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Full text of "Voci e visioni del settecento Veneziano"

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J(^iG 


GIUSEPPE  ORTOLANI 

VOCI  E  VISIONI 

DEL 

SETTECENTO  VENEZIANO 


y^/jri 


BOLOGNA 
NICOLA    ZANICHELLI 

EDITORE 


/ 


l'editore   adempiuti   I   DOVERI 
ESERCITERÀ   I   DIRITTI   SANCITI   DALLE   LEGGI 


VENEZIA  NEL  PERIODO  GOLDONIANO 


G.  Ortolani. 


Dov'è  il  Settecento,  l'antica  Venezia  dov'è?  dove  sono  i 
Dogi,  i  Procuratori,  i  Senatori,  dove  sono  le  feste,  dov'è  l'antico 
senso  della  vita?  Già  Antonio  Lamberti,  il  poeta  della  Biondina^ 
rimpiangeva  che  in  meno  d'un  decennio  dopo  la  caduta  della 
Repubblica  di  San  Marco  circa  ottanta  palazzi  marmorei  fossero 
-abbattuti  dal  furore  francese  sì  da  non  potersi  la  città  più  rico- 
noscere. Sparirono  in  pochi  lustri  le  famiglie  patrizie  dai  bei 
nomi  che  suonavano  gloriosi  da  più  secoli^  sparì,  come  colpito 
dal  cielo,  un  terzo  della  intera  popolazione.  L'Austria  che  teneva 
i  cannoni  sotto  gli  archi  del  Palazzo  Ducale  e  che  nel  '49  lanciò 
migliaia  di  bombe  sulla  città,  fortunatamente  senza  danno,  riuscì 
a  spegnere  quasi  del  tutto  la  vecchia  anima  veneziana,  disav- 
vezzandola dal  mare.  Quello  poi  che  non  avevano  fatto  ancora 
i  barbari,  compirono  i  nuovi  reggitori  del  Comune  riunito  al 
regno  d^  Italia,  dopo  il  ^66,  colmando  canali,  aprendo  strade, 
lacerando  vecchie  e  anguste  calli,  costruendo  case:  si  difesero 
di  parapetti  le  fondamente,  si  gettarono  sul  fragile  specchio 
delle  acque  mostruosi  ponti  di  ferro,  si  piantarono  sul  Cana- 
lazzo  goffi  pontili  d'approdo  e  si  spinsero  i  goffi  vaporini  a 
fischiare  sull'azzurra  laguna.  Non  cambiarono  solo  gli  abiti  ma 
fino  il  dialetto,  non  soltanto  scomparve  l'aurea  pompa  ma  la 
regale  dignità  dell'antica  Dominante.  Sì,  anche  il  Settecento  è 
proprio  finito  a  Venezia.  Un'altra  città  sopravvive.  Bisogna  aver 
portato  molto  a  lungo  dentro  di  sé  gli  uomini  e  le  donne  di 
quel  tempo,  evocandone  dalle  carte  manoscritte  e  stampate  il 
profilo  il  sorriso  la  conversazione  :  e  ad  un  tratto,  in  qualche 
tristissimo  e  dolcissimo  tramonto  autunnale,  al  ritorno  da  una 
visita  alle  isole  morte  ci  apparirà,  smarrendosi  l' occhio  sulla 
tristissima  e  dolcissima  laguna,  tutto  il  Settecento  veneziano^ 
qual  fu  veramente;  o  lo  vedremo  e  lo  sentiremo,  se  un  mattino 


4  VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO 

ci  desti  un'antica  campana,  di  là  dal  canale,  sonando  l'alba, 
Talba  che  s'indovina  fuori  della  chiusa  stanza,  intorno  la  casa;, 
o  ancora,  se  da  tutti  i  campanili,  al  venir  d*  un  Natale  o  al 
morire  d'un  Carnevale,  le  sacre  voci  del  passato  si  spandano 
con  folle  tumulto  su  tutta  la  bella  città  notturna,  risvegliando 
qualche  eco  della  sua  anima  lontana. 

Non  già  un  secolo  intero  vogliamo  rappresentarci,  sì  vo- 
gliamo rivivere  per  un  istante  a  Venezia  nel  breve  periodo  che 
va  dal  1748  al  1762:  periodo  eh' è  giusto  chiamar  goldoniano,, 
del  quale  non  ci  raccontano  gli  storici  della  Serenissima  nes- 
suna impresa  di  guerra,  né  ci  descrivono  le  solite  feste  suntuose 
per  l'arrivo  di  principi  stranieri  e  non  ricordano  stupendi  acci- 
denti, ma  che  d'altra  gloria  adorna  Venezia,  se  in  esso  l'arte 
comica  creò  i  Rusteghi  e  le  Baruffe  Chiozzotte,  intanto  che 
Carlo  Gozzi  dava  principio  alla  Marfisa  e  alle  Fiabe,  e  il  fra- 
tello Gasparo  stampava  i  primi  Sermoni,  la  Gazzetta  Veneta  e 
l' Osservatore. 

La  fama  di  Giambattista  Tiepolo,  giunto  al  sommo,  della 
maturità,  rifulgeva  per  tutta  Europa:  dal  '50  al  '53  la  Germania 
lo  toglieva  per  poco  alla  sua  città  nativa,  che  nel  '56  lo  elesse 
presidente  dell'Accademia  di  pittura  e  scultura  allora  istituita: 
solo  nel  '62  la  Spagna  lo  rapiva,  per  sempre.  Se  Rosalba  Car- 
riera, cieca  e  demente,  spegnevasi;  se  il  Canaletto  invecchiava; 
serbavano  Pietro  Longhi  e  Francesco  Guardi  forze  vivaci  e 
durevoli  *.  Questi  nomi  bastano  e  non  occorre  rammentare  il 
Piazzetta  che  morì  nel  '54,  il  Pittoni  e  Fabio  Canal  morti  nel  '67, 
il  Guaranà  e  il  Maggiotto  che  nacquero  nel  '20,  dei  quali  fu 
pur  chiesta  e  celebrata  l'arte  oltre  l'Alpi,  e  molti  altri  =:  o  come 
r  Europa  invidiasse  a  Verona  il  Cignaroli,  e  Verona  stessa  con- 
cedesse alla  Corte  di  Pietroburgo  il  Rotari,  e  Venezia  a  questa 
il  Fontebasso,  a  quella  di  Madrid  l'Amigoni.  In  mezzo  al  gene- 
rale e  fatale  decadimento  della  pittura,  Venezia  aveva  dunque 
potuto  riacquistare  e  teneva  una  volta  ancora  primissimo  posto 
fra  le  nazioni.  Vi  fioriva  poi  una  celebre  scuola  d' incisione  3, 
donde  per  V  Italia  e  per  T  Europa  si  diffondevano,  a  ornare  e 
allietare  alfine  le  pareti  delle  case  borghesi  e  plebee,  le  umili 
ma  dilette  riproduzioni  degli  antichi  e  nuovi  capolavori. 

Venezia  che  nel  Seicento  aveva  dalle  sale  de'  principi  tra- 
sportato ne*  pubblici  teatri  il  dramma  musicale;  che  in  sei  de- 
cenni vide  e  udì  più  di  trecento  opere;  che  una  serie  di  maestri 
lunghissima,  veneziani  quasi  tutti,  contava  fino  al  principio  del 


VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO  5 

Settecento;  essa  che  per  mezzo  del  Cavalli  diede  in  Francia 
V  impulso  al  Lulli  e  per  la  scuola  del  Gabrielli  iniziò  con  lo 
Schiltz  r  opera  germanica,  e  precedette  la  gloriosa  scuola  na- 
poletana, non  aveva  interamente  smarrito  le  sue  tradizioni  4, 
€  se  piangeva  ancora  la  morte  di  Benedetto  Marcello  e  di  An- 
tonio Lotti,  vantava  Baldassare  Galuppi  il  Buranello^  emulo  de' 
maestri  napoletani  5  e  creatore,  insieme  col  Goldoni,  de\V opera 
giocosa  sulle  lagune  di  Venezia  6. 

De'  letterati  veneti  che  nella  prima  metà  del  Settecento 
portarono  per  1'  Europa  onorato  il  nome  italiano,  morivano  in 
questo  tempo  assai  vecchi  lo  Zeno  e  il  Maffei,  ma  lasciando  in 
patria  la  luce  e  il  suono  della  loro  fama:  e  poco  innanzi  era 
morto  il  Conti  7.  Viveva  l'Algarotti  che,  tornato  dalla  Germa- 
nia (1753),  alternò  la  sua  dimora  tra  Bologna  e  Venezia,  prima 
di  scegliere  il  suo  ultimo  soggiorno  a  Pisa  ('62).  Viveva  Marco 
Foscarini,  insigne  nella  politica  e  negli  studi.  Ma  quale  esube- 
ranza di  operosità,  e  spesso  d'ingegno,  nel  teatro,  nel  romanzo, 
nei  giornali  di  erudizione,  nella  poesia  burlesca  (i  Granelleschi) 
e  vernacola,  nelle  ricerche  storiche  dove  ebbero  grido  il  Corner, 
illustratore  delle  chiese  veneziane,  il  Bandi,  raccoglitore  dei 
Principi  di  Storia  civile  della  Repubblica  di  Venezia,  Mittarelli 
e  Costadoni,  autori  degli  Annali  Camaldolesi,  il  padre  Zaccaria, 
professore  di  storia  ecclesiastica,  Giovanni  Degli  Agostini,  com- 
pilatore delle  Notizie  degli  Scrittori  Veneziani  ^,  negli  studi  filo- 
logici (Bergantini)  bibliografici  (Paltoni)  economici  (Ortes),  nelle 
lingue  orientali  (Finetti,  GalliccioUi),  nella  matematica  (Poleni), 
nella  cultura  varia  (i  fratelli  Zanetti,  Griselini  ecc.)!  9.  Qui  scri- 
vevano prose  e  versi  eleganti  in  latino  Natale  dalle  Laste  (di 
Marostica)  e  Tommaso  Farsetti;  qui  scherzava  con  le  muse  una 
gentile  schiera  di  donne.  Angela  Tiepolo  Gozzi,  la  Bergalli 
Gozzi,  Marina  Gozzi  Prata,  la  Barbaro  Gritti,  Girolama  Gozzi 
Corner,  Maria  Marcello,  la  Dolfin  Tron.  Qui  fu  il  Baretti  negli 
anni  '47  e  '48,  e  qui  tornò  sulla  fine  del  '62  a  impugnare  la 
Frusta,  qui  insegnò  il  Bettinelli  e  vi  stampò  le  ardite  Lettere 
Virgiliane,  qui  insegnò  il  Cesarotti  e  intraprese  la  versione 
dell' Ossian  ^°:  d'ogni  parte  poi  d'Italia  qui  convenivano  fug- 
gevolmente, specie  nella  stagione  del  carnovale  o  durante  la 
fiera  della  Sensa,  molti  fra'  più  insigni  letterati  e  scienziati  del 
tempo. 

Certo  l'istruzione  che  ai  giovani  compartivano  nelle  scuole 
i  padri  Gesuiti  o  i  padri  Somaschi  riusciva  spesso    misera,  ma 


6  VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO 

dov'era  migliore?  I  Collegi  però  e  i  Seminari  non  soltanto 
nella  Dominante,  bensì  per  tutta  la  Repubblica,  possedevano 
anche  allora  valenti  maestri  di  ciascuna  disciplina,  i  quali  ne 
ricordano  la  sferza,  né  hanno  la  mente  e  T animo  chiusi  al  sof- 
fio d' un  audace  progresso  ;  e  li  ricercavano,  li  compensavano, 
per  quanto  permettevano  gli  scarsi  mezzi,  li  tenevano  cari,  ne 
menavano  vanto  ".  L'  Università  di  Padova,  sebbene  spopolata, 
fioriva  ancora  d' illustri  professori  e  di  buon  insegnamento  ^2,  a 
Verona  nel  '59  aprivasi  la  famosa  Scuola  Militare.  E  accanto 
ad  ogni  Collegio,  in  ogni  Seminario,  in  ogni  Convento,  presso 
le  più  umili  Parrocchie,  e'  era  la  grande  o  piccola  biblioteca, 
costosa  e  preziosa  sempre.  Quelle  poi  de'  privati,  dove  spesso 
gli  studiosi  potevano  facilmente  accedere,  ricchissime  di  opere 
a  stampa  e  manoscritte,  si  trovavano  nella  città  ad  ogni  passo, 
superbo  ornamento  de'  palazzi  veneziani  '3.  Infaticabili  poi  i 
torchi  della  stampa  a  imprimere  centinaia  e  migliaia  di  volumi 
d'  ogni  parte  della  scienza  dell'  arte  della  letteratura,  italiani  e 
latini,  originali  e  tradotti,  talora  ornati  di  vaghissime  incisioni, 
talora  fecondi  d'un  nuovo  spirito  moderno  che  correva  sul  vec- 
chio mondo,  e  pronti  i  numerosi  e  attivi  librai  a  diffonderli 
nello  Stato  e  nella  penisola  m.  Così  che  io  so  di  non  esagerare 
affermando  esser  Venezia  in  questo  periodo  la  città  più  eulta 
d'Italia  15;  né  temo  di  confessare  che  in  tutto  il  continente 
d'  Europa  soltanto  Parigi  si  trova  che  d'  un  tratto  assai  visibile 
la  sopravanzi. 

Venezia,  con  i  suoi  150  mila  abitanti  ^^,  non  era  città 
d'oziosi,  sebbene  oltre  6000  fossero  gli  ecclesiastici  dei  due 
sessi  *7:  aveva  più  di  5500  mercanti  o  negozianti,  8000  artisti 
o  manifattori,  3100  venditori  di  commestibili,  3700  barcaioli. 
Oltre  2000  telai  risuonavano  di  tele,  di  panni  di  lana  o  di  lino, 
ma  specialmente  di  drappi  e  passamani  di  seta,  d'oro  e  d'ar- 
gento »8:  e  25  fornaci  ardevano  in  città  per  le  margarite  e  a 
Murano  30  per  cristalli  perle  tazze  specchi,  intorno  alle  quali 
sudavano  340  operai  *9:  e  per  le  isole  dell'Estuario  un  gran 
numero  di  barche  d*  ogni  specie,  a  vela  o  senza,  s' incrociava, 
dove  ai  remi  agli  alberi  ai  timoni  attendevano  4000  e  più  pe- 
scatori o  altra  gente  di  mare.  Gli  artigiani  si  alzavano  di  buon 
mattino,  uscivano  di  casa  al  suono  della  campana  detta  Maran- 
gona,  prima  del  levar  del  sole;  così  pure  le  donne  del  popolo, 
i  gondolieri,  i  barcaioli,  i  facchini;  ascoltavano  la  messa,  beve- 
vano il  caffè   e   quindi   s' affrettavano   al   lavoro.  Un    po'  dopo 


VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO  7 

s'  aprivano  le  botteghe,  prima  di  terza  ="  i  fondachi,  e  più  tardi 
i  banchi  de'  negozianti.  1  patrizi  che  occupavano  qualche  ma- 
gistratura, gli  avvocati,  gli  impiegati  pubblici  erano  scrupolosi, 
prima  di  terza,  a'  loro  uffici:  orario  comune  da  terza  a  un'ora 
dopo  il  mezzogiorno,  ma  per  molti,  specie  per  gli  uomini  di 
legge,  anche  fino  a  notte  ''.  Gli  artigiani  lasciavano  il  lavoro 
mezz'  ora  innanzi  notte,  quelli  che  avevano  bottega  propria  la 
chiudevano  al  tocco  della  Realtina  ^^. 

Vero  è  che  la  ricchezza  non  istava  accumulata  nelle  mani 
di  pochi  potenti,  ma  era  diffusa  con  maggior  equità  per  tutta 
la  popolazione:  quella  popolazione  che  perciò  amava  il  suo 
Governo  e  che,  uccisa  ormai  nella  gaiezza  e  nella  quiete  la 
primigenia  ferocia,  si  sentiva  perciò  aliena  da  qualunque  muta- 
zione negli  ordinamenti  civili.  I  traffici  della  seta  de'  vetri  del 
pesce  del  sale  dell'  olio  e  così  via,  il  noleggio  di  circa  900  va- 
scelli con  8000  marinai,  i  frutti  superstiti  de'  commerci  antichi 
facevano  sovrabbondare  a  volte  la  moneta  di  Lombardia  di 
Spagna  d'Austria:  talché  i  commercianti  veneti,  se  non  pote- 
vano primeggiare  fra  le  novelle  nazioni  d'Europa,  erano  tuttavia 
i  più  danarosi  d'Italia  =3.  E  il  denaro  non  si  teneva  inutile  nelle 
casse,  facili  riuscivano  i  prestiti  con  modici  interessi  =4,  T  usura 
quasi  non  si  conosceva,  i  fallimenti  assai  rari.  Mite  il  prezzo 
delle  sostanze  alimentari  =5,  equi  gli  stipendi  per  tutti  ^^,  grossi 
i  guadagni  :  alcuni  sensali  da  quattro  a  dieci  mila  ducati 
l' anno  =7,  qualche  facchino  più  di  cinque  franchi  il  giorno. 
Alcune  famiglie  patrizie,  come  i  Mocenigo  i  Zenobio  i  Conta- 
rini,  tenevano  quaranta  o  cinquanta  servi,  e  sei  o  dieci  gon- 
dole =8  j  un  centinaio  di  dame,  afferma  il  Lamberti,  potevano  le 
feste  adornarsi  di  gioielli  che  costavano  trenta  mila  ducati:  e  le 
donne  stesse  del  popolo  avevano  pendenti  d' oro,  gli  artigiani 
e  i  gondolieri  fibbie  d' argento  e  orologi.  Se  nel  Seicento  i 
Labia,  arricchiti  coi  traffici,  seppero  "  edificare  la  vasta  mole 
di  S.  Geremia,  dove  diedero  a  quaranta  gentiluomini  un  ban- 
chetto con  suppellettili  d'  oro  „  ==9,  nelle  case  del  bottegaio  del- 
l'artiere  del  barcaiolo  risplendevano  pur  negli  ultimi  anni  della 
Repubblica  i  vasellami  e  le  posate  d'argento;  e  di  queste  rara- 
mente mancavano  le  umili  osterie  de'  villaggi  3°.  Minimo,  si  può 
dire,  il  debito  pubblico;  e  il  Governo,  grazie  alla  pace,  lo  spe- 
gneva a  mano  a  mano  31  senza  punto  gravare  di  tasse  32,  eh'  erano 
assai  tenui,  il  popolo  suo.  Pur  nella  velenosa  inerzia  che,  oc- 
cultamente   inoculatasi,   s' avanzava    lenta   e   spesso  invisibile  a 


8  VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO 

intorpidire  le  fibre  di  tutte  le  classi  de'  cittadini  della  Domi- 
nante, nelle  province  venete  i  campi  e  i  vigneti  continuavano 
a  essere  lavorati,  le  praterie  falciate  33.  Il  contadino  della  terra- 
ferma non  soffriva  la  fame  34,  e  nella  Dominante  fra  il  *66  e  il 
70  solo  800  persone  si  trovavano  senza  entrata  e  senza  me- 
stiere; nell'intero  Stato  poi  appena  21  mila  35.  Anche  questa 
era  allora  gloria  della  Repubblica  di  Venezia,  e  dopo  ciò  lasciamo 
che  Antonio  Lamberti,  il  poeta,  dopo  aver  rimproverata  T  im- 
prudenza de'  governanti  i  quali  avevano  trascurato  l'armata  e 
ridotto  r  esercito,  si  conforti  da  se  pensando  che  diedero  modo 
a'  sudditi  di  vivere  per  un  secolo  meno  gloriosi  bensì,  ma  più 
ricchi  e  più  felici. 

Intanto  di  là  dalle  Alpi,  a  settentrione,  lungo  i  fiumi  di 
Boemia  e  di  Sassonia,  presso  le  nere  foreste  di  Vestfalia,  il 
cannone  rombava,  sordamente.  L'Europa  agitavasi  ancora: 
l'irrequietudine  tormentava  le  nazioni,  rottosi  l'antico  equilibrio. 
Venezia,  con  gli  occhi  al  mare  che  sempre  più  le  fuggiva,  non 
voleva  udire  ne  vedere;  e  quella  sua  timida  neutralità  parendo 
arte  di  politica  subdola,  le  creava  o  cresceva  intorno  diffidenze 
e  irritazioni.  Scarsissimo,  dopo  Passarowitz,  il  commercio  in 
Levante  :  i  manufatti  veneziani  non  trovavano  compratori,  men- 
tre si  ricercavano  quelli  di  Francia  e  d' Inghilterra,  meno  co- 
stosi 36  ;  i  mercanti  abbandonavano  a'  rivali  le  città  dell'  Egitto 
e  della  Siria  37.  Neil'  Egeo,  nel  mare  di  Candia,  nell'  Ionio  cor- 
seggiavano in  gran  numero  i  veloci  e  leggeri  sciambecchi  delle 
potenze  Barbaresche,  assalendo  e  predando  i  legni  carichi;  e 
si  spingevano  su  per  l'Adriatico  38,  oltre  le  Bocche  di  Cattare  : 
così  che  la  Repubblica  era  costretta  a  tenere,  con  dispendio 
enorme  e  piccolo  vantaggio,  la  propria  flotta  in  assetto  di 
guerra  39.  Soltanto  nel  '63  si  firmò  ad  Algeri  la  pace,  non  sem- 
pre però  sicura,  e  impotente  a  frenare  l'audacia  e  la  violenza 
di  qualche  corsaro  40.  n  decadimento  della  marina  veneziana 
era  continuo,  fatale;  intorno  al  '52  il  Governo  sembra  divenire 
più  vigile  e  mette  a  nudo  le  piaghe  41.  Le  migliori  navi,  co- 
struite con  scienza  troppo  vecchia  e  imperfetta,  costano  assai, 
ma  per  la  grossa  mole  si  movono  tarde  e  non  sostengono  il 
lungo  corso.  Indisciplinate  inesperte  scarse  le  ciurme:  i  marinai 
vendono  le  vesti  e  perfino  il  pane  4».  Ma  più  vasto  e  turpe 
mercato  si  esercitava  nell'  Arsenale,  dove  i  furti  d'  ogni  specie 
e  r  ozio  s'  erano  troppo  abbarbicati,  perchè  si  potessero  ormai 
interamente   sradicare  43.   Le    truppe    di    terra,   ridotte  in  modo 


VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO  9 

pericoloso,  bastavano  appena  a'  presidi  delle  cadenti  fortezze  44  ; 
e  pure,  causa  le  frodi,  a  cui  non  si  sapeva  riparare  con  vigore, 
la  Repubblica  spendeva  per  esse  gran  somme.  Niente  marce 
od  altri  esercizi  militari,  nessun  maneggio  delle  armi,  nessuna 
disciplina:  i  soldati,  laceri  spesso  e  perciò  oggetto  di  scherno, 
ignoranti  e  viziosi,  che  si  traevano  dalle  popolazioni  più  misere, 
oziavano  nelle  lunghe  guardie  e  talora  disertavano  45.  La  mas- 
sima parte  poi  degli  ufficiali  di  terra  e  di  mare,  patrizi  moltis- 
simi per  r  ingiusto  e  dannoso  privilegio  degli  antichi  regimi,  e 
poveri  la  più  parte,  si  curava  soltanto,  in  tempo  di  pace,  di 
riscuotere  le  paghe  e  di  uccidere  con  le  femmine  e  col  gioco  la 
noia  delle  giornate  46.  Tuttavia  convien  ricordare  come  Venezia 
fosse  r  unica  potenza  marittima  d' Italia  e  come  1'  armata  vene- 
ziana, sebbene  avesse  perduto  la  sua  importanza  mondiale, 
fosse  ancora  imponente  e  temuta  nel  Mediterraneo  47. 

La  religione  continuava  ad  apparire  una  splendida  pompa, 
ma  lo  scetticismo  cresceva  48:  il  vero  spirito  religioso  sempre 
più  ritraevasi  di  fronte  al  soddisfacimento  del  senso  teatrale  49. 
Fin  dal  secolo  precedente  la  chiesa  talora  diventava  un  ritrovo 
d'  amore  e  di  civetteria,  dove  le  donne,  troppo  tirannicamente 
rinchiuse,  potevano  fare  sfoggio  delle  vesti  e  de'  monili,  offrire 
al  desiderio  o  all'  invidia  la  vista  del  seno  e  degli  omeri  50. 
Per  r  intero  popolo  veneziano  anche  la  messa,  la  predica,  le 
processioni,  le  sagre  frequentissime,  il  canto  negli  Ospedali  si, 
i  festini  ne'  monasteri,  tutto  sempre  più  appariva  uno  spasso 
giocondo,  una  manifestazione  varia  del  Carnovale  perpetuo  5^. 
Qualche  dama  ascoltava  i  divini  uffici,  presso  l' altare,  con 
l'abito  di  maschera  53;  qualche  altra  vestì,  ne'  suoi  svaghi, 
l'abito  d'abate  o  di  frate  54;  l'uomo  plebeo  celebrava  bene 
spesso  le  feste  della*  religione  abbandonandosi  alla  bestemmia 
al  vino  alla  lussuria  55. 

Assai  ricco  era  il  clero  56  e  potente  57;  né  certo  facevano 
in  esso  difetto  l' ingegno  e  la  dottrina,  ma  numerosi  mali  lo 
travagliavano,  specialmente  per  causa  de'  molti  costretti  alla 
vita  sacerdotale  o  claustrale  dalla  stupida  e  crudele  volontà  de' 
genitori:  quindi  il  lusso  e  la  vana  ambizione  de'  titoli,  il  con- 
cubinaggio, il  turpiloquio,  il  gioco,  le  cure  profane,  e  molti  altri 
vizi  ed  abusi  58.  I  predicatori,  affettati  nel  gesto  e  nella  voce, 
badavano  d'  attirar  folla  con  discorsi  ampollosi  e  bislacchi  : 
nessun  oratore  59.  Mala  peste  poi  i  troppi  abati,  troppo  spesso 
intriganti,  dissoluti,  vili  ^.  Colpe  tutte  de'  tempi,  non  già  colpe 


IO  VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO 

di  Venezia.  Sulla  metà  del  Settecento,  nell*  inizio  del  periodo 
goldoniano,  una  lenta  trasformazione  del  vivere  sociale  della 
donna  ha  cambiato  1*  aspetto  de*  conventi  di  monache.  Non  più 
le  continue  conversazioni,  i  conviti,  le  mascherate,  le  danze,  gli 
intrighi,  la  mondanità  scostumata  ^^  :  qualche  abuso  perdura,  ma 
i  parlatori  diventano  di  chiassosi  silenziosi,  le  cure  della  civet- 
teria cedono  dentro  le  celle  alla  preghiera;  certa  severità  mo- 
notona, certa  noia  triste  si  diffonde  per  i  corridoi  e  i  cortiH 
solitari  ^^.  Non  fu  però  mutamento  improvviso,  né  ci  stupiremo 
di  veder  ancora  le  monache;  avide  di  curiosità  e  di  ghiottonerie, 
mischiare  a'  pettegolezzi  di  cose  sacre  e  profane  le  carezze  alle 
cagnoline  o  il  becchime  agli  uccellini:  lo  spirito  di  salotto  esu- 
lando cede  un  poco  per  volta  alla  bacchettoneria;  mentre  la 
fede  intelligente  e  sincera  se  ne  sta,  e  prima  e  poi,  sola,  umile, 
in  disparte,  sfuggendo  alla  storia. 

Anche  il  gran  problema  della  donna  nella  società  fu  posto 
e  dibattuto  vivacemente  nel  secolo  di  Goldoni  a  Venezia.  Certo 
fu  sempre  trascuratissima  T  istruzione  delle  fanciulle,  ma  sulla 
metà  del  Settecento  appariva  manifesto  il  progresso.  Né  la  sa- 
tira risparmiava  la  falsa  educazione  ^3,  eh'  era  del  resto  severa 
di  solito,  anzi  chiusa  agli  affetti  familiari:  le  giovinette  lascia- 
vano le  mura  del  convento  ^^  o  le  domestiche  pareti,  che  avevano 
gelosamente  custodito  la  loro  verginità,  per  seguire  il  marito 
scelto  e  spesso  imposto  da'  genitori  o  dai  parenti.  Di  simili 
tirannie  paterne  tutti  i  romanzi,  le  commedie  e  i  libri  d' ogni 
specie  del  Settecento  sono  pieni;  e  le. ribellioni  non  si  trovano 
soltanto  nell'Arte:  ma  la  donna  godeva  per  lo  più  di  uscire  in 
qualunque  modo  dal  carcere  della  sua  giovinezza  ^5,  per  potersi 
inebriare  della  libertà  coniugale.  Strano  contrasto!  La  fanciulla 
cresciuta  fino  al  giorno  del  matrimonio  in  una  solitudine  quasi 
orientale,  di  rado  condotta  al  passeggio  in  Piazza,  quasi  mai 
al  teatro  e  mai  senza  la  maschera:  la  fanciulla,  cui  era  proibita 
la  conversazione  coi  giovani  coetanei,  proibito  il  ballo,  proibito 
l'amore  fuori  degli  occhi  materni  ^6;  ecco  d'improvviso  si  ve- 
deva impunemente  servita  dai  cicisbei,  concessi  qualche  volta 
per  patto  nuziale  ^7,  e  corteggiata  da'  vagheggini:  e  poteva  sola, 
fino  a  tarda  ora  notturna,  girare  mascherata  per  l' intera  città, 
sciolta  da  ogni  vigilanza  del  marito,  intento  egli  a  sua  volta  a 
servire  altre  dame  o  a  giocare  ne'  ridotti  ^.  Questo  il  costume 
generale  a  Venezia  nel  periodo  goldoniano:  qualche  decennio 
innanzi,  non  essendo  lecito  alle  donne  di  conversare  con  uomini, 


VENEZIA   NEL    PERIODO   GOLDONIANO  II 

né  di  uscire  non  accompagnate  da*  familiari,  esse  affollavano, 
primo  indizio  di  vagheggiata  libertà,  i  parlatori  de'  conventi  o 
s' accontentavano  di  udire  le  prediche  e  d' assistere  alle  altre 
funzioni  sacre  nelle  Chiese.  Bella  era  dunque  la  vittoria,  ma 
raggiunta  senza  lotta,  in  grazia  d'  una  brutta  moda,  d*  origine 
forestiera  ^9.  Perchè  l' uso  de'  serventi ,  breve  nella  storia  del 
costume,  sorvolando  la  satira  mordace  del  secolo  decimottavo 
e  la  meraviglia  o  il  riso  innocente  del  decimonono,  diventa  a* 
nostri  occhi,  se  ben  si  consideri,  importante  fatto  sociale:  nasce 
anch'esso  da  quell'audacia  del  pensiero  preparata  nella  nostra 
Europa  dal  Seicento,  sferratasi  nel  Settecento,  che  non  ha 
l'eguale,  io  mi  penso,  per  grandezza,  se  non  forse  tra  il  crollar 
del  mondo  ellenico  e  il  sorgere  del  cristiano;  è  un  grido  an- 
ch' esso  della  tormentata  natura,  che  dopo  il  regno  di  Luigi  XIV 
s'ode  in  molteplice  modo  risonare  nella  scienza  e  nell'arte,  e 
che  pervade  l'intera  società  echeggiando  timido  nelle  case  prima 
di  scoppiare  torbido  e  violento  sulle  piazze.  Non  può  sfuggire 
a  chi  s' inoltri  anche  per  poco  nel  Settecento,  una  voce  che  di 
tratto  in  tratto,  sorda  o  chiara,  s' eleva  contro  il  matrimonio  : 
non  sono  già  soli  a  raccoglierla  i  più  audaci  scrittori  di  Francia; 
in  Italia,  a  Venezia  stessa,  la  ritroviamo.  Ma,  anzi  che  nei  libri, 
guardiamo  nella  vita.  Oltralpi,  se  noi  ripensiamo  la  schiera 
gloriosa  degli  uomini  di  lettere,  i  quali  riparavano  alla  patria  i 
disastri  finanziari  dei  Laws  e  le  disfatte  di  Rosbach  tenendo  in 
una  specie  d'intellettual  signoria  la  società  più  colta  d'Europa, 
vedremo  tosto  accanto  alla  serie  de'  ritratti  sorridere  una  lunga 
visione  di  volti  femminili:  sono  le  donne  dell'amore  e  del  do- 
lore, del  conforto  e  dell'abbandono.  Sono  le  donne  elette  di 
Francia,  che  nei  salotti  parigini,  ne  le  verdi  ville  di  campagna, 
negli  esili  del  Belgio  e  della  Svizzera  partirono  a'  letterati  ric- 
chezze, baci  e  infedeltà.  Molte,  tutte  forse,  hanno  il  marito,  ma 
dove,  ma  chi?  Il  diritto  d'amare  non  fu  più  sacro  mai.  Né  la 
vergogna  deturpa  le  belle  immagini,  verso  cui  rivola  in  certi 
istanti  r  anima  nostra,  cullata  dalla  vana  tristezza  delle  cose 
non  godute  e  così  lontane:  "  ...Mais  où  sont  les  neiges  d'antan?  „; 
che  ben  sappiamo  come  le  carezze  della  divina  Emilia  fossero 
nella  esistenza  di  Voltaire  un  miglior  tesoro  della  Merope  o  dei 
Discorsi  siili' nomo)  come  le  cure  della  signora  di  Warens  e  il 
bacio  della  d'  Houdetot  fossero  per  Giangiacomo  meglio  di  qual- 
che capitolo  del  Contratto  e  d' alquante  lettere  della  Nuova 
Eloisa.  E  anche  un  po'   fuori   della   letteratura,  che   ci   importa 


12  VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO 

se  .gli  amori  della  Aissé  e  della  Lespinasse  non  ricevettero  la 
firma  del  notaio?  Ma  coleste  innumerevoli  donne  per  il  loro 
ingegno  e  per  la  coltura  reggevano  esse  la  Francia,  e  n'  erano 
degne;  che  la  corruzione,  nel  senso  più  volgare,  non  pareva 
giungere  ad  esse,  sì  alto.  -  Preme  vedere  l'educazione,  da  per 
tutto  la  medesima:  nella  intera  società  de'  nobili  e  de*  ricchi 
borghesi  il  vincolo  del  matrimonio  è  sciolto,  disciolta  la  vera 
famiglia.  I  figli  crescono,  come  fra  noi,  lontani  da'  genitori,  il 
marito  vive  lontano  dalla  moglie:  non  l'intimità,  non  la  tene- 
rezza 70.  Nella  minor  borghesia,  in  cui  riparano  la  virtù  e 
r  onore  fra  il  generale  rilassamento,  si  trovano  moltissimi  falsi 
matrimoni  e  certa  ritrosia  nella  donna  ad  accettare  un  marito, 
temendo  in  quello  un  padrone  7^.  Nessuno  vorrà  seriamente 
imputare  di  tale  fenomeno  storico  l' esempio  del  re,  perchè 
ostenta  le  sue  concubine  alla  Corte  e  alla  nazione  7^:  ma  la 
ragione  è  più  profonda  e  da  ricercarsi  nel  tempo. 

