a-a-ne-e-e-e-llo-o-o-o! Orfa-a-a-a-nu-u-u-u-ccio-o-o-o!
Trallalalà!
IL VECCHIO - Ih, ih, ih! {tira su fortemente dal naso e a poco a poco
si calma) Dov'è la mia mamma?
LA VECCHIA - In Paradiso... E ti ascolta, ti guarda, e se piangi tu pian-
gerà anche lei!
IL VECCHIO - Non è mica veroooooo... Non mi vede... Non mi ascolta.
Io sono un orfanello, solo al mondo e tu non sci la mia mamma.
(// vecchio è quasi calmo)
LA VECCHIA - Su, Calmati, non ridurli in questo stato... tu hai delle
qualità eccezionali, mio piccolo Maresciallo... Asciugati le lacrime,
questa sera debbono venire gli invitati. Non bisogna che ti trovino
cosi... Non è affatto vero che tutto è perduto: tu dirai ogni cosa,
516 EUGÈNE lONESCO
la spiegherai, hai un messaggio... Hai sempre ripetuto che Tavresti
detto... Devi vivere, devi lottare per il tuo messaggio...
IL VECCHIO - Certamente, ho un messaggio, hai ragione. Io lotto per
la mia missione. Ho qualcosa, qui, nei visceri, un messaggio da
comunicare all'umanità, all'umanità...
LA VECCHIA - Si, topolino mio, il tuo messaggio all'umanità...
IL VECCHIO - Questo è vero, è proprio cosi...
LA VECCHIA {lo puHsce col fazzoletto e gli asciuga le lacrime) - Cosi
va bene... sei un uomo, un soldato, un Maresciallo d'Alloggio...
IL VECCHIO {si è alzato dalle ginocchia della vecchia e cammina a pic-
coli passi nervosi) - Io non sono come gli altri, io ho un ideale
nella vita. Forse, come tu dici, sono intelligente, ho del talento,
ma non ho facilità d'espressione. Ho ben adempiuto ai miei doveri
di Maresciallo d'Alloggio, sono sempre stato all'altezza della situa-
zione, con decoro, ciò potrebbe bastare...
LA VECCHIA - Ad altri, non a te. Tu non sei come gli altri. Tu sei
molto più in su. Ad ogni modo sarebbe stato assai meglio se tu
fossi andato d'accordo col tuo prossimo, come fanno tutti. E in-
vece hai litigato con tutti i tuoi amici, con tutti i direttori, con tutti
i marescialli e con tuo fratello.
IL VECCHIO - Non è colpa mia, Semiramide; sai bene ciò che mi ha
detto.
LA VECCHIA - Che cosa ti ha detto?
IL VECCHIO - Ha detto: « Ragazzi, ho una pulce. Sono venuto a tro-
varvi con la speranza di lasciarvela ».
LA VECCHIA - È un modo di dire. Non avresti dovuto dargli peso. Ad
ogni modo perché hai litigato anche con Carol? Colpa sua anche
stavolta ?
IL VECCHIO - Hai deciso di farmi andar fuori dai gangheri? Guarda
un po'. Certamente che e stata colpa sua. Una sera e arrivato e mi
ha detto: «Ti auguro buona fortuna. Dovrei dirti: abbi del...,
ma non lo dirò: lo penso ». E rideva come un maiale.
LA VECCHIA - Era un uomo di buon cuore, tesoro mio. Nella vita non
bisogna esser troppo schizzinosi.
IL VECCHIO - Non mi piacciono certi scherzi.
LA VECCHIA - Tu avresti potuto essere Marinaio Capo, Ebanista Capo,
Direttore d'Orchestra Capo.
{lungo silenzio. Restano un momento impietriti, completamente im-
mobili sulla loro sedia)
IL VECCHIO (sognante) - Era in fondo al fondo del giardino... era là...
era là... era là... Che cosa era là, mia cara?
LE SEDIE 517
LA VECCHIA - Parigi?
IL VECCHIO - In fondo, in fondo al fondo di Parigi, c'era, c'era, c'era
che cosa?
LA VECCHIA - Che cosa c'era, mio tesoro, chi c'era?
IL VECCHIO - C'era un luogo, un'epoca deliziosa...
LA VECCHIA - Era un'epoca tanto bella, credi?
IL VECCHIO - Io non ricordo la località...
LA VECCHIA - E allora non stancarti la mente.
IL VECCHIO - È troppo, troppo lontano, non riesco più... a riacchiappar-
la... Dov'era?
LA VECCHIA - Di che cosa parli?
IL VECCHIO - Quel che mi... quel che si... dov'era? Chi era?
LA VECCHIA - Dovunque sia io ti seguirò, mio tesoro.
IL VECCHIO - Ah! Faccio tanto fatica ad esprimermi... Bisogna proprio
che dica tutto.
LA VECCHIA - È il tuo sacrosauto dovere. Non hai il diritto di tacere il
tuo messaggio; devi rivelarlo agli uomini, essi lo aspettano... l'uni-
verso non aspetta che te.
IL VECCHIO - Si SI, lo dirò.
LA VECCHIA - Sei ben deciso? È indispensabile.
IL VECCHIO - Bevi il tuo te.
LA VECCHIA - Avresti potuto essere Oratore Capo, se avessi avuto un po'
di volontà... Io sono fiera, sono felice che tu ti sia finalmente deciso
a parlare a tutti i paesi, all'Europa, a tutti i continenti!
IL VECCHIO - Ahimé, faccio tanta fatica ad esprimermi, non ho di-
sposizioni.
LA VECCHIA - Le disposizioni vengono quando si comincia, come la
vita e la morte... Basta essere risoluti. Parlando si trovano le idee,
le parole, e poi nelle parole si trova anche noi stessi e la città,
il giardino, ritroviamo tutto forse, e non si è più orfani.
IL VECCHIO - Non sarò io a parlare. Ho assoldato un oratore profes-
sionale, parlerà a nome mio, vedrai.
LA VECCHIA - Allora è proprio deciso tutto per questa sera? Li hai
perlomeno tutti convocati, tutte le personalità, tutti i proprietari
e tutti gli studiosi?
IL VECCHIO - Si, tutti i proprietari e tutti gli studiosi.
{pausa)
LA VECCHIA - Guardiani? Vescovi? Chimici? Calderai? Violinisti? De-
legati? Presidenti? Poliziotti? Commercianti? Edifìci? Portapenne?
Cromosomi ?
518 eugìne ionesco
IL VECCHIO - Si, SI, e anche i postini, gii albergatori, gli artisti, insom-
ma tutti quelli che sono un pò* studiosi e un po' proprietari!
LA VECCHIA - E i banchieri?
IL VECCHIO - Li ho convocati.
LA VECCHIA - I proletari? I funzionari? I militari? I rivoluzionari?
I reazionari? Gli alienisti e i loro alienati?
IL VECCHIO - Ma SI, ti dico, tutti, tutti, tutti, giacché evidentemente,
per un verso o per l'altro, sono tutti degli studiosi o dei pro-
prietari.
LA VECCHIA - Non arrabbiarti, tesoro, non voglio infastidirti; tu però
sei talmente distratto, come tutti i grandi geni, e questa riunione
è importante, bisogna proprio che questa sera ci siano tutti. Sei
certo di poter contare su di loro? Hanno dato la parola?
IL VECCHIO - Bevi il tuo tè, Semiramide.
(pausa)
LA VECCHIA - Il Papa, i pappagalli e i papiri?
IL VECCHIO - Li ho convocati, (pausa) Annuncerò il mio messaggio...
Tutta la mia vita mi sentivo soffocare, adesso sapranno tutto, gra-
zie a te e all'oratore, voi soli mi avete compreso.
LA VECCHIA - Sono fiera di te...
IL VECCHIO - La riunione si terrà fra poco.
LA VECCHIA - È dunque vero? Stanno per arrivare, questa sera stessa?
Non ti verrà più da piangere: gli studiosi e i proprietari possono
rimpiazzare benissimo i papà e le mamme, (pausa) Ormai non si
potrebbe più rinviare la riunione. Questa faccenda però non d
stancherà troppo?
(agitazione piti intensa. Già da qualche istante il vecchio sta girando a
piccoli passi esitatiti — passi da vegliardo e da bambino — attorno
alla moglie. Fa due o tre passi in direzione di una delle porte, poi
ritorna a girare in tondo)
IL VECCHIO - Pensi davvero che ci stancheremo?
LA VECCHIA - Tu sci un po* raffreddato.
IL VECCHIO - Come fare a disdire gli inviti?
LA VECCHIA - Invitiamoli un'altra sera. Potresti telefonare.
IL VECCHIO - Dio mio, è impossibile, ormai è troppo tardi. A quest'ora
si sono di certo già imbarcati!
LA VECCHIA - Avresti dovuto essere più prudente.
(si ode il fruscio di una barca sull'acqua)
519
IL VECCHIO - Credo che stiano arrivando...
(// fruscio della barca si ode più distintamente)
Si, arrivano!...
{anche la vecchia si alza e cammina zoppicando)
LA VECCHIA - Forse è l'oratore.
IL VECCHIO - Non arriva cos( presto lui. Dev'essere qualcuno degli
altri.
(suonano)
Ahi
LA VECCHIA - Ah!
{nervosamente il vecchio e la vecchia si dirigono verso la porta nascosta
nel fondo, a destra)
I VECCHI - Andiamo...
LA VECCHIA . Sono tutta spettinata... Aspetta un momento... {si aggiu-
sta i capelli, l'abito, continuando a camminare zoppicando; si tira
su le grosse calze rosse)
IL VECCHIO - Dovevi prepararti prima... C'era tutto il tempo...
LA VECCHIA - Guarda come sono mal vestita!... Ho l'abito frusto e spie-
gazzato...
IL VECCHIO - Non avevi che da stirarlo... Spicciati! Fai aspettare la
gente.
(// vecchio, seguito dalla vecchia che brontola, arriva alla porta n, 10,
nel vano; il pubblico non li vede per un momento; si ode aprire
la porta, poi richiuderla, dopo che è entrato qualcuno)
VOCE DEL VECCHIO - Buon giomo, Signora, entri la prego. Siamo felici
di riceverla. Ecco mia moglie.
VOCE DELLA VECCHIA - Buon giomo, Signora. Felice di fare la sua co-
noscenza. Attenzione: non guasti il cappello. Tolga pure la spilla,
sarà più comodo. Oh no! Nessuno vi sì siederà sopra.
VOCE DEL VECCHIO - Metta pure qua la sua pelliccia. Aspetti, l'aiuto.
Stia tranquilla, non si rovinerà.
VOCE DELLA VECCHIA - Oh che dclizioso tailleur... E la camicetta trico-
lore... Gradirà sicuramente qualche biscotto... Non è affatto grassa...
No... Un po' in carne... Lasci pure il paracqua.
VOCE DEL VECCHIO - Se vuolc scguirci...
IL VECCHIO {di schiena) - Non ho che un modestissimo impiego...
{il vecchio e la vecchia si ventano al medesimo tempo e si scostano per
far posto, tra loro, altinvitata. Costei è invisibile. Il vecchio e la
520 EUGÈNE lONESCO
vecchia avanzano di faccia verso il proscenio; parlano alla signora
invisibile che cammina tra loro)
IL VECCHIO (alla Signora invisibile) - Ha avuto tempo bello?
LA VECCHIA (dia stessa) - Non si sarà mica stancata troppo?... Sf, un
po'.
IL VECCHIO (come sopra) - In riva all'acqua...
LA VECCHIA (come sopra) - Troppo gentile da parte sua.
IL N'EccHio (come sopra) - Vado a prenderle una sedia.
(il vecchio si dirige a sinistra ed esce dalla porta n. 6)
LA VECCHIA (come sopra) - Mentre aspetta, prenda questa sedia (indica
una delle due sedie e si siede sull'altra, a destra della Signora invisi-
bile) Fa molto caldo, non le pare? (sorride alla Signora) Che gra-
zioso ventaglio! Mio marito...
(// vecchio riappare dalla porta «. 7 con una sedia)
... me ne aveva regalato uno simile, settantatré anni fa... L*ho an-
cora...
(// vecchio mette la sedia alla sinistra della Signora invisibile)
...un regalo di compleanno!...
{il vecchio siede sulla sedia che ha portato, cosicché la Signora invi-
sibile viene a trovarsi nel mezzo, il vecchio, rivolto alla Signora,
le sorride, dondola la testa, stropiccia adagio una mano contro
l'altra, ha l'aria di ascoltare ciò che essa dice. La mimica della
vecchia è analoga)
IL VECCHIO - Signora, la vita non è mai stata a buon mercato.
LA VECCHIA (alla Signora) - Lei ha perfettamente ragione...
(la Signora parla)
Proprio COSI... Sarebbe ora che le cose cambiassero... (con altro
tono) Forse, mio marito ci penserà... Ha un progetto...
IL VECCHIO (alla vecchia) - Semiramide, per carità, non è ancora il mo-
mento di parlarne, (alla Signora) Mi scusi, Signora, d'aver stuz-
zicato la sua curiosità, (la Signora reagisce) Cara Signora, la prego»
non insista...
(/ due vecchi sorridono. Ridono anzi. Hanno l'aria di divertirsi molto
alla storia che la Signora invisibile racconta. Una pausa, un mo-
mento morto nella conversazione. Le figure perdono ogni espres-
sione)
IL VECCHIO (dia Signora) - ... Sì, lei ha perfettamente ragione...
LE SEDIE 521
LA VECCHL\ - Si, SI, SI... ComC HO?
IL VECCHIO - Si, SI, sì, niente affatto.
LA VECCHIA - Si?
IL VECCHIO - No!?
LA VECCHIA - Parole d*oro!
IL VECCHIO (ride) - Impossibile.
LA VECCHIA [ride) ' Corbezzoli! {ai vecchio) È una donna deliziosa.
IL VECCHIO {càia vecchia) - Mia cara, non potrai negare che la Signora
ti ha conquistata, (dia Signora) Congratulazioni!...
LA VECCHIA (alla Signora) - Lei non è come la gioventù del giorno
d'oggi...
IL VECCHIO (si abbassa faticosamente per raccattare un oggetto invi-
sibile che la Signora invisibile ha lasciato cadere) - Lasci... non si
disturbi... lo raccolgo io... Oh, è stata più svelta di me!... (si ri-
solleva)
LA VECCHIA (d vecchio) - Non ha la tua età!
IL VECCHIO (dia Signora) - Gli anni pesano sul groppone. Le auguro
di restare eternamente giovane.
LA VECCHIA (come sopra) - Può credergli, sa, è sincero, tutto buon cuo-
re, (d vecchio) Tesoro!
(un breve silenzio, I vecchi, di profilo, rispetto d pubblico, guardano
la Signora sorridendo educatamente. Voltano la testa verso il pub-
blico, poi, guardando di nuovo la Signora, rispondono con sorrisi
ai suoi sorrisi)
I DUE VECCHI - È molto gentile ad interessarsi di noi.
IL VECCHIO - Conduciamo vita appartata.
LA VECCHIA - Senza essere misantropo, mio marito ama la solitudine.
IL VECCHIO - Abbiamo la radio, io pesco con la lenza, e poi c*è un ser-
vizio di battelli che funziona abbastanza bene.
LA VECCHIA - La domenica ne passano due il mattino e uno la sera,
senza contare le imbarcazioni private.
IL VECCHIO (alla Signora) - Quando fa bel tempo, c'è la luna.
