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GIUSEPPE ORTOLANI
VOCI E VISIONI
DEL
SETTECENTO VENEZIANO
y^/jri
BOLOGNA
NICOLA ZANICHELLI
EDITORE
/
l'editore adempiuti I DOVERI
ESERCITERÀ I DIRITTI SANCITI DALLE LEGGI
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
G. Ortolani.
Dov'è il Settecento, l'antica Venezia dov'è? dove sono i
Dogi, i Procuratori, i Senatori, dove sono le feste, dov'è l'antico
senso della vita? Già Antonio Lamberti, il poeta della Biondina^
rimpiangeva che in meno d'un decennio dopo la caduta della
Repubblica di San Marco circa ottanta palazzi marmorei fossero
-abbattuti dal furore francese sì da non potersi la città più rico-
noscere. Sparirono in pochi lustri le famiglie patrizie dai bei
nomi che suonavano gloriosi da più secoli^ sparì, come colpito
dal cielo, un terzo della intera popolazione. L'Austria che teneva
i cannoni sotto gli archi del Palazzo Ducale e che nel '49 lanciò
migliaia di bombe sulla città, fortunatamente senza danno, riuscì
a spegnere quasi del tutto la vecchia anima veneziana, disav-
vezzandola dal mare. Quello poi che non avevano fatto ancora
i barbari, compirono i nuovi reggitori del Comune riunito al
regno d^ Italia, dopo il ^66, colmando canali, aprendo strade,
lacerando vecchie e anguste calli, costruendo case: si difesero
di parapetti le fondamente, si gettarono sul fragile specchio
delle acque mostruosi ponti di ferro, si piantarono sul Cana-
lazzo goffi pontili d'approdo e si spinsero i goffi vaporini a
fischiare sull'azzurra laguna. Non cambiarono solo gli abiti ma
fino il dialetto, non soltanto scomparve l'aurea pompa ma la
regale dignità dell'antica Dominante. Sì, anche il Settecento è
proprio finito a Venezia. Un'altra città sopravvive. Bisogna aver
portato molto a lungo dentro di sé gli uomini e le donne di
quel tempo, evocandone dalle carte manoscritte e stampate il
profilo il sorriso la conversazione : e ad un tratto, in qualche
tristissimo e dolcissimo tramonto autunnale, al ritorno da una
visita alle isole morte ci apparirà, smarrendosi l' occhio sulla
tristissima e dolcissima laguna, tutto il Settecento veneziano^
qual fu veramente; o lo vedremo e lo sentiremo, se un mattino
4 VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
ci desti un'antica campana, di là dal canale, sonando l'alba,
Talba che s'indovina fuori della chiusa stanza, intorno la casa;,
o ancora, se da tutti i campanili, al venir d* un Natale o al
morire d'un Carnevale, le sacre voci del passato si spandano
con folle tumulto su tutta la bella città notturna, risvegliando
qualche eco della sua anima lontana.
Non già un secolo intero vogliamo rappresentarci, sì vo-
gliamo rivivere per un istante a Venezia nel breve periodo che
va dal 1748 al 1762: periodo eh' è giusto chiamar goldoniano,,
del quale non ci raccontano gli storici della Serenissima nes-
suna impresa di guerra, né ci descrivono le solite feste suntuose
per l'arrivo di principi stranieri e non ricordano stupendi acci-
denti, ma che d'altra gloria adorna Venezia, se in esso l'arte
comica creò i Rusteghi e le Baruffe Chiozzotte, intanto che
Carlo Gozzi dava principio alla Marfisa e alle Fiabe, e il fra-
tello Gasparo stampava i primi Sermoni, la Gazzetta Veneta e
l' Osservatore.
La fama di Giambattista Tiepolo, giunto al sommo, della
maturità, rifulgeva per tutta Europa: dal '50 al '53 la Germania
lo toglieva per poco alla sua città nativa, che nel '56 lo elesse
presidente dell'Accademia di pittura e scultura allora istituita:
solo nel '62 la Spagna lo rapiva, per sempre. Se Rosalba Car-
riera, cieca e demente, spegnevasi; se il Canaletto invecchiava;
serbavano Pietro Longhi e Francesco Guardi forze vivaci e
durevoli *. Questi nomi bastano e non occorre rammentare il
Piazzetta che morì nel '54, il Pittoni e Fabio Canal morti nel '67,
il Guaranà e il Maggiotto che nacquero nel '20, dei quali fu
pur chiesta e celebrata l'arte oltre l'Alpi, e molti altri =: o come
r Europa invidiasse a Verona il Cignaroli, e Verona stessa con-
cedesse alla Corte di Pietroburgo il Rotari, e Venezia a questa
il Fontebasso, a quella di Madrid l'Amigoni. In mezzo al gene-
rale e fatale decadimento della pittura, Venezia aveva dunque
potuto riacquistare e teneva una volta ancora primissimo posto
fra le nazioni. Vi fioriva poi una celebre scuola d' incisione 3,
donde per V Italia e per T Europa si diffondevano, a ornare e
allietare alfine le pareti delle case borghesi e plebee, le umili
ma dilette riproduzioni degli antichi e nuovi capolavori.
Venezia che nel Seicento aveva dalle sale de' principi tra-
sportato ne* pubblici teatri il dramma musicale; che in sei de-
cenni vide e udì più di trecento opere; che una serie di maestri
lunghissima, veneziani quasi tutti, contava fino al principio del
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO 5
Settecento; essa che per mezzo del Cavalli diede in Francia
V impulso al Lulli e per la scuola del Gabrielli iniziò con lo
Schiltz r opera germanica, e precedette la gloriosa scuola na-
poletana, non aveva interamente smarrito le sue tradizioni 4,
€ se piangeva ancora la morte di Benedetto Marcello e di An-
tonio Lotti, vantava Baldassare Galuppi il Buranello^ emulo de'
maestri napoletani 5 e creatore, insieme col Goldoni, de\V opera
giocosa sulle lagune di Venezia 6.
De' letterati veneti che nella prima metà del Settecento
portarono per 1' Europa onorato il nome italiano, morivano in
questo tempo assai vecchi lo Zeno e il Maffei, ma lasciando in
patria la luce e il suono della loro fama: e poco innanzi era
morto il Conti 7. Viveva l'Algarotti che, tornato dalla Germa-
nia (1753), alternò la sua dimora tra Bologna e Venezia, prima
di scegliere il suo ultimo soggiorno a Pisa ('62). Viveva Marco
Foscarini, insigne nella politica e negli studi. Ma quale esube-
ranza di operosità, e spesso d'ingegno, nel teatro, nel romanzo,
nei giornali di erudizione, nella poesia burlesca (i Granelleschi)
e vernacola, nelle ricerche storiche dove ebbero grido il Corner,
illustratore delle chiese veneziane, il Bandi, raccoglitore dei
Principi di Storia civile della Repubblica di Venezia, Mittarelli
e Costadoni, autori degli Annali Camaldolesi, il padre Zaccaria,
professore di storia ecclesiastica, Giovanni Degli Agostini, com-
pilatore delle Notizie degli Scrittori Veneziani ^, negli studi filo-
logici (Bergantini) bibliografici (Paltoni) economici (Ortes), nelle
lingue orientali (Finetti, GalliccioUi), nella matematica (Poleni),
nella cultura varia (i fratelli Zanetti, Griselini ecc.)! 9. Qui scri-
vevano prose e versi eleganti in latino Natale dalle Laste (di
Marostica) e Tommaso Farsetti; qui scherzava con le muse una
gentile schiera di donne. Angela Tiepolo Gozzi, la Bergalli
Gozzi, Marina Gozzi Prata, la Barbaro Gritti, Girolama Gozzi
Corner, Maria Marcello, la Dolfin Tron. Qui fu il Baretti negli
anni '47 e '48, e qui tornò sulla fine del '62 a impugnare la
Frusta, qui insegnò il Bettinelli e vi stampò le ardite Lettere
Virgiliane, qui insegnò il Cesarotti e intraprese la versione
dell' Ossian ^°: d'ogni parte poi d'Italia qui convenivano fug-
gevolmente, specie nella stagione del carnovale o durante la
fiera della Sensa, molti fra' più insigni letterati e scienziati del
tempo.
Certo l'istruzione che ai giovani compartivano nelle scuole
i padri Gesuiti o i padri Somaschi riusciva spesso misera, ma
6 VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
dov'era migliore? I Collegi però e i Seminari non soltanto
nella Dominante, bensì per tutta la Repubblica, possedevano
anche allora valenti maestri di ciascuna disciplina, i quali ne
ricordano la sferza, né hanno la mente e T animo chiusi al sof-
fio d' un audace progresso ; e li ricercavano, li compensavano,
per quanto permettevano gli scarsi mezzi, li tenevano cari, ne
menavano vanto ". L' Università di Padova, sebbene spopolata,
fioriva ancora d' illustri professori e di buon insegnamento ^2, a
Verona nel '59 aprivasi la famosa Scuola Militare. E accanto
ad ogni Collegio, in ogni Seminario, in ogni Convento, presso
le più umili Parrocchie, e' era la grande o piccola biblioteca,
costosa e preziosa sempre. Quelle poi de' privati, dove spesso
gli studiosi potevano facilmente accedere, ricchissime di opere
a stampa e manoscritte, si trovavano nella città ad ogni passo,
superbo ornamento de' palazzi veneziani '3. Infaticabili poi i
torchi della stampa a imprimere centinaia e migliaia di volumi
d' ogni parte della scienza dell' arte della letteratura, italiani e
latini, originali e tradotti, talora ornati di vaghissime incisioni,
talora fecondi d'un nuovo spirito moderno che correva sul vec-
chio mondo, e pronti i numerosi e attivi librai a diffonderli
nello Stato e nella penisola m. Così che io so di non esagerare
affermando esser Venezia in questo periodo la città più eulta
d'Italia 15; né temo di confessare che in tutto il continente
d' Europa soltanto Parigi si trova che d' un tratto assai visibile
la sopravanzi.
Venezia, con i suoi 150 mila abitanti ^^, non era città
d'oziosi, sebbene oltre 6000 fossero gli ecclesiastici dei due
sessi *7: aveva più di 5500 mercanti o negozianti, 8000 artisti
o manifattori, 3100 venditori di commestibili, 3700 barcaioli.
Oltre 2000 telai risuonavano di tele, di panni di lana o di lino,
ma specialmente di drappi e passamani di seta, d'oro e d'ar-
gento »8: e 25 fornaci ardevano in città per le margarite e a
Murano 30 per cristalli perle tazze specchi, intorno alle quali
sudavano 340 operai *9: e per le isole dell'Estuario un gran
numero di barche d* ogni specie, a vela o senza, s' incrociava,
dove ai remi agli alberi ai timoni attendevano 4000 e più pe-
scatori o altra gente di mare. Gli artigiani si alzavano di buon
mattino, uscivano di casa al suono della campana detta Maran-
gona, prima del levar del sole; così pure le donne del popolo,
i gondolieri, i barcaioli, i facchini; ascoltavano la messa, beve-
vano il caffè e quindi s' affrettavano al lavoro. Un po' dopo
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO 7
s' aprivano le botteghe, prima di terza =" i fondachi, e più tardi
i banchi de' negozianti. 1 patrizi che occupavano qualche ma-
gistratura, gli avvocati, gli impiegati pubblici erano scrupolosi,
prima di terza, a' loro uffici: orario comune da terza a un'ora
dopo il mezzogiorno, ma per molti, specie per gli uomini di
legge, anche fino a notte ''. Gli artigiani lasciavano il lavoro
mezz' ora innanzi notte, quelli che avevano bottega propria la
chiudevano al tocco della Realtina ^^.
Vero è che la ricchezza non istava accumulata nelle mani
di pochi potenti, ma era diffusa con maggior equità per tutta
la popolazione: quella popolazione che perciò amava il suo
Governo e che, uccisa ormai nella gaiezza e nella quiete la
primigenia ferocia, si sentiva perciò aliena da qualunque muta-
zione negli ordinamenti civili. I traffici della seta de' vetri del
pesce del sale dell' olio e così via, il noleggio di circa 900 va-
scelli con 8000 marinai, i frutti superstiti de' commerci antichi
facevano sovrabbondare a volte la moneta di Lombardia di
Spagna d'Austria: talché i commercianti veneti, se non pote-
vano primeggiare fra le novelle nazioni d'Europa, erano tuttavia
i più danarosi d'Italia =3. E il denaro non si teneva inutile nelle
casse, facili riuscivano i prestiti con modici interessi =4, T usura
quasi non si conosceva, i fallimenti assai rari. Mite il prezzo
delle sostanze alimentari =5, equi gli stipendi per tutti ^^, grossi
i guadagni : alcuni sensali da quattro a dieci mila ducati
l' anno =7, qualche facchino più di cinque franchi il giorno.
Alcune famiglie patrizie, come i Mocenigo i Zenobio i Conta-
rini, tenevano quaranta o cinquanta servi, e sei o dieci gon-
dole =8 j un centinaio di dame, afferma il Lamberti, potevano le
feste adornarsi di gioielli che costavano trenta mila ducati: e le
donne stesse del popolo avevano pendenti d' oro, gli artigiani
e i gondolieri fibbie d' argento e orologi. Se nel Seicento i
Labia, arricchiti coi traffici, seppero " edificare la vasta mole
di S. Geremia, dove diedero a quaranta gentiluomini un ban-
chetto con suppellettili d' oro „ ==9, nelle case del bottegaio del-
l'artiere del barcaiolo risplendevano pur negli ultimi anni della
Repubblica i vasellami e le posate d'argento; e di queste rara-
mente mancavano le umili osterie de' villaggi 3°. Minimo, si può
dire, il debito pubblico; e il Governo, grazie alla pace, lo spe-
gneva a mano a mano 31 senza punto gravare di tasse 32, eh' erano
assai tenui, il popolo suo. Pur nella velenosa inerzia che, oc-
cultamente inoculatasi, s' avanzava lenta e spesso invisibile a
8 VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
intorpidire le fibre di tutte le classi de' cittadini della Domi-
nante, nelle province venete i campi e i vigneti continuavano
a essere lavorati, le praterie falciate 33. Il contadino della terra-
ferma non soffriva la fame 34, e nella Dominante fra il *66 e il
70 solo 800 persone si trovavano senza entrata e senza me-
stiere; nell'intero Stato poi appena 21 mila 35. Anche questa
era allora gloria della Repubblica di Venezia, e dopo ciò lasciamo
che Antonio Lamberti, il poeta, dopo aver rimproverata T im-
prudenza de' governanti i quali avevano trascurato l'armata e
ridotto r esercito, si conforti da se pensando che diedero modo
a' sudditi di vivere per un secolo meno gloriosi bensì, ma più
ricchi e più felici.
Intanto di là dalle Alpi, a settentrione, lungo i fiumi di
Boemia e di Sassonia, presso le nere foreste di Vestfalia, il
cannone rombava, sordamente. L'Europa agitavasi ancora:
l'irrequietudine tormentava le nazioni, rottosi l'antico equilibrio.
Venezia, con gli occhi al mare che sempre più le fuggiva, non
voleva udire ne vedere; e quella sua timida neutralità parendo
arte di politica subdola, le creava o cresceva intorno diffidenze
e irritazioni. Scarsissimo, dopo Passarowitz, il commercio in
Levante : i manufatti veneziani non trovavano compratori, men-
tre si ricercavano quelli di Francia e d' Inghilterra, meno co-
stosi 36 ; i mercanti abbandonavano a' rivali le città dell' Egitto
e della Siria 37. Neil' Egeo, nel mare di Candia, nell' Ionio cor-
seggiavano in gran numero i veloci e leggeri sciambecchi delle
potenze Barbaresche, assalendo e predando i legni carichi; e
si spingevano su per l'Adriatico 38, oltre le Bocche di Cattare :
così che la Repubblica era costretta a tenere, con dispendio
enorme e piccolo vantaggio, la propria flotta in assetto di
guerra 39. Soltanto nel '63 si firmò ad Algeri la pace, non sem-
pre però sicura, e impotente a frenare l'audacia e la violenza
di qualche corsaro 40. n decadimento della marina veneziana
era continuo, fatale; intorno al '52 il Governo sembra divenire
più vigile e mette a nudo le piaghe 41. Le migliori navi, co-
struite con scienza troppo vecchia e imperfetta, costano assai,
ma per la grossa mole si movono tarde e non sostengono il
lungo corso. Indisciplinate inesperte scarse le ciurme: i marinai
vendono le vesti e perfino il pane 4». Ma più vasto e turpe
mercato si esercitava nell' Arsenale, dove i furti d' ogni specie
e r ozio s' erano troppo abbarbicati, perchè si potessero ormai
interamente sradicare 43. Le truppe di terra, ridotte in modo
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO 9
pericoloso, bastavano appena a' presidi delle cadenti fortezze 44 ;
e pure, causa le frodi, a cui non si sapeva riparare con vigore,
la Repubblica spendeva per esse gran somme. Niente marce
od altri esercizi militari, nessun maneggio delle armi, nessuna
disciplina: i soldati, laceri spesso e perciò oggetto di scherno,
ignoranti e viziosi, che si traevano dalle popolazioni più misere,
oziavano nelle lunghe guardie e talora disertavano 45. La mas-
sima parte poi degli ufficiali di terra e di mare, patrizi moltis-
simi per r ingiusto e dannoso privilegio degli antichi regimi, e
poveri la più parte, si curava soltanto, in tempo di pace, di
riscuotere le paghe e di uccidere con le femmine e col gioco la
noia delle giornate 46. Tuttavia convien ricordare come Venezia
fosse r unica potenza marittima d' Italia e come 1' armata vene-
ziana, sebbene avesse perduto la sua importanza mondiale,
fosse ancora imponente e temuta nel Mediterraneo 47.
La religione continuava ad apparire una splendida pompa,
ma lo scetticismo cresceva 48: il vero spirito religioso sempre
più ritraevasi di fronte al soddisfacimento del senso teatrale 49.
Fin dal secolo precedente la chiesa talora diventava un ritrovo
d' amore e di civetteria, dove le donne, troppo tirannicamente
rinchiuse, potevano fare sfoggio delle vesti e de' monili, offrire
al desiderio o all' invidia la vista del seno e degli omeri 50.
Per r intero popolo veneziano anche la messa, la predica, le
processioni, le sagre frequentissime, il canto negli Ospedali si,
i festini ne' monasteri, tutto sempre più appariva uno spasso
giocondo, una manifestazione varia del Carnovale perpetuo 5^.
Qualche dama ascoltava i divini uffici, presso l' altare, con
l'abito di maschera 53; qualche altra vestì, ne' suoi svaghi,
l'abito d'abate o di frate 54; l'uomo plebeo celebrava bene
spesso le feste della* religione abbandonandosi alla bestemmia
al vino alla lussuria 55.
Assai ricco era il clero 56 e potente 57; né certo facevano
in esso difetto l' ingegno e la dottrina, ma numerosi mali lo
travagliavano, specialmente per causa de' molti costretti alla
vita sacerdotale o claustrale dalla stupida e crudele volontà de'
genitori: quindi il lusso e la vana ambizione de' titoli, il con-
cubinaggio, il turpiloquio, il gioco, le cure profane, e molti altri
vizi ed abusi 58. I predicatori, affettati nel gesto e nella voce,
badavano d' attirar folla con discorsi ampollosi e bislacchi :
nessun oratore 59. Mala peste poi i troppi abati, troppo spesso
intriganti, dissoluti, vili ^. Colpe tutte de' tempi, non già colpe
IO VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
di Venezia. Sulla metà del Settecento, nell* inizio del periodo
goldoniano, una lenta trasformazione del vivere sociale della
donna ha cambiato 1* aspetto de* conventi di monache. Non più
le continue conversazioni, i conviti, le mascherate, le danze, gli
intrighi, la mondanità scostumata ^^ : qualche abuso perdura, ma
i parlatori diventano di chiassosi silenziosi, le cure della civet-
teria cedono dentro le celle alla preghiera; certa severità mo-
notona, certa noia triste si diffonde per i corridoi e i cortiH
solitari ^^. Non fu però mutamento improvviso, né ci stupiremo
di veder ancora le monache; avide di curiosità e di ghiottonerie,
mischiare a' pettegolezzi di cose sacre e profane le carezze alle
cagnoline o il becchime agli uccellini: lo spirito di salotto esu-
lando cede un poco per volta alla bacchettoneria; mentre la
fede intelligente e sincera se ne sta, e prima e poi, sola, umile,
in disparte, sfuggendo alla storia.
Anche il gran problema della donna nella società fu posto
e dibattuto vivacemente nel secolo di Goldoni a Venezia. Certo
fu sempre trascuratissima T istruzione delle fanciulle, ma sulla
metà del Settecento appariva manifesto il progresso. Né la sa-
tira risparmiava la falsa educazione ^3, eh' era del resto severa
di solito, anzi chiusa agli affetti familiari: le giovinette lascia-
vano le mura del convento ^^ o le domestiche pareti, che avevano
gelosamente custodito la loro verginità, per seguire il marito
scelto e spesso imposto da' genitori o dai parenti. Di simili
tirannie paterne tutti i romanzi, le commedie e i libri d' ogni
specie del Settecento sono pieni; e le. ribellioni non si trovano
soltanto nell'Arte: ma la donna godeva per lo più di uscire in
qualunque modo dal carcere della sua giovinezza ^5, per potersi
inebriare della libertà coniugale. Strano contrasto! La fanciulla
cresciuta fino al giorno del matrimonio in una solitudine quasi
orientale, di rado condotta al passeggio in Piazza, quasi mai
al teatro e mai senza la maschera: la fanciulla, cui era proibita
la conversazione coi giovani coetanei, proibito il ballo, proibito
l'amore fuori degli occhi materni ^6; ecco d'improvviso si ve-
deva impunemente servita dai cicisbei, concessi qualche volta
per patto nuziale ^7, e corteggiata da' vagheggini: e poteva sola,
fino a tarda ora notturna, girare mascherata per l' intera città,
sciolta da ogni vigilanza del marito, intento egli a sua volta a
servire altre dame o a giocare ne' ridotti ^. Questo il costume
generale a Venezia nel periodo goldoniano: qualche decennio
innanzi, non essendo lecito alle donne di conversare con uomini,
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO II
né di uscire non accompagnate da* familiari, esse affollavano,
primo indizio di vagheggiata libertà, i parlatori de' conventi o
s' accontentavano di udire le prediche e d' assistere alle altre
funzioni sacre nelle Chiese. Bella era dunque la vittoria, ma
raggiunta senza lotta, in grazia d' una brutta moda, d* origine
forestiera ^9. Perchè l' uso de' serventi , breve nella storia del
costume, sorvolando la satira mordace del secolo decimottavo
e la meraviglia o il riso innocente del decimonono, diventa a*
nostri occhi, se ben si consideri, importante fatto sociale: nasce
anch'esso da quell'audacia del pensiero preparata nella nostra
Europa dal Seicento, sferratasi nel Settecento, che non ha
l'eguale, io mi penso, per grandezza, se non forse tra il crollar
del mondo ellenico e il sorgere del cristiano; è un grido an-
ch' esso della tormentata natura, che dopo il regno di Luigi XIV
s'ode in molteplice modo risonare nella scienza e nell'arte, e
che pervade l'intera società echeggiando timido nelle case prima
di scoppiare torbido e violento sulle piazze. Non può sfuggire
a chi s' inoltri anche per poco nel Settecento, una voce che di
tratto in tratto, sorda o chiara, s' eleva contro il matrimonio :
non sono già soli a raccoglierla i più audaci scrittori di Francia;
in Italia, a Venezia stessa, la ritroviamo. Ma, anzi che nei libri,
guardiamo nella vita. Oltralpi, se noi ripensiamo la schiera
gloriosa degli uomini di lettere, i quali riparavano alla patria i
disastri finanziari dei Laws e le disfatte di Rosbach tenendo in
una specie d'intellettual signoria la società più colta d'Europa,
vedremo tosto accanto alla serie de' ritratti sorridere una lunga
visione di volti femminili: sono le donne dell'amore e del do-
lore, del conforto e dell'abbandono. Sono le donne elette di
Francia, che nei salotti parigini, ne le verdi ville di campagna,
negli esili del Belgio e della Svizzera partirono a' letterati ric-
chezze, baci e infedeltà. Molte, tutte forse, hanno il marito, ma
dove, ma chi? Il diritto d'amare non fu più sacro mai. Né la
vergogna deturpa le belle immagini, verso cui rivola in certi
istanti r anima nostra, cullata dalla vana tristezza delle cose
non godute e così lontane: " ...Mais où sont les neiges d'antan? „;
che ben sappiamo come le carezze della divina Emilia fossero
nella esistenza di Voltaire un miglior tesoro della Merope o dei
Discorsi siili' nomo) come le cure della signora di Warens e il
bacio della d' Houdetot fossero per Giangiacomo meglio di qual-
che capitolo del Contratto e d' alquante lettere della Nuova
Eloisa. E anche un po' fuori della letteratura, che ci importa
12 VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
se .gli amori della Aissé e della Lespinasse non ricevettero la
firma del notaio? Ma coleste innumerevoli donne per il loro
ingegno e per la coltura reggevano esse la Francia, e n' erano
degne; che la corruzione, nel senso più volgare, non pareva
giungere ad esse, sì alto. - Preme vedere l'educazione, da per
tutto la medesima: nella intera società de' nobili e de* ricchi
borghesi il vincolo del matrimonio è sciolto, disciolta la vera
famiglia. I figli crescono, come fra noi, lontani da' genitori, il
marito vive lontano dalla moglie: non l'intimità, non la tene-
rezza 70. Nella minor borghesia, in cui riparano la virtù e
r onore fra il generale rilassamento, si trovano moltissimi falsi
matrimoni e certa ritrosia nella donna ad accettare un marito,
temendo in quello un padrone 7^. Nessuno vorrà seriamente
imputare di tale fenomeno storico l' esempio del re, perchè
ostenta le sue concubine alla Corte e alla nazione 7^: ma la
ragione è più profonda e da ricercarsi nel tempo.
In Italia dove, al modo stesso che in Francia, amori e spon-
sali si stringevano spesso non solo nel teatro sì ben nella vita
in meno di ventiquattr' ore 73, qualche volta con violenza, sempre
con leggerezza; in Italia, aperta fin dal secolo decimosesto al
soldato barbaro e alla moda straniera, si riuscì, smesso il rigore
ipocrita spagnolo, all' ibrido tipo, un po' ridevole e un po' basso,
del cicisbeo 74. A Venezia era scelto di solito a servente, per
tórre il biasimo, un amico di casa, talora un parente, non più
giovine 75: ma il sospetto e la maldicenza sussurravano tosto.
Né a torto, poiché lo strano compromesso tra la libertà natu-
rale e la moralità volgare senza giovar all' amore aiutò la cor-
ruzione 76.
Ampia era la corruzione de' costumi; e a noi basta richia-
marci la giovinezza del Casanova, nato a Venezia nel 1725: ma
chi saprebbe dire se minore fosse un secolo innanzi, a' tempi
di Girolamo Brusoni, o due secoli, a' tempi dell'Aretino? 1
frequenti divorzi, le numerosissime cortigiane 77, i carnovali
stessi aiutavano a mantenerla, se non ad accrescerla 78. Salva
però n' era la donna nell' età sua prima, poiché il triste spet-
tacolo non ne turbava come oggi fin dall' adolescenza la mente
e il sangue: massimo pregio, nelle fanciulle d'ogni classe, go-
devano la verginità del corpo e l' innocenza del pensiero 79, a
salvar le quali i genitori usavano cautele sciocche talora. Le
leggi contro i seduttori si conservavano severe: la moda poi
fortunatissima delle semivergini, suddivise in vari gradi, che ha
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO I3
inquinato ormai totalmente anche le parti rimaste più intatte
della società, fu tutta nostra, della seconda metà dell'Ottocento ^.
Le diverse occupazioni delle nobildonne sono ormai troppo
note; e poi il modo di vivere della dama si rassomigliava da
per tutto, così a Parigi come a Milano. A Venezia invece della
carrozza la gondola, e l'abitudine de' casini dove, piuttosto che
ne* palazzi, si tenevano per maggior libertà le conversazioni
notturne s^ Assai tardo al mattino il risveglio: poi la toletta s^,
qualche discorso, qualche lavoretto di ricamo: dopo il mezzo-
giorno passeggio in Piazza (il famoso liston) e d'inverno sulla
Riva. Le feste vi partecipavano le donne del popolo ^3. Specie
nella stagione più calda, dopo pranzo, le prmie ore di sera,
che gli uomini dedicavano agli affari o al caffè, erano le ore
del riposo e del mistero nelle intime stanze: quindi un'altra
toletta, con la visita de' serventi, prima d' uscire ^4, Da Pasqua
a Ottobre ogni festa, sul tramonto, il fresco nel Canalazzo ^5 :
la sera dell'Ascensione si teneva nel canale della Giudecca e
durava fino all'aurora. 11 buon Lamberti si compiace di descri-
vere lo spettacolo di mille gondole, liete di tante donne adagiate^
intorno alle quali volteggiano i barchini de' giovani gentiluomini,
intanto che altri, più vigorosi, vogano a gara a quattro remi,
a sei, a otto, nelle svelte ballottine, margherote e bissone, fra
gli applausi del minor popolo dalla riva ^^. Splendida visione
invero che mal sappiamo immaginare; quanta ricchezza di co-
lori, quanta gioia di vita fra l'acque e il cielo!
Facile allora e adesso deridere i guardinfanti voluminosi,
le altissime capigliature, le parrucche incipriate e le solite stra-
nezze della moda ^7: ma tutto quello sfarzo ^ e quella eleganza,
dalle magnifiche velade alle fibbie d'oro delle scarpette, inebria-
vano voluttuosamente gli occhi. Poiché gli uomini e le donne
che nel Settecento si aggiravano per la Piazza e per il Molo
nulla capivano o quasi de' miracoli d'architettura sorgenti all'in-
torno, ma vi si trovavano a loro agio, come se creati per essi.
Essi pure avevano un loro stile speciale, che non offendeva per
niente le volte e i ricami bizantini della Chiesa, gli archi gotici
del Palazzo Ducale, la linea lombardesca e la sansoviniana delle
Procuratie Vecchie e della Biblioteca. La città lussureggiante
dai mille palazzi, dai mille ponti, dalla rete misteriosa e ininter-
rotta di canali e di calli avvolgenti, serpeggianti : questo unico
e divino labirinto d* amore era nato per essi. Ad essi il mare
aveva donato la fantastica dimora, per il loro piacere.
14 VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
Dove sono le donne patrizie nella vesta di seta nera, col
nero zendà intorno al capo, le donne del popolo col ninzioletto
bianco? Dall'ottobre alla Quaresima, nella Sensa e nelle occa-
sioni solenni portavano, spesso a viso scoperto, la bauta di seta
nera col civettuolo cappellino a tre punte: né le dame solo, ma
fino gli alti magistrati e il Doge ^. Mode intimamente nazionali,
veramente veneziane : ed era sì grande questo sentimento della
patria, che quando le fogge francesi, dopo il regno di Luigi XIV,
distendendosi su tutta Europa, anche a Venezia un pò* per volta
si affermarono, i patrizi " solevano coprirle „ , dice il Romanin,
^* vergognandosi quasi di aver lasciata 1' avita toga, di un tabarro
o ferraiolo „ bianco, rosso o turchino; e taluni continuavano,
accolto r uso della parrucca, ormai generale, a tenere in mano
r anticaf berretta 9°.
La donna, fatta libera, esercitava il suo fascino e, a sua
volta, qualche parte di dominio sulla società. Acquistata l'arte
sottile della parola e della seduzione, ebbe essa il suo regno
nel secolo del lusso della eleganza della voluttà. E ciò serve
anche a meglio spiegare nella storia del Settecento certi feno-
meni politici, e specialmente artistici e letterari. L' influsso della
donna si avverte in ogni dove; non soltanto per le sale de'
palazzi e per le vie essa ci avvolge o abbaglia col profumo
della cipria, che le vola dalla nuca, con la bianchezza della
pelle nuda, col cinguettio sorridente e insistente: non la ritro-
viamo soltanto nelle feste pubbliche nelle chiese ne' conventi
negli oratori ne' teatri ne' casini ne' caffè ne' ridotti nelle acca-
demie, fra i poeti fra gli scienziati fra i pittori, ora in atto di
ascoltare un romanzo nel suo gabinetto, or di intrecciare la
contraddanza nelle sale da ballo, or di tagliare al faraone presso
un tavolino da gioco, partecipe insomma a ogni manifestazione
della vita cittadina, seria o ridicola, onesta o viziosa: ma gli
avvenimenti del tempo, i libri, ogni più piccolo foglio rigato
sono pieni di lei, serbano il cenno della sua limpida fronte, una
traccia delle dita voluttuose, un' eco del fruscio di quella seta,
che le ondeggia intorno alla persona e ci tocca. Le vergini di
Vittore Carpaccio e di Giovanni Bellini, dal volto consacrato
all' estasi e alla fede, dai puri occhi mattutini innamorati del-
l'alba, dalla parola più dolce d'una preghiera, dalle mani caste
congiunte sul timido petto nascente, sono dileguate lontano lon-
tano, come piccole fate impaurite del sole, fuggendo per entro
i primi secoli di Venezia: la Repubblica al tramonto più non
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
15
ci mostra che le dame civettuole languide sensuali vanitose
artificiose ne' pastelli di Rosalba Carriera e in qualche qua-
dretto di Pietro Longhi o dei Guardi 91. Nate al piacere, vivono
del piacere: la loro grazia la gaiezza la cultura l'intelligenza
la corruzione stessa ci seducono.
11 carnovale esiste per esse : per esse la fantastica follia de'
carnovali veneziani, sì celebre e sola nella storia umana 9^. Dice
il Lamberti che non può averne idea chi non ha visto Venezia
in quei tempi. Gli ultimi giorni nessuno più attendeva agii affari:
anche il fòro taceva: tutti volevano abbandonarsi al tripudio
sfrenato. La notte ultima uomini e donne mascherati correvano,
urlando assordando, per le calli e per i campi', d' ogni età e
d'ogni classe, con torce, con fanali, in mano, sul capo, con zufioli
nacchere corni e altri infernali strumenti, sonando ridendo schia-
mazzando ululando, ballavano, saltavano tenendosi per mano,
in tondo, a gruppi, nella Piazza ebra delle visioni e del fra-
stuono, fin che dal campanile di S. Francesco della Vigna, oscuro
e muto, la voce de' bronzi riscuotendosi e diffondendosi sulla
insana ridda, suU' enorme baccanale, metteva in fuga improv-
visamente le figure incantevoli bizzarre spettrali grottesche, a
cento a mille 9s. — E noi ripensiamo oggi stupiti quell'orgia vio-
lenta di colori, di motti arguti ed osceni, di libertà. Tutte le più
strane e audaci creazioni della Commedia dell'Arte, nostra ita-
liana, parevano, esulando dagli innumerevoli teatri, darsi qui con-
vegno, nella Città dell'Arte, a una insuperabile rappresentazione.
Come poi s' accordassero tanta licenza e tanto rispetto alla
legge, lo spirito eminentemente aristocratico-oligarchico della
Repubblica e la mescolanza dalle varie classi sociali per gran-
dissima parte dell' anno 94^ mal si comprende da chi non abbia
sicura conoscenza del reggimento politico di Venezia; e inoltre
non veda come taluno dei poteri, i quali componevano il troppo
complesso e troppo antico governo dello Stato, si mostrasse
già guasto e l'intero funzionamento fosse divenuto più lento:
incapace ormai la mano della Repubblica di stendersi, come
per lo passato, reprimendo o favorendo, grave o carezzevole,
ma sempre agile e onnipresente, sulle varie forze e inclinazioni
della società: d'una società che nel secolo decimottavo sentiva
dentro di se battere un poco per volta una coscienza nuova,
per la quale di poi con moto assai rapido si trasformò.
Non insisteremo tuttavia su cotesto confondersi della po-
polazione, più apparente che reale. Certo piace vedere alieni i
l6 VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
Veneziani dalla servitù spagnola e francese dell'etichetta, ma
le divisioni e suddivisioni in vere caste, come oggi diremmo,
benché non fossero chiuse o severe, con doveri e con diritti
creati propriamente dalla nascita, si notavano qui più che
altrove. Soltanto V indole mite e festevole degli abitanti, sia
delle classi maggiori sia delle minori^ rendeva meno odiosi i
tristi privilegi del così detto pregiudizio del sangue. Molta con-
siderazione godevano i patrizi dell'ordine senatorio e dell'or-
dine giudiziario (o dei Quaranta), ma il numerosissimo terzo
ordine del libro d* oro, la plebe aristocratica o barnabotta, for-
mato da* nobiluomini impoveriti e per gran parte invidiosi,
inquieti, intriganti, avidissimi e prodighi, arroganti e pusillanimi,
boriosi e stiiscianti, suscitava intorno a sé antipatia e malcon-
lento, menomava l'autorità della Repubblica, tendeva con pre-
potente e disordinato desiderio di novità a scuotere la pesante
compagine del governo. — Degnissimi di stima e di rispetto i
cittadini originari o segretari (il libro d' argento), che compone-
vano la Cancelleria Ducale 95 ed erano sparsi in altri elevati e
lucrosi impieghi, insieme coi cittadini de intus. Fra costoro e i
patrizi de' vari ordmi covavano tuttavia segrete invidie e se-
greto disprezzo. — Nel popolo troviamo da prima la borghesia,
amante del lavoro, educata, garbata, desiderosa fin d' ora d' una
qualche novità respirando ormai, sul mezzo del secolo, dai libri,
nei teatri, quasi nell'aria più libere idee filosofiche e sociali,
mal soffrendo gli ingiusti privilegi de' nobili, accusando già i
mali del tempo e i vizi del governo: poiché non constava di
soli commercianti o negozianti, ma vi abbondavano uomini di
legge, di lettere e di scienze, legati d'amicizia o almeno in
assiduo contatto coi più culti patrizi, specialmente dell' ordine
senatorio. Non volevano, né punto immaginavano in questo
tempo la caduta della Repubblica, che anzi di tutto cuore avreb-
bero desiderato meglio ricordevole delle grandi tradizioni, men
corrotta, meno oziosa, men dedita alla pompa e ai piaceri, più
sobria e più forte: da costoro però, i quali forse comprende-
vano lo spirito vero del passato, si possono anche raccogliere
le voci e la visione dell' avvenire. Il popolo inferiore, attivo
pure, abilissimo nelle arti sue, gaio, quattro volte forse per
numero maggiore della classe borghese, amava invece d'inge-
nuo e profondo affetto il proprio Governo 96^ e se qualche mot-
teggio osava contro i nobili barnabotti, venerava con fede cieca
i due ordini supremi del patriziato 97. San Marco! Questa voce
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO I7
era fitta nel suo animo e congiungeva in una sola passione il
culto per gli avi, la religione, la città, la Repubblica. Perciò le
solenni feste sinceramente lo commovevano e taluno piangeva
alla vista del Bucintoro', da quelle frequenti funzioni le pie
leggende e la storia della patria sorgevano gloriose e sacre.
Forse alcuno vede ancora nella memoria la processione che
la sera di Natale, uscendo dalla Basilica d* oro e distaccandosi
dal Molo per il bacino folto di sfarzose barche e di gondole,
illuminato da mille fuochi diversi, mentre raggi e ombre s'al-
ternavano sul popolo della Riva e sul Palazzo Ducale, seguiva
nella luce fantastica riflessa dalle acque, al suono della banda
militare dalmatina, il Doge e i Savi con gli altri gravi magi-
strati air isola vicina di S. Giorgio, gemma della laguna. E
quando il Lunedì dopo la Domenica in Albis, sul vespro, scen-
dendo il Doge a San Marco, durante la processione i serventi
della Scuola Grande facevano balzare ad intervalli in alto l'aureo
stemma leonino della confraternita, al grido di San Marco 1^
ode ancora la voce del popolo accalcato nella Piazza, ripetere
con un solo urlo del cuore, acclamando: " Viva S. Marco! „ 98.
Era un fremito di gioia! Poiché questi uomini e queste
donne del Settecento, innanzi la Rivoluzione, in Italia e fuori,
sanno abbandonarsi con vero trasporto ai sentimenti lieti del-
l' animo : hanno sul volto intatto da rughe profonde, negli occhi
ignari di tristezza, una serenità eguale, che il secolo dopo nelle
epiche lotte di razza, nelle furie politiche, nelle strette econo-
miche, nella febbre del progresso spense o smarrì quasi uni-
versalmente. A Venezia, dove il popolo otteneva lavoro e pane,
mai nessuna ribellione, nessun bisogno de' soldati, nessuno spie-
gamento di forza pubbhca: qualche fattte bastava o al più la
veste rossa del Missier Grando 59. Nella festa per la elezione
del Doge un centinaio di operai dell'arsenale formava la guardia.
E tale giocondità dell' animo soddisfatto vediamo pure effon-
dersi nelle sagre tradizionali presso la plebe ^oo, nelle villeggia-
ture presso le classi più ricche. Dagli 11 del giugno alla fine
del luglio, da' 6 ottobre alla metà di novembre, quanti Vene-
ziani potevano, abbandonavano la città del mare, spargendosi
per le abitazioni di campagna, taluna regale, nella prossima
terraferma ^°^. A Mestre, sul Terr aglio 1°^, nei colli trivigiani,
ma specialmente lungo la magnifica Brenta, fin sotto Padova, i
'^2\2.'L7A si succedevano ai palazzi, i tripudi ai tripudi. Il lusso
delle vesti e dei conviti diveniva più folle : il canale della Brenta
G. Ortolani. a
l8 VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
era stipato di gondole e di burchielli', le rive di carrozze. Giochi
suoni risa amori mescevansi ne' voluttuosi giardini, il giorno e
la notte '°3. Ma a cotesta moltitudine spensierata sorridente sen-
suale, che rifugge dal dolore e dalla solitudine, che adora i
piaceri fugaci e sì bene conosce la dolcezza del vivere, aliena
da ogni violenta passione del cuore, inetta a ogni alto ideale,
coscientemente artificiosa nel vestito negli inchini nei baci, il
sentimento della natura manca '% insieme con tutti, o quasi, i
sentimenti primitivi e spontanei dell' uomo. Della poesia rurale
sa essa a mente qualche emistichio di Virgilio e d' Orazio, e
meglio è ripeterselo ne' comodi salotti : nel passo del contadino
che guida l'aratro secolare ad aprire il solco non vede che
goffaggine, il mugghio del bove offende l'orecchio suo delicato:
il linguaggio, i costumi de' villici possono eccitare le risa, ser-
vire a una mascherata e non altro. Il sano contatto con la terra
con gli alberi con gli animali con gli elementi fisici, riesce inef-
ficace a costoro; la linea crestata delle Alpi lontane non li
seduce: già sempre più aborrendo dalla fatica del corpo, disav-
vezzi agli stessi disagi della navigazione, allontanerebbero spau-
rito lo sguardo dalle nude vallate e dalle Dolomiti erette nel
sole ^°5.
A Venezia vogliamo rivederli: una Venezia, nella quale
ancora una volta conviene rievocare e radunare tutte le antiche
cose scomparse : le calli che tagliano cielo e aria, brevi e angu-
stissime'o^, male o punto illuminate a cert'ora della notte ^°7;
ì^i fondamente senza parapetti; l'intrico dei canali, varcati dalla
curva dei singolari ponti di pietra e di legno; i campi, chias-
sosi di venditori, di donne e di fanciulli; la Piazza con la chie-
setta sansovinesca di San Geminiano, la sua seconda chiesa ^°^;
il Campanile cinto ai piedi di botteghe; i palazzi lieti di donne
e di feste; i teatri numerosi e gloriosi; i caffè piccoli ed ele-
ganti ^°9, dove gli abiti delle maschere si confondono colle fogge
pittoresche de' Levantini; le gondole nere in folla sul Cana-
lazzo "o; i suoni e i canti che d'ogni parte, ad ogni ora, irrom-
pono dalla libera anima del popolo ^" : la Venezia insomma
del pieno Settecento, creata per loro.
AGGIUNTE E NOTE
Nel 1898 cominciai a scrivere queste pagine sul Settecento vene-
ziano che dovetti due volte interrompere e finii nel 1900. Ricordo
con commozione che, vincendo la mia ritrosia, potè leggerle fin da
quel tempo il caro compianto amico Giovanni Chiggiato. Le stampai
nel 1905 in un volume di studi settecentistici che mi venne crescendo
a mano a mano per la lettura che allora facevo delle opere disordi-
nate dell' abate Chiari, suggeritami fin dal '94 da Guido Mazzoni :
volume che da circa quattro lustri è rimasto pure interrotto, a pa-
gina 512, da quando assunsi la compilazione delle Opere complete di
Carlo Goldoni per invito del Municipio di Venezia, ma che feci cono^
scere fin dal 1906 diffondendone i primi ventisei fogli in una ventina
di copie. Nel 1908 comparve la terza parte della Storia di Venezia
nella vita privata del mio maestro ed amico Pompeo Molmenti, nella
grande edizione illustrata di Bergamo. Tuttavia godo di mettere oggi
in luce le mie vecchie e umili pagine, piene di devozione all'antica
Venezia, sia perchè ancora conservano, se non mi illudo, un sorriso
di vita lontana, sia perchè raccolgono in un breve quadro un breve
e determinato periodo del Settecento veneziano, quello in cui si svolse
l' opera così originale e pittoresca di Carlo Goldoni. Le ho lasciate
com'erano, solo abbreviando le due prime, ma dovetti in parte rima-
neggiare le copiose note, sempre utili ai giovani a cui sono sacri gli
studi e le memorie.
I Tiepolo 1696-1770, Rosalba Carriera 16761757, Antonio Canal
o Canaletto 1697- 1768, Pietro Longhi 1702- 1785, Francesco Guardi
1712-1793.
a Ecco Bernardo Bellotto (1720- 1780), nipote del Canaletto,
vissuto fuori d'Italia; ecco il bellunese Gaspare Diziani, discepolo
di Sebastiano Ricci, morto nel '67; ecco lo Zais (m. 1784), discepolo
e rivale dello Zuccarelli; ecco la serie dei ritrattisti, Bartolomeo
Nazari di Bergamo morto nel '58, Giuseppe Nogari morto nel '65,
Alessandro Longhi nato nel '35; ecco, non indegni di ricordo, il
22 VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
vecchio Camerata e Giuseppe Angeli. - Si veda Gino Fogolari,
L'Accademia Veneziana di pittura e scoltura del Settecento, estratta
da LArte di A. Venturi, anno XVI, 1913, fase. V.
3 Da Venezia, ov'ebbe la prima ispirazione all'arte sua strana
e potente, mosse nel '42 per Roma il Piranesi, il grande poeta delle
acqueforti, né più tornò in patria che una sola volta, nel '44: a Venezia
in questo tempo studiò nella scuola di Giuseppe Wagner il fiorentino
Bartolozzi prima di recarsi a Londra, ed ebbero fama sulle lagune
Anton Maria Zanetti di Gerolamo (1679- 1767) e Marco Pitteri
(1703- 1786), amici del Goldoni, il notissimo « vedutista ^ Michele
Marieschi (1711-1793) e Pier Antonio Novelli (1729-1804). - Nomino
ancora tra gli scultori del tempo Antonio Gai (1686 -1769) e il " fan-
tasioso „ Giammaria Morlaiter {1699-1781), come lo chiama il Fogo-
lari; tra gli intagliatori Giovanni Marchiori (1695-1778) di Agordo,
fra gli scrittori d*arte il Temanza (Tommaso 1705-1789), caro all'Al-
garotti, e il bizzarro padre Lodoli (Carlo, 1690-1771).
4 Attingo principalmente dalla prefazione di Taddeo Wiel ai
Teatri musicali veneziani del Settecento, Venezia, 1897.
5 Nel *35 era morto il Pergolesi, morì nel '55 il Durante. Senile
ormai il Porpora (n. 1686) e troppo giovani il Sacchini (n. 1735V
TAnfossi (n. 1736), Paisiello (n. 1741) e Cimarosa (n. 1749): fiorivano
Jomelli (1714-74) e Piccini (1728-1800).
6 Solo al ritorno dalla Toscana il Goldoni iniziò veramente la
serie de* suoi drammi giocosi: primo il Bertoldo, musicato princi-
palmente dal Ciampi, per il carnovale 1748-49; poi, subito dopo,.
V Arcadia in Brenta, per la fiera dell'Ascensione 1749, eh' è forse la
prima opera comica scritta per intero dal Galuppi: seguirono quindi
// Conte Caramella (autunno '49), Arcifanfano re dei matti (carn. '50),
// mondo della luna (carnevale '50), // paese della Cuccagna (Ascen-
sione '50) ecc. Dice molto bene Francesco Piovano che Baldassare
Galuppi (1706-1785), se non fu proprio il ** padre dell' opera buffa „,
devesi riconoscere certamente " quale efficacissimo riformatore della
musica comica,, [B. Galuppi - Note biobiblio grafiche, in Rivista Musicale
Italiana, anno XV (1908), fase. 2, pag. 249). Quella che era stata fino
allora V opera buffa napoletana, " pressoché ristretta alle sole rive
partenopee „, diventa per merito suo e del Goldoni V opera comica
italiana, e si diff*onde per tutta la penisola e oltre le Alpi.
Rammento poi di volo come a Venezia vivesse a lungo Gio.
Hasse il Sassone (1699-1783), che aveva sposato Faustina Bordoni,
già rivale nel canto della Cuzzoni a Londra, celebrata a Parma dal
Frugoni, onorata di una medaglia a Firenze, festeggiata a Dresda e
a Parigi; e a Padova il Tartini (1692-1770) piranese.
7 Apostolo Zeno 1668-1750, Scipione Maflfei 1675-1755, Antonio
Conti 1677-1749. - Nel '55 moriva pure il dotto cardinale Angelo
Maria Querini (n. 1680), vescovo di Brescia, col quale carteggiò il
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO 23
Voltaire. La sua morte e quella del Maffei sono ricordate nelle fa-
mose Lettere della signora Wortley Montagu.
8 Né dobbiamo dimenticare quel Sebastiano Molino " senatore
meritissimo „ che per veni' anni raccolse ** lumi e notizie per la storia
della Navigazione e del Commercio de' Veneziani „ (lettera 28 feb-
braio 1756 dell* ab. Gennari all' ab. Patriarchi); né l'umile diarista
di questi tempi, Piero Gradenigo.
9 Taccio il vecchio ma arguto Zaccaria Valaresso e il Vitturi,
amico dei Gozzi; taccio il giovane Sebastiano Grotta e il giovane
De Luca, morto di soli cinque lustri nel '62, e altri amici della poesia.
Nelle materie politiche ed economiche ebbe fama Nicolò Dona (1705-
1765), nella filosofia wolfiana e nel diritto l'abate conte Arnaldi
(Lodovico, 1730-1800), ma poco diedero alle stampe. Taccio pure gli
illustri avvocati che onoravano il fòro e tutti gli uomini politici de-
gnissimi per esperienza e per senno della tradizione patria; e taccio
infine come la Chiesa Romana in questo periodo chiedesse a Venezia
un papa, il Rezzonico (Clemente XIII).
10 Qui insegnavano in questo tempo Gasparo Patriarchi (1709-
1790) studioso della lingua italiana, Clemente Sibiliato (di Bovolenta,
1719-1795) cultore del latino e del greco, Giuseppe Gennari (1721-1800)
amantissimo delle lettere e della erudizione: abati pure e padovani;
qui insegnava Marco Forcellini (17 12-1794) di Campo, nel Feltrino,
fratello di Egidio. Un altro padovano, il padre Angelo Calogerà
(16991766), dal convento dell'isola di S. Michele dirigeva la nota
Raccolta di opuscoli scientifici e filologici. A Padova poi Jacopo Fac-
ciOLATi (di Torreglia, sui colli Euganei, 1685-1762) ed Egidio Forcel-
lini (di Campo, 1688-1768) compivano il gran lessico latino e Gian-
nantonio Volpi (bergamasco, 1686-1766) continuava a curare le ristampe
Cominiane dei classici.
" Sembra che oggi abbiamo dimenticato quello che l'antichissima
esperienza ci dimostra: che i buoni insegnanti soprattutto fanno buona
la scuola. Di cotesti Seminari e d'altre scuole pubbliche e private
bisognerebbe fare un po' di storia per conoscer bene la cultura della
classe media nella Repubblica Veneta: e specialmente bisognerebbe
vedere da vicino quali fossero i maestri. Certo pochi erano allora i
giovani della borghesia, come noi diciamo, non inclinati al sacerdozio,
che sentissero il desiderio d' una istruzione di molto superiore a
quella elementare. Così dappertutto. Lagnasi Gasparo Gozzi dell'in-
segnamento umanistico ancora in vigore, affogato nella pedanteria e
nella rettorica: Sulla riforma degli studj - Scrittura i, Udine, 1835
(si trovano delle lacune nella ristampa del Tommaseo, in Opere di
G. Gosszi, Le Mounier, voi. II). I patrizi più ricchi affidavano in casa
i propri tìgli a ottimi maestri, i più poveri erano istruiti neWAcca-
demia della Giudecca (L. Zenoni, L'Accademia dei Nobili alla Giu-
decca, Venezia, 1916), istituita provvidamente dal governo. Esistevano
24
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
poi scuole ne* vari sestieri della città anche per i figli del popolo, a
cura della Repubblica. - Oltre gli scritti preziosi del Gozzi, è qui
superfluo citare le Memorie di Leopoldo Curti e quelle inedite del
Lamberti, il libro Della Letteratura Veneziana del secolo XVIII del
Moschini (t. I, 246 sgg.), e le note opere del Dandolo, del Romanin,
del Molmenti. "DsW Anagrafi del 1766 si vede come a Venezia ben
1105 persone professassero arti liberali: Lampertico, Giammaria Ortes,
Venezia, 1765, p. 263.
la Così dice nel '39 lo stesso De Brosses, ma ne avverte la gran
decadenza per la scarsezza degli alunni che nel secolo decimottavo
si ridussero a poche centinaia. Pur troppo da molto tempo la nostra
penisola non era più il centro della cultura europea, né più vi scen-
devano i giovani d' oltremonte. Ma le cure del Governo per rialzare
lo Studio padovano dalla ** estrema declinazione „ in cui si trovava
in principio del secolo (vedasi relazione di Ascanio Giustiniani, 1703
e Ricordo per la riforma dello Studio, 1715) furono continue, sia per
isvecchiare V insegnamento con la istituzione di nuove cattedre, sia
per invitarvi i più valenti lettori. Sulla metà del Settecento, nel pe-
riodo a noi più caro, il Volpi vi insegnava eloquenza greca e latina,
etica lo Stellini, ragion civile 1*Arrighi, teologia il padre Valsecchi,
il PoLENi matematica e filosofia sperimentale (ossia fisica), geometria
il conte Rinaldi, il padre Colombo astronomia, il Pontedera e il
Marsili botanica; TArduini per qualche anno diresse Torto botanico,
prima d'ottenere la nuova cattedra di scienza agraria ('64); istitui-
vasi la cattedra di chimica, prima affidata a Bartolomeo Lavagnoli,
poi a Marco Carburi che viaggiò per sette anni a spese pubbliche
nel settentrione d'Europa e in Ungheria; istituivasi una cattedra di
diritto pubblico o naturale ('61); lesse geografia e nautica fino al
termine del '49 il giovane Gian Rinaldo Carli; a soli 24 anni, sulla
fine del '57, insegnò medicina Simone Stratico, eh' ebbe poi la cat-
tedra di matematica e navigazione: nomi non oscuri, anzi alcuni
illustri, ma tutti ricopriva la fama del Morgagni forlivese, " creatore,
può dirsi, della anatomia patologica „ (così di recente il Brugi) e
" dopo Galilei, 1' astro maggiore della Università padovana „ (così
Luigi Messedaglia). Servono a illustrare gli sforzi del governo vene-
ziano le pagine di Antonio Favaro sui Successori di Galileo nello Studio
di Padova fino alla caduta della Repubblica, in Nuovo Archivio Ve-
neto, t. XXXII, parte i% n. 105 ( genn.-marzo 1917 ). Ricordiamo che
la spesa per lo Studio ammontò nel 1755 a ben 30.544 ducati; e
ricordiamo queste parole di un' umile lettera di Clemente Sibiliato,
succeduto nel '60 al Volpi: " È vero che i letterati non hanno mai
grandi ricciiezze; ma è anche vero che i Professori di Padova sono
i meglio pagati di tutte le Università, e sarebbero ingiusti se si
lagnassero. L' aumento poi dello stipendio, ogni scorso lustro fino
che si vive, è un vero conforto anche a quelli che mancan prima „
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO 25
(17 sett. 1778: Lettere inedite di CI. Sibiliato ecc. Padova, 1839, P* ^4)'
Di molta importanza la relazione di Natale dalle Laste, G. Gozzi e
G. B. Billesimo nel 1771 che lamenta antichi mali, comuni del resto
in tutti i tempi (soprattutto la scarsa preparazione degli alunni i
quali accedono allo Studio, e le troppe vacanze) e suggerisce alcuni
rimedi: in Opere di G. Gozzi, ed. Le Mounier cit., voi. II.
13 Moschi ni, Della Letteratura Veneziana del Secolo XVIII ecc.,
Venezia, i8o6, t. II, 44 sgg. - Pur troppo dopo la caduta della Repub-
blica molte furono disperse dagli eredi e tutte, si può dire, scacciate
dalle sale patrizie. Spoglie di scaffali sono le pareti, vuoti di libri i
palazzi.
14 Non si rimpiangerà mai abbastanza che 1* arte della stampa,
la quale aveva così antiche e nobili tradizioni a Venezia, e tutto il
commercio librario siano ora scomparsi dalle lagune. Gli stessi stra-
nieri ammiravano nella metà del Settecento i vasti magazzini del-
l'Albrizzi del Baglioni del Pasquali del Lovisa degli Occhi del Pitteri
del Bettinelli del Colombani del Valvasense dei Coletti dello Zatta.
Nelle botteghe poi de' librai, che s'incontravano a ogni passo nelle
Mercerie e altrove, si raccoglievano spesso a conversare fin dal
Seicento le persone più colte. Taccio di Padova di Verona di Bas-
sano. - Dopo il 1760 anche la stampa, che aveva ripreso vigore
intorno al '30 (mentre dieci anni prima si trovava " nell* ultima de-
cadenza „: Opere di G. Gozzi, ed. Le Mounier, II, 451), di nuovo
cominciò a decadere. Bologna Parma Milano Firenze Lucca Livorno
e specialmente Napoli danneggiavano ormai Venezia che non vantava
più il monopolio, si può dire, della stampa in Italia, spacciando esse
a minor prezzo le ristampe che facevano de* libri veneti più for-
tunati. Lagnavasi di ciò Gasparo Gozzi nelle varie sue Scritture stese
per conto de* Riformatori dello Studio di Padova, quale soprainten-
dente generale delle stampe. Vi erano nel 1766 a Venezia 38 stam-
perie con 120 torchi, dei quali ben 53 " senza occupazione „ (1. e, 396),
ma il commercio più florido nel 1754 teneva " esercitati „ 84 torchi,
*' serviti da lavoranti 264 „ (1. e, 452: ben 20 torchi aveva il Baglioni
^' continuamente battenti „: p. 492). La terraferma possedeva 35 stam-
perie con 84 torchi, 59 dei quali " con lavoro „ (1. e, 396). - Deplora
il Gozzi il numero sovrabbondante dei venditori. " Veggonsi 48 bot-
teghe di librai, molti negozi in casa „; quasi tutti gli stampatori
matricolati vendevano, ma di " 120 esercitanti la vendita „ 12 soli
credeva il Gozzi di poter " noverare per negozianti capaci „. Pur
troppo anche il Gozzi, a impedire la concorrenza esterna, chiedeva
al governo nuovi privilegi e vincoli nuovi. - La Statistica delle arti
del 1773 numera nella Dominante 52 ligadori da libri, fra maestri e
lavoranti, e 44 botteghe di cartoleria.
15 Sia detto con buona pace del Baretti, che in un'ora nerissima,
allontanatosi da Milano col " cuore ferito „, trovandosi a Venezia solo.
26 VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
senza amici, vinto dall'ipocondria scriveva a G. B. Biffi: " Qui un
forestiero non ha altri mezzi per esilararsi che un caffè o un teatro.
È impossibile però darvi un'idea della sudiceria di un caffè o di un
teatro veneziano, dove non udite che assurdità od oscenità. Impos-
sibile trovare sotto al sole una città che sia più corrotta di questa.
Letteratura, moralità, civiltà di modi, eletto conversare, sono cose
interamente sconosciute a Venezia „ (ii die. 1762). - È miracolo non
fuggisse via subito: anzi vi restò quasi tre anni; ma la Frusta non
gli acquistò, né poteva acquistargli, benevolenza ed affetti nella so-
cietà veneziana, né altrove.
16 Già Adriano Balbi nella sua Bilancia politica del globo (Pa-
dova, 1833) ampiamente dimostrava quanto fosse difficile a' suoi
tempi stabilire con esattezza il numero della popolazione. Ricordiamo
di quali artifìci fosse costretto a valersi lo stesso Necker per calco-
lare approssimativamente quella della Francia, anzi della stessa Pa-
rigi, alla vigilia della Rivoluzione: Administration des finances etc,
t. I, 1784. - Nel Settecento a Venezia non si trovano indagini ufficiali
prima del 1760. Il censimento eseguito nel 1761 segna in città abitanti
152.841, compresi i frati e le monache, ma senza i ricoverati negli
ospedali e nei luoghi pii. Il Ristretto generale delle anagrafi edito
nel '53 ci offre la cifra di ab. 139.095 (in tutto lo Stato 2.844.212),
certamente inferiore al vero, perchè in questi anni a Venezia il numero
dei morti superò quasi sempre quello dei nati. Il censimento del 1766,
diligente e minuto, ci dà ab. 140.256 (in tutto lo Stato, comprese le
isole del Levante e la Dalmazia, 2.696.678) : F. Lampertico, Giammaria
Ortes ecc., Venezia, 1865, appendice prima. - Più tardi scemò lenta-
mente la popolazione in città, crebbe nello Stato: nel 177 1 a Venezia
troviamo ab. 138.700, 140.286 nell' 80 (nello Stato 2.849.873), 137.240
nel '95 (nello Stato 2.921.011). Pur troppo gli stessi censimenti, come
si sa, non sempre meritano fede assoluta. Dallo studio di Aldo
Contento sulla popolazione veneziana [Nuovo Archivio Veneto A. X 1900,
t. XIX, n. 38) tolgo per curiosità altre cifre : tuttavia che Venezia
nel 1422 potesse contenere 190 mila ab. e nel 1574 quasi 196 mila,
com'egli sembra ammettere, non è da credere; per il 1509 abbiamo
il dato ufficiale di circa 100 mila, per il 1581 è probabile la cifra di
134 mila (che trovo anche nei Commemoriali del Gradenigo, voi. VI,
e. 114), così quella di 98.244 nel 1633, dopo la famosa pestilenza che
spense oltre 46 mila persone, quella di 120.400 circa nel 1642 e quella
di 132.637 nel 1696. - Gli enormi agglomeramenti di popolazione dei
nostri tempi non esistevano nel secolo XVIII e scarsamente abitata
era 1* Europa nei secoli passati. Impossibile citare cifre sicure, seb-
bene dalla metà circa del secolo le statistiche diventassero più rego-
lari, provocando molte sorprese. Voltaire attribuisce 24 milioni d'ab.
alla Russia, nel 1759, all' incirca come alla Francia e come alla Ger-
mania: quattro volte meno alla Spagna, che ne aveva circa 7 milioni.
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO 27
L' Austria toccò forse 24 milioni prima della Rivoluzione, con i Paesi
Bassi, la Lombardia austriaca e i recenti acquisti di Polonia. Il
Barelli concede nel '68 circa 14 milioni all' Italia e 7 appena ai tre
regni uniti della Gran Brettagna.
Se vogliamo fare qualche confronto con Venezia, il ruolo della
popolazione di Milano nel 1752, che il Carli ebbe dalla curia arcive-
scovile, è di anime 113.877, nel '67 di 116.400 (secondo il Beloch, era
nel 1747 di 109.872 e di 110.595 nel 1715: La popolazione d'Italia nei
secoli XVI, XVII e XVIII, estratto dal Bulletin de V Institut interna-
tional de statistique, Roma, 1888): l'aumento fu costante a Milano
fino al 1781-82 in cui si toccò la cifra di 134.467 ab., quasi perfetta-
mente uguale, dopo alterne vicende, a quella del 1795-96 (134.437) •
V. la tavola pubblicata da E. Rota, L'Austria in Lombardia, Roma,
191 1, p. 100. Più rapido l'aumento a Torino, che nel censimento 1753-54
presenta, compresi i sobborghi, ab. 71.338; nel 1764-65 ne ha 77.159,
e 90.613 nel 179798: G. Prato, Censimenti e popolazione in Piemonte
ecc., in Rivista Italiana di Sociologia, A. X, fase. 3-4 (maggio-agosto
1906). A Roma si trova nel 1750 la cifra di anime 157.882, che nel 1760
declina a 155.124 per rialzarsi nel 1780 a 163.423 (si ricordi che nel
1527, dopo il sacco, si contavano soli 33 mila ab., nel 1600 erano
109.729, nel 1710 erano 132,070): v. Floridore, La popolazione dello
Stato Romano nel sec. XVIII, in Giornale degli Economisti, novem-
bre 1904 (e anonimo, La popolazione di Roma prima del 1870, in
Tribuna, 28 sett. 1893). A Napoli nel 1742 abbiamo 292 mila ab. in
città, 12 mila nei castelli e circa io mila forestieri; nel 1765 ab.
337.095, nel 1789 in città 390.068 (con i sobborghi, gli stranieri e i
soldati 439.370): G. M. Galanti, Descrizione delle Sicilie, t. IV, Napoli,
1790. A Palermo nel 1775 il Pilati attribuisce appena 120 mila ab.
(secondo il Beloch, nell'anno 1747-48 sono a Palermo 102.106, a Mes-
sina 40.293 e a Catania 25.715: ma vedasi Francesco Maggiore-Perni,
La popolazione di Sicilia e di Palermo dal X al XIX secolo, volumi 2,
Palermo, 1892-1897): nel censimento del 1798 sono 148.138 (Pitrè); a
Firenze il censimento del 1767 offre la cifra di 78.635 ab. (nel 1784
sono 79.859); a Bologna il ristretto delle anime nel 1759 ci dà la
somma di 68.882 (nel 1774 sono 70.897, nel '91 ancora 70.964); a
Genova non si concedevano sulla metà del Settecento più di 90 mila
anime, compresi i sobborghi di San Pier d'Arena e di Bisagno (se-
condo Beloch, nel 1788 sono 77.563).
In Francia e in Inghilterra conosciamo nel Settecento il censo
delle case e il numero delle nascite annue e dei morti, non quello
preciso della popolazione: però vediamo durare per quasi tutto il
secolo la disputa fra Londra e Parigi per la precedenza nel numero
degli abitanti. Prima del Settecento, Londra dovette raggiungere i
500 mila ab.; ed era già da gran tempo, come crede Macaulay, la
città più popolata d' Europa. Molti affermano nella seconda metà del
28 VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
Settecento che toccasse, coi sobborghi, il milione, specialmente in
certi mesi dell'anno, quando la popolazione più affluiva dalla cam-
pagna; ma il Balbi soltanto nel 1811 le assegna 1.050.000 abitanti.
Bristol, con circa 150 mila ab. nel 1788, era considerata la seconda
città deir Inghilterra: nello stesso anno l'Angiolini, diligente viag-
giatore italiano, attribuisce a Birmingham circa 62 mila anime, 50 a
Manchester, da 50 a 60 a Liverpool, 50 a Glasgow, ma trova giustamente
esagerata quella di 100 mila che assegnavasi a Edimburgo, compresi
i dintorni. Dublino ne ha 131 mila nel 1760 (Balbi). Credesi che a
Parigi si contassero in principio del Settecento oltre 450 mila ab.,
coi sobborghi; e sulla metà del secolo si farebbe salire la popolazione
a 600 mila, ma non doveva superare il mezzo milione se nella tavola
che risulta dalle ricerche deW Assemblea Nazionale leggiamo la cifra
di 556.800 coi sobborghi, e se nel 1806 è di 580.609 (Balbi). A Lione
nel 1784 il Necker assegna circa 160 mila ab. e a Marsiglia circa 90.
Berlino nel 1761 aveva 98.238 ab. (Balbi) compresi circa 20 mila sol-
dati, ma crebbe poi rapidamente; Vienna nel 1754 ne aveva, senza
i sobborghi, 175.609 (Balbi); a Madrid se ne attribuiscono circa 140
mila nel 1777, 100 mila a Valenza e oltre 60 a Cadice (Peyron, se-
condai* ultimo censimento); a Lisbona 137 nel 1755 (Balbi), a Pietro-
burgo 218 nel 1789 (Balbi) e a Varsavia 96 (Balbi). I viaggiatori del
Settecento concedevano volentieri ad Amsterdam 300 mila ab. (o più
moderatamente 230) e 100 mila a Liegi, ma la prima raggiungeva
appena i 200 mila dopo il 1830 e Liegi i 58 mila. Più incerte ancora
le cifre di Costantinopoli {600 mila?) e di Mosca (300 mila?).
17 Ecco le cifre del censimento 1766, che sono le più sicure:
preti che dicono messa 2610, chierici 386, religiosi regolari 1368,
monache 1732: somma 6096; in tutta poi la Serenissima, che aveva
2.696.678 ab., i religiosi sono 40.867: cioè nella Dominante s'incontrava
un religioso fra circa 23 persone, compresi gli infanti, e nello Stato
fra 66. Era il guaio generale degli antichi regimi: a Napoli la popo-
lazione ecclesiastica sta in rapporto con la civile * di più che il 4
per cento „ : Schipa, // regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone,
Roma, 1923, II, p. 156 n. ; nel 1765 i religiosi sommano a 11.801 senza
i luoghi pii, cioè uno su 28 persone, in tutto il Regno superano il
numero di 112 mila (non occorre qui ricordare i giusti ma vani
lamenti di G. M. Galanti). Di Roma è inutile parlare, dove non si
vedevano che tonache e vesti d' abate. A Bologna nel '59 i religiosi
sommano a 3874, uno cioè su 17 abitanti (alla venuta dei Francesi,
nel '96, la superficie dei conventi, dentro le mura, occupava più della
sesta parte della città: Fiorini, Tempio del Risorgimento, Boi. i888,
voi. II, 40). A Milano i soli preti nel 1752 erano 2230. Per la Toscana
rammenteremo la nota lettera del Baretti sugli ordini monastici e il
capitolo XXII del libro sugi' Italiani. A Torino nel 1754-55 abbiamo
nel clero maschile 2482 religiosi, fra le donne 412 monache (in tutto
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO 29
religiosi 2894, uno su 28 ab): v. Prato. - In Francia, se si voglia
istituire un paragone, i religiosi ch'erano sulla fine del Seicento circa
90 mila, a detta di Voltaire, non sono, all' affacciarsi della Rivoluzione,
che 130 mila: " 23 mila monaci in 2500 monasteri, 37 mila monache
in 1500 conventi, 60 mila curati e vicari in altrettante chiese e cap-
pelle „ e oltre io mila tra prelati, canonici ed ecclesiastici senza
beneficio: Taine, U ancien regime, p. 17 (v. anche pp. 529-530 n.). Se
gli abitanti salivano nel Regno a 26 milioni, come pare, abbiamo la
proporzione confortante d'uno a 200 (ricordo che M. Raudot, in certa
Note sur la popidation, in appendice all'opera su La Trance avant la
Revolution, 2 éd.on, Paris, s. a., pagg. 412 sgg., cerca di mostrare che
la popolazione in Francia nel 1786 era di circa 30.500.000 ab.) - Ma
a Venezia stessa per i famosi decreti che il Senato emanò nel 1768
e nel '69, si ridusse il numero dei conventi, e i religiosi scemarono
da 5798 a 3270 (Romanin, Vili, 179 n.). Altre riforme si ebbero poi
nel '72 e nell' 84. " Queste robuste deliberazioni „ commenta il Lam-
berti " disorganizzarono la gran macchina del monachismo negli stati
veneti, formidabile corpo morale, che quantunque nei membri che li
componevano fosse sovente diviso, trovavasi ognora unito e costante
nell'opposizione al poter secolare, per il che si rese da allora in poi
infermo ed inefficace relativamente ad ogni influenza politica „ {Me-
morie degli ultimi cinquantanni della Rep. di Venezia, cod. marciano
MCCCCLIV, ci. VII, voi. I, ce. 8889).
18 L' industria della lana era migrata nel Padovano, dove tra il
'72 e 1*80 tenne occupate certe volte ben 40 mila persone, e a Schio,
nel Vicentino. A Milano due sole fabbriche si ricordano verso il 1750
e 619 telai per la seta nel '66; ma andarono poi crescendo.
19 Ristretto generale dell' anagrafi cit.
20 La campana di terza sonava, com' è noto, tre ore circa dopo
il levar del sole, vale a dire sulle io del mattino nel dicembre e
nel spennalo, sulle 8 nel giugno e nel luglio (vedasi Mutinelli, Lessico
Veneto, Venezia, 1851, alla voce campana; e per le ore italiane i
Protogiornali della Serenissima Dominante o la pref. del Voyage di
Lalande).
ai V. anche la Description de V Italie oii Mémoires d' Italie del-
l' abate Richard, Dijon, 1766, t. II, 281.
23 Campana a Rialto che al più tardi sonava quattro ore dopo
il tramonto ( v. Boerio e Mutinelli). - Queste notizie, e molte altre
che seguiranno, attinsi per gran parte dalle Memorie degli ultimi
cinquanf anni della Repubblica di Venezia (cod. marciano cit.) di An-
tonio Lamberti, delle quali prima di me si giovò il Romanin; anzi
cercai qualche volta di conservare fedelmente le parole.
=3 Così il Lamberti. Lamentano l' Occioni ( G. Occioni-Bonaff*ons,
Del commercio di Venezia nel sec. XVIII, Venezia, 1891), il Molmenti
( Storia di Venezia nella vita privata. Parte III ) ed altri che Venezia
30
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
non sapesse liberare il commercio dalle leggi restrittive, ma era ciò
possibile? chi l'avrebbe osato? Vero è che assidui furono gli studii
del governo anche in questo tempo per ravvivarlo.
24 Proprio nel 1754 il Senato convertiva una parte del debito
pubblico dal 4 al 3 e mezzo per cento. Anche Lalande ricorda che
lo stato pagava T interesse del 3 e mezzo, e i privati quello del 4 o
4 e mezzo: solo i commercianti pagavano spesso il 6, per i rischi
del commercio stesso {Voyage en Italie, Genève, 1790, t. VII, 82).
35 L'abate Richard afferma che, tolte le feste di carnovale e
dell'Ascensione, in cui per l'affluenza dei forestieri i prezzi dell'al-
loggio e della mensa rincarano assai, " e' est la ville d' Italie où l'on
vit à meilleur compte „ 1. e, II, 498. - Naturalmente il prezzo delle
biade e degli alimenti varia d' anno in anno e dall' una all' altra sta-
gione. Spigoliamo qualche cifra dai Notatorj del Gradenigo: ai 27 feb-
braio lyjj la segala vale lire venete 9 allo staro (staio =z litri 83.32),
l'avena 8, il miglio 9, il sorgo turco o granturco 7:10, il sorgo
rosso 3 : 2, il sarasino (o saraceno) 6 : 6, e il vino bianco costa lire 6 al
mastello (= mezza bigoncia o sette secchie r= litri 75.12); ai 16 giugno
del medesimo anno il vino nero è diminuito d'un soldo la libbra e si
paga soldi 15; ai 2 agosto la farina di frumento che costava lire
venete 23 lo staio, diminuisce di lire 2; ai 28 ottobre iyj6 la farina
vale lire 24 lo staio, il vino lire 44 : t6 al bigonzo (= 2 mastelli, cioè
14 secchie = litri 150.234), le candele di sevo soldi 16 la libbra, quelle
di cera soldi 44, la carne " destinata a 11, ma si vende a 14 soldi „
(così, per esempio, ai 2 aprile 1743 valeva " secondo la legge soldi 12,
secondo la verità 13 e talvolta 14 la libbra „: Memorie ecc. di Giro-
lamo Zanetti), il caviale di Belgrado soldi 4 l' oncia, il riso soldi 4
la libbra, la farina gialla soldi 12 il quartarolo (— litri 5,21), la carta
fina da scrivere soldi 8 il quinterno, cioè lire 8 la risma di 20 quin-
terni ; ai 2 dicembre 1760 il vino diminuì di 3 soldi e però nei " ma-
gazzini „ e nelle osterie non si pagherà più 17 ma 14 soldi la libbra;
al principio del marzo 1761 la farina si vende lire 25 lo staio, il vino
soldi 14 la libbra, l'olio 26 la libbra, il riso 4: così imponeva il
nuovo calmiere che stabiliva pure le tariffe ai macellai, salumai,
pescivendoli, mentre il prezzo de* polli e delle frutta era lasciato al
** capriccio „ dei venditori. - Altre cifre, per altri tempi, si possono
vedere nel saggio Sui prezzi delle vettovaglie ecc. di B. Cecchetti, in
Atti R. Istituto Veneto 1873-74. Lalande ci offre i prezzi dei principali
alimenti a Torino (t. I, e. 13) a Milano (I, e. 30) a Parma (I, e. 39) a
Firenze (II, e. 20) a Roma (V, e. 4) a Napoli (V, e. 32). Si vedano
pure gli Scritti vari di P. Verri, Firenze, Le Mounier, voi. I, pp. 347 n.,
357, 379. Altre cifre si leggono neW Italia prima della Rivoluzione
Francese di C. Tivaroni, Torino, 1888, pp. 91 e 123. Come variassero
anche in Francia i prezzi ci dimostra G. D'Avenel, Paysans et ouvriers
depuis sept siècles, in Revtte des deux mondes, 15 luglio 1898.
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO 31
a6 Si yeda il terzo volume de' Bilanci Generali della Repubblica
di Venezia dal 1736 al 1755, Venezia, 1903; ma si badi che conviene
fare il confronto con gli stipendi in uso presso gli altri stati mag-
giori e minori.
a? Il ducato effettivo d* argento (= lire italiane in oro 4,368) cor-
rispondeva a 8 lire venete (lira veneta = lire in oro 0,546), la lira
veneta dividevasi in 20 soldi (soldo veneto = lire in oro 0,027), il
soldo in 12 bagattini. Il Goldoni nomina pure nelle sue commedie la
lirazza, che valeva 30 soldi, il trairo o traiero tedesco, del valore di
5 soldi, e il bezzo, uguale a 6 bagattini. Ma più in uso era ne* con-
tratti il ducato di corta moneta, ossia corrente, cioè di lire venete 6
e 4 soldi (= lire italiane in oro 3,384). Lo zecchino d'oro valeva lire
venete 22 (1= lire it. in oro 12,012), lo scudo veneto 12 e 8 soldi
(:= lire it. in oro 6,768). Oltre la classica opera del Carli Delle monete,
pìacemi additare il Trattato dei ragguagli de' Cambj di tutte quelle
Piazze colle quali cambia quella di Livorno di P. Noger detto Nocetti
(Lucca, 1784); e in particolare, per la nostra antica repubblica, C. Ten-
tori, Saggio sulla storia civile, politica ecc. della Repub. di Venezia,
Venezia, 1785, t. II, 68-70; A. Zon, Zecca e moneta di Venezia, in
Venezia e le sue lagune, voi. I, parte 2*; e N. Papadopoli, Sid valore
della moneta veneziana, Venezia, 1885. Cfr. inoltre Ed. Martinori, La
moneta. Vocabolario generale, Roma, 1915. - Oggi per la nostra lira
in carta bisogna tener conto della immensa svalutazione. Per i pesi
e per le misure in uso a Venezia v. le due tavole in fine del voi.
XXII della Nuova Geografia del Bùsching, i* edizione veneta, Ve-
nezia, 1777 e Molmenti, Storia cit.. Ili (19081, pp. 47-48 n.
a8 A. Errerà, Storia dell' Economia Politica nei sec. XVII e XVIII
negli Stati della Rep. Ven., Venezia, 1877, p. 275. - " Les plus riches
familles nobles „ scrive Pilati " ont quarante ou cinquante mille
ducats de Venise de revenu, un ducat faisant environ quatre livres
de France: les avocats et les principales maisons bourgeoises qu'on
appelle ici cittadini, les gros négociants et les gentilshommes de
Terre ferme, vivent ordinairement avec le méme luxe que les nobles „
{Voyages en différens pays de l'Europe, en Suisse, 1778, t. I, 248).
=9 Così il Molmenti nella prima edizione della sua Storia, To-
rino, i88o, p. 239.
30 S. Sharp trovò i gondolieri veneziani meglio nutriti e meglio
vestiti dei barcaioli del Tamigi. - Nota il Lamberti, a maggior riprova,
che ancora al tempo in che scriveva, nel primo decennio del regime
austriaco, dopo i tanti prestiti, le mille spese, le requisizioni, i sac-
cheggi, il distrutto commercio, il blocco, la guerra, le imposte per lo
meno quintuplicate e altre cause le quali portarono il generale impo-
verimento, si trovavano nel Veneto più di cento milionari e in molte
famiglie, nelle osterie, nei caffè, si vedevano ancora argenterie.