In  Italia  dove,  al  modo  stesso  che  in  Francia,  amori  e  spon- 
sali si  stringevano  spesso  non  solo  nel  teatro  sì  ben  nella  vita 
in  meno  di  ventiquattr'  ore  73,  qualche  volta  con  violenza,  sempre 
con  leggerezza;  in  Italia,  aperta  fin  dal  secolo  decimosesto  al 
soldato  barbaro  e  alla  moda  straniera,  si  riuscì,  smesso  il  rigore 
ipocrita  spagnolo,  all'  ibrido  tipo,  un  po'  ridevole  e  un  po'  basso, 
del  cicisbeo  74.  A  Venezia  era  scelto  di  solito  a  servente,  per 
tórre  il  biasimo,  un  amico  di  casa,  talora  un  parente,  non  più 
giovine  75:  ma  il  sospetto  e  la  maldicenza  sussurravano  tosto. 
Né  a  torto,  poiché  lo  strano  compromesso  tra  la  libertà  natu- 
rale e  la  moralità  volgare  senza  giovar  all'  amore  aiutò  la  cor- 
ruzione 76. 

Ampia  era  la  corruzione  de'  costumi;  e  a  noi  basta  richia- 
marci la  giovinezza  del  Casanova,  nato  a  Venezia  nel  1725:  ma 
chi  saprebbe  dire  se  minore  fosse  un  secolo  innanzi,  a'  tempi 
di  Girolamo  Brusoni,  o  due  secoli,  a'  tempi  dell'Aretino?  1 
frequenti  divorzi,  le  numerosissime  cortigiane  77,  i  carnovali 
stessi  aiutavano  a  mantenerla,  se  non  ad  accrescerla  78.  Salva 
però  n'  era  la  donna  nell'  età  sua  prima,  poiché  il  triste  spet- 
tacolo non  ne  turbava  come  oggi  fin  dall'  adolescenza  la  mente 
e  il  sangue:  massimo  pregio,  nelle  fanciulle  d'ogni  classe,  go- 
devano la  verginità  del  corpo  e  l' innocenza  del  pensiero  79,  a 
salvar  le  quali  i  genitori  usavano  cautele  sciocche  talora.  Le 
leggi  contro  i  seduttori  si  conservavano  severe:  la  moda  poi 
fortunatissima  delle  semivergini,  suddivise  in  vari  gradi,  che  ha 


VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO  I3 

inquinato  ormai  totalmente  anche  le  parti  rimaste  più  intatte 
della  società,  fu  tutta  nostra,  della  seconda  metà  dell'Ottocento  ^. 

Le  diverse  occupazioni  delle  nobildonne  sono  ormai  troppo 
note;  e  poi  il  modo  di  vivere  della  dama  si  rassomigliava  da 
per  tutto,  così  a  Parigi  come  a  Milano.  A  Venezia  invece  della 
carrozza  la  gondola,  e  l'abitudine  de'  casini  dove,  piuttosto  che 
ne*  palazzi,  si  tenevano  per  maggior  libertà  le  conversazioni 
notturne  s^  Assai  tardo  al  mattino  il  risveglio:  poi  la  toletta  s^, 
qualche  discorso,  qualche  lavoretto  di  ricamo:  dopo  il  mezzo- 
giorno passeggio  in  Piazza  (il  famoso  liston)  e  d'inverno  sulla 
Riva.  Le  feste  vi  partecipavano  le  donne  del  popolo  ^3.  Specie 
nella  stagione  più  calda,  dopo  pranzo,  le  prmie  ore  di  sera, 
che  gli  uomini  dedicavano  agli  affari  o  al  caffè,  erano  le  ore 
del  riposo  e  del  mistero  nelle  intime  stanze:  quindi  un'altra 
toletta,  con  la  visita  de'  serventi,  prima  d'  uscire  ^4,  Da  Pasqua 
a  Ottobre  ogni  festa,  sul  tramonto,  il  fresco  nel  Canalazzo  ^5  : 
la  sera  dell'Ascensione  si  teneva  nel  canale  della  Giudecca  e 
durava  fino  all'aurora.  11  buon  Lamberti  si  compiace  di  descri- 
vere lo  spettacolo  di  mille  gondole,  liete  di  tante  donne  adagiate^ 
intorno  alle  quali  volteggiano  i  barchini  de'  giovani  gentiluomini, 
intanto  che  altri,  più  vigorosi,  vogano  a  gara  a  quattro  remi, 
a  sei,  a  otto,  nelle  svelte  ballottine,  margherote  e  bissone,  fra 
gli  applausi  del  minor  popolo  dalla  riva  ^^.  Splendida  visione 
invero  che  mal  sappiamo  immaginare;  quanta  ricchezza  di  co- 
lori, quanta  gioia  di  vita  fra  l'acque  e  il  cielo! 

Facile  allora  e  adesso  deridere  i  guardinfanti  voluminosi, 
le  altissime  capigliature,  le  parrucche  incipriate  e  le  solite  stra- 
nezze della  moda  ^7:  ma  tutto  quello  sfarzo  ^  e  quella  eleganza, 
dalle  magnifiche  velade  alle  fibbie  d'oro  delle  scarpette,  inebria- 
vano voluttuosamente  gli  occhi.  Poiché  gli  uomini  e  le  donne 
che  nel  Settecento  si  aggiravano  per  la  Piazza  e  per  il  Molo 
nulla  capivano  o  quasi  de'  miracoli  d'architettura  sorgenti  all'in- 
torno, ma  vi  si  trovavano  a  loro  agio,  come  se  creati  per  essi. 
Essi  pure  avevano  un  loro  stile  speciale,  che  non  offendeva  per 
niente  le  volte  e  i  ricami  bizantini  della  Chiesa,  gli  archi  gotici 
del  Palazzo  Ducale,  la  linea  lombardesca  e  la  sansoviniana  delle 
Procuratie  Vecchie  e  della  Biblioteca.  La  città  lussureggiante 
dai  mille  palazzi,  dai  mille  ponti,  dalla  rete  misteriosa  e  ininter- 
rotta di  canali  e  di  calli  avvolgenti,  serpeggianti  :  questo  unico 
e  divino  labirinto  d*  amore  era  nato  per  essi.  Ad  essi  il  mare 
aveva  donato  la  fantastica  dimora,  per  il  loro  piacere. 


14  VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO 

Dove  sono  le  donne  patrizie  nella  vesta  di  seta  nera,  col 
nero  zendà  intorno  al  capo,  le  donne  del  popolo  col  ninzioletto 
bianco?  Dall'ottobre  alla  Quaresima,  nella  Sensa  e  nelle  occa- 
sioni solenni  portavano,  spesso  a  viso  scoperto,  la  bauta  di  seta 
nera  col  civettuolo  cappellino  a  tre  punte:  né  le  dame  solo,  ma 
fino  gli  alti  magistrati  e  il  Doge  ^.  Mode  intimamente  nazionali, 
veramente  veneziane  :  ed  era  sì  grande  questo  sentimento  della 
patria,  che  quando  le  fogge  francesi,  dopo  il  regno  di  Luigi  XIV, 
distendendosi  su  tutta  Europa,  anche  a  Venezia  un  pò*  per  volta 
si  affermarono,  i  patrizi  "  solevano  coprirle  „ ,  dice  il  Romanin, 
^*  vergognandosi  quasi  di  aver  lasciata  1'  avita  toga,  di  un  tabarro 
o  ferraiolo  „  bianco,  rosso  o  turchino;  e  taluni  continuavano, 
accolto  r  uso  della  parrucca,  ormai  generale,  a  tenere  in  mano 
r  anticaf  berretta  9°. 

La  donna,  fatta  libera,  esercitava  il  suo  fascino  e,  a  sua 
volta,  qualche  parte  di  dominio  sulla  società.  Acquistata  l'arte 
sottile  della  parola  e  della  seduzione,  ebbe  essa  il  suo  regno 
nel  secolo  del  lusso  della  eleganza  della  voluttà.  E  ciò  serve 
anche  a  meglio  spiegare  nella  storia  del  Settecento  certi  feno- 
meni politici,  e  specialmente  artistici  e  letterari.  L' influsso  della 
donna  si  avverte  in  ogni  dove;  non  soltanto  per  le  sale  de' 
palazzi  e  per  le  vie  essa  ci  avvolge  o  abbaglia  col  profumo 
della  cipria,  che  le  vola  dalla  nuca,  con  la  bianchezza  della 
pelle  nuda,  col  cinguettio  sorridente  e  insistente:  non  la  ritro- 
viamo soltanto  nelle  feste  pubbliche  nelle  chiese  ne'  conventi 
negli  oratori  ne'  teatri  ne'  casini  ne'  caffè  ne'  ridotti  nelle  acca- 
demie, fra  i  poeti  fra  gli  scienziati  fra  i  pittori,  ora  in  atto  di 
ascoltare  un  romanzo  nel  suo  gabinetto,  or  di  intrecciare  la 
contraddanza  nelle  sale  da  ballo,  or  di  tagliare  al  faraone  presso 
un  tavolino  da  gioco,  partecipe  insomma  a  ogni  manifestazione 
della  vita  cittadina,  seria  o  ridicola,  onesta  o  viziosa:  ma  gli 
avvenimenti  del  tempo,  i  libri,  ogni  più  piccolo  foglio  rigato 
sono  pieni  di  lei,  serbano  il  cenno  della  sua  limpida  fronte,  una 
traccia  delle  dita  voluttuose,  un'  eco  del  fruscio  di  quella  seta, 
che  le  ondeggia  intorno  alla  persona  e  ci  tocca.  Le  vergini  di 
Vittore  Carpaccio  e  di  Giovanni  Bellini,  dal  volto  consacrato 
all'  estasi  e  alla  fede,  dai  puri  occhi  mattutini  innamorati  del- 
l'alba,  dalla  parola  più  dolce  d'una  preghiera,  dalle  mani  caste 
congiunte  sul  timido  petto  nascente,  sono  dileguate  lontano  lon- 
tano, come  piccole  fate  impaurite  del  sole,  fuggendo  per  entro 
i  primi  secoli  di  Venezia:  la   Repubblica   al   tramonto    più  non 


VENEZIA   NEL    PERIODO    GOLDONIANO 


15 


ci  mostra  che  le  dame  civettuole  languide  sensuali  vanitose 
artificiose  ne'  pastelli  di  Rosalba  Carriera  e  in  qualche  qua- 
dretto di  Pietro  Longhi  o  dei  Guardi  91.  Nate  al  piacere,  vivono 
del  piacere:  la  loro  grazia  la  gaiezza  la  cultura  l'intelligenza 
la  corruzione  stessa  ci  seducono. 

11  carnovale  esiste  per  esse  :  per  esse  la  fantastica  follia  de' 
carnovali  veneziani,  sì  celebre  e  sola  nella  storia  umana  9^.  Dice 
il  Lamberti  che  non  può  averne  idea  chi  non  ha  visto  Venezia 
in  quei  tempi.  Gli  ultimi  giorni  nessuno  più  attendeva  agii  affari: 
anche  il  fòro  taceva:  tutti  volevano  abbandonarsi  al  tripudio 
sfrenato.  La  notte  ultima  uomini  e  donne  mascherati  correvano, 
urlando  assordando,  per  le  calli  e  per  i  campi',  d' ogni  età  e 
d'ogni  classe,  con  torce,  con  fanali,  in  mano,  sul  capo,  con  zufioli 
nacchere  corni  e  altri  infernali  strumenti,  sonando  ridendo  schia- 
mazzando ululando,  ballavano,  saltavano  tenendosi  per  mano, 
in  tondo,  a  gruppi,  nella  Piazza  ebra  delle  visioni  e  del  fra- 
stuono, fin  che  dal  campanile  di  S.  Francesco  della  Vigna,  oscuro 
e  muto,  la  voce  de'  bronzi  riscuotendosi  e  diffondendosi  sulla 
insana  ridda,  suU'  enorme  baccanale,  metteva  in  fuga  improv- 
visamente le  figure  incantevoli  bizzarre  spettrali  grottesche,  a 
cento  a  mille  9s.  —  E  noi  ripensiamo  oggi  stupiti  quell'orgia  vio- 
lenta di  colori,  di  motti  arguti  ed  osceni,  di  libertà.  Tutte  le  più 
strane  e  audaci  creazioni  della  Commedia  dell'Arte,  nostra  ita- 
liana, parevano,  esulando  dagli  innumerevoli  teatri,  darsi  qui  con- 
vegno, nella  Città  dell'Arte,  a  una  insuperabile  rappresentazione. 

Come  poi  s'  accordassero  tanta  licenza  e  tanto  rispetto  alla 
legge,  lo  spirito  eminentemente  aristocratico-oligarchico  della 
Repubblica  e  la  mescolanza  dalle  varie  classi  sociali  per  gran- 
dissima parte  dell'  anno  94^  mal  si  comprende  da  chi  non  abbia 
sicura  conoscenza  del  reggimento  politico  di  Venezia;  e  inoltre 
non  veda  come  taluno  dei  poteri,  i  quali  componevano  il  troppo 
complesso  e  troppo  antico  governo  dello  Stato,  si  mostrasse 
già  guasto  e  l'intero  funzionamento  fosse  divenuto  più  lento: 
incapace  ormai  la  mano  della  Repubblica  di  stendersi,  come 
per  lo  passato,  reprimendo  o  favorendo,  grave  o  carezzevole, 
ma  sempre  agile  e  onnipresente,  sulle  varie  forze  e  inclinazioni 
della  società:  d'una  società  che  nel  secolo  decimottavo  sentiva 
dentro  di  se  battere  un  poco  per  volta  una  coscienza  nuova, 
per  la  quale  di  poi  con  moto  assai  rapido  si  trasformò. 

Non  insisteremo  tuttavia  su  cotesto  confondersi  della  po- 
polazione, più  apparente  che   reale.  Certo  piace  vedere  alieni  i 


l6  VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO 

Veneziani  dalla  servitù  spagnola  e  francese  dell'etichetta,  ma 
le  divisioni  e  suddivisioni  in  vere  caste,  come  oggi  diremmo, 
benché  non  fossero  chiuse  o  severe,  con  doveri  e  con  diritti 
creati  propriamente  dalla  nascita,  si  notavano  qui  più  che 
altrove.  Soltanto  V  indole  mite  e  festevole  degli  abitanti,  sia 
delle  classi  maggiori  sia  delle  minori^  rendeva  meno  odiosi  i 
tristi  privilegi  del  così  detto  pregiudizio  del  sangue.  Molta  con- 
siderazione godevano  i  patrizi  dell'ordine  senatorio  e  dell'or- 
dine giudiziario  (o  dei  Quaranta),  ma  il  numerosissimo  terzo 
ordine  del  libro  d*  oro,  la  plebe  aristocratica  o  barnabotta,  for- 
mato da*  nobiluomini  impoveriti  e  per  gran  parte  invidiosi, 
inquieti,  intriganti,  avidissimi  e  prodighi,  arroganti  e  pusillanimi, 
boriosi  e  stiiscianti,  suscitava  intorno  a  sé  antipatia  e  malcon- 
lento,  menomava  l'autorità  della  Repubblica,  tendeva  con  pre- 
potente e  disordinato  desiderio  di  novità  a  scuotere  la  pesante 
compagine  del  governo.  —  Degnissimi  di  stima  e  di  rispetto  i 
cittadini  originari  o  segretari  (il  libro  d' argento),  che  compone- 
vano la  Cancelleria  Ducale  95  ed  erano  sparsi  in  altri  elevati  e 
lucrosi  impieghi,  insieme  coi  cittadini  de  intus.  Fra  costoro  e  i 
patrizi  de'  vari  ordmi  covavano  tuttavia  segrete  invidie  e  se- 
greto disprezzo.  —  Nel  popolo  troviamo  da  prima  la  borghesia, 
amante  del  lavoro,  educata,  garbata,  desiderosa  fin  d' ora  d'  una 
qualche  novità  respirando  ormai,  sul  mezzo  del  secolo,  dai  libri, 
nei  teatri,  quasi  nell'aria  più  libere  idee  filosofiche  e  sociali, 
mal  soffrendo  gli  ingiusti  privilegi  de'  nobili,  accusando  già  i 
mali  del  tempo  e  i  vizi  del  governo:  poiché  non  constava  di 
soli  commercianti  o  negozianti,  ma  vi  abbondavano  uomini  di 
legge,  di  lettere  e  di  scienze,  legati  d'amicizia  o  almeno  in 
assiduo  contatto  coi  più  culti  patrizi,  specialmente  dell'  ordine 
senatorio.  Non  volevano,  né  punto  immaginavano  in  questo 
tempo  la  caduta  della  Repubblica,  che  anzi  di  tutto  cuore  avreb- 
bero desiderato  meglio  ricordevole  delle  grandi  tradizioni,  men 
corrotta,  meno  oziosa,  men  dedita  alla  pompa  e  ai  piaceri,  più 
sobria  e  più  forte:  da  costoro  però,  i  quali  forse  comprende- 
vano lo  spirito  vero  del  passato,  si  possono  anche  raccogliere 
le  voci  e  la  visione  dell'  avvenire.  Il  popolo  inferiore,  attivo 
pure,  abilissimo  nelle  arti  sue,  gaio,  quattro  volte  forse  per 
numero  maggiore  della  classe  borghese,  amava  invece  d'inge- 
nuo e  profondo  affetto  il  proprio  Governo  96^  e  se  qualche  mot- 
teggio osava  contro  i  nobili  barnabotti,  venerava  con  fede  cieca 
i  due  ordini  supremi  del  patriziato  97.  San  Marco!  Questa  voce 


VENEZIA   NEL   PERIODO   GOLDONIANO  I7 

era  fitta  nel  suo  animo  e  congiungeva  in  una  sola  passione  il 
culto  per  gli  avi,  la  religione,  la  città,  la  Repubblica.  Perciò  le 
solenni  feste  sinceramente  lo  commovevano  e  taluno  piangeva 
alla  vista  del  Bucintoro',  da  quelle  frequenti  funzioni  le  pie 
leggende  e  la  storia  della  patria  sorgevano  gloriose  e  sacre. 

Forse  alcuno  vede  ancora  nella  memoria  la  processione  che 
la  sera  di  Natale,  uscendo  dalla  Basilica  d*  oro  e  distaccandosi 
dal  Molo  per  il  bacino  folto  di  sfarzose  barche  e  di  gondole, 
illuminato  da  mille  fuochi  diversi,  mentre  raggi  e  ombre  s'al- 
ternavano sul  popolo  della  Riva  e  sul  Palazzo  Ducale,  seguiva 
nella  luce  fantastica  riflessa  dalle  acque,  al  suono  della  banda 
militare  dalmatina,  il  Doge  e  i  Savi  con  gli  altri  gravi  magi- 
strati air  isola  vicina  di  S.  Giorgio,  gemma  della  laguna.  E 
quando  il  Lunedì  dopo  la  Domenica  in  Albis,  sul  vespro,  scen- 
dendo il  Doge  a  San  Marco,  durante  la  processione  i  serventi 
della  Scuola  Grande  facevano  balzare  ad  intervalli  in  alto  l'aureo 
stemma  leonino  della  confraternita,  al  grido  di  San  Marco  1^ 
ode  ancora  la  voce  del  popolo  accalcato  nella  Piazza,  ripetere 
con  un  solo  urlo  del  cuore,  acclamando:  "  Viva  S.  Marco!  „  98. 

Era  un  fremito  di  gioia!  Poiché  questi  uomini  e  queste 
donne  del  Settecento,  innanzi  la  Rivoluzione,  in  Italia  e  fuori, 
sanno  abbandonarsi  con  vero  trasporto  ai  sentimenti  lieti  del- 
l' animo  :  hanno  sul  volto  intatto  da  rughe  profonde,  negli  occhi 
ignari  di  tristezza,  una  serenità  eguale,  che  il  secolo  dopo  nelle 
epiche  lotte  di  razza,  nelle  furie  politiche,  nelle  strette  econo- 
miche, nella  febbre  del  progresso  spense  o  smarrì  quasi  uni- 
versalmente. A  Venezia,  dove  il  popolo  otteneva  lavoro  e  pane, 
mai  nessuna  ribellione,  nessun  bisogno  de'  soldati,  nessuno  spie- 
gamento di  forza  pubbhca:  qualche  fattte  bastava  o  al  più  la 
veste  rossa  del  Missier  Grando  59.  Nella  festa  per  la  elezione 
del  Doge  un  centinaio  di  operai  dell'arsenale  formava  la  guardia. 

E  tale  giocondità  dell'  animo  soddisfatto  vediamo  pure  effon- 
dersi nelle  sagre  tradizionali  presso  la  plebe  ^oo,  nelle  villeggia- 
ture presso  le  classi  più  ricche.  Dagli  11  del  giugno  alla  fine 
del  luglio,  da'  6  ottobre  alla  metà  di  novembre,  quanti  Vene- 
ziani potevano,  abbandonavano  la  città  del  mare,  spargendosi 
per  le  abitazioni  di  campagna,  taluna  regale,  nella  prossima 
terraferma  ^°^.  A  Mestre,  sul  Terr aglio  1°^,  nei  colli  trivigiani, 
ma  specialmente  lungo  la  magnifica  Brenta,  fin  sotto  Padova,  i 
'^2\2.'L7A  si  succedevano  ai  palazzi,  i  tripudi  ai  tripudi.  Il  lusso 
delle  vesti  e  dei  conviti  diveniva  più  folle  :  il  canale  della  Brenta 

G.  Ortolani.  a 


l8  VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO 

era  stipato  di  gondole  e  di  burchielli',  le  rive  di  carrozze.  Giochi 
suoni  risa  amori  mescevansi  ne'  voluttuosi  giardini,  il  giorno  e 
la  notte  '°3.  Ma  a  cotesta  moltitudine  spensierata  sorridente  sen- 
suale, che  rifugge  dal  dolore  e  dalla  solitudine,  che  adora  i 
piaceri  fugaci  e  sì  bene  conosce  la  dolcezza  del  vivere,  aliena 
da  ogni  violenta  passione  del  cuore,  inetta  a  ogni  alto  ideale, 
coscientemente  artificiosa  nel  vestito  negli  inchini  nei  baci,  il 
sentimento  della  natura  manca  '%  insieme  con  tutti,  o  quasi,  i 
sentimenti  primitivi  e  spontanei  dell'  uomo.  Della  poesia  rurale 
sa  essa  a  mente  qualche  emistichio  di  Virgilio  e  d' Orazio,  e 
meglio  è  ripeterselo  ne'  comodi  salotti  :  nel  passo  del  contadino 
che  guida  l'aratro  secolare  ad  aprire  il  solco  non  vede  che 
goffaggine,  il  mugghio  del  bove  offende  l'orecchio  suo  delicato: 
il  linguaggio,  i  costumi  de'  villici  possono  eccitare  le  risa,  ser- 
vire a  una  mascherata  e  non  altro.  Il  sano  contatto  con  la  terra 
con  gli  alberi  con  gli  animali  con  gli  elementi  fisici,  riesce  inef- 
ficace a  costoro;  la  linea  crestata  delle  Alpi  lontane  non  li 
seduce:  già  sempre  più  aborrendo  dalla  fatica  del  corpo,  disav- 
vezzi agli  stessi  disagi  della  navigazione,  allontanerebbero  spau- 
rito lo  sguardo  dalle  nude  vallate  e  dalle  Dolomiti  erette  nel 
sole  ^°5. 

A  Venezia  vogliamo  rivederli:  una  Venezia,  nella  quale 
ancora  una  volta  conviene  rievocare  e  radunare  tutte  le  antiche 
cose  scomparse  :  le  calli  che  tagliano  cielo  e  aria,  brevi  e  angu- 
stissime'o^,  male  o  punto  illuminate  a  cert'ora  della  notte  ^°7; 
ì^i  fondamente  senza  parapetti;  l'intrico  dei  canali,  varcati  dalla 
curva  dei  singolari  ponti  di  pietra  e  di  legno;  i  campi,  chias- 
sosi di  venditori,  di  donne  e  di  fanciulli;  la  Piazza  con  la  chie- 
setta sansovinesca  di  San  Geminiano,  la  sua  seconda  chiesa  ^°^; 
il  Campanile  cinto  ai  piedi  di  botteghe;  i  palazzi  lieti  di  donne 
e  di  feste;  i  teatri  numerosi  e  gloriosi;  i  caffè  piccoli  ed  ele- 
ganti ^°9,  dove  gli  abiti  delle  maschere  si  confondono  colle  fogge 
pittoresche  de'  Levantini;  le  gondole  nere  in  folla  sul  Cana- 
lazzo  "o;  i  suoni  e  i  canti  che  d'ogni  parte,  ad  ogni  ora,  irrom- 
pono dalla  libera  anima  del  popolo  ^"  :  la  Venezia  insomma 
del  pieno  Settecento,  creata  per  loro. 


AGGIUNTE  E  NOTE 


Nel  1898  cominciai  a  scrivere  queste  pagine  sul  Settecento  vene- 
ziano che  dovetti  due  volte  interrompere  e  finii  nel  1900.  Ricordo 
con  commozione  che,  vincendo  la  mia  ritrosia,  potè  leggerle  fin  da 
quel  tempo  il  caro  compianto  amico  Giovanni  Chiggiato.  Le  stampai 
nel  1905  in  un  volume  di  studi  settecentistici  che  mi  venne  crescendo 
a  mano  a  mano  per  la  lettura  che  allora  facevo  delle  opere  disordi- 
nate dell'  abate  Chiari,  suggeritami  fin  dal  '94  da  Guido  Mazzoni  : 
volume  che  da  circa  quattro  lustri  è  rimasto  pure  interrotto,  a  pa- 
gina 512,  da  quando  assunsi  la  compilazione  delle  Opere  complete  di 
Carlo  Goldoni  per  invito  del  Municipio  di  Venezia,  ma  che  feci  cono^ 
scere  fin  dal  1906  diffondendone  i  primi  ventisei  fogli  in  una  ventina 
di  copie.  Nel  1908  comparve  la  terza  parte  della  Storia  di  Venezia 
nella  vita  privata  del  mio  maestro  ed  amico  Pompeo  Molmenti,  nella 
grande  edizione  illustrata  di  Bergamo.  Tuttavia  godo  di  mettere  oggi 
in  luce  le  mie  vecchie  e  umili  pagine,  piene  di  devozione  all'antica 
Venezia,  sia  perchè  ancora  conservano,  se  non  mi  illudo,  un  sorriso 
di  vita  lontana,  sia  perchè  raccolgono  in  un  breve  quadro  un  breve 
e  determinato  periodo  del  Settecento  veneziano,  quello  in  cui  si  svolse 
l' opera  così  originale  e  pittoresca  di  Carlo  Goldoni.  Le  ho  lasciate 
com'erano,  solo  abbreviando  le  due  prime,  ma  dovetti  in  parte  rima- 
neggiare le  copiose  note,  sempre  utili  ai  giovani  a  cui  sono  sacri  gli 
studi  e  le  memorie. 


I  Tiepolo  1696-1770,  Rosalba  Carriera  16761757,  Antonio  Canal 
o  Canaletto  1697- 1768,  Pietro  Longhi  1702- 1785,  Francesco  Guardi 
1712-1793. 

a  Ecco  Bernardo  Bellotto  (1720- 1780),  nipote  del  Canaletto, 
vissuto  fuori  d'Italia;  ecco  il  bellunese  Gaspare  Diziani,  discepolo 
di  Sebastiano  Ricci,  morto  nel  '67;  ecco  lo  Zais  (m.  1784),  discepolo 
e  rivale  dello  Zuccarelli;  ecco  la  serie  dei  ritrattisti,  Bartolomeo 
Nazari  di  Bergamo  morto  nel  '58,  Giuseppe  Nogari  morto  nel  '65, 
Alessandro    Longhi    nato    nel  '35;   ecco,   non    indegni    di    ricordo,  il 


22  VENEZIA   NEL   PERIODO   GOLDONIANO 

vecchio  Camerata  e  Giuseppe  Angeli.  -  Si  veda  Gino  Fogolari, 
L'Accademia  Veneziana  di  pittura  e  scoltura  del  Settecento,  estratta 
da  LArte  di  A.  Venturi,  anno  XVI,  1913,  fase.  V. 

3  Da  Venezia,  ov'ebbe  la  prima  ispirazione  all'arte  sua  strana 
e  potente,  mosse  nel  '42  per  Roma  il  Piranesi,  il  grande  poeta  delle 
acqueforti,  né  più  tornò  in  patria  che  una  sola  volta,  nel  '44:  a  Venezia 
in  questo  tempo  studiò  nella  scuola  di  Giuseppe  Wagner  il  fiorentino 
Bartolozzi  prima  di  recarsi  a  Londra,  ed  ebbero  fama  sulle  lagune 
Anton  Maria  Zanetti  di  Gerolamo  (1679- 1767)  e  Marco  Pitteri 
(1703- 1786),  amici  del  Goldoni,  il  notissimo  «  vedutista  ^  Michele 
Marieschi  (1711-1793)  e  Pier  Antonio  Novelli  (1729-1804).  -  Nomino 
ancora  tra  gli  scultori  del  tempo  Antonio  Gai  (1686 -1769)  e  il  "  fan- 
tasioso „  Giammaria  Morlaiter  {1699-1781),  come  lo  chiama  il  Fogo- 
lari;  tra  gli  intagliatori  Giovanni  Marchiori  (1695-1778)  di  Agordo, 
fra  gli  scrittori  d*arte  il  Temanza  (Tommaso  1705-1789),  caro  all'Al- 
garotti,  e  il  bizzarro  padre  Lodoli  (Carlo,  1690-1771). 

4  Attingo  principalmente  dalla  prefazione  di  Taddeo  Wiel  ai 
Teatri  musicali  veneziani  del  Settecento,  Venezia,  1897. 