LA VECCHIA (come sopra) - Lui esercita le sue funzioni di Maresciallo
d'Alloggio... La cosa lo occupa molto. A dire il vero, alla sua età
potrebbe andare in pensione.
IL VECCHIO (come sopra) - Avrò tutto il tempo di riposarmi nella tomba.
LA VECCHIA (d vecchio) - Non dir queste cose, tesoro mio... (dia Si-
gnora) La famiglia, quello che ne resta, i colleghi di mio marito,
venivano ancora a trovarci, di tanto in tanto, dieci anni fa...
522 eugìne ionesoo
IL VECCHIO (alla Signora) - D'inverno, un buon libro, accanto al tcr-
mosifone, i ricordi di tutta una vita...
LA VECCHIA (come sopra) - Una vita modesta, ma illibata... Due ore al
giorno, lui lavora al suo messaggio, (il ode suonare; da qualche
istante si percepivano i fruscii di un'imbarcazione; al marito) Ar-
riva gente. Corri.
IL VECCHIO {(dia Signora) - Lei mi scusa, Signora? Un attimo! (alla
vecchia) Corri a prender delle sedie.
LA VECCHIA {alla Signora) - La lascio sola un minutino, cara amica.
{violenti colpi di campanello)
IL VECCHIO {va barcollando verso la porta n, 2, a destra, mentre la vec-
chia va verso la porta n. 9, a sinistra, correndo a fatica e zoppi-
cando) ' È certamente una persona autoritaria, {si affretta, apre la
porta n. 2)
(entrata del colonnello invisibile. Sarà bene si odano, in sordina, al-
cuni squilli di tromba e qualche nota dd « Saiuto al colonnello ».
Appena aperta la porta, scorgendo il Colonnello, il vecchio si irri-
gidirà in un a attenti» rispettoso)
Ah!... Signor Colonnello! {alza vagamente un braccio in direzione
della fronte, in un seduto che non si precisa) Buon giorno. Colon-
nello... È un onore sbalorditivo per me... io... io... io non mi sarei
mai aspettato... benché... comunque... insomma, io sono fiero dì
ricevere nella mia casa un eroe della sua statura... {stringe la mano
invisibile che gli tende il Colonnello invisibile, /inchina cerimo-
niosamente, poi si raddrizza) Senza falsa modestia, ad ogni modo,
io mi permetto di confessarle che non mi sento indegno della
sua visita. Fiero, sf... Indegno, no!...
{ìa vecchia appare con una sedia dalla porta n. 4)
LA vecchia - Oh che bella divisa! E quante belle decorazioni! Chi è,
gioia mia?
IL VECCHIO {alla vecchia) - Non vedi che è il Colonnello?
LA VECCHIA {al vecchio) - Ah?
IL VECCHIO {alla vecchia) - Conta i galloni! {al Colonnello) È la mia
sposa, Semiramide, {alla vecchia) Avvicinati, voglio presentarti ai
Colonnello.
{la vecchia si avvicina, trascinando con una mano la sedia, fa una ri-
verenza senza abbandonare la sedia)
IL VECCHIO {al Colonnello) - Mia moglie, {alla vecchia) Il Colonnello.
LE SEDIE
523
LA VECCHIA - Felicissima, signor Colonnello. Sia il benvenuto. Lei è
un collega di mio marito, che è Maresciallo...
IL VECCHIO (seccato) - ...d'Alloggio, d'Alloggio...
(// Colonnello invisibile bacia la mano della vecchia. Ciò si capisce dal
gesto della mano della vecchia che si dza come verso delle lab-
bra. Per l'emozione la vecchia lascia cadere la sedia)
LA VECCHIA - Oh, quant'è educato I... Si vede subito che è un superiore,
un essere superiore!... (riprende la sedia; d Colonnello) La sedia è
per lei...
IL VECCHIO (d Colonnello invisibile) - Si degni di seguirci... (si diri-
gono verso il proscenio; la vecchia trascina sempre la sedia) Si, c'è
già qualcimo. E aspettiamo ancora molta gente I...
(la vecchia colloca la sedia dia destra)
LA VECCHIA (d Colonnello) - Si accomodi, la prego.
(/ vecchi presentano i due personaggi invisibili)
IL VECCHIO - Una giovane signora amica nostra...
LA VECCHIA - Un'ottima amica.
IL VECCHIO (medesima mimica) - Il Colonnello... un eminente militare.
LA VECCHIA (indicando la sedia che ha portato per il Colonnello) - Ecco
la sua sedia.
IL VECCHIO (dia vecchia) - Ma noi Non vedi che il signor Colonnello
vuol sedere accanto alla Signora?!
(il Colonnello siede invisibilmente sulla terza sedia a partire da sinistra;
la Signora invisibile si suppone seduta sulla seconda. Una conver-
sazione silenziosa inizia tra i due personaggi invisibili seduti Funo
accanto dl'dtro. I due vecchi restano in piedi, dietro die loro sedie,
d due lati degli ospiti invisibili: il vecchio a sinistra della Signora,
la vecchia a destra del Colonnello)
LA VECCHIA (ascoltando la conversazione dei due invitati) - Ohi Ohi
Questo è troppo.
IL VECCHIO (dia vecchia) ^ Pare anche a me.
(// vecchio e la vecchia, sopra la testa dei due invitati, si fanno dei
segni, continuando ad ascoltare la conversazione che ha l'aria di
prendere una piega tde da scontentare i vecchi)
IL VECCHIO (bruscamente) - Colonnello, non sono ancora arrivati ma
arriveranno. L'oratore parlerà per conto mio, ed illustrerà il mio
messaggio... Stia attento, Colonnello, il marito di questa Signora
può arrivare da un momento all'altro.
524 EUCÈNE lONESCO
LA VECCHIA {al vecchio) ' Chi è questo signore?
IL VECCHIO {alla vecchia) - Te l'ho già detto, è il Colonnello.
LA VECCHIA {al vecchio) - Lo sapevo.
IL VECCHIO - E allora perché me lo domandi?
LA VECCHIA - Per saperlo. Colonnello, non butti per terra i mozzi-
coni.
IL VECCHIO {al Colonnello) - Colonnello, Colonnello, ho dimenticato.
L'ultima guerra, lei Tha vinta o l'ha perduta?
LA VECCHIA {alla Signora invisibile) - Mia cara, non lo lasci fare a que-
sto modo!
IL VECCHIO - Mi guardi, mi guardi, ho l'aria di un cattivo soldato?
In fede mia, signor Colonnello, in una battaglia...
LA VECCHIA - Adesso esagera! È sconveniente! {tira il Colonnello per
la manica invisibile) Lo stia un po' a sentire, diamine! Tesoro, non
lasciarlo fare!
IL VECCHIO {continuando) - Da solo, ne ho fatto fuori duecentonove...
li chiamavano cosi perché saltavano molto in alto per scappare...
tuttavia meno numerosi delle mosche, e meno divertente, si capi-
sce. Colonnello, ma grazie alla mia forza di carattere io li ho...
Oh no, la prego, la prego...
LA VECCHIA {al Colonnello) - Mio marito non dice bugie. Siamo an-
ziani, è vero, ma siamo ugualmente rispettabili.
IL VECCHIO {con violenza al Colonnello) - Un eroe dev'essere anche
educato, se vuole essere un eroe completo!
LA VECCHIA {al Colonnello) - La conosco da molto tempo. Non mi
sarei mai aspettata una cosa simile da lei. {dia Signora, mentre si
odono le barche) Non mi sarei mai aspettata una cosa simile da lui.
Noi abbiamo una dignità, un amor proprio personale.
IL VECCHIO {con voce tremante) - Sono ancora in grado di portare le
armi!
{colpo di campanello)
Con permesso vado ad aprire, {ja un movimento sbagliato, la
sedia della Signora invisibile si rovescia) Oh mi scusi.
LA VECCHIA {precipitandosi) - Non si è fatta male? (// vecchio e la vec-
chia aiutano la Signora invisibile ad alzarsi) Si e sporcata. C'è della
polvere, (aiuta la signora a spolverarsi)
{altro colpo di campanello)
IL VECCHIO - Mi scusino, mi scusino, {alla vecchia) Va' a prendere
un'altra sedia.
LA VECCHIA {ai due invitati invisibili) - Scusateci un istante.
LE SEDIE 525
{mentre si vecchio va ad aprire la porta «. 3, la vecchia esce dalla
porta n, 5 per andare a prendere una sedia, e poi rientrerà dalla
porta n. 8)
IL VECCHIO (dirigendosi verso la porta) - Voleva proprio farmi andar
fuori dai gangheri. Sono quasi arrabbiato, (apre la porta) Oh! Si-
gnora, lei?! Non riesco a credere ai miei occhi, eppure... Non me
lo sarci proprio aspettato... Davvero, è... Oh, Signora Signora...
£ dire che io ho tanto pensato a lei, tutta la mia vita, tutta la vita,
Signora. Lsl chiamavano « La Bella »... È suo marito... certamente,
me l'hanno riferito... Non ha cambiato per niente... oh, si, si, quan-
to si e allungato il suo naso, com'è gonfiato... Non me n'ero ac-
corto a prima vista, ma adesso me ne accorgo... terribilmente al-
lungato... Oh che peccato! E com'è capitato?... A poco a poco... Mi
scusi, signore e caro amico, mi permetta di chiamarlo caro amico,
io ho conosciuto sua moglie molto prima di lei... Era tal quale,
con un naso completamente diverso... Io mi congratulo, signore,
voi due avete l'aria di volervi molto bene! {la vecchia appare dalla
porta n, 8 con una sedia) Semiramide, ne sono arrivati due, occorre
ancora una sedia...
{la vecchia lascia la sedia dietro alle altre quattro, poi esce dalla porta
n. 8 e in capo a qualche istante rientra dalla porta n. 5 portando
un'altra sedia che collocherà accanto alla precedente. Nel frattempo
il vecchio sarà arrivata con i due nuovi invitati presso la vecchia)
Avanti, avanti, si, c'è già qualcuno, adesso vi presento... E cosi.
Signora... Oh, bella, bella, signorina Bella, cosi la chiamavamo...
adesso è piegata in due... Oh signore, è ancora bellissima nonostan-
te tutto, sotto gli occhiali, ancora i suoi splendidi occhi; i suoi ca-
pelli sono bianchi, ma sotto i bianchi ci sono i bruni, gli azzurri,
ne sono certo... Avanti, avanti... Come, signore? Un regalo per mia
moglie?! (alla vecchia che è arrivata con la sedia) Semiramide, è La
Bella, ricordi, La Bella... {al Colonnella e alla prima Signora in-
visibile) È la signorina, pardon, la signora Bella — non sorrida —
..e suo marito... {alla vecchia) Un'amica d'infanzia, te ne ho parla-
to spesso... e suo marito, (di nuovo al Colonnello e alla prima Si-
gnora) E suo marito.
LA VECCHIA (fa la riverenza) - Perdinci che bell'uomo! Che portamento!
Buon giorno, signore, (indica ai nuovi venuti gli altri due invitati
invisibili) Amici, s\y due amici...
IL VECCHIO (alla vecchia) - Ti hanno portato un regalo.
(la vecchia prende il regalo)
526 eugìne ionesco
LA VECCHIA - È un fioFc, signore? O una culla? Un pero o un corvo?
IL VECCHIO {alia vecchia) - No, vedi bene che è un quadro!
LA VECCHIA - Oh, quant'è bello! Grazie mille, signore... {alla prima
Signora invisibile) Guardi, cara amica, guardi se le fa piacere!
IL VECCHIO {al Colonnello invisibile) - Guardi anche lei, se le fa pia-
cere!
LA VECCHIA (fl/ marito della Bella) - Dottore, dottore, ho le nausee, ho
le caldane, ho mal di cuore, ho i reumatismi, non sento più i piedi,
ho freddo agli occhi, ho freddo alla vita, alle dita, soffro di fegato,
dottore, dottore!...
IL VECCHIO {alla vecchia) - Il signore non è dottore, è fotografo.
LA VECCHIA {alla prima Signora) - Se Tha guardato abbastanza, può ap-
penderlo, {al vecchio) Non importa, è egualmente incantevole. È
entusiasmante! {al fotografo) Non le faccio dei complimenti, sa...
{il vecchio e la vecchia devono trovarsi adesso dietro le sedie, l'uno
accanto all'altra e quasi si toccano, ma di schiena. Parlano: il vec-
chio alla Bella, la vecchia ed fotografo. Di tanto in tanto, ventando
la testa, rivolgono una battuta all'uno o all'altro dei due primi in-
vitati)
IL VECCHIO {alla Bella) - Sono commosso... Lei è proprio lei, nonostante
tutto... Io l'amavo, cent'anni fa... È talmente cambiata... Non è cam-
biata affatto... io l'amavo, io l'amo...
LA VECCHIA {al fotografo) - Ah, signore, signore, signore...
IL VECCHIO {al Colonnello) - Sono d'accordo con lei su questo punto.
LA VECCHIA {al fotografo) - Oh, certamente, signore, certamente... (alla
prima Signora) Grazie di averlo appeso... Mi scusi di averla di-
sturbata...
{adesso la luce è pie forte. Essa cresce via via che arrivano gli ospiti
invisibili)
IL VECCHIO {alla Bella, quasi gemendo) - Dove sono le rose di un
tempo?
LA VECCHIA {al fotografo) - Oh, signore, signore, signore... Oh signore...
IL VECCHIO {additando alla Bella la prima Signora) - È una giovane
amica... una persona molto per bene...
LA VECCHIA {additando al fotografo il Colonnello) - Si, è un Colonnello
di Stato a cavallo... un collega di mio marito... un subalterno, mio
marito è Maresciallo...
IL VECCHIO {alla Bella) - I^i non ha sempre avuto delle orecchie a pun-
ta!... Bella mia, se ne ricorda?
LA VECCHIA {al fotografo, leziosa, grottesca; grottesca, dovrà esserlo
LE SEDIE 527
sempre più nel corso di questa scena; farà vedere le sue spesse calze
rosse, solleverà le sue numerose sottane, ne mostrerà una tutta pie-
na di buchi, scoprirà il suo vecchio seno; poi, marti sulle anche,
rovescerà la testa alVindietro, lanciando grida erotiche, sporgerà
in avanti il bacino, le gambe divaricate, riderà come una vecchia
puttana; questo contegno, completamente diverso da quello che essa
terrà in seguito e che deve rivelare una personalità nascosta della
vecchia, cesserà di colpo) - Oh, non sono cose adatte alla mia età...
Lei dice?
IL VECCHIO {alla Bella, molto romantico) - Ai nostri tempi la luna
era un astro vivo» ah si, si, se avessimo osato... Ma non eravamo
che due bambini. Vuole che riguadagnamo il tempo perduto... è an-
cora possibile? Possibile?! Ah no, no, non si può più. Il tempo è
passato veloce come un lampo e ci ha lasciato dei solchi nella pelle.
Crede davvero che la chirurgia estetica possa fare miracoli? {al Co-
lonnello) Io sono un militare, e lei pure, i militari sono sempre gio-
vani, e i marescialli non sono da meno degli dei... {alla Bella) Do-
vrebbe essere cosi... Ahimé, ahimé, tutto è perduto! Avremmo po-
tuto essere felici, avremmo potuto, dico; ma forse non è detto che
dalla neve non possano sbocciare altre rose...
LA VECCHIA {al fotografo) - Adulatore! Briccone! Ah! Ah! Non mi si
darebbe l'età che ho? Spudorato! Lei mi farà girar la testa.