31 Nel 1748 risaliva a circa 55 milioni di ducati, cioè 220 milioni
32 VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
di franchi: nel '97, benché il reddito annuo della Repubblica di poco
superasse nella media i 7 milioni di ducati, era sceso a ducati 44.191.000
(cioè franchi 176.764.000): Dandolo, La caduta della Repubblica di
Venezia, Venezia, 1859, libro IV, cap. i; e Romanin, Storia documen-
tata di Venezia^ voi. Vili, e. io. Secondo il Lamberti, I, carta 716 sgg.,
il debito reale era nel '97 di soli 20 milioni di ducati, e prossimo a
spegnersi, poiché col citato reddito si ammortizzava di un milione
circa di ducati all'anno, dopo pagati gl'interessi e soddisfatte le
spese tutte dello Stato.
3= Sulla congerie delle tasse e sui mali che ne derivavano, co-
muni del resto a ogni altro paese, v. Leopoldo Curti, Memorie isto-
riche e politiche sopra la Repubblica di Venezia scritte V anno 1792^
Venezia, 1812, t. I, cap. io; Dandolo, 1. e, libro I, cap. 3; e special-
mente Romanin, 1. e. Vili, capp. 5 e io. Ma gravi non erano come
crede il Tivaroni, 1. e, 22-24: dal rapporto del reddito annuo e della
popolazione l'Errerà trova esser T imposta totale di franchi 9,59 per
testa: 1. e, p. 54. Sotto il regime francese, nel principio dell'Ottocento,
le imposte diventarono sette volte maggiori, dice il Lamberti, I, carta 71.
33 Tutti i viaggiatori ammiravano e lodavano le culture venete.
Si vedano anche le preziosissime relazioni dei Podestà e dei Sindaci
Inquisitori.
34 Le oppressioni sì, specie in Dalmazia e nelle isole del Levante,
dove esisteva fra gli altri abusi quello disonorevole del postrichio :
F. Mutinelli, Memorie storiche degli ultimi cinquantanni della Rep.
Ven., Venezia, 1854, p. 146 e Romanin, Vili, pp. 89-94. Si legga nella
Storia del Romanin la coraggiosa relazione nel '72 dei tre Sindaci
Inquisitori di Terraferma, i quali però, esaminati i balzelli e le im-
posizioni d' ogni genere che gravavano sui villici, non ne trovano
eccessivo il cumulo per se stesso, bensì, com' era dappertutto, per
l' intricata e tirannica esazione. Si ricordi ciò che scrive, pur dopo
il '70, il Roberti, di Bassano: "... I nostri contadini si veggono di
buon cappello e buon gabbano guerniti venir in truppe giulive al
mercato; e le lor donne (oltre all'oro pendente dalle orecchie, e rav-
volto intomo al collo) pavoneggiandosi del lor grembiale di tela
dipinta, e del lor velo fiorito, recare alla città i frutti della rocca e
del pollaio „. Alla quale descrizione fa contrasto quella di altre pro-
vince italiane, nello Stato della Chiesa: " Non assai miglia lungi di
qua tra piani amplissimi di pingui glebe rimiransi i volti scarnati e
squallidi de' contadini, che abitano pagliareschi tugurii impiastrati
col loto, e da ogni lato screpolati e rovinosi; contadini che mal co-
prono la nudità con un sudicio camice di ruvido canovaccio; e che
addentano il pan nero, mentre pure mietono il frumento bianco; e
che bevon acqua, mentre imbottano al padrone il vin grosso „: Opere
delV ab. G. B. Roberti, Venezia, 1830, t. Ili, p. 45. E in Lombardia,
nel materno regime di Maria Teresa? Non ricordiamo la descrizione
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO 33
del Verri? " Vediamo il miserabile contadino, nude le gambe e scalzo;
egli ha sul suo corpo il valore di tre o quattro lire e non più; egli
mangia un pane di segala e di miglio; non mai beve vino; rarissime
volte si pasce di carni; la paglia è il suo letto prima d'avere una
moglie; un meschino tugurio è la sua casa; stentatissima è la sua
vita e faticosissimi i suoi lavori „ (Scritti vari, ed. Le Mounier, I,
154, 345, 565. - Si legga anche E. Rota, V Austria in Lombardia,
Roma, 191 1, p. 51). Inutile poi citare il Broggia e il Filangeri e il
Galanti per le province napoletane. - E vero che Vincenzo Marchesi
e Maria Borgherini, V uno illustrando Le relazioni dei luogotenenti
della Patria del Friuli al Senato Veneziano, Udine, 1893, e l' altra
parlando del Governo di Venezia in Padova nell'ultimo secolo della
Repubblica, Padova, 1909, conclusero che le imposte non erano nella
terraferma " né miti, né lievi, né giustamente ripartite „ iBorgherini,
p. 871, ma dove e quando furono più miti? o dove e quando mai
furono ripartite giustamente su questa misera terra? E si può forse
dimostrare la decadenza del governo veneto dalla rapacità degli
esattori, come se pel passato procedessero meglio le cose? Non rico-
nosce la Borgherini stessa 1' attività " mirabile „ e lo zelo dei rettori
veneziani (difesi già dal Molmenti contro il Marchesi) i quali si
sottoponevano a gravissimo dispendio per amore della patria e a
non piccoli sacrifici per amore dei sudditi? (pp. 42-50).
35 Lampertico, 1. e, 267. Ma queste cifre non rappresentano già
tutti i poveri: per il triste abuso della elemosina fioriva allora pure
r accattonaggio e non mancavano i falsi ciechi e i falsi storpi : Lam-
berti, II; Mutinelli, 131-3; Romanin, Vili, 385. Anche nel Milanese si
accattava nelle città e per le campagne; si aggiunse perfino qualche
dimostrazione de' questuanti, dispersa con la forza: De Castro, Mi-
lano nel Settecento, Milano, 1887, p. 207. Dell* accattonaggio nel resto
d* Italia, tormento de' forestieri, è meglio tacere. - Più tardi, scemato
il lavoro e cresciuta la miseria, troviamo a Venezia neir89 un com-
puto riassuntivo dai 22 ai 23 mila poveri, ma i veri e propri que-
stuanti sono circa 770: Romanin, VIII, 386, ed Errerà, l. e, 264, con
qualche divario. Mi soccorre a questo proposito un paragone storico.
Le condizioni del contadino e dell' operaio in Inghilterra negli ultimi
anni del Seicento non sono tristi : tuttavia si contano 1.300.000 poveri
e mendicanti che abbisognano del soccorso delle parrocchie, in una
popolazione di 5.500.000 abitanti. Cosa che al Macaulay pare incre-
dibile: eppure altre cifre si conoscono in Italia più recenti e più
dolorose (così scrivevo nel 18991. ^^ Francia i commerci e le industrie
andavano risorgendo verso la metà del secolo decimottavo e il popolo
cominciava nel '48 a godere qualche agio (dopo vent' anni, la signora
Montagu non riconosceva più nel '39 le facce ingiallite dei contadini
francesi: " the villages are ali filled with fresh-coloured lusty peasants,
in good cloth and clean linen „) quando la guerra dei Sette anni coi
G. Ortolani. q
34
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
terribili rovesci e col conseguente disordinamento de' poteri e per-
turbamento delle finanze, aggiunta agli sperperi della vecchia Corte
di Luigi XV e all' amministrazione ingiusta e pessima, provocò una
nuova generale miseria della nobiltà stessa, di gran parte della bor-
ghesia lavoratrice, e della plebe. Il fisco oppresse inesorabilmente
il coltivatore del suolo. Chi non ricorda 1' Homme aux quarante écus
(17681 e il riso di Voltaire? Leggendo le pagine d'Ippolito Taine
s\i\V Ancien regime (Paris, 1887) ci scuote un continuo fremito: dalle
soleggiate e fertili campagne, fatte selvagge e deserte (pp. 441-2),
dalle città fatte oziose, giungono anche prima della guerra lamenti
singulti maledizioni. I contadini della Linguadoca riparano in Pie-
monte o in Ispagna fuggendo ai nuovi balzelli ; a Rouen mendicano
12 mila operai e altrettanti a Tours; a Lione oltre 20 mila operai,
senza lavoro, cercano d'emigrare; Parigi è piena di pezzenti: nel
sobborgo Sant' Antonio in un solo mese dell' inverno 1753, afferma
D' Argenson, muoiono di fame e di freddo 800 e più miserabili
(pp. 435-6). Per contro nella felice Inghilterra la prosperità si diffonde
sempre più dal principio del Settecento, sebbene in apparenza le
istituzioni politiche restino come nel continente feudali e sui lavora-
tori del suolo pesino le antiche gravezze. Ma le miserie dell' Irlanda,
la triste " fanciulla disonorata „, strappavano grida di dolore a Clo-
nata Swift. E il debito pubblico del Regno Unito, nel '65, dopo la
fortunatissima guerra, saliva a 148 milioni di sterline, cioè a più
di 3 miliardi e mezzo di franchi: onde pochi anni più tardi, durante
la lotta con le insorte colonie d' America, il nostro Filangieri preve-
deva il fallimento di questa orgogliosa nazione, ricca sì di commerci,
ma scarsa di uomini (La scienza della legislazione, 1. II, cap. 23). Nei
paesi poi della Germania, dove tutti gli abusi feudali persistevano,
soltanto la forma più dura del servaggio fu abolita negli ultimi de-
cenni del secolo (Tocqueville, U ancien regime et la revolution, Paris,
*877i P- 335* • ^ ^6 povere plebi erano travagliate dalla ferocia mili-
tare, che fino alla pace di Hubertusburg, nel febbraio 1763, desolava
città e campagne. Neil' ultima guerra il solo regno di Prussia aveva
perduto 500 nula abitanti, in una popolazione di 4 milioni e mezzo.
Ben è vero che re Federico aveva pronti i denari e l' esercito per
un' altra campagna militare, ma egli stesso dovette confessare che i
suoi sudditi ricoprivansi di miserabili cenci; e molte province somi-
gliavano al Brandeburgo dopo la guerra dei Trent' anni (Onken,
U epoca di Federico il Grande, vers. it., Milano, 1892, voi. II, l. VIII,
cap. IO). Lo spettacolo poi del contadino slavo e ungherese nell'im-
pero d' Austria, in Polonia, in Russia, fa spesso inorridire.
36 Sulla fine del Cinquecento cominciò la concorrenza francese
inglese olandese, che appariva già temibile nei primi anni del secolo
seguente: Berchet, Relazioni dei consoli veneti nella Siria, Torino, 1866.
Seguirono poi le nuove guerre di Venezia col Turco che non cessa-
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO 35
tono, si può dire, fino al 1718. Si aggiunga, a spiegare la fatale
rovina del commercio veneziano, l'impoverimento continuo e crescente
di tutto il Levante nel secolo decimottavo.
37 V. il dispaccio del bailo a Costantinopoli Zuane Emo, nel 1722
(E. Pesenti, Diplomazia franco-turca ecc. Venezia, 1898, pp. 43-45).
Per il commercio veneziano sulla metà del Settecento si consultino
gli scritti citati nel discorso di G. Occioni-Bonaffons [Dd commercio
di Ven. tiel sec. XVIII, Venezia, 1891); si veda pure, benché un pò*
arruffato, il cap. II del libro di M. Kovalevsky, La fin d'une aristo-
cratie, Torino, Bocca. Tutti i viaggiatori ricordano 1' antica opulenza
di Venezia, ma deserti e mìseri apparivano i porti e i lidi del Me-
diterraneo, mentre si combatteva sugli oceani la grandiosa lotta dei
commerci moderni. Vigili e costanti si mostrarono sempre le cure
del Senato nel promuovere i miglioramenti possibili e nell* eccitare
lo zelo dei sudditi, sebbene vane, essendo essicate le fonti del gua-
dagno nei Tnari di Levante. Neil' Adriatico stesso seguivano con do-
lore i Veneziani le mire ambiziose dell' Austria che da Milano a
Trieste stringeva fatalmente la Repubblica nelle sue fauci (dispacci
dell'ambasciatore Tron, da Vienna, 1750-51, e dell'ambasciatore Mo-
cenigo, da Parigi, 1751). Ne parlava apertamente lo stesso Mercurio
storico e politico che stampavasi in Pesaro, fin dal 1749 (ott., pp. 244,
254; e die. '50^ pp. 392-3); e così diceva una corrispondenza da Ve-
nezia, nel giugno '52: " I sudditi di questa repubblica sono in una
gran perplessità circa al commercio, sì a cagione dell' aumentazione
di quello che si fa a Trieste e a Fiume, come de' rischi che loro
fanno correre i corsari Barbareschi „ (p. 387). Nel numero seguente
una lettera da Trieste celebrava le opere di pubblica utilità ivi com-
piute e la prosperità degli abitanti, e aggiungeva: " Già il porto è
dei più frequentati; e pochi sono quei giorni in cui non vi si con-
tino 30 in 40 grossi vascelli, e comunemente 100 d' una minor gran-
dezza. Si fabbricano con tutto l' ardore nei nostri nuovi cantieri delle
barche e altri bastimenti per uso del commercio, e ultimamente si
lanciò all' acqua una fregata destinata a servir di scorta alle navi „
(luglio, p. 17). Il dominio del Golfo era ormai violato. Nell'introdu-
zione al tomo XXII deWa^uova Geografìa di Ant. Federico Bùsching,
1* ed. veneta (Ven., 1777, pp. 11-12), si legge: « Quantunque oggidì „
il traffico dei Veneziani " non sia sì ricco com'era un tempo, e non
sieno le bandiere di questa Nazione tanto numerose nel Mediterraneo
come le Inglesi e Francesi che prevalgono, ciò non ostante si può
dire che il commercio de' Veneziani sia il più florido ed il più esteso
di tutti gli altri d' Italia „.
38 Quell'Adriatico che gli stessi stranieri solevano chiamare Golfo
di Venezia (come godo di aver rammentato molti anni prima della
guerra mondiale) e il cui possesso avevano i Veneziani sì gelosa-
mente rivendicato con la parola, con gli scritti e con le armi.
36 VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
39 Pesenti, Angelo Emo ecc., Venezia, 1899, pp. 19 e 37. - I!
Mercurio storico e politico si chiedeva da Venezia nel febbraio del 1750
(p. 100): * Donde avviene che tante potenze Cristiane, delle quali non
V* ha appena una la quale non sia da sé sola in istato di reprimere
i ladroneggi di quei corsari, sollecitano alla Porta di procurar loro
la pace con essi? „. E rispondeva che questa guerra pericolosa so-
migliava alla caccia che si fa alle pantere e agli orsi, " dove il cac-
ciatore può perdervi la vita, e non può guadagnare che la pelle d*una
bestia „. - Nel marzo di quell' anno la Repubblica armava " le sue
forze terrestri e marittime... Laonde tutti i suoi reggimenti nazionali
saranno compiuti, come anche i corpi esteri ch'ella tiene al suo ser-
vigio... Rispetto alle forze navali, si avranno nel prossimo maggio
20 vascelli da guerra, 30 galeotte, e 30 galeazze in istato di corseg-
giare il mare. Dall'altro canto questi apparecchi „, scriveva l'infor-
matore " quand'anche il riposo dell'Italia non ricevesse alcun intacco,
serviranno a farci fare un buon contegno da un'altra parte „ (p. 162. -
Vedasi anche ag. '49, p. 105). E nel settembre: " Con sommo vigore
si progrediscono qua tutti i preparativi militari e marittimi e terrestri.
La squadra è pronta a mettersi in mare... La leva di gente si con-
tinua con successo in varie provincie di questo stato; le fortificazioni
delle frontiere si vanno riparando e aumentando; i magazzini d'ogni
sorta di munizioni si riempiono; le truppe sono esercitate più del
solito ecc. „ (pp. 162-3). - Vedi il cap. XIII, libro IV, voi. II dei
Principj di storia civile della Rep. di Ven. di Vettor San di dall' a. di
N. S. 1700 sino all' a. 1767, Venezia, 1771; e i documenti pubblicati
dal Pesenti, pp. 104 138.
40 Lalande, VII, 81-82; Romanin, Vili, 150-51 e specialmente Sandi, 1. e.
41 Romanin, Vili, 88; Pesenti, Emo, 69 e 73.
43 Vedi scoperti i mali che affliggevano l'armata nella circolare di
Frane. Grimani, Provveditore Generale da Mar, del 1758: Pesenti,
Emo, 172 sgg. Inoltre v. il cit. Mutinelli, 152 sgg., non sempre men-
dace, sebbene qui si valga di documenti posteriori al nostro periodo,
quando i disordini erano cresciuti.
43 Pesenti, 67. Il quadro del Mutinelli, pp. 146-152, è senza dubbio
esagerato. - Anche nel Settecento l'Arsenale colpiva di ammirazione
la più parte dei viaggiatori, e i Veneziani lo consideravano ancora
come il propugnacolo non soltanto di Venezia, ma d' Italia, anzi
dell'Europa intera contro il Turco: Lalande, VI, 449. « Cet arsenal,
pourvu avec une abondance vraiment magnifique „ dice nel '62 l'ab.
Richard, '* ne peut que donner l'idée d'une trèsgrande puissance „:
II, 326. - Suir Arsenale e su tutte le Borse militari della Repubblica
si veda ancora l' importante studio dell' ing. G. Casoni, in Venezia e
le sue lagune, voi. I, parte 2*.
44 Vecchie abitudini; così nel Seicento: v. Amy Bernardy, Venezia
e il Turco nella seconda metà del sec. XVII, Firenze, 1902, p. 4.
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO 37
45 II Mulinelli, sfacciato adulatore dell* Austria, e facile per la
sua scarsa coscienza e per La sua ignoranza a confondere, a travi-
sare, a generaleggiare, racconta tuttavia molte cose vere nelle pp. 157-
165, sebbene attinga da relazioni e dispacci anteriori o posteriori al
periodo nostro. Certo i mali si aggravarono negli ultimi decenni,
durante la pace europea: Lalande, VII, 20 e Corani, Mémoires secrets
et critiques etc, Paris, 1792, t. Ili, 393.
46 V. le memorie di C. Gozzi e del Casanova. Delle ruberie e
dei vizi, che non erano poi privilegio degli eserciti veneziani, e* è più
d' un ricordo nelle Lettere critiche ecc. di G. A. Costantini e perfino
in qualche commedia del Goldoni.
47 Non è possibile offrire cifre precise, ma è lecito affermare che
Tarmata veneziana componevasi di circa 25 vascelli di prima linea,
parte dei quali in cantiere, di una decina di fregate e d' infiniti legni
minori. Afferma 1' ab. Richard che 12 vascelli di linea erano sempre
in costruzione sugli scali dell'arsenale: 11,323. Otto vascelli di linea
e 20 galere, dice Lalande, custodivano costantemente il Golfo: VI, 433.
" La Squadra navale ordinaria „ afferma pure il Tentori, Storia cit.,
II, 255, " consiste per Io più in nove Navi da guerra e 15 Galere e
altri legni sottili „. Sulle forze navali alla caduta della Repubblica,
V. Casoni cit., pp. 248-249. - Si ricordi che il regno di Napoli non
possedeva nel 1759 che 2 vascelli di linea, 2 fregate e 6 sciabecchi:
M. Schipa, // regno di Napoli al tempo di Carlo Borbone, 2* ed.,
Roma, 1923, voi. I, p. 337.
48 Leggi, sempre cautamente, Mutinelli, 41 sgg.: v. pure Lalande,
VII, 38. II Lamberti, II, e. io, confessa che il popolo veneziano pas-
sava troppo presto dalla chiesa agli spettacoli profani, dalle proces-
sioni all'amore, ma dice che, alieno dalla superstizione di altre genti,
rispettava i sacerdoti, pur senza farne gli arbitri e i despoti delle
famiglie, e serbava la fede: e. 9. I lagni però ricorrono a ogni passo
negli scrittori di quel tempo: basta citare fra le Lettere critiche ecc.
del Costantini, quella intitolata Mondo e . religione, t. V ed. 1751 e
t. VI ed. '94, e il canto IX (1761) della Marfisa bizzarra di Carlo Gozzi.
La scarsa religione rimproverò sulla fine del Seicento il bizzarro
poeta Bartolomeo Dotti (bresciano, 1651-1713), specie nel canto della
Quaresima: Satire, ed. Ginevra, 1807, *. I. Il giovane marchese
d'Argens, futuro amico di Federico II, loda, come il Lamberti, nelle
Lettres Juives (Amsterdam, 1736) i Veneziani perchè, a differenza
degli altri Italiani, " leur esprit n'est point enchainé par la bigoterie „
(II, p. 188) e perchè sottopongono la religione alla politica dello
Stato (II, lett. 48 e 52). Pure De Brosses (I, lett. 16) approva l'esclu-
sione severa della gente di chiesa da ogni carica del governo; e così
altri viaggiatori.
49 V. anche Romanin, IX, 20. - Eppure gli stranieri, osservando
come nessuna eresia, nessuna setta avesse osato apparire scoperta-
38 VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
mente nella Repubblica, dichiaravano: " Il n' y a point d' état dans
r Europe où la réligion catholique se soit maintenue avec autant
d' integrile qu' à Venise „: Richard, li, 399.
50 G. Brusoni, // cartozzino alla moda, Venezia, Curti, 1658,
scorsa 5; B. Dotti, la Quaresima e le Sferzate agV irriverenti nel tem-
pio, falsani. Amsterdam, 1790, F. II. Esagera il Malamani, // Sette-
cento a Venezia: I. La Satira del costume, Torino 189 1, p. 117. Anzi
il Lamberti (P. II, capo 3) ricorda come fosse proibito alle donne di
mostrarsi in chiesa con la faccia scoperta e tutte usassero le velette
o gli zendaletti o i fazzioli.
51 Delizia non dei Veneziani soltanto, ma di tutti i forestieri e
stranieri che li celebravano con le più alte lodi. " C est-là „ dice con
entusiasmo nel '62 1' ab. Richard " qu' il faut aller apprendre la pré-
cision, r intelligence et la beauté de Texécution; e* est-là que l' on
entend les plus belles voix de femmes de V Italie „ : t. I, p. LXVIIL
Dirigeva il coro dell* ospitale degli Incurabili il maestro Adolfo Hasse
detto Sassone, che fu poi chiamato a Vienna: gli succedette Vincenzo
Ciampi, tornato da Londra nel luglio '57 e morto nel maggio '62;
quindi il Brusa, il Trajetta, il Galuppi (si veda per quest* ultimo il
Viaggio del Burney). La Gazzetta Veneta nelT aprile del '60 ricorda
fra le migliori virtuose nel canto Regina Rossi, Laura Raimondi e
Francesca Rubini. Nel pio luogo della Pietà troviamo dal 1756 al '62
il maestro Gaetano Latilla (1713-88) di Bari, chiamato poi a dirigere
la Cappella di S. Marco; e più tardi il Furlanetto. Nel cod. Cicogna
1408, presso il Museo Civico, leggesi un canto Sopra le Putte di coro
(sic) della Pietà: prima è la " dolcissima „ Apollonia, d'oltre 30 anni,
poi Agata sua discepola, poi Giulietta soprana, poi Ambrosina, Ma-
rianna, Geltruda ecc. Pare che nel '62 l' ab. Richard vi udisse ancora
la Greghetta: II, 334. Il coro dell* Ospedaletto, o pio luogo dei Derelitti,
aveva per maestro Gaetano Antonio Pampani, al quale succedette il
famoso Sacchini. Tra le cantanti si lodavano Laura Comin e Fiorina
Vendramin : Gradenigo, Notatorj. Nell'ospitale dei Mendicanti insegnò,
prima di passare a S. Marco, il maestro Giuseppe Sarratelli morto
nel 1760; e poi a lungo Ferdinando Bertoni (1725-1813) di Salò: ce-
lebre virtuosa la Fabris, detta la Padovanina, ma nel '62 stava per
cedere il primo posto nel canto a Lauretta Risegari: Richard, 11,341
(v. anche Gazz. Ven., 2 aprile 1760).
sa Ma non bisogna esagerare. Quando il Taine nel suo Voyage
en Italie, t. II, scrive degli antichi Veneziani : " A vrai dire, ils ne se
sont jamais préoccupés de réligion que pour reprimer le pape: théorie
et pratique, idées et instincts, ils ont hérité des moeurs et de l'esprit
antiques, et leur christianisme n'est qu' un nom „: commette un grave
errore storico, che si ripete con troppa frequenza nelle pagine degli
scrittori d'oltralpi. Un sentimento piuttosto pagano che cristiano
scorgesi a Venezia nel Cinquecento, in ispecie, e nel Settecento: al
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO 39
di là però di tale bisogno spesso artistico, che si pasceva della pompa
esteriore senza penetrare molto a dentro, noi troviamo pur negli
ultimi tempi qualche altra cosa più profonda, più affettuosa, meno
sensuale e terrena: sino alla caduta della Repubblica noi possiamo
osservare un tacito rispetto alla religione, unita sempre intimamente
alle maggiori e minori funzioni dello Stato, negli animi stessi de' cit-
tadini più indifferenti. Le vivaci questioni con la Corte romana con-
traddicono anzi, più che non sembri, 1' affermazione del Taine:
Venezia non è Roma.
53 Costantini, I, 180 (ed. '94): il Carnovale. Più d'una devota
storpiava le orazioni mentre davanti lo specchio faceva la toeletta,
assistita dall* acconciatrice o dal servente: III, 67: Perditempi.
54 Dotti, sat. 32 ed. Amsterdam e 18 ed. Ginevra; e Malamani,
1. e, 106.
55 La satira del Dotti è anche pittura del periodo goldoniano, e
di tutti i tempi; si rilegga poi la Marfisa bizzarra di Carlo Gozzi.
Più tardi il Senato chiese al papa ed ottenne la diminuzione delle
feste che, invece della religione, favorivano T ozio e la crapula, e
danneggiavano le arti e l'agricoltura: Romanin, Vili, 180.
56 Solo nel '68 e nel '69 il Senato potè emanare i coraggiosi de-
creti proposti dal Tron, causa di querele e d'ire a Venezia e a Roma:
Romanin, Vili, 1756; e Dandolo, 1. IV, cap. 6 (ricordo poi Pilati,
Voyages, I, i86-i88». - Fra i monaci erano più magnifici i Benedet-
tini di S. Giorgio Maggiore e i Domenicani dei SS. Gio, e Paolo,
avverte il Lamberti: questi ultimi di vita un po' libera. Avversi ai
Domenicani erano i Francescani, ai quali appartenevano i Zoccolanti,
più rozzi e meno costumati. Dotti teologi i Carmelitani, ma non molto
austeri moralisti. Fra le berrette vediamo i Somaschi, gli Scolopi, i
Barnabiti e i rigidissimi Filippini in odore di giansenismo. Copiose
notizie offre il voi. Ili dei Principj di storia civile cit., del Sandi.
Alla libertà de' frati a Venezia accenna il Baretti, 1. e, 192; ma il
Pilati afferma che godevano pochissimo credito, né si accoglievano
dalle famiglie oneste: I, 237.
57 Vedasi nota 16.
58 Costantini, I, Figli destinati alla religione (v. per contro Ba-
retti, 1. e, cap. XXI) e Messe brevi) IV, Intorno air elezione dello stato
religioso e Un padre ad un figlio vescovo. Si ponga mente che simile
al veneziano, nei difetti e nei vizi, era il clero cattolico dappertutto.
Con incredulo sorriso ascoltiamo poi le piacevoli novelle che ci rac-
conta il giovane D' Argens, oppure il giovane De Brosses.
59 Fra i moltissimi che si lagnano scelgo ancora il Costantini, III,
Predicatori: si consulti lo stesso Moschini, 1. e, t. III.
60 Ricorderò soltanto i Mémoires del Casanova e citerò Mutinelli, 53.
6t II Baretti difende i conventi nostri dalle accuse degli scrittori
oltramontani. La vita delle monache, dice, " non è certamente volut-
40 VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
tuosa... Tutti i piccoli piaceri di cui godono, riduconsi ad avere
qualche provvisione di caffè e di cioccolatte di cui si regalano, e che
presentano a coloro che vengono a visitarle, e che loro è permesso
di ricevere alla grata. Questa grata è, d' ordinario, doppia e strettis-
sima: nella sola Venezia si può far passare la mano attraverso i
suoi fori; ma queste grate veneziane rovinarono la riputazione delle
monache di quella città „: 1. e, 184. I conventi di S. Lorenzo e di
S. Zaccaria, dove si trovavano molte fanciulle patrizie, non erano
considerati per il passato come veri e propri monasteri di regola
rigida, ma specie di ritiri dove le nobili donne senza marito convi-
vevano lontano dalle famiglie; e però non portavano velo: Burnet, 128.
6a Lamberti, I, loi e sgg.: dal quale attinge Romanin, IX. Lo
stesso De Brosses, I, 176, fin dal '39 avverte come fosse per esulare
la galanteria da' monasteri. Nel famoso Parlatorio Giovanni Antonio
Guardi colse e fissò un aspetto della vita claustrale veneziana che
stava ormai per scomparire. Non già la corruzione delle monache
aiutò la caduta della Repubblica; e assai prima di Napoleone il Se-
nato sopprimeva conventi, reprimeva abusi: cessata poi negli ultimi
anni, come giustamente osserva il Lamberti (1. e, 104), la smania
nelle donne per il chiostro, e rallentata o cessata la crudeltà nei
genitori, gli ordini religiosi muliebri s'apersero più di rado alla classe
patrizia, ma pur decadendo riformarono il costume. Che tuttavia non
fu mai nel Settecento quale D' Argens (1. e, II, 274) o De Brosses
vorrebbero, o quale taluno si rappresenta dal troppo noto episodio
della monaca di Murano: scandali ben più frequenti e generali esi-
stevano ne' secoli più antichi, e in quello pure dei Vivarini e del
Carpaccio: scandali ben più infami ricorda la storia del secolo deci-
mottavo, per esempio in Toscana.
63 Costantini, per es. t. Vili: Difesa delle donne. - Le stesse fri-
volità in tutta Italia, e anche in Francia.
64 Non bisogna credere che questi conventi fossero sempre luoghi
di tormento per le fanciulle, come neppur erano in Francia: E. et
J. De Goncourt, La femme au 18.^ siede, Paris, 1898, pp. 19-21.
65 Così in Francia: Goncourt, 25-26.
66 Lamberti, voi. II, e. 17. Rigore simile in Francia: Mercier,
Tableau de Paris, eh. 26.
67 Costantini, I, 74 e altrove. Così nel resto d' Italia.
68 Si leggano anche le pagine 235237, t. I, delle Memorie cit. del
Curti, benché posteriori al tempo di cui trattiamo. Di ciò move giusto
lamento il canto popolare, Dov'è quel tempo antigo ecc.: Malamani,
1. e, La Musa popolare, 286-288. Badisi che parliamo soprattutto delle
classi più ricche e che potremmo citare infinite eccezioni. Nel periodo
che seguì a quello del Goldoni questa libertà delle donne, anzi che
diminuire, accennava a crescere: al viaggiatore Moore parve mag-
giore che a Parigi.
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO 4I
69 Non modifico quello che ho scritto or sono venticinque anni.
Il Filati, come si vede nel saggio che segue a questo, attribuisce
all'uso della maschera la grande libertà acquistata dalla donna vene-
ziana, ma qui si tratta di un fenomeno più ampio, generale, e comune
a quasi tutta la penisola, come bene osservavano fin dal '40 i viag-
giatori che scendevano in Italia. È da consultarsi la lunga nota sul-
r origine del serventismo che pubblicai nelle pagine 343-346 del mio
volume sul Settecento ecc. Lo stesso Procuratore Grimani, che fu poi
Doge, e r abate Conti facevano più volte notare a lady Montagu, nel
1739, come da venti anni fosse così mutato il costume a Venezia
ch'essi appena la riconoscevano per la medesima città (lett. 25 gen
naio '40). * It is the fashion for the greatest ladies to walk the streets,
wich are admirably paved „ e basta un semplice abito di maschera
* to carry you everywhere „ (6 nov. '39).
70 Goncourt, 1. e, passim) Taine, Ancien regime, 170-179. Certo il
male era più grave oltralpe. A Venezia, anzi potrei affermare in tutta
Italia, non fu mai smarrito il sentimento della famiglia: " Les familles
vénitiennes „ osserva Lalande " sont ordinairement très-unies: les frères
et les soeurs vivent ensemble (méme après avoir perdu leur pére et
leur mère) sans avoir de discussions d' intéréts, et méme sans partager
les biens de famille, ce qui paroìtra extraordinaire à des Frangois „ :
VII, 23. Basti ricordare quanto pettegolezzo seguisse alla separazione
dei fratelli Gozzi qualche anno dopo la morte del conte Jacopo.
71 Goncourt, 265 267.
73 Un borghese parigino della prima metà del Settecento (Barbier,
r autore del famoso Journal, citato da Aubertin, U esprit public au
j8.^ siede, Paris, 1889, p. 183) lasciò scritto: " Sur vingt seigneurs de
la cour, il y en a quinze qui ne vivent point avec leurs femmes et
qui ont des maìtresses; rien n' est méme si commun à Paris entre
particuliers; il est donc ridicule de vouloir que le roi, qui est bien
le maitre, soit de pire condition que ses sujets et que tous les rois
ses prédécesseurs „. Costui non si sarebbe meravigliato se qualche
nobiluomo veneziano, non così svergognatamente come per il passato,
manteneva una donnetta: l'aveva anch' egli, l'egregio avvocato del
Parlamento di Parigi.
73 Giustamente il Baretti mette in guardia contro le esagerazioni
degli scrittori: " Nella. stessa Venezia v' é l'uso generalmente stabi-
lito, anche fra i principali nobili, di differire di più mesi, e qualche
volta di un intiero anno, un matrimonio stabilito, affinchè i giovani
amanti possano concepire amore l' uno per l' altro „ : 1. e, 25. Lo
stesso teatro del Goldoni è là a dimostrarci che l'amore quasi sempre
trionfava anche nel Settecento, contro tutto e tutti.
74 Qualche accenno ai serventi a Venezia si avverte già nelle
satire del Dotti (morto nel genn. 1713), per esempio nella XV e nella
XLII (ed. Amsterdam).
42 VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
75 Rornanin, IX, 13. Vedi pure Lalande, VII, 30-31, contro il bi-
lioso viaggiatore Sharp.
76 Costantini, II, Servitù alla moda; IV, Serventi alla moda; Vili,
Ad un servente alla moda. Non si confonda amore e corruzione;
r amore, di qualunque specie, è presso i posteri, se non presso i
contemporanei, legale e sacro per sé, e non è mai corruzione. - Certo
padre Tauro, di nobile famiglia, in un libro di Avvertimenti morali,
civili e politici ad una sposa novella {Feìtre, 1778), così spiega l'ori-
gine del serventismo: " Egli è da gran tempo, dacché a quasi ogni
Dama di alto rango e di antica cospicua Nobiltà si è permesso un
Cavaliere per ordinario di eguale carattere, di gravi ed egregi co-
stumi, che in varj incontri e leciti uffizj avesse Tenore di accompa-
gnarla e di assisterla. Per due motivi specialmente, ed entrambi
civili ed onesti, si è istituito questo uso, che si reputa di decoro e
di molta onorevolezza. Il primo per maggior pompa ed isfarzo della
Dama e della Famiglia; poiché veggendosi dalla gente di minor rango,
e più bassa, servite e onorate da un Cavaliere di alta portata, abbia
a concepire per esse più stima e rispetto... Il secondo, perchè in
assenza dei mariti, impiegati per ordinario negli alti affari de' Regni,
delle Repubbliche o delle Città signorili, non avessero a mancar alle
giovani Dame quei Cavalieri, che le assistessero in quelli onesti di-
vertimenti, che fossero alT età loro e al loro grado proporzionati ; o
in quelle civili convenienze, che o per gentilezza o per dovere giu-
dicavan esse di usare... Il male però si è che quel costume, che per
grandezza e per fini onesti e per lo più necessarj si é introdotto fra*
Grandi, praticar si vuole ormai per un di presso da tutta la gente
civile: permettendosi a quasi tutte le giovani Spose, senza veruna
necessità, un Signore giovine per ordinario, gentile, e per lo più di
belT aspetto, che di giorno e di notte, in casa e fuori, con ogni con-
fidenza le serva: essendosi perciò corrotto, e dirò ancora avvilito il
termine con cui si nomina: poiché dove fra le persone graduate e
di nobilissima stirpe si può chiamare il Cavaliere assistente, che im-
porta grandezza e decoro, fra le altre di inferior sangue da mezzo
secolo in qua, se pur é tanto, con poco onor de' Signori si chiama
il Cavaliere servente. Qualunque sia il pretesto con cui si voglia
coonestare ed autorizzar questa usanza, troppo é vero però che sarà
sempre pessima per se stessa, e sempre producitrice di pessime
conseguenze „ (pp. 93-96). - Vero è che la boria, più che la libidine,
moltiplicò in Italia 1' uso de' cicisbei.
77 Erano di più a Venezia, a Roma o a Napoli? tra i viaggiatori
regna grande incertezza. Ma più numerose e molto più fastose erano
nel Seicento. " Dans les siècles précédens „ avverte 1' abate Richard
* c'étoit chez ces femmes que se traitoient les affaires les plus sérieuses,
que se formoient les plans les plus intéressans: c'étoit là que les
ambassadeurs s'assembloient. Aujourd* hui elles n'ont plus la mème
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO 43
espèce de considération; les nobles ne se ruinent plus à les entra-
tenir, depuis que les femmes sortent, se font des visites mutuelles,
et tiennent des assemblées où les hommes sont admis „: onde " le
ton aimable, honnéte et doux qui règne à Venise, sur-tout parmi la
jeune noblesse „ (II, 434-5). E aggiunge più tardi: " Le ton a changé,
quoique la morale ne soit peutétre pas plus épurée: il y a actuel-
lement très-peu de ces parties de débauché qui faisoient autrefois le
Seul plaisir du Vénitien. Il y a beaucoup plus de société, plus de
douceur et d' aménité dans les moeurs, et la nation devra cette espèce
de réforme au commerce des femmes, et à 1* empire qu* elles acquie-
rent tous les jours „ (II, 461).
78 Costantini, I, // Carnovale. Ricordo con lo stesso titolo una
satira del Dotti (P. i*, VI: v. pure // Carnevale di Venezia, in dia-
letto, cod. Cicogna 1409, t. I, presso il Museo) e altra del Busenello
(1598-1659, El Carneval: Livingston, La vita veneziana nelle opere di
G. F. Busenello, Venezia, 1913, p. 351 e sgg.).
79 Lamberti (II, carta 18), che più avanti racconta come Tuomo
del popolo non accompagnasse quasi mai la moglie alla taverna, e
mai la figlia: questa usciva solo negli ultimi giorni di carnovale e
nelle feste sacre, in compagnia della madre e delle congiunte, e co-
perta dal ninzioletto. Tale riserbatezza delle fanciulle veneziane sem-
bra quasi dissimulazione alT abate Richard; confessa però chele
spose stesse, appassito il primo fiore della bellezza, diventavano
eccellenti madri di famiglia: II, 440 e 441. Anche all' abate Coyer fa
specie la modestia delle fanciulle a una festa pubblica: " Dans nos
bals frangais une mère se plaìt à voir danser sa fille. A Venise les
filles ne dansent pas „: Voyage d' Italie, II, 89. Né occorre che la
severa educazione sia confermata dalla contessa Wynne di Rosenberg
[Pièces morales et sentimentales', che un mirabile testimonio ci offrono
i capolavori dialettali del teatro goldoniano.
^ Prima di passare ad altro è bene ripetere ancora una volta
come la corruzione fosse generale anche fuori di Venezia e d* Italia :
lo stesso Casanova non la trovò dappertutto, sfacciata o segreta ?
• V. la sua Confutazione della Storia del Governo Veneziano d'Amelof
de la Houssaie, Amsterdam, 1769, P. I, pp. 128-138). Che Venezia
fosse in questo periodo molto più corrotta di Londra, come parve
al Baretti (1. e, 22), sarebbe difficile provare, poiché egli è solo ad
affermarlo: ma senza dubbio fu più imprudente, come osserva il
viaggiatore Moore. Intorno alla corruzione londinese l' accordo è
perfetto fra tutti gli scrittori. Cesare De Saussure, di Losanna, osa
credere che a Londra nel 1725 vi fossero 40 mila prostitute: una
cifra uguale assegna Sebastiano Mercier a Parigi, prima della Rivo-
luzione: ma sono statistiche troppo incerte. Vero è che nella metro-
poli londinese con più insolenza le meretrici si spandevano di sera
sui marciapiedi assalendo il passante, invadevano i giardini pubblici.
44 VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
i caffè, i teatri, ogni ritrovo, sì che il Baretti (il quale crede " oltre-
passassero il numero di diecimila, molte di esse appena dodicenni „ì
è pur costretto a lagnarsi in una lettera del 1760. Anche Grosley le
dice più numerose che a Parigi, più libere e sfrontate che a Roma
{Londres, t. I, 78, Neuchatel, 1774. - Fra i moltissimi viaggiatori che
ne parlano, vedi Archenholz, England und Italien^ I, 303 sgg., Leip-
zig, 1786). E Alessandro Verri, che nei giardini di Parigi ha visto
certe cose, conclude (1766): " Oh per questo poi Parigi è castissimo
in paragone di Londra „ [Carteggio di Pietro e AL Verri, Milano, 1923,
voi. I, P. 1*, 298). Ma altri vizi più turpi regnavano sul Tamigi, come
il tribadismo fra le signore (che una lettera di Giustiniana Wynne
nel '60 ad Andrea Memmo ci conferma: Brunelli, Un'amica del Ca-
sanova, in Collezione Settecentesca, Sandron, 1924, p. 182) e la schifosa
ubbriachezza che abbrutiva tutte le classi della popolazione. - Del
resto ogni città par voglia aspirare al primato in questa tristissima
gara. Francesco Regnard, il commediografo, scrive rielle sue note di
viaggio del 1681 dall'Olanda: " 11 n'y a peut-étre point de lieu, après
Paris, ou le libertinage soit plus grand qu'à Amsterdam „: Oeuvres,
Paris, 1805, t. IV, 142. Di Berlino chiedete notizia a Voltaire o, se
volete, a Moore. Ma come oseremo descrivere i costumi di Mosca e
di Pietroburgo? Se poi torniamo in Italia, il Casanova, che se n'in-
tende, ci dirà che in nessun luogo i piaceri sensuali si godono cosi
a buon prezzo e così liberamente come a Bologna; qualche altro ci
dirà che a Firenze v' è un certo viziacelo; a Napoli udremo da Du-
paty che tutti fanno mercato delle donne: " Les pères, les mères,
les maris, les frères, les moines, tout le monde hautement en trafique „
{Lettres sur V Italie en 178^, Paris, 1810, t. Ili, 65); a Roma... Ma ci
vorrebbe almeno un volume a raccogliere tante turpitudini. - Il rac-
conto dei forestieri non è poi sempre una guida sicura a giudicare.
A Venezia, per esempio, tolte le case de* patrizi che pur quasi sempre
restavano a loro chiuse (De Brosses, I, 176 e 191) e in cui maggiore
era la libertà del costume, dove mai potevano penetrare e quali donne
avvicinare? (Lalande, VII, 27 e 28). Certo era assai facile per mezzo
del denaro sfogar la lussuria, ma non così facilmente le madri ven-
devano le figlie immature. Tuttavia degno di fede è Rousseau: non
De Brosses allorché raccoglie per le belle sue amiche di Digione la
diceria che i lenoni offrissero sulla piazza di San Marco le gentil-
donne della Repubblica e crede che la gondola servisse d' asilo al
turpe mercimonio (I, lett. 15); non D' Argens e cento altri a cui fa
eco, con pari disinvoltura, una schiera di viaggiatori d'oltre Manica.
A codesti leggeri denigratori con bella indignazione risponde la Putta
onorata di Goldoni: " Semo a Venezia, sala. A Venezia ghe xe del
bagolo per chi lo voi... ma in te le case onorate no se va a bater da
le pute co sta facilitae. Vu altri foresti via de qua, co parie de Ve-
nezia in materia de done, le mete tute a mazzo; ma, sangue de diana!
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO 45
no la xe cussi „ (a. I, se. 13). Vedasi il commento di V. Malamani,
non sospetto di stendere pietosi veli sulla decadenza veneziana: //
Settecento, I, 123-5. Cresciuta la licenza, lo stesso abate Barbaro, lin-
gua mordace, pur ammetteva che di circa trentamila donne che
c'erano a Venezia d'età matura, " le imprudenti, le matte relassae „
non superassero propriamente la cifra di duemila: * Ste do mile a
la fin xe queste qua - Che mette in combustion sta gran città „ (cit.
da Malamani, 15). E quanto alla moda, lasciamo andare: so bene che
se improvvisamente ci potessimo oggi trasportare per incanto a Ve-
nezia, ai tempi del Goldoni, crederemmo forse di entrare, con immensa
meraviglia, nel regno della Pudicizia.
81 Costantini, II, Conversazione fra molti] Lamberti, Le stagioni
campestri e cittadine, Venezia, 1817, p. 19; Mulinelli, Lessico, 93-95; e
moltissimi viaggiatori, fra cui lady Montagu, Letters, 22 feb. 1760,
Lalande, VII, 3132 (" C est ainsi que les Anglois se voient au café
plus que chez eux „), Moore, III, 192-3. Furono proibili nel 1567,
nel 1609, nel 1744, ma sempre risorsero: Inquisitori di Stato: Casini
di giuoco - Teatri, busta 914 (presso l'Archivio dei Frari). Ebbero
mala fama (Dolcetti, Le bische ecc., Venezia, 1903', tuttavia si esagerò
spesso, come avverte il Moore. Leggesi nei Notatorj Gradenigo, in
data 20 giugno 1755: " Nella Contrada di S. Moisè si sono aumentati
sino a questo tempo li Casini de' Nobili et altri Particolari che ten-
gono proprie stanze a loro preciso comodo sino al N. di 73; il che
reca defraudo all' utilità incerte di quel Parroco, oltre quello di tre
Osterie, Ridotto e Magazin „. E in data i gennaio '60: " Si aumen-
tarono nelle Contrade vicine a S. Marco, e massime a S. Gio. Novo,
S. Moisè, S. Luca, S. Fantino, S. Salvatore, li Casini di compagnia
nobile, nonché quelli di alcuni privati nobili, che quasi innumerabili
divennero a proprio uso e soggiorno, di modo che più fratelli d'una
famiglia separatamente chiunque possedevane uno preciso, non senza
aggravio di affitto e di trattamento „. N' ebbero da ultimo perfino gli
artigiani, i camerieri, i cuochi: Lamberti, P. II, e. 3. Chi non poteva
spendere, associavasi con altri compagni : Cherubini, / miei pensieri,
Venezia, 1767, p. 204 e sgg.
82 E in Francia? v. Goncourt, 108110. È bene avvertire con Se-
bastiano Mercier: " Une jolie femme fait regulièrement chaque matin^
deux toilettes. La première est fort secrète, et jamais les amants n'y
sont admis... C est là que le mystère met en usage tous les cosmé-
tiques qu' embellissent la peau... La seconde toilette n' est qu' un jeu
inventa par la coquetterie „ : 1. e. Toilette. - D' Argens dice che a
Parigi " une Femme du monde ne doit se léver qu' à deux où trois
heures après midi „: Lettres Juives, I, 1. i*. - Delle dame veneziane
afferma il Costantini: " La mattina sino a quattro ore di sole se la
passano in letto, per lo più discorrendo con li Serventi. Sorte dal
letto, siedono al tavolino dove impiegano altre tre ore per lo meno
46 VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
in acconciare i capelli e la cuffia, in lavarsi gli empiastri notturni
dalla faccia, in applicare belletti e vernici, ed in accomodare le
mosche, nel che talora si spendono le ore, per incontrare il genio
del Zerbino, o per soddisfare il proprio capriccio. Compiuto il pranzo,
altre due ore per lo meno esige l' accomodarsi attorno i vestiti e
r esaminare allo specchio li gesti, il portamento della vita, delle mani,
del ventaglio, della bocca, degli occhi, del collo „ : III, Perditempi e
vanità delle donne.
83 Lamberti, P. II, fine del capo 3.
84 Sempre Lamberti, eh' è la guida migliore: P. II, capo 3.
85 " Il secondo giorno poi di Pasqua principiano i freschi: dove
ogni sera di festa dal Palazzo Pesaro sino al Ponte della Croce, in
quel tratto di Canal Grande, lungo quasi un miglio (" in faccia a
S. Lucia „ dice il cronista Zanetti nelle sue Memorie, 11 giugno 1743',
suole farsi il corso di Gondole piene di Dame e Cavalieri, di Ministri
de' Principi e d' altri Forestieri, vedendosi popolate quelle rive di
gente accorsa a sì degna osservazione, dove la voga gagliarda e
destra de' Barcajuoli rende più curioso e bello quel corso marittimo „:
Cronaca Veneta cit., 175 1, II, pp. 347-348.
86 Lamberti, P. I, capo 11 (carta 153 del I voi.).
87 Dire come la moda del Settecento abbia origine in Francia,
al tempo della Reggenza, in quel bisogno di totale rivolgimento della
società, dopo Luigi XIV, è quasi superfluo: allora le gallerie e le
vaste sale de' palazzi e de' castelli cedono il posto ai piccoli appar-
tamenti (Lacretelle, Histoire de France pendant le 18.^ siede, Paris, 1819,
t. Ili, 20-2I); allora la eleganza minuta, il raccoglimento, i comodi;
allora il trionfo settecentistico degli specchi; allora le chincaglierie
d'Oriente: si abusò allora del caffè, del cioccolate, del tè; allora i
vini di lusso e le bottiglie; allora e poi la riforma e le mutazioni
delle vesti e delle acconciature, sì per le donne, sì per gli uomini
(lo nota Capefigue nel suo Louis XV eie, Bruxelles, 1843, ch.es VII,
XXV, XLII). Vecchie idee e vecchie abitudini s'affrettano insieme a
scomparire. - Curioso ne' Commemoriali Gradenigo, n. XVIII, carte
168-17 1 (Provenienza Gradenigo Doljìn presso il Museo, n. 200) certo
catalogo di Successi non veduti da' nostri Avi. Per esempio, fin dal 1699
* la capigliatura posticcia, cioè la perucca intessuta,,; nel 1700 le
stole dorate de' Cavalieri * larghe più che il duplo delle usate „ e
con la stessa data " la bibita resa universale del caffè: dimesso del
tutto il confortativo più salubre della malvasia „; più tardi, in vari
tempi, le chiese di S. Moisè, di S. Maria Zobenigo, della Pietà, delle
Zitelle, di S. Barnaba, dei Gesuiti, di S. Giovanni Novo, di S. Toma
e altre rinnovate e " decorate con facciata marmorea „; fin dal 1704
" la Nobiltà affezionata al vestire alla Francese, introdotto dalla mo-
derna inclinazione „; nel 1705 proibizione della famosa Guerra dei
pugni " tanto usata nell'età passate „; 1716, leonessa marmorea del
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO 47
senatore Domenico Pasqualigo posta " a sinistra dei laterali dell* ar-
senale „; 1719 " Baili ed Ambasciatori veneti a Costantinopoli, di-
messa la barba, tengono i soli mostacci, indi anche quelli tralasciano „
nel *33; 1720 " Città di Venezia per ogni strada, piazza, vicolo, e
contrada illuminata da ferali, prima a tansa universale, poi a pub-
bliche spese, in tempo di notte „; dopo il 1720, due piccoli leoni del
doge Luigi Mocenigo, detto Sebastiano, * di rossa e durissima pietra
situati nella Piazzetta di S. Basso „; 1723 " la Piazza di S. Marco
salizzata tutta nel pavimento di duri macigni - li rari e fini marmi
della Basilica di S. Marco rischiarati, come dalla sua origine „; 1739
" il portare dell* ombrella per la Città in tempi piovosi - li strati
pomposi posti al di fuori de* palchetti de* Teatri „; 1740 " li Casini
di confidenza nel Sestier di S. Marco - li Cerchi, o siano Guardin-
fanti delle Gentildonne più larghi che alti della loro statura „; dopo
il 1740 " Femmine usate a prender tabacco da naso „; 1745 " finestre
di lucenti e grandi specchi sostituiti in varj Palazzi in luogo de*
piccioli ed offuscati vetri rotondi incassati nello stagno „ ; 1748 " ripari
murali e laterali di moltissime strade ritrette, o im.boccature de* ca-
nali „; 1749 " istituzione di certe macchine idrauliche, onde estinguere
fuochi che insorgessero nella Città, al numero di dieci, cioè 6 grandi
e 4 picciole, a spese pubbliche, e distribuite presso i Chiostri de*
Regolari „; 1756 " il vestire delle donne in tabarro e bautta „; 1757
" passeggio del Broglio, non senza disordine delli retti effetti, distolto
- disfacimento delle gran Galeazze da guerra computate insufficienti,
tarde, e costose „. - Nello stesso volume, più in là, a pp. 172-174,
troviamo un' altra curiosa nota, Squitinio cioè tali quali cose dissa-
provate in Venezia, e quasi irremediabili, 1758. Eccone un saggio:
" Frati Domenicani, Agostiniani, Carmelitani, Canonici Lateranensi,
Scopettini, non che Gerolomini quali girano la Città senza compagno,
e che la sera coprono l'abito ed il cappuccio, per sembrare Preti
secolari, col tabarro negro. - Maschere d'ogni sesso ammantate di
tabarri, cappelli, e bautte nere, confuse in quantità, in condizione e
nella età, con troppo tetro e sempre più moltiplicato comercio ignoto. -
Popolazione ambulante d'ogni rango e professione, che senza riguardo
d'alcuno, o precedenza, s'urtano l'uno coli* altro nelle strette strade. -
L' improprietà di p.... in pubblica strada, e di inondare di orina i
laterali di ogni vicolo, e di qualche Tempio o Monastero. - Terraglie
d' infinite sorti di breve sussistenza e gran consumo, mediante le
quali si dimise 1' uso di mangiare in stagni e peltri di lunga durata. -
Fornitura di stanze intessuta di filo, bavella ed apparente seta, con-
cambiata da' moderni in luogo delli famosi, e vaghi, e durevoli
covridori [cuori, o cuoi, dorati] nazionali. - Libi d' immondizie gettate
da' balconi sulle strade, e scopazze slanciate ne' canali da' servidori. -
Molto disdicevoie ed aborrito da' sudditi l'abuso del vestire de* Nobili
alla Francese in tabarro, o senza, quali non sì distinguono tra li più,
48 VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
non suoi pari. - Passeggi estivi per la Città, del tutto moderni ed
ambulanti. - Cittadine che deposero i manini d* oro, sostituendo le
margarite, di vile prezzo, ma dell' ultima moda „. Ci pare che basti.
88 La satire e le leggi non contavano: Giulio Bistort, // Magi-
strato alle Pompe, Venezia, 1912. - * La moglie di un medico sfoggia
trentamille scudi di gioje ^ grida il Costantini: " Un avvocato, che
non ha un soldo di rendita, getta mille ducati in un abito da viaggio.
Un Procuratore cinquecento scudi in un pasto. La moglie di un pa-
sticciere mille e cinquecento in merletti d'Olanda... Le meretrici non
si contentano di ascendere ali* ordine medio negli abiti, ma vogliono
equipararsi al superiore: gioje, ricami, merletti, velluti, panni d*oro...
Le bottegaie, le mercantesse dicono che non possono esigere rispetto,
se non vanno con TAndrienne „: IV, // lusso. Ricordiamo le com-
medie goldoniane.
89 Piuttosto che un abito di maschera, si direbbe un abito di
libertà, come a* forestieri pareva. Esso serviva a confondere tutti e
tutto: le donne appena si distinguevano dagli uomini per la sottana:
Lalande, VII, 41. " Un manteau de tafFetas noir, qui descend jusqu'à
mi-jambe, appellé labaro; un capuchon qui retombe sur les bras, et
ressemble à un carnali ferme, appellé bahute; le chapeau uni ou à
plumet, et le masque blanc. On volt les Vénitiens par milliers, dans
cet équipage, à toutes les heures du jour et de la nuit „: Richard,
II, 446-7. - Sullo zendale e sulla bauta nel costume femminile si ri-
legge volentieri una pagina della Renier-Michiel, in Origine delle feste
veneziane, Venezia, ed. 1852, I, loi.
90 Così il Romanin, IX, 15-16. Sorvolo l'argomento troppo vasto
della moda, potendo oggi rimandare il lettore al terzo volume della
grande opera del Molmenti sulla Storia di Venezia nella vita privata.
Le mode muliebri in Francia v. nel cap. 8 del bellissimo libro dei
fratelli Goncourt, così finemente femminile, così intimamente sette-
centistico.
91 Belle, assai bianche, un poco pallide parevano a* forestieri.
• On y volt plus de blondes que dans le reste de l'Italie „: Lalande,
VII, 30; ma la più parte brune, afferma il Bernis. Sono di " bel sangue,
communément bien faites et de belle taille „ : Richard, II, 503. " Les
femmes se présentent bien, leurs traits sont animés, et elles ont de
trèsbelles couleurs. Elles arrangent leurs cheveux d* une manière
singulière, qui leur sied on ne peut mieux „: Moore, III, 196. " Ce
n' est pas qu' on y trouve plus qu' ailleurs des beautés ravissantes;
mais communément le grand nombre est joli et en general elles ont
toutes la taille et le teint beaux, la bouche grande et agréable, les
dents blanches et bien rangées „: De Brosses, I, 181.
93 Ma questa follia durava solo qualche giorno; e però quando
il Taine, per esempio, nel suo citato Voyage, oppure Filippo Mounier
nella sua fantastica Venise au XVIII siede (Paris, 1907), oppure Carlo
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO 49
Diehl nel suo libro recente: Une république patricienne : Venise (Paris,
1921), ci parlano del carnovale che impazziva per sei mesi dell'anno,
non si avvedono di cadere in uno stravagante errore. A disilludere
1 facili sognatori di orge veneziane, ecco il nostro abate Richard,
II, 448: * On parie beaucoup du carnaval de Venise, plus à raison
du temps qu' il dure, de la grande liberté qui y règne, que des
plaisirs brillans qu' il procure. Alors on ne voit partout que des
masques de toute taille et de tout état, vétus uniformement, avec
l'air le plus grave, qui ne paroissent méme pas s'amuser beaucoup „.
Ecco Lalande, VII, 28: " En general, on se communique peu, et l'on
est assez retiré à Venise: malgré le coup-d'oeil singulier et brillant
de cette ville, il y règne au-dehors un peu de tristesse; on voit beau-
coup de gondoles sur les canaux, mais peu de monde dans la ville,
et personne aux fenètres; les hommes font tous le commerce, et les
femmes sont retirées au-dedans de leurs maisons; on ne les voit
guère que dans les églises, ou lorsque le hasard les fait rencontrer
en gondoles, et les dimanches au soir à la place S. Marc „. Anche
qui torna a mente la sincera e sana rappresentazione del teatro
goldoniano.
93 Mi valsi del Lamberti, I, carta 207 e sgg. (e P. II, capo 3).
Meno gaio forse ma più assordante pare diventasse 1' ultimo giorno
di carnovale, destinato propriamente al popolino, alle massive goldo-
niane, negli ultimi tempi. " Anche in quest' anno „ racconta nel 1788
la Gazzetta Urbana Veneta di cui era compilatore Antonio Piazza
(n. II, 6 febbraio) " a norma dell'uso introdotto da qualche tempo,
s'è chiuso il Carnovale con uno strepito da far disperare i seguaci
di Catone, o da ridursi ad impazzire cogli altri. Prescindendo dalle
oscenità, la nostra gran Piazza ieri di notte parve cangiata nel bosco
di Stimiila, teatro delle follie de' Baccanti, o nelle antiche vie di
Roma per le quali ululando correvano i Lupercali. Non si cammi-
nava a passi ma a salti, e invece di parlar si gridava. Accresceva
il frastuono un confuso rumore di zufoletti stridenti, di rauchi corni
bovini, di campane portate in giro appese alle mazze, di tamburri
ed altri simili instrumenti Da far {spiritar un cimiterio „. Eppure fra
tanta calca di gente riscaldata dal vino e dai liquori, dove l' età e
gli ordini sociali si confondevano, non accadde nessun disordine,
afferma la Gazzetta, senza che vi fosse bisogno ** di argini militari „.
94 Qualcuno fin dal principio del secolo moveva di ciò lamento,
ma è strano che si lagnassero e sdegnassero proprio i novatori, sulla
foggia di Carlo Contarini (discorso dei 3 die. 1779). Il Curti poi, altro
repubblicano ribelle, vuol spiegare a modo suo la condiscendenza dei
Dieci verso la plebe veneziana che s' abbandonava " ad ogni sorta
di eccesso „, sicura dell'impunità: vedi 1. e, II, 241-242.
95 Erano cento tre col Cancellier Grande. Oltre il Lamberti, si
vedano Curti, I, e. 8 e Romanin, IX, 16-17. Nel 1766, scemata alquanto
G. Ortolani. 4
50
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
la popolazione, si contavano 847 famiglie nobili e 1289 cittadine, cioè
3557 persone nobili e 521 1 cittadine.
96 Tutti gli scrittori lo confermano. - E però all' abate Richard
la politica della Serenissima sembra " le chef-d' oeuvre de l' esprit
républicain „: II, 430. " C est là „ esclama commosso " qu' on trouve
la réalité de cet amour de la patrie, chanté depuis si long-temps,
loué partout, dont par-tout on croit étre anime, et qui n' a nulle part
des efforts plus sensibles qu* à Venise, où le citadin employé dans
les affaires subalternes est anime du méme esprit que le noble; où
le peuple par une soumission que 1' on peut dire aveugle, une admi-
ration, un respect et une satisfaction égales, seconde les soins et les
travaux des uns et des autres „: I, p. LUI (v. anche II, 218 e 444).
97 Si rileggano le pp. 225-237 delle Memorie del Curti, t. I. Io mi
valgo soprattutto del capitolo di Lamberti intitolato // carattere delle
varie classi della popolazione veneziana (li, P. II, capo 4). Dice anche
delle donne patrizie del primo ordine, istruite una buona dozzina,
spiritose tutte, faconde, facili (benché scorrette) nello scrivere. Simili,
ma un po' meno gentili, quelle del secondo ordine; ciarliere intri-
ganti altere e servili le barnabotte. Più costumate erano le dame de*
cittadini, ma anche più superbe e affettate delle patrizie, specie con
le gentildonne povere e con le donne del popolo, le quali ultime si
mostravano vivaci curiose allegre, troppo dolci di cuore: le artigiane
si vantavano di certa rusticità, ed erano madri e mogli migliori; le
borghesi, ben educate, spesso corteggiate da' patrizi, godevano qual-
che potere su di essi.
98 Lamberti, P. I, capo 11; Gio. Rossi, Costumi veneziani (cod.
marciano MCCCXCVI, CI. VII) t. II, 126 sgg.; Romanin, IX, cap. 2.
Per tali feste della Repubblica di cui abbiamo infinite descrizioni,
ricordo il libro popolare della Renier Michiel e rimando all' opera
del Molmenti.
99 Anche Lalande dice che la gondola del Consiglio dei Dieci
" annoncée par une flamme rouge, suffit pour appaiser le désordre le
plus anime „: VII, 38.
100 Bella specialmente, ne' ricordi del Lamberti e della Renier,
quella di Santa Marta, ai 28 luglio.
loi Già il Dotti ci descrive néìV Autunno Venezia fatta deserta
(ed. Ginevra, sat. 23). Si legge negli Annali della città di Venezia, di
Girolamo Zanetti, nel mese di giugno 1766: " Incominciarono le
annue villeggiature estive introdottesi da non molti anni di non breve
durata, e la Città principiò a vedersi vuota di buona parte de* suoi
migliori e più comodi cittadini, i quali come sogliono in questa sta-
gione, passano a Padova a godersi l'Opera in musica e la Fiera „.
E più sotto: « La città in questi giorni rimase al solito scemata de'
suoi migliori e comodi abitatori, portatisi, secondo il costume intro-
dotto da alquanti anni in qua, a Padova e alle villeggiature nella
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO 5I
vicina Terra Ferma. Il Foro in particolare si vide al solito poco men
che vuoto „. Nel Mercurio storico e politico deW ottobre 1734 (Venezia,
Favini) è detto: " Gran parie di questa Nobiltà e Cittadinanza è par-
tita per la villeggiatura, cosicché restano chiusi tutto cotesto mese li
Tribunali e li Magistrati „ : pp. 2223. Vedere passim ì Notatorj del
Gradenigo e le lettere di Gasparo Gozzi. Non occorre ricordare come
si esercitasse intorno alle villeggiature la satira, dal Goldoni a Carlo
Gozzi (la Tartana), dal conte Gasparo all'abate Chiari {Commedie da
camera, t. I: La villegg.)) si legga pure La. villeggiatura moderna fra
i Ritratti critici di Giuseppe Manzoni veneziano (Venezia, 1780,
pp. 153-4) e più tardi, Lamberti stesso: Le stagioni: U autuno citadin.
Giova piuttosto avvertire come allora non esistesse la cosidetta sta-
gione dei bagni di mare dove accorrono le donne d' ogni età a
lasciarvi i fragili veli del pudore.
103 " ... E sì mo in ancuo Mestre xe deventà un Versaglies in
piccolo „ dice il buon Pantalone goldoniano nella Cameriera brillante
(1754: atto I, se. 5!: " La scomenza dal canal de Malghera, la zira tutto
el paese, e pò la scorra el Terraggio fin a Treviso. La stenterà trovar
in nessun logo de Italia, una villeggiatura cussi longa, cussi unita,
cussi popolada come questa. Ghe xe casini che i par gallerie; ghe
xe palazzi da città, da sovrani. Se fa conversazion stupende; feste
da ballo magnifiche; tole spaventose. Tutti i momenti se vede a
correr la posta, sedie, carrozze, cavalli, lacchè; flusso e reflusso da
tutte le ore. Mi m' ho retirà fra terra „ continua il vecchio Pantalone
" lontan dai strepiti, perchè me piase la mia libertà. Per altro sento
a dir che a Mestre se fa cossazze; che se spende assae; che se gode
assae; e che se fa spiccar el ben gusto, la magnificenza e la pulizia
de tutti i ordeni delle persone che fa onor alla nazion, alla patria e
anca ali' Italia medesima „.
103 Mutinelli, 107-114; Romanin, IX, 18; e meglio di tutti Mol-
menti, voi. Ili, cap. 12. - Il Lamberti, P. II, capo 3, dice che la cena
si faceva poco prima del mattino; poi, al sorger del sole, un' ultima
gita in carrozza, oppure si andava a letto, per alzarsi a mezzogiorno
o un po' dopo. " Quando ha principiato la conversazione „, dice la
cameriera Brigida nelle Avventure della villeggiatura, " io sono andata
a dormire. Hanno giocato, hanno cenato, hanno ritornato a giocare,
«d io me la godeva dormendo. A giorno la padrona mi ha fatto chia-
mare; mi sono alzata, l'ho spogliata, l'ho messa a letto, ho serrata
la camera, e mi sono bravamente vestita „. " Ma che cosa godono i
nostri padroni? „ chiede Paolino. " Niente „ risponde Brigida. " Per
loro la città e la villa è la stessa cosa. Fanno per tutto la medesima
vita „. - Di quella antica e viziata opulenza qualche profumo, ma
troppo carico, raccolse D' Annunzio nelle scene descrittive del Sogno
d^ un pomeriggio d^ autunno; e la tristezza del paesaggio presente in
qualche pagina del Fuoco.
52
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO
104 Confessa il Lamberti che i Veneziani tornavano in città senza
aver visto un frutto pender dall'albero, un grappolo dalla vite; senza
sapere se le messi fossero mature o già raccolte. Questa assenza del
sentimento della natura nel secolo XVIII, prima di Rousseau, fu assai
bene avvertita dai fratelli Goncourt, 442-447.
105 II popolo minore s' accontentava, nelle feste, degli orti della
Zuecca, o spandevasi in allegri garangheli sul Lido, a Fusina, a
Mestre, a Campalto, dove sull'erba si mangiava, si beveva, si faceva
un ballo, per ritornare poi la sera a Venezia sulle peote illuminate,
fra grida di evviva. Resta un' eco dei baccanali nei canti raccolti dal
Malamani (parte II, num. 162-168; e in alcune pagine del Lamberti
(specialmente parte II, capo 3: v. anche Romanin, IX, 18191.
106 L' angustia delle vie è carattere generale di tutte le città nei
tempi passati; eppure lo stesso Goethe a Venezia restò meravigliato.
Si lagna poi delle immondizie, mentre loda le strade lastricate e il
suolo ricoperto, almeno di mattoni, anche ne' più lontani quartieri.
107 Lamberti, Romanin e tutti ricordano il codega col suo feraletto :
ma la Piazza aveva, se si badi al tempo, una splendida illuminazione,
e così le Mercerie, per i molti negozi (Goldoni, Mémoires, i^ Partie,
eh. XXXV; e Romanin, IX, 21) e Rialto per misura di sicurezza. Nel
1730 i fanali pare fossero 800, nel '55 circa 1400, ma assai più se si
aggiungano quelli mantenuti dai privati; dopo il '75 aumentarono
quasi a 2000: cfr. Malagola, U illuminazione della città di Venezia
fitto al cadere della Repubblica, in Gazzetta di Venezia, 1900, n. 360.
Nel gennaio del '53 ne furono appesi agli archi laterali esterni della
chiesa di San Marco per impedire ivi di notte ogni " riduzione so-
spetta o scandalosa, o di maschere o di altro „; e uno bello e " mo-
derno co' specchi „ fu posto nel gennaio del '58 sotto 1' arco dell'ab-
bellita Torre dell' Orologio „ : Gradenigo, Notatorj. - Si sa che le vie
di Roma per tutto il Settecento restarono al buio (ne parlano tutti i
viaggiatori: vedasi poi Bandini, Roma al tramonto del Settecento, in
Collezione settecentesca, Sandron, 1922, cap. II), che gli scarsi lumicini
accesi davanti a qualche Madonna accrescevano, più che non inter-
rompessero, la tenebra (Coyer, Voyage cit., I, 202; mentre a Venezia,
dice l'abate francese, le calli " sont eclairées, ce qui n' est pas com-
mUn en Italie „: II, 77). Pietro Verri nel '71 scriveva da Milano al
fratello Alessandro: " ... E veramente non fa onore all'Italia l'essere
tanto meschini da voler star la notte fralle tenebre. Credo che anche
Pietroburgo sia illuminato; non restano in Europa che la Spagna, il
Portogallo e noi„: Carteggio cit., voi. IV, p. 141. Ma finalmente nel 1788
ebbe Milano pubblica illuminazione (Cusani, De Castro ecc.), mentre
a Bologna e in altre città continuava a regnare 1' oscurità completa,
e si puniva con un' ammenda chi uscisse di notte senza lanterna.
108 Giustina Renier Michiel, nipote del Doge, e ultima figlia della
grande Repubblica di San Marco, scriveva con voce accorata ai 13
VENEZIA NEL PERIODO GOLDONIANO 53
maggio del 1807 a Saverio Bettinelli, già quasi novantenne: " Venezia
m'apparve sempre più bella e maestosa... Per altro essa va ogni
giorno alla sua distruzione. Lasciamo il morale; ma il materiale
stesso in tutto cangia d'aspetto... La famosa chiesa di San Geminiano
nella Piazza di San Marco, rimpetto alla gran chiesa, fabbrica di
Sansovino, e tale che egli preferì di essere sepolto colà, come il suo
capo d* opera d' architettura, questa verrà demolita, distrutta, per
formare 1* ingresso, la scala regia, che condur deve al palazzo Impe-
riale nelle Procuratie nuove. Un moderno architetto tanto osa pro-
porre, disprezzando quell'opera insigne! „: Lettere inedite della N, D.
Giustina Renier Michiel ecc. Venezia, 1857, pp. lo-ii.
109 " Decretò il Senato che le Botteghe da Caffè nella Dominante
non eccedano il numero di 206, siccome esistono in presente „: Gra-
denigo, Notatorjj 4 ott. 1760. Non dobbiamo credere, in generale, alla
" sudiceria „ dei caffè e dei teatri veneziani che offendeva il Baretti :
vedasi più indietro, nota 16.
110 E anche nei rii, perchè 1' uso della gondola era molto comune
nella classe nobile e nell'agiata: le calli e i ponti servivano special-
mente per i modesti borghesi e per il popolo minore. Con V esage-
razione propria de' forestieri, dice T abate Coyer: " On oublie ici de
marcher, il n' y a que le peuple qui fasse usage de ses pieds... Tout
ce qui n' est pas peuple, est apporté par les gondoles aux portes ou
r on peut entrer: cet équipage n' est pas cher: aux prix de quatre
livres par jour, on a une gondole à deux rameurs, et on se trouve
de niveau avec les premiers de la Ville „: II, 77-78.
Ili « In Venezia è veramente cosa piacevolissima il fare in gon-
dola, nelle notti di estate, il giro delle lagune, e 1' udire mille dilet-
tevolissimi concerti. Queste serenate non sono mai interrotte da
alcun disordine; è la sola musica che gl'Italiani godono in silenzio,
come se temessero di turbare la quiete e il riposo della notte „:
Baretti, Gì' Italiani ecc.; vers. cit., 138-139. Si ricordi Goldoni, nelle
sue Memorie italiane, in Opere complete, Venezia, 1907, voi. I, p. 97.
Si legga poi Malamani, prefazione alla seconda parte, La musa po-
polare e pp. 308-310. I componimenti raccolti nel bel volume, che
facilmente potrebbero crescer di numero, agili tutti di metro, dolci
di cadenza pur senza la musica, vivaci di dialetto, svariati di forme,
così liberi d' arcadia e pur così settecentistici, ma specialmente così
veneziani, sebbene sovra un antico e comunissimo fondo popolare di
immagini, furono scritti e cantati intorno al periodo goldoniano; e
di averli creati è un altro vanto di Venezia, a quel tempo. - Disse
poi molto bene, più tardi, la Stael che a Venezia non si avverte
come nelle altre città ciò che ha di volgare il vivere quotidiano:
" Les canaux et les barques font un tableau pittoresque des plus
simples événemens de la vie „ [Corinne, 1. XIV, e. 8).
LA' VENEZIA DEI VIAGGIATORI
NEL SETTECENTO
^
Nella folla dei viaggiatori italiani e forestieri che visitarono
Venezia nel Settecento e ci lasciarono qualche memoria, si
distingue e piace ancora oggi 1* abate francese Richard, non per
merito alcuno di narratore o di descrittore, non per finezza e
originalità d' osservazione, e nemmeno per maggior pregio o
esattezza di notizie, ma perchè si accontenta di guardare e di
ammirare, senza la solita petulanza, senza ostentazione di bello
spirito, senza la pretesa di criticare e di correggere, anzi indul-
gendo, con animo disposto a simpatia, ai difetti della vecchia
gloriosa repubblica. In vero chi lo crederebbe? Toccò proprio
a qualche suddito di Luigi XV o a qualche soldato di Fede-
rico II di strillare di più contro la tirannica potenza dei Tre
Inquisitori e di inorridire della corruzione veneziana: era quel
tempo che precedette la Rivoluzione, quando tutti avevano in
capo costituzioni nuove e perfette da regalare alla Polonia, alla
Corsica o alle colonie d'America; tutti sapevano suggerire un
piano di riforme per la repubblica di S. Marco, o addirittura
tenevano pronto, come pure vedemmo ai nostri giorni, un pro-
getto infallibile di pace perpetua e di ricchezza universale.
L'abate Richard capitò a Venezia pochi giorni dopo che il
Goldoni n'era partito per sempre, nel maggio 1762, e assistette
ai solenni funerali del doge Loredano. Morì questo principe alla
vigilia della grande festa dell'Ascensione (della Senso), ma per
non turbare i primi giorni della famosa fiera e non danneggiare
tanti cittadini, fu taciuta la notizia fino ai 24: cosa tanto più
facile, perchè del Loredan non sopravviveva da alcuni anni che
un'ombra, si può dire, sperduta nell'interno del gran Palazzo ^,
e tra il popolo correva la leggenda che fosse spento da un
pezzo. Le pubbliche esequie ebbero luogo il giorno 27 ; e più
di tre ore durò la marcia del convoglio funebre dal Palazzo
58 LA VENEZIA DEI VIAGGIATORI
Ducale alla chiesa dei SS. Giovanni e Paolo. Precedevano, se-
condo il costume, tutte le Scuole religiose con le aste d'argento
e coi pennelli, le cinque Scuole grandi coi doppieri e, in mezzo^
i chierici somaschi, i gesuiti e i teatini, poi tutto il clero rego-
lare e secolare, i padroni di navi e le maestranze dell'Arsenale
con i ceri accesi : seguiva quindi Io scudo del doge col Leone
avvolto in un velo nero, la bara coperta di panni dorati, la
statua di Sua Serenità e il baldacchino d'oro, come usava, fra
duecento aste d'argento della scuola di San Marco e altrettante
torce. Seguivano ancora con le torce i figli e le figlie dei quattro
Ospitali, la Corte alta del Doge a lutto, pure coi ceri accesi, i
Notai della Cancelleria Ducale, i Segretari del Senato, i tre
Avogadori di Comun (in luogo della Serenissima Signoria che
non poteva abbandonare il Palazzo), il fratello del doge con i
Senatori in toga nera e coi nobili in lunga veste di scarlatto.
11 magnifico corteo fece prima il giro della Piazza al rintocco
delle campane e davanti alla maggior porta della chiesa di San
Marco la bara per ben nove volte fu, secondo il rito, sollevata
in alto e abbassata fino a terra =. I cappucci piramidali e gli
interminabili strascichi dei parenti del Doge destavano curiosità^
se non ilarità, nella folla che gremiva i cantpiy le calli e le
finestre delle case 3.
Il 31 maggio, a mezzogiorno, una scarica generale delle
artiglierie del porto, dell'arsenale e delle galere annunciò al
popolo l'avvenuta elezione del doge Marco Foscarini. Tra i
festeggiamenti consueti, l'abate Richard ricorda i fuochi artifi-
ciali nel mezzo della Piazza e il ballo solenne in una sala del
Palazzo Ducale. E sempre interessante e piacevole vedere quali
apparissero agli occhi d' un forestiero le donne veneziane del
tempo. " Tutta la Signoria è presente „ scrive l'autore, " in
vesti rosse e con grandi parrucche ; vi sono pure le gentildonne
veneziane magnificamente abbigliate. La loro veste è fatta a fog-
gia di corpo attillato {en corps de jitpe jttste à la taille), con una
specie d'abito o di mantello di taffettà nero dalle maniche cor-
tissime attaccato al di dietro, in modo che lascia scorgere la
figura e la bellezza della stoffa della veste. Esse abbagliano^
tante sono le perle e i diamanti. Una cosa singolare notai nel-
l'acconciatura di gran parte di queste dame: i fili di perle e
diamanti che la formavano erano intrecciati fra loro sì da somi-
gliare a un diadema. Quelle che hanno una bella statura e una
figura nobile, mostrano veramente, in così splendido ornamento^
NEL SETTECENTO 59
l'aria di tante regine „ 4. Apersero il primo ballo il principe del
Wiirtemberg, ospite allora a Venezia, e Giustiniana Wynne
contessa di Rosenberg, giovane moglie dell'ambasciatore cesareo.
" Tutto si svolgeva con molto ordine: l'orchestra era numerosa
e ben composta, la sala magnificamente illuminata; di tratto in
tratto gli ufficiali del nuovo doge presentavano rinfreschi d'ogni
specie. Questi balli sono dei nobili spettacoli, degni della gra-
vità d' una saggia repubblica la quale autorizza la gioia comune
partecipandovi, e non quelle assemblee tumultuose e chiassose^
conosciute altrove sotto il medesimo nome. L'abbigliamento
nobile e acconcio delle donne, la veste maestosa dei senatori
che danzano di continuo il minuetto, una folla di stranieri in
abiti ricchi e brillanti, tutto l' insieme forma uno spettacolo unico^
di cui non si può godere che in tale occasione „ 5.
L'abate Richard ammira, come ho detto, la repubblica di
Venezia, " 1' unico stato del mondo in cui il pubblico governo
goda d' un rispetto universale che si manifesta esteriormente^
sì che non avviene mai di udire il più lieve mormorio contro
quelli che tengono il potere; l'unica parte del mondo in cui le
pubbliche leggi siano sempre eseguite a dovere „ : ma si per-
mette di esagerare sulla misteriosa severità dei tre Inquisitori,
sulla onnipresenza delle spie, sul geloso silenzio del Senato
intorno agli affari politici. Il Settecento, a differenza del secolo
precedente, è in Italia il secolo delle libere espansioni, della
confidenza; e anche a Venezia molte cose erano cambiate o
modificate da quando scriveva le s/^«r Amelot de la Houssaye,
l'unico informatore di tutta Europa, dopo il 1677, intorno al
governo veneziano. Anzi a Venezia, più che altrove, c'era quasi
un' aria di famiglia in tutto il popolo, nella vita pubblica e nella
privata, grazie al carattere, ai costumi e all' uso stesso della
maschera. Tutti sapevano i nomi dei terribili Inquisitori e nes-
suno temeva l' ingiusto abuso o rigore del loro potere : le spie
non erano numerose ne pericolose: certi segreti di stato trape-
lavano più che non si creda fra il pubblico e se ne parlava in
ogni angolo della città, né sempre a bassa voce, come ebbe
occasione di notare un altro viaggiatore francese, il Grosley,
nell'agosto del 1758 6. Amelot dopo la guerra di Candia, Mon-
tesquieu dopo la seconda guerra della Morea, Moore e Filati e
Archenholz nel 1775 avvertono i segni visibili della decadenza
politica ed economica della Repubblica, ma nel 1762, mentre
r Europa stanca chiedeva la pace, Venezia appariva risanata in
6o LA VENEZIA DEI VIAGGIATORI
parte delle antiche ferite e ostentava in nuove manifestazioni
<ii vita e di bellezza V inesausta fecondità e genialità del suo
popolo. Tanto che il Richard non esitava ad affermare che, di
tutte le repubbliche, Venezia era la sola che avesse avuto una
sì lunga durata " e che fosse ancora in un grado tale di potenza
€ di vigore da non lasciar intravedere nulla che annunciasse la
sua decadenza „ 7.