5  Nel  *35  era  morto  il  Pergolesi,  morì  nel  '55  il  Durante.  Senile 
ormai  il  Porpora  (n.  1686)  e  troppo  giovani  il  Sacchini  (n.  1735V 
TAnfossi  (n.  1736),  Paisiello  (n.  1741)  e  Cimarosa  (n.  1749):  fiorivano 
Jomelli  (1714-74)  e  Piccini  (1728-1800). 

6  Solo  al  ritorno  dalla  Toscana  il  Goldoni  iniziò  veramente  la 
serie  de*  suoi  drammi  giocosi:  primo  il  Bertoldo,  musicato  princi- 
palmente dal  Ciampi,  per  il  carnovale  1748-49;  poi,  subito  dopo,. 
V Arcadia  in  Brenta,  per  la  fiera  dell'Ascensione  1749,  eh' è  forse  la 
prima  opera  comica  scritta  per  intero  dal  Galuppi:  seguirono  quindi 
//  Conte  Caramella  (autunno  '49),  Arcifanfano  re  dei  matti  (carn.  '50), 
//  mondo  della  luna  (carnevale  '50),  //  paese  della  Cuccagna  (Ascen- 
sione '50)  ecc.  Dice  molto  bene  Francesco  Piovano  che  Baldassare 
Galuppi  (1706-1785),  se  non  fu  proprio  il  **  padre  dell'  opera  buffa  „, 
devesi  riconoscere  certamente  "  quale  efficacissimo  riformatore  della 
musica  comica,,  [B.  Galuppi  -  Note  biobiblio grafiche,  in  Rivista  Musicale 
Italiana,  anno  XV  (1908),  fase.  2,  pag.  249).  Quella  che  era  stata  fino 
allora  V  opera  buffa  napoletana,  "  pressoché  ristretta  alle  sole  rive 
partenopee  „,  diventa  per  merito  suo  e  del  Goldoni  V  opera  comica 
italiana,  e  si  diff*onde  per  tutta  la  penisola  e  oltre  le  Alpi. 

Rammento  poi  di  volo  come  a  Venezia  vivesse  a  lungo  Gio. 
Hasse  il  Sassone  (1699-1783),  che  aveva  sposato  Faustina  Bordoni, 
già  rivale  nel  canto  della  Cuzzoni  a  Londra,  celebrata  a  Parma  dal 
Frugoni,  onorata  di  una  medaglia  a  Firenze,  festeggiata  a  Dresda  e 
a  Parigi;  e  a  Padova  il  Tartini  (1692-1770)  piranese. 

7  Apostolo  Zeno  1668-1750,  Scipione  Maflfei  1675-1755,  Antonio 
Conti  1677-1749.  -  Nel  '55  moriva  pure  il  dotto  cardinale  Angelo 
Maria  Querini  (n.  1680),  vescovo   di    Brescia,   col   quale   carteggiò   il 


VENEZIA   NEL    PERIODO    GOLDONIANO  23 

Voltaire.  La  sua  morte  e  quella   del   Maffei   sono   ricordate   nelle  fa- 
mose Lettere  della  signora  Wortley  Montagu. 

8  Né  dobbiamo  dimenticare  quel  Sebastiano  Molino  "  senatore 
meritissimo  „  che  per  veni'  anni  raccolse  **  lumi  e  notizie  per  la  storia 
della  Navigazione  e  del  Commercio  de'  Veneziani  „  (lettera  28  feb- 
braio 1756  dell*  ab.  Gennari  all' ab.  Patriarchi);  né  l'umile  diarista 
di  questi  tempi,  Piero  Gradenigo. 

9  Taccio  il  vecchio  ma  arguto  Zaccaria  Valaresso  e  il  Vitturi, 
amico  dei  Gozzi;  taccio  il  giovane  Sebastiano  Grotta  e  il  giovane 
De  Luca,  morto  di  soli  cinque  lustri  nel  '62,  e  altri  amici  della  poesia. 
Nelle  materie  politiche  ed  economiche  ebbe  fama  Nicolò  Dona  (1705- 
1765),  nella  filosofia  wolfiana  e  nel  diritto  l'abate  conte  Arnaldi 
(Lodovico,  1730-1800),  ma  poco  diedero  alle  stampe.  Taccio  pure  gli 
illustri  avvocati  che  onoravano  il  fòro  e  tutti  gli  uomini  politici  de- 
gnissimi per  esperienza  e  per  senno  della  tradizione  patria;  e  taccio 
infine  come  la  Chiesa  Romana  in  questo  periodo  chiedesse  a  Venezia 
un  papa,  il  Rezzonico  (Clemente  XIII). 

10  Qui  insegnavano  in  questo  tempo  Gasparo  Patriarchi  (1709- 
1790)  studioso  della  lingua  italiana,  Clemente  Sibiliato  (di  Bovolenta, 
1719-1795)  cultore  del  latino  e  del  greco,  Giuseppe  Gennari  (1721-1800) 
amantissimo  delle  lettere  e  della  erudizione:  abati  pure  e  padovani; 
qui  insegnava  Marco  Forcellini  (17 12-1794)  di  Campo,  nel  Feltrino, 
fratello  di  Egidio.  Un  altro  padovano,  il  padre  Angelo  Calogerà 
(16991766),  dal  convento  dell'isola  di  S.  Michele  dirigeva  la  nota 
Raccolta  di  opuscoli  scientifici  e  filologici.  A  Padova  poi  Jacopo  Fac- 
ciOLATi  (di  Torreglia,  sui  colli  Euganei,  1685-1762)  ed  Egidio  Forcel- 
lini (di  Campo,  1688-1768)  compivano  il  gran  lessico  latino  e  Gian- 
nantonio  Volpi  (bergamasco,  1686-1766)  continuava  a  curare  le  ristampe 
Cominiane  dei  classici. 

"  Sembra  che  oggi  abbiamo  dimenticato  quello  che  l'antichissima 
esperienza  ci  dimostra:  che  i  buoni  insegnanti  soprattutto  fanno  buona 
la  scuola.  Di  cotesti  Seminari  e  d'altre  scuole  pubbliche  e  private 
bisognerebbe  fare  un  po'  di  storia  per  conoscer  bene  la  cultura  della 
classe  media  nella  Repubblica  Veneta:  e  specialmente  bisognerebbe 
vedere  da  vicino  quali  fossero  i  maestri.  Certo  pochi  erano  allora  i 
giovani  della  borghesia,  come  noi  diciamo,  non  inclinati  al  sacerdozio, 
che  sentissero  il  desiderio  d' una  istruzione  di  molto  superiore  a 
quella  elementare.  Così  dappertutto.  Lagnasi  Gasparo  Gozzi  dell'in- 
segnamento umanistico  ancora  in  vigore,  affogato  nella  pedanteria  e 
nella  rettorica:  Sulla  riforma  degli  studj  -  Scrittura  i,  Udine,  1835 
(si  trovano  delle  lacune  nella  ristampa  del  Tommaseo,  in  Opere  di 
G.  Gosszi,  Le  Mounier,  voi.  II).  I  patrizi  più  ricchi  affidavano  in  casa 
i  propri  tìgli  a  ottimi  maestri,  i  più  poveri  erano  istruiti  neWAcca- 
demia  della  Giudecca  (L.  Zenoni,  L'Accademia  dei  Nobili  alla  Giu- 
decca,  Venezia,  1916),  istituita  provvidamente  dal  governo.  Esistevano 


24 


VENEZIA   NEL    PERIODO    GOLDONIANO 


poi  scuole  ne*  vari  sestieri  della  città  anche  per  i  figli  del  popolo,  a 
cura  della  Repubblica.  -  Oltre  gli  scritti  preziosi  del  Gozzi,  è  qui 
superfluo  citare  le  Memorie  di  Leopoldo  Curti  e  quelle  inedite  del 
Lamberti,  il  libro  Della  Letteratura  Veneziana  del  secolo  XVIII  del 
Moschini  (t.  I,  246  sgg.),  e  le  note  opere  del  Dandolo,  del  Romanin, 
del  Molmenti.  "DsW  Anagrafi  del  1766  si  vede  come  a  Venezia  ben 
1105  persone  professassero  arti  liberali:  Lampertico,  Giammaria  Ortes, 
Venezia,  1765,  p.  263. 

la  Così  dice  nel  '39  lo  stesso  De  Brosses,  ma  ne  avverte  la  gran 
decadenza  per  la  scarsezza  degli  alunni  che  nel  secolo  decimottavo 
si  ridussero  a  poche  centinaia.  Pur  troppo  da  molto  tempo  la  nostra 
penisola  non  era  più  il  centro  della  cultura  europea,  né  più  vi  scen- 
devano i  giovani  d'  oltremonte.  Ma  le  cure  del  Governo  per  rialzare 
lo  Studio  padovano  dalla  **  estrema  declinazione  „  in  cui  si  trovava 
in  principio  del  secolo  (vedasi  relazione  di  Ascanio  Giustiniani,  1703 
e  Ricordo  per  la  riforma  dello  Studio,  1715)  furono  continue,  sia  per 
isvecchiare  V  insegnamento  con  la  istituzione  di  nuove  cattedre,  sia 
per  invitarvi  i  più  valenti  lettori.  Sulla  metà  del  Settecento,  nel  pe- 
riodo a  noi  più  caro,  il  Volpi  vi  insegnava  eloquenza  greca  e  latina, 
etica  lo  Stellini,  ragion  civile  1*Arrighi,  teologia  il  padre  Valsecchi, 
il  PoLENi  matematica  e  filosofia  sperimentale  (ossia  fisica),  geometria 
il  conte  Rinaldi,  il  padre  Colombo  astronomia,  il  Pontedera  e  il 
Marsili  botanica;  TArduini  per  qualche  anno  diresse  Torto  botanico, 
prima  d'ottenere  la  nuova  cattedra  di  scienza  agraria  ('64);  istitui- 
vasi  la  cattedra  di  chimica,  prima  affidata  a  Bartolomeo  Lavagnoli, 
poi  a  Marco  Carburi  che  viaggiò  per  sette  anni  a  spese  pubbliche 
nel  settentrione  d'Europa  e  in  Ungheria;  istituivasi  una  cattedra  di 
diritto  pubblico  o  naturale  ('61);  lesse  geografia  e  nautica  fino  al 
termine  del  '49  il  giovane  Gian  Rinaldo  Carli;  a  soli  24  anni,  sulla 
fine  del  '57,  insegnò  medicina  Simone  Stratico,  eh'  ebbe  poi  la  cat- 
tedra di  matematica  e  navigazione:  nomi  non  oscuri,  anzi  alcuni 
illustri,  ma  tutti  ricopriva  la  fama  del  Morgagni  forlivese,  "  creatore, 
può  dirsi,  della  anatomia  patologica  „  (così  di  recente  il  Brugi)  e 
"  dopo  Galilei,  1'  astro  maggiore  della  Università  padovana  „  (così 
Luigi  Messedaglia).  Servono  a  illustrare  gli  sforzi  del  governo  vene- 
ziano le  pagine  di  Antonio  Favaro  sui  Successori  di  Galileo  nello  Studio 
di  Padova  fino  alla  caduta  della  Repubblica,  in  Nuovo  Archivio  Ve- 
neto, t.  XXXII,  parte  i%  n.  105  (  genn.-marzo  1917  ).  Ricordiamo  che 
la  spesa  per  lo  Studio  ammontò  nel  1755  a  ben  30.544  ducati;  e 
ricordiamo  queste  parole  di  un'  umile  lettera  di  Clemente  Sibiliato, 
succeduto  nel  '60  al  Volpi:  "  È  vero  che  i  letterati  non  hanno  mai 
grandi  ricciiezze;  ma  è  anche  vero  che  i  Professori  di  Padova  sono 
i  meglio  pagati  di  tutte  le  Università,  e  sarebbero  ingiusti  se  si 
lagnassero.  L' aumento  poi  dello  stipendio,  ogni  scorso  lustro  fino 
che  si  vive,  è  un  vero  conforto   anche  a  quelli  che   mancan  prima  „ 


VENEZIA   NEL    PERIODO    GOLDONIANO  25 

(17  sett.  1778:  Lettere  inedite  di  CI.  Sibiliato  ecc.  Padova,  1839,  P*  ^4)' 
Di  molta  importanza  la  relazione  di  Natale  dalle  Laste,  G.  Gozzi  e 
G.  B.  Billesimo  nel  1771  che  lamenta  antichi  mali,  comuni  del  resto 
in  tutti  i  tempi  (soprattutto  la  scarsa  preparazione  degli  alunni  i 
quali  accedono  allo  Studio,  e  le  troppe  vacanze)  e  suggerisce  alcuni 
rimedi:  in  Opere  di  G.  Gozzi,  ed.  Le  Mounier  cit.,  voi.  II. 

13  Moschi  ni,  Della  Letteratura  Veneziana  del  Secolo  XVIII  ecc., 
Venezia,  i8o6,  t.  II,  44  sgg.  -  Pur  troppo  dopo  la  caduta  della  Repub- 
blica molte  furono  disperse  dagli  eredi  e  tutte,  si  può  dire,  scacciate 
dalle  sale  patrizie.  Spoglie  di  scaffali  sono  le  pareti,  vuoti  di  libri  i 
palazzi. 

14  Non  si  rimpiangerà  mai  abbastanza  che  1*  arte  della  stampa, 
la  quale  aveva  così  antiche  e  nobili  tradizioni  a  Venezia,  e  tutto  il 
commercio  librario  siano  ora  scomparsi  dalle  lagune.  Gli  stessi  stra- 
nieri ammiravano  nella  metà  del  Settecento  i  vasti  magazzini  del- 
l'Albrizzi  del  Baglioni  del  Pasquali  del  Lovisa  degli  Occhi  del  Pitteri 
del  Bettinelli  del  Colombani  del  Valvasense  dei  Coletti  dello  Zatta. 
Nelle  botteghe  poi  de'  librai,  che  s'incontravano  a  ogni  passo  nelle 
Mercerie  e  altrove,  si  raccoglievano  spesso  a  conversare  fin  dal 
Seicento  le  persone  più  colte.  Taccio  di  Padova  di  Verona  di  Bas- 
sano.  -  Dopo  il  1760  anche  la  stampa,  che  aveva  ripreso  vigore 
intorno  al  '30  (mentre  dieci  anni  prima  si  trovava  "  nell*  ultima  de- 
cadenza „:  Opere  di  G.  Gozzi,  ed.  Le  Mounier,  II,  451),  di  nuovo 
cominciò  a  decadere.  Bologna  Parma  Milano  Firenze  Lucca  Livorno 
e  specialmente  Napoli  danneggiavano  ormai  Venezia  che  non  vantava 
più  il  monopolio,  si  può  dire,  della  stampa  in  Italia,  spacciando  esse 
a  minor  prezzo  le  ristampe  che  facevano  de*  libri  veneti  più  for- 
tunati. Lagnavasi  di  ciò  Gasparo  Gozzi  nelle  varie  sue  Scritture  stese 
per  conto  de*  Riformatori  dello  Studio  di  Padova,  quale  soprainten- 
dente  generale  delle  stampe.  Vi  erano  nel  1766  a  Venezia  38  stam- 
perie con  120  torchi,  dei  quali  ben  53  "  senza  occupazione  „  (1.  e,  396), 
ma  il  commercio  più  florido  nel  1754  teneva  "  esercitati  „  84  torchi, 
*'  serviti  da  lavoranti  264  „  (1.  e,  452:  ben  20  torchi  aveva  il  Baglioni 
^'  continuamente  battenti  „:  p.  492).  La  terraferma  possedeva  35  stam- 
perie con  84  torchi,  59  dei  quali  "  con  lavoro  „  (1.  e,  396).  -  Deplora 
il  Gozzi  il  numero  sovrabbondante  dei  venditori.  "  Veggonsi  48  bot- 
teghe di  librai,  molti  negozi  in  casa  „;  quasi  tutti  gli  stampatori 
matricolati  vendevano,  ma  di  "  120  esercitanti  la  vendita  „  12  soli 
credeva  il  Gozzi  di  poter  "  noverare  per  negozianti  capaci  „.  Pur 
troppo  anche  il  Gozzi,  a  impedire  la  concorrenza  esterna,  chiedeva 
al  governo  nuovi  privilegi  e  vincoli  nuovi.  -  La  Statistica  delle  arti 
del  1773  numera  nella  Dominante  52  ligadori  da  libri,  fra  maestri  e 
lavoranti,  e  44  botteghe  di  cartoleria. 

15  Sia  detto  con  buona  pace  del  Baretti,  che  in  un'ora  nerissima, 
allontanatosi  da  Milano  col  "  cuore  ferito  „,  trovandosi  a  Venezia  solo. 


26  VENEZIA    NEL   PERIODO   GOLDONIANO 

senza  amici,  vinto  dall'ipocondria  scriveva  a  G.  B.  Biffi:  "  Qui  un 
forestiero  non  ha  altri  mezzi  per  esilararsi  che  un  caffè  o  un  teatro. 
È  impossibile  però  darvi  un'idea  della  sudiceria  di  un  caffè  o  di  un 
teatro  veneziano,  dove  non  udite  che  assurdità  od  oscenità.  Impos- 
sibile trovare  sotto  al  sole  una  città  che  sia  più  corrotta  di  questa. 
Letteratura,  moralità,  civiltà  di  modi,  eletto  conversare,  sono  cose 
interamente  sconosciute  a  Venezia  „  (ii  die.  1762).  -  È  miracolo  non 
fuggisse  via  subito:  anzi  vi  restò  quasi  tre  anni;  ma  la  Frusta  non 
gli  acquistò,  né  poteva  acquistargli,  benevolenza  ed  affetti  nella  so- 
cietà veneziana,  né  altrove. 

16  Già  Adriano  Balbi  nella  sua  Bilancia  politica  del  globo  (Pa- 
dova, 1833)  ampiamente  dimostrava  quanto  fosse  difficile  a'  suoi 
tempi  stabilire  con  esattezza  il  numero  della  popolazione.  Ricordiamo 
di  quali  artifìci  fosse  costretto  a  valersi  lo  stesso  Necker  per  calco- 
lare approssimativamente  quella  della  Francia,  anzi  della  stessa  Pa- 
rigi, alla  vigilia  della  Rivoluzione:  Administration  des  finances  etc, 
t.  I,  1784.  -  Nel  Settecento  a  Venezia  non  si  trovano  indagini  ufficiali 
prima  del  1760.  Il  censimento  eseguito  nel  1761  segna  in  città  abitanti 
152.841,  compresi  i  frati  e  le  monache,  ma  senza  i  ricoverati  negli 
ospedali  e  nei  luoghi  pii.  Il  Ristretto  generale  delle  anagrafi  edito 
nel  '53  ci  offre  la  cifra  di  ab.  139.095  (in  tutto  lo  Stato  2.844.212), 
certamente  inferiore  al  vero,  perchè  in  questi  anni  a  Venezia  il  numero 
dei  morti  superò  quasi  sempre  quello  dei  nati.  Il  censimento  del  1766, 
diligente  e  minuto,  ci  dà  ab.  140.256  (in  tutto  lo  Stato,  comprese  le 
isole  del  Levante  e  la  Dalmazia,  2.696.678)  :  F.  Lampertico,  Giammaria 
Ortes  ecc.,  Venezia,  1865,  appendice  prima.  -  Più  tardi  scemò  lenta- 
mente la  popolazione  in  città,  crebbe  nello  Stato:  nel  177 1  a  Venezia 
troviamo  ab.  138.700,  140.286  nell'  80  (nello  Stato  2.849.873),  137.240 
nel  '95  (nello  Stato  2.921.011).  Pur  troppo  gli  stessi  censimenti,  come 
si  sa,  non  sempre  meritano  fede  assoluta.  Dallo  studio  di  Aldo 
Contento  sulla  popolazione  veneziana  [Nuovo  Archivio  Veneto  A.  X  1900, 
t.  XIX,  n.  38)  tolgo  per  curiosità  altre  cifre  :  tuttavia  che  Venezia 
nel  1422  potesse  contenere  190  mila  ab.  e  nel  1574  quasi  196  mila, 
com'egli  sembra  ammettere,  non  è  da  credere;  per  il  1509  abbiamo 
il  dato  ufficiale  di  circa  100  mila,  per  il  1581  è  probabile  la  cifra  di 
134  mila  (che  trovo  anche  nei  Commemoriali  del  Gradenigo,  voi.  VI, 
e.  114),  così  quella  di  98.244  nel  1633,  dopo  la  famosa  pestilenza  che 
spense  oltre  46  mila  persone,  quella  di  120.400  circa  nel  1642  e  quella 
di  132.637  nel  1696.  -  Gli  enormi  agglomeramenti  di  popolazione  dei 
nostri  tempi  non  esistevano  nel  secolo  XVIII  e  scarsamente  abitata 
era  1*  Europa  nei  secoli  passati.  Impossibile  citare  cifre  sicure,  seb- 
bene dalla  metà  circa  del  secolo  le  statistiche  diventassero  più  rego- 
lari, provocando  molte  sorprese.  Voltaire  attribuisce  24  milioni  d'ab. 
alla  Russia,  nel  1759,  all' incirca  come  alla  Francia  e  come  alla  Ger- 
mania: quattro  volte  meno  alla  Spagna,  che  ne  aveva  circa  7  milioni. 


VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO  27 

L'  Austria  toccò  forse  24  milioni  prima  della  Rivoluzione,  con  i  Paesi 
Bassi,  la  Lombardia  austriaca  e  i  recenti  acquisti  di  Polonia.  Il 
Barelli  concede  nel  '68  circa  14  milioni  all'  Italia  e  7  appena  ai  tre 
regni  uniti  della  Gran  Brettagna. 

Se  vogliamo  fare  qualche  confronto  con  Venezia,  il  ruolo  della 
popolazione  di  Milano  nel  1752,  che  il  Carli  ebbe  dalla  curia  arcive- 
scovile, è  di  anime  113.877,  nel  '67  di  116.400  (secondo  il  Beloch,  era 
nel  1747  di  109.872  e  di  110.595  nel  1715:  La  popolazione  d'Italia  nei 
secoli  XVI,  XVII  e  XVIII,  estratto  dal  Bulletin  de  V  Institut  interna- 
tional  de  statistique,  Roma,  1888):  l'aumento  fu  costante  a  Milano 
fino  al  1781-82  in  cui  si  toccò  la  cifra  di  134.467  ab.,  quasi  perfetta- 
mente uguale,  dopo  alterne  vicende,  a  quella  del  1795-96  (134.437)  • 
V.  la  tavola  pubblicata  da  E.  Rota,  L'Austria  in  Lombardia,  Roma, 
191 1,  p.  100.  Più  rapido  l'aumento  a  Torino,  che  nel  censimento  1753-54 
presenta,  compresi  i  sobborghi,  ab.  71.338;  nel  1764-65  ne  ha  77.159, 
e  90.613  nel  179798:  G.  Prato,  Censimenti  e  popolazione  in  Piemonte 
ecc.,  in  Rivista  Italiana  di  Sociologia,  A.  X,  fase.  3-4  (maggio-agosto 
1906).  A  Roma  si  trova  nel  1750  la  cifra  di  anime  157.882,  che  nel  1760 
declina  a  155.124  per  rialzarsi  nel  1780  a  163.423  (si  ricordi  che  nel 
1527,  dopo  il  sacco,  si  contavano  soli  33  mila  ab.,  nel  1600  erano 
109.729,  nel  1710  erano  132,070):  v.  Floridore,  La  popolazione  dello 
Stato  Romano  nel  sec.  XVIII,  in  Giornale  degli  Economisti,  novem- 
bre 1904  (e  anonimo,  La  popolazione  di  Roma  prima  del  1870,  in 
Tribuna,  28  sett.  1893).  A  Napoli  nel  1742  abbiamo  292  mila  ab.  in 
città,  12  mila  nei  castelli  e  circa  io  mila  forestieri;  nel  1765  ab. 
337.095,  nel  1789  in  città  390.068  (con  i  sobborghi,  gli  stranieri  e  i 
soldati  439.370):  G.  M.  Galanti,  Descrizione  delle  Sicilie,  t.  IV,  Napoli, 
1790.  A  Palermo  nel  1775  il  Pilati  attribuisce  appena  120  mila  ab. 
(secondo  il  Beloch,  nell'anno  1747-48  sono  a  Palermo  102.106,  a  Mes- 
sina 40.293  e  a  Catania  25.715:  ma  vedasi  Francesco  Maggiore-Perni, 
La  popolazione  di  Sicilia  e  di  Palermo  dal  X  al  XIX  secolo,  volumi  2, 
Palermo,  1892-1897):  nel  censimento  del  1798  sono  148.138  (Pitrè);  a 
Firenze  il  censimento  del  1767  offre  la  cifra  di  78.635  ab.  (nel  1784 
sono  79.859);  a  Bologna  il  ristretto  delle  anime  nel  1759  ci  dà  la 
somma  di  68.882  (nel  1774  sono  70.897,  nel  '91  ancora  70.964);  a 
Genova  non  si  concedevano  sulla  metà  del  Settecento  più  di  90  mila 
anime,  compresi  i  sobborghi  di  San  Pier  d'Arena  e  di  Bisagno  (se- 
condo Beloch,  nel  1788  sono  77.563). 

In  Francia  e  in  Inghilterra  conosciamo  nel  Settecento  il  censo 
delle  case  e  il  numero  delle  nascite  annue  e  dei  morti,  non  quello 
preciso  della  popolazione:  però  vediamo  durare  per  quasi  tutto  il 
secolo  la  disputa  fra  Londra  e  Parigi  per  la  precedenza  nel  numero 
degli  abitanti.  Prima  del  Settecento,  Londra  dovette  raggiungere  i 
500  mila  ab.;  ed  era  già  da  gran  tempo,  come  crede  Macaulay,  la 
città  più  popolata  d'  Europa.  Molti  affermano  nella  seconda  metà  del 


28  VENEZIA   NEL    PERIODO    GOLDONIANO 

Settecento  che  toccasse,  coi  sobborghi,  il  milione,  specialmente  in 
certi  mesi  dell'anno,  quando  la  popolazione  più  affluiva  dalla  cam- 
pagna; ma  il  Balbi  soltanto  nel  1811  le  assegna  1.050.000  abitanti. 
Bristol,  con  circa  150  mila  ab.  nel  1788,  era  considerata  la  seconda 
città  deir  Inghilterra:  nello  stesso  anno  l'Angiolini,  diligente  viag- 
giatore italiano,  attribuisce  a  Birmingham  circa  62  mila  anime,  50  a 
Manchester,  da  50  a  60  a  Liverpool,  50  a  Glasgow,  ma  trova  giustamente 
esagerata  quella  di  100  mila  che  assegnavasi  a  Edimburgo,  compresi 
i  dintorni.  Dublino  ne  ha  131  mila  nel  1760  (Balbi).  Credesi  che  a 
Parigi  si  contassero  in  principio  del  Settecento  oltre  450  mila  ab., 
coi  sobborghi;  e  sulla  metà  del  secolo  si  farebbe  salire  la  popolazione 
a  600  mila,  ma  non  doveva  superare  il  mezzo  milione  se  nella  tavola 
che  risulta  dalle  ricerche  deW  Assemblea  Nazionale  leggiamo  la  cifra 
di  556.800  coi  sobborghi,  e  se  nel  1806  è  di  580.609  (Balbi).  A  Lione 
nel  1784  il  Necker  assegna  circa  160  mila  ab.  e  a  Marsiglia  circa  90. 
Berlino  nel  1761  aveva  98.238  ab.  (Balbi)  compresi  circa  20  mila  sol- 
dati, ma  crebbe  poi  rapidamente;  Vienna  nel  1754  ne  aveva,  senza 
i  sobborghi,  175.609  (Balbi);  a  Madrid  se  ne  attribuiscono  circa  140 
mila  nel  1777,  100  mila  a  Valenza  e  oltre  60  a  Cadice  (Peyron,  se- 
condai* ultimo  censimento);  a  Lisbona  137  nel  1755  (Balbi),  a  Pietro- 
burgo 218  nel  1789  (Balbi)  e  a  Varsavia  96  (Balbi).  I  viaggiatori  del 
Settecento  concedevano  volentieri  ad  Amsterdam  300  mila  ab.  (o  più 
moderatamente  230)  e  100  mila  a  Liegi,  ma  la  prima  raggiungeva 
appena  i  200  mila  dopo  il  1830  e  Liegi  i  58  mila.  Più  incerte  ancora 
le  cifre  di  Costantinopoli  {600  mila?)  e  di  Mosca  (300  mila?). 

17  Ecco  le  cifre  del  censimento  1766,  che  sono  le  più  sicure: 
preti  che  dicono  messa  2610,  chierici  386,  religiosi  regolari  1368, 
monache  1732:  somma  6096;  in  tutta  poi  la  Serenissima,  che  aveva 
2.696.678  ab.,  i  religiosi  sono  40.867:  cioè  nella  Dominante  s'incontrava 
un  religioso  fra  circa  23  persone,  compresi  gli  infanti,  e  nello  Stato 
fra  66.  Era  il  guaio  generale  degli  antichi  regimi:  a  Napoli  la  popo- 
lazione ecclesiastica  sta  in  rapporto  con  la  civile  *  di  più  che  il  4 
per  cento  „  :  Schipa,  //  regno  di  Napoli  al  tempo  di  Carlo  di  Borbone, 
Roma,  1923,  II,  p.  156  n.  ;  nel  1765  i  religiosi  sommano  a  11.801  senza 
i  luoghi  pii,  cioè  uno  su  28  persone,  in  tutto  il  Regno  superano  il 
numero  di  112  mila  (non  occorre  qui  ricordare  i  giusti  ma  vani 
lamenti  di  G.  M.  Galanti).  Di  Roma  è  inutile  parlare,  dove  non  si 
vedevano  che  tonache  e  vesti  d'  abate.  A  Bologna  nel  '59  i  religiosi 
sommano  a  3874,  uno  cioè  su  17  abitanti  (alla  venuta  dei  Francesi, 
nel  '96,  la  superficie  dei  conventi,  dentro  le  mura,  occupava  più  della 
sesta  parte  della  città:  Fiorini,  Tempio  del  Risorgimento,  Boi.  i888, 
voi.  II,  40).  A  Milano  i  soli  preti  nel  1752  erano  2230.  Per  la  Toscana 
rammenteremo  la  nota  lettera  del  Baretti  sugli  ordini  monastici  e  il 
capitolo  XXII  del  libro  sugi'  Italiani.  A  Torino  nel  1754-55  abbiamo 
nel  clero  maschile  2482  religiosi,  fra  le  donne  412  monache  (in  tutto 


VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO  29 

religiosi  2894,  uno  su  28  ab):  v.  Prato.  -  In  Francia,  se  si  voglia 
istituire  un  paragone,  i  religiosi  ch'erano  sulla  fine  del  Seicento  circa 
90  mila,  a  detta  di  Voltaire,  non  sono,  all'  affacciarsi  della  Rivoluzione, 
che  130  mila:  "  23  mila  monaci  in  2500  monasteri,  37  mila  monache 
in  1500  conventi,  60  mila  curati  e  vicari  in  altrettante  chiese  e  cap- 
pelle „  e  oltre  io  mila  tra  prelati,  canonici  ed  ecclesiastici  senza 
beneficio:  Taine,  U ancien  regime,  p.  17  (v.  anche  pp.  529-530  n.).  Se 
gli  abitanti  salivano  nel  Regno  a  26  milioni,  come  pare,  abbiamo  la 
proporzione  confortante  d'uno  a  200  (ricordo  che  M.  Raudot,  in  certa 
Note  sur  la  popidation,  in  appendice  all'opera  su  La  Trance  avant  la 
Revolution,  2  éd.on,  Paris,  s.  a.,  pagg.  412  sgg.,  cerca  di  mostrare  che 
la  popolazione  in  Francia  nel  1786  era  di  circa  30.500.000  ab.)  -  Ma 
a  Venezia  stessa  per  i  famosi  decreti  che  il  Senato  emanò  nel  1768 
e  nel  '69,  si  ridusse  il  numero  dei  conventi,  e  i  religiosi  scemarono 
da  5798  a  3270  (Romanin,  Vili,  179  n.).  Altre  riforme  si  ebbero  poi 
nel  '72  e  nell'  84.  "  Queste  robuste  deliberazioni  „  commenta  il  Lam- 
berti "  disorganizzarono  la  gran  macchina  del  monachismo  negli  stati 
veneti,  formidabile  corpo  morale,  che  quantunque  nei  membri  che  li 
componevano  fosse  sovente  diviso,  trovavasi  ognora  unito  e  costante 
nell'opposizione  al  poter  secolare,  per  il  che  si  rese  da  allora  in  poi 
infermo  ed  inefficace  relativamente  ad  ogni  influenza  politica  „  {Me- 
morie degli  ultimi  cinquantanni  della  Rep.  di  Venezia,  cod.  marciano 
MCCCCLIV,  ci.  VII,  voi.  I,  ce.  8889). 