IL VECCHIO {alla Bella) - Vogliamo essere Tristano e Isotta? La bellezza
è nei cuori e il cuore non ha età... Capisce? Avremmo avuto in
comune la gioia, la bellezza, l'eternità... l'eternità... Perché, perché
non abbiamo osato? Non abbiamo saputo voler abbastanza... Ormai
tutto è perduto, perduto, perduto.
LA VECCHIA {al fotografo) - Oh no, oh no no no, lei mi dà i brividi.
Anche lei è solleticato? Solleticato o solleticatore? Io mi vergogno
un po'... {ride'j Le piace la mia sottana? O preferisce la mia fal-
diglia?
IL VECCHIO {alla Bella) - Una povera vita da Maresciallo d'Alloggio!
LA VECCHIA {voltando la testa verso la prima Signora invisibile) - Per
preparare il cervello di gallina? Due teste di rapa, un bianco d'oc-
chio sbattuto, tre ore di liquore, {d fotografo) Lei ha dita troppo
ardite, ah... Son cose da farsi?... Oh-oh-oh-oh.
IL VECCHIO {dia Bella) - La mia nobile compagna, Semiramide, ha pre-
so nella mia vita il posto di mia madre, {d Colonnello) Colonnello,
glielo avevo pur detto, la verità bisogna prenderla dove si trova.
{si volta verso la Bella)
LA VECCHIA {d fotografo) - Lei è davvero del parere che si possano avere
figli a tutte le età? Figli di tutte le età?
528 EUGÈNE lONESCO
IL VECCHIO (alla Bella) - È ciò che mi ha salvato: la vita intcriore, un
quartierino intimo, Tausterità, le mie ricerche scientifiche, la fi-
losofìa, il mio messaggio...
LA VECCHIA (al fotografo) - Giammai, finora, tradii il mio sposo, il mio
Maresciallo... Piano, piano, di questo passo mi farà cadere... Io non
son altro che la sua povera mamma! (singhiozza) Fermo con le
mani!... La sua povera mamma! Ode? Sono i singhiozzi della mia
coscienza. Per me non ci sono più spiragli di luce. Volga i suoi
occhi altrove. Io non voglio cogliere le rose della vita...
IL VECCHIO (alla Bella) - ... Preoccupazioni d'ordine superiore...
(/7 vecchio e la vecchia conducono la Bella e il fotografo accanto agli
altri due invitati invisibili e li fanno sedere)
I DUE VECCHI (ài fotografo e dia Bella) - S'accomodino, s'accomodino!
(/ due vecchi prendono posto, lui a sinistra, lei a destra, con le quattro
sedie vuote tra loro. Lunga scena muta, punteggiata solo di tanto
in tanto da « no », « si », « no », « si ». / due vecchi ascoltano ciò
che dicono le persone invisibili)
LA VECCHIA (al fotografo) - Abbiamo avuto un figlio... È vivo, benin-
teso... Non abita più qui... È una storia come tante altre... piuttosto
strana... Ha abbandonato i suoi genitori... Aveva un cuor d'oro...
tanto tempo fa... Noi che lo amavamo tanto... Ha sbattuto la porta...
Mio marito ed io abbiamo cercato di trattenerlo con la forza... Ave-
va sette anni, l'età della ragione; io gridavo: figlio, figlio mio, figlio,
figlio mio... Non ha neppure girato la testa...
IL VECCHIO - Ahimé no... no... non abbiamo avuto figli... avrei tanto
voluto avere un figlio... Anche Semiramide... Abbiamo fatto tutto
il necessario... La mia povera Semiramide, lei che è tanto materna...
Forse è stato meglio cosi. Anch'io sono stato un figlio ingrato!...
Ahi... Il dolore, i rimpianti, i rimorsi, non c'è altro, non ci resta
altro...
LA VECCHIA - Diceva: voi uccidete gli uccelli! Perché uccidere gli uc-
celli?... Noi non abbiamo affatto l'abitudine di uccidere uccelli...
non abbiamo mai fatto male ad una mosca... Lui aveva i lacri-
moni agli occhi. Non se li lasciava asciugare. Era impossibile an-
dargli vicino. Diceva: si; voi uccidete gli uccelli, tutti gli uccelli...
Ci mostrava i suoi piccoli pugni chiusi... Mentite, mi avete ingan-
nato! Le strade sono piene di uccelli morti, di piccoli che agoniz-
zano. È il canto degli uccelli?... No, sono i loro gemiti. Il cielo è
rosso di sangue... No, bambino mio, è azzurro!... Lui continuava
a gridare: mi avete ingannato, io vi adoravo, vi credevo buoni... L«
Bozzetto (li Jacques Noci per Le sedie di lonesco.
529
strade sono piene di uccellini morti, avete strappato loro gli occhi...
Papà, mamma, siete cattivi!... Non voglio più restare coii voi... Io
mi sono gettata ai suoi piedi... Suo padre piangeva. Non abbiamo
potuto trattenerlo... L'abbiamo ancora udito gridare di lontano:
siete voi i responsabili... Che cosa vuol dire responsabile?
IL VECCHIO - Ho lasciato morire mia madre tutta sola in un fosso. Lei
mi chiamava, gemeva debolmente: « Piccino mio, cuoricino mio,
non lasciarmi morire sola. Resta con me. Non ne ho più per mol-
to». «Non preoccuparti, mamma, — le dicevo, — torno subito...
(avevo fretta... dovevo andare a ballare) Torno subito ». Al
mio ritorno era già morta e sotterrata profondamente... Ho scavato
la terra, l'ho cercata... non sono più riuscito a trovarla... Lo so, lo
so, i figli abbandonano sempre la loro madre, uccidono più o meno
il loro padre... la vita è fatta cosi... ma io ne soffro... gli altri no...
LA VECCHIA - Gridava: papà, mamma, non mi rivedrete mai più...
IL VECCHIO - Io ne soffro, si, gli altri no...
LA VECCHIA - Non uc parli a mio marito. Lui che amava tanto i suoi
genitori. Non li ha lasciati un attimo. Li ha curati, li ha colmati
di tenerezze. Sono morti tra le sue braccia dicendogli: tu sei stato
un figlio modello. Dio sarà generoso con te.
IL VECCHIO - La vedo ancora allungata nel fosso, con una piantina di
mughetto tra le dita; gridava: non dimenticarmi, non dimenticar-
mi... Aveva gli occhi pieni di lacrime e mi chiamava col mio no-
mignolo: pulcino, diceva, piccolo pulcino mio, non lasciarmi sola...
LA VECCHIA {al fotografo) - Non ci ha mai scritto. Di tanto in tanto un
amico ci dice di averlo visto qui, di averlo visto là, che sta bene,
che è un buon marito...
IL VECCHIO {alla Bella) - Al mio ritorno, era sotterra da molto tempo.
{alla prima Signora) Oh si, si. Signora, abbiamo il cinema in casa,
un ristorante e alcune sale da bagno...
LA VECCHIA {al Colonnello) - Ma certamente, Colonnello, è appunto
per questo...
IL VECCHIO - In fondo e proprio cosi.
{le battute si incrociano, il dialogo è scomposto, le espressioni rimango-
no in sospeso)
LA VECCHIA - Purché...
IL VECCHIO - Dunque non avrei... io l'ho., certamente.,.
LA VECCHIA - Insomma.
IL VECCHIO - Al nostro e ai suoi.
LA VECCHIA - Caso mai...
Teatro frane*»*
530 EUGÈNE lONESCX)
IL VECCHIO - Io gliel'ho...
LA VECCHIA - Lo O la?
IL VECCHIO - Li.
LA VECCHIA - I bigodi... Ma via!
IL VECCHIO - Manco per sogno.
LA VECCHIA - Perché?
IL VECCHIO - Si.
LA VECCHIA - Io.
IL VECCHIO - Insomma.
LA VECCHIA - Insomma.
IL VECCHIO (alla prima Signora) - Lei è d'accordo, Signora?
(lungo silenzio, I vecchi rimangono immobili sulle loro sedie. Poi si
ode di nuovo suonare)
IL VECCHIO (con un nervosismo che andrà crescendo) - Arrivano. Gen-
te. Altra gente.
LA VECCHIA - M'era sembrato di sentire le barche...
IL VECCHIO - Vado ad aprire. Tu va' a prendere delle sedie. Con per-
messo, signori e signore, (va verso la porta n. 7)
LA VECCHIA (ai personaggi invisibili che sono già presenti) - Alzatevi
un momento per piacere. L'Oratore può arrivare da un minuto al-
l'altro. Bisogna preparare la sala per la conferenza, (dispone le se-
die, schienali al pubblico) Datemi una mano. Grazie.
IL VECCHIO (apre la porta n, 7) - Buon giorno, Signore, buon giorno
Signora. Avanti, avanti.
(le tre o quattro persone invisibili che arrivano sono molto alte e il
vecchio deve alzarsi sulla punta dei piedi per stringer loro la mano.
La vecchia, dopo aver sistemato le sedie nel modo descritto, segue
il marito)
IL vecchio (facendo le presentazioni) - La mia signora... Signore... Si-
gnore... La mia signora... Signore... Signora... La mia signora...
LA vecchia - Chi è questa gente, tesoro?
IL VECCHIO (alla vecchia) - Va' a prender delle sedie, anima mia.
LA VECCHIA - Non posso far tutto io!...
(uscirà, continuando a brontolare, dalla porta n, 6 e rientrerà dalla por-
ta n, 7, mentre il vecchio andrà con i nuovi venuti verso il prosce-
nio)
IL VECCHIO - Badi a non far cadere il suo apparecchio cinematografico...
(altre presentazioni) Il Colonnello... La Signora... La signora Bella...
Il fotografo marito... Sono giornalisti, venuti anche loro per ascoi-
LE SEDIE 531
tare il conferenziere, che arriverà tra pochi istanti... Un po' di pa-
zienza... Non vi annoierete... siete in molti... {la vecchia appare
con due sedie dalla porta n, 7) Cocca, più svelta, spicciati tu e le
tue sedie... Ce ne vuole ancora una.
{la vecchia, sempre brontolando, va a prendere un'altra sedia, esce dal-
la porta n, 3 e rientra da quella n, 8)
LA VECCHIA - Arrivo, arrivo... faccio quel che posso... Son mica una lo-
comotiva... Chi è quella gente? {esce)
IL VECCHIO - Seduti! Seduti! Le signore da una parte, gli uomini dal-
l'altra, o viceversa, se preferite... Non abbiamo sedie migliori...
Tutto e stato fatto alla buona... Scusate... Prenda quella di mezzo...
Vuole una stilografica?... Telefoni a Maillot, risponderà Monica...
Claudio è una grazia del cielo. Non ho la radio... Ricevo tutti i
giornali... Ciò dipende da un mucchio di cose; amministro que-
sto alloggio, ma non ho personale., bisogna fare delle economie...
Per carità, niente interviste per il momento... dopo, caso mai... Le
troveremo subito un posto a sedere... Ma che cosa combina quella
benedetta donna?... {la vecchia appare dalla porta n. 8 con una se-
dia) Muoviti, Semiramide...
LA VECCHIA - Faccio il possibilc... Chi è tutta quella gente?
IL VECCHIO - Te lo spiegherò dopo.
LA VECCHIA - E quella tipa? Quella là, tesoro?
IL VECCHIO - Non preoccuparti... {al Colonnello) Colonnello, il giorna-
lismo è un mestiere paragonabile a quello del guerriero... {alla vec-
chia) Occupati un po' delle signore, mia cara... {suonano. Il vecchio
si precipita verso la porta n, 8) Un po' di pazienza, un momentino...
{dia vecchia) Le sedie!
LA VECCHIA - Signori e signore, con permesso...
{uscirà dalla porta n, 3, rientrerà dalla porta n, 2; // vecchio intanto va
ad aprire la porta n, 9 e scompare nel momento in cui la vecchia
si affaccerà alla porta n. 3)
IL VECCHIO {fuori scena) - Entrino... entrino... entrino... entrino... {ri-
compare, tirandosi dietro uno stuolo di persone invisibili, tra cui
un bambino piccolissimo che il vecchio tiene per mano) Chi ha
mai visto! portare un bambino ad una conferenza scientifica... Mo-
rirà di noia, poverino... E se si metterà a strillare o far pipi sul
vestito delle signore staremo freschi! {lo conduce in mezzo dia
scena. La vecchia arriva con due sedie) Vi presento mia moglie,
Semiramide... questi sono i loro figli!
la vecchia - Signori, signore... Oh! quanto sono graziosi!
532 EUGÈNE lONESCO
IL VECCHIO - Quello là è il più piccolo.
LA VECCHIA - Com'è bellino... Carino, carino, carino!
IL VECCHIO - Ancora sedie, Semiramide.
LA VECCHIA - Ah, là là là... {esce per andare a prendere un'altra sedia;
d'ora innanzi ella userà per le entrate e le uscite le porte n. 2 e 3, a
destra)
IL VECCHIO - Prenda il piccolo sui ginocchi... I due gemelli potranno
sedere sulla stessa sedia. Attenzione però che non sono molto
robuste... Sono sedie della casa, appartengono al padrone. Si, ragaz-
zi, lui poi sarebbe capace di farci andar matti, e cattivo... Vorrebbe
che gliele comprassimo, ma è roba che non vai quattro soldi, {la
vecchia arriva con una sedia, correndo piti che può) Loro non si
conoscono... si vedono per la prima volta... si conoscono tutti di
nome... {alla vecchia) Semiramide, aiutami a fare le presentazioni...
LA VECCHIA - Chi sono quelli là... Vi presento, permettete? vi pre-
sento... ma chi sono?
IL VECCHIO - Permettetemi che vi presenti... che ve lo presenti... che
ve la presenti... Signore, Signora, Signorina... Signore... Signora...
Signora... Signore...
LA VECCHIA {al vecchio) - Hai messo il golf? {agli invisibili) Signore,
Signora, Signore...
{altro suono di campanello)
IL VECCHIO - Ancora gente!
{altro suono di campanello)
LA VECCHIA - Mamma mia!
{altro suono di campanello, poi altri e altri ancora; il vecchio è com-
pletamente sopraffatto; le sedie, rivolte verso il podio, schiende al
pubblico, formano file regolari, sempre piti numerose, come quelle
di una sala di spettacolo; il vecchio, senza fiato, si asciuga la fronte,
va da una porta all'altra, sistema la folla invisibile, mentre la vec-
chia, zoppeggiando, sfinita, corre affannosamente da una porta al-
l'altra a prendere e portar sedie; adesso ci sono molte persone invi-
sibili in scena; i vecchi fanno attenzione a non urtar la gente, cer-
cando di sgusciare tra le file di sedie. Il movimento potrà avvenire
nel modo seguente; il vecchio va alla porta n. 4, la vecchia esce dalla
porta n. 3, ritoma ddla porta n. 2; il vecchio va ad aprire la porta
n. 7, la vecchia esce dalla porta n. 8, rientra da quella n. 6 con le
sedie, eccetera,,, allo scopo di fare il giro del palcoscenico utiliz-
zando tutte le porte)
la vecchia - Permesso... permesso... come?... si... permesso... permesso...
LE SEDIE 533
JL VECCHIO - Signori, avanti... Signore... avanti... È la Signora... Per-
mette?... Si...
LA VECCHIA {portando sedie) - Oh oh... Sono troppi... veramente troppi...
Come si fa?...