Al governo veneziano si imputavano, fra i principali difetti,
la irresolutezza, la lentezza delle deliberazioni, una diffidenza
generale che talora degenerava in pusillanimità, in fine un sor-
dido amore al risparmio che aveva spesso cagionato delle per-
dite gravi 8, ma il Richard era di avviso che tali accuse meri-
tassero un lungo esame, dovendosi distinguer bene, se anche
fossero state vere, ciò ch'era insito nello " spirito repubblicano „
di cui la politica veneziana poteva proclamarsi " il capolavoro „ 9.
Qui invero non era permesso ad un nobile di acquistare sover-
chia popolarità, di sollevarsi troppo sugli altri, poiché la legge
€ra pronta a colpire chiunque. " De V égalité partout, e' est ce
que r on veut à Venise „ '°. Si rimproveravano i Veneziani di
essere più sensibili alle ingiurie che ai benefici ricevuti, di essere
vendicativi, astuti, simulatori, superbi : ma la simulazione, con-
tinua Richard, è un abito o una qualità indispensabile a una sì
fatta forma di governo, l' ingratitudine è per proverbio il vizio
dominante delle repubbliche, e quanto all'orgoglio, perchè non
dovrebbero averne i nobili veneziani, ripensando ai grandi e
innumerevoli servigi resi senza interruzione dai loro avi alla
patria, per tanti secoli? Sì che all' abate francese pareva che
Venezia fosse veramente degna di essere scelta quale areopago
della politica europea ".
" Non e' è popolo in Europa più contento del proprio stato „,
conferma il nostro autore, " più attaccato ai propri sovrani, o
che più del Veneziano ammiri la patria e gli usi in essa sta-
biliti „ ". Di questa felicità del popolo nella Dominante e, con
rare eccezioni, in tutta la terraferma, punto tiranneggiato, non
gravato da soverchi pesi, convinto della bontà del proprio go-
verno, circondato da popolazioni oppresse, ignaro degli altri
paesi più lontani, molti viaggiatori ci parlano, come ad esempio
il Montesquieu, l'abate Coyer, il dottor inglese Maihows, il
dottor scozzese Moore, e, negli anni estremi, il poeta spagnolo
Leandro de Moratin. A Venezia, grazie ai buoni ordinamenti,
l'artigiano trova lavoro e guadagni, derrate abbondanti e a
NEL SETTECENTO 6l
buon prezzo: trova giitstizia iii Palazzo e pane in Piazza, se-
condo r antico detto ^3. Né le campagne sono avare al contadino
che le lavora, anzi la bellezza del percorso da Verona a Pa-
dova, che parve tutto un giardino al reverendo Burnet, dottore
anglicano, strappò in ogni tempo parole di entusiasmo ai pas-
seggeri ^4.
Città che non ebbe mai " altri padroni all' infuori di quelli
che l'hanno fondata,,, unica al mondo per sito, Venezia non
presenta a chi vi giunge il solito severo aspetto di mura, di
bastioni, di batterie, ma si offre d' ogni parte liberamente ^5.
Eppure a più d' uno ispira una vaga malinconia ^6. La gondola
è la sua carrozza ^7. I gondolieri, dice Richard, " sono vestiti
con molta semplicità, una specie di farsetto alla mannaia {ime
veste JHste à la matelotte), ampi calzoni (nne grande ctilotte) e
un berretto rotondo di stoffa, secondo la stagione „ ^^. Grosley
li ha più a lungo studiati e ne parla con simpatia: " Costoro
si considerano come il secondo corpo dello Stato, e i difensori
naturali del primo corpo se mai insorgesse qualche rivolta contro
di esso, mentre se ne sta chiuso in Palazzo... Ministri o confidenti
nati dei piaceri dei nobili e spioni del Governo, ognuno di essi
credesi addentro ne' segreti dello Stato „. Fratello è il termine
familiare con cui si trattano e si salutano. Quando un canale
trovasi ingombrato dalle gondole, " Fradel, si dicono l' un 1' altro,
non travagliar f non strascinar i poveri cristiani! „. Quale dif-
ferenza dalle ingiurie che vomitano cocchieri e carrettieri a
Parigi! " Questi gondolieri sono una razza d' uomini ben tagliati,
vigorosi, assai svelti, i quali partecipano della gaiezza veneziana.
Poiché passano la maggior parte della vita quasi a quattr' occhi
coi nobili, coi cittadini più onorati e coi forestieri più ragguar-
devoli che avvicinano tutti i giorni, concorrono spesso con le
loro facezie alla conversazione, „ anzi godono a questo propo-
sito d' una certa libertà di parola ^9.
Scendiamo ora in Piazza, tutta selciata di recente con bel-
lissime pietre dell' Istria ^°. " Colà, dice Richard, radunasi la
nobiltà a tutte le ore; e il popolo veneziano eh' é molto sotto-
messo a' suoi signori, vi gode il piacere di vederli e di salutarli.
Vi si incontrano genti di tutte le nazioni, di tutte le lingue, di
tutte le fogge, e ciò forma uno spettacolo che si rinnova a ogni
istante e che serve di piacevole trattenimento per una popola-
zione che vive in un cerchio di idee naturalmente molto angusto,
ma che sembra ingrandirsi in quella piazza: tutto dunque fa
62 LA VENEZIA DEI VIAGGIATORI
capo colà „ 3'. Anche De Brosses nella state del '39 la trovò
sempre piena di gente, e la sua descrizione, per quanto cono-
sciuta, non si rilegge senza piacere:
" Le vesti dei magistrati, i mantelli, le vesti da camera, i
Turchi, i Greci, i Dalmati, i Levantini d' ogni specie, uomini e
donne, i palchi dei venditori d' orvietano, dei ciarlatani, dei frati
predicatori e dei burattini: tutte queste cose, dico, riunite insieme
a tutte le ore, ne fanno la più bella e la più curiosa piazza del
mondo, soprattutto per la svolta che fa ad angolo retto vicino
alla chiesa di San Marco, in quella parte che chiamano broglio.
È questa un'altra piazza più piccola della prima (Piazzetta),
formata dal palazzo di San Marco (Palazzo Ducale) e dalla
svolta delle Procuratie nuove. La chiude il mare che in questo
punto si allarga. Di là si scorge una mescolanza di terra, di
mare, di gondole, di botteghe, di navi, di chiese, di gente che
parte e di gente che arriva a ogni istante. Io ci vado almeno
quattro volte al giorno per goderne la vista. I nobili passeggiano
in uno dei lati di questa piazza tenuto sempre libero, dove
ordiscono i loro intrighi „ ^^.
L'abate Coyer, durante la fiera dell'Ascensione del 1764,
osservò con curiosità il popolino accalcato intorno ai palchi dei
ciarlatani e dei cantastorie che gremivano la Piazza: " Si ve-
dono ciarlatani e saltimbanchi d' ogni genere : indovini (diseurs
de bonne aventure, volgarmente strologhi) che attraverso una
lunga canna affidano i loro oracoli all'orecchio dei curiosi. Non
bisogna credere che tali predizioni siano un semplice scherzo
per il popolino curioso: lo stupore, lo spavento o la gioia si
dipingono sui volti. Si vedono pure dei burattinai (polichinels)
e dei predicatori che sembrano fare a gara a chi avrà più se-
guito; ma tra i ciarlatani più degni di nota sono i cantastorie
{les racontenrs), uomini del volgo, i quali con frasi scelte e con
viva enfasi raccontano mille avventure meravigliose, tragiche o
comiche: il popolo qua e là sparso con gli occhi fissi sul nar-
ratore, a bocca aperta, immobile o trattenendo il respiro, è come
incantato per due o tre ore di seguito „ **3. Questi narratori di
piazza formarono la delizia del Grosley che si recava qualche
volta a udirli in compagnia di Carlo Goldoni nell'agosto del 1758,
e li dipinse fedelmente. " La piazza di San Marco ci rivedeva
tutte le sere. Era occupata nella stagione estiva da cantastorie,
specie di ciarlatani, mezzi nudi, i quali in termini scelti, con
parole schiette, e con azione, calore ed enfasi tragici, raccontano
NEL SETTKCENTO 63
mille avventure meravigliose. Ogni racconto dura quanto piace
a colui che parla. Il popolo radunato intorno a lui, con le braccia
incrociate, a gambe larghe, con gli occhi bassi, ascolta con la
maggior attenzione. Davanti al cerchio, i ragazzi accosciati fra
le gambe degli uomini, prestano la massima attenzione; spesso
i nobili e altre persone civili ingrossano la folla. Due volte
m' accadde d' essere per primo l' oggetto di questi racconti. 11
narratore m* arrestava dicendomi ; Signoi', che ascolti una gran
cosa, mia cosa stìipenda\ poi s'allontanava da me parlando o
piuttosto urlando come un energumeno, e a poco a poco, insen-
sibilmente, il cerchio si formava. Nessuno meglio di Goldoni
sapeva imitare le arie, il tono e l'enfasi di cotesti ciarlatani:
è questo il suo personaggio favorito quando vuol partecipare
alle feste che offre la nobiltà veneziana nelle belle villeggiature
sulle rive della Brenta „ »4.
Ma più vario era lo spettacolo durante il carnovale che
incominciava propriamente il giorno di Santo Stefano, quando
si riaprivano, dopo la novena di Natale, tutti i teatri e ricomin-
ciavano i giuochi " nel gran Ridotto a San Moisè „ =5, " La
gran folla delle maschere „ scriveva nel i688 Massimiliano
Misson " è in piazza San Marco, dove qualche volta è tanta
che non ci si può muovere „ '^. Ognuno deve interpretare il
personaggio di cui indossa l'abito, " poiché gli Arlecchini, per
esempio, quando s'incontrano, s'attaccano e si dicono cento
buffonerie; i Dottori disputano, gli Spacconi {Ics Fanfarons)
fanno delle smargiassate e così gli altri. Quelli che non vogliono
fare la parte di attori su questo grande teatro, indossano la
veste di nobili {nobilomeni). Anche le donne si vestono come
vogliono, alcune con abbigliamenti magnifici. La piazza si riempie
a un tempo di burattini, di funamboli e d'altrettali genti, quali
vedete formicolare alla festa di San Bartolomeo „ a Londra.
Più piacevoli certi " indovini e strologhi che sono circondati
sul loro piccolo teatro da un' infinità di sfere, di globi, di figure
astronomiche... - In queste occasioni si spinge agli estremi il
libertinaggio consueto, si ricercano con più eccesso tutti i pia-
ceri, ci si immerge in quelli fino alla gola „. On s' y plonge
jusqit à la gorge, esclama non senza esagerazione il noto scrit-
tore protestante, già Consigliere del Parlamento di Parigi; e
aggiunge : " Tutta la città è travestita. Anche il vizio e la virtù
si mascherano più che mai, cambiando nome e uso. La piazza
di San Marco si riempie di ciarlatani d' ogni sorta. I forestieri
l
64 LA VENEZIA DEI VIAGGIATORI
e le cortigiane accorrono a migliaia a Venezia, da ogni angolo
d'Europa: è un trambusto, una confusione generale: si direbbe
che il mondo sia impazzito tutt' a un tratto. È vero che il furore
di questi baccanali non giunge subito all' estremo e e' è nel
principio qualche moderazione; ma quando si sente avvicinare
la minaccia del fatale mercoledì che impone a tutti quanti il
silenzio, è allora che tutto è veramente carnevale, senza più
alcuna riserva „ ^7.
Ma questa fantastica e pittoresca follia durava, ripetiamo,
soltanto qualche giorno =8. La maschera, divenuta sempre più
uniforme, serviva nel Settecento al patrizio che non voleva
essere riconosciuto e desiderava sottrarsi per qualche ora aila
severità imposta al proprio grado, serviva a liberare la donna
dalla schiavitù antica ^9. " L' abito di maschera „ dice Lalande,
" consiste in un mantello veneziano qualche volta grigio, ma più
spesso e quasi sempre nero: questo mantello è di seta. Si pone
sul capo una specie di mantellina di velo (carnati de gazé) e di
merletto nero, detta bauta, che ricopre il mento fino alla bocca;
il resto del viso è coperto da una maschera bianca, o volto^ che
va fino alla bocca senza tuttavia ricoprirla, e sì tiene ferma per
mezzo del cappello, guarnito di solito di un pennacchio bianco.
I Veneziani calcano i loro cappelli fino sugli occhi della ma-
schera... Tale travestimento è comune agli uomini e alle donne:
le quali non si distinguono che dalla gonna che scende oltre il
mantello „ 3°. A ragione V abate Richard vi trovava certa gra-
vità e monotonia.
Tutte le sere, specialmente la festa, facevasi il passeggio
in Piazza, ossia il famoso Liston 3^, dove le maschere sfoggia-
vano la bizzarria e l' eleganza delle mode, mentre cavalieri e
dame, seduti al caffè, riempivano tutto il tratto lungo le Pro-
curatie Vecchie 32. Un sonetto anonimo, intitolato Liston notturno
nella Piazza di San Marco, così c'invita nel 1748:
Chi vuol goder un nobile sollazzo
Vaga in Piazza la sera a spassizar:
Là se vede el bel mondo messo in chiazzo,
El lusso e la lussuria a tripudiar.
Là i omeni e le donne messe a mazzo,
Chi sta in pie, chi sentai, chi a caminar,
Chi beve el so caffè, chi roba in giazzo,
E chi a tutte de naso ghe vuol dar... 33.
N1;L bEili^CliNTO Ó5
Un altro, probabilmente dello stesso autore 34, lamenta quella
mescolanza delle classi sociali:
O che liston la seral tutti a mazzo
Le dame e i cavalieri, che sollazza
In circoli sentai, che i beve in giazzo,
E i forma un arcipelago la Piazza.
Sta moda è bella, ma xe un gran strapazzo
Missiar con dame qua la putt...
Esposta a comparir col so mustazzo,
Senz' aver distinzion da razza a razza...
Ben a costui replicava sboccatamente un seguace del Baffo, o
il Baffo stesso, ricordando che una volta si faceva anche peggio,
e giustamente ammoniva:
Fin che publico xe el divertimento
No gh*è mai certo mal, a mi credèlo;
Da quel vardève che se fa de drento... 35.
Vien voglia di udire anche certo scrittore di romanzi, il
quale fa parlare in questo modo un suo personaggio; " Non
ho potuto mai adattarmi all' uso delle vostre maschere. Così
coperto di nero, e con una faccia di bianchissima cera, mi sem-
brava d' essere una larva notturna da spaventar i fanciulli, anzi
che una persona in chiasso per divertirmi. Mi sono meravigliato
di vederne talvolta nella gran Piazza una quantità innumerabile,
a passeggiare in quel limitato spazio che si chiama listone.
Negli altri siti era vuoto di gente, eppure, come se non ci fosse
stato altro loco, tutte le maschere giravano e rigiravano nel
listone j senza mai oltrepassarne i confini, a costo di soffocarsi
nella calca ondeggiante. L'una s'urtava nell'altra, si premevano,
si rovesciavano, si cacciavano i gomiti nello stomaco, ma tutto
finiva col trapassare e darsi una scambievole occhiata „. Pare
impossibile! anche questo futuro democratico si lagna dell'in-
solenza non dei patrizi, bensì del popolo: " I nobili sempre
nobili sono in qualunque forma si cangino: ma la plebe, che
dall' uso delle maschere gode de' lor privilegi, diventa inso-
lente, temeraria, insoffribile. Voi lo saprete meglio di me che i
giovani di bottega, i servitori, gli ebrei sono appunto coloro
che con quindici soldi di incerata tela sul volto, si fanno far
largo da tutti, menano più romore degli altri, e fanno a mano
G. Ortolani. 5
66 LA VENEZIA DEI VIAGGIATORI
salva de' torti agli uomini onesti. Gli uni co' soldi della sac-
cheggiata cassetta, gli altri colla roba de' loro padroni, e i terzi
poi coir usure, si mettono in istato di gareggiare co' più ricchi
signori, e guai a chi urta loro ne' piedi „ 36.
Per contro il buon Gradenigo si compiace dello spettacolo
carnevalesco: " Si passeggia la Piazza dalla parte delle Pro-
curatie Vecchie „ dice nel '59 " come il sito la mattina più so-
leggiato, e verso sera il meno umido e più salubre della Piazza.
In ogni parte poi della quale, massime nelle susseguenti giornate
festive, il popolo si divertisce secondo il proprio genio, ammi-
rando la varietà de' vestiti, l'arte delli istrioni, la sagacità de'
ciarlatani „. Nota ne' suoi diari " la prodigiosa vendita de' stabili
caffettieri e la innumerabile qualità di robe mangiative, saporose
e dolci, esibita da non pochi scaletteri {ciambellai), pasticceri,
fruttaroli, naranceri {venditori d* arance), oltre a' quali non tra-
lassaremo di riflettere le ridicole indovinazioni delli astronomi
d' ogni sesso, e li susseguenti inviti a' casotti di animali vari
e selvaggi, di apparenze, di ballarini sopra la corda, di bestie
ammaestrate, di stanze optiche, di burattini, e di tante altre
maniere di attrarre dinaro „ 37. Scelgo finalmente la descrizione
del dottor Moore che visitò Venezia nel gennaio del 1775: " Il
dopopranzo la piazza di San Marco è occupata da una folla di
ebrei, di turchi e di cristiani; di avvocati, di birbe e di bor-
saioli ; di ciarlatani, di vecchie e di medici ; di gentildonne in
maschera e di cortigiane a viso scoperto, in una parola d' un
tal miscuglio di senatori, di cittadini, di gondolieri e di gente
d' ogni nazione e d' ogni stato, che le idee si confondono del
tutto : si è talmente calpestati, stritolati, slogati che riesce quasi
impossibile di pensare o riflettere a nulla; tuttavia, abituan-
dosi molti facilmente a sì fatto tumulto, non è meraviglia che
ci sia sempre tanta gente in quella piazza : anzi quando le notti
sono belle, non temono certuni di passarle colà interamente.
Quando essa è illuminata e sono pure rischiarate le botteghe
delle strade vicine, 1' effetto è bellissimo ; e così le dame, come
i cavaheri, si recano per uso ai casini e ai caffè che la circon-
dano. La piazza di San Marco compie assolutamente la stessa
funzione che Vauxhall e Rannelagh „ a Londra 38.
Ma non si può conoscere il carnevale veneziano senza vi-
sitare il famoso Ridotto, pochi passi lontano dalla Piazza. Fac-
ciamoci questa volta accompagnare da un curioso dottor di legge
napoletano, o piuttosto calabrese, che capitò sulle lagune nel 1686
NEL SETTECENTO 67
e si preparava a fare, qualche anno dopo, il giro di tutto il
mondo. " Giacché ho mentovato il Ridotto „ scrive nelle sue
lettere di viaggio Don Giovanni Francesco Gemelli Careri, " do-
vete sapere che il ridotto, altrimenti detto casa del diavolo^ vai
lo stesso che un palagio nelle cui stanze siano circa cento tavole
di giuoco, che rendono alla Repubblica ben centomila scudi
l'anno. Si ricava tanto danajo delle carte e lumi, pagati da*
nobili, a' quali solamente vien conceduto il tener banco. Or
quivi suU' imbrunire si ritirano tutte le maschere (imperocché i
soli nobili e principi assoluti ponno entrarvi altrimente) e si
giuoca d' ordinario alla bassetta. Il tutto fassi alla muta, ponen-
dosi quella quantità di moneta che si vuol perdere (per dir
così), sul punto trascelto; e segnandosi ogni altro occorrente
con pezzetti di carta; e nella stessa guisa chi vince é, senza
alcuno indugio o controversia, pagato. Egli è certamente un bel
vedere tante strane foggie d' abiti e di parlari, e '1 tenersi da'
giocatori così poco conto de' zecchini, e talvolta di tutto il lor
patrimonio „ 39.
E ora col medesimo compagno torniamo in Piazza a dare
un' occhiatina ai passatempi del giovedì grasso che d' anno in
anno si ripetevano. " Quanto agli spettacoli pubblici, „ racconta
il nostro Gemelli, " avete a sapere che il più gradevole a' Ve-
neziani si é il giuoco de' tori; ma non miga alla spagnuola,
che non sono già eglino tanto tondi di pelo che voglian porre
in paragone la destrezza degli uomini colla ferocia delle bestie.
Altro adunque non fanno che trascinar per la città alcuni bovi
ligati, e farli morir di spasimo, a colpi di bastonate e morsi-
cature di cani. Non vi par questa una gran valentia, o almeno
un bel trastullo? Nel Brojo (Broglio o Piazzetta) però si fece
giovedì un non so che di buon gusto: cioè le forze d'Ercole
degli uomini di Castello, che in vero mostrarono grande agilità
e valore. Uno di essi, oltreacciò, con un sol colpo recise il
capo a due tori : e finalmente si vide montar dal mare fin sulla
cima del campanile un altro toro, ligato a certi legni, con due
persone sopra; ed allo 'ncontro dal medesimo campanile volare
un uomo sino al mare. Si fecero gran palchetti per sì fatto
spettacolo; e v'intervenne sino al Doge col Senato, e gli am-
basciadori de' principi, nobilmente allogati sulle loggie del
palagio „ 40.
Off"re qualche curiosità a questo proposito una pagina poco
ricordata del Casanova. " Le feste che si fanno in Venezia
68 LA VENEZIA DEI VIAGGIATORI
neir ultima settimana di Carnovale, e specialmente nel Giovedì
grasso „ dice nella Confutazione d'Amelot " hanno un non so
che d'incomprensibile che rassembra molto alle Saturnali. Hanno
un carattere di Baccanale antico, che pare ora paganismo, ora
maestosa cirimonia di religione, ora spensierate dimostrazioni
di pazzie nel gusto étW orgie dell'antichità. Si fanno de' giuochi
che rendono assolutamente in que' giorni tutti eguali. Tutti sono
immascherati, non si dorme, non si mangia che malamente, fuora
d' ore, si va a perdere il proprio denaro „ al ridotto per un' in-
certa speranza, mentre " in questo giuoco quello dei due scom-
mettenti che ha il disavvantaggio è quello che sceglie „. " Si
vede nel giovedì grasso, dopo l' ora del pranzo „ continua
r avventuriere non senza enfasi " la venerabile figura del Doge
in maestà accompagnato da' suoi Consigheri, da' Capi di qua-
ranta, da' Capi del Consiglio di X, da' Avvogadori e Censori,
che va a vedere i pubblici giuochi della plebe, quasi meschiato
con essa, e le feste de' tori, e il taglio della testa al toro, che
il braccio vigoroso d' un uomo eseguisce ordinariamente in un
sol colpo di tagliente brando, ed altre cose chiassose, nelle
quali si vede la Nobiltà meschiata col Popolo, il Principe col
Suddito, il raro con l' ordinario, il bello con l' orrido. Non vi
sono quel dì ne Magistrati, né leggi in vigore (che non è però
permesso di violare), né si vedono girare per le strade gli
ordinari esecutori della giustizia „ 4i. " L' ultimo giorno poi del
Carnovale „ aggiunge la Cronaca Veneta " il numero delle ma-
schere é grande, ma non civile, costumando travestirsi la ser-
vitù più bassa delle case, così d' uomini come di donne „ : é la
gran giornata delle massère goldoniane, finché " il suono d'una
campana di San Francesco della Vigna „ annunziando i mat-
tutini, " impone il periodo all' uso delle carni, e alla continua-
zione de' passatempi gioiosi, „ e invita i fedeli a ricevere la
mistica cenere 43. Cessa come per incanto ogni strepito per tutta
la città: l'anima di Venezia si acqueta nel raccoglimento. E qui
lasciamo al Casanova fare un' altra osservazione, quale che sia:
" Quella grande agitazione di corpo che il baccanale porta seco,
non é sovente che un' eccellente medicina allo spirito. Non si
vede mai a Venezia il popolo più savio che nei primi giorni di
Quaresima. Que' bagordi indomiti, que' scatenati piaceri, que'
mangiari e quegli altri gusti che una sfrenata libidine procurasi
senza ombra alcuna d'ingegno, sono discipline ch'estenuando
il corpo svegliano la ragione nello spirito, che spesso una vita
NEL SETTECENTO 69
troppo regolare tiene di soverchio addormentata „ 43. - È degna
dell' autore.
Delle più famose feste della repubblica di San Marco poche
descrizioni ci hanno lasciato i forestieri del Settecento che leg-
gevano il noto libro di Saint-Didier. Sulla fine del secolo deci-
mosettimo Gregorio Leti ci mostra il Doge mentre si reca alle
sacre funzioni col corno ducale sul capo " et il manto reale
superbamente adorno d' oro e di gioie „. " Quando egli esce „
dal Palazzo, " sonano a gloria le campane di San Marco e di
quelle chiese di dove passa; se gli portano dinnanzi alcune
bandiere rilevate in alto; precedono alla sua persona sei trombe
di estraordinaria grandezza con suono concorde; seguita poi il
guanciale con la sedia d' oro per posarsi ne' luoghi dove arriva,
et oltre le trombe accennate vi è ancora la musica con un con-
certo di soavissime voci; li suoi gentil' huomini e corteggiani
particolari vanno dietro conforme al loro ordine. Segue final-
mente il Doge, a cui si dà sempre il titolo di Serenità, sotto
un' ombrella in mezzo due regi ambasciatori e residenti di Pren-
cipi, dietro a' quali seguono trenta coppie de' principali Sena-
tori con le vesti ducali di scarlatto „ 44. " Tra tutti i Prencipi
dell' Italia „ aggiunge poi " non vi è altro che il solo Doge di
Venetia che sta senza guardie, perchè la moltitudine de' Nobili
gli serve di guardia, oltre che 1' affetto del Popolo lo custodisce
ancora benissimo „ 45.
Qualcuno ormai rideva nel Settecento del solenne sposalizio
del mare che si celebrava nel giorno dell'Ascensione {la Sensa),
come per esempio il Gondar e il Casanova, par nobile fratrum.
La marcia lenta e maestosa del Bucintoro sulle acque della
laguna, salutato dal rombo di tutte le campane e di tutte le
artiglierie, accompagnato da due sciabecchi, da due galere e da
altri bastimenti, come ricorda la Nuova Gazzetta Veneta (1762),
commuove l'abate Richard. " La marcia è grave e maestosa „
così egli descrive " e si fa al suono di tutte le campane e al
rimbombo continuo delle artiglierie, si di quelle dei bastimenti
che si trovano nel porto, i quali stanno allineati coi loro sten-
dardi e colle bandiere spiegate, sì di quelle poste lungo le isole
e i castelli che sono dopo San Marco fino al principio del mare
aperto, fuori del porto di Lido, a circa tre miglia dalla città...
Molto contribuisce a rendere più pomposa tale marcia la quan-
tità di peote e di gondole che seguono il Bucintoro. Le gondole
degli ambasciatori che hanno fatto l' ingresso solenne, sono
70 LA VENEZIA DEI VIAGGIATORI
magnificentissinie 46. Quando qualche principe o dei ricchi fore-
stieri vogliono brillare per la pompa, salgono sopra peote
addobbate con gran ricchezza, cariche comunemente a poppa
ed a prora di strumenti musicali. Inoltre le principali isole cir-
costanti a Venezia e le città di Murano e di Torcello mandano
delle peote, a cui bisogna aggiungere da tre a quattromila
gondole, che vanno più o meno velocemente secondo il pia-
cere di quelli che vi sono dentro. Questo singolare spettacolo
ha della nobiltà e della magnificenza. La marcia grave del
Bucintoro e delle galere che l' accompagnano, il rumore dei
cannoni, delle campane, dei corni, delle trombe, il suono acuto
dei pifferi dalle galere, le grida dei gondolieri, il confuso
mormorio della immensa folla degli spettatori, sebbene in uno
spazio amplissimo, tutte queste cose riunite insieme formano
uno spettacolo ben degno di curiosità, di cui difficilmente po-
trebbe dare un' idea la più esatta descrizione „ 47. Solennità
così profondamente e solamente veneziana, sotto V azzurro cielo
di maggio, che parve qualche anno dopo a Lalande simile a un
trionfo marittimo.
La Nuova Gazzetta rievoca pure la piazza " affollata di
maschere et altra gente, che si durava fatica a passarvi
specialmente nel listone di mezzo della Fiera, da noi meglio
conosciuta col nome della Sensa. Nel dopo pranzo poi fu un
bellissimo listone verso le Procuratie Nuove, e si videro abiti
specialmente alle maschere feminine di ottimo gusto e della più
fina galanteria; mentre nel tempo stesso vi fu a Murano un non
minore straordinario numero di barche di ogni sorta al Fresco,
o sia Corso, solito a farsi colà in tale giornata „ 48.
Quanto alla mostra delle merci nel recinto della ^^rrt, specie
di " esposizione „ o di " mostra „ dei vecchi tempi, il Richard
non ne rimase soddisfatto nel 1762: " Le merci esposte nella
piazza di San Marco non offrivano V idea d' un commercio
opulento. Vi si vedevano tele in gran numero e lavori di cotone
di tutti i generi, portati da' Levantini; drappi di seta comune;
chincaglierie d'ogni specie; molte botteghe d'orefici; alcune di
vetri di Murano fra cui una curiosissima „ perchè rivestita inte-
ramente di vetro. " V era poi una gran quantità di quadri me-
diocri e parecchie botteghe di parrucche di tutte le forme e
grandezze. Non bisogna però giudicare da questa mostra il
commercio veneziano eh' è tuttavia considerevole se si giu-
dica dalla quantità di ricchissimi mercanti che lo esercitano „ 49.
NEL SEITECENTO 71
11 buon Gradenigo celebra per contro ne' suoi umili diarii del '66
quella " infinità di botteghe, o dicansi stanze di legname, con
studiata topografia distribuite et elegantemente ripiene di argen-
terie e manifatture di puro oro, gioj e e smalti, cristalli, specchi,
telane, drapperie, ferramenti, stromenti, armi da fuoco, da taglio,
da punta, vestiti per ogni sesso, pizzi e merli manipolati qui,
punti in aria merlati, cotoni, filati et ogni altro genere fino di
montature minute „ so.
Ma è tempo d'osservar più da vicino quelle donne veneziane
che si vedevano passare per la Piazza, alte e ben fatte, con un
fulgore di capelli biondi si e di pelle bianchissima: ciò che ai
forestieri non riusciva facile, per molte ragioni. Prendiamo a
compagno il Pilati, V amico di Caterina Dolfin. " Qui le donne „
racconta nel '69 " vanno al caffè come gli uomini ; però basta
aver conoscenza d' una signora distinta per goder tutto il diletto
che si può trarre dalla società: ella vi fa conoscere i suoi cor-
teggiatori, i suoi amici, i suoi parenti ; e questi vi fanno cono-
scere i loro: andate a trovarli, gli uni dopo gli altri, ai loro
caffè, ai loro palchi, ai loro casini. Inoltre andate a visitare la
signora quando si alza, poiché qui le signore non rifuggono
dalle visite, come gli uomini. Ella verrà perfino a trovarvi nel
vostro alloggio: poi ve ne andate insieme dove volete: la sera
voi la rivedete a piacer vostro, prima del teatro al caffè, e
durante la recita nel suo palco; e se per caso vi annoiate, potete
andarvene presso 1' altre persone di vostra conoscenza. La ma-
schera fu r origine di questa gran libertà di cui godono qui le
donne „ sa. Convien tuttavia ricordare che T autore della Ri-
forma d* Italia e dei Viaggi in diversi paesi d* Europa ha la
testa un po' accesa e incline qualche volta a ingigantire i fan-
tasmi della propria immaginazione, come pur troppo avviene a
molti de' viaggiatori: inoltre dobbiamo avvertire che non tutte
le dame veneziane assumevano i liberi costumi della futura
sposa del Tron; anzi le donne dei cittadini o segretari, come
ben avverte Lalande, vivevano per lo più nelle loro case e non
avevano né cicisbei né casini di conversazione. Si badi che il
costume generale erasi in parte corretto a Venezia. La corti-
giana, decaduta a mano a mano all' infimo posto, non regnava
più nella società del Settecento. La donna, acquistata la propria
libertà, aveva ingentilito gli usi sociali e quasi 1' animo stesso
dell' uomo : alla generale e volgare licenza succedevano gli affetti
particolari, anche se irregolari molto spesso. A questa specie di
72 LA VENEZIA DEI VIAGGIATORI
rivoluzione del costume veneziano il Grosley assegna press' a
poco la data del 1730 53,
" Tempo fa „ continua il Filati " le donne solevano coprirsi
anche la faccia e andavano dove volevano... Ma poi che V uso
frequente della maschera stabilì fra le Veneziane il costume di
poter uscire e di andare dove a loro piace, ora non sentono
più soggezione, e non tengono più il viso coperto ; ma mettono
come gli uomini la maschera sopra il cappello e si lasciano
vedere a faccia scoperta, se pure non abbiano qualche ragione
di far qualche volta altrimenti. Quando non vogliono uscire in
maschera, hanno un altro mezzo di celarsi, di cui si servono
al mattino oppure nel tempo in cui le maschere sono proibite:
si mettono allora in zendado, eh' è un velo di taffettà nero col
quale avvolgono la testa, e che scende loro dietro le spalle fin
sotto la cintura: è un'altra specie di mascheramento molto co-
mune in gran parte d'Itaha, che impedisce di conoscer le donne,
a meno che esse non lo desiderino, e che al tempo stesso fa
un bellissimo effetto „ 54,
Fatta più libera la donna fin dal 1710, i conventi " già
dimora della gioia e dei piaceri „ erano divenuti deserti, come
osserva nel '28 il Montesquieu 55. Lo stesso Burnet ammette che
anche nel Seicento molti monasteri veneziani osservavano una
regola austera e non offrivano alimento alla cronaca scandalosa;
ma quelli più ricchi di San Zaccaria e di San Lorenzo, dove
allora si ritiravano le fanciulle patrizie per non essere di carico
alle famiglie o per fuggirne la tirannia, piuttosto che per devo-
zione, e dove le monache tenevano conversazione attraverso le
grate del parlatorio, senza il velo, anzi con il collo e col petto
scoperto, come dice il futuro vescovo di Salisbury, si resero
celebri nei fasti della galanteria 56, H giovane De Brosses, ch'ebbe
a Venezia nel '39 per informatore principale di tutti gli scan-
daU l'ignobile Froulay (noto ambasciatore di Francia e più noto
amante di Maria da Riva) da cui raccolse pettegolezzi e fan-
donie, scrive tra scherzoso e serio: " In verità, se dovessi qui
soggiornare a lungo, mi rivolgerei più volentieri verso le mo-
nache. Tutte quelle che vidi, attraverso la grata, chiacchierare
quant' era lunga la messa, e ridere insieme, mi parvero quanto
mai belle e vestite in maniera da far valere la propria bellezza.
Hanno una graziosa cuffietta, un abito semplice ma ben fatto,
quasi sempre bianco, che scopre le spalle e il petto né più né
meno degli abiti alla romana delle attrici nostre „.
NEL SETTECENTO 73
Neir agosto del '58 il Grosley assistette il giorno di San
Lorenzo alla messa cantata in chiesa, che durò cinque ore cal-
dissime e mortali. " Le monache, tutte gentildonne, andavano
e venivano a due grandi grate separate dall' altare, vi tenevano
conversazione e vi distribuivano rinfreschi a cavalieri e abati
che, tutti col ventaglio in mano, stavano in cerchio all' una e
air altra grata „ 57. Afferma il Filati che nel '69 e' erano ancora
delle monache nei migliori conventi che di sera si mascheravano
per andare all' opera e alla commedia, oppure al passeggio in
Piazza a vedere i propri innamorati; e nei parlatori si davano
ancora, ricorda Lalande, dei balli mascherati a cui le recluse
partecipavano dietro le grate.
Dello spirito disinvolto e penetrante della donna veneziana
del Settecento, l' abate Richard ci offre tale ritratto : " Non credo
che esista nazione al mondo, dove le donne siano più amabili
ed abbiano tanta prontezza di spirito, di quella penetrazione
viva e acconcia per cui sanno colpire il carattere di quelli coi
quali devono trattare, e sanno dir loro le cose per essi più
interessanti. Esse non hanno quello spirito particolare che si
trova così spesso altrove e che bisogna indovinare. Al contrario,
la sfera delle loro idee sembra allargarsi in proporzione degli
oggetti che trattano; ciò che fa supporre un grandissimo spirito
naturale e un' abitudine alla gentilezza che non possono acqui-
stare se non dopo il matrimonio, poiché la loro educazione,
fin che sono fanciulle, è estremamente limitata: in fatti non
escono mai di casa e non vedono che i propri parenti „.
Anche le donne del secondo ordine, ossia le cittadine^ sembrano
all'abate francese amabilissime e spiritose. " Fin che sono figlie,
vivono nella maggior costrizione e non dimostrano alcun gu-
sto per qualsiasi piacere „, ma si rifanno poi, quantunque
i signori cittadini, a differenza dei nobili, siano gelosi fino alla
tirannia. Diventano esse, appena appassito il primo fiore della
giovinezza, " delle eccellenti madri di famiglia, occupate uni-
camente nella cura della propria casa... Una ne conobbi, donna
ancora amabile, la quale mi assicurò che da oltre venti anni
non aveva mai abbandonato la sua casa se non per recarsi
alla chiesa della propria parrocchia eh' era dirimpetto alla sua
abitazione, tutta dedita alla cura di allevare una numerosa
famiglia che aveva per essa il maggior rispetto. Questa vita
ritirata non le aveva fatto perdere nulla della sua gentilezza
e gaiezza: due qualità veramente particolari delle Veneziane,
74 LA VENEZIA DEI VIAGGIATORI
le quali sembrano averle ereditate dalle donne greche dei bei
tempi d' Atene „ ss.
Lalande poi osserva ehe le mode francesi " non ebbero
gran presa a Venezia: le donne portano sempre un corpetto
(o busto, corps), non usano mai il belletto (jamais de rouge) ^
spesso hanno i capelli annodati con un nastro, oppure a coda,
di rado hanno un berretto: si vedono spesso a teatro coi dia-
voletti nei capelli {en papillotes) e con la testa scoperta, perfino
in galleria, non mettono fazzoletto sul collo {point de fichu) y
portano le mutande durante l' inverno. Di tutte le capitali che
conosco „ aggiunge Lalande " è quella dove meno si rende
omaggio air eleganza delle nostre mode, benché V abbigliamento
generale sia quello stesso che usa in Francia, e le pettinature,
quando la donna si adorna, siano simili alle nostre „ 59. Le
patrizie, dice poi Richard, " spendono molto in ornamenti, spe-
cialmente in diamanti e perle; e si può dire che si abbiglino
con buon gusto, ma non quando vanno a teatro, dove si mo-
strano con l'abito più succinto {dans le plus grand negligé)^
poiché si considera che siano colà in incognito^ sebbene l'uscio
del palco sia aperto a tutti quelli che vogliono visitarle. Le cit-
tadine e le donne del popolo, allorquando escono, portano sul
capo un gran velo di taffettà nero, incrociato davanti e rianno-
dato di dietro, con una gran gonna o grembiale, pure di taffettà
nero, che le avvolge interamente e quasi nulla lascia scorgere
della veste, fuorché una parte delle maniche. Ordinariamente
non hanno altra acconciatura che questo velo molto sporgente
{fort avance)^ ma lo maneggiano con certa abilità e civetteria
sì particolare che quantunque sembrino molto avviluppate, sanno
guardare e farsi ammirare a piacimento senza mostrare la più
piccola affettazione. Questa maniera di abbigliarsi é decentissima
e sta assai bene alle donne „ ^o.
Quanto poi all'abito comune dei nobili " tutti i signori che
appartengono ai magistrati e gli ufficiali inferiori ne' tribunali ,,.
ci insegna Richard " sono la maggior parte del giorno in veste
nera e in gran parrucca: abito così uniforme che il nobile non
si distingue affatto dal segretario cittadino „. Questa uniformità
esteriore gli sembra regnare anche per le vie di Venezia dove
" non si vedono che maschere durante le pubbliche feste „ e
" mantelli grigi „ negli altri giorni, di cammellotto l'inverno,
di taffettà l'estate. Anche gli artigiani " quando vanno in giro
per la città, vestono a guisa dei cittadini „. Quanto agli eccle-
NEL SETTECENTO 75
siastici " portano il mantello nero di cammellotto o di seta^
della stessa forma di quello dei laici, l'abito corto, il collarino
e i capelli rotondi: è ben raro vedere una parrucca „ ^i^ Ma il
soggiorno dell' abate Richard fu troppo breve a Venezia, nella
stagione di primavera; e le mode, sia delle donne, sia degli
uomini, cambiarono più volte attraverso il secolo decimottavo.
Sarà bene udire anche il nostro Baretti : " I nobili veneziani „
scrisse egli qualche anno dopo il suo secondo soggiorno sulle
lagune, " portano una lunga zimarra nera, orlata di ermellino,
e una gran parrucca. Questa zimarra, le cui maniche sono lar-
ghe e pendenti, è d' inverno di panno e si affibbia davanti con
un fermaglio d' argento. D' estate è di una stoffa più leggera^
aperta e più corta. La loro veste è di seta e di forma antica...
Le gentildonne sono anch' esse vestite di nero. Le loro vesti,
fatte di antichissima foggia, sono di velluto, o di una stoffa più
leggera, secondo la stagione „ ^^. Del resto poi della cittadinanza
così dice: " Gli abitanti di Venezia portano sopra i loro abiti
soliti un largo mantello di seta: questo mantello è grigio d'estate,
e d' inverno è nero e foderato di bianco : il basso popolo ne
porta di stoffa di colore; ma la moda di questi mantelli varia
molto in Venezia „ ^3.
11 noto Gondar così riassume in poche parole la vita vene-
ziana: " Alla mattina passeggio, al pomeriggio in maschera, alla
sera teatro, il resto della notte gioco o donne „ ; e ne trae come
corollario: " Qui si sta in compagnia del vizio dalla mattina
alla sera „ ^4. Certamente giudica la vita veneziana da quella
che conducevano certi forestieri a Venezia, vigilati dall' occhio
degli Inquisitori. L' avventuriere francese fa pompa di arguzia
dicendo che un nobile di casa antica gode in patria della più
alta considerazione " quando per trent' anni è andato a spasso
al broglio, quando ha brigato per' ottenere le prime cariche della
repubblica, quando ha protetto molte donne e rischiato al gioco
delle somme considerevoli, quando ha avuto delle amanti, dei
cani, dei cavalli, degli equipaggi sulla Brenta, e via dicendo „ ^5.
Più giustamente 1' abate Coyer ebbe a notare che mentre nelle
grandi monarchie " gran parte della nobiltà passa le sue gior-
nate in una inerzia poco onorevole e spesso misera, a Venezia
la nobiltà è sempre attiva nei consigli, nelle elezioni, nei tri-
bunali, nel senato, nei reggimenti, nelle magistrature e nella
milizia „ ^. "Ci sono dei periodi „ scrive dei gentiluomini ve-
neziani r abate Richard " in cui gli affari pubblici li tengono
76 LA VENEZIA DEI VIAGGIATORI
SÌ occupati nel corso della giornata che se vogliono concedere
qualche istante ai piaceri particolari della società, devono
toglierli al sonno, cominciando le loro occupazioni per tem-
pissimo al mattino per finire alla sera assai tardi. E nessuno
manca di compiere i propri doveri con la più grande esattezza,
soprattutto i giovani magistrati che accarezzano progetti d' avan-
zamento e che sanno di non poter riuscire se non per mezzo
della stima che avranno saputo acquistare nel coprire i primi
posti ,,67.
Del carattere dei Veneziani ben poco potevano giudicare
questi forestieri che per qualche settimana gironzavano per le
calli o sedevano ai caffè e ai teatri, senza poter avvicinare alcuno
dell' ordine patrizio, senza penetrare nelle famiglie, senza cono-
scere il dialetto del popolo, o meglio la cosidetta lengua vene-
ziana', tanto più che anche i più vivaci d'ingegno, di qualunque
paese fossero, apparivano osservatori superficiali. Gravi e cir-
cospetti quasi sempre, ma non imperiosi e superbi verso la
plebe, ci vengono dipinti i nobiluomini nel Seicento, che anzi
" con gran famigliarità permettono che si stia col capo coverto
avanti di loro, „ e " se ne vanno per la città senza famigli, e
talvolta anche con qualche fagottino sotto la sopravvesta: e in
sì fatta guisa lontani dall' ostentazione e dal lusso, esercitano
un vero e non finto signoreggiare „ ^. Gregorio Leti riconosce
che " i Veneziani comunemente, se non hanno gran spirito,
possedono un solido giuditio; amano li piaceri venerei, senza
distornarsi quel che importa da' loro interessi e traffichi „ ^.
" Grossolani „ erano detti dai Fiorentini, eppure, avverte
Amelot de la Houssaye, sebbene non siano molto acuti né sot-
tili, sanno ben T arte del dissimulare e dell' ingannare, " e per
quanto sia grande il loro odio, si fanno sempre buon viso, fino
al punto da lodare quelli che odiano di più... In fatti hanno la
più parte la faccia aperta e il cuore chiuso; e quanto più mo-
strano al di fuori la compiacenza, tanto più nascondono di
dentro l' invidia „ 7°. Non dimenticano mai le ingiurie ricevute,
€ sono e furono sempre crudeli nelle loro vendette 71, « ma al
contrario i benefici lasciano poca traccia sul loro animo „.
Né qui finisce il fosco ritratto che dei Veneziani ci ha
lasciato le sieur Amelot, rimasto poi fisso nella memoria degli
uomini politici, dei letterati, degli avventurieri di tutta l'Europa,
lungo il secolo decimottavo. " Sono sobri, non già per virtù
bensì per avarizia, che gongolano se possono fare un lauto
NEL SETTECENTO 77
pasto a spese d' altri... Sono molto dediti ai piaceri, e le amanti
tengono più care delle mogli che trattano come serve „ 7». So-
lamente quest' ultima afifermazione non gode più favore presso
i viaggiatori deL Settecento, tanto parevano le cose ormai cam-
biate. " La loro indole timida li rende superstiziosi a tal segno
da prendere per colpi del cielo mille accidenti i quali non sono
che effetti del caso o della natura... Credono con facilità tutto
quello che desiderano; e le buone notizie, anche se false, fanno
sempre a loro un gran piacere „ 73. Ahimè ! tale debolezza non
fu propria solamente degli antichi Veneziani, se le sieur Amelot
ha letto anche le storie di Francia. " Sono talmente infatuati
della loro nobiltà che si credono uguali ai più grandi principi...
Così questi gentiluomini non amano troppo viaggiare, poi che
dappertutto si ride della loro superbia e delle loro vane pretese „.
Anche qui avremmo qualche cosa a ridire; o almeno nel Set-
tecento giudicavasi altrimenti 74. Ma più ci rattrista vedere i
figli, peggiori dei padri, rotolare nell'infamia. " Non vi ha paese
al mondo in cui la gioventù sia più insolente e- più licenziosa
che a Venezia, dov' essa vive a sua usanza, non essendo tenuta
a dovere né dal timore, né dalla vergogna... Questi giovani
fannosi pompa del vizio e della brutalità, e non lasciano alcun
asilo al pudore; anzi pubblicamente si vantano di tutti i loro
eccessi e compiono perfino sotto gli occhi di tutti delle cose
che i più dissoluti fra gli uomini sogliono ricoprire d' un velo
di tenebre, così che amando la voluttà e la licenza sembra che
ne amino ancora l'infamia „ 75. - Dopo ciò l'autore francese
passa a fare V elogio dei Veneziani che noi ascolteremo a fronte
bassa. " I Veneziani sono gravi e prudenti; uniformi nelle loro
azioni, almeno esteriormente; costanti nelle loro amicizie, tanto
più fermi nelle proprie risoluzioni quanto più lenti nel pren-
derle; sempre tranquilli al di fuori, per quanto sia grande la
loro agitazione interna, pazienti negli aff'ari difficili e di lunga
lena; dolci e trattabili quando si sanno prendere... Sono segre-
tissimi non solo negli affari di stato ma in generale in tutte le
cose che vengono loro confidate, fino al punto di non rivelar
mai, quand' anche divengano nemici, quello che si son detti
scambievolmente. . Sono poi gente ordinata, previdente, giudi-
ziosa „ - or come mai ? potremmo domandarci - " e se si pa-
ragonano al resto degli Itafiani, essi non saranno soltanto degni
di considerazione per le loro proprie virtù, ma anche per i vizi
stessi dei loro vicini „ 76. Povera Italia! Se questo sia proprio
78 LA VENEZIA DEI VIAGGIATORI
un elogio, o non piuttosto un' ultima pennellata del terribile
quadro, non importa decidere.
Dei cittadini e delle classi minori per fortuna non parla il
traduttore di Tacito. Che avrebbe detto nell' udire da Montes-
quieu un'affermazione come questa? " 11 popolo veneziano è
il miglior popolo del mondo „ : Le peuple de Venise est le nieilleur
peuple dii monde. Non tumulti, non risse, non guardie a Ve-
nezia 77. Eppure r animo dell' autore delle Lettere Persiane, che
non era troppo lieto durante il viaggio d' Italia, non riusciva a
svagarsi. " I miei occhi „ scriveva " sono molto soddisfatti a
Venezia, ma il mio cuore e il mio spirito non lo sono: io non
amo una città dove niente invita a rendersi amabili e virtuosi „.
Forse mancava una donna per ispianare la fronte corrugata del
giovane barone della Erède.
L' abate Coyer celebra senz* altro gli ottimi costumi di cui lo
Stato offre un esempio al popolo. " Se si considerano i costumi
veneziani in rapporto all' ordine pubblico, essi dimostrano con
la loro bontà „ dice pieno d' ammirazione " come il governo
formi i costumi... Le magistrature, i reggimenti, le dignità, tutti
gli uffìzi che richiedono buoni costumi, oltre che buoni lumi,
pongono un freno alle passioni di coloro che vogliono salire.
Gli avogadori e i censori, sempre pronti ad accusare, anche
dopo ottenuto il suffragio, fanno ben capire che conviene tenere
una condotta irreprensibile „ 78. Chi era stato in Inghilterra,
come il nostro abate, e viveva in Francia o altrove, ne sapeva
qualche cosa. In generale poi io credo fermamente, contro la
comune opinione, che i costumi politici e morali sul mezzo del
Settecento fossero migliorati dal secolo precedente. Seguita
r abate : " Quando quella parte della nazione che governa ha
buoni costumi, ne acquista pure la parte eh' è governata. Altre
ragioni ancora rendono qui il popolo migliore che non sia nella
maggior parte delle città d' Italia „ : come a dire il lavoro, 1' agia-
tezza generale, la sobrietà che rendevano rari i delitti e le risse,
dolce e tranquillo il carattere.
Anche 1' abate Richard è di avviso che il popolo veneziano
non abbia costumi e sentimenti suoi propri, bensì quelli stessi
della nobiltà di cui è lo strumento. " I capi della nazione Io
sanno: indi quella gravità, quella prudenza, quella uniformità
nelle loro azioni, almeno esteriormente; quella pazienza negli
affari diffìcili e quella costanza a mostrarsi sempre gli stessi,
anche se provino spesso' all'interno le maggiori agitazioni...
NEL SETTECENTO 79
Tutti egualmente attaccati all' onore della propria patria, si
affannano a conservarlo per tutte le vie, e nulla risparmiano
per riuscirvi... Portano nel commercio della vita ordinaria quella
stessa discrezione con cui sono abituati a trattare gli affari di
stato... Sono molto ordinati ne' propri affari... E tutte queste
qualità messe insieme ne formano degli eccellenti amici quando
vogliano... Ma la loro qualità principale è l'attaccamento fermo
e inviolabile alla religione cristiana e alla chiesa cattolica „. Per-
fino durante l' interdetto di Paolo V " posero la massima atten-
zione a conservare nella sua purezza il deposito della fede „ ;
e la guerra di Candia che durò venticinque anni " produsse
una moltitudine di eroi „ in difesa della fede e del regno. At-
taccatissimi al governo sono i cittadini, specialmente i segretari'.
i più ricchi mercanti assumono anch'essi quell'esteriore " rego-
lato e grave „ eh' è proprio delle classi superiori. Il semplice
popolo vive diviso nei propri sestieri, godendo dei piaceri che
ivi può procurarsi " non avendo l' abitudine di andare a spasso
altrove, di fare delle altre conoscenze „, " sottomesso, buono,
molto dolce, naturalmente gaio, non pensando punto al domani,
non lavorando che per vivere o per risparmiare durante la set-
timana qualche po' di denaro eh' esso spende regolarmente la
domenica o il giorno di festa che va a passare con la famiglia
in terraferma oppure in qualcuna delle isole vicine „ 79.
Moore non pretende di dare dei giudizi s°, né crede possi-
bile affermare che i Veneziani siano più sensuali degli abitanti
delle altre capitali d' Europa ^^. Grandi, forti, ben fatti, con la
tinta bruna e gli occhi neri : così li descrive ; certe figure virili
che incontra per via gli ricordano le tele del Veronese e del
Tiziano ^^. Goethe nell' 86 vide il vecchio doge Renier " accom-
pagnato da circa cinquanta nobili in lunghe vesti con strascico,
rosso cupe: belli uomini la più parte, neppur una figura dif-
forme, parecchi grandi, con grandi teste a cui ben s' adattavano
le bionde parrucche ricciute: volti spiccati, carnagione bianca e
delicata, senz' esser molle e spiacevole, uomini savi senza sforzo,
calmi, sicuri di se stessi, esprimevano un vivere facile e in tutto
una certa gaiezza „ ^3,
Il Baretti, per nulla soddisfatto, come si sa, dei signori
Veneziani, specialmente dopo la condanna della Frusta, ribatte
tuttavia le spiritose sentenze del dottor Sharp. Anch' egli nota
che i nobili, quando s' incontrano, si fanno mille sorrisi e feste,
ma per pura finzione: difetto che non diremmo particolare di
I
8o LA VENEZIA DEI VIAGGIATORI
Venezia e di quei tempi. Più caratteristico era Tuso che osser-
vavasi nella Piazzetta, durante il broglio. " La maniera più
umile di salutare i nobili „ scriveva De Brosses " è quella di
andar a sollecitare i suffragi nel Broglio e di baciar le mani di
colui che si sollecita. L*arte degli inchini è pure un punto im-
portante: bisogna farli bassissimi: e tuttavia a nulla servono,
se la parrucca non striscia a terra almeno per mezzo piede ^4.
Tali inchini attirarono pure l' attenzione di Lalande : " Pochi
luoghi ci sono „ egli dice " dove si mostri più gentilezza che
a Venezia: i nobili dell'ordine più distinto sono usi a fare delle
profonde riverenze e a dimostrare molti riguardi ai patrizi di
minor conto, poiché senza di ciò non arriverebbero alle cariche
supreme; e se c'è alcuno che sembri un po' meno complimen-
toso, si dice eh' è duro di schienUj che non ha ancora il dorso
abbastanza pieghevole, e corre rischio di dover attendere più a
lungo. Quest' usanza dà ai Veneziani un' aria molto gentile anche
verso gli stranieri „ ^5.
Il nostro Baretti adunque trovava nel carattere degli eccel-
lentissimi pantaloni, come per riso si chiamavano in Italia e
fuori, " un sì bizzarro miscuglio di confidenza e di circospezione,
di sagacità e d' imprudenza, di coraggio e di timidezza, d' ava-
rizia e di prodigalità, di sapere e d' ignoranza, e di altre qualità
contrarie e sì perfettamente mescolate nello stesso individuo,
che io non conosco „ diceva " corpo in Europa più degno del-
l'attenzione dei curiosi che la nobiltà veneziana. Siccome sono
pieni d' orgoglio e di presunzione, così per guadagnarsi la loro
benevolenza basta dir loro che sono il più valente, il più gene-
roso e il più formidabile popolo che sia sulla terra. Le più matte
e strane lodi non sembrano loro che un omaggio reso al loro
merito e alla verità „ ^^. Il Baretti, si sa, esagera sempre un
tantino; e così fece in quella notissima epistola martelliana
all'amico don Carcano, dove si divertì a mettere in versi i di-
fetti dei Veneziani, fra i quali più grosso quello dell' ignoranza,
madre della superstizione, della soverchia tenerezza di cuore ^7
e di tant' altre cose anche peggiori :
Questi e molt' altri ancora son, don Francesco, i frutti
Dalla brutta ignoranza qui tuttavia produtti,
Come sarebbe dire, V amor delle sgualdrine
Se son massimamente cantanti e ballerine;
E la rabbia del giuoco trovato dal dimonio,
Che in men che non balena t'intacca il patrimonio;
NEL SETTECENTO fcJl
E la brama feroce di guadagnar al lotto
Che già parte del popolo ha in povertà condotto;
E il vii divertimento di dire cose oscene,
O quello di sentirne dalle pollute scene,
E il dar fede ai più falsi, più inutili miracoli;
E il correre frenetici a feste ed a spettacoli,
E il perder V ore e 1' ore in un caffè che tedia
Parlando eternamente d' opera e di commedia ;
E il legger poco e legger sol libri infranciosati
Al Secol delle Lettere 88 stampati e pubblicati,
E r esser pigri in fare ciascuno il suo negozio,
E insomma il non curarsi che di maschera e d' ozio 89.
Ma il Baretti soffriva allora d' ipocondria 9°; e anch' egli contrad-
dicendosi, formò più tardi il più beli' elogio dei Veneziani con
queste parole: " Quando un forestiere si dichiara loro amico,
non si può dire a qual segno portino il loro attaccamento e la
loro cordialità „ 9^.
A Venezia più che mai sentivano questi viaggiatori certo
vuoto nel cuore, in questa città così stranamente bella che,
lontani dalle proprie case, in mezzo alla folla che gremiva la
piazza, le calli, i ridotti, i caffè, si sentivano più soli; la mu-
sica e il canto dei teatri, dei conservatori, delle peote durante
le serenate, la stessa gaiezza del popolo, anziché svagarli, ne
acuivano la nostalgia; la gondola faceva crescere il desiderio
della donna lontana; se si abbandonavano al vizio, ne prova-
vano poi più forte il disgusto. In questa città del piacere, si
sentivano come prigionieri e l'ombra misteriosa dei Tre Inqui-
sitori, risalendo coi ricordi dell'infanzia dall' animo superstizioso,
pareva stendersi in certi momenti alle loro fantasie, ingigantita
dalle leggende, su tutto il cielo azzurro della Serenissima.
L' aspetto singolare dei palazzi, emergenti o specchiati dalle
acque, dei ponti, delle fondamente, delle isole, i costumi carat-
teristici, i capolavori dell' arte appagavano gli occhi, ma lascia-
vano il cuore noiato anche a quel ragazzo allegro che si chia-
mava De Brosses, il quale nell' ora più dolce e più malinconica
della sera rimpiangeva la cara intima società della sua Bigione.
Eppure di là partendo, mentre il burchiello lo trasportava su
per il canale della Brenta, verso Padova, e in sogno vedeva
già Roma, gli doleva di abbandonare per sempre la gondola
dolce, e le facili ZuUette, e quella che veramente gli parve " la
seconda città d' Europa „.
G. Ortolani.
AGGIUNTE E NOTE
1 Neir articolo I num. 4 della Minerva 0 sia Nuovo Giornale de"
Letterati d" Italia (Venezia, Deregni, giugno 1762), intitolato Notizie
intorno la morte e il funerale del Doge di Venezia Francesco Loredano,
delle quali in parte mi valgo, leggesi a pp. 3-4: " Ben egli è vero,
che negli ultimi anni di sua vita era di mente e di corpo divenuto
sì debile ed accasciato, che rapporto all' una ridotto era a non poter
far di sua ragione uso maggiore di quello che fatto avrebbe un
bambolo appena spoppato ; e rapporto all' altro mal reggentesi in
piedi, e ogni virtù visiva quasi perduta, era nel volto sì scolorito ed
esangue, che a un vivo simulacro più che ad altro rassomigliava „.
2 Richard dice per tre volte; e pare che così si usasse negli
ultimi tempi.
3 Description historique et critique de V Italie, ou Nouveaux Mé-
nioires etc. par M. 1' abbé Richard, Dijon et Paris, 1766, t. II, p. 181
e sgg. - Vedasi inoltre la cit. Minerva e la Nuova Veneta Gazzetta,
n. 22 e sgg.
4 Mémoires, 192.
5 Mémoires, 194.
6 Observations sur l' Italie et sur les Italiens, données en 1764,
sous le nom de deux Gentilshommes Suédois, par M. G... - nouvelle
édition, Londres et Paris, 1774, t. II, p. 37. - Ma in Europa correvano
più volentieri e avevano credito le fandonie di Gondar: " Le silence
est r emblème de ce gouvernement : tout y est secret et mistère.
La politique s' y couvre d' une épaisse nuit. Les causeurs à Venise
sont enterrés vivans dans un tombeau couvert de plomb „ : UEspion
Chinois, ou V Envoyè secret de la Cour de Pèkin etc, nouvelle édition,
Cologne, 1769, 1. II, p. 254. - Del resto della sua segretezza rendevasi
lode in altri tempi a Venezia: poiché la buona politica non si fa
sulle piazze.
7 Mémoires, p. 406, e così a p. 239. Leggiamo pure a pp. 231-232 :
* Actuellement la sagesse de son gouvernement, 1' attachement à ses
lois et à ses usages, le respect que tonte la nation, tant ceux qui
sont à la téte de 1' état, que ceux qui sont purement sujets, a pour
86 LA VENEZIA DEI VIAGGIATORI
le corps de la législation, lui méritent encore la considération de
toute r Europe, et lui conservent le rang distingue dans la hiérarchie
des souverains, qu' elle occupe à raison de son ancienneté et de sa
puissance „.
8 Vedi Des causes principaks de la decadence de la République de
Venise, in Histoire du Gouvernement de Venise etc. par le Sieur Amelot
DE LA HoussAiK, Paris, 1677, p. 479 sgg. - Cito sempre la prima ed.
di quest' opera eh' ebbe tante ristampe.
9 Mémoires, 430.
10 Mémoires, 422. - Anche questo dispiace a Gondar: Espion
Chinois cit., Ili, 28.
11 Mémoires, 414 n. " C est donc à Venise où il faut établir le
chef-lieu de la politique en Europe. La discrétion et la réserve qui
y régnent, et la liberté qui y est commune à toutes les nations,
semblent 1' y piacer de préférence à tout autre état „.
13 Mémoires, 444.
13 Mémoires, 458. - Così certo Conte loda Venezia in un roman-
zetto d' Antonio Piazza : " Ivi ritrovai i Nobili tutti ripieni d' umiltà,
e i Sudditi componenti un pubblico docilissimo, eh' ama e rispetta i
stranieri, eh' adora il suo Principe, e che vive tranquillo e festoso
sino nella miseria medesima. Ho veduto una gran parte di questo
mondo, e sostengo che la Patria vostra soltanto presenta lo spetta-
colo della povertà in allegrezza, e del poter senza fasto „ : Giulietta,
Venezia, 1784 (rist.*), p. 62.
14 « Peut-étre que le terrein qui est entre Vicence et Padoue
vaut Seul le voyage d' Italie, surtout pour la beante des vignes „ :
Lettres familières écrites d' Italie en 1739 et 1740 par Charles De
Brossks, Paris, 1869, t. I, p. 138.
15 Mémoires, 246.
16 " Io non conosco città che inspiri a prima giunta ad un fore-
stiero tanta malinconia, anzi mestizia, mista ad una maraviglia solenne,
e direi quasi ad augusto terrore, quanto Venezia. Case e palazzi
altissimi, vie angustissime e serpeggianti, canali d' un' acqua morta
e nericcia, gondole tutte nere, nessun movimento di carri né di ani-
mali ; sembra di entrare in una , vasta e magnifica tomba. Ma che ?
Scende la sera, suona la mezzanotte: un moto, una vita, una illumi-
nazione, un brulichio di gente che va, viene, ritorna: tutte le botteghe
di grasce, aperte ed illuminate; pieni i caffè, piene le piazze, pieni
i teatri; ed erano otto in quel tempo „: Della vita di Mario Pieri
Corcirese, scritta da hn medesimo, Firenze, 1850, t. I, p. 36. - " Un
sentiment de tristesse s' empare de l' imagination en entrant dans
Venise. On prend congé de la végétation etc. „: Corinne ou l'Italie
par Mad.' De Staèl : cito dall' ed. di Parigi, 1863, p. 342. - Con entu-
siasmo scriveva Francesco Zanotti al fratello Giampietro, il 22 aprile
1721 : " Che bel paese è questo Viniziano ! Ma Venezia poi è la patria
NEL SETTECENTO 87
delle grazie, degna d' essere abitata non dagli uomini ma dagli Dij.
Padova ancora m' è piaciuta assai, e nel vederla m' ha fatto ricordar
Bologna : ma finché Venezia sarà, non credo che altra cosa del mondo
possa parer bella „ : Delle lettere familiari d* alcuni Bolognesi del se-
colo XVIII, ed. 2.* boi., Bologna, 1820, t. II, p. 95.
17 Richard e, prima di lui. De Brosses la descrivono. Goudar la
chiama una tomba: Espion, II, 237. E laStaèl: " Ces gondoles noires,
qui glissent sur les canaux, ressemblent à des cercueils ou à des
berceaux, à la dernière et à la première demeure de 1' homme „ :
1. e., 343.
18 Mèmoires, 254.
19 Observations cit., 27-29.
30 MémoireSj 303. La prima domanda che rivolgono le donne ai
forestieri a Venezia " e' est s' ils ont vu la place, s' il y en a quel-
qu' autre au monde qu' on lui puisse comparer „ : 304.
31 Mémoires, 304-305.
22 Lettres cit., 154-155.
33 Voyage d'Italie par M. 1' abbé Coyer etc, Paris, 1776, t. II,
pp. 79-80.
34 Observations cit., 8-9. - Anche Moore descrive uno di questi
curiosi cantastorie. Vedasi pure Tullio Dandolo, U Italia nel secolo
passato, Milano, 1853, parte 2.*, pp. 265-266.
35 Notatorj Gradenigo, presso il Museo Civico Correr (cod. Gra-
denigo Dolfin 135, colloc. n. 67), voi. V, 26 dicembre 1759.
a6 Di tempo in tempo si cercava di rendere più libera la Piazza.
Così nel marzo (11) del 1757, per comando del procuratore Morosini,
" fu eseguito lo sgombro di certi banchetti e posti volanti arbitra-
riamente introdotti da venditori di galanterie, tabacchiere et altro
(benché forastieri) sotto li portici delle vecchie e nuove Procuratie „ ;
e nel mese seguente (18 aprile) lo stesso ordinava di togliere dalla
Piazzetta " ogni ingombro di banchi, cancelli, ceste, et altre cose,
dal sottoportico contiguo al Broglio, cioè dalla porta del pubblico
Palazzo sino al sito solito starci il pergamo del Predicatore, che circa
il di più sino alla retrograda altra porta appartiene alla giurisdizione
di S. Serenità „ ; e nell' agosto (16) fece levare " tutte le insegne
delle Ostarie [ossia alberghi] che riferivano sopra la Piazza di San
Marco per il corso di molti anni, ma con molto turpe bruttezza, cioè
quelle del Salvatico, del Cavalletto, del Cappello, del Pellegrino, e
della Rizza, per non doversi più rimettere „: Notatorj Gradenigo.
37 [Maximilien Misson] Nouveau voyage d' Italie etc, cinquième
édition, à La Haye, 1717, t. I, p. 239 sgg. - Ricordiamo i carnovali
cantati dal Busenello e dal Dotti.
38 Si veda a pp. 48-49, n. 92.
29 Maria Wortley Montagu loda nelle sue famose lettere la co-
modità della maschera: io ottobre e 6 novembre 1739.
88 LA VENEZIA DEI VIAGGIATORI
30 Voyage en Italie etc. par M. de La Lande, troisième édjtion,
Genève, 1790, t. VII, p. 41.
31 " Questo passeggio era anticamente in campo di San Stefano,
ma è stato dimesso a' tempi nostri, e introdotto a maggior comodo
in Piazza di San Marco „ : Cronaca Veneta sacra e profana ecc., Ve-
nezia, Pitteri, 1751, t. II, p. 351.
32 " L' ultime settimane incalza la folla per le Dame e Cavalieri
che v' accorrono, ed è più curioso e bello vedere la Nobiltà che
occupa colle sedie tutto il tratto della Piazza contigua alle Procuratie
vecchie per la bellezza delle Dame, e per la bizzarria degli abiti
veramente sfoggiati. Spesso si veggono comparse ingegnose, e in un
pompose, di Mascherate di compagnia, e tal volta con alcune rap-
presentanze di gran diletto „ : Cronaca Ven., II, 351.
33 Cod. Cicogna 1410 (presso il Museo Civico Correr), Poesie
diverse, t. II, P, i."*, carta 118.
34 // bordello della Piazza di San Marco di Venezia - 1748, cod.
cit., carta 115.
35 Cod. cit., carta 116. - Dalle riferte del fante Ignazio Beltrame
si apprende che il primo marzo 1748 vi erano a San Basso 2 bot-
teghe di barbiere o parrucchiere, e 2 di acque (ossia caffe)\ lungo
le Procuratie Vecchie 14 di barbiere, 8 di acque; nella strada da
San Geminiano a San Moisè 8 di barbiere, 4 di acque ; nelle Procu-
ratie Nuove fino alla Zecca 18 di barbiere, 20 di acque e una di
barbiere e acque: Inquisitori di Stato, busta n. 683 (Archivio di
Stato). - Le botteghe di caffè più frequentate erano nel '50: quella
di Antonio all' Insegna del Doge, con 14 careghe [sedie] " oltre le
banche sempre occupate sino dopo la mezzanotte da tabarri e preti „ ;
quella deW Arabo all'insegna deW Albero d' oro con 11 careghe " oltre
le sue banche (chiude alle 3 y^) »\ quella di Ciclo al Gran Tamerlano,
frequentata da nobili e forestieri, con 8 careghe oltre le banche solite :
" circoli con uomini e donne a bere rinfreschi allegramente „, aperta
sino alla mezzanotte; quella alla Sultana, con 5 careghe e solite
banche, poco frequentata ; quella di Floriano, all' insegna della Venezia
Trionfante'. " questa bottega haveva 7 careghe, oltre le solite banche,
le quali erano sempre occupate da forestieri e donne in gran numero
che andavano e venivano sino doppo la meza notte „ ; poi il Rinaldo
Trionfante, con 9 careghe oltre le banche, " sempre frequentate da
tabarri e preti sino le 3 circa; V Angelo Custode, con 8 careghe oltre
le banche, " frequentata dalle 3 alle 6 da Greci e forestieri: alle 3
circa, la sera dei 29 agosto, vi capitò una compagnia di 7 persone
ov' erano due donne " vestite da uomo „ ; poi il Raguseo (o Aragoseo)
o Arabeto alla Regina delle Amazone, con 9 careghe oltre le banche,
frequentata da uomini e donne fino alle 3. - Poco frequentate in
quella stagione le botteghe sotto le Procuratie Vecchie.
Dalle botteghe di caffè sparirono i camerini che servivano un
NEL SETTECENTO 89
tempo " a furtivi incontri et a pericolose dimore. Ora tutto è cam-
biato „ : scriveva il compilatore della Nuova Gazzetta Veneta nel 1762.
" Non si trovano più camerini con porte, non vi si gioca, o almeno
ciò si fa solo a giochi permessi, e senza invito; vi si parla con di-
screzione, e tutto infine vi spira onestà. È una bellissima cosa il
vedere in questi Caffè sino a cencinquanta persone; chi ciancia, chi
canta, chi moderatamente critica, chi si avanza a fare di occhietto,
chi osserva, chi beve, chi mangia, et ognuno in somma fa ciò che
più gli piace. Quante Commedie non trasse il Signor Goldoni da tali
piacevoli luoghi? „ num. 43. Lo nota anche Lalande: VII, 32. Il Go-
verno vigilava : così nell' agosto del '48 ordinava a tutti i padroni di
caffè della Piazza e di San Moisè " che suonata l' Ave Maria di San
Marco siano levate tutte le careghe [sedie] fuori della bottega, e così
ancora le banchette attorno le colonne, così che non ve ne sia alcuna
fuori, e che suonate 1' hore due di notte debbano serrar intieramente
le sue botteghe „ : Inquisitori, busta cit. (v. anche Notatorj Gradenigo).
36 Giulietta cit., di Antonio Piazza, pp. 72-74.
37 Notatorj, in data 26 dicembre 1759.
38 Mi servo della traduzione francese: Lettres d'un Voyageur
Anglois sur la France, la Suisse, l'Allemagne et l' Italie traduit de
l'Anglois de Mr. Mogre, à Genève, 1782, t. Ili, pp. 46-47.
39 Viaggi per r Europa del dottor D. Gio. Francesco Gemelli Ca-
RERi ecc., Napoli, 1701, pp. 30-31. Vedasi inoltre La Ville et la Répu-
blique de Venise [di Saint-Didier], Paris, 1680, pp. 370-371. - Molti
anni dopo, nel 1762, un altro italiano, ma anonimo, ci lasciò tale
descrizione : " Il ridotto, che tanto si magnifica, è appunto un magnifico
nulla, quando non si voglia prendere per una mera bottega di gioco.
Esso è una casa composta di circa io stanze, oltre una gran sala a
primo ingresso irregolare, senza simetria. Si trattengono ivi le ma-
schere a discorrere, a passeggiare ed alcune giuocano a giuochi di
puro divertimento. Viene illuminata con lampadari di legno ben ordi-
nari, con due candele di sego per cadauno, ed è apparata con corami
antichissimi. Vi sono da lato di essa camera due camerini, ove si
vendono dei rinfreschi „ e anche formaggi, frutta ecc. " indecente in
un consesso sì rispettabile „. Nelle stanze interne " si gioca alla
bassetta, ed in ogni stanza vi sono tre o quattro tavolini di gioco di
circa mille zecchini V uno. Il cavaliere che tiene il banco è in toga e
parruccone, ed è obbligato tenere la posta per un solo „ : Impressioni
di viaggio d'un anonimo, nel libro d' Achille Neri, Costumanze e
sollazzi, Genova, 1883, p. 92. - Tutti poi ricorderanno il secondo atto
delle Donne gelose di Carlo Goldoni, e come al Ridotto fosse accom-
pagnato quasi in trionfo dagli amici veneziani 1' autore delle sedici
famose commedie, dopo la recita dei Pettegolezzi, nel carnovale
del 1751. - Esercitavasi in quell'affollato ritrovo la maldicenza; e
ogni sera vi si faceva la critica, se così possiamo esprimerci, delle
90 LA VENEZIA DEI VIAGGIATORI
rappresentazioni teatrali (Goldoni, pref. del Contrattempo, in Opere
complete, voi. IX, pp. 385-386 e del Vecchio bizzarro, voi. X, pp. 420-421).
40 Viaggi cit., pp, 73-74. - Dai Notatorj del Gradenigo trascrivo
la descrizione del giovedì grasso, 14 febbraio 1760: " Affollato il
Popolo della Metropoli nel dopo pranzo nella Piazza, avanti la Si-
gnoria, entrano varie compagnie di Fabri e Beccari ben in ordine
vestiti, meglio armati di spadoni e brandistochi, et a suono di tam-
buri senza disordini fanno ingresso nel steccato, dove si taglia la
testa ad uno o tre bovi, e terminata questa incombenza s' incomin-
ciano le Forze d' Ercole, il giuoco della Saracinesca da' Castellani
e Nicolotti, li giuochi sopra lunghe corde, et altri spettacoli non
nuovi, secondo l'usanza; indi si fanno ardere li fuochi artificiati, più
o meno secondo la generosità „ del Magistrato a cui tocca la spesa.
Fu questa volta Marco Zustinian q. Almorò, Cassiere sopra le Ra-
gioni vecchie, il quale " prescrisse una macchina piìi pomposa et
alta del solito, ben dipinta, et abbondante di fuochi, del tutto al più
tardi lasciata trasparente sino le 2 ore della notte „.
41 Confutazione della Storia del Governo Veneto d' Amelot de La
Honssaye ecc., [di Giacomo Casanova], Amsterdam, 1769, P." 2.%
pp. 104-105.
43 Cronaca cit., 352.
43 Confutazione cit., iii.
44 U Italia Regnante ecc. di Gregorio Leti, Geneva, 1675, P.« 2.^,
P- 353-
45 U Italia cit., 367-368.
46 Anche De Brosses nel '39 ammirò in una pubblica funzione
le gondole della Repubblica " superbement sculptées et dorées,
accompagnées de celles des ambassadeurs, plus riches et plus ga-
lantes encore, surtout celle du nòtre „ : I, 171. - Alla descrizione
dell' abate Richard aggiungiamo quella dell' anonimo italiano, pure
del 1762, citato dal Neri {Costumanze ecc., p. 94): " ... Oltre le gon-
dole vi furono diverse peote molto vagamente ornate, per fare onore
al principe di Witemberg [Wtìrtemberg], venuto a godere di tal festa;
tra le quali la più singolare fu quella di detto principe governata da
otto rematori, vestiti con corpetti di nobiltà rossi guarniti di gallone
d' argento, e li braconi di nobiltà color di cedro, pure guarniti di
gallone d' argento, e gran berrettone con la stessa guarnizione. -
Dopo di essa si distinse la peota della casa Giovanelli, e tutte e due
avevano a poppa ed a prora corni da caccia, che rendevano molto
dilettevole la festa; e quella del principe aveva alcune cantarine,
che conducea seco per suo divertimento, molto vagamente vestite „.
47 Mémoires, 464-466. - Anche l' arte del Canaletto e del Guardi
è impotente. Ricordiamo come Maria Wortley Montagu, che assistette
nel 1740 alle feste per la venuta del principe di Sassonia, chiamasse
una regata veneziana lo spettacolo più bello che si potesse godere
NEL SETTECENTO gì
in Europa (/'/ is by far the Jinest sight in Europe)^ non eccettuata la
sfarzosa incoronazione dei reali inglesi: lett. io ag. 1759. - Non so
tenermi dal riferire anche la vecchia descrizione di Saint-Didier,
nella seconda metà del Seicento: " ... Le grand pavillon de saint
Marc qui est arbore sur la Poupe, les Etendards de la ceremonie,
les Trompettes et les Hautbois qui sont à la Prouè, la majesté du
Senat en pourpre, le grand nombre d' Etrangers et d' autres per-
sonnes... rendent le Bucentaure une des plus belles choses que
r on puisse voir. Ce superbe Bàtiment part de la place de saint Marc
au bruit de Canon, accompagno des Galeres qui se trouvent à
Venise, de plusieurs Galiottes, de quantité de Peotes, qui sont de
Barques longues richement parées, et d' un nombre infìny de Gon-
doles, qui couvrent toutes les lagunes; de sorte que ce Palais
flotant, dans lequel il y a ordinairement cinq ou six cens person-
nes, paroist un Chàteau bàti au milieu de dix milles petites Cabanes,
ou plùtost un Elephant environné d' un essein de Mouches... „ 1. e,
pp. 406-407.
48 Nuova Veneta Gazzetta (1762), num. 21. - Anche l'abate Ri-
chard partecipò nel pomeriggio, certamente col suo compagno di
viaggio, signor di Bourbonne, presidente à mortier del Parlamento
di Bigione (il quale sposò la figlia del notissimo presidente Bouhier,
amica di De Brosses) alla " grande promenade de Murano, ou, à
r exception du doge et de quelques vieux sénateurs, je crois que
tout ce qui est à Venise ayant gondole se trouve. Il semble, au pre-
mier coups d' oeil et au bruit que 1' on entend, que toutes les gon-
doles vont culbuter dans le canal. Le bon air est d' aller avec la
plus grande rapidité ; mais on s' accoutume bientót à ce mouvement
tumultueux, et on n' a qu' à admirer la force et 1' adresse des gon-
doliers „ : Mémoires, 467.
49 Mémoires, 492.
50 A. Pilot, La festa della Sensa, in Gazzetta di Venezia, 6 mag-
gio 1918.
A bella posta tralascio le descrizioni dei teatri, dei concerti
negli Ospedali e altro ancora. - Quanto poi al numero dei fore-
stieri a Venezia, sia per il carnevale, sia per le feste della Sensa,
sappiamo come d' anno in anno variasse. Durante il carnovale si
crede che i forestieri ascendessero di solito a trentamila: tuttavia
in certi periodi gli stessi carnovali parvero decadere. Così Mon-
tesquieu nel 1728 ricorda che un tempo affluivano trenta o trenta-
cinquemila forestieri a Venezia: " à présent, il n' y en vient guère
plus de 150 „ (certo è uno sbaglio): da venti anni si contavano
diecimila cortigiane di meno, e in altre città erano sorti altri teatri,
rivali di quelli veneziani: Voyages de Montesquieu publiés par le
Baron Albert de Montesquieu, Bordeaux, 1894, p. 24. - Archenholz
afferma che il giorno prima dell'Ascensione del 1775 capitarono-
92 LA VENEZIA DEI VIAGGIATORI
42480 forestieri, senza contare quelli dei giorni precedenti: England
imd Italien, Leipzig, 1786, t. II, p. 25; ma è lecito avere qualche
dubbio su questa cifra. Certo si spargevano anche per le case pri-
vate. Leggesi nella Nuova Veneta Gazzetta^ ai 15 maggio 1762 : " Gran
quantità di Forestieri anche oltramontani e di grande condizione
averemo questo anno per la prossima Fiera, essendo molte Locande
impegnate anticipatamente, come pure molte case particolari „.