18  L' industria  della  lana  era  migrata  nel  Padovano,  dove  tra  il 
'72  e  1*80  tenne  occupate  certe  volte  ben  40  mila  persone,  e  a  Schio, 
nel  Vicentino.  A  Milano  due  sole  fabbriche  si  ricordano  verso  il  1750 
e  619  telai  per  la  seta  nel  '66;  ma  andarono  poi  crescendo. 

19  Ristretto  generale  dell'  anagrafi  cit. 

20  La  campana  di  terza  sonava,  com'  è  noto,  tre  ore  circa  dopo 
il  levar  del  sole,  vale  a  dire  sulle  io  del  mattino  nel  dicembre  e 
nel  spennalo,  sulle  8  nel  giugno  e  nel  luglio  (vedasi  Mutinelli,  Lessico 
Veneto,  Venezia,  1851,  alla  voce  campana;  e  per  le  ore  italiane  i 
Protogiornali  della  Serenissima  Dominante  o  la  pref.  del  Voyage  di 
Lalande). 

ai  V.  anche  la  Description  de  V  Italie  oii  Mémoires  d' Italie  del- 
l' abate  Richard,  Dijon,  1766,  t.  II,  281. 

23  Campana  a  Rialto  che  al  più  tardi  sonava  quattro  ore  dopo 
il  tramonto  (  v.  Boerio  e  Mutinelli).  -  Queste  notizie,  e  molte  altre 
che  seguiranno,  attinsi  per  gran  parte  dalle  Memorie  degli  ultimi 
cinquanf  anni  della  Repubblica  di  Venezia  (cod.  marciano  cit.)  di  An- 
tonio Lamberti,  delle  quali  prima  di  me  si  giovò  il  Romanin;  anzi 
cercai  qualche  volta  di  conservare  fedelmente  le  parole. 

=3  Così  il  Lamberti.  Lamentano  l'  Occioni  (  G.  Occioni-Bonaff*ons, 
Del  commercio  di  Venezia  nel  sec.  XVIII,  Venezia,  1891),  il  Molmenti 
(  Storia  di  Venezia  nella  vita  privata.  Parte  III  )  ed  altri  che  Venezia 


30 


VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO 


non  sapesse  liberare  il  commercio  dalle  leggi  restrittive,  ma  era  ciò 
possibile?  chi  l'avrebbe  osato?  Vero  è  che  assidui  furono  gli  studii 
del  governo  anche  in  questo  tempo  per  ravvivarlo. 

24  Proprio  nel  1754  il  Senato  convertiva  una  parte  del  debito 
pubblico  dal  4  al  3  e  mezzo  per  cento.  Anche  Lalande  ricorda  che 
lo  stato  pagava  T  interesse  del  3  e  mezzo,  e  i  privati  quello  del  4  o 
4  e  mezzo:  solo  i  commercianti  pagavano  spesso  il  6,  per  i  rischi 
del  commercio  stesso  {Voyage  en  Italie,  Genève,  1790,  t.  VII,  82). 

35  L'abate  Richard  afferma  che,  tolte  le  feste  di  carnovale  e 
dell'Ascensione,  in  cui  per  l'affluenza  dei  forestieri  i  prezzi  dell'al- 
loggio e  della  mensa  rincarano  assai,  "  e'  est  la  ville  d' Italie  où  l'on 
vit  à  meilleur  compte  „  1.  e,  II,  498.  -  Naturalmente  il  prezzo  delle 
biade  e  degli  alimenti  varia  d'  anno  in  anno  e  dall'  una  all'  altra  sta- 
gione. Spigoliamo  qualche  cifra  dai  Notatorj  del  Gradenigo:  ai  27  feb- 
braio lyjj  la  segala  vale  lire  venete  9  allo  staro  (staio  =z  litri  83.32), 
l'avena  8,  il  miglio  9,  il  sorgo  turco  o  granturco  7:10,  il  sorgo 
rosso  3 :  2,  il  sarasino  (o  saraceno)  6 :  6,  e  il  vino  bianco  costa  lire  6  al 
mastello  (=  mezza  bigoncia  o  sette  secchie  r=  litri  75.12);  ai  16  giugno 
del  medesimo  anno  il  vino  nero  è  diminuito  d'un  soldo  la  libbra  e  si 
paga  soldi  15;  ai  2  agosto  la  farina  di  frumento  che  costava  lire 
venete  23  lo  staio,  diminuisce  di  lire  2;  ai  28  ottobre  iyj6  la  farina 
vale  lire  24  lo  staio,  il  vino  lire  44  :  t6  al  bigonzo  (=  2  mastelli,  cioè 
14  secchie  =  litri  150.234),  le  candele  di  sevo  soldi  16  la  libbra,  quelle 
di  cera  soldi  44,  la  carne  "  destinata  a  11,  ma  si  vende  a  14  soldi  „ 
(così,  per  esempio,  ai  2  aprile  1743  valeva  "  secondo  la  legge  soldi  12, 
secondo  la  verità  13  e  talvolta  14  la  libbra  „:  Memorie  ecc.  di  Giro- 
lamo Zanetti),  il  caviale  di  Belgrado  soldi  4  l' oncia,  il  riso  soldi  4 
la  libbra,  la  farina  gialla  soldi  12  il  quartarolo  (—  litri  5,21),  la  carta 
fina  da  scrivere  soldi  8  il  quinterno,  cioè  lire  8  la  risma  di  20  quin- 
terni ;  ai  2  dicembre  1760  il  vino  diminuì  di  3  soldi  e  però  nei  "  ma- 
gazzini „  e  nelle  osterie  non  si  pagherà  più  17  ma  14  soldi  la  libbra; 
al  principio  del  marzo  1761  la  farina  si  vende  lire  25  lo  staio,  il  vino 
soldi  14  la  libbra,  l'olio  26  la  libbra,  il  riso  4:  così  imponeva  il 
nuovo  calmiere  che  stabiliva  pure  le  tariffe  ai  macellai,  salumai, 
pescivendoli,  mentre  il  prezzo  de*  polli  e  delle  frutta  era  lasciato  al 
**  capriccio  „  dei  venditori.  -  Altre  cifre,  per  altri  tempi,  si  possono 
vedere  nel  saggio  Sui  prezzi  delle  vettovaglie  ecc.  di  B.  Cecchetti,  in 
Atti  R.  Istituto  Veneto  1873-74.  Lalande  ci  offre  i  prezzi  dei  principali 
alimenti  a  Torino  (t.  I,  e.  13)  a  Milano  (I,  e.  30)  a  Parma  (I,  e.  39)  a 
Firenze  (II,  e.  20)  a  Roma  (V,  e.  4)  a  Napoli  (V,  e.  32).  Si  vedano 
pure  gli  Scritti  vari  di  P.  Verri,  Firenze,  Le  Mounier,  voi.  I,  pp.  347  n., 
357,  379.  Altre  cifre  si  leggono  neW Italia  prima  della  Rivoluzione 
Francese  di  C.  Tivaroni,  Torino,  1888,  pp.  91  e  123.  Come  variassero 
anche  in  Francia  i  prezzi  ci  dimostra  G.  D'Avenel,  Paysans  et  ouvriers 
depuis  sept  siècles,  in  Revtte  des  deux  mondes,  15  luglio  1898. 


VENEZIA   NEL    PERIODO    GOLDONIANO  31 

a6  Si  yeda  il  terzo  volume  de'  Bilanci  Generali  della  Repubblica 
di  Venezia  dal  1736  al  1755,  Venezia,  1903;  ma  si  badi  che  conviene 
fare  il  confronto  con  gli  stipendi  in  uso  presso  gli  altri  stati  mag- 
giori e  minori. 

a?  Il  ducato  effettivo  d*  argento  (=  lire  italiane  in  oro  4,368)  cor- 
rispondeva a  8  lire  venete  (lira  veneta  =  lire  in  oro  0,546),  la  lira 
veneta  dividevasi  in  20  soldi  (soldo  veneto  =  lire  in  oro  0,027),  il 
soldo  in  12  bagattini.  Il  Goldoni  nomina  pure  nelle  sue  commedie  la 
lirazza,  che  valeva  30  soldi,  il  trairo  o  traiero  tedesco,  del  valore  di 
5  soldi,  e  il  bezzo,  uguale  a  6  bagattini.  Ma  più  in  uso  era  ne*  con- 
tratti il  ducato  di  corta  moneta,  ossia  corrente,  cioè  di  lire  venete  6 
e  4  soldi  (=  lire  italiane  in  oro  3,384).  Lo  zecchino  d'oro  valeva  lire 
venete  22  (1=  lire  it.  in  oro  12,012),  lo  scudo  veneto  12  e  8  soldi 
(:=  lire  it.  in  oro  6,768).  Oltre  la  classica  opera  del  Carli  Delle  monete, 
pìacemi  additare  il  Trattato  dei  ragguagli  de'  Cambj  di  tutte  quelle 
Piazze  colle  quali  cambia  quella  di  Livorno  di  P.  Noger  detto  Nocetti 
(Lucca,  1784);  e  in  particolare,  per  la  nostra  antica  repubblica,  C.  Ten- 
tori,  Saggio  sulla  storia  civile,  politica  ecc.  della  Repub.  di  Venezia, 
Venezia,  1785,  t.  II,  68-70;  A.  Zon,  Zecca  e  moneta  di  Venezia,  in 
Venezia  e  le  sue  lagune,  voi.  I,  parte  2*;  e  N.  Papadopoli,  Sid  valore 
della  moneta  veneziana,  Venezia,  1885.  Cfr.  inoltre  Ed.  Martinori,  La 
moneta.  Vocabolario  generale,  Roma,  1915.  -  Oggi  per  la  nostra  lira 
in  carta  bisogna  tener  conto  della  immensa  svalutazione.  Per  i  pesi 
e  per  le  misure  in  uso  a  Venezia  v.  le  due  tavole  in  fine  del  voi. 
XXII  della  Nuova  Geografia  del  Bùsching,  i*  edizione  veneta,  Ve- 
nezia, 1777  e  Molmenti,  Storia  cit..  Ili  (19081,  pp.  47-48  n. 

a8  A.  Errerà,  Storia  dell'  Economia  Politica  nei  sec.  XVII  e  XVIII 
negli  Stati  della  Rep.  Ven.,  Venezia,  1877,  p.  275.  -  "  Les  plus  riches 
familles  nobles  „  scrive  Pilati  "  ont  quarante  ou  cinquante  mille 
ducats  de  Venise  de  revenu,  un  ducat  faisant  environ  quatre  livres 
de  France:  les  avocats  et  les  principales  maisons  bourgeoises  qu'on 
appelle  ici  cittadini,  les  gros  négociants  et  les  gentilshommes  de 
Terre  ferme,  vivent  ordinairement  avec  le  méme  luxe  que  les  nobles  „ 
{Voyages  en  différens  pays  de  l'Europe,  en  Suisse,  1778,  t.  I,  248). 

=9  Così  il  Molmenti  nella  prima  edizione  della  sua  Storia,  To- 
rino, i88o,  p.  239. 

30  S.  Sharp  trovò  i  gondolieri  veneziani  meglio  nutriti  e  meglio 
vestiti  dei  barcaioli  del  Tamigi.  -  Nota  il  Lamberti,  a  maggior  riprova, 
che  ancora  al  tempo  in  che  scriveva,  nel  primo  decennio  del  regime 
austriaco,  dopo  i  tanti  prestiti,  le  mille  spese,  le  requisizioni,  i  sac- 
cheggi, il  distrutto  commercio,  il  blocco,  la  guerra,  le  imposte  per  lo 
meno  quintuplicate  e  altre  cause  le  quali  portarono  il  generale  impo- 
verimento, si  trovavano  nel  Veneto  più  di  cento  milionari  e  in  molte 
famiglie,  nelle  osterie,  nei  caffè,  si  vedevano  ancora  argenterie. 

31  Nel  1748  risaliva  a  circa  55  milioni  di  ducati,  cioè  220  milioni 


32  VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO 

di  franchi:  nel  '97,  benché  il  reddito  annuo  della  Repubblica  di  poco 
superasse  nella  media  i  7  milioni  di  ducati,  era  sceso  a  ducati  44.191.000 
(cioè  franchi  176.764.000):  Dandolo,  La  caduta  della  Repubblica  di 
Venezia,  Venezia,  1859,  libro  IV,  cap.  i;  e  Romanin,  Storia  documen- 
tata di  Venezia^  voi.  Vili,  e.  io.  Secondo  il  Lamberti,  I,  carta  716  sgg., 
il  debito  reale  era  nel  '97  di  soli  20  milioni  di  ducati,  e  prossimo  a 
spegnersi,  poiché  col  citato  reddito  si  ammortizzava  di  un  milione 
circa  di  ducati  all'anno,  dopo  pagati  gl'interessi  e  soddisfatte  le 
spese  tutte  dello  Stato. 

3=  Sulla  congerie  delle  tasse  e  sui  mali  che  ne  derivavano,  co- 
muni del  resto  a  ogni  altro  paese,  v.  Leopoldo  Curti,  Memorie  isto- 
riche  e  politiche  sopra  la  Repubblica  di  Venezia  scritte  V  anno  1792^ 
Venezia,  1812,  t.  I,  cap.  io;  Dandolo,  1.  e,  libro  I,  cap.  3;  e  special- 
mente Romanin,  1.  e.  Vili,  capp.  5  e  io.  Ma  gravi  non  erano  come 
crede  il  Tivaroni,  1.  e,  22-24:  dal  rapporto  del  reddito  annuo  e  della 
popolazione  l'Errerà  trova  esser  T imposta  totale  di  franchi  9,59  per 
testa:  1.  e,  p.  54.  Sotto  il  regime  francese,  nel  principio  dell'Ottocento, 
le  imposte  diventarono  sette  volte  maggiori,  dice  il  Lamberti,  I,  carta  71. 

33  Tutti  i  viaggiatori  ammiravano  e  lodavano  le  culture  venete. 
Si  vedano  anche  le  preziosissime  relazioni  dei  Podestà  e  dei  Sindaci 
Inquisitori. 

34  Le  oppressioni  sì,  specie  in  Dalmazia  e  nelle  isole  del  Levante, 
dove  esisteva  fra  gli  altri  abusi  quello  disonorevole  del  postrichio  : 
F.  Mutinelli,  Memorie  storiche  degli  ultimi  cinquantanni  della  Rep. 
Ven.,  Venezia,  1854,  p.  146  e  Romanin,  Vili,  pp.  89-94.  Si  legga  nella 
Storia  del  Romanin  la  coraggiosa  relazione  nel  '72  dei  tre  Sindaci 
Inquisitori  di  Terraferma,  i  quali  però,  esaminati  i  balzelli  e  le  im- 
posizioni d' ogni  genere  che  gravavano  sui  villici,  non  ne  trovano 
eccessivo  il  cumulo  per  se  stesso,  bensì,  com'  era  dappertutto,  per 
l' intricata  e  tirannica  esazione.  Si  ricordi  ciò  che  scrive,  pur  dopo 
il  '70,  il  Roberti,  di  Bassano:  "...  I  nostri  contadini  si  veggono  di 
buon  cappello  e  buon  gabbano  guerniti  venir  in  truppe  giulive  al 
mercato;  e  le  lor  donne  (oltre  all'oro  pendente  dalle  orecchie,  e  rav- 
volto intomo  al  collo)  pavoneggiandosi  del  lor  grembiale  di  tela 
dipinta,  e  del  lor  velo  fiorito,  recare  alla  città  i  frutti  della  rocca  e 
del  pollaio  „.  Alla  quale  descrizione  fa  contrasto  quella  di  altre  pro- 
vince italiane,  nello  Stato  della  Chiesa:  "  Non  assai  miglia  lungi  di 
qua  tra  piani  amplissimi  di  pingui  glebe  rimiransi  i  volti  scarnati  e 
squallidi  de'  contadini,  che  abitano  pagliareschi  tugurii  impiastrati 
col  loto,  e  da  ogni  lato  screpolati  e  rovinosi;  contadini  che  mal  co- 
prono la  nudità  con  un  sudicio  camice  di  ruvido  canovaccio;  e  che 
addentano  il  pan  nero,  mentre  pure  mietono  il  frumento  bianco;  e 
che  bevon  acqua,  mentre  imbottano  al  padrone  il  vin  grosso  „:  Opere 
delV  ab.  G.  B.  Roberti,  Venezia,  1830,  t.  Ili,  p.  45.  E  in  Lombardia, 
nel  materno  regime  di  Maria  Teresa?  Non  ricordiamo  la  descrizione 


VENEZIA   NEL   PERIODO   GOLDONIANO  33 

del  Verri?  "  Vediamo  il  miserabile  contadino,  nude  le  gambe  e  scalzo; 
egli  ha  sul  suo  corpo  il  valore  di  tre  o  quattro  lire  e  non  più;  egli 
mangia  un  pane  di  segala  e  di  miglio;  non  mai  beve  vino;  rarissime 
volte  si  pasce  di  carni;  la  paglia  è  il  suo  letto  prima  d'avere  una 
moglie;  un  meschino  tugurio  è  la  sua  casa;  stentatissima  è  la  sua 
vita  e  faticosissimi  i  suoi  lavori  „  (Scritti  vari,  ed.  Le  Mounier,  I, 
154,  345,  565.  -  Si  legga  anche  E.  Rota,  V  Austria  in  Lombardia, 
Roma,  191 1,  p.  51).  Inutile  poi  citare  il  Broggia  e  il  Filangeri  e  il 
Galanti  per  le  province  napoletane.  -  E  vero  che  Vincenzo  Marchesi 
e  Maria  Borgherini,  V  uno  illustrando  Le  relazioni  dei  luogotenenti 
della  Patria  del  Friuli  al  Senato  Veneziano,  Udine,  1893,  e  l' altra 
parlando  del  Governo  di  Venezia  in  Padova  nell'ultimo  secolo  della 
Repubblica,  Padova,  1909,  conclusero  che  le  imposte  non  erano  nella 
terraferma  "  né  miti,  né  lievi,  né  giustamente  ripartite  „  iBorgherini, 
p.  871,  ma  dove  e  quando  furono  più  miti?  o  dove  e  quando  mai 
furono  ripartite  giustamente  su  questa  misera  terra?  E  si  può  forse 
dimostrare  la  decadenza  del  governo  veneto  dalla  rapacità  degli 
esattori,  come  se  pel  passato  procedessero  meglio  le  cose?  Non  rico- 
nosce la  Borgherini  stessa  1'  attività  "  mirabile  „  e  lo  zelo  dei  rettori 
veneziani  (difesi  già  dal  Molmenti  contro  il  Marchesi)  i  quali  si 
sottoponevano  a  gravissimo  dispendio  per  amore  della  patria  e  a 
non  piccoli  sacrifici  per  amore  dei  sudditi?  (pp.  42-50). 

35  Lampertico,  1.  e,  267.  Ma  queste  cifre  non  rappresentano  già 
tutti  i  poveri:  per  il  triste  abuso  della  elemosina  fioriva  allora  pure 
r  accattonaggio  e  non  mancavano  i  falsi  ciechi  e  i  falsi  storpi  :  Lam- 
berti, II;  Mutinelli,  131-3;  Romanin,  Vili,  385.  Anche  nel  Milanese  si 
accattava  nelle  città  e  per  le  campagne;  si  aggiunse  perfino  qualche 
dimostrazione  de'  questuanti,  dispersa  con  la  forza:  De  Castro,  Mi- 
lano nel  Settecento,  Milano,  1887,  p.  207.  Dell*  accattonaggio  nel  resto 
d*  Italia,  tormento  de'  forestieri,  è  meglio  tacere.  -  Più  tardi,  scemato 
il  lavoro  e  cresciuta  la  miseria,  troviamo  a  Venezia  neir89  un  com- 
puto riassuntivo  dai  22  ai  23  mila  poveri,  ma  i  veri  e  propri  que- 
stuanti sono  circa  770:  Romanin,  VIII,  386,  ed  Errerà,  l.  e,  264,  con 
qualche  divario.  Mi  soccorre  a  questo  proposito  un  paragone  storico. 
Le  condizioni  del  contadino  e  dell'  operaio  in  Inghilterra  negli  ultimi 
anni  del  Seicento  non  sono  tristi  :  tuttavia  si  contano  1.300.000  poveri 
e  mendicanti  che  abbisognano  del  soccorso  delle  parrocchie,  in  una 
popolazione  di  5.500.000  abitanti.  Cosa  che  al  Macaulay  pare  incre- 
dibile: eppure  altre  cifre  si  conoscono  in  Italia  più  recenti  e  più 
dolorose  (così  scrivevo  nel  18991.  ^^  Francia  i  commerci  e  le  industrie 
andavano  risorgendo  verso  la  metà  del  secolo  decimottavo  e  il  popolo 
cominciava  nel  '48  a  godere  qualche  agio  (dopo  vent'  anni,  la  signora 
Montagu  non  riconosceva  più  nel  '39  le  facce  ingiallite  dei  contadini 
francesi:  "  the  villages  are  ali  filled  with  fresh-coloured  lusty  peasants, 
in  good  cloth  and  clean  linen  „)  quando  la  guerra  dei  Sette  anni  coi 

G.  Ortolani.  q 


34 


VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO 


terribili  rovesci  e  col  conseguente  disordinamento  de'  poteri  e  per- 
turbamento delle  finanze,  aggiunta  agli  sperperi  della  vecchia  Corte 
di  Luigi  XV  e  all'  amministrazione  ingiusta  e  pessima,  provocò  una 
nuova  generale  miseria  della  nobiltà  stessa,  di  gran  parte  della  bor- 
ghesia lavoratrice,  e  della  plebe.  Il  fisco  oppresse  inesorabilmente 
il  coltivatore  del  suolo.  Chi  non  ricorda  1'  Homme  aux  quarante  écus 
(17681  e  il  riso  di  Voltaire?  Leggendo  le  pagine  d'Ippolito  Taine 
s\i\V  Ancien  regime  (Paris,  1887)  ci  scuote  un  continuo  fremito:  dalle 
soleggiate  e  fertili  campagne,  fatte  selvagge  e  deserte  (pp.  441-2), 
dalle  città  fatte  oziose,  giungono  anche  prima  della  guerra  lamenti 
singulti  maledizioni.  I  contadini  della  Linguadoca  riparano  in  Pie- 
monte o  in  Ispagna  fuggendo  ai  nuovi  balzelli  ;  a  Rouen  mendicano 
12  mila  operai  e  altrettanti  a  Tours;  a  Lione  oltre  20  mila  operai, 
senza  lavoro,  cercano  d'emigrare;  Parigi  è  piena  di  pezzenti:  nel 
sobborgo  Sant'  Antonio  in  un  solo  mese  dell'  inverno  1753,  afferma 
D' Argenson,  muoiono  di  fame  e  di  freddo  800  e  più  miserabili 
(pp.  435-6).  Per  contro  nella  felice  Inghilterra  la  prosperità  si  diffonde 
sempre  più  dal  principio  del  Settecento,  sebbene  in  apparenza  le 
istituzioni  politiche  restino  come  nel  continente  feudali  e  sui  lavora- 
tori del  suolo  pesino  le  antiche  gravezze.  Ma  le  miserie  dell'  Irlanda, 
la  triste  "  fanciulla  disonorata  „,  strappavano  grida  di  dolore  a  Clo- 
nata Swift.  E  il  debito  pubblico  del  Regno  Unito,  nel  '65,  dopo  la 
fortunatissima  guerra,  saliva  a  148  milioni  di  sterline,  cioè  a  più 
di  3  miliardi  e  mezzo  di  franchi:  onde  pochi  anni  più  tardi,  durante 
la  lotta  con  le  insorte  colonie  d'  America,  il  nostro  Filangieri  preve- 
deva il  fallimento  di  questa  orgogliosa  nazione,  ricca  sì  di  commerci, 
ma  scarsa  di  uomini  (La  scienza  della  legislazione,  1.  II,  cap.  23).  Nei 
paesi  poi  della  Germania,  dove  tutti  gli  abusi  feudali  persistevano, 
soltanto  la  forma  più  dura  del  servaggio  fu  abolita  negli  ultimi  de- 
cenni del  secolo  (Tocqueville,  U ancien  regime  et  la  revolution,  Paris, 
*877i  P-  335*  •  ^  ^6  povere  plebi  erano  travagliate  dalla  ferocia  mili- 
tare, che  fino  alla  pace  di  Hubertusburg,  nel  febbraio  1763,  desolava 
città  e  campagne.  Neil'  ultima  guerra  il  solo  regno  di  Prussia  aveva 
perduto  500  nula  abitanti,  in  una  popolazione  di  4  milioni  e  mezzo. 
Ben  è  vero  che  re  Federico  aveva  pronti  i  denari  e  l' esercito  per 
un'  altra  campagna  militare,  ma  egli  stesso  dovette  confessare  che  i 
suoi  sudditi  ricoprivansi  di  miserabili  cenci;  e  molte  province  somi- 
gliavano al  Brandeburgo  dopo  la  guerra  dei  Trent' anni  (Onken, 
U  epoca  di  Federico  il  Grande,  vers.  it.,  Milano,  1892,  voi.  II,  l.  VIII, 
cap.  IO).  Lo  spettacolo  poi  del  contadino  slavo  e  ungherese  nell'im- 
pero d'  Austria,  in  Polonia,  in  Russia,  fa  spesso  inorridire. 

36  Sulla  fine  del  Cinquecento  cominciò  la  concorrenza  francese 
inglese  olandese,  che  appariva  già  temibile  nei  primi  anni  del  secolo 
seguente:  Berchet,  Relazioni  dei  consoli  veneti  nella  Siria,  Torino,  1866. 
Seguirono  poi  le  nuove  guerre  di  Venezia  col    Turco  che  non  cessa- 


VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO  35 

tono,  si  può  dire,  fino  al  1718.  Si  aggiunga,  a  spiegare  la  fatale 
rovina  del  commercio  veneziano,  l'impoverimento  continuo  e  crescente 
di  tutto  il  Levante  nel  secolo  decimottavo. 

37  V.  il  dispaccio  del  bailo  a  Costantinopoli  Zuane  Emo,  nel  1722 
(E.  Pesenti,  Diplomazia  franco-turca  ecc.  Venezia,  1898,  pp.  43-45). 
Per  il  commercio  veneziano  sulla  metà  del  Settecento  si  consultino 
gli  scritti  citati  nel  discorso  di  G.  Occioni-Bonaffons  [Dd  commercio 
di  Ven.  tiel  sec.  XVIII,  Venezia,  1891);  si  veda  pure,  benché  un  pò* 
arruffato,  il  cap.  II  del  libro  di  M.  Kovalevsky,  La  fin  d'une  aristo- 
cratie,  Torino,  Bocca.  Tutti  i  viaggiatori  ricordano  1'  antica  opulenza 
di  Venezia,  ma  deserti  e  mìseri  apparivano  i  porti  e  i  lidi  del  Me- 
diterraneo, mentre  si  combatteva  sugli  oceani  la  grandiosa  lotta  dei 
commerci  moderni.  Vigili  e  costanti  si  mostrarono  sempre  le  cure 
del  Senato  nel  promuovere  i  miglioramenti  possibili  e  nell*  eccitare 
lo  zelo  dei  sudditi,  sebbene  vane,  essendo  essicate  le  fonti  del  gua- 
dagno nei  Tnari  di  Levante.  Neil'  Adriatico  stesso  seguivano  con  do- 
lore i  Veneziani  le  mire  ambiziose  dell'  Austria  che  da  Milano  a 
Trieste  stringeva  fatalmente  la  Repubblica  nelle  sue  fauci  (dispacci 
dell'ambasciatore  Tron,  da  Vienna,  1750-51,  e  dell'ambasciatore  Mo- 
cenigo,  da  Parigi,  1751).  Ne  parlava  apertamente  lo  stesso  Mercurio 
storico  e  politico  che  stampavasi  in  Pesaro,  fin  dal  1749  (ott.,  pp.  244, 
254;  e  die.  '50^  pp.  392-3);  e  così  diceva  una  corrispondenza  da  Ve- 
nezia, nel  giugno  '52:  "  I  sudditi  di  questa  repubblica  sono  in  una 
gran  perplessità  circa  al  commercio,  sì  a  cagione  dell'  aumentazione 
di  quello  che  si  fa  a  Trieste  e  a  Fiume,  come  de'  rischi  che  loro 
fanno  correre  i  corsari  Barbareschi  „  (p.  387).  Nel  numero  seguente 
una  lettera  da  Trieste  celebrava  le  opere  di  pubblica  utilità  ivi  com- 
piute e  la  prosperità  degli  abitanti,  e  aggiungeva:  "  Già  il  porto  è 
dei  più  frequentati;  e  pochi  sono  quei  giorni  in  cui  non  vi  si  con- 
tino 30  in  40  grossi  vascelli,  e  comunemente  100  d'  una  minor  gran- 
dezza. Si  fabbricano  con  tutto  l' ardore  nei  nostri  nuovi  cantieri  delle 
barche  e  altri  bastimenti  per  uso  del  commercio,  e  ultimamente  si 
lanciò  all'  acqua  una  fregata  destinata  a  servir  di  scorta  alle  navi  „ 
(luglio,  p.  17).  Il  dominio  del  Golfo  era  ormai  violato.  Nell'introdu- 
zione al  tomo  XXII  deWa^uova  Geografìa  di  Ant.  Federico  Bùsching, 
1*  ed.  veneta  (Ven.,  1777,  pp.  11-12),  si  legge:  «  Quantunque  oggidì  „ 
il  traffico  dei  Veneziani  "  non  sia  sì  ricco  com'era  un  tempo,  e  non 
sieno  le  bandiere  di  questa  Nazione  tanto  numerose  nel  Mediterraneo 
come  le  Inglesi  e  Francesi  che  prevalgono,  ciò  non  ostante  si  può 
dire  che  il  commercio  de'  Veneziani  sia  il  più  florido  ed  il  più  esteso 
di  tutti  gli  altri  d' Italia  „. 

38  Quell'Adriatico  che  gli  stessi  stranieri  solevano  chiamare  Golfo 
di  Venezia  (come  godo  di  aver  rammentato  molti  anni  prima  della 
guerra  mondiale)  e  il  cui  possesso  avevano  i  Veneziani  sì  gelosa- 
mente rivendicato  con  la  parola,  con  gli  scritti  e  con  le  armi. 


36  VENEZIA   NEL    PERIODO    GOLDONIANO 

39  Pesenti,  Angelo  Emo  ecc.,  Venezia,  1899,  pp.  19  e  37.  -  I! 
Mercurio  storico  e  politico  si  chiedeva  da  Venezia  nel  febbraio  del  1750 
(p.  100):  *  Donde  avviene  che  tante  potenze  Cristiane,  delle  quali  non 
V*  ha  appena  una  la  quale  non  sia  da  sé  sola  in  istato  di  reprimere 
i  ladroneggi  di  quei  corsari,  sollecitano  alla  Porta  di  procurar  loro 
la  pace  con  essi?  „.  E  rispondeva  che  questa  guerra  pericolosa  so- 
migliava alla  caccia  che  si  fa  alle  pantere  e  agli  orsi,  "  dove  il  cac- 
ciatore può  perdervi  la  vita,  e  non  può  guadagnare  che  la  pelle  d*una 
bestia  „.  -  Nel  marzo  di  quell'  anno  la  Repubblica  armava  "  le  sue 
forze  terrestri  e  marittime...  Laonde  tutti  i  suoi  reggimenti  nazionali 
saranno  compiuti,  come  anche  i  corpi  esteri  ch'ella  tiene  al  suo  ser- 
vigio... Rispetto  alle  forze  navali,  si  avranno  nel  prossimo  maggio 
20  vascelli  da  guerra,  30  galeotte,  e  30  galeazze  in  istato  di  corseg- 
giare il  mare.  Dall'altro  canto  questi  apparecchi  „,  scriveva  l'infor- 
matore "  quand'anche  il  riposo  dell'Italia  non  ricevesse  alcun  intacco, 
serviranno  a  farci  fare  un  buon  contegno  da  un'altra  parte  „  (p.  162.  - 
Vedasi  anche  ag.  '49,  p.  105).  E  nel  settembre:  "  Con  sommo  vigore 
si  progrediscono  qua  tutti  i  preparativi  militari  e  marittimi  e  terrestri. 
La  squadra  è  pronta  a  mettersi  in  mare...  La  leva  di  gente  si  con- 
tinua con  successo  in  varie  provincie  di  questo  stato;  le  fortificazioni 
delle  frontiere  si  vanno  riparando  e  aumentando;  i  magazzini  d'ogni 
sorta  di  munizioni  si  riempiono;  le  truppe  sono  esercitate  più  del 
solito  ecc.  „  (pp.  162-3).  -  Vedi  il  cap.  XIII,  libro  IV,  voi.  II  dei 
Principj  di  storia  civile  della  Rep.  di  Ven.  di  Vettor  San  di  dall'  a.  di 
N.  S.  1700  sino  all' a.  1767,  Venezia,  1771;  e  i  documenti  pubblicati 
dal  Pesenti,  pp.  104  138. 