{si ode dal di fuori, sempre piti forte e sempre piti vicino, il rumore
delle barche sull'acqua; tutti i rumori adesso vengono da dietro le
quinte. La vecchia e il vecchio continuano Vandi^ivieni; aprono por-
te, portano sedie)
IL VECCHIO - Questa tavola dà noia! {aiutato dalla vecchia, sposta, o me-
glio accenna al gesto di spostare una tavola, in modo però da non
rallentare l'azione) Non c'è più spazio qui, scusi...
LA VECCHIA {accennando al gesto di sbarazzare la tavola, al vecchio) -
Hai messo il golf?
(colpo di campanello)
IL VECCHIO - Ancora gente! Ancora sedie! Ancora gente! Ancora sedie!...
Avanti avanti, Signori e Signore... Semiramide, muoviti... Qualcuno
le dia una mano...
LA VECCHIA - Permesso, permesso... Buon giorno. Signora... Signora...
Signore... Signore... Si si, le sedie...
{mentre il campanello suona sempre più forte e le barche urtano la
banchina sempre più frequentemente, i due vecchi si incespicano
nelle sedie, non hanno quasi più il tempo di andare da una porta
all'altra, tanto le scampanellate si succedono rapide)
IL VECCHIO - Si, subito subito... Hai messo il tuo golf?... Si si... Su-
bito, un po' di pazienza, si si... pazienza...
LA VECCHIA - Il tuo golf ? Il mio golf?... Permesso, permesso!
IL VECCHIO - Da questa parte, signore e signori, per piacere... per... scu-
si... piacere... Avanti avanti... faccio strada... quelli sono i loro po-
sti... Cara amica... per di là... attenzione... Lei, cara amica?...
{una lunga pausa. Si odono le onde, le barche, le scampanellate. Il mo-
vimento raggiunge la sua massima intensità. Le porte si aprono e
si chiudono senza alcuna sosta. Solo la grande porta del fondo re-
sta chiusa. Va e vieni dei vecchi, silenziosi, da una porta all'altra;
essi danno l'impressione di muoversi su rotelle. Il vecchio riceve gli
ospiti, li accompagna, ma non per molto, si limita ad indicar loro
il posto dopo aver fatto due o tre passi; non ha il tempo di fare di
più. La vecchia porta sedie. Il vecchio e la vecchia si incontrano e si
urtano, una o due volte, senza per questo fermarsi. Poi, in fondo,
al centro della scena, il vecchio comincerà a girare su se stesso, da
534 EUGÈNE lONESCO
sinistra a destra, da destra a sinistra eccetera,,, in direzione di tutte
le porte e indicando i posti con il braccio. Il braccio muoverà velo-
cissimo, A sua volta la vecchia si fermerà, con una sedia in mano,
la poserà, la riprenderà, la poserà ancora, facendo l'atto di voler
andare anche lei da una porta all'altra, da destra a sinistra, da sini-
stra a destra, muovendo molto rapidamente il collo e la testa. Que-
sta mimica non dovrà affatto permettere che l'azione si afflosci. I
due vecchi dovranno dare l'impressione di non fermarsi, pur re-
stando pressoché sempre allo stesso posto; le mani, il busto, la te-
sta, gli occhi si agiteranno, tracciando magari dei piccoli cerchi.
Infine, rallentamento graduale dell'azione: scampanellate meno for-
ti e meno frequenti, porte che si apriranno e chiuderanno sempre
più adagio, gesti dei vecchi progressivamente piti lenti. Quando le
porte avranno cessato del tutto di aprirsi e di chiudersi, il campa-
nello di farsi udire, si dovrà aver l'impressione che il palcoscenico
sia strapieno di gente)
IL VECCHIO - Adesso vi sistemo... calma... Perdio, Semiramide...
LA VECCHIA (con un gran gesto, le mani vuote) - Non ci sono più sedie,
tesoro, (poi, di punto in bianco, nella sala rigurgitante si metterà a
vendere dei programmi invisibili) Programmi! Chi vuole il pro-
gramma? Programma della serata! Chi vuole il programma?
IL VECCHIO - Calma, calma, signori e signore, penseremo anche a voi...
Uno alla volta, per ordine di arrivo... Certamente, avrà un posto
anche lei. Ci aggiusteremo.
LA VECCHIA - Chi vuole il programma? Un momento, signora, non
posso servire tutti in una volta, non ho trentatré mani, son mica
una serva... Signore, abbia per favore la cortesia di passare il
programma alla sua vicina, grazie... Ohe, si paga!...
IL VECCHIO - Ma se le ho detto che la sistemo!... Non si arrabbi... Di
qui, no! è di qui, cosi, attenzione... Oh, caro amico... carissimi...
LA VECCHIA - Programmi... grammi... grammi...
IL VECCHIO - Si, caro amico, è là, in fondo, vende i programmi... Non
ci sono mestieri disonoranti... è lei... la vede?... Il suo posto è nella
seconda fila... a destra... no, a sinistra... ecco...
LA VECCHIA - ... grammi... grammi... programmi... chi vuole il program-
ma...
IL VECCHIO - Che posso farci? Non sono il padreterno! (ad alcuni invisi-
bili seduti) Stringetevi un pò*, per piacere... Un ultimo posticino...
è per lei, Signora... venga! (sale sulla pedana spintovi dalla calca)
Signore e signori, abbiate pazienza, non ci sono più posti a se-
dere!...
LE SEDIE 535
LA VECCHIA {che st trova al capo opposto della sala, tra la parta n. 3
e la finestra) - Chi vuole il programma... programma? Cioccolatini,
caramelle, gelati... noccioline... (non potendo più muoversi, la vec-
chia, presa in mezzo alla folla, lancia i programmi e i dolci a caso,
sopra le teste invisibili) Ecco! ecco!
IL VECCHIO {sulla pedana, in piedi, agitatissimo; è urtato, scende dalla
pedana, risale, ridiscende, sbatte in faccia a qualcuno, è colpito da
una gomitata, dice) - Pardon... scusi tanto... faccia attenzione...
{spinto ancora, barcolla, stenta a ritrovare l'equilibrio, si aggrappa
a qualche spalla)
LA VECCHIA - Si può Sapere chi è tutta 'sta gente? Programmi! Li vo-
lete o no? Gelati.
IL VECCHIO - Signore, signorine, signori, un momento di silenzio, per
favore... silenzio... ascoltate, è importante... Le persone che non
hanno trovato posto a sedere sono pregate di voler sgomberare i
corridoi... Cosi!... Liberate i passaggi!
LA VECCHIA {al vecchio quasi gridando) - Chi è tutta 'sta gente, tesoro?
Che cosa sono venuti a fare qui?
IL VECCHIO - Sgombrare, signori e signore. Le persone che non hanno
posto a sedere, per comodità di tutti, devono portarsi contro i mu-
ri, a destra e a sinistra... Tutti udranno e tutti vedranno, niente
paura, tutti i posti sono buoni!
{si produce un gran tramestio; spinto dalla folla, il vecchio farà il
giro di quasi tutto il palco e andrà a finire contro la finestra di
destra, presso lo sgabello; la vecchia farà lo stesso movimento in
senso contrario e si troverà poi contro la finestra di sinistra, presso
lo sgabello. Il vecchio, durante questo movimento)
Non spingete, non spingete!
LA VECCHIA {come sopra) - Non spingete, non spingete!
IL VECCHIO {come sopra) - Piano, piano.
LA VECCHIA {come sopra) - Non spingete, signori, non spingete!
IL VECCHIO (come sopra) - Calma... ragioniamo... calma... Non è il mo-
do...
LA VECCHIA {come sopra) - Non siete mica dei carrettieri, no?
{sono finalmente arrivati al loro posto definitivo. Ciascuno presso una
finestra. Il vecchio a sinistra, presso la finestra accanto dia pedana,
la vecchia a destra. Fino alla fine non si muoveranno più)
LA VECCHIA {chiama il vecchio) - Tesoro... non ti vedo piti... dove sci?
Chi e tutta questa gente? Che cosa vogliono? Chi è quello là?
536 eugìne ionesco
IL VECCHIO - Dove sei? Dove sei, Semiramide?
LA VECCHIA - Gioia mia, dove sei?
IL VECCHIO - Qui vicino alla finestra... mi senti?...
LA VECCHIA - Si, sento la tua voce!... Ce ne sono molte... ma distinguo
la tua...
IL VECCHIO - E tu? Dove sei?
LA VECCHIA - Vicino alla finestra anch'io!... Tesoro, ho paura, c*c trop-
pa gente... siamo molto lontani Tuno dall'altra... Alla nostra età
dobbiamo fare attenzione... potremmo perderci... Dobbiamo restare
vicini, non si sa mai, tesoro, tesoro mio...
IL VECCHIO - Ah... ti ho intravvista... oh... non aver paura, ci rivedre-
mo... Sono con degli amici, {agli amici) Come sono contento di
stringervi la mano... Ma certamente, io credo al progresso, ininter-
rotto, ma tuttavia con dei sobbalzi, tuttavia...
LA VECCHIA - Non c'è male, grazie... Che brutto tempo! Splendido!
(a parte) Ad ogni modo ho paura... Dio, che cosa sto a fare qui?...
(grida) Tesoro! Tesoro!...
IL VECCHIO - Per impedire lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, oc-
corre denaro, denaro e ancora denaro!
LA VECCHIA - Tesoro! (agli amici) Si, mio marito è laggiù, è lui che
organizza... laggiù... Oh, non le sarà facile... bisognerebbe poter
attraversare... è con degli amici...
IL VECCHIO - Assolutamente no... l'ho sempre detto... la logica pura è
un mito... Queste sono scimmiottature...
LA VECCHIA - Eh SI, c'è della gente fortunata! La mattina fa colazione
in aeroplano, a mezzogiorno pranza in ferrovia, la sera cena in
piroscafo e la notte dorme su camion che corrono, corrono, cor-
rono...
IL VECCHIO - La dignità dell'uomo! Cerchiamo almeno di salvare la
faccia. La dignità non è che il rovescio della medaglia.
LA VECCHIA - C'è chi pesca nel torbido, (ride)
IL VECCHIO - È ciò che mi domandano i suoi compatrioti.
LA VECCHIA - Certamente... mi dica tutto.
IL VECCHIO - Vi ho convocati... perché vi si spieghi... l'individuo e la
persona, sono una sola e identica persona.
LA VECCHIA - Ha un'aria sostenuta. Non è molto robusto.
IL VECCHIO - Io non sono me stesso. Sono un altro. Sono dentro un
altro.
LA VECCHIA - Ragazzi, è meglio che non vi fidiate gli uni degli altri.
IL VECCHIO - Qualche volta mi sveglio nel bel mezzo del silenzio as-
soluto. È la sfera. Non manca niente. Comunque bisogna fare at-
LE SEDIE 537
tenzionc. La sua forma può dissolversi airimprovviso. Ci sono dei
buchi attraverso cui essa sfugge.
LA VECCHIA - Spiriti? Fantasmi? Via, non scherziamo... Mio marito
esercita funzioni molto importanti, sublimi...
IL VECCHIO - Scusatemi... Non è affatto la mia opinione!... A suo tem-
po vi farò sapere ciò che penso su questo punto... Per il momento
non posso fare anticipazioni... Toccherà all'oratore, che aspettiamo,
toccherà a lui chiarire tutto, a mio nome, tutte le questioni che vi
stanno a cuore... Vi spiegherò tutto... Quando?... Quando verrà il
momento... il momento verrà ben presto...
LA VECCHIA {agli amici) - Prima sarà, meglio sarà... Beninteso... (a
parte) Non vogliono proprio lasciarci in pace! Se ne andranno
bene!... Il mio tesoro, dov'è? non lo vedo più...
IL VECCHIO - Via! non perdete la pazienza... Udrete il mio messaggio.
Tra un attimo.
LA VECCHIA {a parte) - Ah!... ho udito la sua voce!... {agli amici) Ca-
pite, mio marito è sempre stato un incompreso. Finalmente la sua
ora è venuta!
IL VECCHIO - Permettetemi. Io ho ima ricca esperienza. In tutti i set-
tori della vita e del pensiero... Non sono un egoista: voglio che
l'umanità ne tragga profitto.
LA VECCHIA - Ahi! Faccia attenzione: mi pesta i piedi... Ho i geloni!
IL VECCHIO - Ho completato il mio sistema, {a parte) L'oratore dovreb-
be arrivare, {ad alta voce) Ho enormemente sofferto.
LA VECCHIA - Noi abbiamo molto sofferto, {a parte) L'oratore dovrebbe
arrivare. Adesso e l'ora.
IL VECCHIO - Molto sofferto. Molto imparato.
LA VECCHIA {come un*eco; diventerà sempre più Veco, il prolungamen-
to del marito) - Molto sofferto. Molto imparato.
IL VECCHIO - Lo toccherete con mano voi stessi, il mio sistema è per-
fetto.
LA VECCHIA - Lo toccherete con mano voi stessi, il suo sistema è per-
fetto.
IL VECCHIO - A patto che si seguano a puntino le mie istruzioni...
LA VECCHIA - A patto chc si seguano a puntino le sue istruzioni...
IL VECCHIO - Salviamo il mondo!...
LA VECCHIA - Salviamo l'anima, salvando il mondo!...
IL VECCHIO - La verità è uguale per tutti!
LA VECCHIA - La verità è uguale per tutti!
IL VECCHIO - Ubbiditemi!...
LA VECCHIA - Ubbiditegli!...
538 EUGÈNE lONESCO
IL VECCHIO - Imperocché ho una certezza assoluta!...
LA VECCHIA ' Egli ha una certezza assoluta!
IL VECCHIO - Mai!...
LA VECCHIA - Assolutamente mail... {improvvisamente si odono, dietro
le quinte, rumori e suoni di fanfare) Che cosa succede?
(; rumori aumentano, poi la porta del fondo si spalanca con gran fra-
stuono; attraverso la porta non si vede nulla, salvo una vivissima
luce che invade il palcoscenico; anche le finestre si sono illuminate)
IL VECCHIO - Non capisco... non credo... è impossibile... ma si... ma si...
inverosimile... eppure... si... si... si... L'Imperatore! Sua Maestà
rimperatore!
{dalla porta aperta e dalle finestre luce al massimo dell'intensità, una
luce fredda, vuota; ancora qualche rumore, poi, di colpo, silenzio
assoluto)
LA VECCHIA - Tesoro... tesoro... chi è?
IL VECCHIO - In piedi!... At...tcntii... È Sua Maestà l'Imperatore! L'Im-
peratore a casa nostra... Semiramide... ti rendi conto?
LA VECCHIA {senza capire) - L'Imperatore... l'Imperatore? Tesoro mio!
(poi d'un tratto capisce) Ah sì, l'Imperatore! Maestà! Maestà! {fa
una serie di grottesche riverenze) A casa nostra! A casa nostra!
IL VECCHIO {piangendo d'emozione) - Maestà!... Oh Maestà!... Cara
Serenissima Maestà!... Oh che grazia sublime!... che sogno radio-
so!...
LA VECCHIA {facendo eco) - Sogno radioso! oso...
IL VECCHIO {alla folla invisibile) - Signore e signori, alzatevi, il nostro
Sovrano dilettissimo, l'Imperatore è fra noi! Urrà! Urrà! {sale sullo
sgabello, si alza sulla punta dei piedi per poter scorgere l'impera-
tore. La vecchia fa altrettanto)
LA VECCHIA - Urrà! Urrà! {battendo i piedi)
IL vecchio - Vostra Maestà!... io sono qua!... Vostra Maestà! Vostra
Maestà! M'intende? Mi vede? Informate dunque Sua Maestà che
son qua! Maestà!!! Sono qua, io, il più fedele dei suoi ser\dtori...