51 Certo il bruno predominava, pur sotto la cipria; anzi il Bemis
(l'ambasciatore di Francia, futuro ministro e cardinale) non vedeva
che donne brune a Venezia.
53 Voyages en différens pays de r Europe etc. [di Carlo Ant.
Filati], en Suisse, 1778, t. I, pp. 179-180.
53 Observations cit., 17. Anche Maria Montagu nota un rivolgi-
mento ne' costumi, non solo a Venezia ma in tutta Italia, e crede
cominciasse nel 1732, quando i Francesi invasero la Lombardia (ciò
fu nel '33) ; e però consiglia a non tener conto delle relazioni troppo
antiquate o superficiali dei viaggiatori: lett. 8 die. 1751 (v. pure altra
da Genova, 15 ag. 1741). Moltissimi, come il Bernis nelle sue Me-
morie, e Richard (II, 435) e Lalande (VII, 33) e altri ricordano la
decadenza delle magnifiche et honorate cortigiane. De Brosses nel '39
trova ancora in auge 1' Anelila, la Zulietta, la Spina e qualche altra,
nota pure ai lettori del Casanova, ma a quelle erano costretti a de-
dicarsi i signori forestieri amanti de' piaceri sensuali, che poi par-
tendo si divertivano a spargere tante favole sulla corruzione della
donna veneziana. Gondar, la spia cinese, è tratto a confessare che a
Venezia il viaggiatore straniero si " annoia a morte „ e si trova
" come in mezzo a un deserto „, se non ami il gioco e le donne
(si sa quali donne !). Non e' è bisogno a Venezia (soggiunge il futuro
marito della bella Sara) di prostituzione pubblica: " Les dames veni-
tiennes se sont faites courtisanes... Le mariage n' est plus qu' une
débauché „: III, 118 e 120.
54 Lalande, VII, 34 e Richard, II, 500.
55 Voyages, 34 e 54.
56 Voyage de Suisse, d' Italie etc. par G. BurìNEt etc, à Rotter-
dam, 1690, p. 228. - Anche Saint-Didier, 1. e, p. 344, così si esprime :
" Lorsque 1' on considere avec un veritable esprit de religion, la
maniere de vivre peu reguliere de la plùpart des Religieuses, j'avoué
que ce desordre paroist étrange ; mais si d' un autre coste, on regarde
ces personnes comme des fìlles de qualité, qui n' ont jamais eu de
vocation pour leur estat, et qu' elles n' ont preferé le Cloistre à la
maison de leurs parens, que parce qu' elles y jouTssent de plus de
liberté, puisqu' elles y peuvent voir toutes les personnes qu' il leur
plaist, on trouvera qu' elles ne peuvent estre censurées avec la
mesme rigueur, que le seroient des veritables Religieuses, qui vi-
vroient de cette sorte ...
NEL SETTECENTO 93
57 ObservationSy 56.
58 Mémoires, 439-442.
59 Voyage^ VII, 33.
60 Mctnoires, 500-501.
61 Mémoires, 498.
63 Mi servo, quale che sia, della versione italiana: Gì' Italiani o
sia Relazione degli itsi e costttmi d' Italia di Giuseppi: Baretti, Mi-
lano, 1818, p 215. - Leggiamo nello Stato presente di tutti i Paesi e
Popoli del mondo ecc. del Salmon (rifatto da più autori nella edizione
italiana dell' Albrizzi), voi. XX, parte i.*, Venezia, 1753, a pagina 79:
" I Nobili vanno tutti vestiti nella stessa guisa, vale a dire di una
lunga toga di panno nero, cinta nel verno con cintura adorna di
fregj d'argento e orlata di pelli; e nella state aperta, e foderata sol-
tanto di seta. Altre volte, innanzi che s' introducessero le parrucche,
si coprivano il capo con una berretta nera „. Aggiungiamo un altro
cenno, togliendolo dalla Cronaca Veneta citata, tomo I, pagina 185:
Tutti i senatori e nobili vestivano di nero sulla metà del Settecento,
con maniche larghissime a corneo, cioè strette all' imboccatura : di
paonazzo vestivano soltanto i Savi Grandi, quelli di Terraferma " in
certe congiunture „, quelli degli Ordini, i Procuratori " ma non sempre „
e gli Avogadori " i quali usano anche il rosso, e talor il nero, con
istola d' altro colore, secondo i loro istituti „ e finalmente i Capi delle
Quarantie. Anche " i Secretarj tutti vestono di color nero con ma-
niche a corneo, come pure gli Avvocati, i Dottori in medicina, i
Notaj, e molti di coloro eh' esercitano cariche pubbliche ne' Magi-
strati, ed altri „.
63 Questo mantello è il famoso tabarro che serviva a distinguere
r ordine civile dall' ordine nobile. Ma fin dal principio del Settecento
qualche nobile per comodità o per bizzarria, contraddicendo alla
legge, lasciavasi vedere in tabarro scarlatto, invece di portare la
vesta o toga avita, finché negli ultimi tempi l' uso divenne quasi
generale. - Il 30 maggio 1736 il famoso fante Beltrame Ignazio fece
il giro di tutte le 54 botteghe di barbieri " d' acque e trucchi „
eh' erano nel sestiere di Castello, e intimò loro di non ricevere
" alcun Patrizio in tabaro, e ciò in pena della vita „. Altra visita
agli stessi il giorno 11 febbraio '38: " che non ricevano nelle loro
Botteghe alcun N. H. Patrizio quando non sia nel suo abito, in pena
della publica indignazione „ : Riferte cit., busta 683. Anche il confi-
dente Medri spiava nel '53, e più tardi, i patrizi che passavano per la
Piazza in tabarro. Ecco qui, per esempio, S. E. Carlo Cavagnis di
S. Maria Formosa, un cattabrighe, " vestito con codegugno turchino,
tabarro di camelotto scuro, con beretta di bombace bianco sotto il
cappello... Passa spessissime volte per piazza in simile vestito con
detta beretta bianca in testa, e con la pippa in bocca „ riferta 16
marzo 1757 {Inquis. Stato - Riferte dei Confidenti, busta 616 - presso
94
LA VENEZIA DEI VIAGGIATORI
l' Archivio dei Frari). Era il tabarro più comune della vesta, e por-
tavasi anche d' estate, dice De Brosses : anzi si teneva durante le
conversazioni. " On porte dessous tout ce qu' on veut, et vous ne
trouverez autre chose à la messe ou dans la place que des gens en
pantoufles et en robe de chambre avec leur manteau par-dessus „.
64 Espion Chinois cit., Ili, 118.
65 Espion Chinois, II, 270.
66 Voyage d' Italie cit., II, 98.
67 Mémoires, 438. - Guglielmo Beckdorf, che fu la prima volta
in Italia nel 1780, crede di trovare nella irrequieta attività del gen-
tiluomo veneziano 1' eccitazione del caffè sui nervi rilassati dall'orgia:
ma siamo ormai sulle soglie del Romanticismo, e il giovane fanta-
stico scrittore vede e sogna a Venezia le immagini dell' Oriente :
Italy, Spain and Portugal, London, 1840 ( i.* ed. Salisbury, 1805),
p. 58.
68 Viaggi per V Europa di Gemelli Careri, già ricordati, p. 32.
69 Italia Regnante, parte 2.^, p. 19.
70 Histoire du Gouvernement de Venise, ed. cit., 516-517.
71 " Je dirai seulement par forme d' avis pour ceux qui ont
interest de bien connoìtre ces Républicains, que leur silence est
fort à craindre quand on les a ofensez, veu qu' ils sont d' autant plus
irréconciliables que leur colere est plus cachée ; et qu' ils ne la
cachent que pour la decharger aprés avec plus de violence „: Hist.
cit., 522. - Proprio il contrario dice il Baretti che li conosceva meglio :
" Sono eglino per carattere di cuore così tenero, che la più piccola
espressione d' affetto li placa, fa loro obbliare ogni animosità, e li
fa tosto riconciliare con quelli cui prima avevano in avversione. Di
queste loro qualità si scuoprono molte tracce nel loro dialetto, il
quale sembra quasi di nuli' altro composto che di cortesi parole e
di affettuosi epiteti „ : Scritti scelti inediti 0 rari, Milano, 1823, voi. II,
p. 388 n. (e Gl'Italiani cit., 156).
73 Histoire, 523 e 528.
73 Histoire, 530 e 534.
74 " En general les nobles Vénitiens, hommes et femmes, ne
sont point orgueilleux: ils savent pourtant faire les fìers dans le
besoin: ils parlent volontiers à tous ceux qui ne leur font point
d'ombrage; et quoique il y en ait dans presque tous les cafés, on
en est aussi peu gène, que s' ils n' étoient que des étrangers : toute
la distinction qu' on leur fait, e' est qu' on les appelle eccellente,
quoiqu' ils soyent en habit de masque „ : Filati, Voyages, l, 182.
75 Histoire, 539 e 541. - Sulla pessima educazione de' nobili
veneziani, sulla debolezza dei genitori verso i figli, sui pessimi co-
stumi esagera non meno Saint-Didier: 1. e, p. 301 e sgg. Certo il
costume è migliore nella società italiana del Settecento.
76 Histoire, 545, 548 e 549.
NEL SETTECENTO 95
77 Voyages^ 23. - Sulla mitezza e docilità del popolo veneziano
tutti i viaggiatori sono d'accordo. Vedasi, per esempio, Lalande:
VII, 37.
78 Voyage d' Italie, II, to6 e 107.
79 Métfioires, 449-458.
80 " ... D' après ce que j' ai vu je les représenterois comme un
peuple vif, enjoué, spirituel, passionné des divertissemens et des
spectacles publics, avec un goùt décide pour la plaisanterie, et cepen-
dant plus attaché aux jouissances réelles de la vie qu' à celles qui
ne sont que d' ostentation, et qui ne flattent que la vanite. - Le
commun peuple de Venise fait voir des qualités qu' on trouve rare-
ment chez les gens de son espèce, étant, on ne peut plus, sobre et
serviable envers les étrangers, doux et honnéte avec ses semblables „ :
Lettres cit., III, 195-196.
81 " Il me paroìt qu' il seroit assez difficile d' établir que les
Vénitiens fussent plus adonnés aux plaisirs sensuels que les habitans
de Londres, de Paris ou de Berlin „, ma sia per la tolleranza del
governo, sia per il concorso dei forestieri due volte all' anno, sia
per r uso della maschera, " on croit généralement qu' il y a plus de
licence et de débauché ici qu' ailleurs. J' ai eu occasion d' observer
que cette méthode de paroìtre de cette fa^on, en donnant l' idée
d' intrigue et de déguisement, a beaucoup contribué à faire croire
que les Vénitiens étoient des libertins „ {Lettres, III, 194-195): ora
r autore ci ammonisce a stare in guardia contro le fallaci apparenze.
8a Lettres, III, 196. Ricordo che il Moore era medico. Il Sharp,
altro medico, osservò pure la bella statura de' Veneti, indizio, diceva
il Baretti, di vigoria delle membra: GV Italiani, "^6. Così pure l'abate
Richard: " Les Vénitiens sont en general grands et bien faits; ils
ont la physionomie spirituelle et gaie „ : Mémoires, II, 502. Neppur
fisicamente erano ancora venuti meno i Veneziani.
83 Italienische Reise: Venedig, den 7. October 1786.
84 Lettres, 164-165.
85 Voyage en Italie, VI, 430.
86 Gr Italiani, 159. Si badi che il Baretti non ebbe alcuna fami-
liarità con la classe dei nobili.
87 Si commuove e piange la plebe veneziana, dice il Baretti, a
veder impiccare un ladro o un assassino.
88 Allude all' insegna del libraio Bettinelli, in Merceria, che
stampò le prime commedie del Goldoni e quelle in versi del Chiari
e le opere del Metastasio e alcuni famosi romanzi tradotti dal fran-
cese.
89 Scritti scelti cit., II, 387.
9° L. Piccioni, G. Baretti a Venezia, in Fanfulla della domenica,
28 ag. 1910 e R. Cessi, G. Baretti contro Venezia, e. s., 26 apr. 1914. -
Il Pilati che non pecca di timidezza, né di parzialità pei Veneziani,
96 LA VENEZIA DEI VIAGGIATORI
mostrasi più equo dicendo: " Il y a parmi les nobles Vénitiens
quantité de personnes éclairées et libres de tout préjugé : ils s' ap-
pliquent indifféremment à toutes les sciences; mais celles qu' ils
cultivent le plus, sont les belles-lettres, 1' histoire et la politique. Il
me paroit que des gens destinés au gouvernement ne sauroient pas
choisir de sciences plus utiles „ : I, 83.
91 Gr Italiani, 150.
cO
UN ROMANZO SATIRICO A VENEZIA
SULLA METÀ DEL SETTECENTO
G. Ortolani.
Sulla fine del Seicento vien meno, quasi improvvisamente,
il romanzo che impazziva in Italia da tanto tempo: le Eromene
le Stratoniche le Dianee le Floridee le Tigrinde le Rosalinde
le Armelinde le Leonilde le Solinaure le Amatunte non osano
affacciarsi sulla soglia del nuovo secolo e dileguano come smar-
rite. Tuttavia continuò a stamparsi per tutto il Settecento il
famosissimo Calloandro di Giovanni Ambrogio Marini, e nei
primi decenni troviamo, vestito a nuovo, qualche vecchio ro-
manzo del Lupis del Leti del Corbelli del Muti del Mioni, e
nel 'i8 un Andrea Genutio, gentiluomo napolitano, osa ricom-
parire a Venezia con gli amori del Re Diosino^ raccontati per
milleduecento pagine, e ancora nel '40 si osano ristampare nella
città del Goldoni ben dieci volumi deW Artamene ovvero Ciro
il grande del signor di Scudéry, nella versione del Bisaccioni.
Ma insomma si può senza tema affermare che nella prima metà
del Settecento, mentre cresce in modo meraviglioso e trionfa
oltre r Alpi, in Italia il romanzo tace. A spiegarci il curioso
fenomeno bisogna por mente al discredito in cui, al sorgere
dell'Arcadia con rinnovato spirito classico, caddero i romanzi
eroico-galanti, espressione pura del secentismo ^ e peste del
secolo. Il romanzo poi cosidetto realistico non aveva germo-
gliato fra noi, sia perchè la fortuna non lo volesse, sia perchè
gli elementi in esso contenuti, e in ispecie la satira, avessero
trovato altri generi letterari dove fondersi, cioè gli Avvisi di
Parnaso e i Ragguagli, in prosa, e il poema eroicomico, in
verso. Il poema eroicomico e giocoso, più o meno dilungatosi
dal Tassoni e dal Bracciolini, conservò nel secolo nuovo gran-
dissimo favore e durò fino all' Ottocento ; anche per questo che
in Italia, presso i letterati, la poesia era considerata da più
assai della prosa e meglio adatta alla nobiltà dei componimenti
lOO UN ROMANZO SATIRICO A VENEZIA
drammatici e narrativi. Certo la corruzione dovette apparire
nella prosa del Seicento anche più profonda che nella poesia;
e troppo difficile riusciva nel Settecento il racconto in prosa a
chi per avventura non fosse nato sulle rive dell'Arno.
Ricordiamo come il Brusoni a Venezia avesse tentato invano
di creare il romanzo di costume, che nel secolo decimosettimo^
decadute e spente le splendide corti del Rinascimento, si oscu-
rarono nella nostra penisola i gentili sensi cavallereschi, i modi
fini ed eleganti, V eccellenza del dire, la coltura degli animi e
delle menti, l'arte insomma del vivere sociale, come avvertivano
gli stranieri scendendo fra noi, sì che nemmeno nel romanzo^
eroico poterono recare i nostri quel sottile profumo che spira
nella pastorale del D' Urfé, quella ricercatezza aristocratica, pj'e-
ziosa, che dalle sale della marchesa di Rambouillet si riflette
quasi in lucido specchio nel Gran Ciro e nella Clelia: e vi
lasciarono soltanto l' aridità e la falsità delle proprie anime.
Pensiamo che nel 1699 usciva in Francia il Telemaco, nel 1704
entrava in gara l' Inghilterra col Racconto di una tinozza di
Swift, nel 1707 Le Sage stampava il Diavolo zoppo e nel 1715
i primi libri di Gii Blas, nel '13 Hamilton pubblicava le Memorie
del conte di Grammont, nel '19 nasce Robinson, nel '26 Gulliver^
V anno dopo Prévost comincia a stampare le Memorie e avven-
ture d'un nobile che si è ritirato dal mondo, nel '3i.Marivaux
la Vita di Marianna, nel '32 vediamo sorgere il Cleveland, pure
di Prévost, nel '33 appare la fatale Manon, nel '40 le anime
tenere piangono già sulle lettere di Pamela del Richardson,,
nel '42 si ride sulle avventure di Giuseppe Andrews del
Fielding, nel '45 Crébillon figlio fa scandalizzare qualche
pudico lettore col suo Sofà, e nel '47 Voltaire qualche lettore
timorato col suo Zadig, mentre nello stesso anno le gentili
lettrici cominciano a commuoversi per la Clarissa, pur sorri-
dendo due anni dopo a Tom Jones. Gli scrittori italiani guar-
davano in silenzio, stupiti in cuor loro, più che non volessero
confessare, di tanta vivacità, di tanta facilità di creazione,
di tanta violenza di satira, di tanto spirito spontaneo, di
tanta naturalezza di sentimento e di stile, di tanta efficacia di
linguaggio; e quantunque avessero ormai rigettato tra i rifiuti
del Seicento le metafore più contorte e i fronzoli più tristi
della rettorica, si sentivano ancora troppo impacciati a scegliere
tra r italiano dimesso e dialettale che usavano parlando e
quello accademico scolastico appreso sui libri, e con malin-
SULLA METÀ DEL SETTECENTO IO!
conico rimpianto ripensavano ai poemi gloriosi del quattro e
del cinquecento.
Ciò dunque accadeva presso i letterati di maggiore e di
minor coltura: ma c'era altra gente a cui bisognava badare,
ossia un pubblico non molto numeroso, ma sempre crescente,
di semplici lettori, composto per la massima parte di signore e
di galanti, e in minima parte di povera borghesia o di popolo
che sapea d* alfabeto e paventava la vista dei poemi, sia pur
facetissimi. A costoro pensavano i librai non solo provvedendo
le botteghe loro de' romanzi originali francesi, oppure voltati
d' altra lingua in francese, ma prezzolando eziandio oscuri tra-
duttori e rifacitori, i quali nel piìi sgrammaticato e imbastardito
linguaggio italiano deformavano per lo più e sconciavano gli
originali e le versioni francesi. Di romanzi stranieri Venezia
diventò addirittura un' officina o un magazzino, come nel Sei-
cento e più ancora, talché gli autori e le opere di cui feci men-
zione v' erano quasi tutti noti e familiari insieme con moltissimi
più oscuri, sebbene comparissero talora sotto veste anonima o
anche finta. Ecco perchè non si avvertiva in Italia un acuto
bisogno di romanzi indigeni: che poi dovessero un dì o l'altro
ripullulare e inondare era naturalissimo e fatalissimo, anzi l'in-
dugio riuscì soverchio; e fu quasi legge che ciò accadesse a
Venezia dove era nato, si può dire, il romanzo vero e proprio
nel Seicento. Il merito, se possiamo così chiamarlo, fu dell'abate
Chiari da Brescia'», dell'infelicissimo rivale di Carlo Goldoni,
•che nel 1753 lanciò di colpo fra il pubblico veneziano ben tre
volumi d' una sua Filosofessa Italiana, e subito dopo, senza
tregua, due altri della Ballerina onorata, due della Cantatrice
per disgrazia, due della Commediante in fortuna, e non so poi
quanti finché non lo arrestò la morte. Tuttavia qualche tentativo
non mancò prima del Chiari, sebbene timido e isolato, con
questa differenza, che gli autori dal rimaneggiare 1' opera altrui
passarono a volerla continuare, o apertamente si fecero imitatori
di un modello straniero, seguendo orme sicure. Men conosciuto
forse del canonico bolognese Giulio Monti che proseguì l'istoria
di Gii Blas, ma assai più degno di ricordo, ci si presenta l'abate
Zaccaria Sceriman, nato a Venezia nel 1708 di nobilissima fa-
miglia armena 3, il quale diede a stampare nel '48 e pubblicò
nel '49 in due tomi, con figure in rame di Giorgio Fossati, i
Viaggi di Enrico Wanton alle terre incognite Australi ed al
Paese delle Scimie, finta versione dall' inglese 4. Il favore onde
I02 UN ROMANZO SATIRICO A VENEZIA
venne accolta questa libera imitazione nella Serenissima e fuori,
ci dimostrano le molte edizioni, anche nell'Ottocento, e qualche
traduzione. Ecco pertanto le linee generali del racconto:
- Enrico Wanton nasce a Londra di nobiU genitori, ma il
padre malamente opponendosi alle inclinazioni del figlio, avida
d'apprendere le scienze, lo considera come un ribelle; sì che
un dì Enrico fugge di casa, e con poco denaro si imbarca alla
volta delle Indie Orientali. Dopo il capo di Buona Speranza
una fiera burrasca fa naufragare e perire V equipaggio, mentre
Enrico, rimasto fino all'ultimo sulla nave, salvasi col mezzo di
uno schifo in un' isola sconosciuta delle Terre Australi. - Egli
è dunque della famiglia di Gulliver e fratello di Robinson, per
tacere di altri minori congiunti 5. - Ma Enrico non è solo: fin
da quando, vedendo lontanare le coste della sua patria, era
scoppiato in pianti, un giovane di ventiquattro anni, per nome
Roberto, a bordo dello stesso vascello, eraglisi avvicinato a
confortarlo e, stretta con lui fraterna amicizia, non s' era mai
più distaccato dal suo fianco. - Ha costui certa rassomiglianza
col Mentore di Telemaco (per non dire col Virgilio di Dante),
perchè serve poi di guida all' inesjJerto amico, dotto essendo in
ogni scienza e peritissimo degli usi della vita, non che dei se-
greti dell'animo umano e della società; egli educa e istruisce
Enrico, il quale nutre per lui sincera devozione, gli parla della
Provvidenza divina col fervore medesimo onde la invocava
r infelice Crusoe, gli tiene di continuo filosofici ragionamenti.
- 1 due giovani hanno seco le armi, alcuni libri, alcuni stru-
menti scientifici e poche vettovaglie: riparano in una caverna,
la rendono abitabile, vivono di pesca e occupano l'ozio, com'è
giusto nell' età di Linneo e di Swammerdam, classificando piante
esotiche e insetti. Dopo qualche mese, valicando una catena di
monti che chiude a loro il mezzogiorno, scendono in una va-
stissima pianura tutta sparsa di città e giungono per un'amena
campagna alla prima abitazione, ma oh sorpresa!, non uomini,
bensì ai loro sguardi si offrono deformi scimmioni in veste
europea. L'accoglienza non riesce gran fatto lieta: que' rozzi
abitanti del contado, spaventati, scambiano i due viaggiatori per
bestie e li legano nella stalla in compagnia d' un cavallo, due
vacche, un becco, un cane. - Par di rileggere Apuleio! - For-
tunatamente una giovane scimmia detta Oliva ( poiché quello
strano popolo sceglieva i nomi dal regno vegetale), invaghitasi
d' Enrico, insegna il linguaggio scimmiesco ai due prigionieri e
SULLA METÀ DEL SETTECENTO I03
li consola. A Enrico poi non mancano gli ammaestramenti di
Roberto e ha inoltre la fortuna di poter compiere la propria
istruzione filosofica per mezzo dei Saggi di Montaigne, salvati
dal naufragio insieme con le pistole, con la spada e con gì' istru-
menti dell* amico. - Il Settecento e' è tutt' intero !
- I due miseri sono offerti in dono a una nobildonna della
città, la quale vuol visitarli, ma ne ha schifo; sarebbero quindi
condannati a morire come inutili e nauseabondi, se non si deci-
dessero a porre mano al fulmine, cioè a una pistola ^, con cui
uccidono uno scimmione, e a usare alfine V appreso linguaggio.
Eccoli diventati oggetto della curiosità generale e degni di ri-
spetto. Certo signor scimio per nome Faggio, ambisce 1' onore
di condurli con sé e di ospitarli in una sua villa, presso madama
Spina e la figlia Lattuca. Delle quali ci è dato così di godere
il ritratto fisico e morale, e di assistere alle occupazioni quoti-
diane. Dalla villa passiamo in città: descrizioni osservazioni
racconti si inseguono e si moltiplicano. Il nostro Wanton, giunto
al sommo della fortuna, può gettar V occhio tranquillamente
sulle varie parti della società scimmiesca; né poco gli giovano
a una più ampia conoscenza del vivere le molte conversazioni,
gli amici, gli accidenti amorosi e gli altrui racconti, come per
esempio le avventure del primo ministro nei regni degli zoppi
e dei mutoli, dei pappagalli e delle rane: fatto così esperto e
contento, dimentica le antiche disgrazie, quando improvvisamente
altri impensati colpi gli prepara il destino che pur dovrà in
fine, dopo le più strane vicende, restituirlo alla patria. -
Fénelon Defoe Swift, tre autori ammirati e letti nel Sette-
cento ^ anche da coloro che sdegnavano l' arte del romanzo,
suggerirono a Zaccaria Sceriman qualche parte dell'invenzione,
ma r ultimo gli porse l' idea principale e lo può annoverare
nella ricca schiera de' suoi imitatori: tra i quali ha per noi
speciale importanza l' abate francese Desfontaines, perché nel
Nuovo Gulliver ^ riconosciamo il fratello primogenito di Enrico
Wanton. Che poi il Sceriman ci introducesse nel regno delle
scimmie e più tardi dei cinocefali, non ci sorprende 9: questo
mondo animale e quella insistenza del meraviglioso erano cose
generalissime nel Settecento, soprattutto ne' primi decenni :
apologhi, leggende popolari, racconti orientali in prosa e in
verso furoreggiavano talmente che il fenomeno ci richiama, sia
pure con un sorriso, agli albori delle letterature medievali, come
se un' arte novella ci fosse annunziata. Quale scrittore non era
I04 UN ROMANZO SATIRICO A VENEZIA
tentato di studiare Esopo e Luciano, d' imitare La Fontaine e
Perrault, Galland e Hamilton, se il pubblico incipriato e ma-
scherato, infantilmente curioso, si mostrava avido di favole e
godeva immergersi nei sogni delle Mille e ima nottel Dalla
Francia specialmente passò cotesta moda in Italia, dove più
tardi essendosi diffusa, più a lungo durò. Non a caso ho nomi-
nato Luciano. Neil' antichità greca, come press' a poco nell' evo
moderno, a due materie principali attinse nutrimento il romanzo
e con esse talora desiderò di confondersi, alla storia e alla
geografia: onde si formò una doppia serie di narrazioni favo-
lose. Fra tutte le descrizioni di paesi e di viaggi immaginari,
prima e dopo della impresa d'Alessandro ^°, convien nominare
la celebre Storia veridica dello scrittore greco prediletto al
Settecento, non solo perchè offre l' elemento fantastico misto col
satirico, ma perchè ci racconta delle isole abitate dagli Ippogipi
e dagli Ippomurmechi, antenati senza dubbio degli Houyhnhnms
di Swift ".
Del resto povera cosa è la finzione dell' abate Sceriman e
più non e' importa, mentre ci attrae il contenuto satirico. Fin
dall' introduzione 1' autore ci mostra l' umor suo poco lieto : " La
maggiore verità „ dice " che ho appresa, si è quella che dal
Mondo sembrano affatto sbandite la ragione e la verità, e che
di questi lumi celesti hanno preso luogo la falsità e la strava-
ganza „. Biasima nelle prime pagine del suo racconto l'errore
dell' educazione paterna, che consiste nel tiranneggiare di pro-
posito i figli, senza curarsi di studiarne e dirigerne le tendenze
naturali. Si rimpiangono poi, con illusione cara al Settecento, i
tempi primitivi dell' umanità, quando i costumi semplici e puri
non erano stati guasti da una civiltà corruttrice, e si loda la
vita rustica contro l'artificiosa vita delle città: ciò che tante
volte ci tocca udire molto prima di Rousseau ". Troviamo con-
tro le donne, nel secolo frivolo, un sentimento ostile, quasi di
rancore. Ma lo scrittore diventa di mano in mano più ardito
mentre procede, e la sua satira, spesso ingenua, piacevole sem-
pre per sincerità e coraggio, involge tutto il costume, tutta la
società del Settecento, e cerca di scoprire il cuore malato di
Venezia. Quella critica del costume veneziano che 1* avvocato
Giuseppe Antonio Costantini, ossia il Pupieni^ aveva fino allora
disseminato nei primi sei tomi delle sue rozze Lettere '3, rac-
coglie il nostro abate nel romanzo. Wanton assiste alla toletta
della dama, alle sentenze vanitose dei fisici e filosofi, alle con-
SULLA METÀ DEL SETTECENTO IO5
tese ciarlatane dei medici, alle chiacchiere dei novellisti ignoranti,
alle arringhe cavillose degli avvocati, alle pompe dei funerali,
alle brighe di chi vuol ottenere un posto, alle ipocrisie di chi
vuol carpire una eredità, ai contratti di matrimonio: passa dal
teatro d' opera al teatro di commedia, dalla bottega di caffè alla
bottega del parrucchiere, dalla sala da gioco alla sala da ballo;
si ferma nel gabinetto del ministro a osservare i supplicanti,
nelle anticamere i cortigiani; via via fa sfilare i ritratti morali
e sociali: il servente^ l'avventuriere, il pedante, l'impresario, il
maestro di ballo, le donne civette, gli adulatori, il seccatore, il
giovine alla moda, il vecchio osceno, 1' orator sacro, lo scrittore
petulante ; e li accompagna col riso e con la censura m.
Qualche volta ama l' ironia nella quale sarà poi sommo il
Parini. Fermiamoci ad ascoltare la lezione di una madre alla
figha in attesa di marito: " Quando entrerai nel mondo me-
diante il legame del matrimonio, si muterà interamente per te
la scena... Alla tua prima comparsa mille giovani nobili ti pale-
seranno la stima loro, che nel linguaggio della nobiltà significa
amore: ti esibiranno il loro servigio, e col tempo saprai qual
senso abbia questo servigio : 1' uso ti obbligherà a scieglierne
uno; ma guardati di secondare in tal passo le tue inclinazioni,
poiché, ciò facendo, saresti perduta per sempre... Guardi il
Cielo che a me fosse toccata la disgrazia d' essere madre d'una
dama imprudente, imperocché in tutto questo maneggio non si
tratta che del modo, non mai delle azioni. Ti converrà dunque
sciegliere o il più ricco o il più nobile o il più possente de'
concorrenti... Pensa che accettandolo non si tratta di dargli il
cuore, altrimenti saresti irreparabilmente perduta: devi sempre
vivere seco lui così che tu possa darti a un migliore, quando
la sorte te lo presenti: ecco il primo punto. La tua casa debbe
essere quella che solamente t' accolga nell' ore del riposo e del
cibo; per altro una dama di spirito non può aver ore da trat-
tenersi nella propria casa. Le visite, il giuoco, il passeggio, le
danze, i teatri, le veglie esigono troppo tempo per permetterci
ad avvilirci nella compagnia delle damigelle. Marciscano fra le
mura domestiche quelle infelici femmine le quali hanno sortito
uno spirito basso e melanconico, oppure coloro che l'età obbliga
ad un ritiro sforzato per non essere nelle nobili adunanze l' ob-
brobrio e lo scherno universale „.
Un' altra madre dice a Wanton in occasione delle nozze
della propria figlia: " Voi avete l'idee assai volgari; mia figlia
Io6 UN ROMANZO SATIRICO A VENEZIA
è una gran Dama...; io sono una madre che sa tutte le leggi
del decoro. Fra noi è escluso qualunque amore preventivo
air impegno del matrimonio; e se si risapesse che una nobile
donzella fosse invischiata in qualche amorino, oltre il disonore
di tutta la sua famiglia, sarebbe disperata la sua collocazione.
Le femmine del comune amano a loro talento, e scelgono se-
condo il genio lo sposo, e questo la sposa; ed è ben giusto,
mentre esse portano in dote la tenerezza per difetto di sostanze,
ed egli le pasce d' amore, giacché non ha mezzo migliore di
nutrirle. Le nostre donzelle non vedono lo sposo, né sanno di
quali grazie sia ornato, di quale spirito, di quali virtù, antici-
patamente alla fede che gli promettono, né questo gode privi-
legio più vantaggioso. Li genitori secondo le loro mire contrag-
gono gì' impegni : a' quali le due parti principali si sottomettono
senz'altro esame. - Io restai molto meravigliato (racconta
Wanton) d' un costume senza ragione, essendomi sempre figu-
rato il matrimonio come un' unione di cuori, d' interessi, di
genio e d' amore „.
Ed ecco il discorso d* un padre al futuro precettore del suo
figliuolo: " lo non voglio scienze, non le ho studiate, non
r hanno apprese né mio padre, né mio avo, né mio bisavo, né
alcuno de' miei antenati... Voi dovete dunque insegnare la lingua
antica a mio figlio, ed in questo studio impiegherete tre ore la
mattina e due il dopo pranzo. Sarete sempre con lui, l'accom-
pagnerete alle visite ed al passeggio ; e nell' ore di ritiro gli
suggerirete le massime di cavalleria, d'insinuerete eh' è nato
per essere superiore agli altri Scimii; che non deve soffrir torti
da' suoi uguali, che si farà rispettare quando si abbia timore
di lui... Per tale fatica avrete gli alimenti alla tavola de* miei
servi; e se avete qualche pretesa di salario, parlate pure con
libertà „.
Come l'abate di Bosisio, con sentimento nuovo nella lette-
ratura, perchè il Settecento è buono, mostra certa simpatia per
gli umili. La plebe è insolente talora, i servi talora sfacciati,
gli artigiani disonesti, ma V abate Sceriman ha una parola di
commiserazione per coloro che stanno in basso, per il mereiaio
e il bottegaio che ricevono insulti in luogo di denari dai no-
bili prepotenti, per l' operaio costretto a implorar protezioni,
per il servo maltrattato, per il contadino. Madama Spina può
ben dire delle sue damigelle: " Noi che discendiamo per gene-
razioni di più secoli da un sangue che per la prima volta colò
SULLA METÀ DEL SETTECENTO IO7
dalle vene d' Eroi, siamo per lo più troppo vili, abbassandoci
a costoro che dopo aver avuto 1' onore d' esser tollerati, hanno
la baldanza di deporre parte di quella sommissione che e' è
dovuta „ ; e il ministro del re può ben affermare : " Le persone
di stato medio ed infimo sono nate nel mondo per corteggiare
i miei pari ; e devono chiamarsi fortunate, se dopo essersi pre-
sentate più volte air udienza, ricevono in fine V onore d' essere
ammesse „ : V animo dello scrittore è altrove, non coi ricchi e
coi potenti, ma con la semplice gente di campagna che, pur nel
dispregio in cui vive, conosce la bontà e gli affetti, e ha lacrime
di gratitudine ^5.
Coi suoi contemporanei non è pietoso l' abate Sceriman.
Egli deride le conversazioni, le cerimonie, i cagnolini, i nei, la
cipria, i guardinfatiti, il busto, la maschera, 1' uso del caffè e
del gelato, le raccolte per nozze : sferza il lusso il gioco il ballo,
la smania del teatro, i capricci della moda, le mode straniere.
Né è pietoso coi suoi concittadini : nelle donne scorge leggerezza,
nei giovani falsa educazione, nei nobili dissolutezza e poco
onore, nell' intero popolo una femminile curiosità, V amore
air ozio o alle arti inutili, la folha del piacere. Ma spingiamoci
anche noi tra la folla a godere il carnevale nella piazza di
Scimiopoli: " La Piazza, eh' è magnifica e grande, era ripiena
di popolo. Non perdei tempo in esaminare le stravaganze della
plebe non meritando gli riflessi d' un forestiero il cumulo di
sciocchezze che praticar suole, credendo distinguersi con spiri-
tose invenzioni. Pregai il signor Tulipano a condurmi al luogo
dove si raduna il mondo nobile, credendo gustare il diletto o
della vista, o della conversazione, o del passeggio. Ma contro
ogni mio credere non trovai che confusione, urti e difficoltà di
respirare. Si forma certa strada da due file di sedie disposte
r une contro V altre, che lasciano nel mezzo tanto spazio di
terreno, quanto ne occuperebbero otto o dieci persone di fronte.
Le femmine, che suppongono incantar li passaggeri o colla ric-
chezza de' loro vestiti, o con qualche altro allettamento capace
di dar pascolo '^ agli occhi, si pongono a sedere sopra le sedie
mentovate, avendo cadauna al fianco il servente. Sarebbe cosa
disdicevole che il marito si vedesse in pubblico vicino alla
moglie. Lo spazio intermedio si empie di maschere talmente,
che è quasi impossibile il camminare senza pericolo di soffo-
cazione. Il fine delle femmine riesce affatto frustraneo, non per.
mettendo la calca il fermarsi, né per ammirare la bellezza e
Io8 UN ROMANZO SATIRICO A VENEZIA
valore delle stoffe che le coprono, né quelle grazie colle quali
presumono incantare chi ha il coraggio di fissar le luci sopra
di loro, lo non poteva più continuare in quello stato di violenza.
Chi mi dava una spinta che mi avrebbe senza dubbio gettato a
terra senza il sostegno de' vicini, eh' io pure necessariamente
dovevo spingere, e che mi regalavano dei titoli di bestia e di
asino; chi mi premeva un piede, facendomi provare eccessivo
dolore; chi si lamentava di me, perchè non potevo proseguire
il mio cammino, impedito da quantità di persone che non ero
in diritto d' obbhgare a cedermi il passo. Un' aria freddissima
piombava sopra il mio capo, ed intanto avevo la camicia tutta
molle di sudore; e già cominciavo a temere d'incontrare in
quel delizioso passeggio una febbre maligna. Non ostante tanti
incommodi, gh abitanti di Scimiopoli impazziscono per quel
divertimento, che considerano come uno delli più amabili che
possano mai godere „.
La Scimiopoli dello Sceriman ricorda la Cosmopoli che il
Costantini ci descrive nella lettera intitolata per V appunto //
carnovale, ricorda la Parigi di Carlo Gozzi nella Marfisa biz-
zarra, ne' tempi di Carlomagno vecchio e rimbambito: è sempre
la visione di Venezia nel Settecento, attraverso la critica, la
satira e la caricatura '7. La descrizione poi della Piazza, cioè
del notissimo liston, la ritroveremo più tardi in certo sogno
allegorico di Gasparo Gozzi, amico dello Sceriman, ntW Osser-
vatore-. " ... In un altro luogo stavansi quasi innumerabili uomini
e donne a sedere sopra due liste di sedie che lasciavano nel
mezzo aperta una via, per la quale passeggiavano in due file,
r una che andava e 1' altra che veniva, altre centinaia di per-
sone che guardavano quelle a sedere, mentre che quelle che
stavano a sedere miravano quelle che passeggiavano senza altra
faccenda. Udivansi intorno sonare strumenti di varie sorti, voci
che andavano al cielo, un romore che assordava „. E il conte
Carlo :
Un dì di Carnoval era, e la pressa
De' Cavalieri e Paladini è grande,
Per gir nella Ruet dopo la niessa,
Ch' è una via in piazza, chiusa dalle bande
Da' sedili di paglia, ov' è il sol, messa.
Qui facean le sentenze memorande,
Al passar delle spose, dell' imbusto.
De' drappi, delle anella e del buon gusto...
SULLA METÀ DEL SETTECENTO I09
Spesso s'udia gridare: Omè, il mio callo,
Un m' ha pigiato, oh Dio, veggo le stelle.
Un altro dire: Olà, se' tu un cavallo?
M'hai dato d'^urto, e rotte le mascelle.
Un altro: E' mi fu tolto senza fallo;
Non ho più r orivuol nelle scarselle.
E miir altre sventure e casi avversi,
Ma tutti alla Ruet dovean tenersi (e. IV).
Osserviamo alcuni damerini, che hanno l' aria di giovani
patrizi: " Essi facevano „ racconta Wanton " molte riverenze
con garbo, misuravano le parole, e sempre sopra il loro volto
si vedeva il riso obbligante. Sapevano il nome delle migliori
dame del regno, erano pratici delle aderenze e delle genealogie
delle principali famiglie, parlavano di guerre, raccontavano mille
galanterie in materia d' amori, giuocavano molto bene, quando
s' incontrava qualche partita, danzavano con leggiadria, e sopra
un certo stromento molto simile alli nostri violini sapevano
suonare due o tre balletti imparati a memoria. Con tante doti
non potevano che riuscire di piacere alle dame, ed in fatti erano
ricercati in tutte le conversazioni. Per altro quando si faceva
qualche sodo discorso, poche volte gli ho intesi proferire un
pesato giudicio, mentre per lo più fondavano tutte le loro opi-
nioni sopra i pregiudici ordinari del paese, o sopra V autorità
di coloro che passavano per illuminati o per dotti „.
Volete un giovane alla moda? " ... Era uno di quei tali che
fanno ogni sforzo di farsi credere mentecatti da chi gli osserva,
supponendo comparire genii di spirito sciolto: vizio pur troppo
comune nella gioventù nobile di quel paese... Teneva egli una
canna nella mano destra che andava dimenando di qua e di là,
come farebbe un fanciullo con una bacchetta, percotendo le
gambe ora di questo, ora di quello. L'altra mano la teneva
nella cintura: camminava ritto, con la testa alta, e con un' in-
gratissima voce cantava stuonando un' aria che non sapeva.
Entrò questo giovane in tale positura nella bottega {di caffè)
senza degnarsi di salutare alcuno; stimando, come è solito de'
suoi pari, perdere l' estimazione degli altri, usando civiltà e
cortesia. S' avanzò dunque sino a noi seguendo la sua canzone
e tenendo gli occhi sempre rivolti in alto „ ma quando il gio-
vane scimio li abbassò a caso e scorse i due uomini (Enrico e
Roberto), fuggì via pieno di spavento.
no UN ROMANZO SATIRICO A VENEZIA
Ora si avanza una gentildonna e possiamo osservarne mi-
nutamente il curioso abbigliamento : " Era vestita d' una veste
di seta assai bella di colore celeste, ma la figura era particolare,
imperocché per la parte anteriore non le giungeva che a mezza
gamba, e la strascinava per di dietro in forma di coda. Un
circolo di tre braccia di diametro V era attaccato sotto il petto,
cosicché questo allargandosi sino ai piedi, e cadendo il drappo
di seta sopra d' esso, pareva questa dama una testa e non un
intiero busto piantati sopra un cono troncato: figura tanto più
orribile, o pure se si voglia, più degna di riso, quanto più
s' allontanava dalla forma del corpo umano. Aveva calzati i
piedi d' un cotone finissimo, e gli stivaletti erano d' una pelle
rossa dipinta di varii fiori. Non se le vedeva che la metà delle
braccia, poiché V altra attaccata sino al cubito al busto, sembrava
stare coperta nel cerchio, e questa metà era nuda. Portava
braccialetti ricchissimi intorno ad esse, e le pendeva dalla gola
una collana di coralli ridotti rotondi a perfezione. Teneva nella
destra un lungo e grosso bastone tempestato di smeraldi, e nella
sinistra un ventaglio assai grande di penne di varii uccelli.
Dalla testa sino alla metà della schiena cadeva una tela divisa
in molti pezzi, che era il gioco del vento, poiché ora sopra una
spalla, ora sopra il seno venivano spinti, onde V era d' uopo
valersi di continuo del suo ventaglio per rimettere quella tela
al suo sito. Il ciuffo del suo crine era più tosto elevato ed unito,
e si vedeva che V arte e non la natura aveva fatta quella dispo-
sizione di capelli, ciò che la faceva comparire agli occhi nostri
più deforme e ridicola. Due grossi diamanti le servivano per
pendenti „.
Air autore del Giorno pensiamo di nuovo nelF assistere alla
toletta di madama Spina: " Una delle damigelle era in piedi
in prospetto alla padrona, ed era il giudice inappellabile del-
l'operazioni dell'altre... Sopra una piccola tavola stavano distesi
mille bizzarri stromenti di vanità, ognuno de' quali aveva il suo
ufficio particolare. Tremanti le damigelle si accostarono al capo
della padrona per accingersi alla grande azione, e vi posero le
mani con una serietà, attenzione e studio che tanto certamente
non ne adopra un giureconsulto quando esamina d*un suo cliente
le ragioni che devono decider dell' esser suo. Un solo pelo che
al pettine non obbedisse era un delitto per l' infelice damigella
che non sapeva domarlo. Allora l' osservatrice spiava il fallo
alla padrona, che montata nelle furie minacciava dei più rigidi
SULLA METÀ DEL SETTECENTO III
trattamenti la rea. Accorrevano a di lei soccorso le mani amiche
delle compagne, e con pomate e coir aiuto degli accennati stro-
menti tanto sudavano sinocchè fosse riparato il disordine, e si
sottomettesse alle solite leggi il pelo contumace. La partitura
de' capelli, l'ordine delle buccole, la quantità della polvere
erano soggetti di eterni e pesanti consulti. Finalmente terminò
la grand' opera, e s' alzò dalla sedia madama Spina, assai più
deforme di prima „.
Ammiriamo poi altre gentildonne a una festa da ballo, ri-
gonfie nei cerchi e soffocate dai busti: " L'abito delle femmine
in tali occasioni si diversifica dal comune. Una larga ricchissima
gonna sostenuta da una macchina che si dilata quanto più
all' estremità si riduce, macchina formata da ineguali figure
ellittiche parallele, era il capo principale del loro vestito. Un
certo stromento che allarga nel petto e stringe barbaramente i
fianchi, era coperto da certo manto che dagli omeri sino alla
cintura scendeva a norma delle altre vesti; ma ivi lasciata in
intiera libertà la gonna, si raggruppava di dietro e scendeva
sino ai piedi, sempre scemando nell' espansione e riducendosi
quasi in punta. Il peso orribile della macchina, la tortura dello
stromento, e più di tutto il timore di sconciare qualche buccola
delle loro chiome, faceva camminare queste martiri della vanità
così dure ed impettorute ^^, che quasi non conoscevo quelle
medesime colle quali ero solito conversare frequentemente. Per-
donisi alla mia semplicità: mi parevano una truppa di galli
d' India, quando gonfi, coli' ali abbassate, e colla coda elevata
e ridotta in figura circolare, camminano fastosi per il nativo
cortile, divenuti oggetti di ammirazione e di riverenza alle gal-
line, oche, paperi ed altri simili domestici insensati uccelli „.
Al cerchio o guardinfante non la perdona l'abate: " ... Una
certa dama venne a portarsi presso di me, ed in vece di saluto
mi cacciò nelle coste quel largo stromento che scendendo dalla
cintura sino ai piedi, allarga le gonne come le vele d' un gran
vascello gonfiate dal vento. Uno dei circoli che compongono la
macchina mi premeva talmente un fianco, che fui obbligato
abbandonare il mio posto „ '9.
Scherza poi sulle cerimonie per gli sponsali, sull' esposi-
zione del corredo, sull'ultima toletta: " La sposa e la madre
furono inaccessibili in quel giorno sino al momento della cere-
monia solenne. Applicate in adornarsi con tutta quella diligenza
che loro suggerivano e la naturale inclinazione e l' importante
112 UN ROMANZO SATIRICO A VENEZIA
circostanza, si chiusero di buon mattino nel sacrario del lusso,
dove non furono ammesse che le damigelle e le maestre del-
l' arte più accreditate della città. Vollero certe lingue maligne
che in quel gabinetto si facesse qualche uso di magia, adope-
randosi le chiome recise dal teschio di scimie morte, e serven-
dosi del rasoio per troncare sino quasi dalla radice quel pelo
che sopra il fronte femminile ha talvolta l'audacia di comparire „.
Nel capitolo decimosettimo del secondo libro fa tutta una
lezione ai Veneziani per bocca d'un grave presidente del Con-
siglio Reale: sulle classi inferiori che vogliono con la superbia
e con una mentita fortuna mettersi a paro delle maggiori; sul-
r oro che giace inutile negli scrigni, o esce dallo stato per il
fanatismo del lusso; sul progressivo impoverimento delle arti
più necessarie; sulla impotenza delle leggi. Egli conosce a me-
raviglia il carattere dei suoi concittadini : " E incredibile quanto
gli Scimiopoliti siano portati ad ogni sorte di passatempo. Basta
che si tratti di non affaticare ; e tutti sono d' una medesima
inclinazione. Se un fanciullo giuoca nella strada, ecco subito
formarsi un circolo di spettatori intorno di lui: se sta esposto
alla finestra un pappagallo, si vede un effluvio di popolo fer-
mato a considerarlo. Ogni bagattella è sufficiente per divertire
gli abitanti: segno ben chiaro della loro debole estensione di
spirito e d'un genio leggiero „. Condanna, come il Goldoni, la
mania invalsa per tutto ciò che viene dal di fuori: " È introdotto
un fanatismo fra gli Scimiopoliti di non stimare che le cose
lontane. 1 professori delle scienze nativi di questa città non sono
in considerazione: perchè siano stimati, conviene che vengano
da estranei paesi, ed a proporzione della lontananza delle loro
patrie, cresce la riputazione che se ne forma. Gli artefici eccel-
lenti non credonsi potersi trovare che fuori del regno; così dite
de' musici, de' pittori e di tutti quelli che professano qualche
scienza o arte liberale o meccanica. Tale fanatismo si estende
ancora sopra le cose: le lane e le sete forestiere sono credute
eccellenti, e vengono disprezzate le nostre: lo stesso succede
di tutti i generi di merci. Sopra tale falso principio tutti ricer-
cano materie e manifatture straniere; l'arti e gli artigiani del
regno languiscono nella indigenza, il denaro esce dallo stato
che per conseguenza s'impoverisce: mentre gli estranei godono
e trionfano del nostro errore „.
Che importa ch'egli sia un rustego? Egli assale coraggio-
samente tutti i vizi, tutte le ipocrisie. Tale appunto ci piace,
SULLA METÀ DEL SETTECENTO II3
quando con dura verità dice: " Vedrete sempre gli uomini
accendersi fuor di misura, e venire pure alle estremità col-
r esporre anco, se faccia d* uopo, la propria vita a pericolo, per
difendere la fama ed il credito di cui godono presso 1* univer-
sale: mentre a sangue freddo ed anzi talvolta con piacere si
compiacciono violare le più sacre leggi dell' umanità e del de-
coro „ ; o anche: " Si esagera da per tutto la dovuta sommis-
sione alle leggi, mentre in fatti si studiano tutte le vie per
render vana la mente dell'istitutore e l'effetto dell'istituzione „.
E dopo ciò, lasciamogli condannare, sia il dramma per
musica, sia la commedia a soggetto, e bandir dalle scene gli
amori e ridere della Bidone^ anche se T autore si chiami Meta-
stasio. Egli voleva fare e ha fatto del bene ; e ci dispiace di non
potergli concedere almeno un piccolo posto nella nostra lettera-
tura, perchè non conosce l'arte dello scrivere. Negargli un mo-
desto ingegno non sarebbe giusto: vi è nella prima parte del
suo romanzo della psicologia rozza, qualche pensiero buono,
un sentimento rudimentale della natura; e, nelle due parti, qua
e là, dello spirito. Delle vanità, delle debolezze, delle follie so-
ciali è spesso un buon osservatore. Come si fa ad ottenere un
posto non meritato nell'antica Scimiopoli? Il tale " si portò a
far la corte ad un palafreniero del signor Faggio, acciò guada-
gnasse uno staffiere che doveva parlare ad un cameriere, acciò
interessasse il maggiordomo, perchè porgesse le sue suppliche
al padrone, che impegnasse Roberto a presentare una supplica
al Re, che dovesse in virtù di questa ricordare al nuovo Gene-
ralissimo la persona dell'oratore per essere sostituito alla carica
di primo ingegnere,,. Ridicoli usi di tempi defunti che male
sappiamo immaginare.
Meglio possiamo ammirare V arguta scenetta del primo col-
loquio dei due promessi sposi. " Alla comparsa dello sposo si
chinò talmente madamigella senza piegare la vita ed il capo,
eh' io pensai eh' ella volesse sedere in terra. 11 giovane le fece
un breve sì ma insinuante discorso, che si conosceva palese-
mente essere stato apparecchiato. La sposa arrossì, e quantun-
que avesse ella pure appresa a memoria la sua lezione, se la
scordò in un istante, e non seppe rispondere altra parola che
grazie. Madama divenne rossa quanto una brace di fuoco, ed
avrebbe graffiato gli occhi alla figlia, se non fosse stato presente
lo sposo : tanto era il dispetto e la collera che concepì. Sederono
vicini gli amanti futuri, giacché per allora non potevano chia-
G. Ortolani. 8
114 UN ROMANZO SATIRICO A VENEZIA
marsi tali ; ed il signor Garofano esagerò la bellezza e le grazie
della donzella, che ora aprendo, ora chiudendo il ventaglio,
sempre tenendo gli occhi fissi al suolo, e movendosi da un lato
e dall' altro, come se sedesse sopra le spine, rispose più volte,
anzi lei. La madre faceva continui movimenti di capo; ma
tanto peggio „.
Quanto cammino dai romanzi del secolo precedente! Pec-
cato che r autore, il quale deride 1' arcaica prosa boccaccesca
degli oratori sacri, ignori la lingua italiana: sarebbe il men
indegno antecessore in Italia del Gozzi per un lato, per l'altro
del Parini; invece restò confuso tra i pessimi imitatori dello
Swift, e i letterati lo dimenticarono ^°. Eppure il Wanton si
può leggere ancora senza stanchezza, perchè la rappresenta-
zione, satirica o no, del Settecento, e veneziano per giunta, ha
sempre per noi qualche fascino. Esso è Settecento, vero e fedele :
svolgendo le curiose figure in rame che adornano 1' edizione,
r occhio indugia sulla prima, che rappresenta la spelonca del-
l' isola australe dentro cui ripararono i due amici naufraghi :
neir interno, col capo appoggiato alla palma e un libro davanti,
Enrico: fuori scorgesi il compagno, sulla spiaggia. La foggia di
vestire dei due giovani serbasi in tutto antica: ma quel libro
e quel mare ci danno la sensazione d' un paese nuovo, d' un' età
nuova che s'avvicina. Ecco il Settecento, nel '48! Quando il
Wanton fu scritto, in un momento storico importantissimo, il
periodo di preparazione e maturazione del secolo decimottavo
compivasi, e cominciava quello di riforma, in fine di rivoluzione:
così nella vita politica come nell' arte e, ancora, nella scienza.
Passarono quindici anni : finalmente nel '64 l' abate Sceri-
man fece una ristampa dei due primi libri dei Viaggi di Wanton,
corretti qua e là, aggiungendone due altri novissimi »'. - Questa
seconda parte del lungo romanzo si apre con la disgrazia
d' Enrico, arrestato di notte tempo per falsa accusa e condotto
fuori del regno a perire nel lago del Pianto. Una barca lo porta
solo alla ventura, in vista di spiagge deserte. Qui GuUiver torna
a somigliare per poco a Robinson. Giunto in una insenatura,
smonta e scopre una casa abbandonata e cadente, dove la tri-
stezza lo coglie: sta per ritornare alla sua barca, quando fra le
macchie ode alcuni orribili latrati e d' improvviso viene afferrato
da mostri di corpo umano con la testa di cane. Si trova infatti
nel regno dei Cinocefali. Cessata la reciproca meraviglia e paura,
va insieme coi suoi rapitori in un bel palazzo ove impara il
SULLA METÀ DEL SETTECENTO 1 15
linguaggio canino che consiste in diversi tuoni di voce, offre
lunghe spiegazioni intorno alla sua natura umana, è liberalmente
accolto dal ministro Rodipoco e presentato al re. Il romito Fug-
gimondo, che tanti affini ha nel romanzo del Settecento, gli dà
novelle del buon Roberto il quale, appena scoperta l'innocenza
di Wanton, era partito da Scimiopoli alla ricerca dell'amico, né
trovandolo in Cinofania, era passato nella provincia dei Filo-
sofi. Enrico pure ottiene il difficile permesso di visitare il mi-
sterioso paese, insieme con un nipote di Rodipoco. Nella prima
città, detta Prigione delle passioni, V autore ci descrive una so-
cietà di felici alunni che, sotto la guida d' un savio maestro,
riformatore dei vecchi metodi pedagogici, vivono in una specie
d'età d'oro rinnovellata, di Arcadia filosofica; un tenue ricordo
sembra ricongiungere Campanella e Fénelon: sono i cari sogni
dell* utopia insistenti nelle fantasie di quasi tutti i romanzatori
■del secolo decimottavo. Poi, a braccetto ancora di Swift, si ri-
prende la satira; ed ecco altre città e altri popoli che esagerano
fino alla pazzia le inclinazioni del nostro intelletto. Nella For-
tezza dei venti abitano i metafisici, nel Castello delle misure i
matematici, nella città di Giumenza i grammatici e i puristi, nei
Campi della miseria i poeti arcadi, nella cittadella di Rovinia
gli antiquari, nella Valle delle visioni gli alchimisti, i pirronisti
e altri stolti, nel castello di Seccatura i loquaci saccheggiatori
di poeti e filosofi: né manca, nel bel mezzo di un lago, la re-
pubblica femminile, detta Amazonia ^^.
Wanton, ritrovato Roberto e rientrato nel regno dei Cino-
cefali, visita altre terre suddite al re Mastino, come il paese di
Industria, abitato da' franchi-muratori e V Imperio delle lusinghe,
ossia lo Stato Pontificio, che ha per capitale Astuzia. - Qui vera-
mente r audacia di Zaccaria Sceriman sorpassa ogni altro
esempio che prima di lui si ricordi nella Serenissima. De' fram-
massoni r autore senza amore e senz' odio riferisce le terribili
accuse dei nemici e le ambigue difese degli amici ; ma quella
specie di congregazione laica di rito religioso destava nel Set-
tecento assai più curiosità che paura nel governo e nei popoli,
fino alla Rivoluzione, e non merita troppa importanza '^s. Tut-
tavia il ridicolo mistero di cui si circondavano i franchi-mura-
tori, alimentava spaventose leggende sì che lo stesso Sceriman
appare turbato; e sebbene creda alla virtù d^i fratelli, per quanto
ipocrita, teme il loro fanatismo, ciecamente devoto ai padri,
autori del male, e ne commisera la sorte infelice, non altrimenti
Il6 UN ROMANZO SATIRICO A VENEZIA
che se fossero il popolo leggendario degli Assassini e il gran
maestro fosse il Veglio della montagna. " Fui più attento „ rac-
conta Wanton " in esaminare le parole ed i sentimenti di co-
storo, ma non venni a fine di scoprire un'ombra del loro sistema,
tanto inorpellati di dolcezza, di carità, di virtù eran tutti i loro
discorsi. Notai però che sempre di sé parlavano, tutto riferivano
a sé, altra scienza e pietà non conoscevano che fra i suoi...
Mai tante cognizioni de' fatti altrui non ò udite, mai tante pene-
trazioni né più secreti rigiri degli Stati, mai tanti progetti per
rendere felice la terra, seguendosi le ricette dei loro elaboratorii.
Questa carità universale, questo antidoto a tutti i mali mi avreb-
bero fatto stimare quella Società assai più che tutta unita la
provincia de' Sapienti, se le parole dell' amico non avessero
nel mio interno seminati velenosi timori „. Tuttavia non ne
consiglia la distruzione.
La descrizione del dominio temporale della Chiesa richiama
tutta l'attenzione nostra. Il conte armeno, girato lo sguardo sulle
fertili Provincie, depredate dai cardinali e dai vescovi, sulle
popolazioni istupidite dalla miseria dal fanatismo dall' ignoranza
dall' ipocrisia, con meraviglia vede sorgere la grande città " che
sembrava 1' emporio della magnificenza, della ricchezza e delle
bellezze del Mondo intero. Strade, palazzi, fontane, terme, archi
trionfali, piazze, loggie, templi, statue, teatri formano al fore-
stiero oggetti di grandezza e di ammirazione „ ; e dopo aver
brevemente rifatto la storia di Roma con un disprezzo della
tradizione eroica più profondo di Bayle e di D'Argens, esamina
i difetti del governo eunuco ^4, ricerca le ragioni della sua po-
tenza ^5, le colpe ei vizi della sua ricchezza; fin che, inorridito
dallo spettacolo della simonia ^6 e della frode, con l' ira d' un
uomo di fede, non raccattata dagli Enciclopedisti o da Voltaire^
prorompe: " Ah venga, venga presto quel giorno fortunato che
la Sincerità discenda dal Cielo, ed armata delle onnipossenti
stampelle, le dia fra capo e collo ai cortigiani maligni, bugiardi,
traditori, peste di ogni regno, veleno di questa Corte, agli impo-
stori vigliacchi, ai venditori di fumo. Venga e 1' accompagni la
Giustizia, che con la provida scopa spazzi dai tribunali i giu-
dici iniqui ed interessati con le altre immondizie della Curia,,
ed unite a tutte le brutture del Foro le getti nel fiume che serva
d' eterno sepolcro alle vessazioni, all' estorsioni, alle ingiustizie.
Risorgerà allora fastoso l' Imperio, vivrà glorioso ed eterno il
nome de' Principi, e condurremo noi i giorni lieti e tranquilli „.
SULLA METÀ DEL SETTECENTO II7
Così, nella sua umile rettorica, il povero e oscuro abate delle
Gallette veneziane, già monaco benedettino e intinto di gianse-
nismo, invocava, dopo tanti secoli, il veltro allegorico di Dante ;
e il romanzo italiano compiva, come poteva, l'ufficio suo poli-
tico nel Settecento =7.
Le avventure di Wanton hanno ormai termine. 11 resto,
dopo che i due amici tornarono presso il re e n' ebbero onori,
è materia ingombrante a cui mancò il luogo opportuno. Più del
romitorio del vecchio Vinciamore ci attira la villa di Ruminante,
specie di casa patriarcale di campagna che un filosofo del tempo
della Nuova Eloisa, reso malconcio dalla vita e dalla società,
sentiva il bisogno di vagheggiare nella fantasia. E tutti eran
filosofi cotesti romanzatori ! Quantunque, aborrendo la più parte
dalle cognizioni reali della vita pratica, ignorino le funzioni, i
mezzi, i limiti veri dello stato sociale, ciò nondimeno con la
satira, con la critica, coi sogni stessi dell' utopia ci rivelano il
disagio profondo e il disgusto. Superbi del possesso infallibile
della ragione e credendo di aver esplorato l'uomo, unico studio
necessario, in sé e negli altri, si atteggiano a futuri riformatori,
e ridono intanto e ammoniscono dalla loro negletta solitudine.
Di tutto giudicano: così anche l'abate Sceriman ci sciorina trat-
tati di pedagogia, di politica, di letteratura, spesso ripetendo,
contraddicendosi qualche volta. Ci sorprende alla lettura la noia,
ma un' osservazione, un personaggio, un po' di satira antica o
nuova bastano a ridestarci, sebbene morta sia per noi la ma-
teria, mancando il soffio dell'arte, sebbene non sappiamo indo-
vinare sotto i ritratti i nomi del tempo "S.
A chiudere il racconto scoppia la guerra tra i Cinocefali e
i Licopoliti: Enrico e Roberto, custodi al campo del giovane
principe per la fiducia del re, in una improvvisa scorribanda
ne perdono le orme; onde spaventati fuggono, si nascondono,
passano i monti, cibandosi d' erbe, e finalmente giunti in riva
al mare un vascello inglese, spinto colà dalla tempesta, li acco-
glie e riconduce in patria. - La finzione dunque e la satira
hanno origine dall'antichità greca: i modelli remoti di Swift
sono i racconti favolosi degli ionici e degli alessandrini, e le
bizzarre fantasie di Aristofane e Luciano. Modello costante dello
Sceriman è Swift; e, come la prima parte del romanzo imita
di più i viaggi di Gulliver a Lilliput e a Brobdingnag, e la
satira morde di preferenza i costumi e la società del tempo,
così la seconda ci ricorda i viaggi a Laputa e nel paese degli*
Il8 UN ROMANZO SATIRICO A VENEZIA
Houyhnhnms, e la satira deride piuttosto l'uomo per se stesso
e i caratteri suoi '^. Materia del resto abbondevolissima nel Set-
tecento e quasi propria di quel secolo: sparsa anche in Italia
variamente, all' infuori del romanzo, negli pseudo-epistolari, nelle
gazzette, nel teatro, nella poesia eroicomica didascalica giocosa,
e dappertutto. Qualche aspetto della finzione allegorica era
ormai familiare alla nostra commedia letteraria e alle fiabe del
Gozzi. E così, molti anni dopo Swift, potè lo Sceriman atteg-
giarsi venezianamente originale, come non fu concesso in Francia
al pedante abate Desfontaines. Ma oltralpi fin dal 1752 si leg-
geva il Micromega di Voltaire; in Italia, nel '63, avevamo meglio
assai nella letteratura satirica di una imitazione di Swift, che
usciva a Milano il Mattino del buon prete di Bosisio e, due
anni dopo, il Mezzogiorno. L'abate Sceriman si spense nel 1784
oscuramente nella parrocchia di San Canciano, a 76 anni, e
nessuna pietra a Venezia lo ricorda: forse gli nocque l'audacia
contro Roma e l'indole schiva ed onesta. Eppure fu amico dei
Granelleschi, dei Farsetti, del Lastesio, del Costadoni, del Ca-
logerà, del Valaresso, e a lui il conte Gasparo Gozzi dedicò
uno dei suoi Sermoni, e a sue spese si pubblicarono dal 1753
al '58 le Memorie per servire all' istoria letteraria ; tradusse tra
il '67 e il '69 la Storia della Repubblica di Venezia del Laugier,
stampò due Giornali o meglio almanacchi per gli anni '67 e '83^
e altre cose minori, per lo più allegoriche e satiriche. " Ne
cataloghi di sue opere, né manoscritti di lui si conservano „ si
legge in una nota " per avere finita poveramente la vita, ed
essere divenuto per istranezza di carattere forastiero ai pa-
renti „ 30. In silenzio e quasi con mistero parve dileguarsi e
sparire questa curiosa figura d' uomo e di scrittore nel chiassoso
e bizzarro Settecento veneziano del quale aveva un dì tracciato
a grosse linee 1' ardita caricatura.
AGGIUNTE E NOTE
ì
,^v
I Se qualcuno desiderasse un esempio, o perchè nulla mai lesse
o perchè più non se ne ricorda, basterà riferire questa paginetta dal
libro II della Regina sfortunata di Carlo Torre (Milano, 1639, P- i4^)>
dove la sensualità si accoppia al più ridicolo barocco. Si vuol de-
scrivere una madre che porge il latte al suo bambolo: " Spiegando
" alcuni vagiti il bambino, chiamando gli Amoretti a servirlo, avvisò
* la Madre che accompagnasse le perle delle lagrimette cadenti, con
" licenziare dalla guardaroba delle poppe gli argenti stillanti. Ella
" nudando il seno, fece all' apparire di que' raccolti monticelli l'Alba
" spuntar sedendo, che in vece di spargere rose, seminava gigli e
" gelsomini, e perchè dietro all'Alba subito risplende il Sole, accio-
* che quegli fossero creduti Trono d' una così risplendente Messag-
" gera, comparve il vermiglio delle poppe, facendo uffìzio di Sole,
" ma si portò in un baleno all' Occaso, essendosi seppellito nelle vive
" porpore delle labbra del figlio, dando ad intendere che non fanno
" di bisogno lumi dorati di Febo là dove regnano argentei colori di
" Cintia. Con la dolcezza dei bianchi nettari, quasi ebro il fanciullino
" portossi per incoronare una vita diliziosa alla soavità del sonno;
" osservandolo la Regina così rapito, lo ripose pian piano dal letto
" de' molti alabastri su un ricamato suolo d' erbette... „.
3 " Il nostro secolo „ diceva il Baretti nella Frusta ( i giugno
1764), " non ha prodotto alcun romanziere eh' io sappia, trattone
r abate Chiari „. E il Chiari stesso così parla poco modestamente di
sé neir introduzione delle Due gemelle (1777): " Non si vedeano prima
di lui che delle cattive traduzioni di qualche grazioso Romanzetto
Francese, che gli destarono in petto 1' emulazione onorevole di far
conoscere al Mondo che gì' ingegni Italiani non ancora perduti aveano
i loro antichi diritti di non esser sempre semplici Copisti, quando
farsi poteano Originali, per tentare qualcosa di meglio „.
3 Vedi qualche cenno in Tassini, Curiosità Veneziane^ 4* ed., 1886,
p. 668, e altre notizie nel cod. Cicogna 3428, presso il Museo Civico :
Brevi Memorie sulla Famiglia Sceriman del conte Fortunato Sceri-
man, nel 1850. Un fratello di Zaccaria fu ciambellano dell' arciduca
122 UN ROMANZO SATIRICO A VENEZIA
Ranieri e colonnello dell' esercito imperiale ; e il nostro abate fu
prima monaco benedettino. Il nome della famiglia si dice e si scrive
volgarmente Seriman.
4 Viaggi di Enrico Wanton alle terre incognite Australi ed al Paese
delle Scimie, ne' quali si spiegano il carattere li costumi le scienze e la
polizia di quegli straordinarj Abitanti. Tradotti da un manoscritto
Inglese. In Venezia, 1749, presso Giovanni Tagier. - Il permesso dei
Riformatori ha la data dei 20 agosto 1748. La finzione del manoscritto
abbandonato a Venezia da un mercante inglese (vedi // Traduttore
a chi legge), ci ricorda qui più precisamente V Espion Ture del Ma-
rana e la Vie de Marianne del Marivaux.
5 Non occorre risalire a Rabelais e al suo Pantagruel, che una
tempesta di mare spinge alle isole dei Macreoni: anche il Nuovo
Gulliver dell' abate Desfontaines, mentre sta per approdare a un porto
della Cina n' è sbalzato lontano dai terribili tifoni e giunge così
all' isola di Babilary, ossia delle donne. - Pochi anni prima di Ro-
binson e di Gulliver, nel 1710, uscivano in luce i Viaggi e avventure
di Jacopo Masse ( Voyages et aventures de Jaques Masse, à Cologne,
chez Jaques Kainkus, 1710, di pp. 508), curioso romanzo, molto raro
e quasi ignoto in Italia, di Simone Tyssot de Patot. L' autore, nato
nel 1656 in Inghilterra di famiglia, come sembra, ginevrina, aveva
dovuto da fanciullo riparare dalla Francia in Olanda per essere di
religione protestante; e insegnò poi matematica a Deventer, nel-
r Over-Yssel. Chi voglia conoscerlo, deve leggere 1 due tomi delle
sue Lettres choisies, edite all' Aja nel 1727 (per altre opere si con-
sulti Barbier), nelle quali si confessa autore anche d' un altro romanzo.
La vie, les aventures et le voyage de Groenland du R. P. cordelier
Pierre de Mesange (Amsterdam, 1720) e d' una traduzione in versi
degli Amori pastorali di Dafni e Cloe. - Ora un naufragio, a circa
1200 leghe dall' isola di Sant' Elena, getta Jacopo Masse in una terra
ignota della quale descrive le ricchezze naturali e il costume degli
abitanti, non senza frammischiare all' arido racconto vari problemi
di scienza fìsica e certe questioni religiose per cui 1' autore fu accu-
sato di aver offeso la fede. Un riassunto del romanzo offre Le Breton
{Le roman au 18' siede, Paris, 1898, pp. 359-362), ma nulla sa di
Tyssot. - Nei Viaggi di Glantzby nei mari orientali della Tarlarla
(1729) che al compilatore delle Novelle della Repubblica letteraria del-
l'anno 17 jo, num. 8, " pajono una fredda imitazione di quelli di
Gulliver, „ l'eroe danese è abbandonato dai compagni, come Robinson,
in un'isola deserta, nel paese dei Muti; e il racconto gli serve a
satireggiare usi e costumi d' Europa. Se ne parla anche nel numero 16
delle stesse Novelle, nell'anno 1732. - Quanto alle favolose terre
australi, si trova una descrizione nelle Aventures de Jacques Sadeur
(Paris, 1692 e 1705) edite fin dal 1676 col titolo La Terre Australe
connue etc. par M. Sadeur ( il Barbier attribuisce l' ed. originale di
SULLA MLTA del settecento I23
quest' opera romanzesca a Gabriel de Foigny, ex-frate, e la nuova
edizione, rimaneggiata, all' ab. Raguenet); e nella Histoire des Seve-
rambes di Dionigi Vairasse, di cui usci a Parigi la prima parte nel 1677
eia seconda negli anni 1678-1679 (altra ed. nel 1716 ad Amsterdam:
il Barbier rimanda al Dictionrtaire Historiqtte del Marchand, alla voce
AIais)y tradotta a Venezia nel 1730 col titolo di Istoria dei Severambi,
Popoli che abitano mia parte del terzo continente comunemente detto
Australe ecc.: ne parlarono le Novelle della Rep. lett. dell' a. 17 jo^
num. 9. La ricorda Reybaud fra quelle opere che descrivono i paesi
fantastici d'Utopia: Étitdes snr les réformateurs etc, Bruxelles, 1849,
t. I, 382 e II, 86.
6 Così il Cleveland di Prévost incute ai selvaggi Abaqnis (libro IV,
1731) il rispetto e il terrore della divinità. Anche il Nuovo Gulliver
(1730) fa uso delle armi da fuoco (t. I, 142).
7 Mi accontento di rimandare il lettore al Saggio bibliografico
che G. B. Marchesi aggiunse in fine ai Romanzieri e romanzi italiani
del Settecento, benché incompleto e, qualche volta, inesatto. Fortuna-
tissimo per numero di traduttori il Telemaco (1699), ridotto perfino
in ottava rima e in sciolti: poco fortunato Robinson (1719), ch'ebbe
sì gran fama e tante imitazioni per tutta la Germania, in Austria e
in Olanda, sebbene tradotto in Francia fino dal '20 e a Venezia fino
dal 1731 (non soltanto nel '57 come crede il Marchesi), forse per lo
spirito religioso-protestante di cui è pregno (neppure in Francia, né
in Inghilterra, fu da principio riconosciuto tutto il suo merito, dice
Texte: /. /. Rousseau et les origines du cosmopolitisme littéraire,
Parigi, 1895, p. 149). Gulliver (1726), tradotto nel '27 in Francia, fu
dal francese voltato in italiano a Venezia nel '29 (Corona) da Fran-
cesco Manzoni (o Zannino Marsecco) con questo titolo: Viaggi del
Capitano Lemuel Gulliver in diversi Paesi lontani \ e ne parlarono le
Novelle della Rep. lett. di quell' anno, nei numeri 23 e 29. La quarta
parte, cioè il viaggio nel paese degli Houyhnhnms, parve al compi-
latore •' la più bella di tutto il restante „. Altra ed. si fece a Venezia
nel '31 (Coleti), altra nel '49 (Tevernin). Della fortuna e della fama
di Swift in Italia nel Settecento scarse notizie ha Graf nel suo libro
suir Anglomania e V influsso inglese in Italia nel sec. XVIII, Torino,
191 1, pp. 264-265.
8 Le Nouveau Gulliver, ou Voyage de Jean Gulliver, fils du Ca-
pitaine Gulliver, traduit d'un Manuscrit Anglois, Amsterdam, 1730,
dell' abate Desfontaines, a cui si deve la prima versione francese
del capolavoro di Swift (forse non interamente sua: Texte, 1. e, 41).
Ne diedero notizia le Novelle della Rep. lett. dell' anno 17 jo, num. 16,
pp. 124-126; e lo tradusse, come si crede, il padre Calogerà.
9 Nel tomo secondo (1740) delle Lettres Chinoises il marchese
D' Argens scherza intorno alle favole spacciate da Pausania, da Plinio,
da Solino, da Pomponio Mela e da altri autori sul popolo dei Cino-
124 UiN ROMANZO SATIRICO A VENEZIA
cefali e sugli Ippodi, dai pie di cavallo e sui caudati Cercopitechi
(p. 5 e sgg.); e nei Sogni filosofici, che si leggono nel tomo sesto,
r autore si crede trasportato nel paese delle Scimmie. Anche Desfon-
taines nella Lettre du Docteur Ferruginer à V Auteur, aggiunta in fine
al suo romanzo, tra le popolazioni favolose di cui fanno menzione
antichi storici e geografi nomina i Cinocefali (t. II, 169), uomini dalla
testa di cane. L' autorità di Solino e di Plinio invoca in fatti per
costoro lo stesso Sceriman (a p. 63 del tomo III, ed. di Berna) e
quella di Ovidio per il paese delle Scimmie (p. 64). Si veda ancora
Le Grand Dictionnaire Historique " commencé en 1674 par M.^e Louis
Moréri „ del quale si conoscono tante edizioni, fra cui quella vene-
ziana del Pitteri.
^° Rimando al curioso libro di A. Chassang, Histoire du Roman
et de ses rapports avec r Histoire dans V antiquitè grecque et latine,
Paris, 1862.
II Ne cominciò il Gozzi la versione italiana negli Osservatori
Veneti (aprile 1762) col titolo di Vera Storia. - Il Borkowsky, il
Thierkopf, lo Hónncher, l' Eddy e altri studiarono gli autori che pre-
cedettero e ispirarono il Swift: in Italia dobbiamo citare P. Toldo,
Les voyages merveilleux de Cyrano de Bergerac et de Swift, et leurs
rapports avec V oeuvre de Rabelais, in Revue des Études Rabelaisiennes,
Paris, IV (1906) e V (1907); ed A. Faggi, / Viaggi di G., in Rivista
d' Italia, XVI (1913), fase. 2 e Le fonti dei Viaggi di G., in Marzocco,
20 genn. 1924. Del popolo dei Pigmei il Martello confessa di aver
trovato notizie per la sua bambocciata dello Sternuto d' Ercole (1717)
nel famoso dizionario del Moréri, ma un esercito di Pigmei tro-
viamo nel canto XIV del poema di Piero de' Bardi, Avino, Avolio,
Ottone e Berlinghieri, edito a Firenze nel 1643. Di Swift si parlò per
poco nei nostri giornali quando nel 1913 uscì la traduzione dei Viaggi
(Genova, Formiggini) per cura di Aldo Valori: v. per es. Rabizzani
in Marzocco, i febbr. 1914 e Rapini, Stroncature, Firenze, 1920.
" Così Desfontaines nel cap. 12 del I tomo celebra la vita sem-
plice e naturale di certi Selvaggi, i quali così si vantano: " Nous
nous croyons tous égaux, parce que la Nature nous a fait tels, et que
nous nous gardons bien d' altérer son arrangement... Ce que vous
appellez politesse et savoir-vivre n' est que mensonge et dissimu-
lation... Ces Arts, dont vous vous prévalez, sont donc la preuve de
votre misere; et comme ils ne produisent que de commodités arbi-
traires, ou de plaisirs superflus, nous ne vous les envions point...
Vous semble-t-il que celui quit suit les traces de la Nature, est plus
Sauvage que celui s'en detourne et l'abandonne pour suivre l'Art? „:
pp. 182-185. E il linguaggio che prenuncia la Rivoluzione, anzi le
dolci utopie dei socialisti e comunisti dell' Ottocento, la barbarie
felice: " Nous ne voyons point ici un homme demander à un autre
homme dequoi vivre, travailler pour lui en mercenaire, ou le servir
SULLA METÀ DEL SETTECENTO I25
làchement. Nos femmes cultivent nos terres, dont le fond n'appar-
tieni pas plus à r un qu' à 1' autre „ : p. 184.
13 G. Ortolani, Settecento, Venezia, 1905, p. 172 e sgg.
M Questa materia satirica era già sparsa più o meno nel teatro
comico francese, nei romanzi di Lesage, nelle Lettres Persanes (1721)
di Montesquieu e specialmente nelle Lettres Juives (1736-37) e nella
Lettres Chinoises (1739-40) di D'Argens: G. Ortolani, Settecento,
pp. 105-171. In Italia la ritroveremo poi nel poema del Passeroni,
// Cicerone (i"" parte, 1755) e nel Giorno del Parini.
15 L' abate Desfontaines (1685-1745), figlio d' un Consigliere del
Parlamento ed ex-gesuita, mostra un sentimento ostile, quasi di odio,
contro i ricchi. " .. Je lui répondis „ (s' intende al vecchio e saggio
Abenoussaqui) " que notre Paìs étoit très fertile, et capable de nourrir
deux fois plus d' hommes qu' il ne contenoit : mais qu' il y avoit
parmi nous des hommes puissans, qui s' étoient emparés de la plus
grande partie de la terre que nous habitions ; ensorte qu' il ne restoit
plus rien pour les autres, qui, afin de pouvoir vivre, étoient obligés
de travailler pour eux nuit et jour „. Ma, dice il vecchio, perchè i
poVeri non si ribellano? " Les loix les en empéchent, lui repartis-je.
Qu' est ce que ces lois? interrompit le Sauvage. Sont-ce des hommes
armés de fusils et de sabres, qui servent de sauvegarde aux riches,
pour les maintenir dans la possession de leurs richesses, et pour les
défendre contre les justes prétentions des pauvres? „: pp. 172-173.
16 Nella prima edizione (1749), dalla quale naturalmente sono
tolti questi frammenti, si legge pabulo, ma accettai qui volentieri la
correzione che 1' autore fece nella seconda edizione (1764).
17 Occorre ricordare, mezzo secolo prima, il Carnovale del Dotti?
18 " Impettite e pettorute „ dice nella 2* edizione.