40  Lalande,  VII,  81-82;  Romanin,  Vili,  150-51  e  specialmente  Sandi,  1.  e. 

41  Romanin,  Vili,  88;  Pesenti,  Emo,  69  e  73. 

43  Vedi  scoperti  i  mali  che  affliggevano  l'armata  nella  circolare  di 
Frane.  Grimani,  Provveditore  Generale  da  Mar,  del  1758:  Pesenti, 
Emo,  172  sgg.  Inoltre  v.  il  cit.  Mutinelli,  152  sgg.,  non  sempre  men- 
dace, sebbene  qui  si  valga  di  documenti  posteriori  al  nostro  periodo, 
quando  i  disordini  erano  cresciuti. 

43  Pesenti,  67.  Il  quadro  del  Mutinelli,  pp.  146-152,  è  senza  dubbio 
esagerato.  -  Anche  nel  Settecento  l'Arsenale  colpiva  di  ammirazione 
la  più  parte  dei  viaggiatori,  e  i  Veneziani  lo  consideravano  ancora 
come  il  propugnacolo  non  soltanto  di  Venezia,  ma  d' Italia,  anzi 
dell'Europa  intera  contro  il  Turco:  Lalande,  VI,  449.  «  Cet  arsenal, 
pourvu  avec  une  abondance  vraiment  magnifique  „  dice  nel  '62  l'ab. 
Richard,  '*  ne  peut  que  donner  l'idée  d'une  trèsgrande  puissance  „: 
II,  326.  -  Suir  Arsenale  e  su  tutte  le  Borse  militari  della  Repubblica 
si  veda  ancora  l' importante  studio  dell'  ing.  G.  Casoni,  in  Venezia  e 
le  sue  lagune,  voi.  I,  parte  2*. 

44  Vecchie  abitudini;  così  nel  Seicento:  v.  Amy  Bernardy,  Venezia 
e  il  Turco  nella  seconda  metà  del  sec.  XVII,  Firenze,  1902,  p.  4. 


VENEZIA   NEL    PERIODO    GOLDONIANO  37 

45  II  Mulinelli,  sfacciato  adulatore  dell*  Austria,  e  facile  per  la 
sua  scarsa  coscienza  e  per  La  sua  ignoranza  a  confondere,  a  travi- 
sare, a  generaleggiare,  racconta  tuttavia  molte  cose  vere  nelle  pp.  157- 
165,  sebbene  attinga  da  relazioni  e  dispacci  anteriori  o  posteriori  al 
periodo  nostro.  Certo  i  mali  si  aggravarono  negli  ultimi  decenni, 
durante  la  pace  europea:  Lalande,  VII,  20  e  Corani,  Mémoires  secrets 
et  critiques  etc,  Paris,  1792,  t.  Ili,  393. 

46  V.  le  memorie  di  C.  Gozzi  e  del  Casanova.  Delle  ruberie  e 
dei  vizi,  che  non  erano  poi  privilegio  degli  eserciti  veneziani,  e*  è  più 
d'  un  ricordo  nelle  Lettere  critiche  ecc.  di  G.  A.  Costantini  e  perfino 
in  qualche  commedia  del  Goldoni. 

47  Non  è  possibile  offrire  cifre  precise,  ma  è  lecito  affermare  che 
Tarmata  veneziana  componevasi  di  circa  25  vascelli  di  prima  linea, 
parte  dei  quali  in  cantiere,  di  una  decina  di  fregate  e  d' infiniti  legni 
minori.  Afferma  1'  ab.  Richard  che  12  vascelli  di  linea  erano  sempre 
in  costruzione  sugli  scali  dell'arsenale:  11,323.  Otto  vascelli  di  linea 
e  20  galere,  dice  Lalande,  custodivano  costantemente  il  Golfo:  VI,  433. 
"  La  Squadra  navale  ordinaria  „  afferma  pure  il  Tentori,  Storia  cit., 
II,  255,  "  consiste  per  Io  più  in  nove  Navi  da  guerra  e  15  Galere  e 
altri  legni  sottili  „.  Sulle  forze  navali  alla  caduta  della  Repubblica, 
V.  Casoni  cit.,  pp.  248-249.  -  Si  ricordi  che  il  regno  di  Napoli  non 
possedeva  nel  1759  che  2  vascelli  di  linea,  2  fregate  e  6  sciabecchi: 
M.  Schipa,  //  regno  di  Napoli  al  tempo  di  Carlo  Borbone,  2*  ed., 
Roma,  1923,  voi.  I,  p.  337. 

48  Leggi,  sempre  cautamente,  Mutinelli,  41  sgg.:  v.  pure  Lalande, 
VII,  38.  II  Lamberti,  II,  e.  io,  confessa  che  il  popolo  veneziano  pas- 
sava troppo  presto  dalla  chiesa  agli  spettacoli  profani,  dalle  proces- 
sioni all'amore,  ma  dice  che,  alieno  dalla  superstizione  di  altre  genti, 
rispettava  i  sacerdoti,  pur  senza  farne  gli  arbitri  e  i  despoti  delle 
famiglie,  e  serbava  la  fede:  e.  9.  I  lagni  però  ricorrono  a  ogni  passo 
negli  scrittori  di  quel  tempo:  basta  citare  fra  le  Lettere  critiche  ecc. 
del  Costantini,  quella  intitolata  Mondo  e .  religione,  t.  V  ed.  1751  e 
t.  VI  ed.  '94,  e  il  canto  IX  (1761)  della  Marfisa  bizzarra  di  Carlo  Gozzi. 
La  scarsa  religione  rimproverò  sulla  fine  del  Seicento  il  bizzarro 
poeta  Bartolomeo  Dotti  (bresciano,  1651-1713),  specie  nel  canto  della 
Quaresima:  Satire,  ed.  Ginevra,  1807,  *.  I.  Il  giovane  marchese 
d'Argens,  futuro  amico  di  Federico  II,  loda,  come  il  Lamberti,  nelle 
Lettres  Juives  (Amsterdam,  1736)  i  Veneziani  perchè,  a  differenza 
degli  altri  Italiani,  "  leur  esprit  n'est  point  enchainé  par  la  bigoterie  „ 
(II,  p.  188)  e  perchè  sottopongono  la  religione  alla  politica  dello 
Stato  (II,  lett.  48  e  52).  Pure  De  Brosses  (I,  lett.  16)  approva  l'esclu- 
sione severa  della  gente  di  chiesa  da  ogni  carica  del  governo;  e  così 
altri  viaggiatori. 

49  V.  anche  Romanin,  IX,  20.  -  Eppure  gli  stranieri,  osservando 
come  nessuna  eresia,  nessuna  setta  avesse   osato   apparire   scoperta- 


38  VENEZIA   NEL    PERIODO    GOLDONIANO 

mente  nella  Repubblica,  dichiaravano:  "  Il  n' y  a  point  d' état  dans 
r  Europe  où  la  réligion  catholique  se  soit  maintenue  avec  autant 
d' integrile  qu' à  Venise  „:  Richard,  li,  399. 

50  G.  Brusoni,  //  cartozzino  alla  moda,  Venezia,  Curti,  1658, 
scorsa  5;  B.  Dotti,  la  Quaresima  e  le  Sferzate  agV  irriverenti  nel  tem- 
pio, falsani.  Amsterdam,  1790,  F.  II.  Esagera  il  Malamani,  //  Sette- 
cento a  Venezia:  I.  La  Satira  del  costume,  Torino  189 1,  p.  117.  Anzi 
il  Lamberti  (P.  II,  capo  3)  ricorda  come  fosse  proibito  alle  donne  di 
mostrarsi  in  chiesa  con  la  faccia  scoperta  e  tutte  usassero  le  velette 
o  gli  zendaletti  o  i  fazzioli. 

51  Delizia  non  dei  Veneziani  soltanto,  ma  di  tutti  i  forestieri  e 
stranieri  che  li  celebravano  con  le  più  alte  lodi.  "  C  est-là  „  dice  con 
entusiasmo  nel  '62  1'  ab.  Richard  "  qu'  il  faut  aller  apprendre  la  pré- 
cision,  r  intelligence  et  la  beauté  de  Texécution;  e*  est-là  que  l' on 
entend  les  plus  belles  voix  de  femmes  de  V  Italie  „  :  t.  I,  p.  LXVIIL 
Dirigeva  il  coro  dell*  ospitale  degli  Incurabili  il  maestro  Adolfo  Hasse 
detto  Sassone,  che  fu  poi  chiamato  a  Vienna:  gli  succedette  Vincenzo 
Ciampi,  tornato  da  Londra  nel  luglio  '57  e  morto  nel  maggio  '62; 
quindi  il  Brusa,  il  Trajetta,  il  Galuppi  (si  veda  per  quest*  ultimo  il 
Viaggio  del  Burney).  La  Gazzetta  Veneta  nelT  aprile  del  '60  ricorda 
fra  le  migliori  virtuose  nel  canto  Regina  Rossi,  Laura  Raimondi  e 
Francesca  Rubini.  Nel  pio  luogo  della  Pietà  troviamo  dal  1756  al  '62 
il  maestro  Gaetano  Latilla  (1713-88)  di  Bari,  chiamato  poi  a  dirigere 
la  Cappella  di  S.  Marco;  e  più  tardi  il  Furlanetto.  Nel  cod.  Cicogna 
1408,  presso  il  Museo  Civico,  leggesi  un  canto  Sopra  le  Putte  di  coro 
(sic)  della  Pietà:  prima  è  la  "  dolcissima  „  Apollonia,  d'oltre  30  anni, 
poi  Agata  sua  discepola,  poi  Giulietta  soprana,  poi  Ambrosina,  Ma- 
rianna, Geltruda  ecc.  Pare  che  nel '62  l' ab.  Richard  vi  udisse  ancora 
la  Greghetta:  II,  334.  Il  coro  dell* Ospedaletto,  o  pio  luogo  dei  Derelitti, 
aveva  per  maestro  Gaetano  Antonio  Pampani,  al  quale  succedette  il 
famoso  Sacchini.  Tra  le  cantanti  si  lodavano  Laura  Comin  e  Fiorina 
Vendramin  :  Gradenigo,  Notatorj.  Nell'ospitale  dei  Mendicanti  insegnò, 
prima  di  passare  a  S.  Marco,  il  maestro  Giuseppe  Sarratelli  morto 
nel  1760;  e  poi  a  lungo  Ferdinando  Bertoni  (1725-1813)  di  Salò:  ce- 
lebre virtuosa  la  Fabris,  detta  la  Padovanina,  ma  nel  '62  stava  per 
cedere  il  primo  posto  nel  canto  a  Lauretta  Risegari:  Richard,  11,341 
(v.  anche  Gazz.  Ven.,  2  aprile  1760). 

sa  Ma  non  bisogna  esagerare.  Quando  il  Taine  nel  suo  Voyage 
en  Italie,  t.  II,  scrive  degli  antichi  Veneziani  :  "  A  vrai  dire,  ils  ne  se 
sont  jamais  préoccupés  de  réligion  que  pour  reprimer  le  pape:  théorie 
et  pratique,  idées  et  instincts,  ils  ont  hérité  des  moeurs  et  de  l'esprit 
antiques,  et  leur  christianisme  n'est  qu' un  nom  „:  commette  un  grave 
errore  storico,  che  si  ripete  con  troppa  frequenza  nelle  pagine  degli 
scrittori  d'oltralpi.  Un  sentimento  piuttosto  pagano  che  cristiano 
scorgesi  a  Venezia  nel  Cinquecento,   in   ispecie,  e  nel   Settecento:  al 


VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO  39 

di  là  però  di  tale  bisogno  spesso  artistico,  che  si  pasceva  della  pompa 
esteriore  senza  penetrare  molto  a  dentro,  noi  troviamo  pur  negli 
ultimi  tempi  qualche  altra  cosa  più  profonda,  più  affettuosa,  meno 
sensuale  e  terrena:  sino  alla  caduta  della  Repubblica  noi  possiamo 
osservare  un  tacito  rispetto  alla  religione,  unita  sempre  intimamente 
alle  maggiori  e  minori  funzioni  dello  Stato,  negli  animi  stessi  de'  cit- 
tadini più  indifferenti.  Le  vivaci  questioni  con  la  Corte  romana  con- 
traddicono anzi,  più  che  non  sembri,  1'  affermazione  del  Taine: 
Venezia  non  è  Roma. 

53  Costantini,  I,  180  (ed.  '94):  il  Carnovale.  Più  d'una  devota 
storpiava  le  orazioni  mentre  davanti  lo  specchio  faceva  la  toeletta, 
assistita  dall*  acconciatrice  o  dal  servente:  III,  67:  Perditempi. 

54  Dotti,  sat.  32  ed.  Amsterdam  e  18  ed.  Ginevra;  e  Malamani, 
1.  e,  106. 

55  La  satira  del  Dotti  è  anche  pittura  del  periodo  goldoniano,  e 
di  tutti  i  tempi;  si  rilegga  poi  la  Marfisa  bizzarra  di  Carlo  Gozzi. 
Più  tardi  il  Senato  chiese  al  papa  ed  ottenne  la  diminuzione  delle 
feste  che,  invece  della  religione,  favorivano  T  ozio  e  la  crapula,  e 
danneggiavano  le  arti  e  l'agricoltura:  Romanin,  Vili,  180. 

56  Solo  nel  '68  e  nel  '69  il  Senato  potè  emanare  i  coraggiosi  de- 
creti proposti  dal  Tron,  causa  di  querele  e  d'ire  a  Venezia  e  a  Roma: 
Romanin,  Vili,  1756;  e  Dandolo,  1.  IV,  cap.  6  (ricordo  poi  Pilati, 
Voyages,  I,  i86-i88».  -  Fra  i  monaci  erano  più  magnifici  i  Benedet- 
tini di  S.  Giorgio  Maggiore  e  i  Domenicani  dei  SS.  Gio,  e  Paolo, 
avverte  il  Lamberti:  questi  ultimi  di  vita  un  po'  libera.  Avversi  ai 
Domenicani  erano  i  Francescani,  ai  quali  appartenevano  i  Zoccolanti, 
più  rozzi  e  meno  costumati.  Dotti  teologi  i  Carmelitani,  ma  non  molto 
austeri  moralisti.  Fra  le  berrette  vediamo  i  Somaschi,  gli  Scolopi,  i 
Barnabiti  e  i  rigidissimi  Filippini  in  odore  di  giansenismo.  Copiose 
notizie  offre  il  voi.  Ili  dei  Principj  di  storia  civile  cit.,  del  Sandi. 
Alla  libertà  de'  frati  a  Venezia  accenna  il  Baretti,  1.  e,  192;  ma  il 
Pilati  afferma  che  godevano  pochissimo  credito,  né  si  accoglievano 
dalle  famiglie  oneste:  I,  237. 

57  Vedasi  nota  16. 

58  Costantini,  I,  Figli  destinati  alla  religione  (v.  per  contro  Ba- 
retti, 1.  e,  cap.  XXI)  e  Messe  brevi)  IV,  Intorno  air  elezione  dello  stato 
religioso  e  Un  padre  ad  un  figlio  vescovo.  Si  ponga  mente  che  simile 
al  veneziano,  nei  difetti  e  nei  vizi,  era  il  clero  cattolico  dappertutto. 
Con  incredulo  sorriso  ascoltiamo  poi  le  piacevoli  novelle  che  ci  rac- 
conta il  giovane  D'  Argens,  oppure  il  giovane  De  Brosses. 

59  Fra  i  moltissimi  che  si  lagnano  scelgo  ancora  il  Costantini,  III, 
Predicatori:  si  consulti  lo  stesso  Moschini,  1.  e,  t.  III. 

60  Ricorderò  soltanto  i  Mémoires  del  Casanova  e  citerò  Mutinelli,  53. 
6t  II  Baretti  difende  i  conventi  nostri  dalle  accuse  degli  scrittori 

oltramontani.  La  vita  delle  monache,  dice,  "  non  è  certamente  volut- 


40  VENEZIA   NEL   PERIODO    GOLDONIANO 

tuosa...  Tutti  i  piccoli  piaceri  di  cui  godono,  riduconsi  ad  avere 
qualche  provvisione  di  caffè  e  di  cioccolatte  di  cui  si  regalano,  e  che 
presentano  a  coloro  che  vengono  a  visitarle,  e  che  loro  è  permesso 
di  ricevere  alla  grata.  Questa  grata  è,  d'  ordinario,  doppia  e  strettis- 
sima: nella  sola  Venezia  si  può  far  passare  la  mano  attraverso  i 
suoi  fori;  ma  queste  grate  veneziane  rovinarono  la  riputazione  delle 
monache  di  quella  città  „:  1.  e,  184.  I  conventi  di  S.  Lorenzo  e  di 
S.  Zaccaria,  dove  si  trovavano  molte  fanciulle  patrizie,  non  erano 
considerati  per  il  passato  come  veri  e  propri  monasteri  di  regola 
rigida,  ma  specie  di  ritiri  dove  le  nobili  donne  senza  marito  convi- 
vevano lontano  dalle  famiglie;  e  però  non  portavano  velo:  Burnet,  128. 
6a  Lamberti,  I,  loi  e  sgg.:  dal  quale  attinge  Romanin,  IX.  Lo 
stesso  De  Brosses,  I,  176,  fin  dal  '39  avverte  come  fosse  per  esulare 
la  galanteria  da'  monasteri.  Nel  famoso  Parlatorio  Giovanni  Antonio 
Guardi  colse  e  fissò  un  aspetto  della  vita  claustrale  veneziana  che 
stava  ormai  per  scomparire.  Non  già  la  corruzione  delle  monache 
aiutò  la  caduta  della  Repubblica;  e  assai  prima  di  Napoleone  il  Se- 
nato sopprimeva  conventi,  reprimeva  abusi:  cessata  poi  negli  ultimi 
anni,  come  giustamente  osserva  il  Lamberti  (1.  e,  104),  la  smania 
nelle  donne  per  il  chiostro,  e  rallentata  o  cessata  la  crudeltà  nei 
genitori,  gli  ordini  religiosi  muliebri  s'apersero  più  di  rado  alla  classe 
patrizia,  ma  pur  decadendo  riformarono  il  costume.  Che  tuttavia  non 
fu  mai  nel  Settecento  quale  D' Argens  (1.  e,  II,  274)  o  De  Brosses 
vorrebbero,  o  quale  taluno  si  rappresenta  dal  troppo  noto  episodio 
della  monaca  di  Murano:  scandali  ben  più  frequenti  e  generali  esi- 
stevano ne'  secoli  più  antichi,  e  in  quello  pure  dei  Vivarini  e  del 
Carpaccio:  scandali  ben  più  infami  ricorda  la  storia  del  secolo  deci- 
mottavo,  per  esempio  in  Toscana. 

63  Costantini,  per  es.  t.  Vili:  Difesa  delle  donne.  -  Le  stesse  fri- 
volità  in  tutta  Italia,  e  anche  in  Francia. 

64  Non  bisogna  credere  che  questi  conventi  fossero  sempre  luoghi 
di  tormento  per  le  fanciulle,  come  neppur  erano  in  Francia:  E.  et 
J.  De  Goncourt,  La  femme  au  18.^  siede,  Paris,  1898,  pp.  19-21. 

65  Così  in  Francia:  Goncourt,  25-26. 

66  Lamberti,  voi.  II,  e.  17.  Rigore  simile  in  Francia:  Mercier, 
Tableau  de  Paris,  eh.  26. 

67  Costantini,  I,  74  e  altrove.  Così  nel  resto  d' Italia. 

68  Si  leggano  anche  le  pagine  235237,  t.  I,  delle  Memorie  cit.  del 
Curti,  benché  posteriori  al  tempo  di  cui  trattiamo.  Di  ciò  move  giusto 
lamento  il  canto  popolare,  Dov'è  quel  tempo  antigo  ecc.:  Malamani, 
1.  e,  La  Musa  popolare,  286-288.  Badisi  che  parliamo  soprattutto  delle 
classi  più  ricche  e  che  potremmo  citare  infinite  eccezioni.  Nel  periodo 
che  seguì  a  quello  del  Goldoni  questa  libertà  delle  donne,  anzi  che 
diminuire,  accennava  a  crescere:  al  viaggiatore  Moore  parve  mag- 
giore che  a  Parigi. 


VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO  4I 

69  Non  modifico  quello  che  ho  scritto  or  sono  venticinque  anni. 
Il  Filati,  come  si  vede  nel  saggio  che  segue  a  questo,  attribuisce 
all'uso  della  maschera  la  grande  libertà  acquistata  dalla  donna  vene- 
ziana, ma  qui  si  tratta  di  un  fenomeno  più  ampio,  generale,  e  comune 
a  quasi  tutta  la  penisola,  come  bene  osservavano  fin  dal  '40  i  viag- 
giatori che  scendevano  in  Italia.  È  da  consultarsi  la  lunga  nota  sul- 
r  origine  del  serventismo  che  pubblicai  nelle  pagine  343-346  del  mio 
volume  sul  Settecento  ecc.  Lo  stesso  Procuratore  Grimani,  che  fu  poi 
Doge,  e  r  abate  Conti  facevano  più  volte  notare  a  lady  Montagu,  nel 
1739,  come  da  venti  anni  fosse  così  mutato  il  costume  a  Venezia 
ch'essi  appena  la  riconoscevano  per  la  medesima  città  (lett.  25  gen 
naio  '40).  *  It  is  the  fashion  for  the  greatest  ladies  to  walk  the  streets, 
wich  are  admirably  paved  „  e  basta  un  semplice  abito  di  maschera 
*  to  carry  you  everywhere  „  (6  nov.  '39). 

70  Goncourt,  1.  e, passim)  Taine,  Ancien  regime,  170-179.  Certo  il 
male  era  più  grave  oltralpe.  A  Venezia,  anzi  potrei  affermare  in  tutta 
Italia,  non  fu  mai  smarrito  il  sentimento  della  famiglia:  "  Les  familles 
vénitiennes  „  osserva  Lalande  "  sont  ordinairement  très-unies:  les  frères 
et  les  soeurs  vivent  ensemble  (méme  après  avoir  perdu  leur  pére  et 
leur  mère)  sans  avoir  de  discussions  d' intéréts,  et  méme  sans  partager 
les  biens  de  famille,  ce  qui  paroìtra  extraordinaire  à  des  Frangois  „  : 
VII,  23.  Basti  ricordare  quanto  pettegolezzo  seguisse  alla  separazione 
dei  fratelli  Gozzi  qualche  anno  dopo  la  morte  del  conte  Jacopo. 

71  Goncourt,  265  267. 

73  Un  borghese  parigino  della  prima  metà  del  Settecento  (Barbier, 
r  autore  del  famoso  Journal,  citato  da  Aubertin,  U  esprit  public  au 
j8.^  siede,  Paris,  1889,  p.  183)  lasciò  scritto:  "  Sur  vingt  seigneurs  de 
la  cour,  il  y  en  a  quinze  qui  ne  vivent  point  avec  leurs  femmes  et 
qui  ont  des  maìtresses;  rien  n' est  méme  si  commun  à  Paris  entre 
particuliers;  il  est  donc  ridicule  de  vouloir  que  le  roi,  qui  est  bien 
le  maitre,  soit  de  pire  condition  que  ses  sujets  et  que  tous  les  rois 
ses  prédécesseurs  „.  Costui  non  si  sarebbe  meravigliato  se  qualche 
nobiluomo  veneziano,  non  così  svergognatamente  come  per  il  passato, 
manteneva  una  donnetta:  l'aveva  anch' egli,  l'egregio  avvocato  del 
Parlamento  di  Parigi. 

73  Giustamente  il  Baretti  mette  in  guardia  contro  le  esagerazioni 
degli  scrittori:  "  Nella. stessa  Venezia  v' é  l'uso  generalmente  stabi- 
lito, anche  fra  i  principali  nobili,  di  differire  di  più  mesi,  e  qualche 
volta  di  un  intiero  anno,  un  matrimonio  stabilito,  affinchè  i  giovani 
amanti  possano  concepire  amore  l' uno  per  l' altro  „  :  1.  e,  25.  Lo 
stesso  teatro  del  Goldoni  è  là  a  dimostrarci  che  l'amore  quasi  sempre 
trionfava  anche  nel  Settecento,  contro  tutto  e  tutti. 

74  Qualche  accenno  ai  serventi  a  Venezia  si  avverte  già  nelle 
satire  del  Dotti  (morto  nel  genn.  1713),  per  esempio  nella  XV  e  nella 
XLII  (ed.  Amsterdam). 


42  VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO 

75  Rornanin,  IX,  13.  Vedi  pure  Lalande,  VII,  30-31,  contro  il  bi- 
lioso viaggiatore  Sharp. 

76  Costantini,  II,  Servitù  alla  moda;  IV,  Serventi  alla  moda;  Vili, 
Ad  un  servente  alla  moda.  Non  si  confonda  amore  e  corruzione; 
r  amore,  di  qualunque  specie,  è  presso  i  posteri,  se  non  presso  i 
contemporanei,  legale  e  sacro  per  sé,  e  non  è  mai  corruzione.  -  Certo 
padre  Tauro,  di  nobile  famiglia,  in  un  libro  di  Avvertimenti  morali, 
civili  e  politici  ad  una  sposa  novella  {Feìtre,  1778),  così  spiega  l'ori- 
gine del  serventismo:  "  Egli  è  da  gran  tempo,  dacché  a  quasi  ogni 
Dama  di  alto  rango  e  di  antica  cospicua  Nobiltà  si  è  permesso  un 
Cavaliere  per  ordinario  di  eguale  carattere,  di  gravi  ed  egregi  co- 
stumi, che  in  varj  incontri  e  leciti  uffizj  avesse  Tenore  di  accompa- 
gnarla e  di  assisterla.  Per  due  motivi  specialmente,  ed  entrambi 
civili  ed  onesti,  si  è  istituito  questo  uso,  che  si  reputa  di  decoro  e 
di  molta  onorevolezza.  Il  primo  per  maggior  pompa  ed  isfarzo  della 
Dama  e  della  Famiglia;  poiché  veggendosi  dalla  gente  di  minor  rango, 
e  più  bassa,  servite  e  onorate  da  un  Cavaliere  di  alta  portata,  abbia 
a  concepire  per  esse  più  stima  e  rispetto...  Il  secondo,  perchè  in 
assenza  dei  mariti,  impiegati  per  ordinario  negli  alti  affari  de'  Regni, 
delle  Repubbliche  o  delle  Città  signorili,  non  avessero  a  mancar  alle 
giovani  Dame  quei  Cavalieri,  che  le  assistessero  in  quelli  onesti  di- 
vertimenti, che  fossero  alT  età  loro  e  al  loro  grado  proporzionati  ;  o 
in  quelle  civili  convenienze,  che  o  per  gentilezza  o  per  dovere  giu- 
dicavan  esse  di  usare...  Il  male  però  si  è  che  quel  costume,  che  per 
grandezza  e  per  fini  onesti  e  per  lo  più  necessarj  si  é  introdotto  fra* 
Grandi,  praticar  si  vuole  ormai  per  un  di  presso  da  tutta  la  gente 
civile:  permettendosi  a  quasi  tutte  le  giovani  Spose,  senza  veruna 
necessità,  un  Signore  giovine  per  ordinario,  gentile,  e  per  lo  più  di 
belT  aspetto,  che  di  giorno  e  di  notte,  in  casa  e  fuori,  con  ogni  con- 
fidenza le  serva:  essendosi  perciò  corrotto,  e  dirò  ancora  avvilito  il 
termine  con  cui  si  nomina:  poiché  dove  fra  le  persone  graduate  e 
di  nobilissima  stirpe  si  può  chiamare  il  Cavaliere  assistente,  che  im- 
porta grandezza  e  decoro,  fra  le  altre  di  inferior  sangue  da  mezzo 
secolo  in  qua,  se  pur  é  tanto,  con  poco  onor  de'  Signori  si  chiama 
il  Cavaliere  servente.  Qualunque  sia  il  pretesto  con  cui  si  voglia 
coonestare  ed  autorizzar  questa  usanza,  troppo  é  vero  però  che  sarà 
sempre  pessima  per  se  stessa,  e  sempre  producitrice  di  pessime 
conseguenze  „  (pp.  93-96).  -  Vero  è  che  la  boria,  più  che  la  libidine, 
moltiplicò  in  Italia  1'  uso  de'  cicisbei. 

77  Erano  di  più  a  Venezia,  a  Roma  o  a  Napoli?  tra  i  viaggiatori 
regna  grande  incertezza.  Ma  più  numerose  e  molto  più  fastose  erano 
nel  Seicento.  "  Dans  les  siècles  précédens  „  avverte  1'  abate  Richard 
*  c'étoit  chez  ces  femmes  que  se  traitoient  les  affaires  les  plus  sérieuses, 
que  se  formoient  les  plans  les  plus  intéressans:  c'étoit  là  que  les 
ambassadeurs  s'assembloient.  Aujourd*  hui  elles  n'ont  plus  la  mème 


VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO  43 

espèce  de  considération;  les  nobles  ne  se  ruinent  plus  à  les  entra- 
tenir,  depuis  que  les  femmes  sortent,  se  font  des  visites  mutuelles, 
et  tiennent  des  assemblées  où  les  hommes  sont  admis  „:  onde  "  le 
ton  aimable,  honnéte  et  doux  qui  règne  à  Venise,  sur-tout  parmi  la 
jeune  noblesse  „  (II,  434-5).  E  aggiunge  più  tardi:  "  Le  ton  a  changé, 
quoique  la  morale  ne  soit  peutétre  pas  plus  épurée:  il  y  a  actuel- 
lement  très-peu  de  ces  parties  de  débauché  qui  faisoient  autrefois  le 
Seul  plaisir  du  Vénitien.  Il  y  a  beaucoup  plus  de  société,  plus  de 
douceur  et  d'  aménité  dans  les  moeurs,  et  la  nation  devra  cette  espèce 
de  réforme  au  commerce  des  femmes,  et  à  1*  empire  qu*  elles  acquie- 
rent  tous  les  jours  „  (II,  461). 

78  Costantini,  I,  //  Carnovale.  Ricordo  con  lo  stesso  titolo  una 
satira  del  Dotti  (P.  i*,  VI:  v.  pure  //  Carnevale  di  Venezia,  in  dia- 
letto, cod.  Cicogna  1409,  t.  I,  presso  il  Museo)  e  altra  del  Busenello 
(1598-1659,  El  Carneval:  Livingston,  La  vita  veneziana  nelle  opere  di 
G.  F.  Busenello,  Venezia,  1913,  p.  351  e  sgg.). 

79  Lamberti  (II,  carta  18),  che  più  avanti  racconta  come  Tuomo 
del  popolo  non  accompagnasse  quasi  mai  la  moglie  alla  taverna,  e 
mai  la  figlia:  questa  usciva  solo  negli  ultimi  giorni  di  carnovale  e 
nelle  feste  sacre,  in  compagnia  della  madre  e  delle  congiunte,  e  co- 
perta dal  ninzioletto.  Tale  riserbatezza  delle  fanciulle  veneziane  sem- 
bra quasi  dissimulazione  alT  abate  Richard;  confessa  però  chele 
spose  stesse,  appassito  il  primo  fiore  della  bellezza,  diventavano 
eccellenti  madri  di  famiglia:  II,  440  e  441.  Anche  all'  abate  Coyer  fa 
specie  la  modestia  delle  fanciulle  a  una  festa  pubblica:  "  Dans  nos 
bals  frangais  une  mère  se  plaìt  à  voir  danser  sa  fille.  A  Venise  les 
filles  ne  dansent  pas  „:  Voyage  d' Italie,  II,  89.  Né  occorre  che  la 
severa  educazione  sia  confermata  dalla  contessa  Wynne  di  Rosenberg 
[Pièces  morales  et  sentimentales',  che  un  mirabile  testimonio  ci  offrono 
i  capolavori  dialettali  del  teatro  goldoniano. 