LA vecchia - Il più fedele dei suoi servitori!...
IL vecchio - Vostro servitore, vostro schiavo, vostro cane, bau! bau!
vostro cane, Maestà!
la vecchia (abbaia forte) - Bau!... bau!... bau!...
IL vecchio (torcendosi le mani) - Mi vede? Risponda, Sire! Ah, io la
scorgo, ho scorto or ora l'augusta figura della Maestà Vostra... La
divina parte vostra... Si, l'ho vista, a dispetto dei cortigiani...
LA VECCHIA - Dei cortigiani... Siamo qua. Maestà.
LE SEDIE 539
IL VECCHIO - Maestà! Maestà!! Signore e signori, non permettete che
Sua Maestà resti in piedi... Vede, Maestà, io sono l'unico ad aver
cura della sua persona, della sua salute, io sono il più fedele dei
suoi sudditi...
LA vEccFiiA - Il più fedele suddito di Sua Maestà!
IL VECCHIO - E lasciatemi passare, signore e signori!... Come fare ad
aprirsi un varco in questa ressa... bisogna ch'io vada a prosternarmi
davanti a Sua Maestà l'Imperatore Imperiale... Lasciatemi passare...
LA VECCHIA (facendo eco) - Lasciatelo passare... lasciatelo passare... pas-
sare... are...
IL VECCHIO - Lasciatemi passare, lasciatemi passare, perdinci! {esaspe-
rato) Ahi non arriverò mai fino a lui?
LA VECCHIA (eco) - A lui... a lui...
IL VECCHIO - Eppure il mio cuore e tutto il mio essere sono ai suoi
piedi, la folla dei cortigiani lo circonda, ah, ah, vogliono impedir-
mi di arrivare fino a lui... Hanno mangiato la foglia, indovinano
che... Oh, so quello che mi dico... Intrighi di corte, beninteso... Mi
vogliono separare da Sua Maestà!...
LA VECCHIA - Calmati, tesoro... Sua Maestà ti vede, ti guarda... Sua
Maestà mi ha strizzato un occhio... Sua Maestà è dei nostri!...
IL VECCHIO - Venga dato all'Imperatore il posto migliore... vicino al
palco... che egli possa udire tutto ciò che dirà l'oratore.
LA VECCHIA (issandosi sullo sgabello, sulla punta dei piedi, sollevando
il mento il più alto possibile, per vedere meglio) - Finalmente qual-
cuno si occupa dell'Imperatore.
IL VECCHIO - Deo gratias! (all'Imperatore) Sire... che Vostra Maestà si
abbandoni con fiducia. È un amico, un mio delegato, colui che è
vicino a Vostra Maestà, (stdla punta dei piedi, dritto sullo sgabello)
Signori, signore, signorine, figli miei, vi scongiuro...
LA VECCHIA - ...giuro... giuro...
IL VECCHIO - ... io vorrei vedere... scostatevi... io vorrei... lo sguardo ce-
lestiale, il rispettabile volto, la corona, l'aureola di Sua Maestà...
Sire, si degni di voltare il suo illustre volto alla mia volta. Verso il
suo servitore umilissimo... arciumilissimo... oh!... vedo chiaramente
stavolta... vedo...
LA VECCHIA - Egli vede stavolta... vede... de...
IL VECCHIO - Sono al colmo del giubilo... non ho parole per esprimere
il soverchio della mia gratitudine... nel mio modesto alloggio, oh
Maestà! Oh Sole!... qui... qui... in questo alloggio dove io sono il
vero maresciallo... ma nella gerarchia del suo esercito, io non sono
che un semplice Maresciallo d'Alloggio...
540 eugìne ionesco
LA VECCHIA - Maresciallo d'Alloggio...
IL VECCHIO - Ne sono fiero... fiero e umile, insieme... com'è giusto...
ahimé, senza dubbio, sono maresciallo, avrei potuto vivere alla cor-
te imperiale, qui non sovrintendo che ad una piccola corte... Mae-
stà... io... Maestà, ho qualche difficoltà di parola... avrei potuto
avere... molte cose, copiose sostanze, se avessi saputo, se avessi vo-
luto, se io... se noi... Maestà, perdonate la mia emozione...
LA VECCHIA - Alla terza persona!
IL VECCHIO (piagnucolando) - Vostra Maestà si degni di scusarmi!
Dunque lei è qui... Non speravamo più... Non potevamo manca-
re... Oh, salvatore, nella vita sono stato umiliato...
LA VECCHIA [Hnghiozzando) - ... umiliato... umiliato...
IL VECCHIO - Ho molto sofferto nella vita... Avrei potuto essere qual-
cosa, avessi avuto l'appoggio di Vostra Maestà... non ho mai avuto
appoggi... Se Vostra Maestà non fosse venuta, sarebbe stato irrime-
diabilmente troppo tardi... Lei e, oh Sire, la mia estrema ratio...
LA VECCHIA - Estremazio... Sire... Estremazio... dazio...
IL VECCHIO - Ho portato sfortuna ai miei amici, a tutti quelli che mi
hanno aiutato. La folgore colpiva la mano che si tendeva verso di
me...
LA VECCHIA - La mano che si tendeva... tendeva... èva...
IL VECCHIO - Hanno sempre trovato buone ragioni per odiarmi e cat-
tive ragioni per amarmi...
LA VECCHIA - Non è vero, tesoro, non è vero. Io ti amo, io sono la tua
mammina...
IL VECCHIO - Tutti i miei nemici sono stati ricompensati e gli amici
mi hanno tradito.
LA VECCHIA - Gli amici hanno tre dita... tre dita...
IL VECCHIO - Mi hanno fatto del male. Mi hanno perseguitato. Se io
mi lagnavo, davano sempre ragione a loro... Qualche volta ho cer-
cato di vendicarmi... Non sono mai riuscito, mai riuscito a vendi-
carmi... sono troppo buono... Non ho mai cercato di colpire l'av-
versario disarmato, mi faceva troppa pietà...
LA VECCHIA - Gli faceva troppa pietà...
IL VECCHIO - Sono vìttima della mia bontà.
LA VECCHIA - ... tà... tà... tà...
IL VECCHIO - Ma loro non avevano pietà. Io li pungevo con uno spillo,
loro rispondevano a colpi di mazza, a colpi di coltello, a colpi di
cannone, mi maciullavano le ossa...
LA VECCHIA - ... le ossa... le ossa... le ossa...
IL VECCHIO - Mi davano lo sgambetto, mi derubavano, mi assassinava-
LE SEDIE 541
no... Ho fatto collezione di disastri, ero il parafulmine delle cata-
strofi...
LA VECCHIA - Parafulmine... catastrofe... parafulmine...
IL VECCHIO - Per dimenticare, Maestà, ho voluto fare dello sport... del-
l'alpinismo... mi hanno messo del sapone sotto i piedi... ho voluto
salire le scale, mi hanno fatto marcire gli scalini... sono sprofon-
dato... ho voluto viaggiare, mi hanno negato il passaporto... ho vo-
luto saltare il fosso, mi hanno tagliato i ponti...
LA VECCHIA - ... tagliato i ponti...
IL VECCHIO - Ho voluto Varcare i Pirenei... se li erano portati via.
LA VECCHIA - I Pirenei... Ah, Maestà, avrebbe potuto essere anche lui
come tanti altri. Redattore Capo, Attore Capo, Dottore Capo, Mae-
stà, Re Capo!...
IL VECCHIO - D'altronde non hanno mai voluto prendermi in conside-
razione... non mi hanno hai inviato biglietti d'invito... Eppure io,
mi ascolti bene e glielo dico, io solo avrei potuto salvare l'umanità,
che è tanto malata. Vostra Maestà se ne rende conto quanto me...
o, almeno, avrei potuto risparmiarle i mali di cui essa ha tanto
sofferto in questo ultimo quarto di secolo, se avessi avuto l'occa-
sione di annunciare il mio messaggio. Io però non dispero di sal-
varla, forse c'è ancora tempo; ho un piano... Ahimé, ho difficoltà
di parola...
LA VECCHIA {sopra la testa degli invitati) - Ci sarà l'oratore, parlerà per
conto suo... Sua Maestà è qui... Ti ascolteranno questa volta, non
devi piò preoccuparti, hai l'asso nella manica, il vento è cambiato,
è cambiato...
IL VECCHIO - Vostra Maestà mi perdoni... lei ha ben altri grattacapi...
sono mortificato... Signore e signori, scostatevi un poco, non na-
scondetemi completamente il naso di Sua Maestà, voglio veder bril-
lare le perle della corona imperiale... Ma se Vostra Maestà si è
degnata di venire sotto il mio povero tetto, gli è certamente perché
Ella si degna di prendere in considerazione la mia modesta per-
sona. Che stupendo compenso. Maestà, se materialmente io mi alzo
sulla punta dei piedi, non è per orgoglio, è unicamente per poterla
contemplare!... moralmente io mi getto alle Sue ginocchia...
LA VECCHIA (singhiozzando) - Alle sue ginocchia. Sire, noi ci gettiamo
alle sue ginocchia, ai suoi piedi, ai suoi alluci...
IL VECCHIO - Il mio padrone mi ha messo alla porta perché non facevo
la riverenza al suo marmocchio, al suo cavallo. Ho ricevuto calci
nel sedere, ma tutto ciò ormai non ha più importanza... poiché...
poiché... Sire... Maestà... guardi... sono qua... qua...
542 eugìne ionesco
LA VECCHIA - ... qua... qua... qua... qua... qua...
IL VECCHIO - Poiché Sua Maestà è venuta... poiché Sua Maestà prenderà
in considerazione il mio messaggio... Ma l'oratore perché non è
qua?... fa attendere Sua Maestà...
LA VECCHIA - Vostra Maestà lo scusi. Deve arrivare. Arriverà tra un
attimo. Ce l'hanno telefonato.
IL VECCHIO - Sua Maestà è davvero buona. Sua Maestà non se ne andrà
prima di avere ascoltato tutto, capito tutto.
LA VECCHIA - Tutto capito... capito... ascoltato tutto.
IL VECCHIO - Lui parlerà a nome mio... Io non posso... non ho dispo-
sizione... Lui ha tutte le carte, tutti i documenti.
LA VECCHIA - Ha tutti i documenti...
IL VECCHIO - Un po' di pazienza. Sire, ]a supplico... deve arrivare.
LA VECCHIA - Deve arrivare su due piedi.
IL VECCHIO (affinché l'Imperatore non si spazientisca) - Maestà, mi
ascolti: ho avuto la rivelazione molto tempo fa... avevo quaran-
t'anni... Dico queste cose anche per voi, signore e signori... Una
sera, dopo cena, come al solito, prima di andare a letto, mi siedo
sulle ginocchia di mio padre... i miei baffi erano più grossi e più
aguzzi dei suoi... il mio petto più villoso... i miei capelli comincia-
vano a brizzolarsi, \ suoi erano ancora bruni... C'erano degli invi-
tati, delle persone importanti, sedute a tavola, e scoppiarono a ri-
dere, ridere.
LA VECCHIA - Ridere... ridere...
IL VECCHIO - Non crediate che scherzi, dico io. Io amo molto il mio
papà. Quelli mi rispondono: è mezzanotte, un marmocchio non
deve andare a letto cosi tardi. Se lei non è già a far la nanna, vuol
dire che non è più un frugoletto. Io non li avrei presi sul serio, se
non mi avessero dato del lei...
LA VECCHIA - ... lei.
IL VECCHIO - Invece del tu.
LA VECCHIA - Tu...
IL VECCHIO - Eppure, pensavo, non son mica sposato. Dunque sono
ancora un ragazzo. Per provarmi il contrario, quelli mi sposarono
seduta stante... Fortunatamente, mia moglie mi ha fatto da padre
e da madre...
LA VECCHIA - L'oratore deve arrivare, Maestà...
IL VECCHIO - L'oratore arriverà.
LA VECCHIA - Arriverà.
IL VECCHIO - Arriverà.
LE SEDIE 543
LA VECCHU - Arriverà.
IL VECCHIO - Arriverà.
LA VECCHIA - Arriverà.
IL VECCHIO - Arriverà, arriverà.
LA VECCHIA - Arriverà, arriverà.
IL VECCHIO - Arriverà.
LA VECCHIA - Arriva.
IL VECCHIO - Arriva.
LA VECCHIA - Arriva, è qui.
IL VECCHIO - Arriva, è qui.
LA VECCHIA - Arriva, è qui.
IL VECCHIO E LA VECCHIA - È qui...
LA VECCHIA - Eccolo!...
(silenzio, immobilità assoluta. Pietrificati, i due vecchi fissano la porta
n. 3; la scena immobile dura a lungo, mezzo minuto circa; lentissi-
mamente, la porta si apre senza alcun rumore: e appare l'oratore;
è un personaggio reale. Dev'essere il tipo del pittore o del poeta
del secolo scorso: feltro nero a larghe tese, cravatta a fiocco, casacca,
baffetti, barbetta, aria disinvolta, sufficiente; se i personaggi invi-
sibili debbono avere la maggior realtà possibile, l'Oratore per contro
dovrà sembrare irreale. Seguendo il muro di destra, andrà, come
scivolando, pian piano, fino in fondo, in faccia alla grande porta,
senza voltare la testa né a destra né a sinistra; passerà accanto alla
vecchia senza prestarle attenzione, neppure quando la vecchia gli
toccherà il braccio per accertarsi della sua esistenza; è a questo
punto che la vecchia dirà: a Eccolo yì)
IL VECCHIO - Eccolo!
LA VECCHIA [che l'ha seguito con gli occhi e lo segue ancora) - È pro-
prio lui, esiste. In carne ed ossa.
IL VECCHIO {seguendolo con gli occhi) - Esiste. È proprio lui. Non è
un sogno!
LA VECCHIA - Non è un sogno, te l'avevo detto.
(// vecchio incrocia le mani, leva gli occhi al cielo; esulta silenziosa-
mente. L'Oratore, arrivato in fondo, si toglie il cappello, /inchina
in silenzio, saluta l'imperatore con il cappello, come un moschet-
tiere e un po' come un automa. In questo momento)
IL VECCHIO - Maestà... le presento l'oratore...
LA VECCHIA - È lui!...
544 EUGÈNE lONESCO
{Voratore rimette il cappello in testa e sale sulla pedana; guarda dal-
l'alto in basso il pubblico invisibile del palcoscenico, le sedie; irri-
gidito in una posizione solenne)
IL VECCHIO (d pubblico invisibile) - Potete domandargli autografi.
(automaticamente, silenziosamente, l'Oratore firma e distribuisce in-
numerevoli autografi. Il vecchio durante questo tempo alza ancora
gli occhi al cielo, unendo le mani, e dice, esultando)
Nessun uomo in vita sua può desiderare di più...
LA VECCHIA - Nessun uomo può desiderare di più.
IL VECCHIO (alla folla invisibile) - E adesso, con l'autorizzazione di Sua
Maestà, io mi rivolgo a tutti voi, signore, signorine, signori, bam-
bini, cari colleghi, cari compatrioti, signor Presidente, cari com-
pagni d'arme...
LA VECCHIA - Bambini... ini... ini...
IL VECCHIO - Mi rivolgo a tutti, senza distinzione d'età, sesso, stato
civile, censo, commercio, per ringraziarvi di cuore...
LA VECCHIA - Ringraziarvi...
IL VECCHIO - ... unitamente airOratore... calorosamente, d'essere inter-
venuti COSI numerosi... Silenzio, signori!...