19 Anche Desfontaines scherza sui cerchi, ricordando le donne
del suo paese: " Elles cachent souvent mille défauts sous leurs
vastes et pompeux habits, qui ne servent qu' à deguiser leur faille
et à nous tromper. Mais elles entendent si peu leurs interéts, qu' elles
portent de grandes pièces d' étoffe plissées, qui leur descendent
depuis la ceinture jusqu' aux pieds, d' énormes cercles de baleine
revétus de toile, qui les font paroitre grosses et prétes d' accoucher.
Elles marchent au milieu de ces mobiles cerceaux, qui les entourent
sans cesse, comme vos petits enfans à qui vous apprenez à marcher
et que vous emboètez dans de petites machines, qu' ils font avancer
ou reculer par le mouvement qu'ils font „ : I, 161-2. Anche a D'Argens
nelle Lettres Chinoises sembra la moda piiì ridicola e pazzesca:
" Figure-toi un large tonneau de quinze à seize aunes de circonfé-
rence, dont les cercles sont faits de baleine, et le corps est ordi-
nairement d' une grosse toile. Une femme s' attaché ce tonneau à la
ceinture, et ressemble pour lors à un de nos Prédicateurs, enfermé
dans une des tribunes où il debute son sermon. Rien n' est si sin-
126 UN ROMANZO SATIRICO A VENEZIA
gulier que de la voir trotter dans les ruès, tortillant son tonneau
d'un air grave ou badin... Lorsqu' elle est dans un carosse, elle le
remplit entièrement par son tonneau, qu' elle arrange artistement et
de manière que les deux bouts sortent un peu par les portières... ;
il me semble de voir l' image de quelque divinité qu' on promene
dans un char. Quand les femmes descendent de carosse, 1' embarras
que leur cause le tonneau, et la difficulté de le sortir par une ouver-
ture trop étroite, les oblige de montrer la jambe à tous ceux qui
les regardent „: I, ii.
30 Non è da stupire che lo stesso Salvatore Di Giacomo e lo
stesso Giambattista Marchesi scambiassero Wanton per uno scrittore
inglese. Il Marchesi fece poi giusta ammenda nel cit. volume dei
Romanzieri e romanzi ecc., pp. 229-242, benché cadesse, come sem-
pre, in strani difetti d' inavvertenza e in qualche errore. Solo Bar-
tolomeo Gamba, nel prospetto che precede la Galleria de' Letterati
ed Artisti più illustri delle Provincie Venete che fiorirono nel sec. XVIII
(Venezia, 1824), scriveva: " Quanto agli scrittori di Romanzi non
conosciamo chi meriti d' essere registrato oltre il Seriman „ ; e nel
cenno che dettò di lui nel voi. II giudicò i Viaggi " forse il migliore
romanzo critico-morale che si conosca originalmente scritto in ita-
liano „. Dal Gamba attinse Lombardi, Storia della letteratura italiana
nel sec. XVIII, Modena, 1839, t. IV, 270. Più tardi anche Luigi Carrer
lo ricordò con onore esagerato, discorrendo sulla letteratura vene-
ziana neir opera Venezia e le sue lagune (Venezia, 1847) voi. I, ?.• 2.*,
pp. 454-5: " Come non consacrare una riga a Zaccaria Seriman,
che (se ne eccettui la bellezza della dizione, nel Seriman sover-
chiamente negletta e prolissa) ci diede co' romanzeschi suoi viaggi
di non invidiare all'Inghilterra lo Swift? „. Poi tornò il silenzio, ma
il romanzo si ristampò nel 1870 a Palermo e a Milano.
31 Viaggi di Enrico Wanton alle Terre incognite Australi, ed ai
Regni delle Scimie e de* Cinocefali, nuovamente tradotti da un mano-
scritto inglese, falsam. Berna, 1754, tomi 4. Avverte il Cicogna nel suo
Saggio di bibliografìa veneziana (Venezia, 1847) che la stampa si
fece nella villa di Melma, vicino a Treviso.
=2 Pensiamo forse alle favole dell' Ariosto ? Lo stesso Desfon-
taines si diverte a descrivere nell' isola di Babilary un regno dove
governano e comandano le donne, come nel Mondo alla roversa (1750)
cantato dal Goldoni in un dramma giocoso. Sono pure note Les Fem-
mes militaires (1750) di Saint-Jory, che Gasparo Gozzi tradusse e
stampò nel '64 a Venezia {Le Donne militari - Relazione d* un* isola
scoperta di nuovo, in Ven., presso Bart. Occhi, pp. 152), dove il solito
eroe è gettato dalla solita tempesta alla solita isola in cui le fanciulle
portano la veste lunga appena « tre dita sotto al ginocchio, „ e hanno
" il diritto di portare lancia, spada e scudo, „ e ricevono '* nelle
scuole pubbliche l'educazione stessa che si dà ai maschi „.
SULLA METÀ DEL SETTECENTO I27
33 Ne parla quasi scherzosamente il nostro Muratori ne' suoi
Annali d' Italia, a proposito della bolla di Clemente XII (1738): " Era
negli anni addietro nata in Inghilterra una setta appellata dei Liberi
Muratori, consistente nell' union di varie persone, e queste ordina-
riamente nobili, ricche, o di qualche merito particolare, inclinate a
sollazzarsi in maniera diversa dal volgo. Con solennità venivano
ammessi i nuovi fratelli a questo istituto, e loro si dava giuramento
di non rilevare i segreti della società. Raunavansi costoro di tanto in
tanto in una casa eletta per loro congresso, chiamata la loggia, dove
passavano il tempo in lieti ragionamenti e in deliziosi conviti, con-
diti per lo più da sinfonie musicali „. Tale rito passò in Francia e
in Germania, e a Parigi si contarono, come si crede, sedici logge.
" Allorché si trattò di creare il gran mastro, più brogli si fecero
ivi „ scrive argutamente il buon vecchio " che in Polonia per l'ele-
zione di un nuovo re „. E poi continua: " Si tenne per certo che
anche in alcuna città d' Italia penetrasse e prendesse piede la mede-
sima novità. Contuttoché protestassero costoro essere prescritto dalle
loro leggi di non parlare né di religione, né del pubblico Governo
in quelle combricole, e fosse fuor di dubbio che non vi si ammet-
teva il sesso femmineo, né ragionamento di cose oscene, né vi era
sentore di altra sorta di libidine: nondimeno i sovrani e molto più
i sacri pastori stavano in continuo batticuore che sotto il segreto di
tali adunanze, renduto impenetrabile pel preso giuramento, si covasse
qualche magagna, pericolosa e forse pregiudiziale alla pubblica quiete
e ai buoni costumi „. La bolla pontifìcia e l' editto di Luigi XV (1737)
furono cagione " che più non tenendosi tenuti al segreto i membri
di essa repubblica... rompessero gli argini e divolgassero anche con
pubblici libri tutto il sistema e rituale di quella società. Trovossi
terminare essa in una invenzione di darsi bel tempo con riti ridico-
losi, ma sostenuti con gran gravità; né altra maggior deformità vi
comparve, se non quella del giuramento del segreto preso sul van-
gelo per occultar così fatte inezie „ : Opere del Muratori, Venezia,
1790, t. XLII, pp. 67-68. E infatti di cotesti libri e delle polemiche
si fa cenno nelle Novelle letterarie di Venezia e di Firenze: nel
num. 15 dell' anno 1747, le Novelle veneziane chiedono ridendo, a
proposito della Relazione della Compagnia de' Liberi Muratori (1746)
del cav. Angiolieri Alticozzi di Cortona, se 1' autore abbia ricavato
quelle notizie da qualche apostata o dalle " madame adirate perché
escluse dal segreto delle logge, „ le quali siano riuscite a strappare
qualche indizio dell' arcano ai propri amanti. Sulle Donne curiose
(1753) del Goldoni, dove per confessione dell' autore si allude ai
simposi massonici, e sulla commedia del Griselini intitolata / Liberi
Muratori (1754) dà ampie notizie Edgardo Maddalena nella Nota sto-
rica in Opere complete di C. G. per cura del Municipio di Venezia,
voi. IX, 1910, p. 369 e segg. (si veda anche B. Brunelli, La masso-
128 UN ROMANZO SATIRICO A VENEZIA
neria a teatro, in Gazzetta di Venezia, 28 febbr. 1923). Tuttavia non
credo che il Goldoni, almeno fino al '62, fosse affiliato alle logge dei
Frammassoni, disperse in quel tempo e in poco credito, mentre pur
vi erano a Venezia liete compagnie di amici banchettanti, aliene dalle
questioni religiose e politiche. - L' abate Le Blanc nelle sue Lettres
suir Inghilterra (Amsterdam, 1749) scrive propriamente così : " Le
peu de commerce qu' ont les Anglois d' un coté avec le Sexe, et de
r autre leur penchant à l' intempérance, ont donne lieu à toutes ces
Sociétés dont les Assemblées se tiennent au Cabaret. Nos fameuses
cotteries modernes, dit Mr. Addison, sont fondées sur le manger et
sur le boir. De-là est venne cette grande Association des Francs
Mafons, qui fait aujourd' hui tant de bruit dans 1' Europe, et dont les
orgies sont les principaux mystères „: I, 35. E il nostro Rolli che
fu tanti anni in Inghilterra, in un epigramma del suo Marziale in
Albion (Firenze, 1776, pp. 41 e 43) chiedeva:
Ma in che consiste ciò che questi fanno
Compagni in ideal Muraiorìal
In uno sol pubblico pranzo ogni anno,
E cene a poca spesa in compagnia.
Pure in sospetto a più governi stanno.
Perchè? Se fanno il tutto all' Osteria?
Sono Cristiani? In apparente zelo
Lo son : ma non so poi se nel dovere.
Daniele li dirla ministri a Belo,
Perch' è il mestiere lor mangiare e bere.
Nome il pili adatto a questi allegri Fanti
Sarebbe quello sol d' Osterianti.
Così nel Dictionnaire critique, pittoresqne etc. (Lyon, 1768) del mar-
chese Caraccioli si legge alla voce Frama^ons: ** Société fort en
vogue il y a quelques années, et qui tombe maintenant dans V oubli.
Son secret ne s' est tenu cache que parce qu' il n' existoit pas. Tout
le mystère de cette Confrérie consistoit dans une reception tragi-
comique, et dans quelques signes mystérieux „ : t. I, 215. Con mag-
gior riso ne parla nella sua Vita V Alfieri che pure contò non so
quali rimerie in quella " buffonesca società „ (epoca III, cap. 13 e IV,
cap. i). Ostile il conte Giovanni Cattaneo nei dialoghi intitolati La
Uranide (Venezia, 1748) e dedicati a papa Lambertini, Benedetto XIV,
il quale si persuase nel 1751 a lanciare una seconda bolla di sco-
munica. A proposito di questa, scriveva molti anni dopo 1' avvocato
G. Oggeri Vincenti, uno dei molti continuatori degli Annali mura-
toriani : " Già da venti anni in circa questa società di uomini diffusa
e seminata clandestinamente nei paesi cattolici e molto pili in quelli
che sono fuori del cattolicismo, teneva in continuo esercizio la vigi-
lanza dei principi e dei governi... Per essere ammesso a questa
ì
SULLA METÀ DEL SETTECENTO I29
associazione non serviva di ostacolo o di ripulsa la diversità della
patria, la differenza del governo, la disparità del culto... Una soave
giocondità presiedeva alle notturne loro adunanze, e parca che una
innocente allegrezza fosse il nume geniale dei loro banchetti. Uno
spirito di fratellanza, di benevolenza generale congiungeva le loro
destre ed annodava i loro cuori „. Ma perchè dunque la società è
" tutta fondata sul più rigoroso secreto „? perchè si esige dagli ini-
ziati " sotto i più terribili giuramenti di essere fedeli al silenzio „?
" Se la società ha per oggetto del suo istituto la virtù, perchè tanta
precauzione onde tenere celata la sostanza delle sue massime e delle
sue dottrine? „. Tutti questi segreti, tutti questi misteri divennero
sospetti non solo alla potestà ecclesiastica " ma alla stessa potestà
secolare „ e quasi tutti i paesi " fulminarono „ coi loro editti " gli
apostoli della libertà e gli angeli della luce „: e invero " siffatte
società oppongonsi alla leggi civili non meno che alle ecclesiastiche,
essendo dal gius civile proibiti tutti i coUegj e le corporazioni che
si formano senza la pubblica autorità „: Opere del Muratori ed. cit.,
t. XLIII (il permesso della stampa è dell'aprile 1805), pp. 53-57. -
Certo il mistero delle agapi massoniche faceva fiorire misteriose
leggende di terribili vendette e di vizi mostruosi; e la voce di so-
domia fu ripetuta più volte : vedi, per es., le Nouvelles littéraires del-
l' ab. Raynal, 15 ott. 1751 {Correspondance par Grimm etc, Paris, t. I,
1877, pp. 107-109). Non crede il Sandi che a Venezia s' introducesse
tale setta, almeno fino al '67 in cui scrive, ma racconta che da Lesina,
in Dalmazia, fu scacciato nel '54 un massone francese: Principj di
storia civile, Venezia, 1772, voi. Ili, p. 367 sgg. Affiliati e' erano anche
a Venezia fra quelli che avevano viaggiato e fra i forestieri, ma non
pare che dessero troppa ombra al governo. Il Casanova fu ammesso
nel '50 a Lione " aux sublimes bagatelles „ come dice " de la franc-
magonnerie „; ed è noto come ne parli: Mémoires, ed. Garnier, II,
289-292. Il Caminer nella sua Europa letteraria, t. V, P. 2* (i giug. 1769),
annunciando uno scritto sui Liberi Muratori uscito allora a Venezia
in forma di lettera, dice che 1' autore doveva informarsi meglio sul
loro conto: " Essi sussistono „ continua " in varie delle primarie
Città; è nota la loro condotta; non è più un arcano la loro società.
Alcuni li reputano entusiasti; altri buoni amici; e non s'escludono
sennon da que' luoghi ne' quali le società particolari non conven-
gono al sistema del Principato. L'Autore ha detto la decima parte
di ciò che già sapevamo intorno ai sognati rifabbricatori del Tempio
di Salomone „. Ostilissimo naturalmente alla società massonica fu
Carlo Gozzi: vedasi la sua Lettera confutatoria (1780) contro il Gra-
tarol, in appendice alle Memorie inutili. Tuttavia anche nell' 85, quando
fu scoperta la loggia di Rio Marin, la Repubblica di San Marco si
accontentò di bruciare qualche libro e qualche mobile, e di allon-
tanare qualche straniero, ma non infierì contro gli adepti, non fece
G. Ortolani. ♦ 9
130 UN ROMANZO SATIRICO A VENEZIA
loro nessun male. Solo dopo la Rivoluzione cominciò 1' odio contro
la misteriosa setta per la sua attività occulta e divampò nel periodo
della reazione in Europa, dopo il 1797, quando Venezia non era più.
Si vedano le famose Memorie per servire alla Storia del Giaco-
binismo dell'abate Barruel, con le note del traduttore italiano (spe-
cialmente il t. II) e fra gli infiniti scritti del tempo quello intitolato
Che importa ai preti? di G. M. D. E., Cristianopoli, 3*" ed. 1798, p. 30 sgg.
Occorre citare Mutinelli Dandolo Romanin Bazzoni Fulin Occioni-
Bonaffons Molmenti e altri notissimi? Poche notizie si trovano nel
Cod. Cicogna 1642, intitolato Liberi Muratori, presso il Museo Civico :
e poche nel Giornale degli Eruditi e Curiosi, Padova, 1882-1883. Pochi
cenni ha Maria Borgherini, // Governo di Venezia in Padova nelV ul-
timo secolo della Repubblica, Padova, 1909, pp. 125-127. Ricordo piut-
tosto, per tornare agli scrittori del Settecento, il Nuovo Dizionario
del Pivati (Venezia, 1750) che servì poi ai successori (per esempio,
al compilatore del Supplimento al Dizionario /storico del Moreri,
Napoli, 1776, t, I); e il lungo Esame di un articolo del Signor De La
Lande sopra i Liberi Muratori ecc. che uscì a Venezia nel 1787. Chi
desiderasse conoscere, almeno in parte, come si diffondesse la mas-
soneria nella nostra penisola, può consultare utilmente le pp. 64-73,
voi, II, P. I* del Tempio del Risorgimento Italiano (Esposizione Emi-
liana 1888) di Vittorio Fiorini e- gli autori citati nelle note bibliogra-
fiche della Storia d' Italia dal 1789 al 1799 di Augusto Franchetti e
Francesco Lemmi (Milano, Vallardi, pp. 54-55). Si veda poi Bianca
Marcolongo, La Massoneria nel secolo XVIII, in Studi storici, XTX
(1911). È superfluo ricordare O. Dito, Massoneria, Carboneria ecc.
Torino, 1905; e P. Maruzzi, introduzione al Vangelo di Cagliostro,
Todi, 1914. Centro principale fu prima Firenze (v. Sbigoli), poi Na-
poli (v. Sperandio, D' Ayala, Conforti ecc.), quindi Milano (v. Cusani,
De Castro ecc.). In Francia vedi Francesco Bournand, Histoire de la
Franc-ma(:onnerie des origines à la fin de la Revolution frant^aise,
Paris, 1905. - Posso ancora citare la grande recentissima opera di
Alessandro Luzio, La Massoneria e il Risorgimento italiano, Bo-
logna, Zanichelli.
24 Si legga questa pagina: " Il Governo è affatto monarchico. Il
Monarca, i Grandi, i Candidati, le infinite Pretoriane milizie sono
tutti Eunuchi. Ogni mortale di nostra specie, di qualunque nazione
e condizione si sia, sapiente o ignorante, virtuoso o no, può perve-
nire ai sommi gradi, anzi al Trono medesimo, purché sia Eunuco.
In un Regno ove il "Re è forestiero, che non può aver discendenti,
che non può eleggersi il successore, che arriva alla Monarchia in
una età eh' esige riposo ; che non può aver forze, e per lo più neppur
mente di reggere ; pare che i Sudditi non possano gustare del frutto
di un buon governo. A ciò si pone riparo coli' assistenza dei Grandi,
che in numero di pochi, come tanti Re, altieramente comandano „:
SULLA METÀ DEL SETTECENTO 13!
IV, 158-159. Simile linguaggio si trova appena nel carteggio privato
di Pietro Verri o, più tardi, nei Mémoires del Corani, se non vo-
gliamo uscire d' Italia.
35 Nemmeno il padre Concina osò pronunciar tali accuse contro
i Gesuiti: si leggano le pp. 168-170.
36 Leggiamo anche questo : " ... Mi condusse in un vasto Palazzo,
pieno di popolo che ascendeva e discendeva le scale. E dove mi
conducete, gli dissi? io non ho voglia di soffocarmi tra tanta folla.
Non temete, rispose: dove è una miniera dello Stato, mancar non
possono i concorrenti, ma ci rispetteranno. Salimmo a fatica le scale :
girammo sale, camere, gabinetti. Per tutto non vidi che carta, cere,
sigilli, scrittori. Chi minutava, chi copiava, chi sigillava. Il popolo
portava a sacchi l' oro, e riceveva una carta in bel carattere e con
grosso sigillo. È questo, dissi all' amico, il pubblico banco ? No, ri-
spose il Dottore, qui non si cambia, si vende. Si vende, replicò, quello
che non si ha, non si può avere, ed esiste nelle terre di tutti i
Sovrani dell' Universo. Promesso aveagli di non stupirmi, tacqui e
mi lasciai altrove condurre „: IV, 174-175. - Si capisce come i due
capitoli sulla città di Astuzia sparissero dalle successive edizioni del
romanzo.
=7 Che il contrasto fra i ricordi dell'antica grandezza e lo spet
tacolo della miseria presente commovesse anche il cuore degli Ita-
liani nel Settecento, non dimostrano soltanto gli sfoghi più o meno
rettorici dei poeti d' Arcadia, ma le lettere private degli scrittori
nostri. Basti questo frammento dell' abate Fortis di Padova ( Roma,
26 ott. 1766, al conte Marchesini di Vicenza): " ... È vero che questo
riso confinerebbe col pianto; perchè voi certamente non potreste,
com' io noi posso, trattenervi dal piangere sopra il cadavere defor-
mato di Roma, sopra il degenerato sangue de' Quiriti ... „ : Lettere
inedite d' illustri Italiani che fiorirono dal principio del sec. XVIII ecc.,
Milano, 1835, p. 592.
28 È peccato non possedere la chiave di questo romanzo, né
della Marfisa bizzarra di Carlo Gozzi. Nemmeno riusciamo a ricono-
scere nella Prigione delle Passioni il venerabile Vecchio " eh' era stato
r onore, e dirò quasi l' oracolo per molti anni della Nazione „ ; e che
dopo di avere a lungo servito la patria come ambasciatore, godevasi
ora filosoficamente giorni tranquilli facendo buon uso delle sue ric-
chezze. Nei " due nobili sapienti „ che gli rendono visita ravvisiamo
solo il primo, 1' abate Conti. '* Uno di essi, gran Matematico, sublime
Poeta, penetrantissimo Filosofo, era stato 1' arbitro delle contese let-
terarie delli Genj maggiori che fossero nati in quel Continente. Co-
priva tante doti con una sincera umiltà, e 1' adornava di un' affabilità
che invitar poteva gli stessi fanciulli a godere della sua compagnia „ :
III, 414. - Poiché mi torna opportuno, addito alcune piccole Notizie
su Schinella Conti abate, nobile veneto della Contrada di S. Trovaso,
132 UN ROMANZO SATIRICO A VENEZIA
che si trovano nel voi. V dei Commemoriali Gradenigo presso il
Museo Correr, a carte 308-310. Dopo il ritorno dalla Francia, il Conti
conversava specialmente col N. U. Giovanni Vezzi q. Francesco e
con r abate Antonio Muazzo. " Il luogo delle loro frequenti radu-
nanze era la bottega di G. B. Pasquali, Librajo e Stampatore, situata
nel Campo di S. Bartolomeo, sul principio della strada che Merceria
si appella „. Frequentava poi la conversazione di Cecilia Contarini,
vedova del senatore Bernardo Memo, " la qual dama da lui apprese
parecchie scienze „. " Sul principio dell' anno 1749 „ andò a Padova,
forse per respirare un' aria più salubre per certo suo incomodo, ma
ivi morì. Il fratello suo Manfredo fu podestà di Verona, Annibale
perì d' un colpo di cannone a Metelino nel 1698, la sorella Antonia
sposò il N. U. Giuseppe Michiel. Aggiungo che la Contarini era zia
di Andrea e Bernardo Memo, ai quali il Goldoni dedicò 1' Uomo di
mondo.
39 Da Petronio siamo lontanissimi; e così daW Euphormio (1603)
e dall' ^r^^m5 (1621) del Barclay: più vicini forse aìV Eudemia {16^'] j^
romanzo, pure latino, di Gian Nido Eritreo, contemporaneo di Bar-
clay. Benché troppo sia personale la satira, F isola di Gian Vittorio
Rossi meglio s' accosta alle invenzioni del Settecento (v. Salfì, Hist.
un. d' Italie par Ginguené etc. Paris, 1835, t. XIV, 90-99 ; e L. Gerboni,
Un umanista del Seicento, Città di Castello, 1899). Mi si permetta
infine di ricordare nell' estremo Quattrocento la fortunata Nave dei
pazzi (1494) e la città di Narragonia di Sebastiano Brant di Strasburgo
(poema satirico tedesco, tradotto in latino nel 1497, e poi nelle prin-
cipali lingue); e a mezzo il secolo decimottavo il viaggio fantastico-
satirico di Luigi Holberg danese, Nicolai Klimii iter subterraneum
(1741; tr. frane, di Mauvillon, 1753).
30 Brevi Memorie sulla Famiglia Sceriman, del conte Fortunato
Sceriman, 25 sett. 1850 : in cod. Cicogna 3428 presso il Civico Museo
Correr. - Ignoro quanta parte ci sia del nostro autore nella storia e
nei lamenti del filosofo Fuggimondo : " La taciturnità, ordinario effetto
di uno spirito riflessivo, fu da' miei Patrioti intitolata stupidità; lo
allontanamento dalla Corte, viltà; la distribuzione di qualche parte
delle mie sostanze a chi n' era meritevole, era chiamata pazzia... I
due unici miei Fratelli, uno per perfìdia, 1' altro per seduzione, di-
vennero i miei più crudeli nemici... Tanto dunque risolvetti, e abban-
donati gli avvanzi delle mie facoltà alli due suddetti Tiranni, mi
ritirai in questo deserto „: III, 314-316. Oppure in quelli di Trista-
sorte: " ... I Fratelli con fìnte carezze m' insinuarono a pagare i loro
debiti particolari : lo eseguii ; mi esortarono ad assumere gli aggravii
de' legati: vi acconsentii; mi pregarono porli in qualche fortuna nel
mondo : v' impiegai le mie sostanze... Io era l' idolo della Famiglia^
r eroe delle genti oneste „. Ma dopo due anni " si avvidero i Fratelli
che io non potea reggere alle spese di tutti: senza darmi un addio^
SULLA METÀ DEL SETTECENTO I33
presero le loro sostanze, e me abbandonarono... I Congiunti che sa-
pevano il vero delle cose, ma che niun vantaggio poteano da me
sperare per aver io così sconsigliatamente fatto abuso delle mie
fortune... colla viltà che nel mondo si chiama prudenza, non esita-
rono ad unirsi ai Fratelli, e dichiararmi nel pubblico come un men-
tecatto scialacquatore ridotto alla miseria „ : IV, 482-484.
FRANCESCO ALGAROTTI
E L'EPISTOLA AL VOLTAIRE
v^'^
Spettacolo commovente è sulla fine del secolo decimoset-
timo e nella prima metà del decimottavo quello del popolo
italiano che si accorge di aver perduto nel mondo il primato
delle lettere e delle scienze, e a poco a poco, attraverso peri-
coli e difficoltà d' ogni maniera, tenta di giungere a pari con
le orgogliose nazioni d' oltralpi che non gli risparmiano intanto
il loro disprezzo. La storia della riscossa intellettuale d'Italia
è pure la storia della sua rivendicazione civile. Tutti gli altri
popoli poterono acquistare T indipendenza con la sola forza delle
armi: il popolo italiano, che portava il peso glorioso del Rina-
scimento, volle vincere prima di tutto con la forza dell' intelli-
genza e della dottrina. Nel racconto di tale lotta spetta a Venezia
una parte onorevolissima, a Venezia la quale ci viene comune-
mente rappresentata in quel periodo come un bordello foUeg-
giante con misera incoscienza sulla vergogna sua e dell' Italia.
Anche di Francesco Algarotti, che nacque nella bella città,
di famiglia doviziosa, agli ii dicembre 17 12, è facile ridere
quando si voglia: in fatti da più generazioni si suole chiamarlo
argutamente il Contino, V Algarottino, Algarotolus Comtulus, e
perfino l' arcade. Ma questo ragazzo appena ventenne, che ripete
nella scuola dello Zanotti a Bologna, e quindi a Venezia, nel '33,
gli esperimenti del Newton; che non solamente sa di latino e
di greco, ma conosce il francese e studia l' inglese; che apprende
in pari tempo le matematiche e l'anatomia; che passa le Alpi
non cacciato dal bisogno o acceso dallo spirito di ventura, bensì
per desiderio avidissimo della scienza; che a 21 anno medita
e a 22 distende in forma letteraria, perchè siano rese popolari,
le teorie newtoniane, primissimo in Italia e primo, si può dire,
in Francia ^, e ottiene la stima del vegliardo Fontenelle e di
Voltaire; che a 24 anni pubblica il Newtonianismo per le dame
138 FRANCESCO ALGAROTTI
(nel 1737 a Milano, con la data di Napoli), avanti che compa-
riscano gli Elementi della filosofia di Newton (1738) del Voltaire,
è ben degno della nostra più viva ammirazione.
Basti pensare che nelle università italiane si continuava a
quei tempi a leggere la filosofia di Aristotele, e a stento sor-
gevano qua e là cattedre di scienza sperimentale, e un innocuo
cartesiano riguardavasi con sospetto. Si pensi che a Padova,
accanto al Vallisnieri, insegnò medicina per mezzo secolo Omo-
bono Pisoni, uomo di fama non oscura, il quale chiudeva gU
occhi nel 1748 " prima d'esser affatto persuaso della circola-
zione del sangue ne' corpi viventi „ a. Si ricordi che soltanto
nel 1744 fu permessa, con molte cautele, la prima ristampa in
Italia, dopo la famosa condanna, dei Dialoghi di Galileo: e
Padova n' ebbe 1' onore 3. In grazia di detta opera dell' Algarotti,
che contò un gran numero di edizioni in varie città, e fu tra-
dotta in francese, in inglese, in tedesco, in russo e in portoghese,
(la rimaneggiò poi l'autore, ristampandola col titolo più severo
di Dialoghi sopra l' ottica newtoniana)^ potè ognuno, anche nel
nostro paese, dirsi impunemente newtoniano, e sorsero anche
da noi le signore newtoniane^ come in Francia 4.
Fu lecito ai Veneziani, nel 1736, scherzare sulle mode fore-
stiere del giovane concittadino, e si sussurrò che i comici del
teatro di San Luca volessero farne la caricatura 5 ; ma questo
figlio d' un droghiere di Rialto fu visto nel '40 accanto a Fe-
derico II di Prussia il giorno della solenne incoronazione a
Kònigsberg, e godette per più anni la confidenza del gran Re
che lo fece Conte e Ciambellano, e fu ricercato e accarezzato
a Dresda dall' Elettore Augusto III re di Polonia, a Parma dal
Duca Filippo V di Borbone, e fu invitato a Roma da papa
Benedetto XIV; e carteggiò con una schiera di prìncipi; e fu
accolto nella società più eletta a Torino a Parigi a Londra a
Pietroburgo, dove portò onoratissimo il nome veneziano, come
il marchese Maff"ei, come 1' abate Conti, come il cardinale Qui-
rini, sudditi della Serenissima.
Egli è uomo nuovo, e apre il settentrione d' Europa all'Italia
che ha bisogno di vivificarsi. Fu anch' egli tra gli scopritori
dell' Inghilterra nel Settecento, insieme con altri illustri italiani
che non aspettarono di ricevere l'anglomania dalla Francia, ma
anzi ne favorirono la diff"usione a Parigi; e della poesia inglese
ci portò notizia 6, come l'abate Conti, tanti anni prima del Ba-
ratti. Fu tra gli scopritori della Russia, e le sue lettere nel 1739
E L EPISTOLA AL VOLTAIRE I39
dal Baltico, che gli furono sempre care, abbondano di buone
osservazioni sulle industrie e sui commerci 7. E vide TAlgarotti
dal castello di Potsdam la sorgente fortuna della Prussia.
Gentiluomo perfetto, quale si rivela anche nella sua copiosa
corrispondenza, incapace di qualsivoglia volgarità, parlatore fa-
cile e dotto, prontissimo di memoria, generoso delle proprie
ricchezze, immune da ogni piccola invidia, alieno da ogni pet-
tegolezzo, tutti gli volevano bene; e volentieri gli perdonano i
posteri la sua vanità che non era mai superbia, la sua cortigia-
neria eh' era costume dei tempi, la sua galanteria con le belle
signore s. Nelle beghe tra Voltaire e Maupertuis, nella guerra
tra Federico e Voltaire, egli non perdette 1' amicizia e la stima
di nessuno dei contendenti. Lo stesso Re non si permetteva con
l'Algarotti gli scherzi crudeli con cui soleva umiliare il mar-
chese D'Argens e altri suoi cortigiani. Ne quella lingua imper-
tinente del Baretti osò assalirlo fin che fu vivo.
Ebbe ingegno lucido e versatile o enciclopedico: gli mancò
r ingegno creatore. Come lo Zeno, come il Conti, come il Maffei,
fu egli dei nobili divulgatori delle scienze e delle arti nel pe-
riodo che precorse da vicino il risorgimento letterario e civile
d' Italia. Araldo de' nuovi tempi, egli è un odiatore dei sonettini
e delle vuote accademie prima assai del Baretti, e vuol guarire
r Italia dal " morbo poetico „ ; e prima del Parini, quando scrive
dei versi, si propone insegnamenti morali e intenti civili, come
fece nelle epistole. Lasciò scivolare anche nella lingua, per il
lungo soggiorno oltre l' Alpi, qualche voce o forma strana e
impura, benché non fosse sciatto, anzi molto limasse le cose
sue 9, ma in quella specie di lontano esilio gli crebbe l'amore
della patria '°; e se dimenticò qualche volta nei suoi peregri-
naggi la sua Venezia, fu per sentirsi più italiano. Per questo
differisce dal Gozzi e dal Parini, e si ricongiunge all' Alfieri.
L' amore dell' Italia è costante nel ciambellano di re Fede-
rico, e riscalda le pagine ingiallite dei suoi volumi. Egli difende
con ostinazione le glorie passate della penisola e le rivendica
in faccia agli stranieri. Spoglia, è vero, di quadri qualche pa-
lazzo veneziano per arricchire la galleria di Dresda '^, ma dei
tesori artistici d' Italia si fa cultore intelligente e appassionatis-
simo. I suoi scritti sulla pittura neppur oggi vanno dimenticati.
Egli esalta Galileo, esalta Machiavelli, autore eh' era tuttavia
interdetto e maledetto, e ne pone i nomi fra i più grandi del
genere umano, accanto a Confucio, a Maometto II, a Cromwell,
140 FRANCESCO ALGAROTTI
a Newton, a fra Paolo, a Voltaire "; e tutto ciò senza attirarsi
le folgori di Roma, senza attirare intorno a sé polemiche e
scandali, per certo suo senso delicatissimo, e direi signorile,
della misura.
A Dresda, nel 1746, mentre attendeva con desiderio la fine
della lunga guerra che da tanti anni affliggeva la Germania e
ritaha, r Algarotti affaticavasi a comporre alcune epistole in
versi da aggiungere a quelle più giovanili, già edite: con le
quali si vantava di donare alla patria, come in Inghilterra il
Pope, un nuovo genere di poesia, più severa e filosofica. Sono
di questo tempo le due più famose : V una, e giustamente la più
fortunata, ad Alessandro Zeno procuratore di San Marco, Sopra
il CommerciOy dove insieme col rimpianto della decadenza eco-
nomica di Venezia " Sfrondata sì, ma non recisa al suolo, „
ascoltiamo ammirati, molto prima del Genovesi del Verri del
Filangieri, i generosi eccitamenti al risveglio audace delle arti
delle industrie dell'agricoltura ^3; V altra al Voltaire in lode della
Francia '4^ ma più ancora dell' Italia, di cui il poeta osa preve-
dere, con segreta commozione, il risorgimento. Ne stese il primo
abbozzo nel luglio ^5: i versi cominciò a scrivere tra la fine
dell' agosto o il principio del settembre '^ : li mandò al Voltaire
il giorno II dicembre, accompagnandoli con una lunga lettera ^7.
L' autore piange la gloria caduta d' Italia, rinnovellando il
classico lamento così frequente e insistente presso i nostri poeti
nei primi decenni del Settecento,
Quando leggi costumi arti e favella
Dava alle genti in Campidoglio assisa.
Piange la frivolità degli Italiani presenti :
Oimè! qual sei da quel di pria difforme,
Italia mia! che neghittosa, e quasi
Te non tocchi il tuo mal, nell' ozio dormi
Fra i secchi lauri tuoi serva e divisa:
Né r arti belle e gli onorati studj.
Onde Grecia emulasti, or più non sono
Tua nobil cura, e tuo più dolce impero.
Segue il ricordo dei grandi italiani, da Dante a Galileo; e con
orgoglio si allude copertamente a Caterina dei Medici e ad
E L EPISTOLA AL VOLTAIRE I4I
Elisabetta Farnese, al Mazarino e all' Alberoni, al Montecuccoli
e a Eugenio di Savoia :
e tu pur desti
Sulla Senna, suU' Istro e sull' Ibero
A quei popoli re, ministri, e duci.
Bollono di virtù gli occulti semi
Ancora, è ver ; ma 1' ozio vii marcire
Ne gli fa ciecamente, e in faccia al sole
Non ispunta di gloria o ramo o foglia.
L'unico onore e vanto della poesia italiana, il Metastasi©, è
costretto a vivere lontano dalla patria:
E quel che ne rimane unico erede
Dell' italica lira. Apollo il lascia
Dell' Istro là sul margine ventoso
Egro languir, quasi del nostro onore,
E insiem dell' arte sua gli caglia poco.
Qui r animo commosso dell' Algarotti, giovane pellegrino del-
l' arte e della scienza in Europa, prorompe in un grido augurale
che da molto tempo fremeva occultamente nel petto di qualche
italiano :
Oh! sieno ancora, Italia mia, le belle
/ E disperse tue membra in uno accolte.
Né r itala virtù sia cosa antica.
Ma il quando, chi '1 vedrà? forse il vedranno
Anche un giorno i nepoti.
Umili versi, ma solo per questi, che furono scritti quando Vit-
torio Alfieri non era nato ancora, meriterebbe l' Algarotti di
essere ricordato, né soltanto dai Veneziani.
La nuova guerra di successione aveva fatto fermentare più
di un sogno nelle fantasie degli Italiani: é del 1745 il noto
progetto di confederazione italiana del ministro D' Argenson,
amico di Voltaire, di cui par di sentire quasi un' eco in questi
versi. Pensiamo che 1' Algarotti li ritoccava, prima di spedirli,
mentre per le vie di Genova crosciava sull'Austriaco la tempesta
di pietre del popolo sollevato; pensiamo che furono scritti tra
il combattimento di Velletri (1744) e il combattimento del colle
dell' Assietta (1747), mentre i contadini di Cuneo si armavano
142 FRANCESCO ALGAROTTI
contro i Francesi (1744) e quelli del Vicentino assalivano le
bande dei Croati (1748) ^^. Qualcuno combatteva in Italia contro
lo straniero, le plebi fremevano ormai contro la prepotenza
degl' invasori : e i Còrsi insegnavano a morire per la libertà.
Ma al congresso d' Aquisgrana l'Europa ci ribadi, come sempre,
le catene '9.
11 Voltaire, come si sa, rispose da Parigi il 21 febbraio
del '47 con una di quelle sue letterine in versi che hanno tutto
il sapore del Settecento, dove fra i complimenti e le arguzie «°
la faccia caratteristica del poeta fa una smorfia d'ironia:
Enfant du Pinde et de Cythère,
Brillant et sage Algarotti,
A qui le elei a départi
L' art d' aimer, d' écrire et de plaire...
L' astuto cortigiano si profonde nelle lodi della nuova Delfina
di Francia, figlia appunto di Augusto di Sassonia, che il duca
di Richelieu era andato a ricevere a Dresda e condusse in
Francia nel mese di gennaio, ma della povera Italia non parla.
Né appare che l' Algarotti inviasse a leggere la sua epistola,
come quella Sopra il Commercio^ al Metastasio o ai suoi molti
amici e corrispondenti d' Italia. Vero è che più tardi, ai 12 feb-
braio 1754, la mandava da Venezia all'autore del Trillo del
diavolo, Giuseppe Tartini, che abitava a Padova ^i, né molto
dopo a Parma, al Frugoni. Al Bettinelli la fece leggere a Ve-
nezia == e il gesuita 1' ebbe a sua volta dal Frugoni nel '56 "3 e
la stampò sulla fine dell' anno seguente, ma senza i versi più
famosi che uscirono soltanto nel '59 ^4.
Nel '47 r Algarotti, lasciato il pomposo e vacuo titolo di
Consigliere intimo di guerra del re Augusto, se ne tornò a
Berlino dove il gran Federico lo colmava di onori. Il pensiero
di tutti gli Italiani, rallegrandosi con lui, si rivolge con nuovo
sentimento alla patria. " Questo sì „ esclama il bolognese Bian-
coni " che si chiama sostenere il nome della nostra Italia, anzi
esserne uno dei maggiori ornamenti „ 35. Per fino Marco Fosca-
rini, il futuro Doge, gli scrive da Padova (15 giugno): " ... Que-
st' ultima viene ad essere una nuova grazia maggiore di tutte
e di cui r Italia tutta dee grado a S. Maestà „ ^^. Perfino il Me-
tastasio gli dice da Vienna (13 maggio): " Io numero tra i for-
tunati eventi della nostra felice patria 1' esser voi stato eletto a
E L EPISTOLA AL VOLTAIRE I43
sostenere nel settentrione il decoro delle muse italiane „ «»7. E
finalmente il Bettinelli, nel '54, udendo eh' egli più non abban-
donerebbe l'Italia, esclama: " Voi siete adunque nostro, voi
siete Italiano, e i voti di tanti amici e de' veri Italiani sono
esauditi „ ^^.
Fra i Pensieri diversi dell' Algarotti non deve sfuggire que-
sto al nostro ricordo : " Gli Italiani hanno conquistato il mondo
con le armi, lo hanno illuminato con le scienze, ripulito con le
buone arti, e lo hanno governato con l' ingegno. Non fanno al
presente, egli è vero, una gran figura; ma egli è ben naturale
che si riposi ancora colui che ha faticato dimolto, e che dorma
alcun poco fra giorno chi si è levato prima degli altri di gran
mattino „ ^. Note sono le due lettere al Frugoni (Potsdam, 1752)
in cui rivendica ciò che all' Italia devono principalmente i Fran-
cesi, nelle arti e nelle lettere 3°: " Quando gli altri dormi van
ancora, noi eravam desti „ dice, precorrendo il Giusti. Nella
lettera al Voltaire, con la quale accompagnava nel '46 l'epistola
in versi, già trovasi un lamento sulla divisione della penisola
in piccoli stati e sulla mancanza di una capitale, tante volte
ripetuto dal Bettinelli e da altri nel Settecento, e anche dopo 31.
E il lamento d' un letterato, ma nel '52 compare la nota politica
in altra lettera da Berlino a un barone reduce dal viaggio in
Italia.
" Escono ogni giorno in Londra libretti sopra la politica,
sopra la filosofia, sopra ogni materia, atti veramente a riscuotere
una nazione. La libertà del governo dà vigoria allo spirito, apre
al sapere la strada della fortuna... I Francesi, benché sotto altro
governo, hanno nondimeno di grandissimi vantaggi anch' essi,
che pur sono una nazione grande ed unita... Che faremo noi
altri Italiani servi e divisi? „ esclama malinconicamente. " Le
produzioni d' ingegno tengono in grandissima parte anch' esse
della costituzione politica, secondo cui sono ordinati i popoli.
La importanza di quelle tien dietro alla perfezione del governo „ ;
osserva con sagacia. Tuttavia non dispera dell' Italia. " Nelle
nazioni „ ammonisce più avanti, e anche queste parole vanno
ricordate, " nelle nazioni vi sono delle qualità intime che hanno
radice nelle qualità fisiche del terreno e del cielo, dei caratteri
indelebili che tralucono a traverso qualsivoglia mutazione di
stato: e dalle espressioni più comuni delle lingue si possono
arguire gli umori dominanti delle nazioni medesime. Ben ella,
signor Barone, accorto com' ella è, avrà osservato che lo ingegno
1»
144 FRANCESCO ALGAROTTI
italiano ha in sé medesimo tutt' altra solidità che le erudizion-
celle non mostrano, le canzoni, i sonetti e le altre bagattelle in
cui ora è forzato di uscire „. E osa finalmente soggiungere:
" Ella pur sa, se hanno prosperato le armi tedesche guidate
dagl' Italiani „ 33.
Tali idee e tali sentimenti professò sempre 1' Algarotti, a
voce e in iscritto, anche dopo il ritorno in patria, come appare
da quella famosa lettera che il 24 aprile del 1755 mandava da
Venezia a Parma all' abate Bernis, ambasciatore francese e ben
presto ministro di stato: " Le plus grand mal pour la pauvre
Italie, comme nous T avons dit souvent ensemble, e' est qu' elle
n' a ni capitale ni cour; e' est qu'elle est partagée et esclave „ 33.
" La gioire des lettres „ prosegue non senza amarezza il let-
terato veneziano, ammiratore di Federico II, " est ordinairement
jointe à celle des armes; et rarement l' on estime la piume
d* une nation dont on ne craint point 1' épée „.
Lo so, è facile ridere e sparlare dell' Algarotti per le molte
•debolezze del suo carattere e per i difetti troppo visibili del
suo ingegno e della sua coltura: più difficile è saper degna-
mente giudicare 1' opera sua e misurare il suo valore nei tempi
in cui visse. Nessuno dei suoi scritti lo rappresenta se non in
piccola parte: nessuno reca impronta duratura o eccelle sugli
altri, ma quasi tutti, sia che trattino dell' ottica newtoniana, sia
dell' arte militare, sia delle arti figurative o sia dell' opera in
musica, sia delle lettere o sia del commercio, richiamano qua e
là la nostra attenzione; e tutti bisogna conoscerli per apprez-
zare la vivacità della sua intelligenza e la varietà della sua
dottrina. Inoltre bisogna tener conto, a questo tipico messaggero
dell' enciclopedismo del Settecento, delle idee, talvolta audaci,
che raccolse e sparse, in Italia e fuori, sia con la penna, sia
con la parola 34. A poggiare più alto gli mancò la saldezza del-
l' animo 35, gii mancò la potenza del pensiero e, nelle prove
dell'arte, la sensibilità 36-. senza tali doni non vive lo scrittore.
Correggeva infaticabilmente le sue opere e sempre vi si sente
lo sforzo: il suo stile, per quanto infronzolito, riesce secco: lo
spirito vivo ed arguto che scoppietta e scintilla nelle pagine più
umili dei suoi contemporanei, si desidera invano nella raccolta
di lettere, pur così copiosa, dell' Algarotti. Del resto il Baretti
lo assalì a torto, dopo che fu scomparso, a torto lo giudicò e
condannò il Foscolo, a torto il Tommaseo. Lo difese Luigi
E L EPISTOLA AL VOLTAIRE I45
Carrer " per carità del natio loco „ ; e, forse più persuasiva-
mente, Pietro Giordani. Oggi, sull* esempio di Alessandro D'An-
cona, si cerca di meglio delineare, ponendola sotto giusta luce,
la figura storica di quest' altro figlio del secolo decimottavo,
pieno sì per V Italia di rovine e di tristezze, ma anche di lavoro,
di tenacia e di aspettazione gloriosa.
G. Ortolani.
AGGIUNTE E NOTE
I
I Giustamente se ne compiaceva il nostro Veneziano, nella let-
tera del i6 aprile 1745 a Francesco Maria Zanottì, con queste parole:
" ... Parrà strano che si dica eh' io giovanetto era in Bologna Newto-
ttianorum ductor et quasi signifer, e non si dica poi che adulto io
fui primo in Europa a spiegare la dottrina newtoniana „ : Opere del
Conte Algarotti, Venezia, Palese, 1794, t. XII, p. 236.
a Novelle della Repubblica Letteraria per l'anno 1748, Venezia,
Occhi, num. 44.
3 Quest' edizione padovana in quattro volumi delle Opere gali-
leiane è celebrata nel n. 4 delle dette Novelle della R. L. per Va. 174S.
Le quali aggiungono : " ... Nel 4. Tomo contiensi il Dialogo, che ora
per la prima volta esce a pubblico uso colle dovute licenze, e in
tutta la sua integrità... In venerazione poi delle sante prescrizioni
della Chiesa Cattolica, si sono o levate, o ridotte a forma ipotetica
le Postille marginali, che non pareano affatto indeterminate ecc. „.
4 Le dette Novelle della R. L. per V a. 17 j8, n. 15, nelF annunciare
// NewtonianismOy avvertono " che certe espressioni e sentimenti
qui sparsi deono esser letti con somma circospezione, principalmente
dalla Gioventù Cattolica „. - Peccato che Gabriele Maugain nel suo
bel libro intitolato: Étude sur V èvolution intellectuelle de r Italie de
i6j7 à 17 so environ (Paris, Hachette, 1909) siasi dimenticato di par-
lare dell' efficacia degli studi newtoniani nel nostro paese, e non dia
la debita importanza all' opera dell' Algarotti. Non occorre ricordare
come nel 1715 l'abate Conti facesse conoscenza col Newton e nella
solitudine di Kensington cominciasse a scrivere un poemetto sulla
filosofìa newtoniana.
5 Si legge nelle Memorie per servire all' Istoria Civile della Inclita
Città di Venezia . di Girolamo Zanetti (cod. LVIII, ci. XI, Biblioteca
Marciana, edito con qualche lieve inesattezza da Federico Stefani
in t. XXIX dell' Archivio Veneto, 1885, pp. 93-148), in data 25 mag-
gio 1743: " Pochi giorni or sono giunse a Venezia Francesco Alga-
rotti Letterato Veneziano fratello di Buon-Uomo {Bonomo) Algarotti,
Mercante di zuccheri e droghe. Questo Francesco Algarotti è l'Autore
150 FRANCESCO ALGAROTTI
del Libro intitolato il Newtonianismo per le Dame, e perciò merita
che si faccia di lui memoria. Dapprima vestiva da Abbate, e si stava
in Venezia studiando, indi passò in Francia e prese l' abito secolare,
e fece il giro della Inghilterra, nel qual viaggio consumò non pochi
anni. Ritornò a Venezia, ed era così pieno delle affettate mode
Oltramontane, che movea stomaco e noia, a segno che i Comici di
S. Luca aveano meditata una Commedia per metterlo in ridicolo, e
se non avesse avuti denari e buoni protettori, si sarebbe fatta sen-
z' altro. Partì di bel nuovo di Venezia, e non so come divenne accet-
tissimo al Re di Prussia, che lo creò Conte con tutti quelli del suo
Casato, del che eccessivamente si compiacque. Nominato poi, per
quanto si disse, da esso Re di Prussia per suo Inviato alla Corte di
Torino, e ricusato per la sua ignobil nascita (per quanto si dice) da
quel Sovrano, perdette, oppure si raffreddò la grazia del suo Padrone.
Di qui fu, che passò a Dresda appo il Re di Polonia, indi ora è
tornato a Venezia. Non può negarglisi il pregio di bel talento, e di
uomo dotto, ma a queste doti di spirito accoppia gran difetti. Ora
dicesi che voglia applicarsi alla Pittura. È suo costume il dir male
a dovizia degli Italiani „.
6 Vedasi ora Francesco Viglione, U Algarotti e l' Inghilterra, in
Studi di Letteratura Italiana diretti da E. Pèrcopo, voi. XIII, Napoli,
1923: specialmente capitolo III, La letteratura, pp. 111-162.
7 Si ristamparono recentemente i Viaggi di Russia e il Saggio di
storia metallica della Russia a cura di Pietro Paolo Trompeo, Roma,
Casa Ed. " Leonardo da Vinci „, 1924.
8 Si ricordi il ritratto che di lui ci lasciò 1' ab. G. B. Roberti,
ex-gesuita, nella famosa lettera ad Jacopo Vittorelli: Opere, Venezia,
Antonelli, t. XVI, 1831, pp. 144 sgg. - Tuttavia non conviene dimen-
ticare certa lettera dei 18 novembre 1755, da Venezia, dell' abate
padovano Gasparo Patriarchi, amicissimo del Gozzi : " Il conte Alga-
rotti mi dimostra benevolenza e umanità singolare; ma non è da
fidarsene e farne gran caso. Veggo, e sono anche da altri avvisato,
che il fine principale di queste dimostrazioni cortesi è per adoprarmi
negli studi suoi. Guarda la gamba! Mi diede, quando ci trovammo
insieme in campagna, da leggere i suoi versi sciolti ; e conobbi eh' e'
non solo si vuol fare superiore al buon gusto della imitazione de'
migliori nel fatto della poesia e della prosa, ma ribadisce [sic) ancor
co' maestri e con ogni altro che gli additasse, più per animo ingenuo
che per vanità d' instruire, le forme e i modi più corretti di favel-
lare. Questo volersi far autore d' una nuova lingua, anzi d' un gergo,
è cosa appunto e nuova affatto e strana. Basta, conviene usar seco
lui con molta circospezione, per non dire cortigiania „. In altra let-
ter'a dei 9 maggio 1756, pure all' abate Gennari, il Patriarchi aggiunge:
'* Ho dunque riverito a vostro nome il conte Algarotti, il quale,
E L EPISTOLA AL VOLTAIRE I5I
contro ogni mio merito, si mostra, quasi direi, innamorato della de-
bolissima mia persona. I casi altrui, le vicende del mondo, e la favo-
letta della Volpe che lodava il Corvo, m' hanno fatto accorto oggimai,
che le sono tutte lusinghe e cortigianìe, e nessuno me' di me può
esser giudice di me stesso. Mi giova con tutto ciò 1' avere il favore,
qualunque e' sia, di un uomo sì riputato „ : Raccolta di prose e lettere
scritte nel secolo XVIII, voi. IH, Milano, Tip. de' Classici Ital., 1830,
pp. 16-17 ^ 21. Strano è che 1' abate Gennari, scrivendo il 21 luglio
1753 da Padova all' abate Giovanni Nani, celebrava la magnanimità
e liberalità del conte veneziano: " Il conte Algarotti ha voluto rin-
novare a questi dì gì' illustri esempi di Mecenate e di Augusto, gene-
rosi fautori dei letterati. Per la dedicatoria che l' abate Bresciani
{meglio Bressani) gli fece di quel suo libretto, indovinate mo che
bellissimo dono n' ebbe da lui ?... Egli donò nientemeno che un
nobile casamento (qui per esso acquistato ne' mesi passati col
prezzo di duemille e ottanta ducati) e liberamente glielo donò così
che ne possa a suo talento disporre „: Lettere famigliari delV ab. Giu-
seppe Gennari padovano, edite da B. Gamba, Venezia, Alvisopoli, 1829,
pp. 124-25.
9 Lo aiutava a ripulire i suoi scritti 1' abate Gregorio Bressani
di Treviso, detto comunemente Bresciani, che nel '49 condusse con
sé a Berlino e a cui donò nel '53 una casa a Padova. Si veda poi
la lettera del Patriarchi al Gennari, citata sopra.
10 Ricordiamo come Francesco Maria Zanotti si rallegrasse con
lui nel '41 che dai mari di Finlandia e dalle sabbie di Pomerania
fosse tornato in Italia " sano e salvo, e forse ancora „ dice propria-
mente all'amico " piiì italiano che non ne partiste „: Opere del Conte
Algarotti, ed. cit., t. XII, p. 197. Non devono passar inosservate le
ultime parole citate sopra di Girolamo Zanetti : questi Italiani comin-
ciavano ad amare e desiderare la patria, passando le Alpi.
11 " In questi giorni il Conte Francesco Algarotti, noto letterato
Veneziano, va comperando anticaglie e quadri di valenti Maestri per
servizio della Corte di Sassonia, Re di Polonia (sic). In Cà Ricci a
S. Maria Maggiore furono venduti quattro molto bei Quadri a basso
prezzo, con gran dispiacere de' buoni Veneziani che mal volen-
tieri vedono però ispogliare la Città di così preziose pitture per
marcia avarizia „: Memorie cit. di Girolamo Zanetti, in data 2 agosto
1743. - L' elenco dei quadri acquistati si può vedere nella lettera
al Manette (13 febbr. 1751), in Lettere sopra la Pittura {Opere, t. Vili,
p. 15 e sgg.).
12 A Guglielmo Taylor How che nel '68 aveva mandato al Gray,
r autore del Bardo, gli otto volumi dell' edizione livornese delle
opere dell' Algarotti da lui curata, scriveva il poeta inglese : " lo godo
nel veder difeso e illustrato il Machiavelli che a me si presenta come
152
FRANCESCO ALGAROTTI
uno degli uomini più sapienti che ogni nazione in qualunque secolo
abbia potuto produrre „ : vers. di F. Viglione, U Algarotti e V Inghil-
terra, 1. e, p. 156.
13 Consiglia 1' Algarotti di cacciar via gli oziosi, di ravvivare i
commerci, di creare nuove macchine per le industrie e per 1' agri-
coltura. " Scavar porti e canali, alle paludi - Far 1' aratro sentir, spia-
nar le vie, - I fiumi contener, piantare i colli, - Onde crescano a
noi flotte novelle „: Opere, I, 67-68. - In questa nobilissima epistola
il nostro Veneziano non precorre soltanto il famoso discorso di
Andrea Tron in Senato (1784), ma le generose pagine del Muratori
nel libro Della pubblica felicità (1749) e le lettere DelV agricoltura,
dell' arti e del commercio (t. I, 1763) che Antonio Zanon udinese de-
dicava al doge Alvise Mocenigo e che il Baretti lodava nella sua
Frusta. È superfluo ricordare qui le Lettere del Costantini o il ro-
manzo del Seriman. - Tra i Pensieri diversi dell' Algarotti questo mi
sembra vivo e moderno: " Oggigiorno, mercè principalmente della
stampa e del libero traffico di pensieri tra F uno e 1' altro paese,
ogni nazione pensa quasi ad un modo. Ninna cosa è trascurata, né
quanto agli ordini civili, né quanto a' mercantili e a' militari, che
condur possa alla grandezza; tutte vi sono coltivate e promosse con
ardore grand ssimo. Talché quella nazione sarà più potente che sarà
più ricca. E la grandissima industria che regna presentemente in
ogni lato, riconduce gli uomini in certo modo allo stato primitivo
di natura; in quanto che più ricca, più possente e delle altre vitto-
riosa sarà alla fine quella nazione, che possederà il più di materie
prime e di persone „: Opere, t. VII, p. 107.
14 Dei rapporti fra 1' Algarotti e il Voltaire parlò Pietro Toldo,
U Algarotti oltr'alpe, in Giornale Storico ecc., voi. LXXI, fase. 1°, 1918.
15 Opere, t. XVI, p. 93.
16 Lettera al Voltaire, 3 settembre 1746: " Io sto lavorando certi
versi indirizzati a voi, i quali spero potervi mandare da qui a non
molto „: Opere, t. XVI, p. 85.
17 In questa si compiaceva che il Voltaire avesse letto per ben
" sei volte „ r epistola allo Zeno, come da Parigi avevagli scritto
con accorte adulazioni il patriarca delle lettere; e aggiungeva: " Io
vorrei pur guarire l' Italia da quella febbre lenta di sonetti che se
r è cacciata addosso da un tempo in qua „ : t. XVI, p. 92. Esiste
un' altra lettera al Voltaire con la data io dicembre 1746 {Opere, t. IX,
pp. 82-87 * vedi anche edizione di Livorno, t. IX, p. 59), che mi pare
più studiata, come se l'autore avesse in animo di volerla stampare;
e però la credo composta più tardi in luogo dell' altra mandata ve-
ramente a destinazione.
*8 Mercurio storico e politico ecc. pel mese di Settembre 1748, Pe-
saro, Gavelli, p. 182.
E L EPISTOLA AL VOLTAIRE 153
19 Nel noto sonetto del Cassiani, pien d' amarezza, e' è quasi
r eco di una delusione.
30 Da una lettera dell' Algarotti da Potsdam, 9 maggio 1751, mi
piace evocare questo ricordo : " ... Ed ora ci si trova quel raro spi-
rito di monsieur de Voltaire; che si direbbe, una cena senza lui
esser quasi un anello senza gemma. Udirlo e leggerlo è una cosa.
I pensieri gli spruzzano di bocca vivi e frizzanti, come da' corpi
elettrici per eccesso e stuzzicati escon faville e fiocchi di luce. Non
è mai, che quel tesoro di tutte le cose la memoria noi trovi aperto
a ogni suo piacimento; e la sua ricchezza non è in cedole, ma in
bel contante „: Opere, t. IX, p. 187.
ai " ... Per non rompere 1' unità che è pur 1' anima delle cose,
io levai da un' altra Epistola, che troverà qui ingiunta, i seguenti
versi „. Sono propri quelli suU' Italia, da Oimè qital sei da quel di
pria difforme fino a A^^ l'itala viriti Jìa cosa antica. Vedi Opere, ed.
di Livorno, Coltellini, t. VII, 1765, pp. 351-353.
*» " Al Frugoni mandai tempo fa una mia epistola diretta a Vol-
taire. Voi già la vedeste a Venezia „ : lettera al Bettinelli, da Bologna,
15 ottobre 1756, in Opere, ed. di Venezia, Palese, t. XIV, p. 153.
33 Opere, t. XIV, p. 159. - Il Bettinelli la trovava " in ogni parte
perfetta „ e ardeva dal desiderio di stamparla insieme con le altre
e con quelle sue e del Frugoni. Già da tre anni tormentava per ciò
r Algarotti : " Emmi fìtto nell' animo questo pensiero, che per bene
di questi e d' altri giovani nostri, che alla buona poesia mirano, si
potrebbe stampare unitamente un saggio di sciolti, siccome a mio
parere gli ottimi per la ottima poetica educazione. Frugoni, Algarotti
e così di soppiatto Bettinelli formerebbono questo libretto „ : lettera
15 ottobre 1753, in Opere, t. XIV, p. 93 (v. pure pp. 120 e 123). Ma
r Algarotti nicchiava e finalmente alle nuove insistenze del gennaio
'55 rispose con un no chiaro, dicendo di voler stampare egli stesso
le sue epistole. Il Bettinelli attese ancora quasi due anni e sulla fine
del 1757 diede senz' altro in luce, adorno di bei rami, il famoso vo-
lume dei Versi sciolti di tre eccellenti moderni Autori (Venezia, Fenzo),
che recava a mo' di prefazione le famosissime Lettere Virgiliane,
Quale e guanta guerra ne sorgesse, non occorre qui dire.
34 Epistole in versi del Co. Francesco Algarotti, Ciamberlano di
S. M. il Re di Prussia, e Cavaliere dell' Ordine del Merito : Venezia,
Zatta, 1759. Un' altra edizione uscì, pure a Venezia, nel 1760, presso
G. B. Novelli.
35 Lettera 12 agosto 1747, da Augusta ( Opere, t. XIV, p. 296 ).
Alla quale fa eco il padre Golini, da Brescia, il io marzo 1759, ral-
legrandosi dell' epistola sul Commercio e d' altri suoi scritti : " Oh
questo sì eh' è fare onore all' Italia, e un dimostrare con verità al-
l' altre nazioni, che noi pure abbiamo i nostri Pope, e i nostri Voi-
154 FRANCESCO ALGAROTTI
taire „ : t. XIV, p. 353. Così da Firenze il Cocchi, 20 agosto '46, gli
augura " felicità in ogni sua impresa anco per decoro dell' Italia e
della filosofia „ : ivi, 292.
26 Opere, t. XIV, p. 294.
37 Opere, t. XIII, p. 37.
38 Parma, 25 novembre: in Opere, t. XIV, p. 114. In una lettera
da Berlino dei 30 gennaio 1750, dell' Algarotti al Bettinelli, si legge :
" ... Mi parrà allora d' essere in Italia, a cui tengo sempre rivolto un
occhio „ : ivi, 42. E in altra da Potsdam, dei 9 maggio 1751, al Conte
N. N. di Padova: " Non è già pericolo che in me il desiderio di
riveder l' Italia si venga a spegner mai „ : t. IX, p. 184.
29 Opere, t. VII, p. 46.
30 "... E ben si può dire, quando e' sparlan di noi, che il fan-
ciullo batte la balia, per servirmi di una loro espressione „ : Opere,
t. IX, p. 237. A proposito della vivace questione fra la musica ita-
liana e la francese, dove pure troviamo desto 1' amor proprio delle
due nazioni, lasciò scritto nei Pensieri diversi'. " La musica francese
è in comparazione della italiana ciò che è il giuoco della dama verso
il giuoco degli scacchi „: VII, 47.
31 " Tali sono gli effetti della picciolezza e divisione degli stati,
ignoranza presunzione frivolezza. La vera accademia è una capitale,
dove i comodi della vita i piaceri la fortuna vi chiamino da ogni
provincia il fiore di una gran nazione, dove otto in novecento mila
persone si elettrizzino insieme... Allora si avrà un teatro che sia
scuola dei costumi, una satira pungente con mollezza, e filosofica-
mente scherzosa. Ci sarà allora un' arte della conversazione, e si
scriveranno lettere con disinvoltura e con grazia, la lingua diverrà
ricca senza eterogeneità, e pura senza affettazione. Ci saran nel coro
delle Muse non solamente soprani, ma anche tenori e baritoni; e
dalla società si sbandiranno i sonetti, come dai palagi de' gran signori
si caccian le mosche. Che fare intanto? „: lettera al Voltaire, io di-
cembre 1746, in Opere, t. IX, pp. 85-86 (v. pure ed. di Livorno, t. IX,
p. 62). - C è, o io mi sbaglio, un augurio, una speranza, una fede
in queste parole.
33 Opere, t. IX, pp. 214-216.
33 Opere, t. XV, p. 346. Si notino quelle parole comme nous Pavons
dit souvent ensemble.
34 " Il favellar seco era imparare, perchè oltre al conoscere tutti
i classici del mondo morto, conosceva tutte le persone d' importanza
del mondo vivo. Il suo conversare era opportunamente storiato di
venture curiose, e sparso di facezie argute „ : Opere dell' Ab. G. B.
Roberti, t. XVI, p. 147.
35 Le scherzose parole di lady Wortley Montagu, nella sua let-
tera dei 19 luglio 1759, rispecchiano certamente 1' opinione di molti
E L EPISTOLA AL VOLTAIRE 155
fra i contemporanei: " Algarotti è, credo, a Bologna intento a com-
porre panegirici a chiunque sia vincitore in questa incerta guerra „.
36 Clemente Sibiliato, che a Padova era vissuto a lungo con
r Algarotti, in una lettera al Bettinelli dei 31 agosto 1792, dopo aver
detto che i Francesi " scrivono di testa e non di cuore, e a forza
di spirito vogliono persuaderci che sentano, „ giustamente aggiun-
geva: " Anche il nostro Algarotti ricevuta avea da natura più imma-
ginazione che sensibilità „ : Lettere del Prof. Clemente Sibiliato ecc.,
Padova, coi tipi del Seminario, 1839, p. 47.
INTORNO ALLA " LOCANDIERA
DI CARLO GOLDONI
Quando Mirandolina balzò alla mente di Carlo Goldoni ?
La Locandiera, come si sa, fu recitata nel carnovale del 1753,
anzi nel mese di gennaio ^, non già la sera di Santo Stefano 1752,
come affermano le Memorie. Il carnovale si aperse, credo, coi
Due Pantaloni^ che poi nella stampa diventarono i Mercatanti.
Teodora Medebac, mentre il poeta scriveva, trovavasi certa-
mente costretta a letto da un accesso di quel male che giovine
ancora la trasse alla tomba, e in fatti anche nella commedia
precedente comparisce Beatrice (ossia Caterina Laudi, la seconda
donna) invece di Rosaura, quale figlia di Pantalone. Si può
quindi assegnare con tutta probabilità la composizione della
Locandiera alla prima metà di dicembre del 1752.
Regnava sulle scene del teatro di Sant' Angiolo, e un po'
forse sul cuore di Goldoni, la bella e vivace Maddalena Raffi,
sorella di Gasparo, ciò è a dire zia di Teodora, e moglie di
Giuseppe Marliani: già ballerina di corda, come la nipote, nel
famoso casotto di cui fa menzione il Goldoni nelle memorie
italiane^. Separatasi dal bonario marito per qualche errore gio-
vanile 3, si riunì a lui nel carnevale del '51 ; e il dottor vene-
ziano ne diede notizia al conte Arconati -Visconti di Milano fin
dai IO febbraio: " ... Ho cambiato parimenti la serva, e sarà la
moglie del Brighella, che fu assai buona, e si spera tale, tut-
tocchè sei anni sia stata in riposo, avendo dello spirito e del-
l' abilità „. Subito il Goldoni, che dichiara più volte d' esser stato
un attento osservatore delle attitudini artistiche dei vari suoi
interpreti, scrisse per lei in veneziano la Castalda, e poco dopo
le Donne gelose', non senza invidia e dolore della Medebac,
alla quale non serbò V ingrato veneziano nel quinto e ultimo
anno del contratto teatrale (i 752-1752) che la Figlia ubbidiente,
mentre la servetta Marliani, trionfava sola, o quasi sola, nella
l6o INTORNO ALLA " LOCANDIERA „
Serva amorosa, nei Puntigli domestici, nella Locandiera, nelle
Donne curiose e finalmente nella Donna vendicativa. Altro che
convulsioni dell* infelice Rosaura 1
L' indole della grande Corallina si intravvede dai pochi
cenni della sua vita lasciatici dal Goldoni e dal Bartoli, e dal
suo dispetto per il passaggio del commediografo veneziano sul
teatro di San Luca. Mirandolina non è più la servetta del teatro
dell' arte, ingentilita nella donna di garbo e nella vedova scaltra,
ma è una donna strappata alla vera vita, e si confonde con
Maddalena Marliani. Peccato, per la nostra curiosità, di saper
così poco di una sì fatta ispiratrice e interprete. Certo il Gol-
doni, maturo d' età e d' esperienza, aveva potuto fare senza suo
pericolo uno studio diligente del carattere e dell' arte di Coral-
lina, giunta pure alla pienezza dell' esistenza. I ricordi della
Medebac nel 1747 a Livorno, della Baccherini nel '43 a Ve-
nezia, e perfino della famosa Passalacqua, prima del matrimonio,
impallidivano al confronto di questo indiavolato spirito femmi-
nile. In una ricetta maccheronica " per li SS. Comici di S. An-
gelo „ nel 1754, certo anonimo scriveva: " Spiritus diabolicce
Corallince bozze 20 : Silvarum cornarum mariti Corallince usque
ad satietatem „ 4. Ma dei suoi amanti ci sfugge il nome: del-
l' arte scenica, oltre il Goldoni stesso nelle prefazioni alle varie
commedie, e il Bartoli citato, ci tramandarono le lodi il giovane
conte Pietro Verri e 1' abate Giambattista Vicini e il Frugoni 5.
Nel vecchio diario del Gradenigo si fa cenno di un sonetto
stampato in suo onore per la recita delle Sorelle Chinesi del
Chiari, nel febbraio del '54; e venti anni più tardi, nel gennaio
del '74, replicandosi più volte a San Giovanni Crisostomo la
Veneziana a Londra, scritta allora dallo stesso abate, Domenico
Caminer avvertiva nel primo tomo del Giornale Enciclopedico:
" La parte brillante della Protagonista fu egregiamente soste-
nuta dalla Signora Maddalena Marliani „: anzi tra il 1781 e l'82,
quando Francesco Bartoli dettava le Notizie de' comici italiani,
essa appariva ancora " quella celebre CoraUina che fu nella
sua fresca giovinezza „ ; e potè ancora ammirarla il Goethe nel-
r ottobre del 1786, che la scambiò con la sorella del Sacchi,
morta dieci anni prima.
A lei fu debitore il Chiari, come afferma Antonio Piazza,
" del felice successo di tante Commedie sue „ nel teatro di
Sant' Angelo, " che senza l' abiUtà di quell' Attrice eccellente
non avrebbero conseguito il favore del Pubblico „. Forse l'abate
DI CARLO GOLDONI l6l
pensò di renderle onore e di mostrarle gratitudine facendola
protagonista di un romanzo cominciato e condotto " dentro
pochi giorni al suo fine „, nell'anno 1755, il quale ha per titolo
La Commediante in fortuna. Peccato che il personaggio riesca
freddo, scialbo, scipito, senz'arte e senza vita; peccato che le
memorie della Marliani, affidate a scrittore sì inetto, rimangano
affogate tra le solite avventure romanzesche proprie di tutte le
eroine del Chiari, sì che più non si distingue il vero dal falso:
tuttavia vediamo la futura Mirandolina, abbandonata fin dall'in-
fanzia da un padre gabbamondo e da una madre odiosa e vol-
gare, ballar sulla corda all' età di quindici anni, nella truppa
del signor di Greland a Palermo; e la vediamo poi recitare con
plauso a Napoli nella compagnia del signor di Marbele, ossia
di Girolamo Medebac, protetta dal filosofo don Cirillo, ossia
dal Chiari. Dalle commedie e dai canti che per lei compone
don Cirillo, ma molto più dalle voci che corrono a Napoli e
dalle mezze confessioni dell' autore stesso, possiamo credere
che tra 1' abate Chiari e la Marliani, o se volete, tra Egerindo
e Corallina, si saldasse, almeno per qualche tempo, un'amicizia
molto intima. Non per caso l' ultima commedia composta dal
Goldoni per il teatro di Sant' Angelo, sul punto di abbandonare
la compagnia Medebac, intitolavasi la Donna vendicativa', e fu
recitata bensì " a meraviglia „ dalla Marliani, come afferma il
dottor veneziano, " quantunque di malanimo lo facesse „, ma
per due sere soltanto, scusandosi ella presso il pubblico del-
l' odioso carattere impostole, per mezzo di un sonetto " non
mio „ protesta ingenuamente il Goldoni, poiché infatti era stato
aggiunto dal Chiari, suo successore 6. Quella volta Egerindo
rise sul serio.
Ma torniamo al Piazza che nel racconto della Giulietta,
stampato nel '71, volle inserire questo elogio della celebre
Corallina: " Quantunque il suo particolare carattere sia quello
della Servetta, ciò nuli' ostante è capace di tutto. Nel serio, nel
ridicolo, nel feroce, nel patetico, a meraviglia ella riesce, tra-
sformandosi così bene, a tenore delle parti ond' è incaricata, che
r arte in lei sembra natura. Una memoria felicissima, che mai
non le lascia del rammentatore aver d' uopo ; un' eloquenza
fiorita, che all' improvviso le mette in bocca le parole più scelte,
e i termini più eleganti, in quelle Commedie che si chiaman
dell' arte; un tuono di voce chiaro, armonioso, soave; una grazia
di gestire ch'esprime le cose prima del labbro; un possesso
G. Ortolani. ^i
'162 INTORNO ALLA " LOCANDIERA „
di scena che la rende padrona di tutto, sono le qualità che
formano di lei la Comica migliore de' nostri Teatri. Sebbene
ora sia avanzata negli anni, pure conserva tutto lo spirito della
fresca sua giovinezza. La gracilità della persona, la vivezza
degli occhi che le brillano in fronte, l'agilità con cui opera, non
lascia sì facilmente distinguere s'ella sia giovine, o vecchia „ 7.
Pur non bisogna nemmeno restringere a un solo modello
la inspirazione artistica della Locandiera. Il marito della tenera
Nicoletta sembra nel teatro vendicarsi delle donne che lo ave-
vano più volte ingannato nell' età bella, e si diverte a mettere
in scena le piccole perfidie dell' animo femminile. A chi ha letto
le memorie della sua giovinezza, sia italiane, sia francesi, tor-
nano a niente vari accidenti della vita goldoniana, trasformatisi
poi in vivaci episodi da commedia: che pochi creatori attinsero
con più fedele amore di Goldoni alla vita reale. " Dio volesse „
esclama nella prefazione il buon Carlo, " che io medesimo cotale
specchio avessi avuto per tempo, che non avrei veduto ridere
del mio pianto qualche barbara Locandiera. Oh di quante scene
mi hanno provveduto le mie vicende medesime ! „ ^. Ma il poeta
di Mirandolina non serba ira alle donne per la sua ingenuità
di ragazzo, un giorno ferita, anzi sorride di sé e delle arti mu-
liebri, indulgente per tutti, innamorato della donna e dei suoi
difetti, delle sue debolezze, delle sue stesse perfidie.
Da ciò soprattutto 1' originalità strana di questa commedia,
che si annovera tra i capolavori del teatro comico, e sembra
contendere agli altri la palma per la sua perenne freschezza.
Studiarne i cosidetti precedenti storici torna opera vana, seanche
si sappia che la Locandiera fu scritta per una servetta, che il
nome di Mirandolina fu foggiato su quello di Corallina, e Coral-
lina è a sua volta, nella famiglia delle maschere, la sorella, cara
al commediografo veneziano, di Colombina. Nulla servono le
Argentine le Diamantine le Riccioline le Franceschine le Smeral-
dine, nulla le Pasquette le Fiammetta le Spinette le divette
le Violette che riempiono di sussurro V antico palcoscenico, a
spiegarci il potere meraviglioso della Mirandolina goldoniana sul
cuore degli uomini: né giova frugare fra le Colombine e le Li-
sette del vecchio e del nuovo Teatro Italiano in Francia. Tuttavia
non bisogna credere che la Colombina francese di Regnard e di
Bruyére de Barante non conosca a memoria le arti della civet-
teria e non difenda con calore la tesi dell' incostanza 9: ma ra-
giona troppo, parla troppo, si scorge appena, quasi che fosse
DI CARLO GOLDONI 163
incorporea, e dilegua subito nel fantastico regno delle maschere.
Da questo mondo irreale niente è così lontano e diverso come
la Locandiera.
Qualcuno ebbe a ricordare lo Spregio con lo spregio (El
desdén con el desdén^ st. 1654) di Agostino Moreto, qualcuno la
Sorpresa dell' amore (1722 e '27) e i Giuramenti indiscreti (1732)
di Pietro Marivaux *°, se non che il mutamento d' animo nel-
r uomo o nella donna dal disprezzo all' amore si ritrova già
cento volte ne' poemi classico-cavallereschi e nelle favole pasto-
rali, prima che nel teatro comico; e il dialogo aristocraticamente
fine, lievemente articificioso del soldato e prete spagnolo, e
r analisi delicata e minuta dello scrittore francese possono solo
servire di contrapposto all' arte un poco rozza, ma tanto più
potente, che creò Mirandolina e il cavaliere di Ripafratta. Si
pensi, per esempio, alla scena settima, atto primo, della Sorpresa
dell' amore, che risponde alla scena decimaquinta, atto primo,
della Locandiera. Eppure anche Lelio, l' odiatore delle donne,
fin dal primo colloquio ci prende gusto a conversare con la
Contessa (" Madame, peu de femmes sont aussi aimables que
vous „ ; e la Contessa: " Nous nous divertirons, vous à médire
des femmes, et moi à mépriser les hommes „); anch' egli vuol
fuggire, quando s' accorge che il cuore esita, o se n' accorgono
gli altri (" Moi tomber! Je pars dès demain pour Paris; voilà
comme je tombe „: II, 5); anch' egli nel secondo atto fa una
confessione di debolezza ( " Un moment „ dice alla Contessa :
" vous étes de toutes les dames que j'ai vues celle qui vaut le
mieux: je sens méme que j'ai du plaisir à vous rendre cette
justice-là„: II, 7). Il Settecento, è vero, si riflette così nella
Sorpresa deW amore, come nella Locandiera'. tuttavia la scena,
r arte, la vita stessa mutano. Seanche non si sapesse che a
Venezia di Marivaux si leggevano soltanto i romanzi '', che le
commedie non si tradussero mai, che non si recitarono prima
del 1780 ", che il Goldoni non ne fa mai menzione e non do-
vette conoscerle prima del '62, quando ne trovò il ricordo sul
Teatro Italiano di Parigi, a nessuno verrebbe voglia di scoprire
affinità di natura fra il salotto della vecchia signora di Lambert,
ultimo rifugio di qualche preziosa, e la locanda goldoniana che
sa di biancheria fresca e di manicaretti, fra Silvia Balletti e
Maddalena Marliani, fra il ritratto psicologico e il dramma. In
vece del minuetto a mezza voce, nel viale del giardino favoloso,
familiare agli amori delle antiche ninfe e delle antiche maschere,
164 INTORNO ALLA " LOCANDIERA „
r azione che incalza e prorompe sul palcoscenico della vita con
grida e con rabbia.
Non resterebbe dunque che da ricercare nell' opera stessa
di Goldoni, dove la fortuna aiuta lo studioso a seguire le tracce
fuggevoli di Mirandolina, in qual modo dal Prodigo, dalla Donna
di garbo y dalla Vedova scaltra, dal Poeta fanatico, dalla Castalda,
daìV Amante militare, dai Puntigli domestici balzò d'improvviso
nella mente del commediografo il tipo meraviglioso. Se ci rima-
nesse lo scenario del Prodigo, come fu steso nel 1739, vor-
remmo gettare uno sguardo sulla prima Colombina, castalda di
Momolo. Forse conosceva anche allora l' arte di cavar denari
dagli uomini, o di pelare, come dicevasi, con abilità e con grazia
birichina. Ricordiamo il dialogo col fattore Trappola:
Trappola. Sì, cara Colombina, eccovi tre zecchini.
Colombina. Oh, quanto vi sono obbligata!
Trappola. Ricordatevi di venir da me qualche volta.
Colombina. Tre zecchini! certo posso comprare una vesta non
ricca, ma civile. Mi dispiace per il busto... Ma non importa.
Trappola. Che? non avete il busto?
Colombina. Ce V ho, ma è tanto vecchio.
Trappola. Se volete, lo compreremo.
Colombina. No, no, non importa.
Trappola. Non costerà molto.
Colombina. Con un zecchino si fa; ma non importa; farò di
meno per ora.
Trappola. Quel che avete non sarà poi tanto vecchio.
Colombina. Oh, è vecchissimo; non lo posso affibbiare; la vesta
non me la metto, se non ho il busto nuovo.
Trappola. Orsù, tenete un altro zecchino, e fatevi il busto...
Colombina. Oh, non vorrei che diceste...
Trappola. Dunque pel dì della Fiera spero vedervi vestita di nuovo.
Colombina. Così presto sarà difficile.
Trappola. Perchè? vi vuol tanto?
Colombina. Scarpe, calze, un fazzoletto da collo... Eh, con un po'
di tempo troverò il bisogno...
Trappola. Quanto ci vorrà per tutte queste cose?
Colombina. Oh certo, non voglio altro, avete fatto anche troppo ;
DI CARLO GOLDONI 165
non voglio che dite che sono indiscreta. In vita mia non ho mai
domandato niente a nessuno e non avrei coraggio di farlo...
Trappola. Colombina, voglio avere il merito di aver fatto tutto:
eccovi due zecchini.
Colombina. No, certo.
Trappola. Prendeteli.
Colombina. Non voglio.
Trappola. Se poi non volete...