^  Prima  di  passare  ad  altro  è  bene  ripetere  ancora  una  volta 
come  la  corruzione  fosse  generale  anche  fuori  di  Venezia  e  d*  Italia  : 
lo  stesso  Casanova  non  la  trovò  dappertutto,  sfacciata  o  segreta  ? 
•  V.  la  sua  Confutazione  della  Storia  del  Governo  Veneziano  d'Amelof 
de  la  Houssaie,  Amsterdam,  1769,  P.  I,  pp.  128-138).  Che  Venezia 
fosse  in  questo  periodo  molto  più  corrotta  di  Londra,  come  parve 
al  Baretti  (1.  e,  22),  sarebbe  difficile  provare,  poiché  egli  è  solo  ad 
affermarlo:  ma  senza  dubbio  fu  più  imprudente,  come  osserva  il 
viaggiatore  Moore.  Intorno  alla  corruzione  londinese  l' accordo  è 
perfetto  fra  tutti  gli  scrittori.  Cesare  De  Saussure,  di  Losanna,  osa 
credere  che  a  Londra  nel  1725  vi  fossero  40  mila  prostitute:  una 
cifra  uguale  assegna  Sebastiano  Mercier  a  Parigi,  prima  della  Rivo- 
luzione: ma  sono  statistiche  troppo  incerte.  Vero  è  che  nella  metro- 
poli londinese  con  più  insolenza  le  meretrici  si  spandevano  di  sera 
sui  marciapiedi  assalendo  il  passante,  invadevano  i  giardini  pubblici. 


44  VENEZIA   NEL    PERIODO    GOLDONIANO 

i  caffè,  i  teatri,  ogni  ritrovo,  sì  che  il  Baretti  (il  quale  crede  "  oltre- 
passassero il  numero  di  diecimila,  molte  di  esse  appena  dodicenni  „ì 
è  pur  costretto  a  lagnarsi  in  una  lettera  del  1760.  Anche  Grosley  le 
dice  più  numerose  che  a  Parigi,  più  libere  e  sfrontate  che  a  Roma 
{Londres,  t.  I,  78,  Neuchatel,  1774.  -  Fra  i  moltissimi  viaggiatori  che 
ne  parlano,  vedi  Archenholz,  England  und  Italien^  I,  303  sgg.,  Leip- 
zig, 1786).  E  Alessandro  Verri,  che  nei  giardini  di  Parigi  ha  visto 
certe  cose,  conclude  (1766):  "  Oh  per  questo  poi  Parigi  è  castissimo 
in  paragone  di  Londra  „  [Carteggio  di  Pietro  e  AL  Verri,  Milano,  1923, 
voi.  I,  P.  1*,  298).  Ma  altri  vizi  più  turpi  regnavano  sul  Tamigi,  come 
il  tribadismo  fra  le  signore  (che  una  lettera  di  Giustiniana  Wynne 
nel  '60  ad  Andrea  Memmo  ci  conferma:  Brunelli,  Un'amica  del  Ca- 
sanova, in  Collezione  Settecentesca,  Sandron,  1924,  p.  182)  e  la  schifosa 
ubbriachezza  che  abbrutiva  tutte  le  classi  della  popolazione.  -  Del 
resto  ogni  città  par  voglia  aspirare  al  primato  in  questa  tristissima 
gara.  Francesco  Regnard,  il  commediografo,  scrive  rielle  sue  note  di 
viaggio  del  1681  dall'Olanda:  "  11  n'y  a  peut-étre  point  de  lieu,  après 
Paris,  ou  le  libertinage  soit  plus  grand  qu'à  Amsterdam  „:  Oeuvres, 
Paris,  1805,  t.  IV,  142.  Di  Berlino  chiedete  notizia  a  Voltaire  o,  se 
volete,  a  Moore.  Ma  come  oseremo  descrivere  i  costumi  di  Mosca  e 
di  Pietroburgo?  Se  poi  torniamo  in  Italia,  il  Casanova,  che  se  n'in- 
tende, ci  dirà  che  in  nessun  luogo  i  piaceri  sensuali  si  godono  cosi 
a  buon  prezzo  e  così  liberamente  come  a  Bologna;  qualche  altro  ci 
dirà  che  a  Firenze  v' è  un  certo  viziacelo;  a  Napoli  udremo  da  Du- 
paty  che  tutti  fanno  mercato  delle  donne:  "  Les  pères,  les  mères, 
les  maris,  les  frères,  les  moines,  tout  le  monde  hautement  en  trafique  „ 
{Lettres  sur  V  Italie  en  178^,  Paris,  1810,  t.  Ili,  65);  a  Roma...  Ma  ci 
vorrebbe  almeno  un  volume  a  raccogliere  tante  turpitudini.  -  Il  rac- 
conto dei  forestieri  non  è  poi  sempre  una  guida  sicura  a  giudicare. 
A  Venezia,  per  esempio,  tolte  le  case  de*  patrizi  che  pur  quasi  sempre 
restavano  a  loro  chiuse  (De  Brosses,  I,  176  e  191)  e  in  cui  maggiore 
era  la  libertà  del  costume,  dove  mai  potevano  penetrare  e  quali  donne 
avvicinare?  (Lalande,  VII,  27  e  28).  Certo  era  assai  facile  per  mezzo 
del  denaro  sfogar  la  lussuria,  ma  non  così  facilmente  le  madri  ven- 
devano le  figlie  immature.  Tuttavia  degno  di  fede  è  Rousseau:  non 
De  Brosses  allorché  raccoglie  per  le  belle  sue  amiche  di  Digione  la 
diceria  che  i  lenoni  offrissero  sulla  piazza  di  San  Marco  le  gentil- 
donne della  Repubblica  e  crede  che  la  gondola  servisse  d'  asilo  al 
turpe  mercimonio  (I,  lett.  15);  non  D' Argens  e  cento  altri  a  cui  fa 
eco,  con  pari  disinvoltura,  una  schiera  di  viaggiatori  d'oltre  Manica. 
A  codesti  leggeri  denigratori  con  bella  indignazione  risponde  la  Putta 
onorata  di  Goldoni:  "  Semo  a  Venezia,  sala.  A  Venezia  ghe  xe  del 
bagolo  per  chi  lo  voi...  ma  in  te  le  case  onorate  no  se  va  a  bater  da 
le  pute  co  sta  facilitae.  Vu  altri  foresti  via  de  qua,  co  parie  de  Ve- 
nezia in  materia  de  done,  le  mete  tute  a  mazzo;  ma,  sangue  de  diana! 


VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO  45 

no  la  xe  cussi  „  (a.  I,  se.  13).  Vedasi  il  commento  di  V.  Malamani, 
non  sospetto  di  stendere  pietosi  veli  sulla  decadenza  veneziana:  // 
Settecento,  I,  123-5.  Cresciuta  la  licenza,  lo  stesso  abate  Barbaro,  lin- 
gua mordace,  pur  ammetteva  che  di  circa  trentamila  donne  che 
c'erano  a  Venezia  d'età  matura,  "  le  imprudenti,  le  matte  relassae  „ 
non  superassero  propriamente  la  cifra  di  duemila:  *  Ste  do  mile  a 
la  fin  xe  queste  qua  -  Che  mette  in  combustion  sta  gran  città  „  (cit. 
da  Malamani,  15).  E  quanto  alla  moda,  lasciamo  andare:  so  bene  che 
se  improvvisamente  ci  potessimo  oggi  trasportare  per  incanto  a  Ve- 
nezia, ai  tempi  del  Goldoni,  crederemmo  forse  di  entrare,  con  immensa 
meraviglia,  nel  regno  della  Pudicizia. 

81  Costantini,  II,  Conversazione  fra  molti]  Lamberti,  Le  stagioni 
campestri  e  cittadine,  Venezia,  1817,  p.  19;  Mulinelli,  Lessico,  93-95;  e 
moltissimi  viaggiatori,  fra  cui  lady  Montagu,  Letters,  22  feb.  1760, 
Lalande,  VII,  3132  ("  C  est  ainsi  que  les  Anglois  se  voient  au  café 
plus  que  chez  eux  „),  Moore,  III,  192-3.  Furono  proibili  nel  1567, 
nel  1609,  nel  1744,  ma  sempre  risorsero:  Inquisitori  di  Stato:  Casini 
di  giuoco  -  Teatri,  busta  914  (presso  l'Archivio  dei  Frari).  Ebbero 
mala  fama  (Dolcetti,  Le  bische  ecc.,  Venezia,  1903',  tuttavia  si  esagerò 
spesso,  come  avverte  il  Moore.  Leggesi  nei  Notatorj  Gradenigo,  in 
data  20  giugno  1755:  "  Nella  Contrada  di  S.  Moisè  si  sono  aumentati 
sino  a  questo  tempo  li  Casini  de'  Nobili  et  altri  Particolari  che  ten- 
gono proprie  stanze  a  loro  preciso  comodo  sino  al  N.  di  73;  il  che 
reca  defraudo  all'  utilità  incerte  di  quel  Parroco,  oltre  quello  di  tre 
Osterie,  Ridotto  e  Magazin  „.  E  in  data  i  gennaio  '60:  "  Si  aumen- 
tarono nelle  Contrade  vicine  a  S.  Marco,  e  massime  a  S.  Gio.  Novo, 
S.  Moisè,  S.  Luca,  S.  Fantino,  S.  Salvatore,  li  Casini  di  compagnia 
nobile,  nonché  quelli  di  alcuni  privati  nobili,  che  quasi  innumerabili 
divennero  a  proprio  uso  e  soggiorno,  di  modo  che  più  fratelli  d'una 
famiglia  separatamente  chiunque  possedevane  uno  preciso,  non  senza 
aggravio  di  affitto  e  di  trattamento  „.  N'  ebbero  da  ultimo  perfino  gli 
artigiani,  i  camerieri,  i  cuochi:  Lamberti,  P.  II,  e.  3.  Chi  non  poteva 
spendere,  associavasi  con  altri  compagni  :  Cherubini,  /  miei  pensieri, 
Venezia,   1767,  p.  204  e  sgg. 

82  E  in  Francia?  v.  Goncourt,  108110.  È  bene  avvertire  con  Se- 
bastiano Mercier:  "  Une  jolie  femme  fait  regulièrement  chaque  matin^ 
deux  toilettes.  La  première  est  fort  secrète,  et  jamais  les  amants  n'y 
sont  admis...  C  est  là  que  le  mystère  met  en  usage  tous  les  cosmé- 
tiques  qu'  embellissent  la  peau...  La  seconde  toilette  n'  est  qu'  un  jeu 
inventa  par  la  coquetterie  „  :  1.  e.  Toilette.  -  D'  Argens  dice  che  a 
Parigi  "  une  Femme  du  monde  ne  doit  se  léver  qu'  à  deux  où  trois 
heures  après  midi  „:  Lettres  Juives,  I,  1.  i*.  -  Delle  dame  veneziane 
afferma  il  Costantini:  "  La  mattina  sino  a  quattro  ore  di  sole  se  la 
passano  in  letto,  per  lo  più  discorrendo  con  li  Serventi.  Sorte  dal 
letto,  siedono  al  tavolino  dove   impiegano   altre  tre  ore  per  lo  meno 


46  VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO 

in  acconciare  i  capelli  e  la  cuffia,  in  lavarsi  gli  empiastri  notturni 
dalla  faccia,  in  applicare  belletti  e  vernici,  ed  in  accomodare  le 
mosche,  nel  che  talora  si  spendono  le  ore,  per  incontrare  il  genio 
del  Zerbino,  o  per  soddisfare  il  proprio  capriccio.  Compiuto  il  pranzo, 
altre  due  ore  per  lo  meno  esige  l' accomodarsi  attorno  i  vestiti  e 
r  esaminare  allo  specchio  li  gesti,  il  portamento  della  vita,  delle  mani, 
del  ventaglio,  della  bocca,  degli  occhi,  del  collo  „  :  III,  Perditempi  e 
vanità  delle  donne. 

83  Lamberti,  P.  II,  fine  del  capo  3. 

84  Sempre  Lamberti,  eh' è  la  guida  migliore:  P.  II,  capo  3. 

85  "  Il  secondo  giorno  poi  di  Pasqua  principiano  i  freschi:  dove 
ogni  sera  di  festa  dal  Palazzo  Pesaro  sino  al  Ponte  della  Croce,  in 
quel  tratto  di  Canal  Grande,  lungo  quasi  un  miglio  ("  in  faccia  a 
S.  Lucia  „  dice  il  cronista  Zanetti  nelle  sue  Memorie,  11  giugno  1743', 
suole  farsi  il  corso  di  Gondole  piene  di  Dame  e  Cavalieri,  di  Ministri 
de'  Principi  e  d' altri  Forestieri,  vedendosi  popolate  quelle  rive  di 
gente  accorsa  a  sì  degna  osservazione,  dove  la  voga  gagliarda  e 
destra  de'  Barcajuoli  rende  più  curioso  e  bello  quel  corso  marittimo  „: 
Cronaca  Veneta  cit.,  175 1,  II,  pp.  347-348. 

86  Lamberti,  P.  I,  capo  11  (carta  153  del  I  voi.). 

87  Dire  come  la  moda  del  Settecento  abbia  origine  in  Francia, 
al  tempo  della  Reggenza,  in  quel  bisogno  di  totale  rivolgimento  della 
società,  dopo  Luigi  XIV,  è  quasi  superfluo:  allora  le  gallerie  e  le 
vaste  sale  de'  palazzi  e  de'  castelli  cedono  il  posto  ai  piccoli  appar- 
tamenti (Lacretelle,  Histoire  de  France  pendant  le  18.^  siede,  Paris,  1819, 
t.  Ili,  20-2I);  allora  la  eleganza  minuta,  il  raccoglimento,  i  comodi; 
allora  il  trionfo  settecentistico  degli  specchi;  allora  le  chincaglierie 
d'Oriente:  si  abusò  allora  del  caffè,  del  cioccolate,  del  tè;  allora  i 
vini  di  lusso  e  le  bottiglie;  allora  e  poi  la  riforma  e  le  mutazioni 
delle  vesti  e  delle  acconciature,  sì  per  le  donne,  sì  per  gli  uomini 
(lo  nota  Capefigue  nel  suo  Louis  XV  eie,  Bruxelles,  1843,  ch.es  VII, 
XXV,  XLII).  Vecchie  idee  e  vecchie  abitudini  s'affrettano  insieme  a 
scomparire.  -  Curioso  ne'  Commemoriali  Gradenigo,  n.  XVIII,  carte 
168-17 1  (Provenienza  Gradenigo  Doljìn  presso  il  Museo,  n.  200)  certo 
catalogo  di  Successi  non  veduti  da'  nostri  Avi.  Per  esempio,  fin  dal  1699 
*  la  capigliatura  posticcia,  cioè  la  perucca  intessuta,,;  nel  1700  le 
stole  dorate  de'  Cavalieri  *  larghe  più  che  il  duplo  delle  usate  „  e 
con  la  stessa  data  "  la  bibita  resa  universale  del  caffè:  dimesso  del 
tutto  il  confortativo  più  salubre  della  malvasia  „;  più  tardi,  in  vari 
tempi,  le  chiese  di  S.  Moisè,  di  S.  Maria  Zobenigo,  della  Pietà,  delle 
Zitelle,  di  S.  Barnaba,  dei  Gesuiti,  di  S.  Giovanni  Novo,  di  S.  Toma 
e  altre  rinnovate  e  "  decorate  con  facciata  marmorea  „;  fin  dal  1704 
"  la  Nobiltà  affezionata  al  vestire  alla  Francese,  introdotto  dalla  mo- 
derna inclinazione  „;  nel  1705  proibizione  della  famosa  Guerra  dei 
pugni  "  tanto  usata  nell'età  passate  „;  1716,  leonessa   marmorea  del 


VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO  47 

senatore  Domenico  Pasqualigo  posta  "  a  sinistra  dei  laterali  dell*  ar- 
senale „;  1719  "  Baili  ed  Ambasciatori  veneti  a  Costantinopoli,  di- 
messa la  barba,  tengono  i  soli  mostacci,  indi  anche  quelli  tralasciano  „ 
nel  *33;  1720  "  Città  di  Venezia  per  ogni  strada,  piazza,  vicolo,  e 
contrada  illuminata  da  ferali,  prima  a  tansa  universale,  poi  a  pub- 
bliche spese,  in  tempo  di  notte  „;  dopo  il  1720,  due  piccoli  leoni  del 
doge  Luigi  Mocenigo,  detto  Sebastiano,  *  di  rossa  e  durissima  pietra 
situati  nella  Piazzetta  di  S.  Basso  „;  1723  "  la  Piazza  di  S.  Marco 
salizzata  tutta  nel  pavimento  di  duri  macigni  -  li  rari  e  fini  marmi 
della  Basilica  di  S.  Marco  rischiarati,  come  dalla  sua  origine  „;  1739 
"  il  portare  dell*  ombrella  per  la  Città  in  tempi  piovosi  -  li  strati 
pomposi  posti  al  di  fuori  de*  palchetti  de*  Teatri  „;  1740  "  li  Casini 
di  confidenza  nel  Sestier  di  S.  Marco  -  li  Cerchi,  o  siano  Guardin- 
fanti delle  Gentildonne  più  larghi  che  alti  della  loro  statura  „;  dopo 
il  1740  "  Femmine  usate  a  prender  tabacco  da  naso  „;  1745  "  finestre 
di  lucenti  e  grandi  specchi  sostituiti  in  varj  Palazzi  in  luogo  de* 
piccioli  ed  offuscati  vetri  rotondi  incassati  nello  stagno  „  ;  1748  "  ripari 
murali  e  laterali  di  moltissime  strade  ritrette,  o  im.boccature  de*  ca- 
nali „;  1749  "  istituzione  di  certe  macchine  idrauliche,  onde  estinguere 
fuochi  che  insorgessero  nella  Città,  al  numero  di  dieci,  cioè  6  grandi 
e  4  picciole,  a  spese  pubbliche,  e  distribuite  presso  i  Chiostri  de* 
Regolari  „;  1756  "  il  vestire  delle  donne  in  tabarro  e  bautta  „;  1757 
"  passeggio  del  Broglio,  non  senza  disordine  delli  retti  effetti,  distolto 
-  disfacimento  delle  gran  Galeazze  da  guerra  computate  insufficienti, 
tarde,  e  costose  „.  -  Nello  stesso  volume,  più  in  là,  a  pp.  172-174, 
troviamo  un'  altra  curiosa  nota,  Squitinio  cioè  tali  quali  cose  dissa- 
provate  in  Venezia,  e  quasi  irremediabili,  1758.  Eccone  un  saggio: 
"  Frati  Domenicani,  Agostiniani,  Carmelitani,  Canonici  Lateranensi, 
Scopettini,  non  che  Gerolomini  quali  girano  la  Città  senza  compagno, 
e  che  la  sera  coprono  l'abito  ed  il  cappuccio,  per  sembrare  Preti 
secolari,  col  tabarro  negro.  -  Maschere  d'ogni  sesso  ammantate  di 
tabarri,  cappelli,  e  bautte  nere,  confuse  in  quantità,  in  condizione  e 
nella  età,  con  troppo  tetro  e  sempre  più  moltiplicato  comercio  ignoto.  - 
Popolazione  ambulante  d'ogni  rango  e  professione,  che  senza  riguardo 
d'alcuno,  o  precedenza,  s'urtano  l'uno  coli* altro  nelle  strette  strade.  - 
L' improprietà  di  p....  in  pubblica  strada,  e  di  inondare  di  orina  i 
laterali  di  ogni  vicolo,  e  di  qualche  Tempio  o  Monastero.  -  Terraglie 
d' infinite  sorti  di  breve  sussistenza  e  gran  consumo,  mediante  le 
quali  si  dimise  1'  uso  di  mangiare  in  stagni  e  peltri  di  lunga  durata.  - 
Fornitura  di  stanze  intessuta  di  filo,  bavella  ed  apparente  seta,  con- 
cambiata da'  moderni  in  luogo  delli  famosi,  e  vaghi,  e  durevoli 
covridori  [cuori,  o  cuoi,  dorati]  nazionali.  -  Libi  d' immondizie  gettate 
da'  balconi  sulle  strade,  e  scopazze  slanciate  ne'  canali  da'  servidori.  - 
Molto  disdicevoie  ed  aborrito  da'  sudditi  l'abuso  del  vestire  de*  Nobili 
alla  Francese  in  tabarro,  o  senza,  quali  non  sì  distinguono  tra  li  più, 


48  VENEZIA   NEL    PERIODO    GOLDONIANO 

non  suoi  pari.  -  Passeggi  estivi  per  la  Città,  del  tutto  moderni  ed 
ambulanti.  -  Cittadine  che  deposero  i  manini  d*  oro,  sostituendo  le 
margarite,  di  vile  prezzo,  ma  dell'  ultima   moda  „.  Ci  pare  che  basti. 

88  La  satire  e  le  leggi  non  contavano:  Giulio  Bistort,  //  Magi- 
strato alle  Pompe,  Venezia,  1912.  -  *  La  moglie  di  un  medico  sfoggia 
trentamille  scudi  di  gioje  ^  grida  il  Costantini:  "  Un  avvocato,  che 
non  ha  un  soldo  di  rendita,  getta  mille  ducati  in  un  abito  da  viaggio. 
Un  Procuratore  cinquecento  scudi  in  un  pasto.  La  moglie  di  un  pa- 
sticciere mille  e  cinquecento  in  merletti  d'Olanda...  Le  meretrici  non 
si  contentano  di  ascendere  ali*  ordine  medio  negli  abiti,  ma  vogliono 
equipararsi  al  superiore:  gioje,  ricami,  merletti,  velluti,  panni  d*oro... 
Le  bottegaie,  le  mercantesse  dicono  che  non  possono  esigere  rispetto, 
se  non  vanno  con  TAndrienne  „:  IV,  //  lusso.  Ricordiamo  le  com- 
medie goldoniane. 

89  Piuttosto  che  un  abito  di  maschera,  si  direbbe  un  abito  di 
libertà,  come  a*  forestieri  pareva.  Esso  serviva  a  confondere  tutti  e 
tutto:  le  donne  appena  si  distinguevano  dagli  uomini  per  la  sottana: 
Lalande,  VII,  41.  "  Un  manteau  de  tafFetas  noir,  qui  descend  jusqu'à 
mi-jambe,  appellé  labaro;  un  capuchon  qui  retombe  sur  les  bras,  et 
ressemble  à  un  carnali  ferme,  appellé  bahute;  le  chapeau  uni  ou  à 
plumet,  et  le  masque  blanc.  On  volt  les  Vénitiens  par  milliers,  dans 
cet  équipage,  à  toutes  les  heures  du  jour  et  de  la  nuit  „:  Richard, 
II,  446-7.  -  Sullo  zendale  e  sulla  bauta  nel  costume  femminile  si  ri- 
legge volentieri  una  pagina  della  Renier-Michiel,  in  Origine  delle  feste 
veneziane,  Venezia,  ed.  1852,  I,  loi. 

90  Così  il  Romanin,  IX,  15-16.  Sorvolo  l'argomento  troppo  vasto 
della  moda,  potendo  oggi  rimandare  il  lettore  al  terzo  volume  della 
grande  opera  del  Molmenti  sulla  Storia  di  Venezia  nella  vita  privata. 
Le  mode  muliebri  in  Francia  v.  nel  cap.  8  del  bellissimo  libro  dei 
fratelli  Goncourt,  così  finemente  femminile,  così  intimamente  sette- 
centistico. 

91  Belle,  assai  bianche,  un  poco  pallide  parevano  a*  forestieri. 
•  On  y  volt  plus  de  blondes  que  dans  le  reste  de  l'Italie  „:  Lalande, 
VII,  30;  ma  la  più  parte  brune,  afferma  il  Bernis.  Sono  di  "  bel  sangue, 
communément  bien  faites  et  de  belle  taille  „  :  Richard,  II,  503.  "  Les 
femmes  se  présentent  bien,  leurs  traits  sont  animés,  et  elles  ont  de 
trèsbelles  couleurs.  Elles  arrangent  leurs  cheveux  d*  une  manière 
singulière,  qui  leur  sied  on  ne  peut  mieux  „:  Moore,  III,  196.  "  Ce 
n' est  pas  qu' on  y  trouve  plus  qu' ailleurs  des  beautés  ravissantes; 
mais  communément  le  grand  nombre  est  joli  et  en  general  elles  ont 
toutes  la  taille  et  le  teint  beaux,  la  bouche  grande  et  agréable,  les 
dents  blanches  et  bien  rangées  „:  De  Brosses,  I,  181. 

93  Ma  questa  follia  durava  solo  qualche  giorno;  e  però  quando 
il  Taine,  per  esempio,  nel  suo  citato  Voyage,  oppure  Filippo  Mounier 
nella  sua  fantastica  Venise  au  XVIII  siede  (Paris,  1907),  oppure  Carlo 


VENEZIA   NEL    PERIODO    GOLDONIANO  49 

Diehl  nel  suo  libro  recente:  Une  république  patricienne :  Venise  (Paris, 
1921),  ci  parlano  del  carnovale  che  impazziva  per  sei  mesi  dell'anno, 
non  si  avvedono  di  cadere  in  uno  stravagante  errore.  A  disilludere 
1  facili  sognatori  di  orge  veneziane,  ecco  il  nostro  abate  Richard, 
II,  448:  *  On  parie  beaucoup  du  carnaval  de  Venise,  plus  à  raison 
du  temps  qu'  il  dure,  de  la  grande  liberté  qui  y  règne,  que  des 
plaisirs  brillans  qu'  il  procure.  Alors  on  ne  voit  partout  que  des 
masques  de  toute  taille  et  de  tout  état,  vétus  uniformement,  avec 
l'air  le  plus  grave,  qui  ne  paroissent  méme  pas  s'amuser  beaucoup  „. 
Ecco  Lalande,  VII,  28:  "  En  general,  on  se  communique  peu,  et  l'on 
est  assez  retiré  à  Venise:  malgré  le  coup-d'oeil  singulier  et  brillant 
de  cette  ville,  il  y  règne  au-dehors  un  peu  de  tristesse;  on  voit  beau- 
coup de  gondoles  sur  les  canaux,  mais  peu  de  monde  dans  la  ville, 
et  personne  aux  fenètres;  les  hommes  font  tous  le  commerce,  et  les 
femmes  sont  retirées  au-dedans  de  leurs  maisons;  on  ne  les  voit 
guère  que  dans  les  églises,  ou  lorsque  le  hasard  les  fait  rencontrer 
en  gondoles,  et  les  dimanches  au  soir  à  la  place  S.  Marc  „.  Anche 
qui  torna  a  mente  la  sincera  e  sana  rappresentazione  del  teatro 
goldoniano. 

93  Mi  valsi  del  Lamberti,  I,  carta  207  e  sgg.  (e  P.  II,  capo  3). 
Meno  gaio  forse  ma  più  assordante  pare  diventasse  1'  ultimo  giorno 
di  carnovale,  destinato  propriamente  al  popolino,  alle  massive  goldo- 
niane, negli  ultimi  tempi.  "  Anche  in  quest'  anno  „  racconta  nel  1788 
la  Gazzetta  Urbana  Veneta  di  cui  era  compilatore  Antonio  Piazza 
(n.  II,  6  febbraio)  "  a  norma  dell'uso  introdotto  da  qualche  tempo, 
s'è  chiuso  il  Carnovale  con  uno  strepito  da  far  disperare  i  seguaci 
di  Catone,  o  da  ridursi  ad  impazzire  cogli  altri.  Prescindendo  dalle 
oscenità,  la  nostra  gran  Piazza  ieri  di  notte  parve  cangiata  nel  bosco 
di  Stimiila,  teatro  delle  follie  de'  Baccanti,  o  nelle  antiche  vie  di 
Roma  per  le  quali  ululando  correvano  i  Lupercali.  Non  si  cammi- 
nava a  passi  ma  a  salti,  e  invece  di  parlar  si  gridava.  Accresceva 
il  frastuono  un  confuso  rumore  di  zufoletti  stridenti,  di  rauchi  corni 
bovini,  di  campane  portate  in  giro  appese  alle  mazze,  di  tamburri 
ed  altri  simili  instrumenti  Da  far  {spiritar  un  cimiterio  „.  Eppure  fra 
tanta  calca  di  gente  riscaldata  dal  vino  e  dai  liquori,  dove  l' età  e 
gli  ordini  sociali  si  confondevano,  non  accadde  nessun  disordine, 
afferma  la  Gazzetta,  senza  che  vi  fosse  bisogno  **  di  argini  militari  „. 

94  Qualcuno  fin  dal  principio  del  secolo  moveva  di  ciò  lamento, 
ma  è  strano  che  si  lagnassero  e  sdegnassero  proprio  i  novatori,  sulla 
foggia  di  Carlo  Contarini  (discorso  dei  3  die.  1779).  Il  Curti  poi,  altro 
repubblicano  ribelle,  vuol  spiegare  a  modo  suo  la  condiscendenza  dei 
Dieci  verso  la  plebe  veneziana  che  s'  abbandonava  "  ad  ogni  sorta 
di  eccesso  „,  sicura  dell'impunità:  vedi  1.  e,  II,  241-242. 

95  Erano  cento  tre  col  Cancellier  Grande.  Oltre  il  Lamberti,  si 
vedano  Curti,  I,  e.  8  e  Romanin,  IX,  16-17.  Nel  1766,  scemata  alquanto 

G.  Ortolani.  4 


50 


VENEZIA   NEL    PERIODO    GOLDONIANO 


la  popolazione,  si  contavano  847  famiglie  nobili  e  1289  cittadine,  cioè 
3557  persone  nobili  e  521 1  cittadine. 

96  Tutti  gli  scrittori  lo  confermano.  -  E  però  all'  abate  Richard 
la  politica  della  Serenissima  sembra  "  le  chef-d'  oeuvre  de  l' esprit 
républicain  „:  II,  430.  "  C  est  là  „  esclama  commosso  "  qu' on  trouve 
la  réalité  de  cet  amour  de  la  patrie,  chanté  depuis  si  long-temps, 
loué  partout,  dont  par-tout  on  croit  étre  anime,  et  qui  n'  a  nulle  part 
des  efforts  plus  sensibles  qu*  à  Venise,  où  le  citadin  employé  dans 
les  affaires  subalternes  est  anime  du  méme  esprit  que  le  noble;  où 
le  peuple  par  une  soumission  que  1'  on  peut  dire  aveugle,  une  admi- 
ration,  un  respect  et  une  satisfaction  égales,  seconde  les  soins  et  les 
travaux  des  uns   et   des   autres  „:  I,   p.  LUI  (v.  anche  II,  218  e  444). 

97  Si  rileggano  le  pp.  225-237  delle  Memorie  del  Curti,  t.  I.  Io  mi 
valgo  soprattutto  del  capitolo  di  Lamberti  intitolato  //  carattere  delle 
varie  classi  della  popolazione  veneziana  (li,  P.  II,  capo  4).  Dice  anche 
delle  donne  patrizie  del  primo  ordine,  istruite  una  buona  dozzina, 
spiritose  tutte,  faconde,  facili  (benché  scorrette)  nello  scrivere.  Simili, 
ma  un  po'  meno  gentili,  quelle  del  secondo  ordine;  ciarliere  intri- 
ganti altere  e  servili  le  barnabotte.  Più  costumate  erano  le  dame  de* 
cittadini,  ma  anche  più  superbe  e  affettate  delle  patrizie,  specie  con 
le  gentildonne  povere  e  con  le  donne  del  popolo,  le  quali  ultime  si 
mostravano  vivaci  curiose  allegre,  troppo  dolci  di  cuore:  le  artigiane 
si  vantavano  di  certa  rusticità,  ed  erano  madri  e  mogli  migliori;  le 
borghesi,  ben  educate,  spesso  corteggiate  da'  patrizi,  godevano  qual- 
che potere  su  di  essi. 