LA VECCHIA - ...Silenzio, signori!...
IL VECCHIO - Rivolgo ugualmente il mio ringraziamento a tutti coloro
che hanno reso possibile la riunione di questa sera, agli organiz-
zatori...
LA VECCHIA - Bravo!
(durante questo tempo, sulla pedana, l'Oratore è solenne, immobile,
salvo la mano che automaticamente firma gli autografi)
IL VECCHIO - ...ai proprietari di questo stabile, all'architetto, ai mura-
tori che hanno gentilmente costruito questi muri!...
LA VECCHIA (facendo eco) - ...muri...
IL VECCHIO - ... a quanti hanno scavato le fondamenta... Silenzio, si-
gnore e signori...
LA VECCHIA (come sopra) - ... gnore e gnori...
IL VECCHIO - Non dimentico neppure i falegnami, che fabbricarono le
sedie sulle quali ve ne state seduti, l'abile artigiano...
LA VECCHIA (come sopra) - ...giano...
IL VECCHIO - ... che fece la poltrona nella quale si affonda mollemente
Sua Maestà, la quale però conserva ugualmente uno spirito saldo
e diritto... Grazie ancora a tutti i tecnici, macchinisti, elettroliti.^
LA VECCHIA (come sopra) - ... liti... liti...
LE SEDIE 545
IL VECCHIO - ... ai fabbricanti di carta e ai tipografi, correttori di bozze
e redattori, ai quali siamo debitori dei programmi, cosi squisita-
mente decorati, alla solidarietà universale di tutti gli uomini, gra-
zie^ grazie, alla nostra Patria, allo Stato {si rivolge verso il lato in
cui deve trovarsi l'Imperatore) di cui Vostra Maestà regge il timone
con perizia di vero pilota... grazie alla maschera...
LA VECCHIA - ... maschera...
IL VECCHIO (indicando col dito la vecchia) - ...venditrice di gelati e di
programmi...
LA VECCHIA {come sopra) - ...grammi...
IL VECCHIO - ...mia sposa, mia compagna... Semiramide!...
LA VECCHIA {come sopra) - ... osa... agna... amide... {a parte) Che tesoro,
non dimentica mai di citarmi.
IL VECCHIO - Grazie a tutti quelli che mi hanno recato il loro aiuto
finanziario o morale, prezioso e illuminato, si da contribuire alla
riuscita totale della festa di questa sera... grazie ancora, grazie so-
prattutto al nostro dilettissimo Sovrano, Sua Maestà l'Imperatore...
LA VECCHIA {come sopra) - ... sta l'Imperatore...
IL VECCHIO {nel silenzio totale) - ... un po' di silenzio... Maestà...
LA VECCHIA {come sopra) - ... sta... sta...
IL VECCHIO - Maestà, mia moglie ed io non abbiamo più nulla da do-
mandare alla vita. La nostra esistenza può concludersi in questa
apoteosi... grazie al cielo che ci ha concesso cosi lunghi e pacifici
anni... La mia vita è stata ben spesa. La mia missione è ormai fini-
ta. Non sarò vissuto invano^ giacché il mio messaggio sarà rivelato
al mondo... {gesto verso l'Oratore che non se ne accorge: costui
sta respingendo col braccio le richieste di autografi in modo digni-
toso e risoluto) Al mondo, o meglio a ciò che ne resta, {gesto largo
verso la folla invisibile) A voi signori e signore, cari colleghi che
siete i resti dell'umanità, ma con resti simili si può ancora fare
buon brodo... Oratore amico...
{l'Oratore guarda da un'altra parte)
... se sono stato a lungo misconosciuto, sottovalutato dai miei con-
temporanei, ciò che non poteva non essere...
{la vecchia singhiozza)
... che importa ormai, dal momento che lascio a te, mio caro Oratore
ed amico...
{l'Oratore respinge una nuova richiesta di autografo; poi prende una
posa indifferente e guarda dl'ingiro)
ss. • Teatro francese
546 EUGÈNE lONESCO
... la cura di far rifulgere sulla posterità la luce del mio spirito...
Fa conoscere dunque all'Universo la mia filosofìa... Non trascurare
alcun particolare, sia comico che tragico che commovente, della mia
vita privata, i miei gusti, la mia leggendaria golosità... racconta
tutto... parla della mia compagna...
(la vecchia raddoppia i singhiozzi)
... del modo ineguagliabile con cui preparava i suoi meravigliosi
paté turchi, le sue polpette di coniglio... parla del Berry, mio paese
natale... Io faccio affidamento su di te, gran maestro e oratore...
Quanto a me e alla mia fedele compagna, dopo lunghi anni spesi
per il progresso dell'umanità, durante i quali noi fummo i soldati
della giusta causa, non ci rimane che ritirarci... subito, al fine di
compiere il sacrificio supremo, sacrificio che nessuno ci domanda,
ma che noi compiremo ugualmente...
LA VECCHIA {singhiozzando) - Si, si, moriamo al sommo della gloria,
moriamo per entrare nella leggenda... Almeno cosi ci dedicheranno
una strada...
IL VECCHIO {alla vecchia) - Tu, oh mia fedele compagna!... tu che hai
creduto in me. senza una sola esitazione durante mezzo secolo, tu
che non mi hai mai abbandonato, mai... ahimé, oggi, in questa ora
suprema, la folla ci separa senza pietà...
Eppure il fato
io avea pregato
d'unir le nostre ossa
in una fossa
— vermi gemelli
nutrire dei nostri budelli —
negli avelli
marcire insieme.
LA VECCHIA -
Negli avelli
marcire insieme.
IL VECCHIO - Ahimé... ahimé...
LA VECCHIA - Ahimé... ahimé...
IL VECCHIO - ... I nostri cadaveri cadranno lontani l'uno dall'altro, noi
marciremo nella solitudine acquatica... Non lagnamoci troppo.
LA VECCHIA - Bisogna fare tutto il proprio dovere...
IL VECCHIO - Non saremo dimenticati. L'Imperatore eterno si ricorderà
di noi, eternamente.
LE SEDIE 547
LA VECCHIA - Eternamente.
IL VECCHIO - Noi lasceremo delle tracce, poiché siamo delle persone e
non delle città.
IL VECCHIO E LA VECCHIA - Noi avrcmo la nostra strada!
IL VECCHIO - Cerchiamo di essere uniti nel tempo e nell'eternità anche
se non possiamo esserlo nello spazio, come lo fummo nelle avver-
sità: moriamo nel medesimo istante... {all'Oratore impassibile e
immobile) Per l'ultima volta... faccio affidamento su di te... conto
su di te... Dirai tutto... Ti delego il messaggio... {dV Imperatore)
Che Vostra Maestà mi scusi... Addio a tutti, addio Semiramide.
LA VECCHIA - Addio a tutti!... Addio, tesoro!
IL VECCHIO - Viva l'Imperatore! (lancia sull'Imperatore invisibile co-
riandoli e stelle filanti. Si odono fanfare; luce vivissima, come di
fuochi d'artificio)
LA VECCHIA - Viva l'Impcratore !
(coriandoli e stelle filanti in direzione dell'Imperatore, poi sull'Oratore
immobile e impassibile, sulle sedie vuote)
IL VECCHIO (come sopra) - Viva l'Imperatore!
LA VECCHIA (come sopra) - Viva l'Imperatore!
(// vecchio e la vecchia si gettano nel medesimo istante dalla finestra
gridando « Viva l'Imperatore ». Bruscamente, silenzio, e, scomparsi
i fuochi d'artificio, si ode un a ah! » dai due lati del palcoscenico
e il tonfo dei corpi che cadono in acqua. La luce che veniva dalle
finestre e dalla grande porta è scomparsa: non rimane che la de-
bole luce del principio; le finestre, buie, restano spedancate e le
tende dondolano al vento)
l'oratore (rimasto immobile, impassibile, durante la scena del doppio
suicidio, si decide dopo qualche istante a parlare; davanti die file
delle sedie vuote egli fa comprendere dia folla invisibile di essere
sordo e muto; fa dei segni da sordomuto; compie sforzi disperati
per farsi capire, poi emette rantoli, gemiti, suoni gutturdi) -
Mmm, mmm, mmmm
Crr, crr, crrr
Ggg» ggg> gucrr
(impotente, lascia cadere le braccia; improvvisamente, la sua figura
si illumina, ha un'idea, si volta verso la lavagna, cava di tasca un
pezzo di gesso e scrive a grandi maiuscole)
33* • Teatro francese
548 EUGÈNE lONESCO
ANGEPAIN '
{poi)
NNAA NNM NWNWNWV
(si volta di nuovo verso il pubblico invisibile, quello del palcosce-
nico, indica col dito ciò che ha scritto sulla lavagna, dice)
Mmm, mmm, gucrr, crr
Mnun, mmm, mmm, mmm
{dopo di che, scontento, cancella con gesti bruschi i segni fatti col
gesso, li sostituisce con altri, tra i quali si distinguono, scritti sem-
pre in grosse maiuscole)
A AA-AIO AA-KOA n SA
{di nuovo si rivolge alla sala, sorride, interrogativo, nella speranza
di essere stato capito, di aver detto qualcosa; indica col dito die
sedie vuote quanto ha scritto; aspetta immobile per qualche istante,
con aria soddisfatta e un po' solenne, poi, di fronte alla mancata
reazione che si attendeva, a poco a poco il suo sorriso scompare, il
suo volto si incupisce; egli aspetta ancora un momento, poi, tutto
d'un tratto, saluta bruscamente, di malumore, scende dal podio e
se ne va verso la porta del fondo, con andatura da fantasma; prima
di uscire, saluta cerimoniosamente ancora una volta le file di sedie
vuote, l'Imperatore invisibile.
La scena rimane deserta, con le sedie, il podio, il pavimento coperto
di stelle filanti e coriandoli. La porta del fondo è spalancata sul
buio totale.
Si odono adesso per la prima volta i rumori umani della folla in-
visibile: sono scoppi di risa, mormorii, zittii, colpi di tosse ironici;
deboli ed principio, questi rumori vanno crescendo; poi, di nuovo,
progressivamente decrescono. Tutto ciò deve durare abbastanza a
lungo, affinché il pubblico — quello vero e visibile — se ne vada
con questa conclusione ben impressa in mente. Il sipario si chiude
lentissimamente)
La presente traduzione, a cura di Gian Renzo Morteo, è qui riprodotta
per gentile concessione dell'Editore Einaudi.
IIDICI ARALITICI 6EIERALI
DEI TRE TOLDHI
INDICE GENERALE DEI NOMI
Achard Marcel - I, 57, 67.
Adam De La Halle - I, 175-179, 197.
Adaxnov Georges - III, 501.
Adgar - I, 221.
Adriano (papa) - I, 76.
Agnese di Santa Tecla - II, 243, 244,
245, 247.
Alamanni Luigi - I, 302.
Alarcon, Juan de - I, 364.
Alcuino - I, 76.
Alcxis - I, 49.
Alfonso VI di Casdglia - I, 370.
Allan-Despréaux Louise (attrice) - III,
92, 95.
Amiel Denys - I, 56.
Ancey G. (G. de Curnieu) - I, 50.
André de la Vigne - I, 264, 265.
Angilberto - I, 76.
Anna D'Austria - II, 75.
Anouilh Jean - I, 63, 64-66, 67 - IH,
317-321, 399, 454.
Antoine André - I, 50, 53.
Apollinaire Guillaume - I, 55 - III,
497, 506.
Appiano - I, 340.
Aragon - I, 56 - HI, 498.
Aretino Pietro - I, 18, 302 - II, 76.
Ariosto Ludovico - I, 18, 302, 320 -
II, 243, 248.
Aristofane - I, 18, 25, 301.
Aristotele - I, 303, 319, 371 - III, 155.
Arnault, Jean Vincent - I, 44 - II, 245.
Arouet Francois Marie (v. Voltaire).
Artaud Antonin - III, 501.
Aubigné Agrippa (de) - I, 321.
Audibcrti - I, 67.
Augier Emilc - I, 48, 49 - III, 95.
Aymé Marcel - I, 67.
Baculard d'Arnaud - I, 41.
Balf Antoine (de) - I, 303.
Baìf Uzare (de) - I, 303.
Balletti (coppia) - II, 469.
Bandello Matteo - DI, 94.
Banville, Théodorc (de) - I, 50, 52.
Baour - Lormian Pierre - I, 44.
Barbieri Niccolò (Beltrame) - II, 11.
Barrault Jean Louis - I, 55 - III, 96,
159.
Barrès Philippe - HI, 400.
Barrière Théodore - I, 49.
Bataillc Henri - I, 51, 56, 65.
Baty Gaston - I, 55 - m, 96.
Bande Fastoul - I, 177.
Baudelaire Charles - D, 134 - III, 453.
Bayle Pierre - H, 467.
Bcaumarchais - I, 41-43, 47 - II, 539-
548 - ra, 93, 319.
Beckett Samuel - I, 67, 68 - III, 136,
457, 501, 502.
Becque Henri - I, 49.
Bédier Joseph - I, 235.
Béjart Armande - H, 10, 21, 190.
Béjart Madeleinc - D, 9, 10.
Bclcari Feo - I, 304.
Bdlay Joachim (du) - I, 18, 24, 302.
Belleau, Remi - I, 320.
Bembo Pietro - I, 338.
Bcnolt de Sainte-More - I, 256.
Benserade - I, 355.
Berchoux Joseph - I, 39.
552
TEATRO FRANCESE
Bcrgassc Nicolas - II, 542, 547.
Bcrgerat Emile - I, 52.
Bernanos Georges - I, 62, 67.
Bernard Jean-Jacques - I, 56.
Bernard Tristan - I, 55.
Bernier - I, 50.
Bernstein Henri - I, 51, 56.
Berquin Arnaud - I, 41.
Besmc bidore (de) - IH, 157.
Beyle (v. Stendhal).
Beys - I, 25.
Blake, William - III, 453.
Boccaccio Giovanni - I, 265 - II, 12,
13, 76 - in, 93, 94.
Bodel Jean - I, 105-106, 131, 177.
Boileau (Despréaux Nicolas) - I, 20, 24,
28, 39 - n, 243, 245, 247, 467.
Boisrobcrt Francois (de) - I, 355.
Bonarelli - I, 340.
Bossuet Jacques-Benigne - I, 39 - II,
467 - III, 155.
Bosi - I, 67.
Bouillon (duchessa de) - II, 244.
Bourdet E. - I, 56.
Boursault Edmé - 1, 359 - II, 24.
Boyer - I, 35.
Brancas (comte de) - II, 76.
Brecht Beriold - HI, 505.
Brcton André - I, 56 - IH, 498, 505.
Brieux Eugène - I, 51.
Brieux F. - I, 50.
Brifaut Charles - I, 44.
Buchanan George - I, 303, 419.
Byron George Gordon - I, 45.
Caignez - I, 44.
Caillavet - I, 51.
Calderón de la Barca Fedro - I, 58.
Calmo Andrea - II. 13.
Calvin Jean - I, 303.
Campbtron Jean Galbert (de) - I, 35.
Camus Albert - I, 64, 67 - HI, 451.
Capus Alfred - I, 51.
Carlo m - II, 540.
Carlo V - I, 17 - m, 11, 401.
Carlo VI - I, 233, 273.
Carlo Vn - I, 266.
Carlo Vm - I, 16, 255.
Carlo IX - I, 44, 301.
Carlo X - ra, 9.
Carlo D'Angiò - I, 178.