Colombina. Li prenderò, per non parere ingrata (A. I, se. 4).
Più che ad altro ella bada all' interesse : dell' amore non sa
che farne. Rileggiamo quest' altra battuta deliziosa, più avanti :
Trappola. Datemi la mano.
Colombina. Per che cosa volete la mano?
Trappola. Così, per toccarvi la mano in segno di amicizia.
Colombina. Sì, sì, guardate che bella mano senza un anello!
(disp rezzandosi
Trappola. Troveremo anelli, troveremo smanigli, troveremo di
tutto. Basta soltanto che Colombina mi voglia bene (A. II, se. 2).
" A questo prezzo „ esclama Colombina, dopo che il fattore
è partito, " sarei sicura non aver niente, ma in difetto dell' amore
ho un poco di arte, che mi aiuta nelle occorrenze „. Del resto
conosce già perfettamente il suo dominio sugli uomini e gode
dei propri trionfi: " ... Ed io ho un patto fatto con me mede-
sima „ dice fra sé, " di far fare gli uomini a modo mio, anche
a loro dispetto „. Spunta Mirandolina: è vero che queste scene
furono scritte per intero soltanto nel '57, ma non dobbiamo
dimenticare che Colombina o Smeraldina era nel '39, nel teatro
di San Samuele, la grande servetta Andriana Sacchi, sorella
dell' indimenticabile Truffaldino.
La prima commedia che il Goldoni scrìsse per la Marliani,
nel '51,6 la Castalda, in dialetto veneziano. L'astuta Corallina
la fa da vera padrona in casa di Pantalone; in sei anni ha
messo da parte una bella sommetta: " Gh' ho anca mi „ dice,
" i me grumetti. Gh' ho le mie pezzette con dentro dei tràiri,
delle lirazze e qualche zecchinetto „ ; e per aver qualche dono,
lusinga tutti, perfino quel pazzo di Lelio : " I dise eh' el xe
l66 INTORNO ALLA " LOCANDIERA „
matto? Cossa m'importa a mi?... Se no ghe fusse dei omeni
matti, nualtre povere donne la passaressimo mal „. Anch' essa
conosce il suo potere femminile: " Gh' ho un certo non so che,
che bisega. Son dretta la mia parte. Della lengua e dei occhi
fazzo quello che voggio. E con una occhiadina, e con una pa-
roletta, m' impegno de far cascar un omo, s' el fusse de piera
viva „. Si capisce che ci vuol poco a far cadere il vecchio Pan-
talone, a cui non par vero di sposare la gastalda.
Per conoscer bene come la pensi Corallina su certe cose,
non bisogna trascurare le commedie minori. Così nelV Amante
militare le scappa una confessione preziosa: " Povero Arlec-
chino! gli voglio bene. Un marito sciocco come lui non lo trovo,
se lo cerco per tutto il mondo „. E nella Castalda, rifatta dal-
l' autore in italiano, a Rosaura che dichiara di non poter sof-
frire gli uomini sciocchi, Corallina risponde: " E a me piacciono
tanto. Se avessi a scegliermi un marito, sempre lo cercherei
scioccherello, piuttosto che spiritoso ed accorto „. Com'è la
serva padrona, così è la moglie in calzoni, e lo sa il povero
Brighella nella Moglie saggia. Corallina non ha paura del ma-
rito, né di nessuno: " Oh s' egli .avesse a fare con me, non mi
lascerei metter i piedi sul collo „ dice alla contessa Rosaura:
" S' egli alzasse la voce tre tuoni, ed io sei. S' egli alzasse le
mani, ed io più alte di lui „. Ha due altri difettucci che com-
piono il suo carattere: lo spirito di vendetta e la curiosità.
Udiamola nei Ptmtigli domestici: " A me insolente? „ grida a
Brighella: " Voglio vendicarmi, se credessi di perdere la casa,
il pane e la vita „. La stizza la rode a lungo, e guai per Bri-
ghella! " Voglio che me la paghi, se credessi di maritarmi a
posta per questo „. Anzi nella prima edizione della commedia
diceva: " Voglio vendicarmi, se credessi di perdere tre o quattro
mariti, uno dopo l'altro „. Quanto alla curiosità, CoraUina è la
più curiosa delle Dotine curiose', commedia nata quasi a un
tempo con la Locandiera. È in lei una specie di furore, di follia:
" Io ho certo naturale „ confessa " che vorrei sapere tutti li fatti
di questo mondo „. "A costo di tutto, voglio cavarmi di dosso
questa terribile curiosità „. " Alfine siamo donne „ conclude
nell'ultima scena: " Quel sentir dire: là dentro non possono
andar le donne, è lo stesso che metterci in desiderio d' andarvi.
E per me, se dicessero: in fondo d'un pozzo vi è una cosa
che non si ha da sapere che cosa sia, mi farei calar giù sin
alla gola, per cavarmi una tale curiosità „.
DI CARLO GOLDONI if]
Anche Mirandolina è donna, supremamente donna con tutti
i difetti, ma quei difetti nella vita sociale diventano spesso una
forza. Nella Serva amorosa, che il Goldoni scrisse e fece reci-
tare a Bologna nella primavera del '52, e che segnò uno dei
trionfi più belli della Marliani, siamo lontani, lo so, da Miran-
dolina e spesso anche dalla vita, perchè vi fa troppo sfoggio la
virtù; eppure in quel carattere seppe celare il Goldoni più d'un
segreto femminile, sì che fra tutti quei personaggi che la cir-
condano, Corallina esce vittoriosa, più forte di tutti, uomini e
donne, col suo coraggio e col suo buon senso. Questo senso
pratico della vita ha in maggior misura stora Lugrezia nelle
Donne gelose, un diavolino pronto a difendersi con la lingua e
con le mani. Ama i divertimenti, ama il denaro, ama soprattutto
la propria indipendenza. " Eia la va a tutti i teatri. Tutte le
prime recite le xe soe. Abiti, no se parla. Tabarazzi con tanto
de bordo. Bautta de merlo. Cossazze, via, cossazze „. Presta
denaro a usura, ma vanta il proprio cuore: " No gh' è caso:
son de bon cuor „. Gli uomini li ha tutti intorno, suoi schiavi,
fino quel disgraziato Arlecchin; ma non sa che farne, adora i
òezzì, non V amore. " Oe, mi me inzegno, „ dice fra sé : " un
poco de lotto, un poco de pegni, un poco de noletti... cioè no-
letti de abiti, intendemose: voi andar all'opera, vói andar alla
commedia, e no voggio nissun che me comanda. Ancuo con
una compagnia, doman con un'altra. I morosi i xe pezo dei
marii, i voi comandar a bacchetta, e mi son una testolina che
voi far a so modo. Chi me vuol, me toga; chi no me vuol, me
lassa. Rido, godo, me diverto, e no ghe ne penso de nissun
una maledetta „. E la filosofia di Mirandolina. Tanto più che
sa bene di non esser più una fanciulla: " Una volta v' averave
fatto desperar quante che sé; ma adesso i anni passa, son vedoa,
e no gh' ho più el morbin che gh' aveva una volta. Penso a
far bezzi, penso a mantegnirme onoratamente, perchè saveu,
fie? dise el proverbio: - Passando i anni, passa la bellezza, -
Ma de tutto ghe xe, co ghe xe bezzi... „. Mirabile figura strap-
pata alla società borghese di Venezia nel Settecento questa ve-
dova Lngrezial Essa degnamente prelude a Mirandolina e alla
sua locanda.
Ma Mirandolina è Mirandolina, e non assomiglia propria-
mente a nessun' altra figura nel regno dell' arte : essa emana
dal pieno Settecento, come Manon, e sconvolge il cuore degli
uomini. Chi tenta resistere, chi la disprezza, offende il sesso, e
l68 INTORNO ALLA " LOCANDIERA „
più degli altri resta vinto e diviene suo schiavo. In lei nessuna
corruzione, nessuna deformità morale, tolta l'arte di fingere;
Mirandolina è sana, allegra, spiritosa: specialmente è donna,
innamorata e gelosa del suo potere femminile. " Tutto il mio
piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata... Voglio
burlarmi di tante caricature d'amanti spasimati; e voglio usar
tutta r arte per vincere, abbattere e conquassare quei cuori bar-
bari e duri, che son nemici di noi, che siamo la miglior cosa
che abbia prodotto al mondo la bella madre Natura „. Rileg-
giamo quello che scrisse 1* autore nostro nella prefazione alla
commedia, pochi mesi dopo la recita, con la fantasia ancora
commossa: " Il pover' uomo „ cioè il cavaliere di Ripafratta
" conosce il pericolo e lo vorrebbe fuggire, ma la femmina
accorta con due lagrimette l' arresta, e con uno svenimento
r atterra, lo precipita, V avvilisce. Pare impossibile che in poche
ore un uomo possa innamorarsi a tal segno: un uomo, aggiun-
gasi, disprezzator delle donne, che mai ha seco loro trattato;
ma appunto per questo più facilmente egli cade, perchè sprez-
zandole senza conoscerle, e non sapendo quali sieno le arti
loro, e dove fondino la speranza de' loro trionfi, ha creduto
che bastar gli dovesse a difendersi la sua avversione, ed ha
offerto il petto ignudo ai colpi dell' inimico. Io medesimo „ con-
tinua il Goldoni, ed è bene por mente a queste parole che ci
rivelano l' atto spontaneo della creazione, " diffidava quasi a
principio di vederlo innamorato ragionevolmente sul fine della
Commedia, e pure, condotto dalla natura, di passo in passo,
come nella Commedia si vede, mi è riuscito di darlo vinto ai
fine dell'atto secondo „. Poi aggiunge ancora: " Io non sapeva
quasi cosa mi fare nel terzo, ma venutomi in mente che sogliono
coteste lusinghiere donne, quando vedono ne' loro lacci gli
amanti, aspramente trattarli, ho voluto dar un esempio di que-
sta barbara crudeltà, di questo ingiurioso disprezzo con cui si
burlano dei miserabili che hanno vinti „.
Il Goldoni qui esagera, facendo una concessione ai tempi,
sulle intenzioni morali che certo non ebbe: ma è vero che in
questa commedia tutto è perfettamente logico, come la vita
stessa. Quando Grimm in Francia, nel 1764, osservò nella sua
famosa Corrispondcjiza che bisognava far cadere a sua volta la
eroina nell' amore per il Cavaliere, mostrò di non aver nulla
capito: così poteva scrivere La None una Civetta punita (i^^ó),
ma così non si crea Mirandolina. Eppure le scene della Locan-
DI CARLO GOLDONI 169
diera, d' una psicologia naturale e vigorosa, si seguono limpi-
dissime. Quando a' nostri giorni il Rabany, che scrisse un grosso
libro sul commediografo veneziano, volle scusare Goldoni, poi-
ché non ebbe " la pretésa d'offrire uno studio di carattere „,
mostrò di non aver capito il suo autore. Quando certo Schedoni,
nel 1828, rimproverò il dottor Carlo per aver compiuto il trionfo
di Mirandolina col matrimonio di Fabrizio, mostrò di capir bene
le leggi della morale, non quelle della vita e dell' arte. Né me-
glio capirono questo singolare e potente capolavoro quanti tra-
duttori o riduttori, per adattarlo al genio delle varie nazioni, lo
sconciarono più o meno nelle principali lingue d' Europa. Perchè
qui non soltanto V azione si svolge con perfetta arte di teatro,
non soltanto il gioco de' caratteri e delle passioni riesce bellis-
simo, non soltanto il riso comico nasce diversamente da ciascuno
dei diversi personaggi, ma vi sono episodi d' una dolorosa ve-
rità umana, come le sei prime scene dell' atto terzo, che reggono
il confronto con Molière e con qualunque altro poeta drammatico.
La caricatura del marchese di Forlipopoli, la satira delle
due comiche, appartengono al quadro di costume del Settecento
e però vivono meno. Che il Goldoni volesse proprio colpire la
boria di qualche nobiluomo spiantato, di qualche barnaboto, si
può mettere in dubbio, essendo ormai consuetudine anche in
Italia, sul palcoscenico e fuori, la rappresentazione ridicola della
nobiltà affamata. Ricordiamo, per un esempio, il conte Ottavio
nella Castalda: sebbene qui più arguta e più intera, senza vol-
garità, fin dall' alzarsi della tela si stacchi la magra figura del
Marchese, a cui di rincontro piantasi, facendo risonare i suoi
zecchini, il recente conte d' Albafiorita : " ... Sì conte! Contea
comprata. - Io ho comprata la contea, quando voi avete ven-
duto il marchesato... „. Querela perpetua fra le classi sociali
che sorgono e quelle che se ne vanno. Ortensia e Dejanira,
come a dire, sul teatro di Sant' Angelo, Caterina Laudi ed
Eleonora Falchi, servivano a compiere la pittura della locanda,
il carattere del Cavaliere e la vittoria di Mirandolina. Quanto
a Fabrizio (sulla scena il brighella Marliani, paziente marito di
Maddalena) il quale, a guisa di molti critici, non riesce a veder
chiaro nella testolina della locandiera, é personaggio troppo
importante perchè occorra richiamarvi a posta 1' attenzione.
Ricercare poi che cosa storicamente e artisticamente rappresen-
tino, nel secolo della Pompadour, del Casanova e di Laclos,
Mirandolina e il cavaliere di Ripafratta; ridestare Manon e Des
170 INTORNO ALLA " LOCANDIERA „
Grieux, la Marianna e Pamela, Cleveland e Lovelace; ricordare
le altre donne goldoniane e dire come e perchè differiscano da
quelle di Molière; analizzare la vendetta di Mirandolina e la
passione del Cavaliere nella vita e nella commedia, ci trarrebbe
troppo lontani da queste umili note.
Strano che il pubblico da principio non si accorgesse di
questo capolavoro, e che nemmeno l' autore ne avesse piena
coscienza. La Locandiera non suscitò il grido della Vedova
scaltra j della Pamela, del Molière, che dico?, del Filosofo inglese
e della Sposa Persiana, checché affermino le Memorie: anzi
restò alquanto confusa tra le minori sorelle. Pochi la ricordarono
fra gli amici o lodatori del Goldoni. Il Beregan appena la no-
mina, in cattiva compagnia (" L'accorta Locandiera, i Mercanti,
il Tutore... „: // Museo di Apollo, 1754); appena la nomina
Alvise Foscarini (" La Dama e il Cavaliere, e la Serva amo-
rosa, - La gaia Locandiera, e la sì deliziosa - Pamela... „);
il Roberti tace. Qualcuno, come il Verri che vi fece attenzione,
vi ammirò specialmente l'arte della Marliani ("Esser può in
prosa ancora una commedia vera; - E fra le tue più elette conto
la Locandiera „: La vera commedia^ 1755). I più si spaventarono
per ragione della morale; condannarono la commedia che offen-
deva il canone più sacro della scuola del teatro, e costrinsero
il Goldoni a difendere in questo modo la propria audacia, nella
introduzione premessa alla stampa, fattasi a breve distanza dalla
recita: " Fra tutte le Commedie da me sinora composte, starei
per dire esser questa la più morale, la più utile, la più istruttiva „.
Non sappiamo come la pensasse in proposito il conte Carlo
Gozzi, r implacabile nemico della riforma goldoniana, poiché
nei suoi rabbiosi sfoghi o dimentica o risparmia la bella Miran-
dolina. Se ne ricordò certamente nell' autunno del 1771, quando
per Teodora Ricci, assunta da pochi mesi quale prima attrice
nella compagnia di Antonio Sacchi, compose la Principessa
filosofa (recitata nel febbraio successivo). L' intreccio e, in parte,
il dialogo sono tolti dal ricordato capolavoro d'Agostino Moreto,
// dispregio col dispregio, da cui pure derivò il Molière la sua
non felice Principessa d' Elide. Anche qui donna Teodora
( un' altra Turandot, ma non così barbara ) disdegna i sospiri
degli innamorati e aborre dal matrimonio ; ma quando poi don
Cesare finge di non curare la sua bellezza e quasi mostra di
sprezzarla, rimane vinta dall' inganno e s' innamora a sua volta
perdutamente, come la principessa Diana della commedia spa-
DI CARLO GOLDONI 171
gnola. Che il Gozzi abbia guastato quanta poesia, quanto spi-
rito e quanta finezza d* arte si trovano nel modello di Moreto,
non occorre dimostrare ^3: tuttavia qualche spunto drammatico^
proprio del Gozzi, si avverte nella Principessa filosofa. La rozza
Teodora del Gozzi ha un po' della principessa Diana, un po-
chino di Mirandolina, e qualche cosa forse di Teodora Ricci.
Ricordate il racconto delle Memorie inutili^ come il rustego conte
Carlo, brontolone perpetuo nel carnovale veneziano, sedicente
filosofo, poco o nulla tenero delle donne, si lasciasse prendere,
a cinquant' anni sonati, nei lacci della giovine attrice comica?
Pare che da principio il Gozzi e la Ricci recitassero davvero
sul palcoscenico della vita certe scene della commedia spagnola
e della Locandiera: schivi tutti due, per natura o per sazietà,
delle passioncelle d' amore, superiori tutti due alle debolezze e
follie del povero cuore umano, tutti due armati della filosofia
del secolo; ma il duro poeta della Tartana ^ della Marfisa finì
come Ercole ai piedi d'Onfale: passava lunghe ore in casa
della Ricci, a insegnarle il francese e tante altre cose, mentre
Teodora continuava a guardarsi nello specchio per " studiare
l'armonia de' colori e simili faccende '4 „ ; e fuori di casa l'ac-
compagnava a qualche cenetta, a pranzi e a festini privati, a
qualche teatro, e s'ingegnava a farle da servente. Eccola qui la
Ricci, nella scena nona del secondo atto, che si avanza con la
sua bella figura, con 1' alta e bionda capigliatura, contraendo
r angolo della bocca nella smorfia consueta : " Donna Teodora
avrà un abito da giardiniera, pittoresco, bizzarro, e modesta-
mente lascivo „ come dice la didascalia. " Sarà tutta fiori e
nastri, coi capelli in una negligenza artifiziosa. Averà un cap-
pellino galante... Uscirà suonando un traversie „. Povero cava-
liere di Ripafratta, volevo dire povero conte Carlo! non occor-
reva il flauto tedesco alla nuova Mirandolina, se fin dal primo
atto aveva giurata la sua rovina:
Voglio che lo vediate innamorato,
Furente, fuor di sé...
... A costo di qualunque
Travaglio mio, di far cader pretendo
Nella rete d' amor questo superbo.
Poi venne Pier Antonio Gratarol: ma noi torniamo al Goldoni
e air opera sua. Solo interrottamente possiamo seguire le rap-
ii
172 INTORNO ALLA " LOCANDIERA „
presentazioni di commedie goldoniane nel Settecento: pure è
certo che la Locandiera risalì di rado sulle scene a Venezia e
fuori. A Parigi, nel 1764, l'autore ne cavò un canovaccio da
recitarsi sul Teatro Italiano, col titolo di Camilla locandiera, ma
con esito infelice, forse per colpa della riduzione. Leggo nel
Diario Veneto in data 22 gennaio 1765: Teatro di S. Samuele.
" Si recita // Cavaliere di Ripaf ratta o sia il Marchese di For-
lipopoli. Commedia bellissima e tutta da ridere „. E merito delle
compagnie comiche veneziane dell' estremo Settecento di aver
ricondotto alla luce questo capolavoro il quale doveva poi av-
viarsi al giro glorioso per tutta Europa: col suo vero titolo o
con quello appiccicato degli Amanti in locanda (oppure Li tre
o / quattro amanti in locanda, oppure Li tre rivali in locanda)
lo ritroviamo più volte sui teatri di San Giovanni Crisostomo
e di San Luca, tra il 1796 e il 1801. Ma nell'Ottocento le recite
nelle principali città d' Italia, da Torino a Napoli, non si con-
tano più. Intanto a Parigi nel 1791 applaudivasi una rafifazzo-
natura in versi francesi di Carbon Flins des Oliviers (La Jeune
hótesse) che tornò infinite volte sul teatro, e che trent' anni dopo
generò in Germania altre fortunate Locandiere tedesche, famo-
sissima fra tutte nel '28 la Mirandolina di Carlo Blum, come
c'insegna il Maddalena '5. Finalmente nel 1830 Carolina Inter-
nari, alunna di Annetta Pellandi, recitava a Parigi nel testo
originale il capolavoro di Goldoni : e precedeva di ventisei anni
il trionfo nelle capitali d'Austria, di Francia e d'Inghilterra,
d' Adelaide Ristori. E lecito affermare che per virtù di questa
straordinaria attrice la Locandiera acquistò cittadinanza mon-
diale; e da allora si ebbero traduzioni in lingua russa danese
czeca portoghese rumena, da aggiungersi a quelle in lingua
spagnola greca ungherese che già esistevano; e di teatro in
teatro Mirandolina, sempre giovine e sorridente, si trasse dietro
il povero cavaliere di Ripafratta, 1' odiatore delle donne, il più
ingenuo degli innamorati.
Tuttavia i critici, come suole talvolta, si mostrarono meno
sensibili del pubblico alle lusinghe della Locandiera. Dopo
Grimm, lo stesso Goethe che vide a Roma la commedia, chiamò
insulso lo scioglimento; e dovette il Klein nel secolo seguente
assumere le difese di Goldoni. Con acutezza di pensiero volle
ai dì nostri Camillo Susan rendersi ragione del paradosso
goethiano, che il carattere di Mirandolina si possa tollerare sol-
tanto quando sia interpretato sulla scena da un uomo, come
DI CARLO GOLDONI J 73
facevasi a Roma nel Settecento; e dimostrò quanto sia logica,
all' infuori d' ogni romanticheria, la soluzione della commedia ^^.
Molti biografi o lodatori del Goldoni la dimenticarono, per
esempio il Carrer il Paravia il Ciampi *7; il Masi non le lasciò
posto nella sua Scelia ) poco se ne curarono il Galanti e il
Caprin; il Rabany se ne sbrigò con brevi parole; infine la
trascurò Filippo Mounier ^^. Solo un umilissimo ammiratore del
commediografo veneziano, Domenico Gavi,osò affermare nel 1826:
" La Locandiera è un portento dell' arte „ ^9. Negli anni recenti
Mirandolina quasi all' improvviso affascinò e rapì... fino gli eru-
diti. In Francia ne riconobbe il merito Dejob, negli Stati Uniti
d'America la celebrarono Chatfield-Taylor e Spencer Kennard;
in Italia ne proclamarono a un tempo (1907) l' immortalità Re-
nato Simoni, Luigi Federzoni e Sabatino Lopez. Anche il Toldo,
contrapponendo Goldoni a Molière, la collocò accanto ai Rusteghi
e alle Baruffe chiozzotte ^°. Che più? Lo stesso Maddalena, il
quale ne' primi anni aveva fatto il viso un po' duro alla Lo-
candiera, negandole il titolo di capolavoro, si lasciò sedurre un
poco per volta, e per ammenda ricercò pazientemente le orme
gloriose della incantatrice fuori d'Italia, di paese in paese, in
un bellissimo saggio dove mostra come fosse tradotta " in altre
lingue una trentina di volte „: dieci versioni o riduzioni ha la
Germania, otto i paesi anglo-sassoni, sette la Spagna ^i. In Italia
poi si può contare nello spazio di un solo anno (1924-25) una
decina di ristampe, in ogni angolo della penisola =2,
Ma noi siamo stanchi di tanto peregrinare, e senza curarci
d' altro rivolgiamo un ultimo saluto d' appassionato rimpianto
alle leggiadre interpreti di Mirandolina nell' Ottocento, a Mad-
dalena Gallina, ad Anna Fiorilli Pellandi, a Carlotta Marchionni,
a Rosa Bugamelli Sacchi, a Rosa Romagnoli, a Maddalena
Pelzet, ad Albina Pasqualini, alla Ristori, alla Marini, alla Tes-
sero, alla Reiter, alla Vitaliani e infine all'unica, divina Duse;
e, oltralpe, alle Mirandoline tedesche, alla Valsing, alla Heidn,
alla Devrient, a Carlotta Hagn, a Carolina Muller, a Teresa
Peche, a Clara Stich, ad Agnese Sorma; e a quelle d'ogni paese,
alla Zuerkowska polacca, all' inglese Irene Vanbrugh, a Lucinda
do Carmo portoghese =3. Quante volte poi all' orecchio della
fanciulla creata da Carlo Goldoni risuonarono le note musicali !
Ben otto libretti si conoscono, musicati in vari tempi da maestri
diversi ^4. Vero è che troppo umile parve a taluno la condizione
sociale di Mirandolina, ma nel Settecento 1' arte scendeva volen-
174 INTORNO ALLA " LOCANDIERA „
tieri fino al popolo; e lo stesso rimprovero fu fatto, dopo le
commedie goldoniane, agli eroi del romanzo d' Alessandro Man-
zoni. Alberto Nota volle in fatti donare nel 1814 al nostro teatro
una Lusinghiera ingentilita e punita; la sua donna Giulia passò
sul palcoscenico con un fruscio di vesti eleganti, fatta vivere
per poco da Carlotta Marchionni, e appassì come il mazzo di
fiori che teneva in mano. Mirandolina continua oggi e sempre
a stirare la biancheria, mentre scoppiano nella locanda gli alterchi
del Conte e del Marchese, e cresce drammaticamente la passione
del cavaliere di Ripafratta: stira, e canta Viva Bacco e viva
Amore) poi ci lascia pieni del suo profumo femminile, ripetendo
con dolcezza il saluto: Compatite se non vi ho fatto... - Sulla
sua giovinezza sono già trascorsi quasi due secoli, ma nessuno
le potrà togliere il vanto di essere la figura di donna più viva
di tutto il teatro comico.
AGGIUNTE E NOTE
<<^
I Ciò si rileva dalla scena ii dell'atto I.
a Si vedano le memorie premesse dal Goldoni ai vari tomi del-
l' edizione Pasquali, in Opere complete per cura del Municipio di Ve-
nezia^ voi. I, p. 143.
3 Goldoni, Mémoires, Il P."*^, eh. 14.
4 Codice Cicogna 2395, presso il Civico Museo Correr di Vene-
zia, e. 103.
5 " ... E la tua spiritosa, accorta Corallina - Piace qualor la miro
far da Mirandolina „ : La vera Commedia di Midonte Priamideo
(P. Verri), Venezia, 1755. " Innimitabil sempre, sempre più destra e
fina - È in caratteri varj 1' attrice Corallina, - O il tragico si cinga
coturno grave al piede, - O il ridevole socco che a lei Talia già
diede „ : G. B. Vicini, Della vera poesia teatrale, Modena, 1754. Nel-
r estate del '58 così scriveva il Frugoni, a Cornelia Barbaro Gritti,
della compagnia Medebac che recitava allora a Parma, e del suo
capocomico: " Che bravo attore e specialmente in oggi ne le parti
caricate I Che brava compagnia, che lo riconosce per capo! Incom-
parabile la Rosaura, che a questi dì cagionevole di rado rappresenta ;
egregia la Corallina nata per animar tutto con la voce e con l'azione.
Il Pantalone {Collalto) eccellente; ottimo l'Arlecchino e il Brighella
(Marliani); e tutto il resto degno d'esser veduto e di piacere „:
Poesie ecc., Lucca, 1779, t. V, 58.
6 Opere complete di C. G., ed. cit., voi. IX, p. 478.
7 Giulietta ovvero il seguito delV Impresario in rovina. - Cito dal-
l' ed. 1784, pp. 74-75.
8 Opere complete di C. G., ed. cit., voi. IX, p. 196.
9 Nel famoso Theatre Italien de Gherardi vedasi, per esempio,
la Coquette ou l' Acadèmie des Dames, 1691 ; la Patisse coquette, 1694;
la Thèse des Dames ou le Triomphe de Colombine, 1695 ecc.
1° G. Ortolani, Per ima scena d'amore nelle Baruffe Chiozzotte,
in Marzocco, 25 febbraio 1907. Già il Gassier e il Dejob, come ve-
dremo, avevano ricordato Marivaux.
II È tuttavia da credere che nell' " ampia raccolta di Tragedie,
di Commedie e di opere di ogni genere teatrale, antiche e moderne „
formata a Venezia dal N. U. Niccolò Balbi, antico protettore del
G. Ortolani. la
178 INTORNO ALLA " LOCANDIERA „
Goldoni, non mancassero le opere comiche di Marivaux {Opere com-
plete di C. G., voi. XI, p. 227). Nel numero 73 della Gazzetta Veneta
(15 ott. 1760) Gasparo Gozzi descrisse ai lettori Les petits Hommes
ou r Ile de la Raison e ne lodò il dialogo " finissimo „ e l'allegoria.
13 Casanova, Le Messager de Thalie, ed, da Aldo Ravà [Contri-
buto alla bibliografia di G. Casanova) in Giorn. Storico della lettera-
tura italiana, voi. LV (1910).
13 Vedi E. Carrara, Studio sul teatro ispano-veneto di C. Gozzi,
Cagliari, 1901, pp. 47-54.
14 Memorie inutili, Parte II, cap. 11.
15 Vedi il prezioso saggio su La fortuna della Locandiera fuori
d' Italia, in Rivista d' Italia, nov. 1907.
16 Goethe und Goldonis " La Locandiera „ , in Osterreichische
Rundschau, i febbr. 1909.
17 " Jolie „ parve al Sismondi, che le dedicò alcune righe; ma
" jolie „ è anche l' Incognita, e ne parlò per una lunga pagina.
18 Meglio avrebbe fatto a dimenticarsene A. Gassier nel suo libro
su Le théàtre espagnol, là dove parla d' Agostino Moreto e fra le
opere che più o meno si inspirarono al Desden con el desden nomina
prima la Turandot del Gozzi e poi aggiunge: " Et la Loueuse (Lo-
candiera) de Goldoni, dont le ròle est poussé à la gaité, ne dépense-
t-elle pas autant de coquetterie que la Diana de Moreto pour venir
à bout du Seul de ses galants qui la piqué par son insensibilité ?
Mais les deux pièces italiennes ne sont qu' une fantaisie et un vau-
deville. AUons plus haut ; élevons-nous à Marivaux et à Musset : des
scènes de Dédain pour Dédain font penser au feu de r Amour et du
Hasard ecc. „ (Paris, 1898, p. 378). Del resto anche due anni fa a Pa-
rigi la Locandiera fu recitata dagli attori e fu accolta dal pubblico
e dai cronisti di teatro come un buffonesco vaudeville.
19 Della vita di C. Goldoni, Milano, ]826, pp. 154-155. Il Gavi
ammira soprattutto le tre ultime scene dell' atto terzo, " preparate e
condotte da divino maestro...: cosa più bella non si può dare „.
20 Così pure G. Ortolani nel saggio intitolato Della vita e del-
l' arte di C. Goldoni, Venezia, 1907, p. 128 (v. poi a p. 68).
31 Prefazione alla Locandiera, annotata ad uso delle scuole medie
per cura di E. Maddalena, Firenze, Sansoni, 1925, p. x.
33 Tre delle quali egregiamente curate dal Sanesi, dal Vaccalluzzo,
dal Maddalena. Ricordo pure una ristampa nel 1911, del Brognoligo.
33 Maddalena, La fortuna della Locandiera cit.
34 Per molte altre indicazioni bibliografiche rimando alla Noia
storica in fine della Locandiera, nel voi. IX cit. delle Opere complete
di C. G. per cura del Municipio di Venezia: dalla quale sono rico-
piate per buona parte queste mie pagine.
LE " BARUFFE CHIOZZOTTE
E UNA SCENA D^ AMORE
Sulla fine del secolo decimosettimo il padre Coronelli ci
lasciò nel suo Isolarlo una breve descrizione della città di
Chioggia: " (Essa) è ridotta, come si trova al presente, nel
circuito di un miglio e mezzo circa, di forma quasi ovale, divisa
da una bella strada lunga circa mezzo miglio, che forma una
continuata Piazza, passandovi anche pel mezzo un canale detto
Vena. Sopra questo, nove ponti, parte di pietra e parte di legno,
danno la comunieatione dall'una all'altra parte, e benché havesse
prima i suoi rivi, che andavano alle case de' particolari, come
in Venetia, hoggidì sono quasi tutti atterrati. Resta però la Città
circondata tutta dall'acqua; un ponte di pietra, con bell'arco,
e torre antica a mezzogiorno, la unisce con altra Isoletta, dove
sono i conventi de' P. P. Minori Osservanti e de' Cappuccini,
indi per altro ponte di legno, lungo 150 passi, s' incammina a
Brondolo „ '.
Intorno alle varie occupazioni degli abitanti, che ai tempi
del Goldoni sommavano a circa 20 mila, il buon frate aggiun-
geva: " Que' Cittadini che non sono impiegati nelle cariche del
Governo... s'esercitano in gran parte nella nautica, gl'altri nella
pesca e nella coltura delle hortaglie... Le Donne s' occupano
incessantemente nel lavoro de' merletti o siano pizzi di filo
bianco, trovandone grand' esito nella Dominante ed in altre Città
vicine, dove i loro mariti o parenti vanno a trafficarli „. E un
anonimo, sul mezzo del Settecento, ripeteva: " ... I suoi abita-
tori si esercitano principalmente nel traffico e nella navigazione,
e la plebe nella pesca e nel coltivar vigne. Le donne hanno
come occuparsi utilmente nel lavoro de' merli o pizzi di refe,
che si spacciano nella Dominante e ne' luoghi circonvicini „ ^.
Questa singolare città che vantava origini troiane e romane,
rivale di Padova fin che non fu distrutta e arsa da' Genovesi
l82 LE " BARUFFE CHIOZZOTTE „
nel memorabile assedio (1379), prima città del Dogado dopa
Venezia, e di Venezia braccio vigoroso, avanzato a mezzogiorno
verso il mare, godeva il privilegio di un suo Consiglio Maggiore
e d' uno Minore, e d' un Cancelliere Grande, e d' altri magistrati
che giudicavano nelle cause civili, simili a quelli della Dominante:
sebbene quale capo riconoscesse un rettore nobile veneziano col
titolo di podestà, da cui dipendeva direttamente la Cancelleria cri>
minale. Seanche sparirono ormai le vecchie magistrature e se
gli antichi usi cedettero al tempo ; seanche la gloriosa tartana
(" legno grande e robusto „ a due alberi e di vela latina, " di
forma media tra 1' antica galeazza e 1' attuale trabaccolo „ ) fu
sostituita a poco a poco " dalla varia gente dei bragozzi e d' altri
legni più agili forse, ma non più solidi né più beUi „ 3; seanche
la vecchia tonda e il bocassìn (sottana o gonna la prima, e specie
di grembiale il secondo, che dalla cintola, a cui s'allacciavano,
arrovesciavansi sul capo) non circondano più il viso delle donne
chioggiotte, r aspetto della città e della popolazione rimane pur
sempre caratteristico e originalissimo.
" Non calli e canali intrecciati in un dedalo come a Vene-
zia „ raccontano i descrittori moderni, " non prospettive capric-
ciose e strane: ma una pianta regolare e geometrica „, la famosa
spina di pesce. E nulla delle nostre recenti officine industriali :
qui siamo nella patria dei marinai. " Alberi, antenne, pennoni
di navi, pali da sostenere le reti, pertiche da reggere nasse,
cestoni, cordami „, barche " d'ogni grandezza e d'ogni foggia „
e bastimenti di gran cabotaggio, " grandi vele latine dipinte
d' immagini simboliche, stampate di lettere maiuscole, listate e
inquartate come stemmi ; remi enormi che due uomini muovono
a fatica, e remi leggieri...; àncore buone da mordere nella sabbia
e nello scoglio... E intorno, su le rive, son magazzini, cantieri,
botteghe ingrommate di salsedine; e da per tutto diffuso, anzi
connaturato nell' aria, quel tanfo salso che a Venezia si chiama,
con termine intraducibile, freschin, e del quale viene or sì or no
a consolare le nari qualche esalazione di pece e di catrame „ 4.
Tale, or sono trent' anni, la città delizia e tormento dei pittori ;
ed ecco dal Molmenti e dal Mantovani ritratti al vivo gli abitanti,
gli arditissimi pescatori dell'Adriatico: " Bei tipi questi Chiog-
giotti: figure aduste e un po' curvate dalla fatica del remo e della
rete, facce arse da tutti i venti del libero mare, scolpite a profili
risoluti, a piani vigorosi, con occhi gravi e acuti bruciati intorno
dal sole e spesso tormentati da malattie: gente che cammina
E UNA SCENA d' AMORE 183
adagio, con quel curioso oscillare su' ginocchi che è proprio di
chi per usanza cerca V equilibrio sul mobile piano della barca,
con la pacatezza di chi per solito ha da fare un cammino breve
e mal sicuro „. Portano la " giacca grossa o cappotto grossis-
simo di lana con T ampio cappuccio, berrettone di lana rossa o
scura, zoccoli di legno, alte calze di lana rimboccate al ginocchio,
e in bocca la pipa, la tradizionale, l'inseparabile pipa dal cami-
netto di creta „. Povere le case, ma pittoresche. Tuttavia i
Chioggiotti amano " più la barca che la casa... Anche nelle
giornate di riposo preferiscono sedere su la riva di un canale
o sotto una loggia in piazza che starsene rinchiusi nelle stanze
affumicate e ammorbate dal pesce fritto „.
Ora in mezzo a questo popolo che aveva suoi costumi, sue
tradizioni, sue occupazioni, un' indole sua propria, e quasi un
suo dialetto, il Goldoni aveva abitato interrottamente fra il 1721
e il 1729, cioè fra i 14 e 22 anni, in quell' età in cui s' impri-
mono più fortemente nell' animo le sensazioni. Ne parlò per la
prima volta nelle pagine delle sue memorie che servivano d'in-
troduzione ai vari tomi delle sue commedie stampate con bei
rami dal Pasquali, dove rievocava la sua giovinezza; ne tornò
a parlare nella prefazione delle Baruffe e infine nelle Memorie
francesi, scritte a Parigi ne' suoi ultimi anni. A Chioggia il
giovine Goldoni, come tutti ricordano, capitò improvvisamente
alla presenza della madre, dopo la fuga da Rimini con la com-
pagnia degli attori comici; a Chioggia seguì per qualche tempo
il padre nelle visite agli ammalati, finché per poco non ammalò
lui stesso in grazia d' una fanciulla " assai più bella che onesta „ ;
a Chioggia veniva da Pavia nei mesi di vacanza, e vi leggeva
le commedie del Cicognini e del Fagiuoli, e la Mandragola del
MachiaveUi, e vi scrisse " una quantità di sonetti „ e un pane-
girico di S. Francesco, e certi " dialoghi comici per alcune fan-
ciulle in un Monastero „ ; qui fece amaro ritorno quando fu
scacciato dal collegio Ghisleri, e qui finalmente entrò negli uffici
pubblici quale aggiunto al coadiutore del Cancelliere Criminale
dal gennaio del 1728 all' aprile del '29, essendo podestà il N. U.
Francesco Bonfadini, sposo della gentildonna Andriana Dolfin,
alla quale più tardi il commediografo dedicò per riconoscenza
la Donna di garbo. Vogliamo ricordare anche il nome del can-
celliere, eh' era il signor Egidio Zabottini di Castelfranco, bra-
v' uomo, e quello del coadiutore, eh' era il signor Stefano Porta
di Feltre, eccellente giovane che volentieri lasciava al suo com-
184 LE " BARUFFE CHIOZZOTTE „
pagno il peso del lavoro 5, Nelle memorie francesi il Goldoni
aggiunse, prima di narrare la partenza per Feltre, una storia
fra comica e romanzesca d' un suo amore con una bella e ricca
educanda del convento delle monache di S. Francesco, la quale
non volendo attendere troppo a lungo il futuro dottorino, lo
piantò bellamente accontentandosi di sposare il vecchio tutore.
Non sappiamo se in questo racconto la fantasia aiutasse almeno
in parte il poeta delle Baruffe Chiozzotte. E poi tradizione ch'egli
abitasse in Chioggia proprio di fronte a detto monastero, anzi
nella stessa casa di Rosalba Carriera, ma convien sorvolare ^.
Nella prefazione della commedia osserva V autore che le
baruffe " sono comuni fra il popolo minuto e abbondano a
Chiozza più che altrove „ poiché cinque sesti degli abitanti sono
" di estrazione povera e bassa, tutti per lo più pescatori e gente
di marina „ 7. È probabile che nella Cancelleria Criminale a cui
apparteneva il Goldoni, esistesse più di un documento di cotali
zuffe non sempre innocue; ma che il commediografo abbia tra-
sportato sulle scene un episodio reale, come altri fantasticarono,
io non credo, perchè prima o poi lo avrebbe detto, per quella
sua abitudine di fare le confessioni in pubblico. Nelle memorie
italiane, dove accenna alla popolazione chioggiotta, dice soltanto:
" ... E que* pizzi e quelle Donne e que' Pescatori mi hanno
r argomento somministrato di una commedia „. E nelle memorie
francesi: " ... J' avois eu affaire à cette population nombreuse
et tumultueuse de pécheurs, de matelots et de fenimelettes, qui
n' ont d' autre salle de compagnie que la rue: je connoissois
leurs moeurs, leur langage singulier, leur gaieté et leur malice :
j'étois en état de les peindre, et la Capitale, qui n' est qu' à
huit lieues de distance de cette Ville, connoissoit parfaitement
mes originaux „. Questo bisogna credere, e nient' altro. Del
resto sì misera questione sembra rimpicciolire il Goldoni. La
grandezza dell'artista in questa commedia non consiste nel tra-
sportare un avvenimento o un personaggio reale sulla scena,
bensì nel trasportarvi i caratteri di un' intera popolazione. Per
tale rispetto io non conosco nessuna commedia più vera delle
Baruffe Chiozzotte^ ne più originale.
Nelle vecchie edizioni della commedia si legge che le Ba-
ruffe furono rappresentate " per la prima volta in Venezia il
carnovale dell'Anno 1760 „; e tale data trovasi ripetuta nei
Mcmoires'. ma invano di questa recita si cercherebbe notizia nei
documenti del tempo. Soltanto nel numero 95 della Gazzetta
E UNA SCENA d' AMORE 185
J^eneia diretta dal Chiari, trovo il seguente annuncio, ai 23 gen-
naio del 1762: " Nel Teatro a S. Luca è imminente la rappre-
sentazione d' un' altra Commedia nuova intitolata, in dialetto
nostro, Le Chìozoite, e quanto prima ne sentiremo il giudizio
del Mondo „. Il mondo ha giudicato in fatti, ma l'abate bresciano
si dimenticò di farci conoscere il giudizio suo. Poco male: a
noi basta sapere che 1' elenco o registro delle recite del teatro
di San Luca, scoperto pochi anni sono dal compianto Aldo Ravà
nell'archivio del Teatro Goldoni, conferma la notizia della Gaz-
zetta. Se possiamo fidarci delle Memorie goldoniane, la com-
media ebbe un esito brillantissimo e fece mirabile effetto; e si
distinse fra tutti gli interpreti l' attrice Caterina Bresciani, la
celebre Ircana, che sapeva trionfare così nel genere comico più
elevato, come nel più basso, secondo la classificazione del nostro
autore. Nella prefazione della commedia ricorda il dottor Carlo
che la pronuncia chioggiotta, così diversa dalla veneziana, /or/wò
" nella rappresentazione una parte di quel giocoso, che ha fatto
piacer moltissimo la Commedia. Il personaggio principalmente
di Padron Fortunato è stato de' più gustati „. Sia pure: ma,
in conclusione, di questo singolare capolavoro non s' accorsero
bene da principio i concittadini del Goldoni, né, a dire il vero,
r autore stesso.
Come si sa, il conte Carlo Gozzi, benché fosse ammiratore
e imitatore del Berni e del Burchiello, non poteva soffrire le
maravigliose commedie dialettali in cui rivive nei suoi più arguti
atteggiamenti l'antico popolo delle lagune veneziane, e condan-
nava senza alcuna pietà, tutti insieme, " // Campiello, le Massere,
le Baruffe Chiozzotte e molte altre plebee e trivialissime opere
del Signor Goldoni „ ; o additava scherzando " le bellezze e le
dignità delle Baruffe Chiozzotte, e i contrasti di conseguenza
sulle zucche del Signor Goldoni „ ^. Certo alludendo al Gozzi
e ai seguaci del Gozzi il buon dottor veneziano, da Venezia
lontan do mite mia, difendevasi nella prefazione della sua com-
media, quasi chiedendo perdono al pubblico e ai lettori di aver
" moltiplicato sopra le Scene questa sorta di soggetti e di argo-
menti bassi e volgari „ e invocava a discolpa l'esempio delle com-
medie dette tabernariae dai Latini e di quelle dette poissardes dai
Francesi. Va va, Carlo Goldoni, che i posteri ti hanno ben perdo-
nato, mentre le rozze voci dei tuoi Chioggiotti risuonano da quasi
due secoli sempre più alte, e la tartana di paron Toni si profila
sempre più bella e più gloriosa sul cielo e sul mare adriatico.
l86 LE " BARUFFE CHIOZZOTTE „
Il primo famoso ammiratore delle Baruffe^ di cui ci resti
testimonianza, è dunque Volfango Goethe. La sera dei io otto-
bre 1786 il grande poeta tedesco, rincasando dopo la recita a
cui aveva assistito nel teatro di San Luca, scriveva nel suo
giornale di viaggio: " Ora finalmente posso anche dire d'aver
veduto una commedia! „ 9. Una lode egli dedica anche agli attori,
e specialmente alla prima donna, per la fedele imitazione dei
costumi popolari. Credo di riconoscere in questa bella attrice
la figlia di Giuseppe Lapy, detta Luigia, che aveva sposato
r attore Antonio Belloni, con cui passò nelF 89, morto già il
padre capocomico, nella compagnia Battaglia a San Giovanni
Grisostomo. Recitavano pure a San Luca, se ben m* appongo,
Anna Perelli, col marito Luigi, truffaldino^ Teresa Consoli,
Laura Checcati, Francesco Martelli e quel Petronio Zanarini,
bolognese, che sosteneva le parti di padre e lasciò fama di
grandissimo comico. Quattro anni dopo, mutata in parte la com-
pagnia sotto la direzione del Perelli, si leggeva nella Gazzetta
Urbana Veneta'. " La Comica Compagnia a S. Luca seppe
mantenersi il concorso e l' aggradimento del Pubblico... Delle
più vecchie Commedie del nostro Goldoni si udirono con molta
soddisfazione, come le Baruffe Chiozzotte, i quattro Brontoloni
(non occorre dire che sono i Rusteghi), il Medico Olandese ed
altre „. E V estensore del foglio veneziano, ch'era Antonio Piazza,
continuava con parole che avranno certamente commosso il vec-
chio commediografo se, come credo, avrà potuto leggerle: " Il
bello, il vero non invecchia mai. Sappia il Molière dell' Italia,
che la sua Patria non si scorda di lui, e che al venir del Teatro
dopo aver udita qualche sua Commedia, si sente a ripetere:
- Vale più una di queste scene che tutte le nuove stramberie
de' moderni Autori „ ^°.
Per trovare dopo il poeta tedesco uno spettatore e un am-
miratore altrettanto illustre, conviene lasciar passare molti anni.
Neil' inverno del 1758-59, Riccardo Wagner scriveva a Venezia,
nel palazzo Giustiniani, le note del Tristano e si svagava dal
lavoro con qualche visita al teatro Camploy " dove venivano
rappresentate molto bene le commedie del Goldoni „. Più spesso
recavasi " alle rappresentazioni diurne popolari al teatro Mali-
bran. Quivi, costando l' ingresso solamente 6 crazie, ci trova-
vamo „ racconta nelle sue memorie, " tra un pubblico eccellente
(la più gran parte in maniche di camicia), per il quale si rap-
presentavano quasi sempre commedie di carattere cavalleresco.
E UNA SCENA d' AMORE 187
Ma un giorno assistei, con mia gran meraviglia e con vera delizia,
alla rappresentazione della commedia grottesca Le Baruffe
Chioggiotte^ che già a Goethe era piaciuta tanto, e che fu data
con tale naturalezza che io, per quanto sappia, non so trovar
nulla di simile per poterne fare il confronto „ ". - Chissà non
gli sorridesse piìi tardi quel ricordo quando creò la famosa ba-
ruffa ne' Maestri cantori?
Ormai da gran tempo il pubblico batteva le mani e i critici
s' inchinavano al capolavoro goldoniano. Tuttavia i più vecchi
biografi e critici del nostro commediografo, compreso il Carrer,
non parvero fare alcun caso delle Baruffe Chiozzotte. O forse
non osarono parlarne, che ancora gravava sul teatro popolare
del Goldoni la terribile sentenza di Carlo Gozzi che intimidiva
i signori letterati; " Moltissime delle sue commedie non sono
che un ammasso di scene, le quali contengono delle verità, ma
delle verità tanto vili, goffe e fangose che, quantunque abbiano
divertito anche me medesimo animate dagli attori, non seppi
giammai accomodare nella mia mente che uno scrittore dovesse
umiliarsi a ricopiarle nelle più basse pozzanghere del volgo,
né come potesse aver V ardire d' innalzarle alla decorazione
d' un Teatro e sopratutto come potesse aver fronte di porre
alle stampe per esemplari delle vere pidocchierie „ ". Non e' è
sciocchezza o follia che non trovi pronte molte mani nell' aria
ad applaudire: così sono varii nella grande famiglia umana
gusti e opinioni.
Tanto più bisogna apprezzare un'umile pagina di Domenico
Gavi che per primo nel 1826 additò i mirabili pregi di questa
commedia " molto difficile da rappresentarsi per la minutissima
spezzatura del dialogo, e pel gran movimento e calore dei per-
sonaggi „ '3. Nemmeno credo che fuori delle lagune si recitas-
sero e si gustassero facilmente le Baruffe le quali sembrano
seguire la varia fortuna del Goldoni sul palcoscenico italiano ^4.
Intorno al 1830 la fama del nostro commediografo si ridesta in
tutta Itaha, per opera principalmente della Compagnia Ducale
di Modena, diretta da Romagnoli e Bon; ma qualcuno, o fosse
nipote di don Marzio, o di sior Tòdero, borbottava, come per
esempio il compilatore del giornale milanese intitolato / Teatri.
Applaudiva per contro un altro giornale di Milano, il Barbiere
di Siviglia: " Le Baruffe Chiozzotte non si potevano far meglio.
Bravissimi tutti. Il pubblico ne ha riso di cuore, anco quel pub-
blico che teme di avvilirsi ad applaudire alle produzioni goldo-
l88 LE " BARUFFE CHIOZZOTTE „
niane, perchè le piglia per insulsaggini, e le chiama cose appena
degne del teatro della Stadera, insomma appena degne della
popolaglia, come direbbe Carlo Botta. E a noi, poveri ciechi !
sembrano degne soltanto delle persone colte e di spirito „.
Siamo, si badi, nel 1834!
Del resto se le rappresentazioni non furono più numerose
e se anche oggi questa commedia non risale sul palcoscenico
così spesso come la Locandieray come i Rusteghi, come molte
opere minori del Goldoni, bisogna pensare alla difficoltà del
dialetto qui certo più grave, e a quella gravissima dell' azione
stessa. Se non è perfetto l' accordo fra gli attori e se l' imita-
zione dei costumi popolari non conserva il tono conveniente,
le Baruffe Chiozzottc non si possono né godere, né apprezzare.
Pur troppo questo capolavoro ebbe sempre a soffrire dei ter-
ribili guai da parte degli interpreti. Scriveva sdegnato Alamanno
Morelli nel 1862: " ... Onde ne avverrà ciò che più volte ne fu
dato di vedere, cioè di trasformare il più stupendo Fiammingo
in una mal imbrattata insegna di osteria, e portare le Baruffe
Chiozzotte a tanta viltà di rappresentazione da non conoscervi
più neppure la mano dell' autore, variandone e aggiungendo
brani interi del dialogo „ ^5.
E ora percorriamo un poco il capolavoro goldoniano. Fin
dalla prima scena l'autore mette insieme, raccolte in una calma
apparente, le cinque donne della commedia, la moglie cioè e la
sorella di parpn Toni, la moglie e le due cognate di paron
Fortunato, che devono poi separarsi con gran sussurro, quasi
in due schiere nemiche, fino alle ultime scene. Parla prima
Lucietta, il personaggio qui più evidente, che più tardi chiude
pure la commedia; e comincia con quelle parole che tutti cono-
sciamo: " Creature, cossa diseu de sto tempo? „, le quali ci fanno
subito pensare alla tartana di paron Toni che sta per entrare
in porto; al misterioso e muto protagonista che deve provocare
col suo arrivo la gran tempesta del dramma chioggiotto. E già
dalla prima scena, dove subito si delineano i caratteri delle
donne, sappiamo dell' amore di Lucietta e di Titta Nane, e della
gran voglia che ha la Checca di maritarsi. Ma giunge Toffolo
Marinottiìia a turbare quella quiete, e scoppiano per un pezzo
di zucca le gelosie e i dispetti fra Lucietta, la più ardita e vi-
vace delle compagne, e Checca. Udiamo presto correre le ingiurie
fra le due famiglie, ma le cinque donne si rappacificano a un
tratto all'arrivo della tartana con gli uomini. Mirabile è tutto
E UNA SCENA d' AMORE 189
questo preludio per vivacità, verità e colore: il Goldoni maneg-
gia da molti anni questi caratteri femminili e queste scene, ma
ora la sicurezza dell* artista è perfetta.
Tutto ciò che sta per succedere sul palcoscenico è ormai
chiaro e logico come nella vita. Nella scena quinta ammiriamo
la grossa barca di paron Toni e sentiamo V odore del pesce che
si scarica. Scopriamoci davanti a Carlo Goldoni. Cielo e mare
sorridono all' audacia del nostro commediografo. Abbiamo un
bel pensare al naturalismo dei nostri scrittori di novelle, abbiamo
un bel rievocare i canti carnascialeschi e berneschi, abbiamo un
bel citare i drammi rusticali, la Fiera del Buonarroti o i libretti
dell'opera buffa napoletana : questo spettacolo è nuovo nell'arte
e nelle lettere nostre, è lieto, è moderno: è la vita. Ben possono
ora venire il Parini e il Manzoni, e il romanticismo e il realismo,
e tutto quel che si vuole. - Nelle scene seguenti le donne che
avevano promesso di non parlare, prima quelle di paron Toni,
poi quelle di paron Fortunato, sfogano il rancore mal represso,
svegliando la gelosia e l' ira nel petto degli uomini. Invano i
più vecchi portano una parola di calma: Beppo non vuol più
saperne di Orsetta e Titta Nane vuol lassare Lucietta: ma Tof-
folo Marmottina la pagherà per tutti. Queste varie scene, armo-
nicamente legate con 1' abilità propria del Goldoni, si muovono
con vivacità straordinaria profondendo tesori di dialogo e rive-
lando nuovi caratteri : bellissimo quello onesto e impetuoso di
Titta Nane e felice la macchietta di paron Fortunato, qualora
non sia esagerata nell' interpretazione. Ormai la grande baruffa
è preparata: a scatenarla viene sulla scena Toffolo. Il grande
commediografo lo introduce inconscio affatto della tempesta
imminente, anzi pentito d' essersi seduto accanto a Lucietta {La
xe novizza, co eia no me n ho da impazzare) e solo desideroso
di vedere la Checca e di chiederla in isposa. Ma esce Beppo e
vuol scacciarlo. L' uno ha il coltello, l' altro tira dei sassi. Escono
Toni, Pasqua, Lucietta e gli altri; tutto il palcoscenico si riempie
di uomini, di donne, di schiamazzi, di urli, finché dopo molto
gridare e spingere i baruffanti rientrano nelle case, la strada
torna quieta e silenziosa, e Toffolo parte ultimo con la minaccia
della querela: " Sangue de diana! che li vói querelare „. - Questo
primo atto dal dialogo rotto e pittoresco, dalle figure di una
verità sorprendente e commovente, è una meraviglia di dramma
popolare e basterebbe da solo alla gloria d' un autore.
Col secondo atto entriamo nella Cancelleria Criminale di
igo LE " BARUFFE CHIOZZOTTE „
Chioggia, e il pensiero corre involontariamente a Carlo Goldoni.
Dobbiamo qualche volta farci forza per non illuderci di rivedere
sotto le spoglie di Isidoro (V umile deus ex machina del vecchio
teatro) il giovane aggiunto del coadiutore Stefano Porta, presso
il cancelliere Egidio Zabottini. La prima scena, cioè la deposi-
zione di Toffolo, abbonda di umorismo, e anche le altre scene
del processo, cioè 1' esame dei testimoni, fanno ridere, ma non
è più questa la grande arte goldoniana, la grande commedia
italiana. Questo atto, troppo lungo e qua e là prolisso, reste-
rebbe molto al di sotto del precedente, se fra una udienza e
r altra presso la cancelleria, non tornasse ad apparire e a rin-
francarci r anima la strada aperta di Chioggia, con le sue casu-
pole, con le sue donne, con le sue reti, con le seggiole di paglia
e gli scagnetti, con qualche lontano profilo d' albero o di vela.
Nelle scene dalla seconda alla sesta culmina il dramma d'amore
e di gelosia di Lucietta e di Titta Nane; e sono forse queste
le più originali e le più belle del Goldoni e di tutto il teatro
italiano. - Ma qui ci tocca fare una lunga digressione.
Chi parla d'amore nel Settecento? Dopo che Racine ebbe
scritto la Fedra (1677), frammento di capolavoro greco, più di dieci
anni restò il poeta in contemplazione dell' opera sua, quasi tre-
mando di quella febbre fatale che riarse le membra alla figlia
di Minosse: poi cantò l'amore sacro. Il grido di Fedra fu l'ul-
timo della grande stagione d' amore in Francia, che seguì dopo
la morte di Richelieu e di Luigi XIII: gli eroi della Fronda
sparivano a uno a uno nella tomba, coi folli ricordi della gio-
vinezza! anche la dolce Luisa la Vallière piangeva il suo sogno
neir ombra di un chiostro, dove la signora La Fayette trasse a
morire nel romanzo la Principessa di Clèves. Le pietose note
delle pastorali italiane, le visioni e le passioni della Spagna
riflesse nella comedia^ la virtù tragica dei personaggi di Cor-
neille, le avventure de' romanzi galanti tacevano per sempre:
tutta la Francia e la letteratura parvero lentissimamente e glo-
riosamente invecchiare insieme col Re. Ma appena fu spento
Luigi XIV, un franco respiro di giovinezza risollevò la nazione,
e il Settecento, mal compresso, irruppe senza freno. Ben poteva
r amore, sotto la Reggenza di Filippo d' Orléans, riconquistare
anche nell' arte il perduto dominio : poteva ormai Pietro di
Marivaux portare dai circoli della signora di Lambert sulle scene
del Teatro Italiano di Parigi i tenui segreti del cuore. Per ven-
t* anni questo singolarissimo artista costruì con pazienza il suo
E UNA SCENA D AMORE I9I
giardino favoloso, dove il minuetto si svolge all' infinito, nei
viali freschi d' ombre, intorno alle aiuole, presso le fonti, con
inchini e gesti e sguardi e sussurri e piccoli baci e schiette risa:
di padroni e di servi, di principi e di marchese, di maschere e
di contadini. Passano le care immagini di Silvia e di Angelica,
di Araminta e di Ortensia sul verde paesaggio, e le argute
Lisette: tornano, si fermano un poco a raccontarci la sorpresa
e il gioco dell' amorej e poi dileguano ancora, come in un sogno :
ma neir occhio dura l' incanto e 1' orecchio è pieno di voci fem-
minili. Poiché la donna qui regna, come vuole il Settecento, e
la commedia dimentica il classico riso di Molière e di Regnard:
un po' di affetto, un po' di dramma si insinua. Il sospiro amo-
roso esce troppo forte qualche volta: Silvia si confonde e sta
per piangere davanti a Lisetta; e il grido represso di Lelio e
di Ortensia va più in là della comedia di Lope, sta per toccare
altri confini. Qualcuno ha nominato Racirìe.
Ma questo non bastava alle nuove generazioni, in un tempo
in cui tra l' apparente leggerezza e la corruzione risvegliavasi
sempre più acuta la sensibilità: quando i grandi occhi di Adriana
Lecouvreur e di Aischa la Turca si accendevano di fuoco, e le
labbra osavano mormorare le divine parole d'Eloisa: quando
in Francia, in Inghilterra, in Italia si rileggevano, si traducevano,
si imitavano con insolita avidità le antiche Lettere della pallida
alunna d' Abelardo, alle quali tenean dietro le Lettere portoghesi
di Marianna Alcoforado; e il romanzo e la poesia crescevano
ogni anno intorno alle due lontane sorelle^ ricongiunte dalla
infelicità dell' amore quasi in un solo dramma nella fantasia del
Settecento. E la passione si abbattè sugli eroi di Prévost, tra-
volgendoli disperatamente nelle più romanzesche avventure,
dalla pia cella del convento alla infamia del carcere e degli
ospedali, dalla tenda militare alla caverna solitaria, di paese in
paese, di riva in riva, da un continente all' altro, col cuore troppo
malato : fin che, trasfigurati dalla voluttà amara della debolezza
e del pianto, uomini e donne, in tragico corteo, sembrano muo-
vere, sotto un cielo tutto sanguigno, incontro alla morte.
L' Italia non ebbe nel secolo decimosettimo La Rochefou-
cauld e La Bruyère : gli insulsi scrittori di romanzi continuavano
a rifare sempre più vilmente le oziose disquisizioni intorno alla
natura dell' amor platonico. Ma un poco per volta, nella lenta
agonia della Spagna, più gentili e più liberi costumi vennero
d'oltralpi; e il cuore dolorosamente chiuso degli Italiani abban-
192 LE BARUFFE CHIOZZOTTE „
donò a mano a mano la gelosia e lo spirito di vendetta, con
sorpresa de' viaggiatori stranieri, per accogliere altri affetti da
lungo tempo ignorati: alfine anche la donna ruppe la schiavitù
domestica. Quale commozione per la vecchia penisola allor che,
nel principio del Settecento, le nostre donne riapparvero sui
balconi delle case, riempirono le strade e le piazze, si mesco-
larono non solo nelle chiese e nei monasteri, ma nei teatri, nelle
accademie, nei caffè, in tutte le sale di conversazione e di gioco,
ad ogni ora, di giorno e di notte, aggiungendo tanta festa alla
visione delle città nostre, tanta vita ai marmi antichi, all' arte,
alla letteratura! Si udì allora nelle canzonette d'Arcadia, nel-
r opera bìiffa^ nei melodrammi sorridere e gemere qualche motto
d'amore; e Pietro Metastasio infuse nei dolci versi la passione
idillica del Tasso. Ricordate ?
Io dico all' antro, addio :
Ma quello al pianto mio
Sento che, mormorando.
Addio risponde.
Sospiro, e i miei sospiri
Pe' replicati giri
Zeffiro rende a me
Da quelle fronde.
Ricordate ?
Non so frenare il pianto.
Cara, nel dirti addio:
Ma questo pianto mio
Tutto non è dolor.
E meraviglia, è amore,
È pentimento, è speme,
Son mille affetti insieme
Tutti raccolti al cor.
Da per tutto in Italia è il Settecento, ma il suo regno è a
Venezia. Venezia fu più gloriosa nel Quattrocento, più grande
nel Cinquecento: tuttavia raccolse nel secolo decimottavo le
manifestazioni più estreme della vita italiana e dei tempi, meglio
che non avesse fatto nelle maggiori età. Bisogna rappresentarsi
la mirabile visione del Settecento veneziano, 1' ultima creazione
di Venezia, per capire 1' arte di Giambattista Tiepolo e il teatro
di Carlo Goldoni. Anche nella esistenza e nelle commedie di
Goldoni le donne occupano lunga parte. Quando Mirandolina si
E UNA SCENA D AMORE I93
affacciò ridendo all' anima del poeta veneziano, già per lui era
declinato il nono lustro e da cinque anni, con dura e gioconda
fatica, attendeva all' opera che dovea dar gloria all' Italia. Co-
rallhia Marliani, 1' ardita servetta veneziana, scacciava di scena
la soave Rosanra Medebac. - Quale strano capolavoro la Lo-
caìidiera\ Né lingua, né immagini, né letteratura. L'autore stesso
ne sapeva di lettere poco più di Mirandolina, la quale non ha
mai aperto un libro. Solo chi ama l' arte, la vita, il teatro, tace
e ammira stupito. Mirandolina in fatti non é la creatura d' un
sogno, che passa e rapisce il nostro sospiro: é la donna viva
del Settecento, la donna veneziana, la donna di tutti i tempi, di
tutti i .paesi, trasportata all' aria e al sole. Il sangue le colora
il volto di eterna giovinezza: noi sentiamo lo scoppio delle sue
risa intorno a noi : le sue mani vive si concedono alle nostre,
i suoi capelli ci sfiorano, noi possiamo baciarle il lembo del-
l' orecchio mentre si china per canzonarci. Perché sappiamo
bene di non poter mai conquistare la sua anima: solo un mo-
mento e per sorpresa abbracceremo quel corpo palpitante; e
con un guizzo Mirandolina fuggirà via. " Quanti arrivano a
questa locanda „ essa dice " tutti di me s' innamorano, tutti mi
fanno i cascamorti „. Ma guai chi non la cura e la disprezza!
" È una cosa che mi muove la bile terribilmente... Tutto
il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata.
Questa é la mia debolezza, e questa é la debolezza di quasi
tutte le donne... Tratto con tutti: ma non m'innamoro mai di
nessuno. Voglio burlarmi di tante caricature d' amanti spasi-
mati ; e voglio usar tutta V arte per vincere, abbattere e con-
quassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi, che
siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella
madre Natura „.
Chi vuol ribellarsi a costei? Peggior sorte non poteva capi-
tare al cavaliere di Ripafratta, l'ingenuo nemico delle femmine:
Mirandolina ha tanta voglia di provare le sue forze, di godere
una vendetta e un trionfo ! Egli avverte il pericolo, quasi subito,
e lo confessa: pensa di fuggire, ma la sua caduta é tanto più
terribile. Carlo Goldoni non mostrò mai coi deboli nessuna pietà !
E dopo che la fanciulla ha sconvolto il cuore e la mente del
Cavaliere, lo abbandona allo scherno degli amici senz' altro rim-
pianto: " L'ora del divertimento é passata „.
Ricordate la Sorpresa dell'amore di Marivaux? ricordate i
Giuramenti indiscreti! Anche Lelio odia le donne, e la Contessa
G. Ortolani. '3
194 LE " BARUFFE CHIOZZOTTE „
gli uomini. Tuttavia quale distanza fra la finzione e la realtà,
fra r idillio e il teatro, fra il minuetto e la vita, fra Marivaux
e Goldoni! Mirandolina ha scherzato troppo, ed è appena in
tempo di salvarsi dalla passione che irrompe con ira nell'animo
del Cavaliere: per fortuna il dramma si allontana e dilegua; e
la bella locandiera^ rimasta sola e vittoriosa, ci guarda, dopo
due secoli, in atto di sfida, con gli occhi pieni di insidie. I per-
sonaggi invece dell' autore francese, traendo con sé la noia e
r artificio de' salotti, ripetono a pochi di noi V analisi monotona
del cuore umano, timidi e confusi nel loro esilio, dal dì che
Silvia Balletti, la più fine artista del Settecento, disparve lasciando
vuoto il Teatro de gV Italiani.
Un' altra volta per poco il dramma d' amore non turbò più
seriamente la commedia del Veneziano: nelle Baruffe Chiozzotte.
Io cerco qualche cosa nella storia del teatro che somigli alle
Baruffe Chiozzotte e non trovo mai. Carlo Goldoni esplorò a
fondo, nelle radici più minute, il segreto delle anime semplici,
e lo portò vivo sopra le scene, con una potenza di verità che
fa quasi male L' umile idiUio di Titta Nane e di Lucietta, di-
sturbato e interrotto, agita e commuove, dopo i due cuori inna-
morati, l'intero paese: come l' invisibile onda che d'improvviso
cresce e s'allarga smisuratamente; e l'intero paese, il popolo
delle lagune, invade schiamazzando il palcoscenico. Sia gloria
a Goldoni ! La tartana di paron Toni ci porta il salso odor
dell'Adriatico, del mare che si chiamava golfo di Venezia^ e
Trieste quasi non e' era. Un' apparizione nuova e vigorosa, un
rude dialetto di pescatori, entrano nell' arte e nella letteratura
d' Italia per un miracolo che mal sappiamo comprendere. E
come la strada torna vuota, cessando 1' eco assordante del cla-
more e il riflesso della pittoresca visione, viene Lucietta con la
sua sedia, il suo scagno e il cuscino dei merletti, in compagnia
di Pasqua, la buona cognata; e, poco dopo, Titta Nane, incol-
lerito e geloso. La scena terza, ripeto, del secondo atto è una
delle più belle scene d' amore di tutti i teatri, né teme alcun
famoso paragone.
Titta Nane. (La vorla licenziare; ma no so come fare). {da sé
Pasqua. (Vàrdelo un poco). [a Lucietta
Lncietta. (Eh! che ho da vardare el mio merlo mi, ho da var-
dare). {a Pasqua
E UNA SCENA d' AMORE I95
Pasqua. (Ghe pesterave la testa su quel baioni). {da sé
Titta Nane. (No la me varda gnanca. No la me gh' ha gnatica in
niente). [da sé
Pasqua. Sioria, Titta Nane.
Titta Nane. Sioria.
Pasqua. (Salùdilo). [a Lucietta
Lucietta. (Figurève, se voggio esser la prima mi!). {a Pasqua
Titta Nane. Gran premura de laorare!
Pasqua. Cossa disèu? Sémio donne de garbo, fio?
Titta Nane, Sì sì, co se puoi, se fa ben a spessegare, perchè co
vien dei zoveni a sentarse arente, no se puoi laorare.
E quando egli finalmente la licenzia, e Lucietta va in silenzio
a prendere i regali di Titta Nane, le " scarpe „, le " cordelle „,
la " zendalina „ e li getta in mezzo alla strada, il cuore del
giovane innamorato sussulta:
Titta Nane. Mi, co fazzo V amore, no voggio che nissun possa
dire. E la voggio cussi, la voggio. Mare le diana! A Titta Nane mis-
sun ghe 1' ha fatta tegnire. Nissun ghe la farà portare.
Lucietta. Vare là, che spuzzetta! (5/ asciuga gli occhi
Titta Nane. Mi so omo, saveu ? so omo. E no son un puttelo, saveu ?
Lucietta. {Piange, mostrando di non voler piangere.
Pasqua. Cossa gh' astu ? {a Lucietta
Lucietta. Gnente. {piangendo dà una spinta a donna Pasqua
Pasqua. Ti pianzi?
Lucietta. Da rabbia, da rabbia, che lo scannerave colle mie man.
Titta Nane, Via, digo ! Cossa xe sto fiffare ? {accostandosi a Lucietta
Lucietta. Ande in malora.
Titta Nane. Sentìu, siora? [a donna Pasqua
Pasqua. Mo no gh' ala rason? Se sé pezo d'un can.
Titta Nane. Voleu ziogare che me vago a trar in canale?...
Questa non è più commedia: sono brani di cuore umano,
è sangue del popolo : grida, piuttosto che dialogo, che si riper-
cuotono di terra in terra, dove sono uomini e amano, da tanti
secoli. - Il dramma popolare riprende nel terzo atto in mezzo
la via, dove prima Beppo e poi Titta Nane escono di nuovo,
196 LE " BARUFFE CHIOZZOTTE „
vincendo la paura degli zaffi^ per sfogare le loro gelosie, per
continuare i loro amori; e tra le donne, ancora protagoniste
Lucietta e Checca, scoppiano nuove insolenze, e ancora il pal-
coscenico si riempie di popolo. Una intera moltitudine appas-
sionata diventa ancora V unico attore. Di che non vi ha esempio
in tutto il teatro francese e italiano, anzi in tutta 1' arte italiana,
prima del Goldoni, se non in certe meravigliose tele del Quattro
e del Cinquecento, che sono quadri e poemi e drammi ad un
tempo. Voler ricordare a tal proposito Li despiette amoruse,
commedeja pe musica da rappresentarse a lo Triato Nuovo chi-
sf anno ij^i) ricordare le solenni bastonature finali e generali
del teatro dell* arte, sembrami profanazione. I precedenti, sì, ci
sono in parte, ma nelP opera stessa del Goldoni, nei Pettegolezzi,
nel Campiello, dovunque V autore trasporta i suoi personaggi
all' aria aperta.
Finalmente nella stanza privata di Isidoro (" el siò cogitore „)
avviene la pace fra gli uomini. La tartana di paron Toni, il
misterioso protagonista della commedia, sembra che ascolti e
sorrida dal suo seno tranquillo. Pur troppo l' azione allungasi
troppo e languisce a quando a quando, ma non mancano spunti
vivacissimi di caratteri e di dialogo. Capita sul più bello Beppo
ad annunciare la nuova baruffa femminile, e tutti partono di
corsa per le proprie case. La commedia si svolge di nuovo e
ha fine sulla strada, dov' ebbe principio. Sporgono dalle finestre
sbraitando . Lucietta e Orsetta, e volano le ingiurie. L' arrivo
degli uomini accenderebbe una contesa più calda e più perico-
losa, se Isidoro con la sua presenza e col suo consiglio non
contenesse quella folla baruffante. A riunire le due famiglie di
paron Toni e di paron Fortunato, a ridare per qualche tempo
la calma al paese, occorrono dei buoni matrimoni, quali si
annunciano all'aprirsi della commedia: la Checca, non potendo
acquistare il cuore di Titta Nane, si accontenterà di sposare
l'innamorato Toffolo; Beppo farà pace e nozze con Orsetta;
Lucietta, anche la fiera Lucietta, la più bella figura femminile
del teatro goldoniano dopo Mirandolina, cederà piangendo, e
avrà da Titta Nane il perdono e la mano. Il piccolo mondo si
rasserena, come il suo cielo e il suo mare : tutto quanto il paese
partecipa in fine alla pace dei due innamorati.
Lucietta. Per causa mia no veggio che toga de mezzo nissun.
Se son mi la cattiva, sarò mi la desfortunà. Noi me vuol Titta Nane?
K UNA SCENA D AR\ORK I97
Pazenzia. Cossa gh' oggio fatto? Se ho ditto qualcossa, el m'ha ditto
de pezo élo. Ma mi ghe voggìo ben, e gh' ho perdona, e se élo no
me vuol perdonare, xe segno eh' el no me vuol ben. {piange
Pasqua. Luciettà? {con passione
Orsetto. Oe, la pianze. (a Titta Nane
Libera. La pianze. {a Titta Nane
Checca. La me fa peccao. {a Titta Nane
Titta Nane. (Maledìo! Se no me vergognasse!). [da sé
Libera. Mo via, pussibile che gh' abbiè sto cuor? Poverazza!
Vardè se no la farave muover i sassi. (a Titta Nane
Titta Nane. Cossa gh' astu ? {a Luciettà, rusticamente
Luciettà. Gnente. [piangende
Titta Nane. Via, animo. {a Luciettà
Luciettà. Cossa vustu?
Titta Nane. Coss' è sto fìff are ?
Luciettà. Can, sassin. [a Titta Nane, con passione
Titta Nane. Tasi. {con imperio
Luciettà. Ti me vuol lassare?
Titta Nane. Me farastu più desperare?
Luciettà. No.
Titta Nane. Me vorastu ben?
Luciettà. Sì.
Titta Nane. Paron Toni, donna Pasqua, lustrissimo, co bona
licenzia. Dame la man. {a Luciettà
Luciettà. Tiò. {gli dà la mano
Titta Nane. Ti xe mia muggiere. [sempre ruvido
Queste ultime scene, se si tolga qualche ripetizione, qualche
lungaggine, sono di una freschezza, di una vivacità, inarrivabili :
scene commosse e mirabilmente umane. Così Carlo Goldoni ha
creato il grande capolavoro comico popolare, di cui né fra gli
antichi ne fra i moderni si trovano non dirò rivali, ma nemmeno
esempi degni. Lo creò senza sforzo, senza mai rettorica, con
genio giocondo e quasi inconsapevole. Lo creò, come doveva,
in dialetto, in quel glorioso dialetto che fu quasi una lingua per
molti secoli, parlato dal Po alle Alpi di Germania e su tutta la
sponda orientale dell' Adriatico, in quel dialetto che oggi stesso
a Venezia nessuna persona colta vuole abbandonare negli usi
igS LE " BARUFFE CHIOZZOTTE „
della vita privata. Ed esaltò, senza parere, le passioni e le virtù
del popolo, di un popolo primitivo, e quindi un po' rissoso, ma
veramente onesto. Chioggia può ben vantarsi delle Baruffe
chioggiotte. Un popolo capace di queste passioni (scrissi altra
volta), così rozze, così ingenue, così sincere, è un popolo
buono. E Carlo Goldoni, 1' ex aggiunto coadiutore, si permette
di ridere un poco, ma conosce bene la virtù dei Chioggiotti e
immortalmente la celebra. Questi, che così amano, sono gli
uomini del mare, i più arditi pescatori dell'Adriatico, per cui
crebbe gloria alle navi veneziane : e così amarono da secoli, e
così ameranno fin che la tartana di paron Toni dagli scogli
dell' Istria e della Dalmazia torni felicemente alle sue lagune, e
viva l'aspro dialetto cadenzato che allietò un dì l'arte di Goldoni.
AGGIUNTE E NOTE
e'
I Vincenzo Maria Coronelli, Atlante Veneto, Parte I, Venezia, 1696,
pp. 62-66. - Vedi pure Lo Stato presente di tutti i Paesi e Popoli del
Mondo ecc. con nuove osservazioni e correzioni ecc., voi. XX, Parte I,
Venezia, Albrizzi, 1753, pp. 6062. Questo volume sul dominio vene-
ziano, che uscì nella metà del Settecento e fa parte della nota opera
tradotta liberamente da quella del Salmon, fu compilato da più autori,
come affermano le Novelle della Repubblica Letteraria dell' anno 1759,
a p. 121 ; ma qui 1' anonimo saccheggia il Coronelli, senza chiedergli
veruna licenza. Si legge poi, continuando.-" ... Mezzo miglio lontano
ha il lido ripieno d' orti, e a tramontana ha le Saline guernite di
sodo fondamento di mattoni. Tra il lido e la terraferma sono molte
valli formate con tal arte, che postovi il pesce o entratoci colle
piene delle acque del mare, non ne può più uscire, perchè racchiuso
da certi graticcj di canne industriosamente tessuti, onde nel verno
si trae indi a talento, e ne rimane abbondantemente provveduta la
città co' luoghi vicini. Questo pesce è d' ottima qualità; e le ostriche
in particolare sono saporitissime. La Cattedrale è grande e maestosa,
e il suo bel campanile isolato e coperto di piombo è degno di me-
moria. Il Palagio del Podestà è di antica fabbrica, ma riguardevole
e adorno di belle pitture. Sparse per la città ci sono altre Chiese e
alquanti Monisteri „.
Maggiori notizie si possono trovare nel tomo XXII della Nuova
Geografia di Ant. Federico Busching tradotta dall' ab. Gaudioso Jage-
mann, con aggiunte e correzioni, Venezia, Zatta, 1777, pp- 196-201,
da cui copiò bellamente Vincenzo Formaleoni nella sua Topografia
Veneta, ovv. Descrizione dello Stato Veneto, Venezia, Bassaglia, 1786,
t. Ili, pp. 279-288. La città di Chioggia contava circa 20 mila abitanti, e
r intero distretto circa 30 mila. " Vi si trovano 4 Conventi di Re-
golari, due de' quali nelle ultime regolazioni furono dal Governo
soppressi ; un Conservatorio di fanciulle, un Ospedale per gì' infermi
e pellegrini; e 4 Luoghi pii, con un Monte di pietà. Tutta la Città è
divisa in 4 Parrocchie... È di forma ovale ed assomiglia nella sua
costruzione ad una spina di pesce. La sua lunghezza si stende a 480
202 LE " BARUFFE CHIOZZOTTE „
passi, e la sua larghezza a 200, girando in circuito circa due miglia
Italiane „. Era sparito il vecchio ponte di legno, ricordato dal Gol-
doni. " Questa Città sarebbe perfettamente isolata, se non fosse con-
giunta al lido di Brondolo per mezzo di un ponte di pietra di 43
archi assai stretto, ma lungo 250 passi. Viene divisa in due parti da
un largo e navigabile canale, detto della Vena, sopra cui si trovano
, 9 ponti ; e tra questi il primo, all' ingresso della Città verso Venezia,
è di un arco solo tutto di marmo „ : p. 197. " Gli abitanti si esercitano
principalmente nel traffico, nella navigazione, nella pesca, nella cac-
cia, e nella coltivazione delle vigne. Le donne anch' esse s' occupano
utilmente nel lavoro di merli „. Il lido di Sottomarina " forma quasi
un sobborgo di Chioggia con circa 2000 abitanti „ : p. 201. Esisteva
a Chioggia una dogana di transita, facendovi capo tutte le mercanzie
che dalla Germania e dalle Fiandre (per la via di Verona), e dalla
Lombardia scendevano per le acque dell' Adige e del Po : p. 198.
Ricordo poi che molti viaggiatori, come Grosley, come Lalande, come
lo stesso Goethe, non volendo due volte visitare Padova, compivano
r intero percorso da Ferrara a Venezia, o viceversa, per via di acqua,
di canale in canale, dormendo due notti nel hnrchiello\ anyA il napo-
litano Gemelli Careri prese addirittura la barca a Bologna: ma nes-
suno ci lasciò diffuse descrizioni di Chioggia. Lo stesso Goldoni, tre
mesi appena dopo la recita delle Baruffe, nell' abbandonare per V ul-
tima volta la patria che non doveva più rivedere, scelse la via delle
belle lagune a mezzodì e risalutò nel passaggio la città della sua
adolescenza i cui ricordi vivissimi alla mente andava pure rievo-
cando nelle prefazioni della prediletta edizione delle sue Commedie,
curata dal Pasquali (vedi il capitolo in versi al N. U. Nicolò Balbi,
rievocato da C. Musatti in Ateneo Veneto, 1908, fase. 3).