98  Lamberti,  P.  I,  capo  11;  Gio.  Rossi,  Costumi  veneziani  (cod. 
marciano  MCCCXCVI,  CI.  VII)  t.  II,  126  sgg.;  Romanin,  IX,  cap.  2. 
Per  tali  feste  della  Repubblica  di  cui  abbiamo  infinite  descrizioni, 
ricordo  il  libro  popolare  della  Renier  Michiel  e  rimando  all'  opera 
del  Molmenti. 

99  Anche  Lalande  dice  che  la  gondola  del  Consiglio  dei  Dieci 
"  annoncée  par  une  flamme  rouge,  suffit  pour  appaiser  le  désordre  le 
plus  anime  „:  VII,  38. 

100  Bella  specialmente,  ne'  ricordi  del  Lamberti  e  della  Renier, 
quella  di  Santa  Marta,  ai  28  luglio. 

loi  Già  il  Dotti  ci  descrive  néìV  Autunno  Venezia  fatta  deserta 
(ed.  Ginevra,  sat.  23).  Si  legge  negli  Annali  della  città  di  Venezia,  di 
Girolamo  Zanetti,  nel  mese  di  giugno  1766:  "  Incominciarono  le 
annue  villeggiature  estive  introdottesi  da  non  molti  anni  di  non  breve 
durata,  e  la  Città  principiò  a  vedersi  vuota  di  buona  parte  de*  suoi 
migliori  e  più  comodi  cittadini,  i  quali  come  sogliono  in  questa  sta- 
gione, passano  a  Padova  a  godersi  l'Opera  in  musica  e  la  Fiera  „. 
E  più  sotto:  «  La  città  in  questi  giorni  rimase  al  solito  scemata  de' 
suoi  migliori  e  comodi  abitatori,  portatisi,  secondo  il  costume  intro- 
dotto  da   alquanti    anni    in  qua,  a  Padova  e  alle   villeggiature   nella 


VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO  5I 

vicina  Terra  Ferma.  Il  Foro  in  particolare  si  vide  al  solito  poco  men 
che  vuoto  „.  Nel  Mercurio  storico  e  politico  deW  ottobre  1734  (Venezia, 
Favini)  è  detto:  "  Gran  parie  di  questa  Nobiltà  e  Cittadinanza  è  par- 
tita per  la  villeggiatura,  cosicché  restano  chiusi  tutto  cotesto  mese  li 
Tribunali  e  li  Magistrati  „  :  pp.  2223.  Vedere  passim  ì  Notatorj  del 
Gradenigo  e  le  lettere  di  Gasparo  Gozzi.  Non  occorre  ricordare  come 
si  esercitasse  intorno  alle  villeggiature  la  satira,  dal  Goldoni  a  Carlo 
Gozzi  (la  Tartana),  dal  conte  Gasparo  all'abate  Chiari  {Commedie  da 
camera,  t.  I:  La  villegg.))  si  legga  pure  La. villeggiatura  moderna  fra 
i  Ritratti  critici  di  Giuseppe  Manzoni  veneziano  (Venezia,  1780, 
pp.  153-4)  e  più  tardi,  Lamberti  stesso:  Le  stagioni:  U autuno  citadin. 
Giova  piuttosto  avvertire  come  allora  non  esistesse  la  cosidetta  sta- 
gione dei  bagni  di  mare  dove  accorrono  le  donne  d' ogni  età  a 
lasciarvi  i  fragili  veli  del  pudore. 

103  "  ...  E  sì  mo  in  ancuo  Mestre  xe  deventà  un  Versaglies  in 
piccolo  „  dice  il  buon  Pantalone  goldoniano  nella  Cameriera  brillante 
(1754:  atto  I,  se.  5!:  "  La  scomenza  dal  canal  de  Malghera,  la  zira  tutto 
el  paese,  e  pò  la  scorra  el  Terraggio  fin  a  Treviso.  La  stenterà  trovar 
in  nessun  logo  de  Italia,  una  villeggiatura  cussi  longa,  cussi  unita, 
cussi  popolada  come  questa.  Ghe  xe  casini  che  i  par  gallerie;  ghe 
xe  palazzi  da  città,  da  sovrani.  Se  fa  conversazion  stupende;  feste 
da  ballo  magnifiche;  tole  spaventose.  Tutti  i  momenti  se  vede  a 
correr  la  posta,  sedie,  carrozze,  cavalli,  lacchè;  flusso  e  reflusso  da 
tutte  le  ore.  Mi  m'  ho  retirà  fra  terra  „  continua  il  vecchio  Pantalone 
"  lontan  dai  strepiti,  perchè  me  piase  la  mia  libertà.  Per  altro  sento 
a  dir  che  a  Mestre  se  fa  cossazze;  che  se  spende  assae;  che  se  gode 
assae;  e  che  se  fa  spiccar  el  ben  gusto,  la  magnificenza  e  la  pulizia 
de  tutti  i  ordeni  delle  persone  che  fa  onor  alla  nazion,  alla  patria  e 
anca  ali'  Italia  medesima  „. 

103  Mutinelli,  107-114;  Romanin,  IX,  18;  e  meglio  di  tutti  Mol- 
menti,  voi.  Ili,  cap.  12.  -  Il  Lamberti,  P.  II,  capo  3,  dice  che  la  cena 
si  faceva  poco  prima  del  mattino;  poi,  al  sorger  del  sole,  un'  ultima 
gita  in  carrozza,  oppure  si  andava  a  letto,  per  alzarsi  a  mezzogiorno 
o  un  po'  dopo.  "  Quando  ha  principiato  la  conversazione  „,  dice  la 
cameriera  Brigida  nelle  Avventure  della  villeggiatura,  "  io  sono  andata 
a  dormire.  Hanno  giocato,  hanno  cenato,  hanno  ritornato  a  giocare, 
«d  io  me  la  godeva  dormendo.  A  giorno  la  padrona  mi  ha  fatto  chia- 
mare; mi  sono  alzata,  l'ho  spogliata,  l'ho  messa  a  letto,  ho  serrata 
la  camera,  e  mi  sono  bravamente  vestita  „.  "  Ma  che  cosa  godono  i 
nostri  padroni?  „  chiede  Paolino.  "  Niente  „  risponde  Brigida.  "  Per 
loro  la  città  e  la  villa  è  la  stessa  cosa.  Fanno  per  tutto  la  medesima 
vita  „.  -  Di  quella  antica  e  viziata  opulenza  qualche  profumo,  ma 
troppo  carico,  raccolse  D'  Annunzio  nelle  scene  descrittive  del  Sogno 
d^ un  pomeriggio  d^ autunno;  e  la  tristezza  del  paesaggio  presente  in 
qualche  pagina  del  Fuoco. 


52 


VENEZIA    NEL    PERIODO    GOLDONIANO 


104  Confessa  il  Lamberti  che  i  Veneziani  tornavano  in  città  senza 
aver  visto  un  frutto  pender  dall'albero,  un  grappolo  dalla  vite;  senza 
sapere  se  le  messi  fossero  mature  o  già  raccolte.  Questa  assenza  del 
sentimento  della  natura  nel  secolo  XVIII,  prima  di  Rousseau,  fu  assai 
bene  avvertita  dai  fratelli  Goncourt,  442-447. 

105  II  popolo  minore  s'  accontentava,  nelle  feste,  degli  orti  della 
Zuecca,  o  spandevasi  in  allegri  garangheli  sul  Lido,  a  Fusina,  a 
Mestre,  a  Campalto,  dove  sull'erba  si  mangiava,  si  beveva,  si  faceva 
un  ballo,  per  ritornare  poi  la  sera  a  Venezia  sulle  peote  illuminate, 
fra  grida  di  evviva.  Resta  un'  eco  dei  baccanali  nei  canti  raccolti  dal 
Malamani  (parte  II,  num.  162-168;  e  in  alcune  pagine  del  Lamberti 
(specialmente  parte  II,  capo  3:  v.  anche  Romanin,  IX,  18191. 

106  L'  angustia  delle  vie  è  carattere  generale  di  tutte  le  città  nei 
tempi  passati;  eppure  lo  stesso  Goethe  a  Venezia  restò  meravigliato. 
Si  lagna  poi  delle  immondizie,  mentre  loda  le  strade  lastricate  e  il 
suolo  ricoperto,  almeno   di   mattoni,  anche  ne'  più   lontani  quartieri. 

107  Lamberti,  Romanin  e  tutti  ricordano  il  codega  col  suo  feraletto  : 
ma  la  Piazza  aveva,  se  si  badi  al  tempo,  una  splendida  illuminazione, 
e  così  le  Mercerie,  per  i  molti  negozi  (Goldoni,  Mémoires,  i^  Partie, 
eh.  XXXV;  e  Romanin,  IX,  21)  e  Rialto  per  misura  di  sicurezza.  Nel 
1730  i  fanali  pare  fossero  800,  nel  '55  circa  1400,  ma  assai  più  se  si 
aggiungano  quelli  mantenuti  dai  privati;  dopo  il  '75  aumentarono 
quasi  a  2000:  cfr.  Malagola,  U  illuminazione  della  città  di  Venezia 
fitto  al  cadere  della  Repubblica,  in    Gazzetta   di  Venezia,  1900,  n.  360. 

Nel  gennaio  del  '53  ne  furono  appesi  agli  archi  laterali  esterni  della 
chiesa  di  San  Marco  per  impedire  ivi  di  notte  ogni  "  riduzione  so- 
spetta o  scandalosa,  o  di  maschere  o  di  altro  „;  e  uno  bello  e  "  mo- 
derno co'  specchi  „  fu  posto  nel  gennaio  del  '58  sotto  1'  arco  dell'ab- 
bellita Torre  dell'  Orologio  „  :  Gradenigo,  Notatorj.  -  Si  sa  che  le  vie 
di  Roma  per  tutto  il  Settecento  restarono  al  buio  (ne  parlano  tutti  i 
viaggiatori:  vedasi  poi  Bandini,  Roma  al  tramonto  del  Settecento,  in 
Collezione  settecentesca,  Sandron,  1922,  cap.  II),  che  gli  scarsi  lumicini 
accesi  davanti  a  qualche  Madonna  accrescevano,  più  che  non  inter- 
rompessero, la  tenebra  (Coyer,  Voyage  cit.,  I,  202;  mentre  a  Venezia, 
dice  l'abate  francese,  le  calli  "  sont  eclairées,  ce  qui  n' est  pas  com- 
mUn  en  Italie  „:  II,  77).  Pietro  Verri  nel  '71  scriveva  da  Milano  al 
fratello  Alessandro:  "  ...  E  veramente  non  fa  onore  all'Italia  l'essere 
tanto  meschini  da  voler  star  la  notte  fralle  tenebre.  Credo  che  anche 
Pietroburgo  sia  illuminato;  non  restano  in  Europa  che  la  Spagna,  il 
Portogallo  e  noi„:  Carteggio  cit.,  voi.  IV,  p.  141.  Ma  finalmente  nel  1788 
ebbe  Milano  pubblica  illuminazione  (Cusani,  De  Castro  ecc.),  mentre 
a  Bologna  e  in  altre  città  continuava  a  regnare  1'  oscurità  completa, 
e  si  puniva  con    un'  ammenda    chi    uscisse  di   notte    senza   lanterna. 

108  Giustina  Renier  Michiel,  nipote  del  Doge,  e  ultima  figlia  della 
grande  Repubblica  di  San  Marco,   scriveva   con   voce   accorata  ai  13 


VENEZIA   NEL    PERIODO    GOLDONIANO  53 

maggio  del  1807  a  Saverio  Bettinelli,  già  quasi  novantenne:  "  Venezia 
m'apparve  sempre  più  bella  e  maestosa...  Per  altro  essa  va  ogni 
giorno  alla  sua  distruzione.  Lasciamo  il  morale;  ma  il  materiale 
stesso  in  tutto  cangia  d'aspetto...  La  famosa  chiesa  di  San  Geminiano 
nella  Piazza  di  San  Marco,  rimpetto  alla  gran  chiesa,  fabbrica  di 
Sansovino,  e  tale  che  egli  preferì  di  essere  sepolto  colà,  come  il  suo 
capo  d*  opera  d' architettura,  questa  verrà  demolita,  distrutta,  per 
formare  1*  ingresso,  la  scala  regia,  che  condur  deve  al  palazzo  Impe- 
riale nelle  Procuratie  nuove.  Un  moderno  architetto  tanto  osa  pro- 
porre, disprezzando  quell'opera  insigne!  „:  Lettere  inedite  della  N,  D. 
Giustina  Renier  Michiel  ecc.  Venezia,  1857,  pp.  lo-ii. 

109  "  Decretò  il  Senato  che  le  Botteghe  da  Caffè  nella  Dominante 
non  eccedano  il  numero  di  206,  siccome  esistono  in  presente  „:  Gra- 
denigo,  Notatorjj  4  ott.  1760.  Non  dobbiamo  credere,  in  generale,  alla 
"  sudiceria  „  dei  caffè  e  dei  teatri  veneziani  che  offendeva  il  Baretti  : 
vedasi  più  indietro,  nota  16. 

110  E  anche  nei  rii,  perchè  1'  uso  della  gondola  era  molto  comune 
nella  classe  nobile  e  nell'agiata:  le  calli  e  i  ponti  servivano  special- 
mente per  i  modesti  borghesi  e  per  il  popolo  minore.  Con  V  esage- 
razione propria  de'  forestieri,  dice  T  abate  Coyer:  "  On  oublie  ici  de 
marcher,  il  n'  y  a  que  le  peuple  qui  fasse  usage  de  ses  pieds...  Tout 
ce  qui  n'  est  pas  peuple,  est  apporté  par  les  gondoles  aux  portes  ou 
r  on  peut  entrer:  cet  équipage  n' est  pas  cher:  aux  prix  de  quatre 
livres  par  jour,  on  a  une  gondole  à  deux  rameurs,  et  on  se  trouve 
de  niveau  avec  les  premiers  de  la  Ville  „:  II,  77-78. 

Ili  «  In  Venezia  è  veramente  cosa  piacevolissima  il  fare  in  gon- 
dola, nelle  notti  di  estate,  il  giro  delle  lagune,  e  1'  udire  mille  dilet- 
tevolissimi concerti.  Queste  serenate  non  sono  mai  interrotte  da 
alcun  disordine;  è  la  sola  musica  che  gl'Italiani  godono  in  silenzio, 
come  se  temessero  di  turbare  la  quiete  e  il  riposo  della  notte  „: 
Baretti,  Gì' Italiani  ecc.;  vers.  cit.,  138-139.  Si  ricordi  Goldoni,  nelle 
sue  Memorie  italiane,  in  Opere  complete,  Venezia,  1907,  voi.  I,  p.  97. 
Si  legga  poi  Malamani,  prefazione  alla  seconda  parte,  La  musa  po- 
polare e  pp.  308-310.  I  componimenti  raccolti  nel  bel  volume,  che 
facilmente  potrebbero  crescer  di  numero,  agili  tutti  di  metro,  dolci 
di  cadenza  pur  senza  la  musica,  vivaci  di  dialetto,  svariati  di  forme, 
così  liberi  d' arcadia  e  pur  così  settecentistici,  ma  specialmente  così 
veneziani,  sebbene  sovra  un  antico  e  comunissimo  fondo  popolare  di 
immagini,  furono  scritti  e  cantati  intorno  al  periodo  goldoniano;  e 
di  averli  creati  è  un  altro  vanto  di  Venezia,  a  quel  tempo.  -  Disse 
poi  molto  bene,  più  tardi,  la  Stael  che  a  Venezia  non  si  avverte 
come  nelle  altre  città  ciò  che  ha  di  volgare  il  vivere  quotidiano: 
"  Les  canaux  et  les  barques  font  un  tableau  pittoresque  des  plus 
simples  événemens  de  la  vie  „  [Corinne,  1.  XIV,  e.  8). 


LA'  VENEZIA  DEI  VIAGGIATORI 
NEL  SETTECENTO 


^ 


Nella  folla  dei  viaggiatori  italiani  e  forestieri  che  visitarono 
Venezia  nel  Settecento  e  ci  lasciarono  qualche  memoria,  si 
distingue  e  piace  ancora  oggi  1*  abate  francese  Richard,  non  per 
merito  alcuno  di  narratore  o  di  descrittore,  non  per  finezza  e 
originalità  d' osservazione,  e  nemmeno  per  maggior  pregio  o 
esattezza  di  notizie,  ma  perchè  si  accontenta  di  guardare  e  di 
ammirare,  senza  la  solita  petulanza,  senza  ostentazione  di  bello 
spirito,  senza  la  pretesa  di  criticare  e  di  correggere,  anzi  indul- 
gendo, con  animo  disposto  a  simpatia,  ai  difetti  della  vecchia 
gloriosa  repubblica.  In  vero  chi  lo  crederebbe?  Toccò  proprio 
a  qualche  suddito  di  Luigi  XV  o  a  qualche  soldato  di  Fede- 
rico II  di  strillare  di  più  contro  la  tirannica  potenza  dei  Tre 
Inquisitori  e  di  inorridire  della  corruzione  veneziana:  era  quel 
tempo  che  precedette  la  Rivoluzione,  quando  tutti  avevano  in 
capo  costituzioni  nuove  e  perfette  da  regalare  alla  Polonia,  alla 
Corsica  o  alle  colonie  d'America;  tutti  sapevano  suggerire  un 
piano  di  riforme  per  la  repubblica  di  S.  Marco,  o  addirittura 
tenevano  pronto,  come  pure  vedemmo  ai  nostri  giorni,  un  pro- 
getto infallibile  di  pace  perpetua  e  di  ricchezza  universale. 

L'abate  Richard  capitò  a  Venezia  pochi  giorni  dopo  che  il 
Goldoni  n'era  partito  per  sempre,  nel  maggio  1762,  e  assistette 
ai  solenni  funerali  del  doge  Loredano.  Morì  questo  principe  alla 
vigilia  della  grande  festa  dell'Ascensione  (della  Senso),  ma  per 
non  turbare  i  primi  giorni  della  famosa  fiera  e  non  danneggiare 
tanti  cittadini,  fu  taciuta  la  notizia  fino  ai  24:  cosa  tanto  più 
facile,  perchè  del  Loredan  non  sopravviveva  da  alcuni  anni  che 
un'ombra,  si  può  dire,  sperduta  nell'interno  del  gran  Palazzo  ^, 
e  tra  il  popolo  correva  la  leggenda  che  fosse  spento  da  un 
pezzo.  Le  pubbliche  esequie  ebbero  luogo  il  giorno  27  ;  e  più 
di  tre  ore   durò   la   marcia   del   convoglio    funebre  dal   Palazzo 


58  LA    VENEZIA    DEI    VIAGGIATORI 

Ducale  alla  chiesa  dei  SS.  Giovanni  e  Paolo.  Precedevano,  se- 
condo il  costume,  tutte  le  Scuole  religiose  con  le  aste  d'argento 
e  coi  pennelli,  le  cinque  Scuole  grandi  coi  doppieri  e,  in  mezzo^ 
i  chierici  somaschi,  i  gesuiti  e  i  teatini,  poi  tutto  il  clero  rego- 
lare e  secolare,  i  padroni  di  navi  e  le  maestranze  dell'Arsenale 
con  i  ceri  accesi  :  seguiva  quindi  Io  scudo  del  doge  col  Leone 
avvolto  in  un  velo  nero,  la  bara  coperta  di  panni  dorati,  la 
statua  di  Sua  Serenità  e  il  baldacchino  d'oro,  come  usava,  fra 
duecento  aste  d'argento  della  scuola  di  San  Marco  e  altrettante 
torce.  Seguivano  ancora  con  le  torce  i  figli  e  le  figlie  dei  quattro 
Ospitali,  la  Corte  alta  del  Doge  a  lutto,  pure  coi  ceri  accesi,  i 
Notai  della  Cancelleria  Ducale,  i  Segretari  del  Senato,  i  tre 
Avogadori  di  Comun  (in  luogo  della  Serenissima  Signoria  che 
non  poteva  abbandonare  il  Palazzo),  il  fratello  del  doge  con  i 
Senatori  in  toga  nera  e  coi  nobili  in  lunga  veste  di  scarlatto. 
11  magnifico  corteo  fece  prima  il  giro  della  Piazza  al  rintocco 
delle  campane  e  davanti  alla  maggior  porta  della  chiesa  di  San 
Marco  la  bara  per  ben  nove  volte  fu,  secondo  il  rito,  sollevata 
in  alto  e  abbassata  fino  a  terra  =.  I  cappucci  piramidali  e  gli 
interminabili  strascichi  dei  parenti  del  Doge  destavano  curiosità^ 
se  non  ilarità,  nella  folla  che  gremiva  i  cantpiy  le  calli  e  le 
finestre  delle  case  3. 

Il  31  maggio,  a  mezzogiorno,  una  scarica  generale  delle 
artiglierie  del  porto,  dell'arsenale  e  delle  galere  annunciò  al 
popolo  l'avvenuta  elezione  del  doge  Marco  Foscarini.  Tra  i 
festeggiamenti  consueti,  l'abate  Richard  ricorda  i  fuochi  artifi- 
ciali nel  mezzo  della  Piazza  e  il  ballo  solenne  in  una  sala  del 
Palazzo  Ducale.  E  sempre  interessante  e  piacevole  vedere  quali 
apparissero  agli  occhi  d'  un  forestiero  le  donne  veneziane  del 
tempo.  "  Tutta  la  Signoria  è  presente  „  scrive  l'autore,  "  in 
vesti  rosse  e  con  grandi  parrucche  ;  vi  sono  pure  le  gentildonne 
veneziane  magnificamente  abbigliate.  La  loro  veste  è  fatta  a  fog- 
gia di  corpo  attillato  {en  corps  de  jitpe  jttste  à  la  taille),  con  una 
specie  d'abito  o  di  mantello  di  taffettà  nero  dalle  maniche  cor- 
tissime attaccato  al  di  dietro,  in  modo  che  lascia  scorgere  la 
figura  e  la  bellezza  della  stoffa  della  veste.  Esse  abbagliano^ 
tante  sono  le  perle  e  i  diamanti.  Una  cosa  singolare  notai  nel- 
l'acconciatura di  gran  parte  di  queste  dame:  i  fili  di  perle  e 
diamanti  che  la  formavano  erano  intrecciati  fra  loro  sì  da  somi- 
gliare a  un  diadema.  Quelle  che  hanno  una  bella  statura  e  una 
figura  nobile,  mostrano  veramente,  in  così  splendido  ornamento^ 


NEL    SETTECENTO  59 

l'aria  di  tante  regine  „  4.  Apersero  il  primo  ballo  il  principe  del 
Wiirtemberg,  ospite  allora  a  Venezia,  e  Giustiniana  Wynne 
contessa  di  Rosenberg,  giovane  moglie  dell'ambasciatore  cesareo. 
"  Tutto  si  svolgeva  con  molto  ordine:  l'orchestra  era  numerosa 
e  ben  composta,  la  sala  magnificamente  illuminata;  di  tratto  in 
tratto  gli  ufficiali  del  nuovo  doge  presentavano  rinfreschi  d'ogni 
specie.  Questi  balli  sono  dei  nobili  spettacoli,  degni  della  gra- 
vità d'  una  saggia  repubblica  la  quale  autorizza  la  gioia  comune 
partecipandovi,  e  non  quelle  assemblee  tumultuose  e  chiassose^ 
conosciute  altrove  sotto  il  medesimo  nome.  L'abbigliamento 
nobile  e  acconcio  delle  donne,  la  veste  maestosa  dei  senatori 
che  danzano  di  continuo  il  minuetto,  una  folla  di  stranieri  in 
abiti  ricchi  e  brillanti,  tutto  l' insieme  forma  uno  spettacolo  unico^ 
di  cui  non  si  può  godere  che  in  tale  occasione  „  5. 

L'abate  Richard  ammira,  come  ho  detto,  la  repubblica  di 
Venezia,  "  1'  unico  stato  del  mondo  in  cui  il  pubblico  governo 
goda  d' un  rispetto  universale  che  si  manifesta  esteriormente^ 
sì  che  non  avviene  mai  di  udire  il  più  lieve  mormorio  contro 
quelli  che  tengono  il  potere;  l'unica  parte  del  mondo  in  cui  le 
pubbliche  leggi  siano  sempre  eseguite  a  dovere  „  :  ma  si  per- 
mette di  esagerare  sulla  misteriosa  severità  dei  tre  Inquisitori, 
sulla  onnipresenza  delle  spie,  sul  geloso  silenzio  del  Senato 
intorno  agli  affari  politici.  Il  Settecento,  a  differenza  del  secolo 
precedente,  è  in  Italia  il  secolo  delle  libere  espansioni,  della 
confidenza;  e  anche  a  Venezia  molte  cose  erano  cambiate  o 
modificate  da  quando  scriveva  le  s/^«r  Amelot  de  la  Houssaye, 
l'unico  informatore  di  tutta  Europa,  dopo  il  1677,  intorno  al 
governo  veneziano.  Anzi  a  Venezia,  più  che  altrove,  c'era  quasi 
un'  aria  di  famiglia  in  tutto  il  popolo,  nella  vita  pubblica  e  nella 
privata,  grazie  al  carattere,  ai  costumi  e  all'  uso  stesso  della 
maschera.  Tutti  sapevano  i  nomi  dei  terribili  Inquisitori  e  nes- 
suno temeva  l' ingiusto  abuso  o  rigore  del  loro  potere  :  le  spie 
non  erano  numerose  ne  pericolose:  certi  segreti  di  stato  trape- 
lavano più  che  non  si  creda  fra  il  pubblico  e  se  ne  parlava  in 
ogni  angolo  della  città,  né  sempre  a  bassa  voce,  come  ebbe 
occasione  di  notare  un  altro  viaggiatore  francese,  il  Grosley, 
nell'agosto  del  1758  6.  Amelot  dopo  la  guerra  di  Candia,  Mon- 
tesquieu dopo  la  seconda  guerra  della  Morea,  Moore  e  Filati  e 
Archenholz  nel  1775  avvertono  i  segni  visibili  della  decadenza 
politica  ed  economica  della  Repubblica,  ma  nel  1762,  mentre 
r  Europa  stanca  chiedeva  la  pace,  Venezia  appariva  risanata  in 


6o  LA    VENEZIA    DEI   VIAGGIATORI 

parte  delle  antiche  ferite  e  ostentava  in  nuove  manifestazioni 
<ii  vita  e  di  bellezza  V  inesausta  fecondità  e  genialità  del  suo 
popolo.  Tanto  che  il  Richard  non  esitava  ad  affermare  che,  di 
tutte  le  repubbliche,  Venezia  era  la  sola  che  avesse  avuto  una 
sì  lunga  durata  "  e  che  fosse  ancora  in  un  grado  tale  di  potenza 
€  di  vigore  da  non  lasciar  intravedere  nulla  che  annunciasse  la 
sua  decadenza  „  7. 

Al  governo  veneziano  si  imputavano,  fra  i  principali  difetti, 
la  irresolutezza,  la  lentezza  delle  deliberazioni,  una  diffidenza 
generale  che  talora  degenerava  in  pusillanimità,  in  fine  un  sor- 
dido amore  al  risparmio  che  aveva  spesso  cagionato  delle  per- 
dite gravi  8,  ma  il  Richard  era  di  avviso  che  tali  accuse  meri- 
tassero un  lungo  esame,  dovendosi  distinguer  bene,  se  anche 
fossero  state  vere,  ciò  ch'era  insito  nello  "  spirito  repubblicano  „ 
di  cui  la  politica  veneziana  poteva  proclamarsi  "  il  capolavoro  „  9. 
Qui  invero  non  era  permesso  ad  un  nobile  di  acquistare  sover- 
chia popolarità,  di  sollevarsi  troppo  sugli  altri,  poiché  la  legge 
€ra  pronta  a  colpire  chiunque.  "  De  V  égalité  partout,  e'  est  ce 
que  r  on  veut  à  Venise  „  '°.  Si  rimproveravano  i  Veneziani  di 
essere  più  sensibili  alle  ingiurie  che  ai  benefici  ricevuti,  di  essere 
vendicativi,  astuti,  simulatori,  superbi  :  ma  la  simulazione,  con- 
tinua Richard,  è  un  abito  o  una  qualità  indispensabile  a  una  sì 
fatta  forma  di  governo,  l' ingratitudine  è  per  proverbio  il  vizio 
dominante  delle  repubbliche,  e  quanto  all'orgoglio,  perchè  non 
dovrebbero  averne  i  nobili  veneziani,  ripensando  ai  grandi  e 
innumerevoli  servigi  resi  senza  interruzione  dai  loro  avi  alla 
patria,  per  tanti  secoli?  Sì  che  all'  abate  francese  pareva  che 
Venezia  fosse  veramente  degna  di  essere  scelta  quale  areopago 
della  politica  europea  ". 

"  Non  e'  è  popolo  in  Europa  più  contento  del  proprio  stato  „, 
conferma  il  nostro  autore,  "  più  attaccato  ai  propri  sovrani,  o 
che  più  del  Veneziano  ammiri  la  patria  e  gli  usi  in  essa  sta- 
biliti „  ".  Di  questa  felicità  del  popolo  nella  Dominante  e,  con 
rare  eccezioni,  in  tutta  la  terraferma,  punto  tiranneggiato,  non 
gravato  da  soverchi  pesi,  convinto  della  bontà  del  proprio  go- 
verno, circondato  da  popolazioni  oppresse,  ignaro  degli  altri 
paesi  più  lontani,  molti  viaggiatori  ci  parlano,  come  ad  esempio 
il  Montesquieu,  l'abate  Coyer,  il  dottor  inglese  Maihows,  il 
dottor  scozzese  Moore,  e,  negli  anni  estremi,  il  poeta  spagnolo 
Leandro  de  Moratin.  A  Venezia,  grazie  ai  buoni  ordinamenti, 
l'artigiano    trova   lavoro    e   guadagni,    derrate    abbondanti   e   a 


NEL   SETTECENTO  6l 

buon  prezzo:  trova  giitstizia  iii  Palazzo  e  pane  in  Piazza,  se- 
condo r  antico  detto  ^3.  Né  le  campagne  sono  avare  al  contadino 
che  le  lavora,  anzi  la  bellezza  del  percorso  da  Verona  a  Pa- 
dova, che  parve  tutto  un  giardino  al  reverendo  Burnet,  dottore 
anglicano,  strappò  in  ogni  tempo  parole  di  entusiasmo  ai  pas- 
seggeri ^4. 

Città  che  non  ebbe  mai  "  altri  padroni  all'  infuori  di  quelli 
che  l'hanno  fondata,,,  unica  al  mondo  per  sito,  Venezia  non 
presenta  a  chi  vi  giunge  il  solito  severo  aspetto  di  mura,  di 
bastioni,  di  batterie,  ma  si  offre  d' ogni  parte  liberamente  ^5. 
Eppure  a  più  d'  uno  ispira  una  vaga  malinconia  ^6.  La  gondola 
è  la  sua  carrozza  ^7.  I  gondolieri,  dice  Richard,  "  sono  vestiti 
con  molta  semplicità,  una  specie  di  farsetto  alla  mannaia  {ime 
veste  JHste  à  la  matelotte),  ampi  calzoni  (nne  grande  ctilotte)  e 
un  berretto  rotondo  di  stoffa,  secondo  la  stagione  „  ^^.  Grosley 
li  ha  più  a  lungo  studiati  e  ne  parla  con  simpatia:  "  Costoro 
si  considerano  come  il  secondo  corpo  dello  Stato,  e  i  difensori 
naturali  del  primo  corpo  se  mai  insorgesse  qualche  rivolta  contro 
di  esso,  mentre  se  ne  sta  chiuso  in  Palazzo...  Ministri  o  confidenti 
nati  dei  piaceri  dei  nobili  e  spioni  del  Governo,  ognuno  di  essi 
credesi  addentro  ne'  segreti  dello  Stato  „.  Fratello  è  il  termine 
familiare  con  cui  si  trattano  e  si  salutano.  Quando  un  canale 
trovasi  ingombrato  dalle  gondole,  "  Fradel,  si  dicono  l' un  1'  altro, 
non  travagliar f  non  strascinar  i  poveri  cristiani!  „.  Quale  dif- 
ferenza dalle  ingiurie  che  vomitano  cocchieri  e  carrettieri  a 
Parigi!  "  Questi  gondolieri  sono  una  razza  d'  uomini  ben  tagliati, 
vigorosi,  assai  svelti,  i  quali  partecipano  della  gaiezza  veneziana. 
Poiché  passano  la  maggior  parte  della  vita  quasi  a  quattr'  occhi 
coi  nobili,  coi  cittadini  più  onorati  e  coi  forestieri  più  ragguar- 
devoli che  avvicinano  tutti  i  giorni,  concorrono  spesso  con  le 
loro  facezie  alla  conversazione,  „  anzi  godono  a  questo  propo- 
sito d'  una  certa  libertà  di  parola  ^9. 