Carlo Magno - I, 76, 105.
Carlyle Thomas - I, 53.
Carmontelle (Louis Carrogis) - I, 41 -
III, 93.
Caron Lisetta - II, 540, 544.
Caron Pierre Augustin (v. Beaumar-
chais).
Cartesio - I, 24 - li, 15, 256, 467.
Casanova Giacomo - III, 93.
Castel vetro Ludovico - I, 319.
Castro Guillen (de) - I, 370.
Cecov Anton - I, 56.
Cervantes, Miguel (de) - I, 338.
Cesare Augusto - I, 362.
Champmeslé (Marie Desmares) - II,
245.
Chapelain Jean - I, 371 - II, 247:
Chappuzeau - II, 11.
Char René - III. 498.
Charles D'Orléans - I, 17.
Charpentier Francois - II, 13.
Charpy - II, 76.
Chaulnes (due de) - II, 540.
Chénier Marie- Joseph - I, 44.
Chestov - III, 452.
Chevalet - I, 256.
Chevalier - II, 24.
Chevreau - I, 355.
Cicognini - II, 133.
Claudel Lamberto - III, 157.
Claudel Paul - I, 55, 57-58 - IH. 155-
162.
Claveret - I, 355, 371.
Clavijo y Fayardo José - II, 540, 544.
Cocteau Jean - I, 55, 57, 63, 65 - III,
318.
Cohen Gustave - I, 105, 235, 274.
CoUetet Guillaume - I, 355.
CoUin d'Harleville Jean Francois - I,
44.
Cons Luigi - I, 273.
Conti (prince de) - II, 9, 76.
Coolus Romain - I, 51.
Copeau Jacques - I, 50, 55 - III, ^6.
Copernico Nicola - II, 467.
Coppée Francois - I, 49, 52.
Coquillart - I, 266.
Corday Carlotta - I, 358.
Corneille, Pierre - I, 12, 19, 20, 21-
23, 24, 26, 35, 36, 37, 44, 62, 338,
355-365, 369-371, 419-423 -ih \^,
24, 247, 248, 256, 467, 470 - III,
11, 505.
INDICE GENERALE DEI NOMI
553
Corneillc Thomas - I, 25 - II, 323.
Cornificio - I, 177.
Codn Charles (abate) - II, 15.
Courtelinc (Georges Moinaux) - I, 55.
Crébillon Prosper - I, 35.
Crommclynch - I, 56.
Cromwcll Olivier - HI, 11, 93.
Curcl Francois (de) - I, 51.
Cyrano de Bergerac - II, 14.
Dullin Charles - I, 55.
Dumas Alexandre (padre) - I, 46, 48,
49.
Dumas Alexandre (figlio) - I, 48 - III,
95.
Duparc (attore) - I, 358.
Dupin Armandine (v. Sand George).
Du Plessis Armand Jean (v. Richelieu).
Duval Alexandre - I, 44.
D'Alembert (Jean le Rond) - II, 471.
Dah Salvator - IH, 498.
Danchet - I, 35.
Dancourt Florent - 1, 37 - II, 469, 470.
D'Annunzio Gabriele - III, 400.
Dante - IH, 155, 159.
Daudet Alphonsc - I, 49.
De Bèze Thcodore - I, 19, 301-304,
320.
Debussy Claude - III, 135.
Decio (imperatore) - I, 419.
Deffand Marie (marquise du) - II, 470.
De Piers - I, 51.
De Fornaris Fabrizio - II, 11.
De La Croix, Philippe - II, 24.
Dclavigne Casimir - I, 46, 47.
Déroulèdc Paul - I, 52.
Descartes du Perron René (v. Carte-
sio).
Dcschamps Eustache - I, 17, 273.
Desmarets de Saint-Sorlin Jean - I,
25, 355, 356 - II, 11.
Dcsmoulinjs Camille - II, 190.
Destouches (Philippe Néricault) - I, 37,
38, 40 - II, 469.
Diderot Denis - I, 39, 40, 41 - II, 544,
547 - III, 10.
Dolce Ludovico - I, 302.
Donnay Maurice - I, 51.
Dorat Jean - I, 303.
Dorimon - II, 133.
Dos Passos John - III, 449.
Dostoievski Feodor - III, 155, 452.
Dovizi Angelo - I, 301.
Ducange Victor - I, 44.
Ducis Jean Francois - I, 39.
Ducray-Dumenil Francois-Guillaume -
I, 45.
Dufresny (Charles Rivière) - II, 469,
470.
Dujardin E. - I, 55.
Eliodoro - II, 243, 248.
Eluard Paul - III. 498.
Emerson Ralph Waldo - I, 53 - III,
133.
Enrico II - II, 302.
Enrico in - I, 320.
Erasmo - I, 303.
Ernst Max - III, 498.
Escande - HI, 96.
Eschilo - I, 10, 58 - m, 155, 159.
Estienne Charles - I, 301.
Ethelwold (vescovo) - I, 75.
Etienne Charles-Guillaume - I, 44.
Euripide - I, 18, 19, 303 - II, 248,
255, 323, 324, 389, 391.
Fabre D'Eglantine Philippe - I, 44.
Fabre Emile - I, 51.
Fabre Jean-Henri - III, 133.
Farai Edmond - I, 175.
Faulkner William - I, 67 - III, 449,
452.
Favart Carlo Simone - I, 41.
Federico Barbarossa - III, 11.
Fénelon Francois - II, 468.
Feuillet Octave - I, 48.
Fcydeau Charles - I, 55.
Filippo l'Ardito - I, 147.
Filleul Nicolas - I, 320, 338.
Fiord li Tiberio (Scaramouche) - II, 10.
Florian Jean-Pierre Claris (de) - I, 41.
Fontenelle Bernard (de) - I, 357 - II,
467. 468. 469.
Fort Paul - 1, 50, 53.
Fouquet Nicolas - W, 10.
France Anatolc - I, 52.
Francesco I - I. 16, 301.
Francois di Amboise - I, 302.
Francquet (prima moglie di Bcaumar-
chais) - n, 539.
554
TEATRO FRANCESE
Fratellini (attori di circo) - I, 57.
Frcsnayc Vauquclin (de la) - I, 320.
Freud Siegmund - III, 498.
Galilei Galileo - II, 467.
Gantillon Simon - I, 57.
Garnier Etienne - I, 19, 20.
Garnier Robert - I, 319-321, SS7 - II,
323.
Gasscndi Pietro - II, 23.
Gautier de Coincy - I, 221.
Gautier Théophile - I, 44.
Geremia - I, 324 - li, 389.
Gerson (Jean Charlicr) - l, 246.
Ghcldcrodc Michel (de) - l, 67.
Ghéon Henri - I, 56.
Giansenio (Cornelius Jansen) - II, 245,
324.
Gidc André - I, 55, 62 - III, 161,
162, 451.
Gilbert Gabriel - II, 323.
Giliberti - II, 133.
Giono Jean - I, 62.
Giovanni Diacono - I, 105.
Giovanni di Salisbury - I, 177.
Giraudoux Jean - I, 59-61, 63, 65 -
II, 476 - III, 96, 162, 241-244, 318,
503.
Gluck Christophe Willibald - II, 546.
Goethe Johann Wolfgang - I, 45 - II,
190, 543, 544 - III, 402.
Goczman (coniugi) - II, 540, 541, 543,
544.
Goffredo di Vinosalvo - I, 177.
Gombaud Jean Ogier (de) - I, 339.
Goncourt Edmond e Jules - I, 49.
Góngora Luis - I, 338.
Goria Teresa (o Marchesa) - I, 358.
Gougenot - I, 361.
Gracq Julien - III, 498.
Grazzini Anton Francesco - I, 302.
Greban Arnoul - I, 245-247, 255.
Greban Simon - I, 256.
Green Julien - I, 67.
Grévin Jacques - I, 19, 320.
Gringore Pierre - I, 256, 266.
Grotius (Hugo de Groot) - I, 419.
Groto Luigi - n, 11.
Guglielmo di Blois - I, 175, 176.
Guido dalle Colonne - I, 256.
Guillaume Alexis - I, 274.
Guillaume de Saint-Amour - I, 147.
Halcvy Ludovic - I, 49, 63.
Hamon Jean - II, 243, 246, 247.
Hardy Alexandre - I, 19, 20, 339, 360.
Hauptmann Gerhardt - I, 50.
Hegel Wilhelm Friedrich - HI, 498.
Heidegger Martino - III, 450, 451, 452.
Hermant Abel - I, 55.
Hervieu Paul - I, 52.
Holbrook R. T. - I, 274.
Honorius D*Autun - I, 11.
Hue Catherine - I, 357.
Hugo Victor - I, 20, 35, 38, 39, 46.
47, 58 - III, 9-13, 93, 95, 157.
Hugues Farsit - I, 221.
HusscH E. - III, 449, 450.
Ibsen Henrik - I, 50, 52, 53 - HI, 133.
lonesco Eugène - I, 67, 68 - III, 457,
497-507.
Isaia - II, 248, 389, 390.
Jacobsen - I, 177.
Jammes Francis - III, 162.
Jarry Alfred - I, 54, 55 - IH, 498, 506.
Jaspers Karl - III, 450.
Jehan de Costcs - I, 274.
Jodclle Etienne - I, 18, 302, 319.
Jouvet Louis - I, 55 - III, 242, 317.
Jouy (Victor-Joseph Etienne) - I, 44.
Kafka Franz - I, 56.
Kierkegaard, Sòren - I, 62 - III, 320,
450, 452.
Labiche Eugène - I, 49.
La Blache (comte de) - II, 540, 541.
La Bruyère Jean (de) - I, 21, 24, 25 -
n, 468.
La Calprenède Gauthier (de) - I, 355.
La Chaussée Pierre Claude NivcUe (de)
- I, 38, 40.
La Fontaine Jean (de) - I, 24, 358 -
II, 243, 247, 468.
Laforguc Jules - L 52, 63 - III, 318.
La Fosse Antoine (de) - I, 35.
La Grange-Chancel Joseph (de) - I, 35.
Lamartine Alphonse (de) - III, 92, 95.
Lambert Anne Thércse (de) - II, 470.
Lamoignon Guillaume (de) - II, 75, 76.
La Mothc le Vayer Francois - II, 23.
INDICE GENERALE DEI NOMI
555
La Motte Houdart Antoine (de) - I, 35.
Lampérière, Marie (de) - I, 358.
Lancelot Claude - II, 243.
Lanclos Ninon (de) - II, 1(ì.
Langlois Henri - I, 178.
La Pénise Jean Bastier (de) - I, 19,
320.
La PUanièrc - II, 323.
Laprade, Jacques (de) - IH, 401.
Larivey Pierre - I, 302.
La Rochefoucauid, Francois (de) - II,
257, 468.
Lautréamont - III, 506.
Lavedan Henri - I, 51.
Law John - II, 469.
Laya Louis - I, 44.
Leblanc Georgette - I, 53.
Le Danceur - I, 274.
Le Frane de Pompignan Jacques -
1,35.
Lcgouvé Ernesto - I, 44.
Leibniz Gottfried Wilhelm - II, 467,
468.
Le Maitre Antoine - II, 243.
Lemercier Népomucène - I, 44 - III,
11, 12.
Lcnormand - I, 52, 56.
Leopardi Giacomo - HI, 93.
Lerbergue, van - I, 53.
Lesage Alain-Rene - I, 37, 39 - II,
469.
Lessing Gotthold Ephraim - III, 10.
Le Vasseur (abate) - II, 243, 247.
Lewis Matthew Gregory - I, 45.
Licofrone - I, 10.
Loaisel de Trcogate - I, 41.
Locke John - II, 467.
Loclos Choderlos (de) - I, 67. ,,
Longepierre Hilaire- Bernard (de) - I,
35.
Loyer Pierre - I, 302.
Lucano - I, 364.
Luce de Lancival - I, 44.
Lucrezio - II, 23.
Lugné Poe Aurei icn -Marie - I, 50, 53,
55.
Luigi XI - I, 266.
Luigi XIII - I, 355.
Luigi XIV - I, 359 - II, 10, 14, 244,
245, 246, 247, 248, 389, 468.
Luigi XV - II, 539, 541.
Luigi XVI - II, 541, 546.
Luigi Filippo (di Francia) - III, 158.
Lulli Giovanni Battista - II, IO, 13.
Machaut - I, 17.
Machiavelli Niccolò - I, 18, 302.
Maeterlinck Maurice - I, 53-54, 62 -
III, 133-136, 155, 161.
Maintenon Fran^oise D'Aubigné (de) -
I, 32 - II, 246, 247, 389, 390.
Mairet Jean - I, 20, 337-341, 355, 359,
361, 371 - n, 247.
Maldoror - III, 453.
Malhcrbe Francois (de) - I, 20, 24.
Mallarmé Stéphane - I, 52, 53, 57 -
II, 250 - III, 135, 156.
Malraux André - III, 451.
Mancini Maria - II, 248.
Marana - I, 370.
Marcadé Eustachc - I, 245, 255.
Marceau Félicien - I, 67.
Marcel Gabriel - I, 62 - IH, 317, 450.
Marco Aurelio - III, 133.
Maréschal Sylvain - I, 20, 44, 355.
Maria Teresa d'Austria - II, 541.
Marino Giovan Battista - I, 338.
Marivaux Pierre Carlet de Chamblain
- I, 37, 38, 39, 45, 50, 61, 64 - II,
467-476 - III, 93, 96, 244, 319.
Marmontel Jean-Francois - I, 35.
Marx Karl - HI, 452.
Marziano Capella - I, 263.
Masures, Luigi (des) - I, 304.
Matthieu do Venderne - I, 175, 179.
Maturin - I, 45.
Maupassant, Guy (de) - I, 49.
Maurìac Francois - I, 62.
Maurras Charles - III, 400.
Mazzarino (Giulio Mazzarini) - I, 340.
Medici Caterina - I, 303.
Medici Lorenzino - I, 302.
MeUhac Henri - I, 49, 63.
Menandro - I, 176, 177, 302.
Mendès Catulle - I, 52.
Mendoza Diego Hurtado (de) - II, 12.
Mercier Sébastien - I, 41, 45.
Meril (du) - I, 105.
Mérimée Prosper - III, 10.
Meschinot Jean - I, 301.
Méténier Oscar - I, 52.
Michel Jean - I, 255-256,
Michelet Jules - II, 190.
Milhaud Darius - HI, 159.
556
TEATRO FRANCESE
Millct Jacques - I, 256.
Mirabcau Honoré-Gabrìcl Rìqued (mar-
quis de) - II, 542.
Mirbcau Octavc Henri - I, 49.
Miro Gabriel -'III, 498.
Molière (Jean-Baptistc Poquelin) - I,
17, 26-28, 39, 40, 41, 47, 274, 358.
'365 - II, 9-17, 21-24, 75-78, 133-
135, 189-193, 243, 244, 256, 468,
469, 470, 545 - III, li, 503, 505.
Mondory (attore) - I, 360.
Montaigne, Michel (de) - I, 24 - II,
467, 474.
Montchrctien, Antoine (de) - I, 19, 20,
337, 339, 340.
Montemayor Jorge - I, 338.
Montfleury Jacob (de) - I, 35 - II, 24.
Montheriant, Henri (de) - I, 62, 66 -
III. 399-405.
Montmorency, Henri (de) - I, 339.
Montreux, Nicolas (de) - I, 339, 340.
Monvel (Jacques-Marie Boutet) - I, 44.
Mozart Wolfgang Amadeus - II, 548.