2 Lo stato presente ecc., 1. e, p. 62.
3 Le parole virgolate sono tolte dal libro di P. Molmenti e D. Man-
tovani, Le Isole della Laguna Veneta, Venezia, 1895, p. 100.
4 Continuo a togliere dal libro citato le descrizioni più pitto-
resche: pp. 94-95 e, più sotto, pp. 96-97. Di altri scrittori moderni
non voglio far menzione (o appena di Luigi Carrer nella nota
opera: Venezia e le sue lagune, voi. Il, parte 2^, Venezia, 1847), né
dei più recenti (vedi solo V. Bellemo, // territorio di Chioggia, Chiog-
gia, 1893).
5 Opere complete di C. Goldoni edite dal Municipio di Venezia,
voi. I, Venezia, 1907, p. 46.
6 Più d' una favola ci raccontò, come soleva. Urbani de Gheltof
nel suo C Goldoni a Chioggia, in Ateneo Veneto, die. 1883. È noto
che Rosalba nacque a Venezia di padre chioggiotto.
7 Opere complete di C. Goldoni, ed. cit., voi. XX (1915), p. 11.
8 Opere del Co. Carlo Gozzi, Venezia, Colombani, 1772, tomo I,
pp. 80 e 124.
E UNA SC^NA D AMORE 203
9 E. Maddalena, Bricciche goldoniane - Le Baruffe ChiozzottCy
Alessandria, 1894.
»o Numero 86, in data 27 ott. 1790.
II Tolgo la citazione tradotta dal fase. 945, primo maggio 191 1,
della Nuova Antologia. Nel carnovale del '59 il teatro Malibran fu
occupato da una compagnia acrobatica; ma sul teatro Camploy la
Veneta Compagnia Drammatica diretta da G. Duse recitò nelle sere
del 7 e dell' 8 marzo, e forse anche prima, le Baruffe Chiozzottc.
come gentilmente mi comunicò 1' amico Ricciotti Bratti. Era Giorgio
Duse figlio del popolarissimo attore e capocomico Luigi Duse da
Chioggia, morto nel '54, e fu zio della grande Eleonora.
13 Opere cit., tomo I, p. 56.
13 D. Gavi, Della vita di C. Goldoni e delle sue commedie, Milano,
1826, pp. 158-159-
14 Vedi, per queste recite e per altre notizie, la Nota storica in
fine della commedia, nel voi. XX della cit. ed. delle Opere goldo-
niane: dalla quale tolgo per gran parte queste mie pagine.
15 Note sull'arte drammatica rappresentativa, Milano, 1862, p. 128. -
Il coro degli ammiratori delle Banffe andò crescendo nella seconda
metà del secolo scorso, soprattutto intorno al 1880, quando incominciò
il fervore degli studi goldoniani e 1' arte pareva rifiorire gioconda-
mente sulle lagune. Nomino fra tutti Giacinto Gallina, il Molmenti,
il Galanti, il Masi, il Maddalena. In un articolo ispirato dalla Scelta
di commedie goldoniane del Masi, Enrico Panzacchi proclamava con
entusiasmo: " I Rusteghi, la Casa nova, le Baruffe chiozzotte sono
veri capolavori, nei quali F arte goldoniana, tolta di mezzo la infe-
riorità della forma, va tranquillamente a sedersi in faccia all' arte
del grande Molière; e nella specializzata verità dei caratteri e nel
brio multiforme dei dialoghi, sto anch' io con coloro che vedono che
lo sorpassi „ {Un ritorno a Goldoni, in Tribuna, 26 sett. 1897). Inna-
morata della Baruffe mostrasi Violetta Paget {Vernon Lee), una gen-
tile scrittrice inglese che descrisse con poetica immaginazione il
Settecento in Italia,. Ella rievoca le scene della commedia e poi si
domanda: " È realtà questa?... Abbiam visto arrivar la barca e sca-
ricare il pesce?... E la tempesta di grida, di strilli, e lo strepito e il
pestar dei piedi? Fummo davvero testimoni di questi incidenti della
vita peschereccia sull'Adriatico? No; non abbiam fatto che aprire
un vecchio volume dove dice: Le Banffe Chiozzotte „ (dalla cattiva
traduzione italiana, Milano, 1822, voi. II, p. 277). Altre due donne di
eletto ingegno e di fine senso critico voglio ricordare, Giacinta To-
selli e Maria Ortiz. Vedi per tutti quanti la Nota storica citata. Fuori
d' Italia non si conoscevano traduzioni delle Baruffe, ch^ erano po-
chissimo note. Nel suo grosso volume dedicato al Goldoni il Rabany
si dimenticò di parlarne nel testo e peggio fece nell' appendice,
appaiando l' autore delle Banffe Chiozzotte e M. Jules Moineaux !
204 LE " BARUFFE CHIOZZOTTE „
Solo nel novembre del 1911 H. C. Chatfield- Taylor, pubblicando nella
rivista The Drama di Chicago uno studio sul naturalismo veneziano
del Goldoni, il quale fa parte del volume recente sul commediografo
veneziano [Goldoni. A Biography, New York, 1913), volgeva in inglese
la famosa scena di Lucietta e di Titta Nane nel secondo atto. " Di
tutte le commedie del Goldoni „ giudica lo scrittore americano " nes-
suna è così vibrante di vita come le Baruffe chioggiotte... È questa
in fatti un' opera di teatro quale forse non fu mai scritta al mondo
per il passato „. Per la prima volta fuori d' Italia si affermava la
grandezza del capolavoro del Goldoni, come dice pure Chatfìeld-Taylor,
della prima commedia " in cui con fedeltà e con affetto si rispec-
chia il popolo minore „ ; e questa voce venne d' oltre oceano. Poco
tempo dopo, nell' agosto del 191 4, la medesima rivista ( The Drama,
n. 15) stampava una completa versione inglese per opera di Carlo
Lemmi, a cui precedono alcune pagine del traduttore su Papà Gol-
doni e le sue commedie veneziane. Benché non mi sia lecito recare
giudizi, sembrami felice destino che dopo quasi due secoli le rudi
passioni dei pescatori chioggiotti osino provarsi nel linguaggio dei
marinai che popolano i porti smisurati di Londra e di Nuova York.
INTORNO ALLE " LETTERE DIVERSE
DI GASPARO GOZZI
" La sera del dì ii decembre 1750 „ il capocomico Giro-
lamo Medebac, che interpretava la parte del conte Ottavio nel
Cavaliere di buon gusto di Carlo Goldoni, seduto presso un
tavolino, con un libro aperto davanti, sul palcoscenico del teatro
di Sant'Angelo, all'alzarsi della tela pronunciava queste parole:
" Convien poi dire che in questo secolo piucchè mai fioriscono
gì' ingegni peregrini in Italia. Questo libro è sì bene scritto,
eh' io lo reputo testo di lingua, e in oggi certamente pochi Ita-
liani scrivono in questo stile. Questo sogno è un capo d' opera,
e il dialogo fra il calamaio e la lucerna è una cosa molto gra-
ziosa „. Tre anni dopo, stampando la commedia, il dottor vene-
ziano spiegava più chiaramente ai lettori che quello indicato
era " il libro primo delle Lettere del Conte Gasparo Gozzi,
opera veramente degna di un Cavaliere di buon gusto „. Così
la prima bella lode a chi di proposito iniziava la restaurazione
del culto della lingua a Venezia e inaugurava la prosa moderna
italiana, fu data in pubblico teatro dal grande riformatore della
commedia; e ci commuove l'onesta ammirazione del Goldoni,
scrittore dialettale, per il Gozzi, scrittore italiano.
Era a mezzo il secolo decimottavo. Le Lettere diverse usci-
rono nel mese di ottobre dai torchi di Giambattista Pasquali,
in eleganti caratteri, con una dedica dell' autore a S. E. il Ca-
valiere e Procuratore Marco Foscarini. Gasparo Gozzi non con-
tava ancora 37 anni di età. La sua fama, all' infuori di un
crocchio di amici e di letterati, era scarsa a Venezia stessa,
inferiore assai a quella di Luisa Bergalli (1703-1779), sua moglie,
più vecchia di lui di dieci anni : la pastorella Irminda Partenide,
divenuta nel '38 contessa Gozzi. Convien ricordare come sulla
fine del seicento Apostolo Zeno, fondatore dell'Accademia degli
Animosi (1691), aggregatasi dopo sette anni quale colonia aWAr-
2o8 INTORNO ALLE " LETTERE DIVERSE „
cadia, lamentasse V abbandono doloroso dei buoni studi nella
sua Venezia. " Nelle private e nelle pubbliche librerie „ i libri
migliori erano " il pasto delle tignuole „ : più non si leggevano
" comunemente che certi libricciuoli francesi, trattenimento de'
sfaccendati, o certe meditazioni spirituali, delizie degl'ipocriti,
o certi aridi rancidumi di leggende e di storie, che non meri-
tavan l' onore di esser guardate „. Dieci anni dopo ripeteva
ancora con rimpianto: " E passato il felice tempo in cui le
lettere avevano il domicilio a Venezia „ ^. Ma bastarono l'esempio
e gli sforzi suoi, e quelli del Maifei a Verona, del Volpi a Pa-
dova, del Fontanini a Udine, per richiamare i giovani all'amore
dello studio e al culto degli antichi scrittori. Nel 1710 l'ingegno
e r opera dei migliori nella Serenissirha si raccolsero intorno
al Giornale de Letterati. A Venezia e a Padova, fra il 1720 e
il 1760, uscirono dai torchi di Comino, dell' Albrizzi, del Pa-
squali, del Pasinelli, dello Hertzhauser, del Monti, del Savioli,
dell' Orlandini, dello Zatta le bellissime e notissime edizioni dei
nostri quattro poeti e dei maggiori scrittori del Cinquecento,
insigni alcune per superbe incisioni, accuratissime tutte e ricche
di commenti e di note.
Venezia pareva rivivere. Nel '31 da Vienna vi fece ritorno
per sempre lo Zeno, nel '26 era tornato da Parigi e da Londra
il Conti, e se nel '33 partiva l'Algarotti, vi rientrava nell'au-
tunno del '34 Carlo Goldoni. 11 futuro commediografo arrivò a
" un' ora di notte „ e volle subito " fare una corsa per la città.
Volli rivedere „ raccontava più tardi, " il mio Ponte di Rialto^
la mia Merceria, la mia Piazza San Marco, la mia Riva degli
Schiavoni. Che bel piacere in tempo di notte trovare le strade
illuminate, e le botteghe aperte, e un' abbondanza di viveri
dappertutto, sino e dopo la mezza notte, come trovasi in altre
città la mattina al mercato! „. E dappertutto " che allegria, che
vivacità „, che esultanza di canti ** per terra e per acqua! „ ^.
Nello stuolo dei giovani più devoti allo Zeno si distinguevano,
per r ardore della dottrina e per la religione verso gli antichi
autori, r abate Antonio Sforza e i due fratelli Niccolò e Anton
Federigo Seghezzi: furono questi gli amici più cari di Gasparo
Gozzi, allora ventenne, che a lui dischiusero, perchè maggiori
d' età, il tesoro della nostra lingua e delle nostre lettere. La
morte li rapì troppo presto alla patria 3; ma quando nel '43
il Gozzi perdette anche l' ultimo, il più caro di tutti, il più intimo,
il suo " dolcissimo compare „, Venezia poteva ormai vantare
DI GASPARO GOZZI 209
nel conte Gasparo un nuovo squisito scrittore, il primo scrittore
moderno della nostra Italia.
Per fortuna V epistolario del Gozzi ci conserva il ricordo
di quel periodo, triste e monotono, che i due recenti sposi pas-
sarono in campagna a Vicinale, presso Pordenone, tra il '40 e
il '42, un po' per la malattia del conte Giacomo paralitico, un
po' per ragioni di economia. Gasparo leggeva commedie del
cinquecento, traduceva Plauto e Molière, e, come per consolarsi,
inandava all' amico Seghezzi rime più o meno giocose, qualche
volta troppo libere, che in parte si leggono stampate, in parte
si trovano inedite in un codice della Marciana. Era finita la
stagione dell' amore e dei sonetti petrarcheschi. E la povera
Luisa s' affannava anch' essa, tra un parto prematuro e uno labo-
rioso, a trasportare interminabili volumi dal francese per qual-
che stampatore. Intanto il giovine Carlo partiva per la Dalmazia
col generale Quirini Stampalia, in cerca di fortuna. E Gasparo
si lagnava del freddo e del fango, e sospirava : " Se voi vedeste
la malinconia che fa questo tempo, questa terra coperta d'acqua,
di neve e di ghiaccio „. " Non fo altro che scrivere, questo è
quanto bene trovo in questa solitudine amara più che assenzo „.
Fatto ritorno a Venezia, morto il Seghezzi, morto nel '45
il conte Giacomo, cresciuto il numero dei figli, cresciute le dif-
ficoltà economiche, separatisi dalla famiglia, con dolore della
madre Angela Tiepolo, i fratelli Francesco, Carlo (reduce da
poco) e Almorò, i due coniugi si lasciarono attirare dal mirag-
gio del teatro, che sempre li aveva sedotti, e infelicemente ten-
tarono sul palcoscenico del Sant'Angelo, per mezzo di tragedie
e commedie tradotte per la massima parte dal francese, quella
riforma che subito dopo, nel glorioso autunno del '48, riuscì
con mezzi ben diversi e con altra sorte a Girolamo Medebac
e a Carlo Goldoni 4. Pur troppo il vano sforzo, come suole
accadere, fu poi deriso dai posteri, e la colpa ricadde ingiusta-
mente sulla Bergalli, ma il conte Carlo nel 1761, ribattendo le
vanterie dell' abate Chiari, contrapponeva in certo suo libello 5
quella specie di tentativo classico alla riforma goldoniana; e
il Goldoni nel 1750, rifacendo nella prefazione al primo tomo
delle sue Commedie a stampa la storia delle precedenti imprese
teatrali, ricordava insieme con le tragedie del Maffei e del Conti
" V Elettra ed altre molte, o interamente composte, o eccellen-
temente dal francese trasportate, dal peritissimo signor Conte
Gozzi „.
G. Ortolani. i4
2 IO INTORNO ALLE " LETTERE DIVERSE „
Fallitagli quella speranza tanto vagheggiata dagli uomini
di lettere nel Settecento, a cui tornò ancora di tempo in tempo
con ostinazione, fin che s' impadronì poi delle scene il fratello
Carlo (1761), si rivolse il conte Gasparo per altra via, dove
potesse far valere presso il pubblico il proprio ingegno. Insieme
coi romanzi che nel suolo italiano parevano da qualche decen-
nio isteriliti, dopo la misera colluvie del secolo precedente, ma
che in gran copia continuavano a piovere dalle Alpi, godevano
il favore dei lettori, e specialmente delle lettrici, i libri di let-
tere di materia grave o piacevole, di cui erano " piene „, per
confessione dell'abate Chiari, " le librerie e le botteghe „. " Per-
chè credete „ chiedevasi l'abate " che tal sorta di libri oggidì
sieno tanto alla moda, che ogni uomo di talento ed ogni donna
di spirito passa volentieri con essi alla mano 1' ore più oziose
del giorno, e nelle tarde ore notturne va conciliandosi il sonno?
Io vel dirò in due parole: perchè sì gli uni, che gli altri, al
par di me sono amanti dell' ozio, e della fatica nemici „. E più
a lungo spiegava: " Chi scrive in lettere di molte cose fra lor
disparate, non ha bisogno di lambiccarsi il cervello per accoz-
zarle insieme, ed una dopo l' altra dicevolmente ordinarle : ogni
erudizione più dozzinale è bastevole; ogni stil più trascurato è
il migliore... Riguardo poi a chi legge, assai comodo riesce mai
sempre un libro di tal sorta, che erudito essendo superficial-
mente istruisce, e non stanca; vario essendo ogni seconda pa-
gina ed interrotto, ricrea e non attedia, di modo che senza
un' applicazione che pregiudichi alla salute indifferentemente lo
legge alla toletta la Dama, il Mercatante al negozio, la Monaca
nel giardino, e il Cavaliere al passeggio „ ^. E il Chiari sug-
geriva fra le raccolte più in voga le vecchie lettere di Abelardo
e di Eloisa che si ristampavano insieme con quelle della mo-
naca portoghese (Marianna Alcoforado), le lettere del cardinale
d' Ossat e quelle di Volture, le lettere scientifiche del Magalotti,
le Lettere Inglesi di Voltaire e le Lettere Ebraiche e le Caba-
listiche del volterriano marchese D'Argens. Avrebbe potuto ag-
giungere le Lettere Persiane del Montesquieu.
Non si trattava di una malattia improvvisa, di cui ci faces-
sero dono i Francesi. Già nel Seicento, come avverte Francesco
Salfi nella sua storia letteraria in continuazione a quella del
Ginguené, di tutti i generi in prosa " il più coltivato „ in Italia
" fu il genere epistolare, „ e la lettera serviva a trattare ogni
più svariato argomento. È certo tuttavia che nella prima metà
DI GASPARO GOZZI 211
del secolo deciinottavo l' esempio della Francia era sempre
davanti agli occhi nostri. Ora le Lettere Ebraiche uscirono la
prima volta nel 1736 e ner*37, le Cabalistiche nel '38, le Cinesi,
dello stesso autore, nel '39 e nel '40; e trovarono imitatori e
raffazzonatori in tutta Europa. A Venezia le storpiò, in un vol-
garizzamento a uso delle anime timorate, il signor Ponziano
Conti e pubblicò fra il '41 e il '42 col nome di Melibeo Sam-
pogtia otto insulsi volumi di Lettere curiose, 0 sia corrispondenza
isterica e critica, filosofica e galante. Finalmente nel 1743 il
Pasinelli stampava i primi due tomi delle Lettere critiche, giocose,
morali ecc. tradotte da vari linguaggi dal Conte Agostino Sante
Piipieniy opera originale dell'avvocato Giuseppe Antonio Costan-
tini che nel '44 fece seguire altri due tomi presso il Bassaglia,
e un quinto nel '45 dedicato a Nicolò Tron, e un sesto nel '46,
mentre i primi si ristampavano e andavano a ruba. L'edizione
del 1751 comprendeva già sette tomi, a cui se ne aggiunse un
ottavo nel 1756, con dedica a Sebastiano Venier, fin che nelle
successive ristampe, le quali seguitarono per tutto il secolo de-
cimottavo, non solamente a Venezia, ma a Milano, a Lugano e
a Napoli, si toccò il numero di dieci; e non solo si diffusero
fuori d' Italia, ma si tradussero in francese e in spagnolo, e
perfino in turco.
La fortuna del libro, più che nella falsa scienza e nella
falsa erudizione di cui fa pompa 1' autore qua e là, e di cui il
Settecento era pur vago, si deve ricercare nell' audace critica
sociale : quella critica principalmente dei costumi e delle mode
che in veste di satira infiltravasi dappertutto, che il Goldoni
non risparmiava in quei primi tempi della riforma teatrale, che
lo Sceriman, amico del Gozzi, profuse nel 1749 in un romanzo,
ossia negli immaginari Viaggi di Enrico Wanton. Qualche cosa
aveva potuto imparare il Costantini dal marchese D' Argens, ma
devoto alla religione e alle istituzioni della Serenissima non
r avrebbe mai dichiarato, mentre si professava ammiratore e
seguace dell' abate di Bellegarde, del quale tradusse le Rifles-
sioni critiche sopra li costumi ridicoli introdotti in questo secolo
nella civile società 7. Tuttavia egU non si accinge a scrivere un
prolisso trattato morale sull' affettazione, sulla vanagloria, sul-
r impostura, suU' albagia, sulla stravaganza, come 1' abate fran-
cese, per via di ritratti sgorbiati e diluiti sul modello immortale
di La Bruyère ; bensì sceglie argomenti più vivi e più vari, per
esempio, nel primo tomo, a un confessore novello, pregiudizi de*
212 INTORNO ALLE " LETTERE DIVERSE „
paesi piccioli, contratti di matrimoni, servitori perseguitati, musici
e cantatrici, abuso de' titoli, vera nobiltà, il carnovale, servitù
alla moda) racconta le geste d'un insidiatore delle donne, dice
dei figli destinati alla religione, si rivolge a un marito geloso,
espone un nuovo sistema sulV anima delle bestie, si scaglia con-
tro gli ateisti e i deisti) e nel secondo tomo deride la pedanteria
de' cruscanti, narra il castigo d'un cavaliere prepotente, ascolta
i lamenti d' una monaca sacrificata dal proprio genitore, accusa
l'avidità d' un avvocato inumano, flagella le mode, le affettazioni,
i puntigli.
Fosse sincero o no 1' autore, fosse dotto o ignorante, scri-
vesse corretto oppure offendesse la grammatica e il vocabolario,
questo poco c'importa, ossia poco importava ai suoi contempo-
ranei. Egli è abile e, come si suol dire, moderno', ci trasporta
proprio nel mezzo del Settecento, a Venezia, e con un fare
vivace e coraggioso tratta le questioni che più accaloravano la
società di quel tempo. È anche un rustego, se volete, come lo
Sceriman, ma ai patrizi perduti nell' ozio e nel gioco, alle donne
sfacciate, ai preti dimentichi dei loro doveri, ai giudici disonesti
dice delle dure verità; e odia di tutto cuore i pregiudizi, le
armi e i cicisbei. Peccato eh' egli non fosse né pensatore, né
scrittore buono: egli non sfrondò gli allori di La Bruyére, né
quelli di Addison o di Montesquieu. La sua semplicità e facilità
é sciatteria: crede, come tanti altri al suo tempo, che basti
guardarsi dai fronzoli del Seicento e odiare la pedanteria de'
cruscanti per raggiungere la verità e la naturalezza, e non s'ac-
corge d' infilar parole goffamente e stucchevolmente, senz' arte
e senza vita. La materia gli si irrigidì nelle mani; e quando la
rivoluzione che covava nel Settecento scoppiò veramente, e
nuovi problemi agitarono la società, le Lettere critiche caddero
ad un tratto nell' oblio e sui pochi volumi del Costantini super-
stiti ancora alla distruzione del tempo, si accumulò la polvere.
Ma fin dal 1749 due volumi di Lettere scelte di varie ma-
terie, piacevoli, critiche ed erudite aveva stampato a Venezia
Pietro Chiari, nel punto di cimentarsi nella commedia sui teatri
veneziani a gara col Goldoni. L'abate bresciano, presto quaran-
tenne e ancora oscuro, ma avidissimo di rinomanza, fiutato il
buon vento, volle saggiare il pubblico veneziano con un libro
alla moda, e senza aver nulla da dire, col pretesto di correg-
gere e confutare il Costantini, schiccherò di insulse chiacchiere
qualche centinaio di pagine rovistando, per trovar gli argomenti,
DI GASPARO GOZZI 213
la raccolta dell'avvocato veneziano, che più tardi lo sferzò ben
bene in una lettera intitolata la scimia col fagotto. Eppure anche
questa misera imitazione, la quale non ha nemmeno il pregio
d' uno stile più colto, piacque alle gentili lettrici, forse in grazia
di certa spavalderia; sì che un terzo volume fu aggiunto nel
1754 alla terza o quarta ristampa.
In buon punto dunque uscirono le Lettere diverse di Gasparo
Gozzi. L'autore diceva, scherzando, allo stampatore: " Se avete
voglia di pubblicare qualche mio lavoro, non posso darvi opera
scritta con più prestezza che le mie lettere mandate da me agli
amici, e a' nemici ancora... e vi so dire che se ad alcuna cosa
ho pensato poco, egli è stato nello scriver lettere. L' opera sarà
anche all'usanza moderna, perchè oggidì corrono lettere,,. E
per dare maggior apparenza di verità, riportò più lettere al
Seghezzi e una allo Sforza, morti da tempo. Ma quali novità
recava il nuovo libro? Nessuna scienza vi trova chi lo sfoglia,
nessuna erudizione. Sarebbe stato facile anche a me, scrive il
Gozzi ammiccando verso il Costantini e verso il Chiari, sac-
cheggiare alquanti autori greci e latini. " Ma ho caro che quello
che scrìvo sia mio, e di non dover tanto restituire a questo e
a quello, che nel libro non rimanesse altro di mio che la carta
bianca „. Egli è un letterato e compone un' opera letteraria,
benché sia convinto, come tutti all' età sua, che la letteratura
non possa andare disgiunta dalla morale e l'arte dall'insegna-
mento. Tutto il libro pertanto è pervaso della mite e onesta
filosofia dell' autore in un tempo in cui il filosofeggiare è di
moda, e comune agli scrittori l' ingenua confessione dell'animo.
Anche nel Gozzi ammiriamo la nuova coscienza dell'uomo mo-
derno, uno dei più belli acquisti del secolo decimottavo troppo
calunniato: quella coscienza che riscalda le pagine senili del
Muratori e freme negli sciolti del Parini, che ci fa amare il
Broggia e il Genovesi e ci rende più caro il Goldoni, che san-
tifica la vita di Egidio Porcellini e l' opera di Gaetano Filangieri;
quella coscienza che doveva rifare l' Italia e disseminò poi di
martiri italiani le terre d' esilio, le prigioni e i campi di battaglia.
Ma il Gozzi non è un apostolo, non è un rinnovatore della
società, non è nemmeno uno scrittore satirico, né un vero osser-
vatore) egli si accontenta di ritrarre qualche aspetto del suo
piccolo mondo interiore, e del piccolo mondo esterno che col-
pisce i suoi occhi, sorridendo e moralizzando; e sempre mo-
strasi quello che fu propriamente, vale a dire un artista. Il
214 INTORNO ALLE " LETTERE DIVERSE „
sentimento della natura, divenuto sempre più raro presso gli
Italiani, assume nel Gozzi colorito originale, come nel famoso
invito in campagna al Seghezzi, che il Carducci chiamò " una
gemma di lettera „, stampato qui per la prima volta. Comincia
così : " Oh come sono stanco e sazio, che ci facciamo all' amore
da lontano con letteruzze spasimate... „. E dice più avanti; " È
vero che la strada è alquanto fastidiosa, perchè a voi che siete
accostumato alla gloriosa e magnifica Brenta, dove a ogni passo
vedete un palagio, parrà facilmente strano il vedere ora casacce
diroccate, ora una fila d' alberi lunga lunga, e terra e terra senza
un Cristiano; ma fra '1 dormire un pochetto, la scuriada, e forse
i campanelli al collo de' cavalli potete passare il tempo. Quando
poi sarete giunto qui, dieci o dodici rossignuoli nascosti in una
siepe vi faranno la prima accoglienza, che mai non avrete udito
gole più soavi. Io sarò all'uscio, e vi correrò incontro a braccia
aperte cantando un alleluja. Sarete subito corteggiato da cap-
poni, da anitre, da pollastri e da polli d' India, che vi faranno
la ruota intorno come i pavoni „.
Questa naturalezza, questa vivacità, questo brio sono cosa
tutta nuova, che può apprezzar degnamente solo chi sappia
quale fosse da quasi due secoli la prosa narrativa nell' infeli-
cissima Italia. Anche le pagine più piacevoli dei migliori scrit-
tori di Toscana della scuola di Galileo, come il Redi, il Maga-
lotti, il Cocchi e pochi altri, sembrano al paragone compassate
e fredde. Poiché qui per la prima volta ci accorgiamo davvero
che è ormai sorta oltre le Alpi la grande letteratura di Luigi XIV,
non solamente il teatro di Corneille di Racine di Molière che
eccitava da un pezzo la nostra immensa invidia, ma bensì la
bella, mirabile prosa moderna, così facile e limpida e spiritosa;
e siamo costretti a pensare all' invasione di libri francesi nel
Settecento per tutta l'Europa. A Venezia erano nelle mani di
tutte le signore, di tutti gli abatini e d' ogni sfaccendato. Di
averne una buona raccolta confessava anche il Gozzi, e quanti
ne leggesse, e quanti ne traducesse in compagnia della moglie,
sappiamo abbastanza.
Il conte Gasparo aveva conosciuto da vicino i contadini
e sapeva bene che cosa fosse la vita rustica: la sua villeg-
giatura non era quella delle gentildonne veneziane lungo la
nobilissima Brenta; il suo Vicinale non era l'Arcadia. Igno-
ranti, ruvidi e ritrosi ci descrive gli abitanti della campagna.
Tuttavia li ama; e tale nuovo sentimento è pure un indizio del
DI GASPARO GOZZI 21 5
secolo decimottavo che redime alfine, dopo tanti secoli di abie-
zione, il servo della gleba. Vengono alla sagra " da ogni lato
villani scalzi, o quasi scalzi... Egli è ben verOj che hanno per
quel dì i migliori panni indosso, e pongono il principale onore
nelle camice, le quali sono tanto nuove, che hanno ancora tutte
le punte della stoppa di che sono tessute, e tirano al giallastro,
e sanno di bozzima, acciocché si possa dire, che sono state
spiccate dal telaio allora allora. Voi li vedreste tutti accompa-
gnati da nuove forme di donzelle; alle quali essi non sosten-
gono il braccio, come usiamo di fare, ma le lasciano andare
da sé; e se non possono camminare, rimangono indietro; la qual
cosa tuttavia quasi mai non accade, perché sono tanto gagliarde,
e bene avvezze, che paiono serpenti, e si vede che in questo
Paese si fa conto tanto delle Donne quanto degli Uomini, e
fanno que' medesimi studi ed esercizi anch'esse; perciocché
tutte sono colorite dal sole, hanno le stesse callosità alle mani,
e vanno calzate né più, né meno, come ho descritti i maschi „.
Ed ecco un carattere piacevole dell'arte di Gasparo Gozzi,
r umorismo, che si trova in quasi tutte le sue prose e nei ser-
moni, che ravviva le sue migliori pagine, e mette una nota più
dolce nella tristezza dell' epistolario. Un piccolo capolavoro é il
dialogo del calamaio e della lucerna, lodato dal Goldoni. Il ca-
lamaio rivendica a sé gran parte dell'opera poetica del Gozzi:
" Tutti miei e di mia ragione, senza che il suo cervello v'abbia
punto parte, sono i Sonetti e le Canzoni eh' egli ha fatti coman-
dato per Monache, per Nozze, o per Dottori novelli; che se non
era io che glieli avessi dettati, egli non sapeva dove s'avesse il
capo „. Delle prose " poche, perché né egli né io insino a qui ce
ne siamo dilettati molto; quand' io non volessi far valere le mie
ragioni sopra alcune lettere, che egli a suo dispetto scrisse,
delle faccende di casa sua a qualche Avvocato, o a qualche
Fattore, delle quali per verità non si può dire ch'egli v'abbia
mai dettato una riga: ma sempre m'ha lasciato fare a modo
mio, perché le corrispondenze con altrui circa gl'interessi suoi,
le ha sempre lasciate al calamaio. Oltre di queste, tu ci vedesti
tempo fa a tradurre in prosa parecchie delle Commedie di
Plauto, e di queste n' ha volgarizzata egli una parte, e una
parte é mia „.
Povero Gozzi ! E chissà quante versioni dal francese, che
i giornali del tempo gli attribuivano, avrà lasciate in cura al
calamaio: per esempio, quella óeW Avventuriere francese, delle
2l6 INTORNO ALLE " LETTERE DIVERSE „
Dotine militari e d* altri romanzi, quella della Storia generale
dei viaggi, della Storia ecclesiastica, delle Istituzioni politiche
del Bielfeld, quella di non so quante tragedie e commedie e
poemi. Quando può scherzare di sé, in prosa e in poesia, il
buon Conte veneziano diventa sempre allegro ; e sì fatto umore
gli durò fino agli ultimi giorni. SulP esempio lontano di Teofrasto,
è recente dei Francesi e degli Inglesi, si compiace di delineare
ritratti morali, ma più d' una volta si diverte a fare il proprio,
insistendo su certi difetti della sua natura. Perfino le idee ori-
ginali, come quella di raccontare la storia de' costumi umani,
sembrano essergli suggerite dalla voglia di celiare.
Il Gozzi non deride la crusca e i cruscanti, a diff'erenza
del Costantini, del Chiari, del Goldoni, del Verri e di infiniti
altri; anzi, cosa singolare, fin dalla prima lettera si preoccupa
dell'arte dello scrivere e dello stile. " Un medesimo pensiero
espresso da mille bocche „ dice il Gozzi ragionando col suo
buon senso, " lo sentirete espresso in mille forme... Chi lo
dice bene, chi male, chi con efficacia, chi freddo, chi fiorito, chi
secco... Ma fra tante maniere vi dee pure esser l'ottima, e questa
dee procurarsi. Quanto dico del favellare, intendo altresì dello
scrivere, eh' è favellare pensato „. Poi punge argutamente i
contemporanei: " Uno dice: Si scrive come si parla (e se sa-
pesse parlare, mi contenterei); un altro crede che quando si
piglia la penna in mano, ogni parola debba essere una mara-
viglia: chi fa la dettatura mezzo francese, chi mezzo latina, chi
compone un certo volgare fra il Milanese e il Cremasco „.
A chi alluda, non so: che le sue parole colpiscono tutti,
anche quegli autori d' ingegno certamente non volgare, come il
Muratori e lo Zeno, oppure come il Goldoni e lo stesso Sce-
riman, o come più tardi il Genovesi e il Verri, che per aver
bandito gli ornamenti rettorici e cercato il linguaggio naturale,
si credevano onestamente rinnovatori dell'arte di scrivere e
forse imitatori ed emuli de' letterati d'oltralpi. Questa cura della
lingua e dello stile, coltivata nel conte Gasparo dallo Sforza e
dal Seghezzi, trasmessa al Baretti, di qualche anno più giovane
del Gozzi, e poi al Parini, è la più grande novità che ci annun-
zino le Lettere diverse. Ricordiamo a questo proposito gli studi
sugli autori antichi e le addizioni al vocabolario della Crusca
del padre Bergantini, morto nel '64; ricordiamo pure che nel
1747 erasi fondata per opera di Daniele Farsetti e d' altri ra-
gazzi r Accademia dei Granelleschi, per rinnovéllare a Venezia
DI GASPARO GOZZI '2 I 7
il buon gusto della lingua e delle lettere, auspice il Gozzi e
testimone ancora il Baretti; ma solamente nel proprio ingegno
trovò il conte Gasparo il segreto dello scrivere, inspirandosi
al modello dei nostri antichi e all' esempio dei Francesi ^. Noi
lo vediamo con la sua lunga e ossuta figura in un' angusta stan-
zuccia vicina al tetto, seduto a un tavolino sgangherato, con
pochi libri in disordine su qualche seggiola zoppa o sul pavi-
mento, assorto nel piccolo mondo della sua fantasia, afferrare
a un tratto e fermare con la penna d' oca sul foglio le parole
che gli fluiscono a mano a mano, mentre un po' di cielo sorride
dal finestrino. Rispettiamo l' umile felicità di Gasparo Gozzi :
egli crea all' Italia che verrà la prosa moderna. Fu quello il
suo tesoro, 1' unico che gelosamente serbasse in tutta la vita,
fra le miserie della lotta domestica, nella solitudine degli ultimi
giorni. Peccò, è vero, di " afFettazioncelle accademiche „ e di
" morbidezze venezievoli „, come lo accusò il Carducci, peccò
di qualche idiotismo, di monotonia e di prolissità, ma egli amò
sempre e carezzò con segreta compiacenza la sua prosa, e per-
fino nei biglietti di corrispondenza privata si rivelò sempre un
artista, semplice e arguto.
Non fu grande scrittore; e intorno a lui si udirono nel-
r Ottocento dei giudizi spesso severi 9. " Certo fa i vestiti bene „,
disse il Manzoni, " ma gli manca la persona „. Il Carducci
ammirava il poeta dei sermoni, ma " come prosatore „ il Gozzi
gli parve " ineguale, incerto, ondeggiante tra il pensiero fran-
cese e la forma cinquecentistica „. Piccolo posto gli assegnò il
De Sanctis nella letteratura del Settecento. Aspra condanna
pronunciò, com' è noto, lo Zanella. Ma a' suoi tempi il Baretti
lo collocò " sopra ogni altro scrittore italiano moderno „ ; e più
tardi il Monti lo giudicò " simile al Caro „ e tale " che può
tener fronte a qualsiasi più grazioso e corretto „ ; e il Pinde-
monte concluse il suo elogio affermando " che insegnò a scriver
bene, e a bene operare „. Finalmente il Tommaseo lodò in lui
" la proprietà rara del dire, la parsimonia, l' armonia, l' evi-
denza; e quell'efficacia che tanto è più vera, quanto meno si
sforza apparire „ ^°.
Non fu grande; e appartiene modestamente alla seconda
classe degli scrittori italiani. Il suo nome non passò i confini
della patria ^^, e quella parte delle sue opere che oggidì mostra
di vivere nella nostra letteratura, si contiene forse in un solo
volume. Troppo gli piacque la mediocrità, insegnò troppo a
21 8 INTORNO ALLE " LETTERE DIVERSE „
cercarla e ad accontentarsene. Leggete in queste lettere il SognOy
oppure i consigli a un, giovane poeta. Il suo ideale è in per-
fetto contrasto coi nuovi tempi: la sua timidità gli consiglia di
scansare le noie e i dolori, e la sua vita fu invece travagliatissima.
Egli ammonisce il topo a restare nella sua cesta, il luccio tra
le rive della Piave: e non s'accorge di offrire ai Veneziani una
pericolosa morale, non s' accorge che tutta V antica grandezza
della sua patria ripugna a questa sua filosofia; non vede l'In-
ghilterra e la Francia scacciare il Leone alato da tutti i mari,
non ode nessun rombo della rivoluzione che avanza ^^. La
smania dei viaggi che spinge attraverso l' Europa i letterati suoi
coetanei, non lo esalta mai; non sente l'irrequietudine dei tempi.
Il suo orizzonte è ristretto, come quello delle callette veneziane,
la sua esistenza si chiude tra Pordenone e Padova.
Chi legge l'epistolario, uno dei più beUi che abbia l'Italia,
purtroppo disperso ancora e disordinato, avverte a ogni pagina
r uomo debole contro la società e contro il destino, debole coi
figli stessi e con le donne. Rileggete 1' appassionata lettera a
Luisa Bergalli prima del matrimonio; ricordate che per servir
meglio la comare Màstraca e " per fuggire un vortice d' inquie-
tudini „, abbandonò per qualche tempo la famiglia '3. Non accettò
soltanto il giogo dorato della procuratessa Dolfin Tron, ma quello
meno illustre della crestaia francese. Quasi ridicolo egli diventa
nelle rozze e ciniche memorie del figlio Francesco, che per
fortuna qua e là dicono il falso; e in quelle del fratello Carlo.
Ci ricorda involontariamente qualche personaggio della com-
media goldoniana, ma 1' animo suo onesto e buono ci sforza ad
amarlo. Certo la grande tristezza della vita lo avvinse sempre
più, e per oltre un ventennio gli strappò dei lamenti che par-
rebbero qualche volta uscire dal petto di un italiano nel periodo
più doloroso dopo il 1821, non già nel perpetuo carnovale, come
si crede, del Settecento veneziano.
Incolpare di questo la Repubblica di Venezia, oppure le
prodigalità di Giacomo Gozzi e di Angela Tiepolo, sarebbe un
errore : anche Ugo Foscolo fu povero e crebbe nel periodo più
umile della Serenissima. Il sentimento della mediocrità è nel-
r animo e nell'ingegno del nostro autore M: di qui derivano
quell'apatia di cui 1' accusava a torto il Baretti e quell'infingar-
daggine di cui s'accusava a torto egli stesso. Fra gli antichi
predilesse Luciano; difese Dante, è vero, ma ammirò il Berni.
Nel 1755 osò portare sulla scena del teatro di San Giovanni
DI GASPARO GOZZI 219
Grisostomo Marco Polo ed Enrico Dandolo, per rivaleggiare con
le commedie orientali del Goldoni e del Chiari; e creò due
manichini. Il suo mondo artistico è dunque nei ritratti, nei dia-
loghi, nelle allegorie, nei ragionamenti piacevoli, nelle novel-
lette, nei sermoni, nelle favole: e quel tjiondo egli scoperse la
prima volta agli Italiani nelle Lettere diverse^ alle quali nel '52
aggiunse un altro volume col titolo di Lettere serie, facete, ca-
pricciose, strane e quasi bestiali ; e altre stampò nel tomo sesto
delle Opere in versi e in prosa, edito nel 1759, ove si contiene
pure il famoso Ritratto iìi versi degV innamorati moderni^ che
di quattro anni precede il Mattino di Giuseppe Parini. Scriverà
poi la Gazzetta Veneta e V Osservatore Veneto^ ma la materia,
la facoltà d' osservazione e V arte del Gozzi sono ormai note.
Dodici anni dopo le Lettere diverse, nel 1762, Giuseppe
Baretti pubblicava a Milano le Lettere famigliari', e si recava
quindi sulle lagune (dove godette l'amicizia di casa Gozzi) a
prendere in mano la Frusta. Così compivasi anche per la prosa
italiana il faticoso lavoro del secolo decimottavo di riafferrare
al di là del Seicento, abborrito da tutti, le tradizioni interrotte
del Rinascimento, e di affidarle, rinnovate di spirito moderno,
air avvenire : lavoro glorioso, per cui V Italia a poco a poco
ritrovava se stessa, del quale non piccola parte toccò invero a
Venezia.
AGGIUNTE E NOTE
I Lettera al Fontanini, 21 sett. 1697, in Lettere di A. Z., Venezia,
1785, t. I, p. 3; e lettera al padre Canneti a Ravenna, 23 nov. 1709,
citata da F. Negri, La vita di A. Zeno, Venezia, 1816, p. 443.
3 Opere complete di C. Goldoni per cura del Municipio di Venezia,
voi. I, 1907, p. 97.
3 A 35 anni morì l'abate Antonio Sforza (1700-1735), a 26 morì
nel '37 Niccolò Seghezzi, a 42 1' abate Giannantonio Verdani ( 1700-
1742), a 38 Anton Federico Seghezzi (1705-1743). Ricordiamo come a
questo gruppetto di giovani letterati devoti allo Zeno (v. Negri cit.),
già assottigliato, si accostasse nel '39 per qualche tempo, forse in
grazia dello Zeno, un giovane torinese appena ventenne, Giuseppe
Baretti (G. Piccioni, G. Barelli prima della " Frusta Letteraria „, To-
rino, 1912, supplemento 13-14 del Giornale Storico ecc., pp. 30-35).
4 Ciò fu neir anno comico 1747-1748, come appare manifestamente
da una lettera di Marco Forcellini al fratello Egidio, 6 apr. 1747,
ricordata da Antonio Zardo : Esopo in commedia, in Nuova Antologia,
16 nov. 191 1, p. 206.
5 Fogli sopra alarne massime del Genio e Costumi del secolo, del-
l' Abate Pietro Chiari, e contro a' Poeti Nugnez de' nostri tempi, Ve-
nezia, Colombani, 1761, pp. 23-24.
6 De' Libri che sono alla moda, in Lettere scelte di varie materie
ecc. scritte ad una Dama di qualità dall' Abate Pietro Chiari Bre-
sciano, Venezia, Pasinelli, 1750.
7 Venezia, Pasinelli: il I tomo uscì nel 1744, il II nel '49, il III
nel '52.
8 *■ Io ho una buona copia di libri di Francia „ scriveva nel '43
al compare Pomo; e ne prestava e chiedeva agli amici. Così nelle
lettere da Vicinale al Seghezzi ricorda la Vita di Marianna del Ma-
rivaux, e in una al Pomo dice di restituire il Gii Blas di Le Sage.
Pure nel '41, lasciato da parte Plauto, traduceva non si sa quale
commedia di Molière.
9 Qualche volta anche nel Settecento, sebbene di rado. Il Bet-
tinelli, che non poteva perdonargli la Difesa di Dante, scrive nelle
224 INTORNO ALLE " LETTERE DIVERSE „
sue Lettere Inglesi (1767): " Grande ozio, e gran mediocrità di pen-
sare convien che domini nei caffè di Venezia! Ivi corrono per le
mani alcuni librottoli ne' quali niente s' impara, niente solletica, non
un sale che punga, non un detto che resti in memoria, non un fatto
istorico, un pensiero veramente sugoso ed istruttivo „. E spiega in
nota: " Allude all'opere del conte Gaspero Gozzi, e de' suoi socj
di minor talento. Di lui stimiam l' ingegno e il gusto caro a' placidi
e moderati animi da tavolino, tal fu il suo temperamento melanco-
nico, e freddo a trattarlo. Un' opera illustre pei posteri non v' è fra
le sue moltissime „ : Opere edite e inedite ecc. dell' abate Saverio Bet-
tinelli, Venezia, Palese, 1800, t. XII, pp. 203-4.
IO Storia civile nella letteraria, ed. Loescher, 1872, p. 259. E anche
disse altrove il Tommaseo : " Era veneziano quel Gozzi, casto e ma-
turo ingegno, che in tempi di corruzione e languore seppe trovare
una forma di pura e dignitosa e spedita eleganza, e diede sovente
alla prosa la greca venustà, più sovente al sermone il romano vigore,
e gli estri ispirati „ : Dizionario d' estetica, Milano, Perelli, 1860, t. II,
p. 114. E al Capponi scriveva (die. 1846): " ... Il quale a voi letterato
non può piacere. Ma ne' suoi Sermoni è piti varia moralità, e vena
più franca, e schiettezza più onesta, che nella stiracchiata ironia del
Parini. Ma queste cose non le dite, di grazia, ai letterati... „. Rispose
Gino Capponi (6 febbr. '47): " Il Gozzi a me pareva letterato e, ne'
sermoni, accademico, e però non m' andava troppo a genio ; poi mi
pareva grattasse dove bisognava incidere, e che la vita del caffè gli
stesse troppo addosso, a lui uomo di natura semplice, degno di
tempi migliori ma non sufficente a gastigare i suoi „. E Niccolò re-
plicava (febbr. '47): " Per mettervi in grazia il Gozzi, a voi mente
storica, dirò questo solo. Dalle cosette del Gozzi deducete più lume
alla storia del tempo, che non dalle opere d' ingegni più grandi.
Dunque il Gozzi è meno accademico dell'Alfieri e del Parini: ma
più del Goldoni, sì certo. E il Gozzi e il Goldoni sorridono de' propri
dolori: dunque più sapienti e più buoni di quelli che fremono. E il
Gozzi, de' non Toscani e che mai non videro la Toscana, è quel che
scrisse in stil familiare stonando meno e con meno spropositi: il
che denota mirabile felicità di natura „ : N. Tommaseo e G. Capponi,
Carteggio inedito ecc., Bologna, voi. II (1914), pp. 401-402, 406-407, 410.
Il Giordani lodava più la forma che il contenuto negli scritti del
Gozzi, scrivendo all' ab. Giuseppe Roberti (23 marzo 1839): " Le
opere del Gozzi sono belle ; e buona 1' edizione di Dalmistro ; e sa-
rebbe da raccomandarne la lettura a chi non vuol far altro che leg-
gere. Ma ella ha bisogno di molti e seri non leggicchiamenti, ma
stttdi. Le bisogna leggere libri che abbian più nutrimento che il
Gozzi, scrittore per altro tanto più lodevole quanto il solo buono (e
perciò non curato) nel suo tempo „: Epistolario edito per Antonio
Gussalli, Milano, 1854, voi. VI, p. 392.
DI GASPARO GOZZI 225
II Perfino i romanzi del Chiari invogliarono qualcuno a voltarli
in francese : non dico poi l' immeritata fortuna di Carlo Gozzi in
Francia e in Germania. Né il Sismondi né il Villemain ricordano il
nome del conte Gasparo: é vero che il Villemain non si cura nem-
meno del Goldoni, scusandosi col dire eh' é " più francese che ita-
liano „ {Cours de littéraiure franfaise, Bruxelles, 1840, p. 301).
13 Nel '41 scrive tra serio ed arguto da Vicinale al compare
Seghezzi : " Mentre che tutto il mondo ragiona d' Imperatori morti,
di Stati che s' hanno a rivolgere, io do a beccare ad una gallina, e
son cheto „. E nel '72 da Venezia alla Dolfin Tron: " Sia pur bene-
detta questa spedizione di Gazzette... Ho anche un altro vantaggio,
che mi vado informando delle cose del mondo, e vado imparando
i fatti delle Corti, delle quali non ho mai saputo niente „,
13 Sono parole del fratello Carlo : " ... S' era prese due stanze
in affitto lontane dalla sua famiglia, nelle quali, recato il monticello
de' libri suoi e sprofondato ne' studi, cercava una pace che tuttavia
non poteva avere... „ : Memorie inutili^ Bari, Laterza, 1910, voi. I, 178.
Riconosceva anche troppo la sua debolezza. " Sono un padre ed un
padrone di casa il più minchione di quanti furono dalla creazione
del mondo in qua „, confessava nel '69 alla Dolfin. Tutti poi lo
strapazzavano. " Quel pover' uomo „ racconta Carlo " quasi pian-
gendo, rammentandomi lobbe co' suoi movimenti, mi protestò di
non avere alcuna colpa nel disordine che avveniva... Aggiunse che
egli sofferiva de' romori infernali, de' titoli d' uomo pusillanime, di
padre spoglio di zelo per la sua prole, e infine che non era né
obbedito, né ascoltato „: 1. e, I, 157. Amava troppo la " buona
armonia „, la pace " essendo il suo naturale „ scriveva al fratello
(2 ag. '46) " di non far dispiacere a nessuno, come di ricevere di-
spiacere molto mal volentieri „ : dimenticandosi di " quella verità „
osservò più tardi il Pindemonte, " che spesso la pace tanto più da
noi fugge, quanto noi la cerchiamo più „: Elogi di letterati italiani,
Firenze, 1859, P- 403-
14 Carattere pure dei tempi contro il quale reagirono gli uomini
nuovi negli ultimi decenni del Settecento. Forse gli scritti più corag-
giosi del Gozzi sono quelli che compose dopo il '70 per la riforma
degli studi. Ricordiamo pure, per quanto accademiche, le orazioni
per il Tron (1773) e per il Pisani (1780).
G. Ortolani. 15
PER LA RISTAMPA
DELLA " GAZZETTA VENETA
Anche dopo la scoperta della stampa, il giornale fu lento
a sorgere, lento a diffondersi. Quando a Londra cominciarono
a uscire le prime Novelle (1619) e ad Amsterdam il più antico
Corriere (1623) e a Parigi la famosa Gazzetta (1631) di Re-
naudot, quasi due secoli erano passati da Gutenberg. Certa-
mente negli anni successivi si moltiplicarono, soprattutto in
Inghilterra, i foglietti dai titoli più strani, e accanto alle notizie
politiche si poterono ben presto leggere anche gli annunzi per il
pubblico (specialmente neiV Informatore pubblico a Londra, 1657),
ma impedimenti d' ogni genere ne arrestarono per lungo tempo
il progresso. L' Italia eh' era nel suo massimo decadimento po-
litico economico e letterario, non potè contribuire allo sviluppo
dei giornali. Venezia regalò al mondo il nome di gazzetta', tanto
più è strano che a Venezia stessa nel Seicento non si pubbli-
casse una gazzetta veneta^ mentre negli stati pontifici nasceva,
ed ebbe vita tenace se non gloriosa, la Gazzetta di Bologna.
Molto maggior fortuna trovarono fra noi i giornali di erudizione
scientifica o letteraria. Nel 1665 fondavasi a Parigi il grande
Giornale dei dotti) ed ecco un Giornale dei letterati a Roma
(1668), uno a Venezia (1671), uno a Parma (1686), uno a Forlì
(1701). Ma in Inghilterra in quel medesimo anno (1665) sorgeva
la Gazzetta di Londra, in Francia nel 1672 Donneau de Visé
creava il Mercnrio galante, nell' 82 Ottone Menke inaugurava
a Lipsia gli Atti degli eruditi e nell' 84 Bayle lanciava da Am-
sterdam le ardite Novelle della repubblica letteraria, seguito a
breve distanza da Ledere e da Basnage, a cui rispondevano
nel 1701 i padri gesuiti istituendo le Memorie di TrévoiiX. Quasi
a salutare l'alba del nuovo secolo, nel 1702 vide luce finalmente
a Londra il primo foglio quotidiano, chiamato appunto Corriere
quotidiano.
230 PER LA RISTAMPA
Sono questi i primi passi del giornalismo europeo uscito
di puerizia: il giornale con meravigliosa mobilità e duttilità di-
venta ormai banditore di scoperte scientifiche, divulgatore della
dottrina, arma di combattimento del pensiero politico filosofico
religioso, passatempo letterario, maestro di educazione morale,
cronaca di pettegolezzi mondani e di notizie utili e pratiche.
Non circola soltanto nelle maggiori capitali, bensì rompendo
fuori dalle mura delle città corre sulla vecchia diligenza nelle
remote provincie; non trovasi soltanto nella biblioteca dello
studioso, nel gabinetto dell' uomo di stato e dell' ecclesiastico,
nelle affumicate botteghe da caffè, bensì entra familiarmente fra
le pareti della media borghesia, osa invadere la toletta della
dama e si posa sul tavolo bagnato di birra e di liquori del-
l' osteria di campagna. A dargli animo vigore e agilità ecco i
nuovi scrittori d' Inghilterra, De Foe l' autore del Robinson
Critsoe, Swift 1' autore del Gulliver, il ministro futuro di Gior-
gio I, il classico Addison, e 1' ex ministro della regina Anna, il
terribile Bolingbroke.
Il primo giorno del marzo 171 1, in cui comparve il primo
numero dello Spettatore di Addison e Steele, è memorabile nella
storia più che il giorno d' una gloriosa battaglia. Qualcheduno
afferma che allora soltanto cominciò la vera arte del giornalista.
Del decimo numero furono tirate ben tremila copie, di qualche
altro, raccontavasi anche più tardi con stupore, fino ventimila:
cifra invero favolosa a quei tempi. Se ne fecero presto varie
ristampe e traduzioni che percorsero tutta Europa e si legge-
vano ancora in Italia dopo molti decenni. Nel 1731 il libraio
Edoardo Cave inizia la serie mensile, un poco per volta illu-
strata con varie incisioni, del fortunatissimo Magazzino del gen-
tiluomo^ che trova imitatori a Copenaghen, ad Amburgo, a Lipsia,
a Stocolma, a Brema; altri magazzini^ di titolo e spesso di
natura diversa, si stamparono a Londra stessa, a Parigi, a Fi-
ladelfia, a Boston ecc. e finalmente a Venezia (il Magazzino
italiano del Griselini, 1767).
Nessun scrittore sdegnava ormai di offrire la propria penna
ai giornali, anzi i più illustri ambivano di collaborare a una
impresa che appariva di anno in anno più importante all'umana
cultura e più utile al proprio paese. Quando Apostolo Zeno nel
1710, con l'aiuto di Scipione Maffei, del Vallisnieri e di venti
altri amici " sparsi per tutta Italia „, fondò a Venezia un no-
vello Giornale dei letterati con l'intento di mostrare che la dot-
DELLA " GAZZETTA VEìNETA „ 23 1
trina rifioriva nel suolo italiano, un applauso rispose da Bologna
a Roma. Opera generosa, ma pur troppo non popolare. Né le
polemiche spesso audaci e rabbiose dell* abate Lami diedero
popolarità alle Novelle letterarie di Firenze (1740). C'erano i
giornali, non e' erano gli scrittori. Appena Prévost, il creatore
di Manoìi, appena l' antivolterriano Fréron, oppure Marmontel,
r autore dei Racconti morali^ potevano trovare lettori fedeli in
Francia; in Inghilterra aggiungeva alle notizie politiche la cro-
naca dei tribunali Fielding, l'autore di Tom Jones, dirigeva una
Rivista critica Tobia SmoUett, 1' autore delle Avventure di Ro-
drigo Random, e stampava versi e prose nei magazzini più in
voga il critico Samuele Johnson, il grosso mastino, l'amico del
Baretti; in Germania il giovane Klopstock affidava i suoi canti
ispirati a un giornale di Brema.
A Venezia, nel 1760, quando finalmente cominciò a uscire
ogni mercordì e ogni sabato, dai 6 di febbraio, la Gazzetta Veneta,
trascinava ancora sulle lagune la sua tranquilla esistenza un
giornale letterario settimanale, intitolato Novelle della Repubblica
Letteraria (1729) e compilato dall'abate Medoro Rossi Ambrogi.
Un altro periodico di rassegne bibliografiche vedeva luce men-
silmente, dal principio del '59, le Nuove memorie per servire
air istoria letteraria, che facevano seguito alle interrotte Memorie
del padre Calogerà. Ciò era ben poco. Qualcuno con ragione si
rammaricava di tanta miseria e pensava con invidia " che la
sola città „ di Londra aveva " più di dodici Gazzette „. A Gasparo
Gozzi, sincero amatore della sua Venezia, parve crescesse
r animo non appena si accinse a scrivere per incarico d' un
libraio la Gazzetta Veneta. Egli non voleva creare, si capisce,
uno di quei fogli " che ci empiono gli orecchi di cose lontane
da noi „, uno di quei fogli che allora, nell' infierire della guerra
dei Sette anni, facevano girar le teste con interminabili descri-
zioni di assedi e di trincieramenti, ma sognava un giornale in
apparenza più modesto, sebbene più utile, un giornale di notizie
cittadine e di avvisi per il pubblico, come usava da tempo in
Inghilterra, reso piacevole da arguti ragionamenti, da brevi
novelle, da favole, da letterine a guisa dell'antico Spettatore.
Già fin dal '21, nelle colonie d'America, i fratelli Giacomo e
Beniamino Franklin avevano inserito nel Corriere della Nuova
Inghilterra articoli di morale e di letteratura: nel '22 Pietro
Marivaux erasi lusingato, con poca fortuna, di donare alla patria
uno Spettatore francese. Il Gozzi venuto molti anni più tardi, e
232 PER LA RISTAMPA
scrivendo non per i concittadini di Addison o di Richardson
che avevano accanto al giornale o al romanzo la Bibbia, bensì
per la Venezia di Carlo Goldoni, non volle fare la " scimmia
dello Spettatore „, come disse egli stesso; cercò dunque di man-
tenere leggera e piana la materia: ma ebbe davanti alla mente
il lontano modello che sempre più lo attirava.
Ora a me sembra che proprio nella Gazzetta l'ingegno del
Gozzi sottomettendosi a una dura fatica quotidiana, che può
paragonarsi per lo sforzo dell' arte a quella dei grandi coetanei,
del Goldoni nel teatro, del Tiepolo nella pittura, facesse la
maggior prova di fecondità, di originalità e di vivacità. Nel-
r Osservatore^ al quale diede opera il conte veneziano tosto che
abbandonò la Gazzetta, V autore sembra restringere la sua vi-
sione e farsi più timido, sebbene si illuda di rendere il conte-
nuto più serio e profondo, studiando non il costume bensì il
cuore dell'uomo, si allontana un poco per volta dal pubblico
delle sue lagune, quasi si apparta nel solito regno letterario,
un po' per stanchezza, un po' per genio, credendo di salire più
in alto; si ripete, diventa prolisso e monotono; abusa, direi così,
dell' arte sua di scrittore ; tenta, ma invano, di emulare l' Ad-
dison; vuol troppo spesso insegnare e filosofeggiare, come in
quel suo noioso romanzo del Mondo inorale, secondo la moda
del tempo. Vero è che il Gozzi sa creare brevi frammenti, ma
non regge alle lunghe creazioni che solleticano invano la sua
fantasia.
Frammentaria riuscì naturalmente la Gazzetta, e varia, come
ben si comprende. Dagli spettacoli teatrali o dal canto degli
Oratori passa il lettore alla cronaca dei piccoli furti, dalla de-
scrizione del giovedì grasso alla satira dei medici, dai suggeri-
menti per apprendere la lingua itahana alle lodi del Klopstock,
dalle favolette morali agli oggetti da vendere, dagli ultimi libri
usciti in luce alle ultime invenzioni, dall' elogio del gatto al
giuoco del lotto, dai dipinti del Marieschi o dei Longhi alle
gioie del poeta, dall' arrivo del Frugoni a Venezia agli scherzi
sulle geste di Alessandro, da un incendio, o da un parto, ai
giardini francesi, o alle mode. Anche qui il Gozzi difende Dante
e Petrarca, e scrive acutamente: " La poesia è imitazione di
natura „; " i versi sono un linguaggio; la poesia sta nell'in-
venzione piuttosto che nelle parole „. Anche qui desidera soprat-
tutto il perfezionamento delle arti e delle scienze utili all'uomo.
Ma più audace e originale si dimostra, come sappiamo, dove
DELLA " GAZZETTA VENETA „ 233
ragiona della educazione. La vita delle calli e dei campii dei
caffè e dei teatri, penetra nella letteratura e vi scaccia per sempre
ogni ricordo del Seicento e dell'Arcadia. Leggendo la Gazzetta
Veneta del Gozzi par di leggere qua e là i diari inediti di Piero
Gradenigo, ma la rozza cronaca del tempo si è trasformata in
arte letteraria.
Volete vedere una callctta veneziana del Settecento? " La
calle del forno a san Polo è quale io la descriverò al presente.
Larga, lunga, diritta, con molte casipole di qua e di là, abitate
da certe donnicciuole, le quali tutto il verno stannovi dentro
intanate, e quando la stagione comincia a migliorare, escono a
guisa di lucertole, e portate fuori loro sedie impagliate, met-
tonle agli usci, e fatta sala della via, una fa calzette coi ferr.uzzi,
un' altra dipana, quale annaspa, qual cuce : insomma tutte fanno
il loro mestiere particolare e in ciò sono divise, ma parlano in
comune dallo spuntare fino al tramontar del sole; e per giunta
al cicaleccio, avvi anche una maestra di scolari, la quale non
sapendo in qual altra dottrina ammaestrarli, tirando orecchi,
dando ceffate e con le aperte palme cularelli percuotendo, inse-
gna loro a stridere e a gridare quanto esce loro dalla gola;
tanto che talvolta si ode un coro di fanciulli che piangono, di
donne che rinfacciano la sua crudeltà alla maestra, e di maestra
la quale fa le sue difese „. Come il campiello goldoniano, non
si dimentica più la calle del forno descritta da Gasparo Gozzi,
dove la zuffa femminile vien preparata fin da principio.
Le baruffe popolari tengono un gran posto anche nella
Gazzetta^ insieme col vino in cui di solito si chetano e an-
negano: e il Gozzi sorride con sempre nuovo umorismo. È
di notte : passa egli il ponte di Rialto, " ed eccoti una brigata di
femmine che si dicevano un monte di villanie, con una furia
che le parole si frangevano ne' denti... Dietro al tuono cominciò
la gragnuola. \J occhio non tirava tanto lunge, ma 1' orecchio
mi diceva: questo è uno schiaffo, questo è un pugno „. Ride
altrove il buon conte di " certe palme di uomo che pareano di
acciaio „, di " certi piedi pesanti come magli „; ride d' una mano
" con certi calli di porfido „, d'una ceffata " che suonò come
un timpano „, d'uno schiaffo " che fé andare qua e là „ un
insolente " come un tordo impaniato fino alla scala della chiesa
di San Salvatore „. L'umorismo del Gozzi scintilla spesso in
una immagine, in una frase, in una parola. Vediamo " compa-
rire „ una dama " con uno squadrone di serventi „ ; un tale
234 PER LA RISTAMPA
se ne va via inosservato " cheto, fra uomo e uomo „ ; un altro,
per maraviglia " rimase come una figura intagliata „; due finti
bravi " invocarono la gagliardia delle ginocchia, e posero le
punte de' piedi dove prima avevano poste le calcagna, con una
agilità, che pareano daini „ ; un giovinotto pien di paura " salì
le scale come un uccello „ ; " la festa de' putti fu uno strepito
di mare in burrasca „; l'infermo, alla vista del pazzo " balzò
fuori del letto con una gagliardia che parve un lottatore „; la
vedovella ordinò al sarto un vestito nero, e si ricordò " fra
lagrima e lagrima delle pieghe, delle maniche, e di ogni altro
artificio „ ; l' ubbriaco " borbottò lunga pezza all' uscio „ di
casa, che non si apriva " e, non potendosi più reggere sulle
ginocchia, andato oltre pochi passi, pensò di coricarsi sulla via,
che gli parve forse una camera „.
E lascio gli insegnamenti del padre al proprio figliuolo,
scendendo dal ponte di Rialto; lascio -la letterina all'amante,
cominciata dalla figlia e finita dalla madre, vero modello di
finezza femminile e di ridicole sgrammaticature; lascio la no-
vella notissima del calzolaio beone e la notissima vincita al
lotto di alcune femminette presso alla " corte di ca' Barozzi „.
11 Gozzi fa muovere per un istante la folla con vivacità spiri-
tosa. Ricordate la scena dell' ubbriaco che si addormenta in
casa altrui? La donna, spaventata al vedere il letto occupato
" va alla finestra, grida accorr' uomo; i putti piangono come
disperati; tutta la vicinanza: che sarà? che vuol dire? presto
arme, spuntoni, archibusi. Corrono all' uscio della donna, sal-
gono le scale a squadre e giunti in sala, udito dell' uomo nella
stanza, pensano a chi dee andare avanti; finalmente due pian
piano mettono il capo dentro e vedendo che il nemico dormiva,
vanno là e gridano: tu se' morto; ed egli russa per risposta.
Allora seguono tutti e fanno un rumore e uno schiamazzo che
si sarebbe destato il sonno „. Vi è un po' del sorriso manzo-
niano. E il Fossi non si presenta a noi come il sagrestano di
don Abbondio? " Tanto picchiò di forza e tal rumore fece
all' uscio, che finalmente ruppe il sonno nella testa al Fossi, il
quale uscì mezzo attonito come un tordo, con le brachesse in
mano, e domandando: chi è là? alzava una gamba per metter-
vela dentro „. Sapete che pensa il Gozzi della segretezza delle
donne? " Che importa s'esse dicono volentieri i fatti altrui?
la vera segretezza è quella che tace i propri ; e dicane ognuno
che vuole, ma io mi torrei piuttosto 1' obbligazione di trar fuori
DELLA " GAZZETTA VENETA „ 235
dalla terra con le sole braccia una quercia di quarant* anni, che
un segreto dalla bocca di una donna, quando non lo vuol dire „.
Sapete che pensa dell'avarizia umana? " Non vi è uomo, per
ricco che sia, o vestito di oro e di argento, che vedendo un
zecchino per via in qualunque immondezza, se non fosse osser-
vato, non si chinasse a ricoglierlo o almeno non gli lasciasse
su gli occhi passando „. E non è un piccolo capolavoro, una
visione goldoniana, V imbarco dei cantanti e dei ballerini in
partenza sulla riva di San Moisè?
Ma a questi tocchi felici, a questi brevi schizzi e bozzetti,
a questi scorci e ritratti si arresta V arte del Gozzi ; né dob-
biamo chiedergli di più. Il Gozzi non sa dare vita durevole a
nessun personaggio, non conosce il mistero che ogni uomo, per
quanto umile, porta dentro di sé, le sue figure cadono facilmente
neir indeterminato, nelF allegorico, nel vuoto. Quando poi vuol
rifare Luciano, riesce soltanto noioso. Al Gozzi se mai, e non
al Goldoni, si può accostare Pietro Longhi. Il Goldoni fa par-
lare i suoi personaggi e con due parole ci pianta vivi davanti
agli occhi il rustegOj la masséra, Pantalone, siora Lugrezia,
Titta Nane, Mirandolina. Il Gozzi é pittore di miniature, un
gentile e arguto artista del Settecento veneziano; ed é, di più,
un indulgente osservatore e correttore dei difetti umani, un
dolce educatore, come volle essere, uno scrittore popolare.
Di Carlo Goldoni ricorre spessissimo il nome nella Gaz-
zetta Veneta: il Gozzi parteggia sempre per il grande comme-
diografo, con molto dispetto del fratello e degli amici Granel-
leschi) e qui, subito dopo la prima recita, loda la commedia dei
Rusteghi^ bene accorgendosi che é nato un vero capolavoro,
iniziando con una breve e sagace analisi la critica del teatro
nel giornalismo italiano: lodala Casa novay\o^3i\2i Bona mare'y
qui stampa i famosi versi di Voltaire al Goldoni: mentre si
diverte a scherzare alle spese dell' abate Chiari. Presago del-
l' avvenire, dice a proposito della Buona madre che il Goldoni
" in questo genere di commedie non verrà forse mai pareggiato
da alcuno... Il dialogo è della stessa natura ch€ parla, per modo
che gli spettatori non si ricordano punto d'essere assistenti ad
una rappresentazione : ma sembra loro aver parte in que' ragio-
namenti. Questa é la più bella e la più difficile qualità d' un
componimento comico „. Con tah parole che scolpiscono e cele-
brano r arte del maggior figlio di Venezia, si chiude la Gaz-
zetta Veneta.
236 PER LA RISTAMPA DELLA " GAZZETTA VENETA „
Si chiude, voglio dire, la Gazzetta di Gasparo Gozzi, quella
che oggi si ammira come opera letteraria. Il foglio continuò ad
uscire, prima con lo stesso titolo, e poi con quello di Nuova
Gazzetta Vetteta, fino al termine del settembre 1762. Dai 4 feb-
braio '61 ai 18 agosto '62 il conte Gasparo pubblicò Y Osserva-
tore Veneto, anzi gli Osservatori Veneti, come il foglio da ultimo
si intitolava. Il primo di ottobre '63 il Baretti cominciò a bran-
dire a Venezia la Frusta letteraria e V agitò due volte al mese
fino ai 15 di gennaio del '65. Il primo giugno '64 era sorto per
opera della giovanile Società dei Pugni di Milano il Caffè, che
stampavasi pure nello Stato veneto, a Brescia; e durò tutto il
mese di maggio del '66, uscendo ogni dieci giorni. Così l'Italia
ebbe alfine nel giro di pochi anni ben quattro giornali di cui
molte pagine trovano ancora lettori, e vivranno per lunghe ge-
nerazioni: tutti e quattro, si badi, inspirati, almeno nel loro
inizio, al ricordo dello Spettatore inglese.
Il fervore della stampa periodica aumentava oramai verti-
ginosamente. In un mio elenco, certo incompleto, che ho sotto
gli occhi, posso contare nella seconda metà del Settecento ben
ventinove giornali di vario genere nella sola città di Venezia:
fra cui la Gazzetta Urbana Veneta risorta, dirò così, nel 1787.
È vita pur questa, s' io non erro. Pur troppo il grande giornale
politico, il grande giornale illustrato, la grande rivista scientifica
o letteraria non potevano crescere nel suolo italiano. Oltralpi,
nel 1777, fondavasi il Giornale di Parigi, il primo quotidiano
in Francia; nell' 88 un altro giornale, nato sul Tamigi tre anni
prima, assumeva il. nome, famoso in tutto il mondo, di Times.
Ma ecco l'Sp! Ecco a Parigi il giornale rivoluzionario, la " tri-
buna di carta „ diranno i fratelli Goncourt, " più ascoltata, più
tonante, più regnante „ della tribuna di Mirabeau o di Maury.
In Germania sulle colonne dei giornali altre battaglie combat-
tevano per r arte Wieland, Schiller e Goethe, finché i fratelli
Schlegel bandirono neìV Ateneo (l'jgS) alle nuove generazioni a
cui la rivoluzione sconvolgeva il cuore e il pensiero, il pro-
gramma ardente del romanticismo. Così si annunciava il secolo
decimonono.
Il titolo di questo scritto allude alla ristampa della Gazzetta compiuta con molta cura
nel 1915 dal più illustre e devoto studioso del Gozzi, Antonio Zardo, per la Biblioteca di
Classici Italiani del Sansoni, a Firenze.
COME SORRIDE IL GOZZI
L'opera letteraria di Gasparo Gozzi incomincia propria-
mente nel 1750 allorché, incoraggiato dallo stesso Procuratore
Marco Foscarini, stampò le Lettere diverse y dov' è il famoso
invito in villa al Seghezzi e il più antico dei sermoni in versi :
per primo il Goldoni con spontanea effusione salutò pubblica-
mente in pieno teatro, per mezzo del Cavaliere di buon gastOj
il nuovo scrittore. Le Lettere diverse, di cui uscì un altro tomo
nel '52, si ricongiungono poi direttamente alla Gazzetta Veneta
(febbr. 1760 -genn. '61) e 2\V Osservatore (febbr. 1761 -ag. '62):
come la Difesa di Dante (1758) alle letture che solevano fare
i Granelleschi e alla stampa del poema pei torchi dello Zatta.
Noi abbiamo un bel ricantare le solite nenie sulla decadenza
veneziana, suU' apatia e abulia di Gasparo Gozzi, sullo spettro
della morte che interrompe il perpetuo carnovale del popolo di
San Marco, ma ripensando a tutto quello che scrisse e tradusse
e stampò il buon Conte, in versi e in prosa, tra il '50 e il '62,
mentre trovò pure il tempo di aiutare il Foscarini e per la sua
Letteratura Veneziana e per altro, di fare anche un po' di scuola
e d' accozzar qualche raccolta d* uso, io ne provo un senso quasi
di pena e di spavento; e. ammiro umilmente questo compagno
del Goldoni e del Tiepolo, questo magro e ossuto lavoratore
dell* antica Venezia, quest' altro degno attore del rinnovamento
italiano, precursore del Baretti e del Parini.
Egli fu soprattutto un artista, ma sempre più cercò di dare
air arte sua un contenuto pratico e morale, e cercò di renderlo
sempre più serio e profondo, studiando non tanto il costume
della sua Venezia, quanto il cuore dell' uomo, per migliorarlo.
Di ciò gli va tenuto conto: egli avvicinò finalmente senza sguaia-
taggine la letteratura al popolo, ben prima del Romanticismo;
infuse arte e vita nel giornale, prima che in Francia; iniziò.
240 COME SORRIDE IL GOZZI
dopo la recita dei Rusteghi, la cronaca e critica del teatro.
Sbagliò spesso, come succede pur ai migliori, si smarrì in qual-
che sentiero cieco, abusò di allegorie, riuscì tante volte prolisso
e noioso, ma non fece le capriole in mezzo alla piazza per
attirar gente, non disse le parolacce e non inveì contro nessuno,
non brandì la sferza, non usò l' ironia, fu un educatore mite e
sorridente, fu un critico arguto e indulgente degli altrui difetti
e dei suoi, persuase col suo esempio la calma e il buon senso,
corresse, non respinse mai. Il Gozzi non appartiene ai grandi
scrittori per potenza di pensiero o di stile, ma riuscì tuttavia ori-
ginale; non scoperse nessun angolo di un mondo ignorato, ma
rivelò interamente se stesso, e ci basta: seppe mostrarci la propria
anima, le proprie contraddizioni, le proprie debolezze, le pro-
prie amarezze, come gli altri non osavano. E della società che si
agitava intorno a lui, disegnò con abile mano scorci e ritratti.
11 Gozzi è un descrittore quanto mai fine ed arguto, un
forte descrittore, se la forza consiste nella visione limpida e
vivace, quale non avevamo da molto tempo in Italia; e pochi
prima e poi lo superarono. Volete rivedere una bottega da caffè
al Ponte di Brenta, piena di nobilomeni e zentildonne in villeg-
giatura? Leggete questa lettera del vecchio scrittore alla Tron,
da Noventa Padovana: " Questa Noventa è un paese che mi
piace assai. Il luogo dove io sto, è ritirato, e con pochi passi
chi vuol mondo ne ritrova. lersera andai alla bottega al Ponte.
Oh quanto fracasso! Io, poveruomo, attorniato dalla grandezza
di tanti, appena inginocchioni ho trovato chi ascolti le mie pre-
ghiere per ottenere un'acqua di limone, in un'ora e un quarto
di tempo. Ebbi almeno la consolazione di farmi veder vivo all'Ec-
cellentissimo procuratore Morosini, il quale mi vide con molta
cordialità. Udii il vocione dell'Eccellentissimo Vallaresso in bot-
tega, e andai a presentarmegli : n' ebbi anche da lui tanta cortesia
da potermi contentare „. Il senatore Alvise Vallaresso era figliuolo,
s' io non erro, del famoso Zaccaria, e aveva otto figliuoli, beato
lui!, vivi e sani: sei maschie due femmine. " Sedeva appresso
di lui la Marchesina, eh' era venuta poco prima, guidando sei
cavalli come l' Aurora. Di lì a poco vidi apparecchiarsi fuori
della bottega molti tavolini da giuoco, e giuocatori a quattro a
quattro, con qualche giuocatrice delle piuttosto abbandonate
dal mondo, ma che con animo imperterrito, a dispetto di certi
visi e qualcuna dell' età, non vogliono abbandonar lui „ *. Pec-
cato mancasse un altro vecchio, il Goldoni, così lontano!
COME SORRIDE IL GOZZI 24 1
E questo viaggio notturno nel burchiello da Venezia a Pa-
dova, viaggio che durò quindici ore, lo ricordate? " . . Io poi
non ho creduto mai d' essere tanto ricco, quanto mi sono tro-
vato stanotte, fra casse, forzieri e tante bagaglie, che appena
ebbi luogo per me e per un gatto in una gabbia, che da astuti
ci prendemmo il sito migliore. Così va il mondo. Quelle acque
che nei giorni passati videro il trionfale passaggio di sommi
pontefici, di cardinali, di vescovi „ così allude al recente viaggio
del Pellegrino Apostolico^ Pio VI, " si ridussero stanotte ad un
solo burchiello, con dentro un vecchio poeta che mettea in versi
nel suo cuore bestemmie e disperazioni „ =,
Egli fu debole, in mezzo agli uomini, ma onesto e buono:
per questo lo amiamo. " Filosofo „ lo chiama il fratello " ma non
senza un'umana sensibilità che appariva di quando in quando
sugli occhi suoi „ 3. S' indovina che, a differenza del fratello
Carlo, ebbe le carezze e gli affetti della madre. C è pure in lui
la coscienza dell' uomo moderno, del nuovo italiano. C è pure
un' ombra di malinconia ma, quando scrive, è beato 4. Rispet-
tiamo, come dissi ancora, l' umile felicità di Gasparo Gozzi :
egli creò all' Italia, prima del Baretti e dell' Alfieri, la prosa
moderna. Provatevi un po' a mettergli da vicino gli altri scrit-
tori! Fu quello il suo tesoro, l'unico che gelosamente serbasse
per tutta la vita, fra le miserie della lotta domestica, nella soli-
tudine degli ultimi giorni. Egli ne aveva rapito il segreto, con
lo studio e con la lettura, ai modelli antichi e agli autori fran-
cesi; e lo affidò alle nuove generazioni.
Quando ebbe sollevata la penna dall' ultimo foglio dell'Os-
servatore^ nell' agosto del 1762, solo quattro mesi dopo la par-
tenza del Goldoni per la Francia, sentì ch'era finito per sempre
il periodo della sua attività letteraria. Egli accettò dalla patria
un modesto ufficio e sopravvisse ancora 24 anni, logorando
l'ingegno più per gli altri che per se, o aspettando la morte.
Così scherzava, nell' 82, sui novissimi scrittori : " Voi avete il
vantaggio che in un fibro moderno imparate l' inglese, il fran-
cese, il tedesco, tutto ad un tratto, altre alla metafisica e a tante
altre dottrine che sono una maraviglia „. Povero vecchio ! Cion-
dolava, appoggiato al bastone, per le vie di Padova sulle sue
gambe lunghe e stecchite, tremando se mai vedesse avvicinarsi
uno di quei cento professori con la bocca piena di latino. * E
per più farmi disperare a questi dì ho veduto sempre gente a
correre, chi a cavallo, chi a piedi, tutti furia, fretta, cavalli, lac-
G. Ortolani. ' 16
242 COME SORRIDE IL GOZZI
che, e fino le femmine per tutte le strade parevano Atalante.
Pensate io, pover'uomo, che figura ho fatta per le strade, an-
dando quasi zoppiconi, o il più il più come la statua Calmon
in commedia „. Allude alla fiaba deW Auge l lino Belverde. I me-
dici poi gli incutevano il massimo terrore: " Qui ci sono più
dottori che infermi... La popolazione par qui piantata non da
Antenore, ma da Esculapio... Manco male ch'io sono stato sano
come un pesce „. L' umorismo di Gasparo Gozzi è così. Dalle
beghe di quei dotti uomini stava pure lontano. " Tutti s'odiano
come cani arrabbiati, e sono veramente una repubblica lette-
raria „. Cercava la solitudine: " Vo visitando campi, orti, sponde
di fiumi, e parlo conigli uccelli del cielo „: si sentiva ancora
poeta. Ritrovava allora la gaiezza degli antichi anni, sorrideva
come un bambino 5. « Se credete di vincermi colla spaziosa
grandezza della vostra carta „ comincia una lettera " v'ingan-
nate. La mia è una vela, ed eccovene il saggio. Pure con tutto
questo immenso foglio davanti agli occhi miei, non mi trovo
cosa da scrivervi „. E dopo due pagine di chiacchiere: " Foglio
caro, io sono stanco, e la testa mi va attorno „.
È buono il Gozzi, ha un' aria trasognata da ragazzo buono :
guardatelo nel ritratto inciso dal Bartolozzi che la figlia Elena
diceva così somigliante che, " vedendolo, le pareva di toccarlo
colle proprie mani e di averlo ad essa presente „, come ricorda
in una nota inedita il Cicogna ^. Quante volte non si descrive
egli stesso? " E voi vedete me così lungo lungo, un po' fatto
in arco nelle spalle, con le braccia fino alle ginocchia, col mio
viso intagliato, malinconico, taciturno, incantato?,,?. E s'egli
si lagna qualche volta, nelle lettere e nei sermoni " ^i questa
lunga seccatura del vivere „ e si paragona a Giobbe, ascoltiamo
fraternamente i suoi dolori, anzi fissiamoli bene nella memoria.
Mentre dai più giovani lettori si ricercavano con amore le sue
opere, intorno a lui cresceva il vuoto: tutti lo abbandonavano
ormai s, fuorché i malanni 9. I suoi occhi azzurri, che andavano
spegnendosi, vedevano solo due immagini care aggirarsi nel-
l'ombra ^°: quella di Sara Cénet, la Francese che vangava di sua
mano l'orto di casa, e seminava " erbe e legumi con tanta dili-
genza che pareva che ricamasse „, e quella della bionda Pro-
ctir atessa Dolfin Tron.
Chi sono queste due donne?
AGGIUNTE E NOTE
Ho aggiunto questo Frammento perchè serve a compiere il ri-
tratto di Gasparo Gozzi. Siamo tanto abituati a ricercare i difetti e i
^' limiti „ negli scrittori, quello che non hanno fatto e non potevano
fare, che spesso lasciamo nell' ombra quello che veramente fecero
e quello che furono.
^ Opere del Conte Gasparo Gozzi Viniziano^ Padova, 1820, voi. XVI,
pp. 121-122
a Opere, 1. e, p. 140.
3 Carlo Gozzi, Memorie inutili, Bari, 1910, voi. I, p. 105. - Rileg-
giamo attentamente questi preziosi accenni del mordace conte Carlo,
se vogliamo conoscere il carattere, sia pur nelle tinte caricato, del no-
stro autore. " Mio fratello Gasparo s'era già ammogliato per una geniale
astrazione poetica. Anche la poesia ha de' pericoli. Quest' uomo ve-
ramente particolare per la sommersione che fece di tutto se mede-
simo sui libri e nelle indefesse applicazioni letterarie, non meno che
neir essere uno di que' filosofi che si possono chiamare persone
indolenti in tutto ciò che non sente di letteratura, apprese da Fran-
cesco-Petrarca ad innamorarsi „ (p. 43). Ricordiamo i savi ammoni-
menti di Carlo al fratello, dopo la morte del padre, nel consegnargli
il denaro avuto in prestito dall' amico di Padova. " Egli accolse il
danaio ed il mio discorso come un uomo che ha quel buon animo
e queir intelletto che non se gli può negare. Mi disse che vedeva
pur troppo la necessità di porsi alla testa d' una amministrazione
disordinata, per riordinarla con una maschia costanza; ... ch'era di-
sposto ad abbandonare delle applicazioni non intese e non premiate
in Italia, per attendere con maturità e fermezza a regolare e ad am-
ministrare le cose domestiche „. Ma questi forti propositi sfumarono
tosto di fronte al " genio faccendiere, dominatore, inquieto ed acceso
della di lui consorte „ e al dèmone della poesia (pp. 128-129). Ve-
diamo ancora questo quadretto, dopo che Carlo si separò dalla fami-
glia: " Alle mie visite, ingenue e cordiali dal canto mio, la madre mi
chiedeva qualche piccola somma di danaio a prestanza con sostenu-
tezza materna... La cognata si sforzava a caricarmi di qualche affettata
246 COME SORRIDE IL GOZZI
adulazione. Le sorelle mi guardavano con occhio di vero affetto, ratte-
nuto da non so qual soggezione, e il fratello m' accettava come un
filosofo che non si cura di veder nessuno mal volentieri „ (p. 154). -
Ascoltiamo pure quella lettera accorata di Gasparo alla Tron, nel '71,^
eh' è sfogo e confessione: " ... Le ricordo solamente, che chi vuole
aiutar me ha un' impresa difficilissima, perchè ha da contrastare con
una mala fortuna incallita d'anni cinquantasette e dieci mesi... Quanta
ho di buono, è un poco di romanzesco all' animo... La storia della
mia vita è lunga ; ho veduto in essa piìi volte aprirsi la via a qualche
speranza: poi, buona notte, si spense il lume. Ognuno da' suoi figliuoli
attende consolazione: io non ne aspetto, benché non sieno senza
ingegno. Ho una madre erede, che pel grande amore per me non
ha voluto abbandonarmi mai, e si dispera se ho un callo ; poi dà ad
altri, e crede, anzi dice che dà tutto a me... Ho anche qualcosa che
mi conforta: una pazienza datami da natura, che mi rende un pila-
stro ; un aver veduto mille volte passar le disgrazie eh' io credea
dovessero durar eterne; un sapere di far tutto quel che posso, per
stare quieto di coscienza; e finalmente un conoscere che il mondo
dee andare come va, e eh' io non sono uomo da farlo voltare „
{Opere, voi. XVI cit., pp. 195-196).
4 " Quello stesso correre che pur fea al calamaio con la mano
e alla penna „ dice il Pindemonte " sempre che alcuna cosa gli
avvenia di traverso, era una spezie di forza „. E soggiunge: " Di
natura lieta e querula insieme, esagerava nelle sue scritture i suoi
mali forse anco per questo, eh' ei sapea lamentarsi con grazia „ :
Elogi di letterati italiani scritti da Ippolito Pindemonte, Firenze, Bar-
bera, 1859, p. 406.
5 « Mio fratello eh' era d' un genio lepido anche con la febbre „
dice Carlo: Memorie inutili ed. cit., I, 105. - E lo Zendrini diceva
al Pindemonte " che il Gozzi avea le piìi volte una faccia severa e
ridente, che il suo umore traea sempre al gaio ed al motteggevole,
e che r udirlo parlare tornava presso che allo stesso, che il leggerlo „ :
1. e, p. 406.
6 Trovasi in un volume di ritratti della Raccolta Cicogna presso
il Museo Correr.
7 Opere di G. Gozzi con note di N. Tommaseo, Firenze, Le Mon-
nier, voi. Ili, p. 365 (da una lettera a Marco Forcellini). - " Chi da
vicino il conobbe, cel rappresenta d'alta statura, magro e pallido in
volto, pensieroso il piiì, e melanconico. Nondimeno ebbe sempre,
com' egli stesso dicea, un certo risolino interno che mantenevalo in
vita, e per cui nelle gentili brigate dava in motti salsi a quando a
quando e faceti „: Pindemonte, 1. e, p. 402.
8 " Ho tre figliuole, un figliuolo, qualche sorella, più generi, un
nipote e molti conoscenti: non vedo due righe „: così lamentavasi
nel dicembre dell' 82. Opere, 1. e, p. 168.
COME SORRIDE IL GOZZI 247
9 " ... La sanità sua, massime negli anni ultimi, non era mai
ferma. Quando alcuno, come state? gli domandava, un sospiro e
un' alzata d' occhi al cielo, eran la sua risposta „ : Pindemonte, 1. e,
p. 402.
»° Ricordo un bello e arguto scritto di Renato Simoni, Un
giornalista e quattro donne nel settecento', numero straordinario della
Gazzetta di Venezia nel secondo centenario della nascita di G.
Gozzi.
V AMORE DI GIUSTINIANA WYNNE
Riccardo Wynne, di antica e nobile famiglia inglese, mor-
tagli la moglie, venne a Venezia nel 1735, in cerca di svago.
Qui si innamorò di una giovane greca delle isole ionie, e ne
ebbe nel gennaio del '37 una figlia: Giustiniana. Legittimò la
sua unione e il frutto dell'amore; e a Venezia morì nel '51,
convertito alla fede cattolica '. Anna Wynne, rimasta vedova,
si recò a Londra, per difendere dalla cupidigia de' parenti i
beni ereditati, traendosi dietro Giustiniana e i quattro figliuoli
minori, due maschi e due femmine. Tornarono presto a Venezia
e abitarono al traghetto della Madonnetta, vicino al palazzo
Tiepolo, ora Papadopoli. Fra i quindici e i diciott' anni fiorì la
mirabile bellezza di Giustiniana: la ricca e nera capigliatura
dominava il volto di pura perfezione greca, ora illuminato da
quella grazia tutta dolce e voluttuosa della donna veneziana del
Settecento, ora percorso da un' ombra di nostalgia nordica che
turbava 1' anima sensuale e romantica della strana fanciulla. Il
linguaggio inglese che le era familiare, le molte letture francesi^
i ricordi incantevoli di Parigi e di Londra, l'intelligenza, la vi-
vacità accrescevano il suo fascino. Frequentava, in compagnia
della madre, il palazzo del console inglese Giuseppe Smith sul
Canal Grande, ai SS. Apostoli, insigne per le rare collezioni
d'arte. Questo dovizioso mercante a cui il Goldoni dedicò nel
'57 una delle sue commedie (// Filosofo Inglese) e il Canaletto
il libro delle sue Vedute o acqueforti, trafficava in Inghilterra
con ingente guadagno sulle tele e sulle stampe dei pittori e
incisori veneziani,^ e impiegò alcune somme nelle famose edi-
zioni della tipografia Pasquali ^. In casa dello Smith, nel '53,
conobbe Giustiniana il giovane patrizio Andrea Memmo 3, e tale
incontro le riuscì fatale per tutta la vita. - Uno studioso intel-
ligente, appassionato e fortunato della storia del teatro e del
252 L AMORE DI GIUSTINIANA WYNNE
Settecento veneziano, Bruno Brunelli, scoperse di recente nella
biblioteca del Museo Civico di Padova due volumetti di lettere
di Giustiniana ad Andrea, raccolte da un anonimo copista forse
con l'intenzione di darle alla stampa; e intessendo sul prezioso
epistolario il racconto di quell' amore lontano, ne formò uno
dei libri più belli e più originali della bella Collezione Settecen-
tesca, diretta da Salvatore di Giacomo 4. Non romanzo, ma vita
vissuta, vero dramma d'amore, con i suoi deliri, con le sue
lacrime, con le sue vergogne, di un' infinita tristezza umana.
J^e lettere cominciano nel '56, quando la passione era già
grande, ingigantita dagli ostacoli. Fra i due giovani esistevano
differenze religiose e sociali insuperabili 5. Il discendente dei
Memmi, tre volte incoronati dell' aureo corno dogale, come dice
il Goldoni nella dedica ai fratelli Andrea e Bernardo dtWUomo
di mondo', il nipote di quell'Andrea che bailo a Costantinopoli
e chiuso " in carcere nelle Sette Torri, esigeva stima e rispetto
sino dai Ministri Ottomani „, non poteva sposare una fanciulla
di fede anglicana, figlia di un semplice baronetto e di una greca.
La signora Wynne impedi al Memmo le visite e tenne Giusti-
niana sotto la più severa custodia; ma era troppo tardi. Quale
tormento per i due innamorati, costretti a vedersi di sfuggita,
da un balcone o da una gondola, ed a sfogare in lettere furtive
i propri lamenti ! L' anima di Giustiniana si scioglie d' amore ;
essa è pronta a tutti i sacrifici, ha perduto la sua vivacità, il
suo orgoglio, la sua civetteria femminile. Trova quasi un godi-
mento nel confessare la propria debolezza: " Dimmi, Memmo,
sei interamente di me contento? posso obbligarti ancor di più?
Vorresti qualche riforma nel mio contegno, nel mio modo di
vivere? Parla: farò tutto quel che vorrai... Non avrei mai cre-
duto, che si potesse amare colla violenza colla quale t' amo.
Tutto è in me eccesso. La coqiietterie faceva tutto il mio diver-
timento, e mi tenea forse luogo d' una passione reale. Ora appena
son capace di esprimere alle persone le più semplici politesses'.
tutto m' annoia, tutto m' infastidisce. Tutti mi dicono che son
divenuta stupida, sciocca, e che non son più buona per tratte-
nere alcuna compagnia: me ne accorgo anch'io: e non ci penso
niente affatto „. È molto dimagrita, soffre, ma quale felicità sa-
persi amata dal Memmo! " Dimmi tutto ciò che per me senti,
ed anche aggiungi qualche cosa alla verità, se vuoi, che nel mio
caso presente per rasserenarmi te lo permetto. Non posso più.
Che rabbia, che dolore, che passione eccessiva I „.
L AMORE DI GIUSTINIANA WYNNE 253
Un giorno i due innamorati poterono furtivamente incon-
trarsi e camminare l' uno accanto all' altro, parlando d' amore.
" Che soavità è mai 1' essere teco! Dio santo! „ grida con tutta
l'anima la fanciulla. " Eh che lo vedi, eh che sai che m'incanti,
che son fuori di me affatto „. Ma spesso la pungeva la gelosia.
Tutti si meravigliavano come Giustiniana avesse potuto strin-
gere a sé il giovane idoleggiato dalle dame per la sua bellezza
e la sua eleganza, ricercato dagli uomini per la sua intelligenza^
per la sua coltura, per il suo spirito, amantissimo dei piaceri,
leggero, volubile, insaziabile nelle follie amorose: il suo " caro
matto „, come lo chiamava ella stessa. È gelosa, ma lo ama
tanto. " Oh lasciati oggi vedere a Ca' Tiepolo, e spesso per
Canale, e scrivimi assai... Addio, méchant... Lascia che ti dica
con tutta la mia rabbia che sei l'anima mia, che t'adoro. Addio „^
La corrispondenza riprende più viva che mai durante la
villeggiatura al Dolo. Il Memmo è a Padova, e per qualche
tempo fu anche ospite dello Smith, nella famosa villa di Mo-
gliano. La famiglia Wynne trovasi nella villa " delle Scalette „.
poco lontano dai Renier e dai Mocenigo. Giustiniana scrive al
suo amore lontano; " Se sapessi come adesso ti scrivo! par
impossibile. Sono in uno stanzino sopra la loggetta, ove mia
Madre è seduta. Per non darle sospetto, canto, e suono, e quasi
ad ogni minuto m' affaccio alla finestra. Che vita, Memmo, è mai
questa! „. Essa grida in frasi scomposte e ardenti la sua pas-
sione: " Addio, mio Memmo, mio tutto : amami all'eccesso; son
tutta tua, e ti sono lontana; e non ho altro bene che 'l mio
Memmo, e siam liberi, e sono 1' anima sua, e viviamo in questa
situazione!... Addio, mio Memmo, anima mia, non posso lasciarti.
Oh Dio, amami assai. Oh Dio! che miseria, Memmo! „. La bel-
lissima fanciulla passeggia sola per il giardino, parlando al ri-
tratto del Memmo che stringe fra le mani gelosamente. Pare
una scena del teatro di Marivaux o dei romanzi di Prevosti
Di notte dorme poco: " lo strepito delle carrozze, al quale non
era avvezza „ interrompe i suoi sonni. " Mi sono piìi volte
sognata teco „ scrive ad Andrea. Neil' alzarsi da tavola, una
persona amica le fa scivolare nelle mani una lettera dai carat-
teri noti : Giustiniana si ritira per beverne e assaporarne, parola
per parola, l' ineffabile dolcezza. Poi racconta al Memmo, in
francese: " J' étois nonchalamment couchée sur un lit, tenant
d' une main cette lettre, et de 1' autre ton portrait. Je lisois et
rehsois avidement 1' une, et je quittois des momens ce plaisir
254 L AMORE DI GIUSTINIANA WYNNE
pour avoir V autre de te regarder. Je serrois après l' une et
r autre contre mon sein, et des transports de tendresse succe-
doient à cela. Così a poco a poco m'addormentai... „. Oh Wat-
teau! oh Fragonard ! oh Settecento!
Andrea viene finalmente al Dolo, nella prossima villa dei
Tiepolo: Giustiniana Io vede più volte ripassare dal cancello
del giardino, ha con lui più di un colloquio, commette molte
imprudenze fin che le sorelle stesse la rimproverano, e più
acerbamente la zia. Ella stessa si vergogna della propria debo-
lezza confessandosi al Memmo : " Per carità non mi disprezzare.
Mi vergogno a dirlo, ma sento che merito piuttosto la tua pietà,
che ogni altra cosa. E tu m'hai detto stassera che son troppo
debole, sai? Che ho a far dunque, s' anche a te sembro tale?
Oh Dio, Memmo, s' io son fuor di me, perchè non vuoi compa-
tirmi? Santissimo Dio, aiutami. Ma che sarà di noi? Che sarà
di me? Io tremo, Memmo, che '1 mio troppo amore non t'infa-
stidisca. Non ho altro che te, e non ne posso più. Ma come mai
son io divenuta pazza a questo segno? Per pietà, Memmo, scusa
in me la tua propria colpa „.
Per fortuna Andrea è chiamato a Venezia per la malattia
d'una sorella, ma torna presto. Giustiniana non sa più conte-
nersi, vibra tutta, anima e corpo, come le donne di Racine e
di Prévost. " S' io non divento pazza dall' eccesso del piacere,
della gioia, è veramente un miracolo. Tutto, tutto sento con
troppo eccesso „. Le sue parole traboccano d^ amore, mentre la
penna scorre sul foglio furtivo. " Addio, son chiamata a pranzo,
e credon eh' io dorma. Che dolce sonno ! Addio, mio tutto, addio,
anima mia. Amami assai, assai „. Altra volta, per mandare un
rigo, osservata e spiata com' è da tutti, ricorre a un' astuzia
degna d'un' eroina dei romanzi del Chiari. " Come vivere, Dio
mio, in questo modo? Adesso trovomi in una casa di contadini,
dove mi sono ritirata fingendo qualche necessità. Avendo meco
il bisogno, ti scrivo due righe... E tu, anima mia, come mi scri-
verai? Oh Dio, non ne posso più. Amami assai, mio Memmo,
per nostro maggior delirio. Addio „.
Della Giustiniana frattanto erasi invaghito senilmente il con-
sole Smith, che la signora Wynne accoglieva con mille sorrisi.
La fanciulla, forse compiacendosi, ne rideva con la fresca ilarità
dei suoi vent' anni, e raccontava al Memmo : " Non ho in vita
mia veduto Smith più ragazzo di ieri. Oltre all' avermi fatta
camminar tutta la mattina per 1' orto, e all' aver fatte le scale
L AMORE DI GIUSTINIANA WYNNE 255
saltellando, volle darne anche un' altra prova della sua agilità
e forza „ lanciando lontano delle pietre. La prova gli fallì, ma
" a tavola mi fece molte attenzioni, e mangiò più volte la metà
di ciò ch'io aveva preso „. La signora Anna ch'era molto de-
vota e rispettosa della morale, una morale tutta propria del
Settecento, s' intende, chiamò la figlia e per vincerne le resi-
stenze le impartì questa bella lezione: " Via, figliuola, datti
coraggio. Comprendo il tuo dolore nel dover perder un uomo
che adori... Se 1' ami, non vorrai per certo né la rovina sua, né
quella de' suoi figliuoli. Maritati, e poi continua un' amicizia,
che così t' é cara „. Che più? Lo stesso Memmo le consiglia il
matrimonio con lo Smith o con altri, e mette la disperazione
nel cuore della fanciulla. Fortunatamente lo Smith ha capito
troppo, e scompare: sposava poco dopo un'altra donna.
Al Dolo, Giustiniana erasi confidata con l'abate Marcellotto,
maestro dei suoi fratelli: l'amico del Baretti e dei Gozzi, uomo
dabbene di cui ci parla Antonio Longo nel quarto capitolo delle
Memorie) anzi lo aveva commosso a segno da fargli portare
più di una lettera in segreto al luogo convenuto; ma il buon
abate sollevava gli occhi e le mani al cielo, e trovò alfine la
forza di resistere alle preghiere e al bel pianto della fanciulla.
Del resto poco importava ormai. Finita la villeggiatura, rientrata
la famiglia Wynne a Venezia, anche il Memmo, stanco delle
difficoltà e travolto da nuovi svaghi, consigliava la prudenza a
Giustiniana che ne fu crudelmente ferita; e cessò ad un tratto
la corrispondenza dei due innamorati. Quando fu ripresa? L'esa-
sperazione della lunga lotta, le smanie della gelosia, la gioia
della riconquista avevano questa volta stremato del tutto 1' ap-
passionata anima di Giustiniana. Ella si abbandonò con trasporto:
quando poco dopo, verso 1' ottobre del '58, partiva con la fami-
glia per Londra, s' accorse di essere madre.
Del soggiorno parigino preferirei non parlare. A Parigi la
signora Wynne si trattenne molti mesi, godendo dell'ammira-
zione che suscitavano le sue figlie nei passeggi pubblici e nei
teatri. Giustiniana si vide corteggiata dal principe Dolgoruki, dal
principe Galitzine, dal bali Giuseppe Farsetti, elegante poeta
latino, dal famoso appaltatore generale La Poupliniére. Anna
Wynne prediligeva naturalmente quest' ultimo per le sue grandi
ricchezze, benché non contasse meno di sessantasei anni. Qui
entra in scena Giacomo Casanova. Ci sono fra gli uomini certe
nobili nature così privilegiate che chiunque può avvicinarle, si
256 l' amore di giustiniana wynne
sente migliore; altri all'incontro spandono intorno a sé vizio e
veleno, e insozzano tutto quello che toccano. Il Casanova, do-
vunque passa, lascia il fango della propria anima. Checché sia
dello sconcio episodio raccontato nelle Memorie ^, dopo eh' erano
scomparsi la Wynne e il Memmo, è certo che Giustiniana non
ha mai amato il Casanova: ella si rivolse all'eroe della fuga
dai Piombi e di tante losche avventure per far scomparire in
silenzio il misero frutto del suo amore. Il segreto mal confidato
trapelò e dilagò nel pubblico ozioso della capitale, se ne occupò
la polizia, seguirono processi, corsero infami voci fino sulle
lagune veneziane, il vecchio La Pouplinière sposò in fretta altra
donna: Giustiniana partiva con la famiglia da Parigi nel luglio
del '59, resa ancor più bella dai patimenti nel pieno fiore dei
ventidue anni, ma segnata per sempre nell' anima dal solco ver-
gognoso dello scandalo parigino. Come visse e dove finì il figlio
di Giustiniana Wynne e di Andrea Memmo?
Intanto continuava la corrispondenza epistolare dei due
amanti. Giustiniana non rivelò mai al Memmo il segreto della
maternità, anzi cercò di allontanare da lui ogni sospetto: pure
capiva che quell' uomo sensuale non 1' amava più, né tentò di
chiamarlo ancora a sé, come non ne fosse degna: lo diceva il
suo amico, il suo filosofo, il suo fratello. Da Bruxelles gli rac-
contava le sue nuove conquiste, forse per pungerne la gelosia:
credette, ma invano, di potersi innamorare del giovane conte
di Lanoy, ch'era al seguito del principe Carlo di Lorena: " L'in-
finita mia vivacità, il mio modo di muovermi, l' air de petite
Maitresse, che ho adottato per divertirmi, fece che egli mi rimar-
casse „. Era curiosa di conoscere, forse per suo tormento, i
nuovi amori di Andrea. " Se puoi, amami; ma dimmi chi ti
occupa adesso. Voglio saperlo col nome e col cognome, com'io
fo „. Tuttavia mentre cercava, come il suo filosofo, di stordirsi
e di illudersi in nuovi svaghi, finiva per confessare la propria
impotenza in un grido di sincerità femminile: " ... Perché t'amo
ancora orribilmente, e sembrami che tu possa rimproverarmi, e
quasi perder la stima che hai per me „.
A Londra finalmente s' innamorò, come credette, del barone
di Robinson, ventottenne, uomo, si direbbe, di moda, idolo delle
donne e della Corte; e confidò ancora al Memmo la propria
debolezza. Più volte, leggendo con avidità i primi capitoli del
Brunelli, mi tornarono alla mente le Lettere amorose di messer
l' amore di giustiniana wynne 257
Alvise Pasqualigo, libro strano e suggestivo del Cinquecento
veneziano : qui bisogna pensare a qualche triste pagina di Laclos.
Il Memnio, eh* era più che mai 1' " amante di tutte „ benché sazio
di tutte, chiede a Giustiniana quale di tre amiche deva per prima
sedurre; e Giustiniana gli consiglia apertamente la M., forse
Maria Teresa Dolfin, come sospetta il Brunelli, moglie di Marco
Antonio Zorzi, il gentile poeta vernacolo a cui Goldoni dedicò
i Pettegolezzi delle donne. La relazione di Giustiniana col Ro-
binson non dovette essere innocente; il nuovo impegno del
Memmo con la M. diventò serio. Neil' ottobre del 1760 la fami-
glia Wynne, lasciata Londra, si trovava di nuovo in Italia e il
cuore di Giustiniana ebbe un doloroso ritorno all' antico amore
e alla felicità distrutta per sempre. Da Milano mandò un saluto
al Memmo che incomincia: " Mon cher Frère. Non v'ho scritto
né a Parigi, né a Torino, perché senz'avvedermi m'era entrata
fantasia che mi sareste venuto incontro „. E da Padova: " Lodo,
ammiro la vostra gratitudine, la vostra amicizia, il vostro impe-
gno per r amabile M. e devo essere la prima ad applaudirlo...
Il sagrifìzio che le faceste nel non venire a vedermi, mi di-
spiacque. Ora vi giuro, che ho anch' io l' animo grande per
poter farle dono di questo mio dispiacere stesso „. Quale occulta
lacrima in questo dono!
Io credo che Giustiniana rivedesse con amara tristezza la
città dov' era nata. Ogni innocenza, ogni sogno, ogni amore erano
finiti per sempre : Giustiniana non viveva più 7. Pochi mesi dopo,
si univa in matrimonio col conte Filippo Orsini di Rosenberg,
ambasciatore cesareo presso la repubblica di S. Marco, vecchio
dissoluto, quasi settantenne, che nel '65 la lasciò vedova. La
nuova contessa di Rosenberg passò a Klagenfurt quattro anni
ancora, tornò poi a Venezia dove brillò per qualche tempo,
s' ingolfò nel gioco e nei debiti, si ritirò nella villa di Altichiero
dell' amico senatore Angelo Querini, a scrivere in francese certi
frammenti mor^ suggeriti da antichi ricordi, una novella sulla
regata veneziana, un romanzo sui Morlacchi 8; ebbe a Padova
un salotto frequentato dal Cesarotti, dal Sibiliato, dal cav. Zulian,
dal Toaldo, dallo Stratico 9: ma l'amico e compagno dei suoi
ultimi anni fu il conte Benincasa, confidente degli Inquisitori. Il
Memmo pure erasi sposato, ma prima del matrimonio, e dopo,
lo tenne avvinto per venticinque anni col fascino della sua incan-
tevole bellezza Contarina Barbarigo. Assunto alle cariche di
G. Ortolani 17
25B l' amore di giustiniana wynne
ambasciatore e di Procuratore, in mezzo alle cure della politica,
non tralasciò nella più tarda età i piaceri della tavola, gli studi
dell'arte e i bassi intrighi donneschi ^°; e morendo nel 1793,
due anni dopo della donna che gli aveva fatto il vano dono
della sua giovinezza e di tutta 1' esistenza, non riconobbe forse
mai il sacrificio che un pugno di lettere, sepolte in un archivio,
ci ha d' improvviso rivelato.
AGGIUNTE E NOTE
* Abitava nella Contrada di Santa Sofia: Notatorj Gradenigo,
25 aprile 1751.
2 Per più di venti anni, dal '39 al '60 Giuseppe Smith fu con-
sole d' Inghilterra a Venezia. Nella lettera dei 28 gennaio 1756 Ga-
sparo Gozzi descrive al compare Màstraca i pomposi funerali della
prima moglie dello Smith. Scherza lady Wortley Montagu in una
lettera dei 13 maggio '58 da Venezia alla contessa di Bute sul recente
matrimonio del vedovo console (eh' essa stimava poco) con la sorella
del residente Murray ; e gli attribuisce 1' età di 82 anni. Leggo questa
notizia nei Notatorj Gradenigo, in data 2 novembre 1761: " Il Sig.
Giorgio [?] Smith Inglese, dopo assai lungo soggiorno in Venezia,
dove eresse sopra Canal Grande nella Contrada de' SS. Apostoli
bella Casa di soggiorno, e degna del già sostenuto Consolato per la
Nazione Britannica, viene in oggi a disfarsene coli' esitare Stamperia,
Libreria ed altre rarità pregevoli, di cui ne andò sempre avidamente
al possesso; e ciò con indizio di andarsene a Londra, sebben giunto
a grave età „. Morì nel 1770 e fu sepolto nel Cimitero degli Inglesi
al Lido, accanto alla prima moglie (v. anche Goethe, Viaggio in Italia,
8 ottobre 1786). L' iscrizione dice : " losepho Smith j apud rempu-
blicam Venetam | consuli Britannico | optimo coniugi | memoriae ergo
I M. P. I Eliza: Murray | MDCCLXX „ (dalle Inscrizioni inedite del
Cicogna, presso il Civico Museo Correr: cortese comunicazione del-
l' amico Ricciotti Bratti). I suoi libri andarono in parte dispersi, ven-
duti dalla vedova (G. Gozzi, Opere per cura di N. Tommaseo, voi. II,
p. 270): quelli più preziosi, insieme con le stampe, coi cammei, coi
quadri passarono in Inghilterra, nel castello reale di Windsor (Mo-
schini. Della letteratura veneziana, t. III, p. 51). I viaggiatori De Brosses
e Grosley ammirarono le raccolte dello Smith. Nel 1749 il Pasquali
pubblicò la Descrizione de' cartoni disegnati da C. Cignani e de' quadri
dipinti da S. Ricci posseduta da G. Smith console di Gran Brettagna
a Venezia, con la Vita dei due ; e nel '55 la Bibliotheca Smithiana seu
Catalogus librorum D. Josephi Smithii Angli etc. Nel suo Saggio di
bibliografia veneziana (1847) il Cicogna ricorda pure il Catalogo de*
202 l' amore di giustiniana wynne
libri raccolti da fu Sig. G. Smith e pulitamente legati (Venezia, 177 1)
e la Dactyliotheca Smithiana (Venezia, 1767) di Francesco Gori. Vedi
un breve cenno nella Nota storica del Filosofo Inglese, in Opere com-
plete di C. Goldoni per cura del Municipio di Venezia, voi. X.
3 Un maestro di storia veneziana, il Molmenti, delineò con arte
vivace la figura di Andrea Memmo, nato a Venezia ai 29 marzo del
1729 (v. Un Nobil Uomo Veneziano del secolo XVIII, in Epistolari
Veneziani del secolo XVIII : Collezione Settecentesca Sandron, 1914),
che fu Savio e Bailo, e Senatore, e Cavaliere, e Procuratore di San
Marco. Tipo caratteristico di patrizio veneziano, ricco di salute, d' in-
gegno e di sensualità, congiungeva in lietissimo accordo l' amore
della tavola, delle donne, dell'arte e della politica. Lo vediamo stu-
diare architettura col padre Lodoli, porgere la Scozzese del. Voltaire
al Goldoni {Mémoires, P. II, eh. 44), che aveva dedicato a lui e al
fratello Bernardo il Momolo cortesan ( ossia 1' Uomo di mondo), par-
lare col Casanova di Franchi Muratori e di oscene imprese, discutere
di oggetti politici con V imperatore Giuseppe II e col granduca Leo-
poldo. Di lui ci resta un' insigne opera d' arte, che durante il reggi-
mento di Padova (1775-1777) riuscì a compiere in parte la trasforma-
zione dell' antico e paludoso Prato della Valle in un delizioso recinto,
abbellito d'un canale, di ponti e di statue (v. fra gli altri la Descri-
zione della general idea concepita ed in gran parte effettuata dalVEcc.^^^
Signore Andrea Memmo ecc. estesa da D. Vincenzio Radicchio Vene-
ziano, Roma, 1786). Dieci anni dopo, nel settembre del 1786, Volfango
Goethe ammirava. I Presidenti al Prato offrirono nel '76 a Sua Eccel-
lenza una breve raccolta di versi e prose {Il puro Omaggio), come
usava allora, con una dedica di Melchiorre Cesarotti del quale si
leggeva pure l'epigramma latino che ha per titolo L'isola Memmia:
Vile vadum fueram: speciosa atque usibus apta
Insula sis, dixit Memmius; illa fui.
E Gabriele D' Annunzio, risognando Armida e il bel giardino, cantava
un secolo dopo in versi canori come trillo d'allodola:
Ma nel tuo prato molle, ombrato d' olmi
e di marmi, che cinge la riviera
e le rondini rigano di strida...
Vedi qualche indicazione bibliografica nella Nota storica de\-
VUomo di mondo, edizione municipale delle Opere complete di C
Goldoni, voi. I, p. 1907.
4 Un'amica del Casanova, ed. Remo Sandron, 1624. - Dal libro
del Brunelli attinsi i frammenti delle lettere di Giustiniana che qui
riferisco. Nel Marzocco di Firenze stampai la prima volta queste
pagine sulla Wynne (20 apr. 1924) e alcune altre che si leggono nel
presente volume. - Godo di poter esprimere all' Orvieto, ora e sempre,
la mia vivissima antica riconoscenza.
L AMORE DI GIUSTINIANA WYNNE 263
5 E anche, com' è facile sospettare, ragioni economiche, essendo
la famiglia Memmo di modeste fortune, prodigo il giovane Andrea,
e quasi povera Giustiniana Wynne.
6 Spetta a Gustavo Gugitz, com' è giusto riconoscere, il merito
di aver scoperto sotto le iniziali X. C. V. il nome della Wynne Ro-
senberg: V. G. Casanova und sein Lebensroman, Wien, 1921. Cfr. Sa-
maran, Jacques Casanova Véniften, Paris, 1914.
7 È noto come nel 1761 Carlo Gozzi scrivesse i primi dieci canti
della Marfisa bizzarra " poema faceto „, a cui aggiunse poi due
altri: ma per allora l'autore si accontentò di leggerne alcuni saggi
agli amici e stampò soltanto le stanze in cui si deridevano il Chiari
e il Goldoni. Il poema uscì nel 1774, quando ogni curiosità era ormai
spenta; e però riesce oggi troppo difficile riconoscere i ritratti sati-
rici del Gozzi, alterati dalla caricatura. Giovanni Ziccardi che studiò
con molta diligenza e intelligenza la Marjìsa (v. Rassegna critica della
letteratura italiana, 1919), credette di ravvisare nella bizzarra eroina
la N. D. Caterina Dolfin (1736-1793) che legata in matrimonio a Marco
Antonio Tiepolo nel '55, prima di compiere i diciannove anni, si
separò poi da lui e, ottenuto il divorzio, sposò nel '72 il vecchio ma
potente Andrea Tron. A me pare che le geste di Marfisa, graziosa
parodia delle filosofesse del Chiari, rassomiglino di più a quelle di
Giustiniana Wynne, se non fosse troppa audacia l' accostare in parte
Filinoro al giovane Memmo e il marchese Terigi al ricco e fastoso
console Giuseppe Smith. Certo per mezzo dell' abate Marcellotto, e
forse anche dell' abate Sibiliato, dovevano essere notissimi ai fratelli
Gozzi il costume e i casi di Giustiniana, eh' era stata una gran let-
trice di romanzi e d' altri libri di moda fin dalla sua prima giovinezza.
8 Les Morlaques: " moeurs des Dalmates - tableau en prose
poètique „ dice una nota a penna nell' esemplare che ho fra mano.
Questo romanzo, oggi rarissimo, di 353 pagine di testo, è diviso in
due parti e in quindici libri : il terzo e il sesto contengono una specie
di apoteosi di Caterina II a cui 1' opera è dedicata ( in data 22 gen-
naio 1788). Poca cosa è il racconto e serve principalmente alla de-
scrizione più o meno fantastica dei costumi d' un popolo quasi pri-
mitivo : ma la Rosenberg s' accontentò di studiare i Morlacchi a
Venezia, sulla riva degli Schiavoni, e ne apprese le usanze leggendo
il Viaggio in Dalmazia dell' abate Fortis. La prosa poetica di questo
libro, che uscì a breve distanza da Paolo e Virginia (1787) e dal-
VAnacarsi (1788), anzi fra l' uno e l' altro romanzo, ci richiama al vec-
chio Telemaco (1699) e più ancora all'Ossian; e sembra annunciare
Chateaubriand. Lo stile è semplice, tuttavia l' arte manca e la lettura
più non commuove. Dice il Tommaseo: " La Rosemberg, galante
amica e tormentatrice di professori chiarissimi, aveva scritto i Mor-
lacchi, romanzo lodato da Melchiorre Cesarotti in grazia dello stile
rettorico e dell' autrice bella „ : Storia civile nella letteraria, ed. Loe-
264 l' amore di giustiniana wynne
scher, 1872, p. 514. Nella biografia o elogio che di lei ci dà il Nuovo
Dizionario Istorico di Bassano, t. XVIII, 1796, si accenna a " un lungo
e ragionato estratto „ dei Morlacchi stampato dal Cesarotti nel Gior-
nale di Modena, t. 42; e neW Appendice alla Caduta della Repubblica
di Venezia di G. Dandolo (Venezia, 1857, p. 315) si ricorda una tra-
duzione di Giandomenico Stratico. Vero è che il romanzo attirò
r attenzione di Goethe, e fu più tardi ammirato in Francia dal Nodier.
La famosa descrizione della yìWsì à' Altichiero celebrò il Bettinelli,
in un sonetto al senator Querini {Opere, Venezia, 1800, t. XVIII, p. 170).
Nel 1805 il Benincasa pensava di raccogliere e di ristampare a Mi-
lano gli scritti della Wynne Rosenberg, in otto volumi. " Le sue
lettere saranno specialmente interessanti „ annunciava il Cesarotti
all' amico Rizzo " pel suo esteso commercio di vario genere „ {Epi-
stolario, i. IV, p. 280, Pisa, 1813). Dove finirono? - Sulle opere della
W. R. si veda la bibliografia di Ernouf, Notice sur la vie et les écrits
di J. W., in Bulletin du Bibliophile, anno 1758, additata dal Gurgitz;
e r ultimo capitolo del volume di B. Brunelli.
9 Delle visite che le fece nel 1780 e nell' 82 Guglielmo Beckford,
lasciò breve ricordo il giovane e strano viaggiatore: Italy, Spain,
and Portugal, London, 1840, pp. 57, 74, 76, 141.
10 II Memmo carteggiò col Casanova (v. Molmenti, Carteggi Ca-
sanoviani - Lettere di G. Casanova e di altri a lui, in Collezione Set-
tecentesca Sandron, 1917, pp. 178-207. Vedi pure due lettere a Ferd.
Galiani in appendice alle Lettere del patrizio Zaguri a G. Casanova,
edite pure dal Molmenti in Collez. Settec, 1919). Vecchio e quasi ormai
sessantenne, così si confidava col vecchio mezzano di Dux : " Frattanto
io m' occupo tutto il giorno, senza che m' avanzi tempo giammai, e
nelle ore della sera, che non posso e non amo di riscaldarmi la
testa e gli occhi applicando, me la passo con le vecchie amabili
amiche, e colle giovani ancor più amabili, belle pazze, che pur se
tutto non mi concedono, ancor mi danno molto „ (1. e, p. 203). E
qualche anno prima, scriveva da Roma, ov' era ambasciatore, al se-
gretario Giacomazzi: " Io però stando sempre bene mi diverto, ma
sapete come? studiando. E le donne? Vi sono le ore ancor per esse „.
Ce n' erano in fatti per tutti i gusti nella capitale di Pio VI, came-
riere, mogli di operai ecc. " L' ora di queste è verso sera, e quella
delle Principesse è la più avanzata „ (Molmenti, Epistolari Veneziani,
1. e, pp. 150-151). - Dopo ciò fanno sorridere i pericoli del Parini,
" per r undecimo -Lustro di già scendente „, alla presenza di Cecilia
Tron o quando riceve 1 messaggi di Maria di Castelbarco, inclita
Nice; e sembrano innocenti perfino gli ardori senili del Frugoni,
r anacreonte di Parma.
11 Gorani, che non dimostra pei Veneziani soverchia simpatia, ci
ha lasciato del Memmo questo nero ritratto nel t. II dei Mémoires
l' amore di giustiniana wynne 265
secrets et critiques (Paris, 1793, pp. 126-127): " Cet homme avoit usurpé
une réputation de sagesse qui lui servii de titre pour prétendre à la
dignité de doge de Venise... Memo est le menteur plus impudent qui
ait jamais existé... Outre cette belle qualité, M. est 1' homme le plus
vénal qu' il y ait au monde. Il fait argent de tout ; faveurs, emplois,
tout lui est payé, et payé d' avance. - Il possedè la chronique scan-
daleuse de Rome, et l' histoire des dlners et des soupers dont il
envoie à Venise des relatìons très-détaillées. Sa conversation est un
tissu d' anecdotes facétieuses, de contes très-libres qu' il débite sans
pudeur, en présence méme des prélats les plus respectables et des
femmes les plus honnétes „.
LA SPIA CASANOVA
Era un uomo alto, vigoroso, ben proporzionato, dalla tinta
scura, ulivigna, dall' occhio nero e grande, dal naso prominente,
dal labbro sensuale: non bello, non fine, anzi un po' volgare
di lineamenti e di tratto non ostante certa affettazione di ele-
ganza e di gentilezza, con quell' aria insolente, composta di
buffoneria e di violenza, che allontana le persone più oneste e
più miti, ma con quell'aspetto forte e ardito, con quello sguardo
astuto, con quella parola pronta e abbondante che gli acquista-
vano un assoluto predominio sulle donne e sui deboli di spi-
rito, e lo rendevano sommamente accetto a tutti gli intriganti e
ai corrotti.
Il padre suo a diciannove anni era scappato da Parma e
dalla famiglia insieme con una donna di teatro che poi abban-
donò, e a Venezia, per vivere, cominciò a recitare; la madre^
figlia d' un calzolaio, fuggì pure dalla casa paterna per unirsi
in matrimonio col giovine attore e dedicarsi alle scene. Ma per-
chè lo scandalo non mancasse, a Venezia si sussurrò da qual-
che maligno che Giacomo Casanova nascesse di " non legittima
estrazione „, come si esprime l'abate Chiari '; e più tardi l'av-
venturiere stesso in certo suo romanzo, o piuttosto libello =,
mentre accusava il nobiluomo Gian Carlo Grimani d' essere il
frutto degli amori di Pisana Giustinian Lolin e di Sebastiano
Giustinian, si vantò cinicamente figlio ed erede naturale di Mi-
chele Grimani da Santa Maria Formosa, proprietario del teatro
di San Samuele. Per curioso destino, oltre i fratelli Grimani (di
cui più assidio 1' abate Alvise), noi troviamo nel 1733 intorno
alla vedova Zanetta Casanova il nobiluomo Giorgio Baffo, il
più osceno dei poeti veneziani.
Il primo ricordo di Giacomo Casanova, dopo la miracolosa
guarigione dell' emorragia, ottenuta per le arti d' una vecchia
270 LA SPIA CASANOVA
Strega, è il furto fatto al proprio padre d' un cristallo sfaccettato
che poi nascose in tasca al fratello minore per sfuggir alle staf-
filate che toccarono al povero innocente. " Voi riderete „ dice
nella prefazione delle Memorie " nel vedere che spesso non mi
feci scrupolo di ingannare degli stolidi, delle birbe e degli scioc-
chi, quando mi trovai nella necessità. Per ciò che riguarda le
donne, gli inganni sono reciproci... Quanto agli sciocchi, io mi
rallegro con me stesso quando penso d' averne fatto cadere
qualcuno nei miei lacci... Credo che ingannare uno sciocco sia
azione degna d' un uomo di spirito „. Un tessuto di inganni, di
trufferie, di scandali, di libidini senza fine fu la vita sciagurata
di Giacomo Casanova.
" Coltivare il piacere dei sensi „ dice egli ancora " fu sem-
pre la mia principale faccenda: io non ne ebbi mai di più
importanti „. Due sole cose infatti amò fino all'ultimo: la donna
e la tavola. Il suo temperamento sanguigno, incapace di ritegno,
aiutato dalla voracità della gola e da una sanità perfetta, non
trovando sfogo che nella lussuria, risvegliava in lui insaziabil-
mente gli appetiti del satiro e lo rendeva atto alle più pazze
imprese erotiche. " Vita bestiai mi piacque, e non umana „. Per
il soddisfacimento di queste due grandi passioni, cercò la ric-
chezza con tutti i mezzi possibili, eccetto con quel!' unico onesto
del lavoro, e disperse ogni volta con folle vanità il mal acqui-
stato denaro, senza nessun pensiero del domani.
L' ultimo volume sull' avventuriere veneziano, uscito poco
fa dalla penna di Carlo Samaran 3 archivista francese, volume
dotto e piacevole che ci ricorda V arte squisita dei fratelli Gon-
court, pone finalmente il Casanova nella sua vera luce: ma
quella lettura ci lascia nell' animo la tristezza di un incubo. Noi
siamo in piena società casanoviana: una sfilata di peccatrici più
o meno infami, non tutte belle, marchiate quasi tutte dal com-
missario di polizia ; un' altra sfilata di avventurieri, di lenoni,
di bari, di truffatori, più o meno familiari del carcere; un'altra
sfilata di imbecilli e di pazzi dell' altro sesso, le vittime di Ca-
sanova, che studiano sul seriola cabala, l'albero vegetativo, la
piramide, le arti occulte per far oro o per ringiovanire; da
ultimo altra gente disfatta dai vizi o che cinica sorride, come
il nostro eroe, su questo mondo infernale che sa di postribolo,
di manicomio e di galera.
Anche questo è Settecento, senza dubbio, ma non già, come
si pretende, // Settecento : ogni secolo ha i suoi vizi, ogni società
LA SPIA CASANOVA 27 1
la sua putredine, ogni età il suo Aretino. Quando, per esempio,
Alessandro D' Ancona afferma che le Memorie del turpe avven-
turiere " rendono, nei contorni generali, vivamente espressa
r indole degli uomini e de' tempi „ io grido dentro di me che,
per fortuna, ciò non è vero. Quando, trent* anni dopo, V autore
insigne delle Origini del teatro italiano^ il Nestore, per dire con
linguaggio accademico, dei maestri di storia letteraria in Italia,
ripete del Casanova: " Come uomo, egli è un prodotto diretto
e genuino della putredine sociale propria all' ultimo periodo
della vita veneziana, quando l' aver ingegno, ed egli ne aveva
molto senza dubbio, non bastava ad emergere, se non si fosse
di vecchia razza patrizia „ ; quando aggiunge che egli " si volle
assidere „ al banchetto della vita " e trovarvi un buon posto,
anche facendo alle gomitate e dando degli sgambetti. Quel posto
spettava a lui uomo d' ingegno, e non a tanti altri che 1' usur-
pavano per pretesi diritti di nascita e di ricchezza, e per cieco
favor di fortuna „ 4: con tutte le forze io mi ribello a questa
sentenza. Poiché anche nel Settecento, e anche a Venezia, l' uomo
d' ingegno poteva trovare guadagni e onori per mezzo del lavoro
onesto, senza bisogno di fare il baro e la spia; e il secolo deci-
mottavo nelle sue grandi manifestazioni intellettuali, nella sua
gentile filantropia, nei suoi ideali di scienza, di progresso, di
libertà, è cento volte al di sopra delle vili Memorie di Giacomo
Casanova. Questo lenone di tutti i ricchi e di tutti i potenti,
quest' uomo senza patria e senza coscienza, non porta nessuna
pietra, come credette il Tivaroni, nemmeno un sassolino retto-
rico " all' edificio della emancipazione del mondo dalle ritorte
del medio evo „ 5. La sua anima davanti a qualunque ideale
umano, sia anche di distruzione, risuona a vuoto.
Né io so riconoscere nel Casanova quell' alto genio che lo
stesso Samaran nella prefazione sembra ammirare. A parte la
memoria non comune, mi restano dei dubbi legittimi sulle sue
conoscenze fisico-matematiche, sulla sua scienza economica, sulla
sua filosofia. Non ci lasciamo abbagliare dal pseudo-enciclope-
dismo del secolo decimottavo. Quanti anni occorsero al marchese
D' Argens per apprendere tutto lo scibile? E a Venezia (nes-
suno qui nomini 1' Algarotti ) quanti e quali autori non hanno
sulla punta della penna l'avvocato Costantini o l'abate Chiari?
E il Griselini, per esempio, non ne sa un tantino più del Ca-
sanova su infinite materie ? ^ Che se il cavaliere di Seingalt nelle
sue peregrinazioni s' incontrò, a posta o a caso, in qualche
272 LA SPIA CASANOVA
famoso letterato, e si mischiò in pettegolezzi d' apparenza let-
teraria, si tratta di contatti e di episodi fuggevolissimi. Il buon
Goldoni si guarda bene dal ricordare il suo nome nelle Memorie.
Che se Giacometto ha in serbo qualche citazione latina e recita,
le stanze del Furioso e traduce Omero in ottava rima, di let-
tere antiche e moderne si mostra tuttavia ignorantissimo. Non
confondiamo improntitudine e letteratura.
I suoi versi, in lingua e in dialetto, stanno al di sotto di
quelli d'un qualunque poetucolo del tempo: le sue prose italiane
sono fra le più miserevoli. La prima sua opera a tutti nota, la
Confutazione cioè di Amelot, riuscì un indigestissimo centone
innocuo a Venezia, né di danno a Voltaire 7. E i romanzi ?
Quello che racconta gli amori di Carlo Zeno e Giustina Giu-
stinian Ziani e s' intitola Di Aneddoti Viniziani militari ed amo-
rosi del secolo decimoquarto ecc. libro unico, ha il solo merito
di essere annoverato fra i più noiosi romanzi storici prima dello
Scott. \J altro, Né amori ne donne, ovvero la stalla ripulita, tolto
lo scandalo della satira personale, è una insulsissima diceria.
Anche il famoso Icosameron non offre il più piccolo pregio
d' arte e mette a dura prova la pazienza del lettóre.
Ben altra è V erudizione, ben altra la scienza, ben altra la
letteratura del Settecento! Se nel dechnare della esistenza, quando
le donne gli diventavano ormai crudeli e le ore d'ozio sempre
più crescevano, cominciò Giacometto a sfogliare i hbri e a riem-
pire di scrittura interminabili fogli, egli restò ancora un igno-
rante: nulla ha insegnato e nulla può insegnare. La sua sola
e vera dottrina è quella dei suoi ricordi erotici, la sua sola e
vera arte è quella di narratore del romanzo della sua vita:
dottrina e arte ch'egli versò per intero, durante il soggiorno di
Dux, negli scartafacci dei Mémoires.
Nel 1786 usciva a Berlino e a Vienna la Vita di Federico
barone di Trenck col racconto della fuga dalla prigione di Glatz
e del tentativo paziente e folle di nove anni per isfuggire dalle
casematte di Magdeburgo. Il libro trovò lettori avidissimi in
tutte le province tedesche (anche il Goethe a Roma) e fu tra-
dotto in francese nell' 88, e neh' 89 in italiano. Io non so se tale
fortuna eccitasse finalmente l' evaso dai Piombi a stendere in
iscritto neir87ea stampare l'anno seguente la Histoire de ma
fuitCy la storia di quella fuga di cui, come il titolo lascia vedere,
si gloriava da tanti anni il Casanova, e che aveva tante volte
raccontata ai più illustri uditori s. Nello stesso anno 1788 si
LA SPIA CASANOVA 273
accinse, come pare, a scrivere le memorie complete della pro-
pria vita 9. Certo non gli mancavano esempi: nel secolo deci-
mottavo era diventato in tutti un bisogno, quasi una mania. Le
Memorie del Goldoni, pure in francese, uscirono appunto nel
1787; e già neir 82 G. G. Rousseau aveva pubblicato i primi
sei libri delle Confessioni. Non sembra poi inutile avvertire che
nel 171 7 si erano stampate per la prima volta le Memorie del
cardinale di Retz (il fuggitivo dal castello di Nantes), miste di
vero e di favola.
Ma le Memorie casanoviane si dovrebbero piuttosto mettere
accanto a quelle di alcuni terribili seduttori del secolo decimot-
tavo, primo di tutti il maresciallo di Richelieu (morto nel 1788).
Meglio ancora, esse appartengono alla ricca letteratura erotica
del tempo '°, tradiscono il ricordo di Duclos, di Crébillon figlio,
di Restif de la Bretonne e d' alcuni autori più oscuri e più
infami, ma noti al Casanova, come Lambert, Montigny, Ba-
stide ecc. Nel 1782 esce il capolavoro di Laclos, nel 1787 Fau-
blas. E proprio mentre il vecchio sdentato dongiovanni di Dux
accarezza con la fantasia le lubriche visioni del passato, T igno-
bile marchese de Sade se ne sta sognando i pervertimenti delle
sue Ginstine e delle sue Giuliette. Più in là ride la pazzia.
G. Ortolani. * i8
AGGIUNTE E NOTE
Missionario di tanto sciagurata clepra>
vazione vn per l'Europa romanzando
oscenamente e bravamente truffando
la spia Casanova ».
Carduccc
Ho voluto riprodurre senza mutamento alcuno queste pagine,
come le scrissi nel maggio del 1914 e come le stampò allora la
Gazzetta di Venezia. Non senza meraviglia, e quasi dolore, vedevo
troppo brava e onesta gente correre sulle orme del turpe avventu-
riere e studiarne ogni passo e raccoglierne ogni sillaba, quasi da lui
aspettassero il nuovo verbo dell' infelice umanità. Le esagerazioni e
le esaltazioni crescevano di giorno in giorno: e chi lo diceva V Ita-
liano errante, come se fosse Colombo o Giordano Bruno, Dante o
Mazzini ; chi lo paragonava al Rousseau e al Foscolo per il carattere
e per la vita; chi scopriva in lui un' energia " di sostanza eroica „
che " domani si chiamerà Buonaparte „ e più tardi " si chiamerà
Garibaldi „ ; chi additava nelle Memorie " un' opera monumentale „,
un libro che contiene " un secolo, un' arte, la storia e 1' Europa del
Settecento „ ; chi esaltava in lui " uno spirito acutamente critico della
storia, della letteratura, della politica „ ; chi lo spacciava " buongu-
staio di letterature classiche come l' abate Galiani „. Ora codesti
ammiratori che si lasciavano sfuggire tali sentenze, ed altre non
meno strabilianti, erano uomini di molto ingegno che io amavo e
stimavo: due insegnano da gran tempo nelle nostre Università, un
altro è oggi Ministro. Conoscevo da lunghi anni la figura di Giacomo
Casanova e gli scritti principali dell' avventuriere veneziano : il libro
del Samaran, che non esito a lodare un' altra volta, mi offerse occa-
sione di reagire contro questa singolare malattia che ingannava e
alterava la visione della realtà. Non credo che il mio articolo tro-
vasse dieci lettori pazienti: ma è vero che altre voci più autorevoli
sorsero in appresso a correggere le più grottesche esagerazioni,
come per esempio Vittorio Clan nel Fanfulla della domenica, il Ra-
bizzani nel Marzocco, Gino Damerini nella Gazzetta di Venezia, il
Molmenti nel Giornale d' Italia e altrove ; e cessò per qualche tempo
il coro degli ammiratori esaltati. Tuttavia da qualche anno la malattia
ha ripreso forza e si diffonde minacciosamente, tanto che lo Zuccoli
impazientito pubblicò nel Secolo, nel maggio del '24, un articolo
intitolato Giacomo Casanova e l' ora di finirla, e lo stesso Molmenti
278 LA SPIA CASANOVA
nel giugno scorso, sorridendo di tanto " strepito „ casanoviano, esumò
nel Marzocco la sentenza già pronunciata nel passato suU' eroe dei
Piombi e sulle famose Memorie da Rinaldo Fulin e da Giorgio Sand.
Intanto schiere di casanovisti ferventi si sono formate oltralpi, e di
tutti gli Italiani non è Dante, non Machiavelli, non Leonardo, non
Galileo, non già Manzoni o Leopardi e non Mazzini, ma bensì Gia-
como Casanova che raccoglie fuori d' Italia il maggior numero di
ammiratori e di studiosi. Che mai volete ? È 1' ultima truffa, la più
mirabolante, di sior Giacometto, che continua a illudere dalla tomba
la povera umanità.
Il Casanova è figlio del Settecenfo, senza dubbio, ma di quel
Settecento fradicio e morente che la Rivoluzione doveva spazzar
via, poiché la parola Settecenlo significa pure rinnovamento in tutta
Europa: dal Settecento emanano i più belli ideali di cui s'inorgo-
gliscano il secolo successivo e il nostro, in Italia e fuori. Il Casanova
è italiano, senza dubbio, ma rappresenta tutto il vizio e il marciume
della vecchia Italia che bisognava distruggere col ferro e col fuoco
perchè la nostra penisola potesse risorgere. È 1' egoista feroce, è il
bugiardo impudente, è 1' adulatore e il parassita, il buffone e il lenone,
prepotente coi deboli e vile quasi sempre coi potenti, sfacciatissimo,
estremamente vendicativo e vanitoso, ciarlatano nella buona fortuna
e spaccone, umile o feroce nell' avversa, generoso per calcolo, so-
spettoso, violento, amante dell' ozio e poltrone, ma attivissimo e " fer-
tile nel male „ (Le Gras, 43), chiacchierone, trincia-giudizi, arrogante,
maldicente, sensuale come un satiro e vorace, volgare negli atti, nel
fasto, nel linguaggio, triviale e cinico, con gli istinti, in certi momenti,
della canaglia (Le Gras, 103): tutte le macchie e i morbi dell'anima
italiana nei secoli più tristi possiamo esaminare raccolti in codesto
figlio della nostra vergogna e della nostra miseria senza nome. Non
ama appassionatamente che il gioco, la tavola e la femmina: vive
per questo. È intelligente, ma niente più, come tanti e tanti Italiani;
mediocre in tutto, dice uno dei suoi recenti ammiratori (Le Gras,
U extravagante personnalité de Jacques Casanova^ Paris, 1922, p. 218) :
le sue idee in filosofia, in religione, in politica sono sempre super-
ficiali e banali (Le Gras, 205). Ha lo spirito grossolano, cioè manca
di spirito: leggete le sue lettere, i suoi romanzi, i suoi libelli. Lo
stesso suo bisogno di indipendenza, di libertà, è quello dei facinorosi
posti fuori della legge. Non ha la più piccola nobiltà interna, come
riconosce lo stesso Le Gras (p. 217). " Ha il gusto sadico di tormen-
tare „ le donne, " di vederle abbassarsi, scadere, sottomettersi per
fame e miseria „ aggiunge Cajumi {Stampa, 30 genn. '23). Le seduce
col denaro: sceglie le sue vittime fra i dodici e i diciotto anni, poi
le abbandona all' infame destino. " Ha un difetto immenso, che lo
respinge tra le figure secondarie: manca di umanità „ (Cajumi). Delle
tremila e più pagine delle Memorie non una risplende mai di bel-
LA SPIA CASANOVA 279
lezza morale, non una contiene un sincero pentimento (come pur ci
avviene d' incontrare ne' libri d' altri gaglioffi ) ciie non sia confes-
sione di cinismo, mai un grido dell' anima, mai un raggio di idealità
o di vera dignità: fino all' età di 43 anni, quando scrive la sua prima
opera degna di considerazione, il Casanova ha condotto la più scia-
gurata esistenza sperperando nel vizio e nell' ozio V oro truffato.
A torto Bruno Brunelli, che io molto apprezzo, lo chiama figura
" poliedrica „ {G. Casanova di fronte ai posteri, in Seco/o XX, apr. '25),
come se fosse Leonardo o Napoleone; e insiste sopra un enigma
casanoviamo che non esiste, perchè anche troppo conosciamo il suo
pensiero, il suo carattere, le sue azioni: pochi uomini ci sono così
chiari. Ha la smania e l' impudenza, comuni a tanti altri viaggiatori
e giramondi del Settecento, di voler avvicinare i personaggi più alti
e più noti per potersene vantare e giovare, ma nulla invero ci appren-
dono i suoi colloqui, nemmeno quelli che dice di aver avuti col
Voltaire. Del resto di quali letterati godette mai la stima il Casanova?
L' Algarotti, il Goldoni, il Baretti, i fratelli Gozzi, il Bettinelli e cen-
t' altri tacciono il suo nome : ne parlano con riso e con disprezzo il
Cesarotti, il Taruffi, i fratelli Verri. Il Chiari si vendicò di lui in un
romanzo. L'Albergati lo accolse così malamente, quando gli entrò
in casa, che 1' avventuriere gli giurò odio, ma non potè nel '60 mal-
trattare le sue commedie in faccia al Voltaire, perchè non ne aveva
scritta pure una, né il Voltaire potè parlargli della versione del Tan-
credi perchè fu compiuta dal Paradisi, non già dall' x^lbergati, nel
dicembre di quell' anno, e uscì quattro anni dopo. Quanto al Denina
lo ringraziò dell' Icosameron e nient' altro, né lo nominò nel sup-
plemento della Prussia letteraria come parve promettere. Dire poi
degli altri suoi corrispondenti epistolari, sarebbe qui troppo lungo e
forse inutile discorso.
I La Commediante in fortuna ecc., Venezia, 1755, t. II, p. 130.
3 Né Amori né Donne ecc., Venezia, 1782.
3 Jacques Casanova Vènitien - Une vie d* aventurier au XVIII ^
siede, Paris, 19 14.
4 Casanoviana, in Nuova Antologia, i apr. 191 1, e nel voi. che
ha per titolo Viaggiatori e avventurieri, Firenze, 1911, pp. 371-372.
5 U Italia prima della Rivoluzione Francese, Torino, 1888, p. 461.
6 E Girolamo Zanetti? e il Pivati, il Gennari, il Fortis, il Boa-
retti a Padova, e a Verona il Torelli, e cento altri in tutta Italia di
cui oggi appena si sussurra il nome ?
7 Premeva al Casanova di comparire come " antivolterriano „
presso gli Inquisitori di Stato della Repubblica di Venezia, dai quali
sperava di ottenere il rimpatrio.
8 Perfino agli Ecc.™i Morosini e Querini, reduci da Londra e di
passaggio a Lione nel 1763. - Alessandro Verri che l' udì dalla sua
28o LA SPIA CASANOVA
bocca nel giugno del 1770, a Roma, scriveva, com' è noto, al fratello
Pietro : " La storia del Veneziano io pure credo che avrà degli orna-
menti ; se non foss' altro, sono quindici anni che la ripete, ed è
impossibile non abbellirla a poco a poco „: Carteggio di P. e di
A. Verri ecc., voi. Ili, Milano, 191 1, p. 338. Ma prima della Histoire
de ma finte il Casanova aveva stampato un altro episodio della sua
avventurosa esistenza, il famoso duello a Varsavia col Branicki: v.
Opuscoli Miscellanei del giugno 1780 (A. Ravà, Contributo alla biblio-
grafia di G. Casanova, estr. dal Giorn. storico, Torino, 1910, p. 5).
9 O al più tardi n eli' 89: v. Raoul Vèze, U auteur des Mémoires
de J. Casanova de Scingali, in Figaro - Supplement littéraire, 3 gen-
naio 1925. Ma di certi avvenimenti più memorabili della sua vita
pare che il C. prendesse nota qualche volta, se dobbiamo credere
alle sue parole.
1° Non bisogna esagerare l' importanza storica delle Memorie
casanoviane che sono per tre quarti, o quasi, un libro erotico di
colore più o meno romanzesco, in cui le avventure oscene, alquanto
uniformi e monotone per necessità, si susseguono senza fine: ciò
che ne forma V originalità e la fortuna, come san bene gli editori.
I dialoghi, troppo frequenti e troppo lunghi, tolgono spesso fede alla
veridicità del racconto, sebbene i nomi dei luoghi e dei personaggi
e le date e buon numero dei particolari che non isfuggono al con-
trollo delle ricerche erudite si dimostrino esatti (ma non sempre).
Ciò che rimane, tolta la materia erotica, non è pur troppo gran còsa,
né reca gran lume, come si vorrebbe, alla storia del Settecento. I
ritratti del Casanova, quelli stessi delle sue donne, mancano di ri-
lievo : i personaggi più notevoli del tempo rimpiccioliscono nel pet-
tegolezzo o ci mostrano solo qualche deformità, fìsica o morale. Via,
Casanova non è Saint-Simon ! Egli cerca la familiarità degli individui
deboli, dei malati di spirito, delle vittime del gioco, del vizio, della
miseria: su costoro può facilmente primeggiare e trionfare, e qui la
sua vanità si pavoneggia senza mai rimorsi. Il suo libro ha impor-
tanza di documento umano, per quanto infame: più che allo studio
del costume di certa parte corrosa della società del secolo decimot-
tavo, può forse giovare allo studio della natura femminile, della
fragilità e sensualità femminile (ricordate le avventure d'amore di
Carlo Gozzi?), di cui possedeva una vera scienza il Casanova, come
Laclos e Stendhal, e a quello della carnalità maschile che sussulta
ancora nelle senili confessioni di questo singolarissimo eroe. - Noi
non abbiamo, è vero, a stampa il testo originale delle Memorie (e
poco importa), anzi sappiamo bene che il signor Laforgue si permise
la libertà più sconfinata nel rimaneggiare la prosa dell' avventuriere
veneziano, intercalando certi passi di sua propria invenzione (A. Ravà,
Come furono pubblicate le memorie di Casanova! , in Marzocco, 13 nov.
1910) : tuttavia possiamo giudicare l' arte narrativa del Casanova dalla
LA SPIA CASANOVA 28 1
Histoire de ma fuite e dall' ultimo tomo dell' edizione Flammarion
più fedele senza dubbio al manoscritto, benché molto mutilato. Certo
i due periodi del manoscritto che il compianto amico Aido Ravà
ricopiò e riprodusse nel Marzocco citato, si ritrovano nella detta
edizione, la quale segue il rimaneggiamento del Laforgue ( v. ed.
Garnier) fino al cap. XIV del t. V (rispondente al cap. V, t. VI, del-
l' ed. Garnier), ma poi fino al termine ci offre un testo del tutto
diverso, d' uno stile meno elegante e corretto, ma più casanoviano.
- Non fui a tempo di vedere lo scritto di Tage Bull, Le vrai texte
des Mémoires, nel quarto volume della collezione Pages Casanovien-
neSy diretta da Pollio e da Vèze.
L'ABDICAZIONE DELLA SERENISSIMA
11 carnevale era finito. Nei teatri di San Giovanni Griso-
stomo e di San Luca, dove recitavano le compagnie Battaglia
e Perelli, il pubblico veneziano aveva goduto le Baruffe chioz-
zotte e altre commedie di papà Goldoni, spentosi nello squallore
a Parigi quattro anni prima,
Da Venezia lontan do mile mia.
Nel teatro di Sant' Angelo erasi replicato per più sere il Tiestey
tragedia d' un giovinetto diciottenne, nato al Zante, rosso di
capelli, con due occhi piccoli ma scintillanti, povero ma superbo
della sua povertà, che si chiamava Niccolo Ugo Foscolo e si
vedeva qualche volta nel salotto d' una bella signora greca ^i
cui molto si parlava in quei giorni, " furba al maggior segno ^
e " perfettissima giacobina „ : l'Isabella Teotochi, scioltasi dalle
catene del primo matrimonio e sposa allora di un Albrizzi, con
grand' ira del novello parentado. Il popolo si era divertito e
aveva folleggiato sulla Piazza e per le calli " quasi non vi fosse
alcuna disgrazia e tutto andasse felicemente „ : di che si com-
piaceva qualche patrizio amante della patria, mentre aveva il
cuore stretto dai cattivi presentimenti.
Anche in quel rigido inverno del 1797 la fortuna militare
aveva continuato a sorridere ai Francesi, che padroni orm.ai
delle linee del Mincio e dell' Adige, si avanzavano verso il
Tagliamento contro l'arciduca Carlo. L' ostinazione dell' Austria
la quale, vittoriosa in Germania, non sapeva rassegnarsi alla
caduta di Mantova e alla perdita del Milanese, doveva riuscire
fatale a Venezia: già da tutte le province della Repubblica,
inondate dagli eserciti combattenti, giungevano al Senato, per
mezzo di lettere, di memoriali e di deputazioni, i" lamenti delle
286 l' abdicazione della serenissima
misere popolazioni di terraferma: erano furti, rapine, requisi-
zioni di viveri, di buoi, di cavalli, di foraggi, stragi, assassinii,
violenze d' ogni maniera. Le splendide ville patrizie, invase dai
soldati, poste a sacco dai granai alle cantine, risonavano di rozze
voci straniere: nelle sale a stucchi dorati le belle immagini
femminili del tempo passato dileguavano nell' ombra misteriosa
degli specchi e 1' odore acre dei corpi sudati e del tabacco di-
sperdeva il vago profumo della cipria. Nella stessa Dominante
cresceva di continuo il prezzo dei generi alimentari, i mercanti
speculavano e lucravano, mentre V erario pubblico si esauriva.
Sedicimila uomini, oltremarini e italiani, erano stati distribuiti
nelle isole e nei conventi della città: ottocento pezzi d'artiglieria
e oltre duecento legni armati compivano la difesa delle lagune.
Pattuglie notturne di cittadini vegliavano alla sicurezza di Ve-
nezia: si istituirono anche pattuglie diurne di soldati nazionali.
La città dei sogni pareva diventata ormai " un vasto campo
militare „ : dappertutto le fanfare sonavano " la diana, la ritirata
e r invito alla preghiera nei diversi quartieri „.
Ma il giorno 14 marzo giunse a Venezia come fulmine la
" funesta nuova „ della rivolta di Bergamo; e tutti gli abitanti,
pieni di amarezza e di sgomento, la ripeterono all'orecchio, con
infiniti commenti, di caffè in caffè, di campo in campo, da un
sestiere all' altro, da Santa Chiara a San Pietro di Castello.
Dicevano : " Bergamo è stato occupato^ non rivoluzionato „ ; cre-
dendo alla prepotenza delle armi francesi piuttosto che al trionfo
delle idee democratiche. Cinque giorni dopo, i Veneziani, ancora
" sbalorditi „, parlandosi " all'orecchia „, sussurravano che
" Buonaparte „ aveva fatto sollevare anche Brescia. " Io temo
tutto andato „ scriveva col cuore gonfio un patrizio, " e terra-
ferma e. Dio noi voglia, la Dominante. Mi fa orrore un abban-
dono, una corruzione di sudditi, uno scoppio come un torrente...
Non saprei dirvi la desolazione di tutti „. Erano questa volta
le membra della Repubblica che venivano strappate dal corpo
vivo della patria: era la Repubblica mutila che sanguinava.
^* Stato e Patria distrutti lacerano 1' anima „.
Cercavano i Francesi di far insorgere anche la fedelissima
città di Salò. Ma a Crema i sudditi rinnovavano il giuramento
di fedeltà; i Sette Comuni offrivano alcune migliaia di uomini
armati in difesa del Sovrano; le Comunità di Cadore, di Feltre,
di Belluno, di Desenzano e della Val Sabbia esprimevano nei
loro Consigli il loro attaccamento al Principato, " in difesa del
l' abdicazione della serenissima 287
quale esibivano e sangue e vite e sostanze „. Otto deputati di
Vicenza venivano a presentare al Doge l' omaggio della città
fedele; venivano quelli di Conegliano, di Ceneda, di Lendinara;
bella e commovente T allocuzione del rappresentante di Belluno
davanti " al pien Collegio „ ; tutti i cittadini di Treviso si " pro-
testavano pronti a versare il loro sangue „ e si ornavano del
leone di San Marco con intorno la scritta : Ubi soli fides Tar-
visitia'j si ammiravano i deputati del canale di Brenta " nel
caratteristico costume tutto verde, con pennacchio al cappello „
pure venuti a prestare il giuramento; quelli di Val Trompia e
di Val Sabbia chiedevano munizioni; a Padova lo stendardo
veneziano, salutato dall'antico grido. Viva San Marco, traspor-
tavasi fra il delirio del popolo alla Basilica del Santo perchè
fosse benedetto. Anche Sacile, anche Portogruaro decretavano
che " inviolabile sarebbe la loro sudditanza al Veneto Governo „.
Perfino gli abitanti delle vallate di Bergamo insorgevano con le
armi in pugno contro i ribelli. Un " patrio fanatismo „ invadeva
gli animi dei Veronesi. In tutte le province fedeli, e a Venezia,
si vedevano i cittadini portare le " coccarde nazionali venete,
bleu e color d'arancio „. Molti si felicitavano di un tale entu-
siasmo. Qualcuno, scrivendo, diceva: " Gran d'uopo aveva d'un
elaterio lo stato... Bolle della Nazion Veneta ogni midolla „ ;
e sperava nella salvezza della vecchia Repubblica.
Ma il Collegio dei Savi, come scrive un contemporaneo,
" erasi immaginato di salvare la Repubblica non già con Can-
noni e Soldati, ma con carte e rimostranze „. Il vecchio doge,
piagnucoloso e pusillanime, aveva raccolto intorno a sé, per
consiglio ed aiuto, i cuori più deboli e più vili dell'Eccellentis-
simo Senato, dai quali traeva nuovo alimento ai suoi sospiri e
forza nuova alle paure. Nelle solenni riunioni del Maggior Con-
siglio, nel Consiglio dei Pregadi, nelle stesse Consulte dei Savi,
in ogni più grave occasione, il suo discorso mortificante, pro-
nunciato con voce strozzata e interrotto dalle lagrime, iniziava
le discussioni più decisive. E sebbene in segreto, come la più
parte dei patrizi veneziani, Lodovico Manin desiderasse il trionfo
dell'Austria e confidasse per molto tempo nelle armi imperiali,
tuttavia lo spavento delle recenti vittorie francesi e del nome
stesso di Bonaparte lo faceva inclinare sempre più verso quei
patrizi che tendevano ormai a un nuovo ordinamento politico
della Repubblica sul modello d'oltralpi e che crescevano d'au-
dacia, se non di numero, sotto il fascino irresistibile del giovane
288 l' abdicazione della serenissima
conquistatore e della Rivoluzione. Poiché non solamente due
potentissime nazioni stavano di fronte sul suolo veneziano, ma
quasi due età, due idee, due mondi in contrasto, tradizione e
rivoluzione, passato e avvenire.
Ed ecco il 19 aprile giungere da Verona le prime notizie
sulla frittata che soldati schiavoni e popolo avevano fatto di
tutti li Cispadani^ in città e nei castelli, la seconda sera di
Pasqua: e insieme ecco da Trieste le prime incerte voci di pace
(ahi troppo tardi!) tra " Francia e Imperatore „. La campana
a martello delle Pasque Veronesi sonava il rintocco funebre alla
secolare Repubblica: la catastrofe precipitava rapidamente: il
libro glorioso della storia veneziana si chiudeva per sempre.
I pochi colpi di cannone che la sera del 21 aprile si udirono
dalla Riva in direzione del Lido, mentre borbottava in cielo
qualche tuono e cominciava a cadere " un poca di pioggia „,
sparati dal Pizzamano contro due legni francesi, erano l'estremo
ruggito del morente Leone. Al rullo dei tamburi francesi e
croati Venezia era condotta al sacrificio: " Vergine immacolata
per tanti secoli „ come si esprime ingenuamente un contempo-
raneo, " doveva divenire la sventurata Prostituta della più in-
fame Canaglia „. Tradita, violata, spogliata, involta nella sozzura,
coperta di contumelie, sotto 1' onta e il martirio, la bella città,
sazia di feste e di piaceri, legava indissolubilmente all' Italia
1' anima sua dolorosa.
Invano i vecchi senatori si radunavano in consulte ango-
sciose fino alla più tarda ora della notte; invano si continuava
" nel solito metodo di far la guerra ai Francesi con Reclami,
Deputazioni e Rimostranze le quali continuavano a produrre il
consueto unico effetto di far palese la propria debolezza, e di
accrescere l' ardita fellonia de' Comandanti Francesi „ ; invano
i buoni cittadini protestavano mormorando che i Senatori erano
" tante teste di... che fanno quello che vogliono per rovinar
questi popoli: fanno un Pregadi, perdono una città; fanno Con-
sulta, perdono li castelli e provinzie „ ; invano qualche altro
scriveva : " Non v' è più mistero al nostro destino, non vi vuole
in adesso che Cannone e Campana a martello „ ; invano si
parlava da molti " cogli esempi della Lega di Cambrai, di
Chiozza „; invano " voci continue „ erano: " Amor di patria,
dignità, odio, ira, vendetta, perire, ma perire da forti e non da
porchi „. Invano arsenalotti armati stavano di guardia alla Log-
getta, alla Porta della Carta, dentro e fuori del Palazzo Ducale;
L* ABDICAZIONE DELLA SERENISSIMA 289
invano due pezzi d'artiglieria si vedevano " all'angolo del primo
volto del Broglio „ ; invano nella contrada di Castello gli abi-
tanti si armavano di fucili e di palosci; invano " barche munite
di artiglierie vagavano lungo le Fondamente Nuove „ ; invano
picchetti armati e sentinelle custodivano tutte le vie che condu-
cevano in Piazza; invano soldati albanesi e bocchesi con palosci,
pistole e tromboni erano schierati sulla Riva; invano l'orologio
della Torre era fermo e le campane non battevano più le ore
dopo il tramonto.
Anche il cuore della Repubblica non batteva più. Verona
aveva capitolato (24 aprile) e gemeva sotto il calcio del fucile
straniero. A Vicenza (27 aprile), a Bassano, a Padova (28 aprile)
i Francesi piantavano gli alberi della Libertà. Erano cessate,
per sempre, le legali adunanze del Senato. Molte famiglie par-
tivano. Fuggiva il Procuratore Pesaro. -I tre Inquisitori si tene-
vano " sotto militare custodia „ a San Giorgio. Si rimandavano
in patria le fedeli milizie dalmate. Camerlenghi e castellani,
capitani e podestà, nobili di nave e sopracomiti, uffiziali e con-
soli, auditori e avogadori, procuratori e savi, tutti i Reggimenti
da terra e da mar, tutti i Magistrati, Quarantie, Pregadi, Pien
Collegio erano sospesi: la stupenda creazione politica, l'opera
secolare della sapienza Veneta si arrestava per sempre. Anche
r ottantenne Zuanne Zusto, Provveditor alle Lagune e Lidi,
" deponeva il vano ed illusorio suo carico „. Tutti quanti, o
per isperanza, o per illusione, o per paura, o per ira, o per
tragico dolore volevano abdicare a ogni modo.
Il 12 maggio, di venerdì, pochi giorni prima à^ìV Ascensione
in cui celebravasi fin dai tempi del doge Orseolo lo sposalizio
del mare, si radunava per l' ultima volta il Maggior Consiglio.
Intervennero 537 patrizi, neppur la metà: ma vi erano tutti
quelli che si additavano dai buoni cittadini come vili o traditori.
Eravi il Doge con vesta e manto di velluto cremisino, con cal-
zari purpurei, col corno in capo e il camauro di rensa; v'erano
i Consiglieri con berretta nera e toga rossa a larghe maniche,
v' erano Savi in vesta violacea, e Procuratori vestiti di paonazzo ;
v' era il Cancellier Grande vestito di porpora, vi erano senatori
in vesta rossa e centinaia di nobili in vesta nera a solennizzare
r esequie della Repubblica. Tutt' intorno, lungo le pareti della
sala, si svolgeva dalle tele dei più grandi maestri pel pennello
il meraviglioso poema di Venezia. Parlò il Doge, piangente e
tremante. Barche in partenza dalla Riva, piene di soldati Schia-
G. Ortolani. '9
290 L ABDICAZIONE DELLA SERENISSIMA
voni, salutavano per sempre la città, con lieti colpi di fucile.
E la parte che annunciava la fine della Serenissima^ passò con
512 voti, fra pazze scene di scompiglio e di paura. In alto, la
trionfante Venezia di Paolo Veronese, incoronata dalla Gloria,
celò il volto neir ombra, per sempre.
Dopo che si distese sulle lagune la notte di Campoformio,
a Venezia si vedeva ogni giorno camminare lentamente un vec-
chio per le vie di Cannaregio, accompagnato da un servo; e
quelli che lo riconoscevano, gli scagliavano in faccia " li mag-
giori improperi e tutte le maledizioni „. Era Lodovico Manin.
Tali " villanie „ lo colpivano " nel più vivo dell' anima „. Rac-
conta r ultimo doge in certe sue Memorie : " La cosa arrivò a
grado che passando un giorno per una corticella a S. Marcuola,
una donna conoscendomi disse: Almeno venisse la peste, che
così moriressimo noi altre, ma morirebbero anche questi ricchi
che ci hanno venduti, e che sono cagione che moriamo da freddo
e da fame „. 11 vecchio desistette dalle passeggiate, e si ritirò
nella solitudine del suo palazzo ad aspettare la morte.
In queste pagine, che scrissi nel maggio indimenticabile del 1918 e stampai in un
foglio quotidiano, le parole virgolate sono tolte da lettere e documenti del tempo, la più
parte dal bel volume di Ricciotti Bratti, La fin* dtlla Stranissima, che uscì a Milano
nel dicembre del 1917.
INDICE
^^^
Venezia nel periodo goldoniano pag. i
La Venezia dei viaggiatori nel Settecento „ 55
Un romanzo satirico a Venezia sulla metà del Settecento . „ 97
Francesco Algarotti e V epistola al Voltaire „ i35
Intorno alla " Locandiera „ di Carlo Goldoni » I57
Le " Baruffe Chiozzotte „ e una scena d' amore .... „ 179
Intorno alle " Lettere diverse „ di Gasparo Gozzi .... „ 205
Per una ristampa della " Gazzetta Veneta „ » 227
Come sorride il Gozzi w 237
L' amore di Giustiniana Wynne » 249
La spia Casanova » ^
L'abdicazione della Serenissima » 283
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Finito di stampare
il giorno s agosto 1926
dalla Società Tipografica Mareggiani
in Bologna
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