Muret Marcantonio - I, 303, 320.
Musset Alfred (de) - I, 61 - II, 476 -
III, 91-96, 157, 244, 401.
Musset Paul (de) - III, 92, 94.
Napoleone - II, 190 - III, 158.
Neri Ferdinando - I, 178.
Nerval Gerard (de) - I, 54 - III, 498,
506.
Nevers Philippe (de) - II, -244.
Newton Isaac - II, 467.
Nicolas de la Chesnaye - I, 264.
Nicole Pierre - II, 243, 244, 245.
Nietzsche Friedrich - III, 400, 498.
Nijinsky - III, 159.
Notkero - I, 10, 76.
Novalis (Friedrich de Hardenìberg) -
I, 53 - III, 133.
Ogier Francois - I, 38.
Olivet Pierre- Joseph (de) - II, 245.
Omero - I, 24 - IH, 159.
Orazio - I. 177, 303, 319, 371.
Ovidio - II. 248.
Paolo Diacono - I. 148.
Pare, Marchesa o Teresa (du) - II, 245,
248.
Pàris-Duverney Joseph - II, 539, 540.
Paris Gaston - I, 178.
Pascal Blaise - I, 24 - II, 256, 467 -
ra, 155, 452.
Pasquier Etienne - I, 273.
Passeur Steve - I, 56.
Péguy Charles - I, 23, 55, 58 - IH,
162.
Pellegrin - I, 56.
Pellisson Paul - I, 371.
Perrault Charies - I, 29, 62 - II, 468 -
III, 505.
Petrarca Francesco - I, 17, 265.
Picabia Francis - III, 498.
Picard Louis Benoit - I, 44.
Picasso Pablo - I, 57.
Pichette Henri - III, 501.
Pichou - I, 20, 355.
Pio VII - III, 158.
Pirandello Luigi - I, 56 - III, 319,
455, 507.
Piron Alessio - I, 35, 40 - II, 469.
Piscator - in, 505.
Pitoeff - I, 55.
Pixcrécourt Guilbcrt (de) - I, 44, 45.
Platone - I, 53.
Plauto - I, 18, 176, 177, 301, 302. 356
- II, 13.
Plutarco - I, 22, 319, 361.
Poe Edgar Allan - II, 250.
Polibio - I. 340.
Pol-Roux le Magnifique - I, 53.
Pompadour Antoinette Poisson (mar-
quise de) - II, 539, 544.
Pons (abate) - II, 76, 77.
Ponsard Francois - I, 48.
Poquelin Jcan-Baptiste (v. Molière).
Porto-Riche George - I, 50.
Pradon Nicolas - I, 35 - II, 244.
Prévost D'Exilcs A.-F. - II, 467.
Proust Marcel - III, 162.
Prudenzio - I, 263.
Prudhomme - HI, 501.
Puget Ch. A. - I, 67.
Pure Michel (de) - II, 11.
Pagnol Marcel - I, 57, 67.
Paladino Eusapia - III, 133.
Paolo (papa) - I, 76.
Quillard P. - I, 53.
Quinault, Philippe - I, 35, 359 - H,
14, 323.
INDICE GENERALE DEI NOMI
557
Racan, Honorat de Bucil (de) - I, 20,
339, 340 - n, 248.
Rachel (Elisa Felix) - I, 48.
Racine Jean - I, 12, 19, 20, 28-34, 35,
36. 37, 39, 45, 47, 50, 61, 338, 341,
356, 357, 358, 359, 364, 365, 369 -
II, 243-251, 255-257, 323-325, 389-
392, 468, 470, 472 - IH, 10, 93,
319, 401.
Racine Jean-Baptiste - II, 246.
Radiguet - I, 57.
Rapin René - II, 247.
Raynal Paul - I, 57.
Regnard Jean-Francois - I, 37 - II,
469, 470, 545.
Renard Jules - I, 49, 55.
Renty (barone de) - II, 76.
Riccoboni Flaminia - II, 469.
Riccoboni Luigi - II, 469.
Richardson Samuel - II, 544.
Richelieu (Armand-Jean Du Plessis,
cardinal de) - I, 340, 355, 357.
Richepin Jean - I, 52.
Rimbaud Ardiur - I, 52, 53, 54, 57 -
III, 93, 155, 506.
Rivaudeau - I, 320.
Roberto D'Angiò - I, 197.
Roberto D'Artois - I, 178.
Robinet - II, 24.
Rodenbach Georges - I, 53.
Romains Jules - I, 56.
Romanet Cadierine (de) - II, 245, 247.
Romano - I, 76.
Ronsard Pierre - I, 301, 302, 320.
Roquette (abate) - II, 76, 77.
Rossini Gioacchino - II, 548.
Rostand Edmond - I, 49.
Rosvita - I, 148.
Rotrou Jean - I, 20, 356, 361 - II, 13.
Rouché - I, 50.
Rousseau Jean- Jacques - I, 39 - II, 190,
468 - III, 505.
Roussin - I, 67.
Roy - I, 235.
Royas Francisco (de) - I, 356.
Rutebeuf - I, 147-148, 165, 235.
Ruy Diaz Rodrigo (Cid) - I, 370.
Ruysbrocck Jean (de) - I, 53.
Ryer Pierre (du) - I, 20, 356.
Sacha-Guitry - I, 51.
Sade (marchese de) - III, 454, 498.
Saint-Agnan (conte de) - II, 244.
Sainte-Beuve Charles Augustin - II,
471 - III, 401.
Saint-Evrcmond Charles (de) - II, 467.
Saint-Gelais Mellin (de) - I, 340.
Saint-Georges de Bouhélier - I, 52.
Saint-Simon, Louis de Rouvroy (de) -
II, 76.
Salacrou Armand - I, 56, 67.
Salas Barbadillo Alonso - II, 76.
Salieri Antonio - II, 546.
Salle Antoine (de la) - I, 273.
Samain Albert - I, 52.
San Bonaventura - I, 233, 246, 358.
Sancio II - I, 370.
Sand George - III, 92, 94.
San Francesco di Sales - I, 420.
San Luigi (re di Francia) - I, 147.
San Matteo - I, 76.
Sannazzaro Jacopo - I, 338.
San Nicola - I, 105.
San Paolo - II, 248, 392.
Santa Genoveffa - III, 159.
Sanu Giovanna D'Arco - I, 256.
Sant'Anselmo - I, 233.
Sardou Victorien - I, 49.
Sarment Jean - I, 56.
Sarrazin - II, 76.
Sartre Jean-Paul - I, 63-64, 66 - III,
320, 449-457, 501, 506.
Scaliger Jules Cesar - I, 319.
Scarron Paul - I, 20 - H, 22, 76, 545.
Schéhadé Georges - UI, 501.
Schelandrc Jean (de) - I, 20.
Schiller Friedrich - I, 45 - HI, 10.
Schlegel Wilhelm - III, 10.
Scott Walter - I, 47 - III, 93.
Scribe Eugènc - I, 47.
Scudéry, Georges (de) - I, 340, 355,
356, 359, 361, 371 - II, 247.
SébUlet Thomas - I, 303.
Secchi Niccolò - II, 11.
Sedaine Michel Jean - I, 41 - II, 544,
545 - III, 10.
Seneca - I, 18, 19, 303, 320, 338, 361,
362 - II, 323.
Serafino Aquilano - I, 338.
558
TEATRO FRANCESE
Scrlio Sebastiano - I, 301.
Scvigné Marie (marchesa de) - II, 76,
245.
Shakespeare William - I, 20, 36, 39,
45, 47, 53, 57, 58 - III, 9, 11, 93.
Shaw George Bernard - I, 56.
Sidonio Apollinare - I, 177.
Sofocle - I, 18, 57, 61, 66, 303.
Soulié Frédéric - I, 46.
Soumet Alexandre - I, 47.
Spinoza Baruch - II, 457.
Stael Jeanne Necker (baronessa de) -
m, 10.
Stendhal - I, 23 - HI, 10.
Straparola Gian Francesco - II, 22.
Supervielle Jules - I, 62.
Surius (monaco tedesco) - I, 419.
Tacito - n, 248, 249, 389.
Taille Jacques (de la) - I, 320.
TaUle Jean (de la) - I, 18, 302, 319,
320.
Talma Francois-Joseph - I, 44.
Tasso Torquato - II, 243.
Tebaldeo Antonio - I, 338.
Tcndn (madame de) - II, 470, 476.
Terenzio - I, 18. 25, 301, 302 - H, 12,
14.
Théophile - I, 20, 360.
Thcophile de Viau - I, 340.
Thomas - I, 17, 35.
Thomassin (attore) - II, 470.
Tirso da Molina - I, 420 - H, 133.
Tito Livio - I, 340, 361.
Tolstoi Lev - I, 50, 53.
Trissino Gian Giorgio - I, 18, 303,
337, 340.
Tristan - II, 11.
Tristan L'Hermitc Louis - I, 20, 355.
Trotta - I, 165.
Tudor (dinastia) - IH, 11.
Turnèbc Odet (de) - I, 302.
Turoldo - I, 12.
Tutilone (mònaco) - I, 10, 76.
Tzara Tristan - I, 56 - HI, 498.
Urfé, Honoré (de) - I, 338.
Vaché Jacques - IH, 498.
Valéry, Paul - I, 60, 62 - IH, 161,
162.
Varchi Benedetto - IH, 94.
Vaugelas Claude Favre (de) - II, 15.
Vega Lope (de) - I, 58, 356, 364.
Velez de Guevara L. - III, 400.
Vergennes Charles Gravier (de) - II,
542.
Verlaine Paul - IH, 93.
Vigny Alfred (de) - I, 46 - IH, 157.
403.
Vilar Jean - I, 55.
Vildrac Charles - I, 56.
Villiers de L*Isle-Adam Philippe - I,
49 - n, 133.
Villon Francois - I, 17, 147, 266, 273.
VirgUio - n, 249.
Visé Donneau (de) - II, 24.
Vital de Blois - I, 175, 176.
Vitale (mimo) - I, 15, 177.
Vitalie Albert - I, 67.
Vitruvio - I, 301.
Voltaire - I, 36, 37, 38, 39, 40, 44, 45.
47 - n, 468, 470, 471, 476, 543 -
in, 91.
Watteau Antoine - II, 469.
Ziegler - I, 304.
Zola Emile - I, 49.
INDICE GENERALE DELLE TAVOLE ILLUSTRATE
Tav. 1
8
9
10
12
Illustrazione per La Farce de Maitre Pathelin:
Pathdin e Guillcmettc - Illustrazione per la Mo-
ràUti du Mauvds Biche et du Ladre .
Scene della connmcdia italiana in Francia nel
XVI secolo
Jean Bodel, lebbroso, legge il suo Congedo agli
amici di Arras
La leggenda di TeofUo - L'Inferno di Poi de
Limbourg
Manoscritto di Le jeu de Robin et Marion .
Due scene del Mistero della Passione, rappresen-
tato a Valenciennes nel 1547
Il Mistero della Passione rappresentato sul sagrato
di Notre-Dame di Parigi
Pathelin e il mercante di stoffe ....
Il Mistero della Passione: fine XV secolo. Museo
di Reims
Illustrazioni per edizioni del teatro di Corneille
Il Cid al Teatro Olimpico di Vicenza, nel 1952
Poliuto al Thtì'tre Antique d*Orange nel 1953
voi.
13 Illustrazioni di P. Brissart per le opere di Mo-
lière, 1682
14 Scenario di Christian Berard per La scuola delle
mogli
15 Louis Jouvet e Pierre Renoir nel Tartufo, al-
TAteneo
16 Jean Vilar nel Don Giovanni di Molière
17 Una rappresentazione del Malato Immaginario
nel parco di Versailles
» 18 Scene e costumi per il teatro di Racine .
n
II
II
II
li
n
pag. 16
48
112
152
200
240
256
288
312
360
408
456
16
64
120
176
232
296
560 TEATRO FRANCESE
Tav. 19 L'attrice Champmcslé, intcrpreCie ddla Fedra di
Racine alla Comédic Franfaisc .... voi. Il pag» 360
20 Disegno di De Waìlly per AtaUa di Radile » Il » 424
21 Bozzetto di Francois Ganeau per La dupUee in-
costanza di Marivaux > II » 488
22 Illustrazioni di Saint-Quentin per // matrimonio
di Figaro > U > 544
23 Auguste Thenard, protagonista de // matrimonio
di Figaro al Thdltre Fran^ » Il » 600
24 Catherine Le Couvey e Daniel Sorano ne //
matrimonio di Figaro > Vi » 648
25 Hernani alla Comédie Fran^aise, per il centocin-
quantesimo anniversario dd Poeta .... » III
26 Una scena dd terzo atto di Ruy Bios ... > III
27 Marguerite Jamois e Luden Nat, interpreti de
/ capricci di Marianna > IH
28 La morte di Tintagiles di Maeterlinck, al Teatro
dd Mathurins di Parigi *
29 Scenografìa di Jean Variot per L'Annunzio a Maria »
30 L'Annunzio a Maria al Teatro Hébertot di ParigT >
31 Una scena di Anfitrione 38 di Giraudoux . »
32 Suzannc Fbn ne L'Alouette di Anouilh »
33 Una scena di Euridice di Anouilh, rappresentato
a Roma nd 1947 »
34 Henri Rolland e Hélènc Vercors ne // gran
Maestro di Santiago »
35 Porte Chiuse di Sartre, al Vieux-Colombier, nd
1934 »
36 Bozzetto di Jacques Noci per Le sedie di loncsco »
32
64
112
ra
» 144
m
» 176
ra
» 224
m
» 272
m
» 320
m
» 368
m
» 416
m
» 464
m
> 528
Ringraziamo le Case Editrici Table Ronde, Bompiani, Gallimard,
Einaudi, che ci hanno gentilmente concesso la facoltà di pubblicare nel
presente volume rispettivamente-, Euridice di Jean Anouilh, Il gran
Maestro di Santiago di Henri de Montherlant, Porte chiuse di Jean-
Paul Sartre, Le Sedie di lonesco.
INDICE GENERALE DEL TERZO VOLUME
Victor Hugo: Presentazione pag. 7
Victor Hugo-. Hernani o L'onore castigliano (Trad. Pctroni) » 15
Alfred de Musset: Presentazione » 89
Alfred de Musset: I capricci di Marianna (Trad. Pctroni) . » 97
Maurice Maeterlinc\: Presentazione » 131
Maurice Maeterlinc\: L'Intrusa (Trad. Montagna) ...» 137
Paul Claudel: Presentazione » 155
Paul Claudel: L'annunzio a Maria (Trad. Dora Siciliano) . » 163
]ean Giraudoux: Presentazione » 239
Jean Giraudoux: Intermezzo (Trad. Italo Siciliano) ...» 245
Jean Anouilh: Presentazione « 315
Jean Anouilh: Euridice (Trad. Italo Siciliano) .... » 323
Henri de Montherlant: Presentazione » 397
Henri de Montherlant: Il gran Maestro di Santiago (Trad.
Dora Siciliano) » 407
Jean-Paul Sartre: Presentazione » 447
Jean-Paul Sartre: Porte chiuse (Trad. Pctroni) .... » 459
Eugène lonesco: Presentazione » 495
Eugène lonesco: Le sedie (Trad. Mortco) » 509
Indice dei Nomi citati nei tre volumi » 551
Indice delle Tavole illustrate dei tre volumi .... » 559
Finito di stampare il 25 novembre 1959 in Milano
nelle officine grafiche deiristituto Editoriale Italiano
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