Scendiamo  ora  in  Piazza,  tutta  selciata  di  recente  con  bel- 
lissime pietre  dell'  Istria  ^°.  "  Colà,  dice  Richard,  radunasi  la 
nobiltà  a  tutte  le  ore;  e  il  popolo  veneziano  eh' é  molto  sotto- 
messo a'  suoi  signori,  vi  gode  il  piacere  di  vederli  e  di  salutarli. 
Vi  si  incontrano  genti  di  tutte  le  nazioni,  di  tutte  le  lingue,  di 
tutte  le  fogge,  e  ciò  forma  uno  spettacolo  che  si  rinnova  a  ogni 
istante  e  che  serve  di  piacevole  trattenimento  per  una  popola- 
zione che  vive  in  un  cerchio  di  idee  naturalmente  molto  angusto, 
ma  che   sembra   ingrandirsi   in   quella   piazza:   tutto  dunque  fa 


62  LA    VENEZIA    DEI    VIAGGIATORI 

capo  colà  „  3'.  Anche  De  Brosses  nella  state  del  '39  la  trovò 
sempre  piena  di  gente,  e  la  sua  descrizione,  per  quanto  cono- 
sciuta, non  si  rilegge  senza  piacere: 

"  Le  vesti  dei  magistrati,  i  mantelli,  le  vesti  da  camera,  i 
Turchi,  i  Greci,  i  Dalmati,  i  Levantini  d'  ogni  specie,  uomini  e 
donne,  i  palchi  dei  venditori  d' orvietano,  dei  ciarlatani,  dei  frati 
predicatori  e  dei  burattini:  tutte  queste  cose,  dico,  riunite  insieme 
a  tutte  le  ore,  ne  fanno  la  più  bella  e  la  più  curiosa  piazza  del 
mondo,  soprattutto  per  la  svolta  che  fa  ad  angolo  retto  vicino 
alla  chiesa  di  San  Marco,  in  quella  parte  che  chiamano  broglio. 
È  questa  un'altra  piazza  più  piccola  della  prima  (Piazzetta), 
formata  dal  palazzo  di  San  Marco  (Palazzo  Ducale)  e  dalla 
svolta  delle  Procuratie  nuove.  La  chiude  il  mare  che  in  questo 
punto  si  allarga.  Di  là  si  scorge  una  mescolanza  di  terra,  di 
mare,  di  gondole,  di  botteghe,  di  navi,  di  chiese,  di  gente  che 
parte  e  di  gente  che  arriva  a  ogni  istante.  Io  ci  vado  almeno 
quattro  volte  al  giorno  per  goderne  la  vista.  I  nobili  passeggiano 
in  uno  dei  lati  di  questa  piazza  tenuto  sempre  libero,  dove 
ordiscono  i  loro  intrighi  „  ^^. 

L'abate  Coyer,  durante  la  fiera  dell'Ascensione  del  1764, 
osservò  con  curiosità  il  popolino  accalcato  intorno  ai  palchi  dei 
ciarlatani  e  dei  cantastorie  che  gremivano  la  Piazza:  "  Si  ve- 
dono ciarlatani  e  saltimbanchi  d'  ogni  genere  :  indovini  (diseurs 
de  bonne  aventure,  volgarmente  strologhi)  che  attraverso  una 
lunga  canna  affidano  i  loro  oracoli  all'orecchio  dei  curiosi.  Non 
bisogna  credere  che  tali  predizioni  siano  un  semplice  scherzo 
per  il  popolino  curioso:  lo  stupore,  lo  spavento  o  la  gioia  si 
dipingono  sui  volti.  Si  vedono  pure  dei  burattinai  (polichinels) 
e  dei  predicatori  che  sembrano  fare  a  gara  a  chi  avrà  più  se- 
guito; ma  tra  i  ciarlatani  più  degni  di  nota  sono  i  cantastorie 
{les  racontenrs),  uomini  del  volgo,  i  quali  con  frasi  scelte  e  con 
viva  enfasi  raccontano  mille  avventure  meravigliose,  tragiche  o 
comiche:  il  popolo  qua  e  là  sparso  con  gli  occhi  fissi  sul  nar- 
ratore, a  bocca  aperta,  immobile  o  trattenendo  il  respiro,  è  come 
incantato  per  due  o  tre  ore  di  seguito  „  **3.  Questi  narratori  di 
piazza  formarono  la  delizia  del  Grosley  che  si  recava  qualche 
volta  a  udirli  in  compagnia  di  Carlo  Goldoni  nell'agosto  del  1758, 
e  li  dipinse  fedelmente.  "  La  piazza  di  San  Marco  ci  rivedeva 
tutte  le  sere.  Era  occupata  nella  stagione  estiva  da  cantastorie, 
specie  di  ciarlatani,  mezzi  nudi,  i  quali  in  termini  scelti,  con 
parole  schiette,  e  con  azione,  calore  ed  enfasi  tragici,  raccontano 


NEL   SETTKCENTO  63 

mille  avventure  meravigliose.  Ogni  racconto  dura  quanto  piace 
a  colui  che  parla.  Il  popolo  radunato  intorno  a  lui,  con  le  braccia 
incrociate,  a  gambe  larghe,  con  gli  occhi  bassi,  ascolta  con  la 
maggior  attenzione.  Davanti  al  cerchio,  i  ragazzi  accosciati  fra 
le  gambe  degli  uomini,  prestano  la  massima  attenzione;  spesso 
i  nobili  e  altre  persone  civili  ingrossano  la  folla.  Due  volte 
m' accadde  d' essere  per  primo  l' oggetto  di  questi  racconti.  11 
narratore  m*  arrestava  dicendomi  ;  Signoi',  che  ascolti  una  gran 
cosa,  mia  cosa  stìipenda\  poi  s'allontanava  da  me  parlando  o 
piuttosto  urlando  come  un  energumeno,  e  a  poco  a  poco,  insen- 
sibilmente, il  cerchio  si  formava.  Nessuno  meglio  di  Goldoni 
sapeva  imitare  le  arie,  il  tono  e  l'enfasi  di  cotesti  ciarlatani: 
è  questo  il  suo  personaggio  favorito  quando  vuol  partecipare 
alle  feste  che  offre  la  nobiltà  veneziana  nelle  belle  villeggiature 
sulle  rive  della  Brenta  „  »4. 

Ma  più  vario  era  lo  spettacolo  durante  il  carnovale  che 
incominciava  propriamente  il  giorno  di  Santo  Stefano,  quando 
si  riaprivano,  dopo  la  novena  di  Natale,  tutti  i  teatri  e  ricomin- 
ciavano i  giuochi  "  nel  gran  Ridotto  a  San  Moisè  „  =5,  "  La 
gran  folla  delle  maschere  „  scriveva  nel  i688  Massimiliano 
Misson  "  è  in  piazza  San  Marco,  dove  qualche  volta  è  tanta 
che  non  ci  si  può  muovere  „  '^.  Ognuno  deve  interpretare  il 
personaggio  di  cui  indossa  l'abito,  "  poiché  gli  Arlecchini,  per 
esempio,  quando  s'incontrano,  s'attaccano  e  si  dicono  cento 
buffonerie;  i  Dottori  disputano,  gli  Spacconi  {Ics  Fanfarons) 
fanno  delle  smargiassate  e  così  gli  altri.  Quelli  che  non  vogliono 
fare  la  parte  di  attori  su  questo  grande  teatro,  indossano  la 
veste  di  nobili  {nobilomeni).  Anche  le  donne  si  vestono  come 
vogliono,  alcune  con  abbigliamenti  magnifici.  La  piazza  si  riempie 
a  un  tempo  di  burattini,  di  funamboli  e  d'altrettali  genti,  quali 
vedete  formicolare  alla  festa  di  San  Bartolomeo  „  a  Londra. 
Più  piacevoli  certi  "  indovini  e  strologhi  che  sono  circondati 
sul  loro  piccolo  teatro  da  un'  infinità  di  sfere,  di  globi,  di  figure 
astronomiche...  -  In  queste  occasioni  si  spinge  agli  estremi  il 
libertinaggio  consueto,  si  ricercano  con  più  eccesso  tutti  i  pia- 
ceri, ci  si  immerge  in  quelli  fino  alla  gola  „.  On  s' y  plonge 
jusqit  à  la  gorge,  esclama  non  senza  esagerazione  il  noto  scrit- 
tore protestante,  già  Consigliere  del  Parlamento  di  Parigi;  e 
aggiunge  :  "  Tutta  la  città  è  travestita.  Anche  il  vizio  e  la  virtù 
si  mascherano  più  che  mai,  cambiando  nome  e  uso.  La  piazza 
di  San  Marco  si  riempie  di  ciarlatani   d'  ogni  sorta.  I  forestieri 


l 


64  LA    VENEZIA   DEI    VIAGGIATORI 

e  le  cortigiane  accorrono  a  migliaia  a  Venezia,  da  ogni  angolo 
d'Europa:  è  un  trambusto,  una  confusione  generale:  si  direbbe 
che  il  mondo  sia  impazzito  tutt'  a  un  tratto.  È  vero  che  il  furore 
di  questi  baccanali  non  giunge  subito  all'  estremo  e  e'  è  nel 
principio  qualche  moderazione;  ma  quando  si  sente  avvicinare 
la  minaccia  del  fatale  mercoledì  che  impone  a  tutti  quanti  il 
silenzio,  è  allora  che  tutto  è  veramente  carnevale,  senza  più 
alcuna  riserva  „  ^7. 

Ma  questa  fantastica  e  pittoresca  follia  durava,  ripetiamo, 
soltanto  qualche  giorno  =8.  La  maschera,  divenuta  sempre  più 
uniforme,  serviva  nel  Settecento  al  patrizio  che  non  voleva 
essere  riconosciuto  e  desiderava  sottrarsi  per  qualche  ora  aila 
severità  imposta  al  proprio  grado,  serviva  a  liberare  la  donna 
dalla  schiavitù  antica  ^9.  "  L'  abito  di  maschera  „  dice  Lalande, 
"  consiste  in  un  mantello  veneziano  qualche  volta  grigio,  ma  più 
spesso  e  quasi  sempre  nero:  questo  mantello  è  di  seta.  Si  pone 
sul  capo  una  specie  di  mantellina  di  velo  (carnati  de  gazé)  e  di 
merletto  nero,  detta  bauta,  che  ricopre  il  mento  fino  alla  bocca; 
il  resto  del  viso  è  coperto  da  una  maschera  bianca,  o  volto^  che 
va  fino  alla  bocca  senza  tuttavia  ricoprirla,  e  sì  tiene  ferma  per 
mezzo  del  cappello,  guarnito  di  solito  di  un  pennacchio  bianco. 
I  Veneziani  calcano  i  loro  cappelli  fino  sugli  occhi  della  ma- 
schera... Tale  travestimento  è  comune  agli  uomini  e  alle  donne: 
le  quali  non  si  distinguono  che  dalla  gonna  che  scende  oltre  il 
mantello  „  3°.  A  ragione  V  abate  Richard  vi  trovava  certa  gra- 
vità e  monotonia. 

Tutte  le  sere,  specialmente  la  festa,  facevasi  il  passeggio 
in  Piazza,  ossia  il  famoso  Liston  3^,  dove  le  maschere  sfoggia- 
vano la  bizzarria  e  l'  eleganza  delle  mode,  mentre  cavalieri  e 
dame,  seduti  al  caffè,  riempivano  tutto  il  tratto  lungo  le  Pro- 
curatie  Vecchie  32.  Un  sonetto  anonimo,  intitolato  Liston  notturno 
nella  Piazza  di  San  Marco,  così  c'invita  nel  1748: 


Chi  vuol  goder  un  nobile  sollazzo 

Vaga  in  Piazza  la  sera  a  spassizar: 

Là  se  vede  el  bel  mondo  messo  in  chiazzo, 

El  lusso  e  la  lussuria  a  tripudiar. 

Là  i  omeni  e  le  donne  messe  a  mazzo, 

Chi  sta  in  pie,  chi  sentai,  chi  a  caminar, 
Chi  beve  el  so  caffè,  chi  roba  in  giazzo, 
E  chi  a  tutte  de  naso  ghe  vuol  dar...  33. 


N1;L    bEili^CliNTO  Ó5 

Un  altro,  probabilmente  dello  stesso  autore  34,  lamenta  quella 
mescolanza  delle  classi  sociali: 

O  che  liston  la  seral  tutti  a  mazzo 

Le  dame  e  i  cavalieri,  che  sollazza 

In  circoli  sentai,  che  i  beve  in  giazzo, 

E  i  forma  un  arcipelago  la  Piazza. 
Sta  moda  è  bella,  ma  xe  un  gran  strapazzo 

Missiar  con  dame  qua  la  putt... 

Esposta  a  comparir  col  so  mustazzo, 

Senz'  aver  distinzion  da  razza  a  razza... 

Ben  a  costui  replicava  sboccatamente  un  seguace  del  Baffo,  o 
il  Baffo  stesso,  ricordando  che  una  volta  si  faceva  anche  peggio, 
e  giustamente  ammoniva: 

Fin  che  publico  xe  el  divertimento 

No  gh*è  mai  certo  mal,  a  mi  credèlo; 
Da  quel  vardève  che  se  fa  de  drento...  35. 

Vien  voglia  di  udire  anche  certo  scrittore  di  romanzi,  il 
quale  fa  parlare  in  questo  modo  un  suo  personaggio;  "  Non 
ho  potuto  mai  adattarmi  all'  uso  delle  vostre  maschere.  Così 
coperto  di  nero,  e  con  una  faccia  di  bianchissima  cera,  mi  sem- 
brava d'  essere  una  larva  notturna  da  spaventar  i  fanciulli,  anzi 
che  una  persona  in  chiasso  per  divertirmi.  Mi  sono  meravigliato 
di  vederne  talvolta  nella  gran  Piazza  una  quantità  innumerabile, 
a  passeggiare  in  quel  limitato  spazio  che  si  chiama  listone. 
Negli  altri  siti  era  vuoto  di  gente,  eppure,  come  se  non  ci  fosse 
stato  altro  loco,  tutte  le  maschere  giravano  e  rigiravano  nel 
listone j  senza  mai  oltrepassarne  i  confini,  a  costo  di  soffocarsi 
nella  calca  ondeggiante.  L'una  s'urtava  nell'altra,  si  premevano, 
si  rovesciavano,  si  cacciavano  i  gomiti  nello  stomaco,  ma  tutto 
finiva  col  trapassare  e  darsi  una  scambievole  occhiata  „.  Pare 
impossibile!  anche  questo  futuro  democratico  si  lagna  dell'in- 
solenza non  dei  patrizi,  bensì  del  popolo:  "  I  nobili  sempre 
nobili  sono  in  qualunque  forma  si  cangino:  ma  la  plebe,  che 
dall'  uso  delle  maschere  gode  de'  lor  privilegi,  diventa  inso- 
lente, temeraria,  insoffribile.  Voi  lo  saprete  meglio  di  me  che  i 
giovani  di  bottega,  i  servitori,  gli  ebrei  sono  appunto  coloro 
che  con  quindici  soldi  di  incerata  tela  sul  volto,  si  fanno  far 
largo  da  tutti,  menano  più  romore   degli   altri,  e  fanno  a  mano 

G.  Ortolani.  5 


66  LA   VENEZIA    DEI    VIAGGIATORI 

salva  de'  torti  agli  uomini  onesti.  Gli  uni  co'  soldi  della  sac- 
cheggiata cassetta,  gli  altri  colla  roba  de'  loro  padroni,  e  i  terzi 
poi  coir  usure,  si  mettono  in  istato  di  gareggiare  co'  più  ricchi 
signori,  e  guai  a  chi  urta  loro  ne'  piedi  „  36. 

Per  contro  il  buon  Gradenigo  si  compiace  dello  spettacolo 
carnevalesco:  "  Si  passeggia  la  Piazza  dalla  parte  delle  Pro- 
curatie  Vecchie  „  dice  nel  '59  "  come  il  sito  la  mattina  più  so- 
leggiato, e  verso  sera  il  meno  umido  e  più  salubre  della  Piazza. 
In  ogni  parte  poi  della  quale,  massime  nelle  susseguenti  giornate 
festive,  il  popolo  si  divertisce  secondo  il  proprio  genio,  ammi- 
rando la  varietà  de'  vestiti,  l'arte  delli  istrioni,  la  sagacità  de' 
ciarlatani  „.  Nota  ne'  suoi  diari  "  la  prodigiosa  vendita  de'  stabili 
caffettieri  e  la  innumerabile  qualità  di  robe  mangiative,  saporose 
e  dolci,  esibita  da  non  pochi  scaletteri  {ciambellai),  pasticceri, 
fruttaroli,  naranceri  {venditori  d*  arance),  oltre  a'  quali  non  tra- 
lassaremo  di  riflettere  le  ridicole  indovinazioni  delli  astronomi 
d'  ogni  sesso,  e  li  susseguenti  inviti  a'  casotti  di  animali  vari 
e  selvaggi,  di  apparenze,  di  ballarini  sopra  la  corda,  di  bestie 
ammaestrate,  di  stanze  optiche,  di  burattini,  e  di  tante  altre 
maniere  di  attrarre  dinaro  „  37.  Scelgo  finalmente  la  descrizione 
del  dottor  Moore  che  visitò  Venezia  nel  gennaio  del  1775:  "  Il 
dopopranzo  la  piazza  di  San  Marco  è  occupata  da  una  folla  di 
ebrei,  di  turchi  e  di  cristiani;  di  avvocati,  di  birbe  e  di  bor- 
saioli ;  di  ciarlatani,  di  vecchie  e  di  medici  ;  di  gentildonne  in 
maschera  e  di  cortigiane  a  viso  scoperto,  in  una  parola  d' un 
tal  miscuglio  di  senatori,  di  cittadini,  di  gondolieri  e  di  gente 
d'  ogni  nazione  e  d' ogni  stato,  che  le  idee  si  confondono  del 
tutto  :  si  è  talmente  calpestati,  stritolati,  slogati  che  riesce  quasi 
impossibile  di  pensare  o  riflettere  a  nulla;  tuttavia,  abituan- 
dosi molti  facilmente  a  sì  fatto  tumulto,  non  è  meraviglia  che 
ci  sia  sempre  tanta  gente  in  quella  piazza  :  anzi  quando  le  notti 
sono  belle,  non  temono  certuni  di  passarle  colà  interamente. 
Quando  essa  è  illuminata  e  sono  pure  rischiarate  le  botteghe 
delle  strade  vicine,  1'  effetto  è  bellissimo  ;  e  così  le  dame,  come 
i  cavaheri,  si  recano  per  uso  ai  casini  e  ai  caffè  che  la  circon- 
dano. La  piazza  di  San  Marco  compie  assolutamente  la  stessa 
funzione  che  Vauxhall  e  Rannelagh  „  a  Londra  38. 

Ma  non  si  può  conoscere  il  carnevale  veneziano  senza  vi- 
sitare il  famoso  Ridotto,  pochi  passi  lontano  dalla  Piazza.  Fac- 
ciamoci questa  volta  accompagnare  da  un  curioso  dottor  di  legge 
napoletano,  o  piuttosto  calabrese,  che  capitò  sulle  lagune  nel  1686 


NEL   SETTECENTO  67 

e  si  preparava  a  fare,  qualche  anno  dopo,  il  giro  di  tutto  il 
mondo.  "  Giacché  ho  mentovato  il  Ridotto  „  scrive  nelle  sue 
lettere  di  viaggio  Don  Giovanni  Francesco  Gemelli  Careri,  "  do- 
vete sapere  che  il  ridotto,  altrimenti  detto  casa  del  diavolo^  vai 
lo  stesso  che  un  palagio  nelle  cui  stanze  siano  circa  cento  tavole 
di  giuoco,  che  rendono  alla  Repubblica  ben  centomila  scudi 
l'anno.  Si  ricava  tanto  danajo  delle  carte  e  lumi,  pagati  da* 
nobili,  a'  quali  solamente  vien  conceduto  il  tener  banco.  Or 
quivi  suU'  imbrunire  si  ritirano  tutte  le  maschere  (imperocché  i 
soli  nobili  e  principi  assoluti  ponno  entrarvi  altrimente)  e  si 
giuoca  d'  ordinario  alla  bassetta.  Il  tutto  fassi  alla  muta,  ponen- 
dosi quella  quantità  di  moneta  che  si  vuol  perdere  (per  dir 
così),  sul  punto  trascelto;  e  segnandosi  ogni  altro  occorrente 
con  pezzetti  di  carta;  e  nella  stessa  guisa  chi  vince  é,  senza 
alcuno  indugio  o  controversia,  pagato.  Egli  è  certamente  un  bel 
vedere  tante  strane  foggie  d'  abiti  e  di  parlari,  e  '1  tenersi  da' 
giocatori  così  poco  conto  de'  zecchini,  e  talvolta  di  tutto  il  lor 
patrimonio  „  39. 

E  ora  col  medesimo  compagno  torniamo  in  Piazza  a  dare 
un'  occhiatina  ai  passatempi  del  giovedì  grasso  che  d'  anno  in 
anno  si  ripetevano.  "  Quanto  agli  spettacoli  pubblici,  „  racconta 
il  nostro  Gemelli,  "  avete  a  sapere  che  il  più  gradevole  a'  Ve- 
neziani si  é  il  giuoco  de'  tori;  ma  non  miga  alla  spagnuola, 
che  non  sono  già  eglino  tanto  tondi  di  pelo  che  voglian  porre 
in  paragone  la  destrezza  degli  uomini  colla  ferocia  delle  bestie. 
Altro  adunque  non  fanno  che  trascinar  per  la  città  alcuni  bovi 
ligati,  e  farli  morir  di  spasimo,  a  colpi  di  bastonate  e  morsi- 
cature di  cani.  Non  vi  par  questa  una  gran  valentia,  o  almeno 
un  bel  trastullo?  Nel  Brojo  (Broglio  o  Piazzetta)  però  si  fece 
giovedì  un  non  so  che  di  buon  gusto:  cioè  le  forze  d'Ercole 
degli  uomini  di  Castello,  che  in  vero  mostrarono  grande  agilità 
e  valore.  Uno  di  essi,  oltreacciò,  con  un  sol  colpo  recise  il 
capo  a  due  tori  :  e  finalmente  si  vide  montar  dal  mare  fin  sulla 
cima  del  campanile  un  altro  toro,  ligato  a  certi  legni,  con  due 
persone  sopra;  ed  allo  'ncontro  dal  medesimo  campanile  volare 
un  uomo  sino  al  mare.  Si  fecero  gran  palchetti  per  sì  fatto 
spettacolo;  e  v'intervenne  sino  al  Doge  col  Senato,  e  gli  am- 
basciadori  de'  principi,  nobilmente  allogati  sulle  loggie  del 
palagio  „  40. 

Off"re  qualche  curiosità  a  questo  proposito  una  pagina  poco 
ricordata   del   Casanova.    "  Le    feste    che    si    fanno  in  Venezia 


68  LA    VENEZIA    DEI    VIAGGIATORI 

neir  ultima  settimana  di  Carnovale,  e  specialmente  nel  Giovedì 
grasso  „  dice  nella  Confutazione  d'Amelot  "  hanno  un  non  so 
che  d'incomprensibile  che  rassembra  molto  alle  Saturnali.  Hanno 
un  carattere  di  Baccanale  antico,  che  pare  ora  paganismo,  ora 
maestosa  cirimonia  di  religione,  ora  spensierate  dimostrazioni 
di  pazzie  nel  gusto  étW orgie  dell'antichità.  Si  fanno  de'  giuochi 
che  rendono  assolutamente  in  que'  giorni  tutti  eguali.  Tutti  sono 
immascherati,  non  si  dorme,  non  si  mangia  che  malamente,  fuora 
d'  ore,  si  va  a  perdere  il  proprio  denaro  „  al  ridotto  per  un'  in- 
certa speranza,  mentre  "  in  questo  giuoco  quello  dei  due  scom- 
mettenti che  ha  il  disavvantaggio  è  quello  che  sceglie  „.  "  Si 
vede  nel  giovedì  grasso,  dopo  l' ora  del  pranzo  „  continua 
r  avventuriere  non  senza  enfasi  "  la  venerabile  figura  del  Doge 
in  maestà  accompagnato  da'  suoi  Consigheri,  da'  Capi  di  qua- 
ranta, da'  Capi  del  Consiglio  di  X,  da'  Avvogadori  e  Censori, 
che  va  a  vedere  i  pubblici  giuochi  della  plebe,  quasi  meschiato 
con  essa,  e  le  feste  de'  tori,  e  il  taglio  della  testa  al  toro,  che 
il  braccio  vigoroso  d'  un  uomo  eseguisce  ordinariamente  in  un 
sol  colpo  di  tagliente  brando,  ed  altre  cose  chiassose,  nelle 
quali  si  vede  la  Nobiltà  meschiata  col  Popolo,  il  Principe  col 
Suddito,  il  raro  con  l' ordinario,  il  bello  con  l' orrido.  Non  vi 
sono  quel  dì  ne  Magistrati,  né  leggi  in  vigore  (che  non  è  però 
permesso  di  violare),  né  si  vedono  girare  per  le  strade  gli 
ordinari  esecutori  della  giustizia  „  4i.  "  L' ultimo  giorno  poi  del 
Carnovale  „  aggiunge  la  Cronaca  Veneta  "  il  numero  delle  ma- 
schere é  grande,  ma  non  civile,  costumando  travestirsi  la  ser- 
vitù più  bassa  delle  case,  così  d'  uomini  come  di  donne  „  :  é  la 
gran  giornata  delle  massère  goldoniane,  finché  "  il  suono  d'una 
campana  di  San  Francesco  della  Vigna  „  annunziando  i  mat- 
tutini, "  impone  il  periodo  all'  uso  delle  carni,  e  alla  continua- 
zione de'  passatempi  gioiosi,  „  e  invita  i  fedeli  a  ricevere  la 
mistica  cenere  43.  Cessa  come  per  incanto  ogni  strepito  per  tutta 
la  città:  l'anima  di  Venezia  si  acqueta  nel  raccoglimento.  E  qui 
lasciamo  al  Casanova  fare  un' altra  osservazione,  quale  che  sia: 
"  Quella  grande  agitazione  di  corpo  che  il  baccanale  porta  seco, 
non  é  sovente  che  un'  eccellente  medicina  allo  spirito.  Non  si 
vede  mai  a  Venezia  il  popolo  più  savio  che  nei  primi  giorni  di 
Quaresima.  Que'  bagordi  indomiti,  que'  scatenati  piaceri,  que' 
mangiari  e  quegli  altri  gusti  che  una  sfrenata  libidine  procurasi 
senza  ombra  alcuna  d'ingegno,  sono  discipline  ch'estenuando 
il  corpo  svegliano  la  ragione  nello  spirito,  che  spesso  una  vita 


NEL   SETTECENTO  69 

troppo  regolare  tiene  di  soverchio  addormentata  „  43.  -  È  degna 
dell'  autore. 

Delle  più  famose  feste  della  repubblica  di  San  Marco  poche 
descrizioni  ci  hanno  lasciato  i  forestieri  del  Settecento  che  leg- 
gevano il  noto  libro  di  Saint-Didier.  Sulla  fine  del  secolo  deci- 
mosettimo Gregorio  Leti  ci  mostra  il  Doge  mentre  si  reca  alle 
sacre  funzioni  col  corno  ducale  sul  capo  "  et  il  manto  reale 
superbamente  adorno  d'  oro  e  di  gioie  „.  "  Quando  egli  esce  „ 
dal  Palazzo,  "  sonano  a  gloria  le  campane  di  San  Marco  e  di 
quelle  chiese  di  dove  passa;  se  gli  portano  dinnanzi  alcune 
bandiere  rilevate  in  alto;  precedono  alla  sua  persona  sei  trombe 
di  estraordinaria  grandezza  con  suono  concorde;  seguita  poi  il 
guanciale  con  la  sedia  d'  oro  per  posarsi  ne'  luoghi  dove  arriva, 
et  oltre  le  trombe  accennate  vi  è  ancora  la  musica  con  un  con- 
certo di  soavissime  voci;  li  suoi  gentil' huomini  e  corteggiani 
particolari  vanno  dietro  conforme  al  loro  ordine.  Segue  final- 
mente il  Doge,  a  cui  si  dà  sempre  il  titolo  di  Serenità,  sotto 
un'  ombrella  in  mezzo  due  regi  ambasciatori  e  residenti  di  Pren- 
cipi,  dietro  a'  quali  seguono  trenta  coppie  de'  principali  Sena- 
tori con  le  vesti  ducali  di  scarlatto  „  44.  "  Tra  tutti  i  Prencipi 
dell'  Italia  „  aggiunge  poi  "  non  vi  è  altro  che  il  solo  Doge  di 
Venetia  che  sta  senza  guardie,  perchè  la  moltitudine  de'  Nobili 
gli  serve  di  guardia,  oltre  che  1'  affetto  del  Popolo  lo  custodisce 
ancora  benissimo  „  45. 

Qualcuno  ormai  rideva  nel  Settecento  del  solenne  sposalizio 
del  mare  che  si  celebrava  nel  giorno  dell'Ascensione  {la  Sensa), 
come  per  esempio  il  Gondar  e  il  Casanova,  par  nobile  fratrum. 
La  marcia  lenta  e  maestosa  del  Bucintoro  sulle  acque  della 
laguna,  salutato  dal  rombo  di  tutte  le  campane  e  di  tutte  le 
artiglierie,  accompagnato  da  due  sciabecchi,  da  due  galere  e  da 
altri  bastimenti,  come  ricorda  la  Nuova  Gazzetta  Veneta  (1762), 
commuove  l'abate  Richard.  "  La  marcia  è  grave  e  maestosa  „ 
così  egli  descrive  "  e  si  fa  al  suono  di  tutte  le  campane  e  al 
rimbombo  continuo  delle  artiglierie,  si  di  quelle  dei  bastimenti 
che  si  trovano  nel  porto,  i  quali  stanno  allineati  coi  loro  sten- 
dardi e  colle  bandiere  spiegate,  sì  di  quelle  poste  lungo  le  isole 
e  i  castelli  che  sono  dopo  San  Marco  fino  al  principio  del  mare 
aperto,  fuori  del  porto  di  Lido,  a  circa  tre  miglia  dalla  città... 
Molto  contribuisce  a  rendere  più  pomposa  tale  marcia  la  quan- 
tità di  peote  e  di  gondole  che  seguono  il  Bucintoro.  Le  gondole 
degli    ambasciatori    che    hanno    fatto    l' ingresso    solenne,    sono 


70  LA   VENEZIA    DEI   VIAGGIATORI 

magnificentissinie  46.  Quando  qualche  principe  o  dei  ricchi  fore- 
stieri vogliono  brillare  per  la  pompa,  salgono  sopra  peote 
addobbate  con  gran  ricchezza,  cariche  comunemente  a  poppa 
ed  a  prora  di  strumenti  musicali.  Inoltre  le  principali  isole  cir- 
costanti a  Venezia  e  le  città  di  Murano  e  di  Torcello  mandano 
delle  peote,  a  cui  bisogna  aggiungere  da  tre  a  quattromila 
gondole,  che  vanno  più  o  meno  velocemente  secondo  il  pia- 
cere di  quelli  che  vi  sono  dentro.  Questo  singolare  spettacolo 
ha  della  nobiltà  e  della  magnificenza.  La  marcia  grave  del 
Bucintoro  e  delle  galere  che  l' accompagnano,  il  rumore  dei 
cannoni,  delle  campane,  dei  corni,  delle  trombe,  il  suono  acuto 
dei  pifferi  dalle  galere,  le  grida  dei  gondolieri,  il  confuso 
mormorio  della  immensa  folla  degli  spettatori,  sebbene  in  uno 
spazio  amplissimo,  tutte  queste  cose  riunite  insieme  formano 
uno  spettacolo  ben  degno  di  curiosità,  di  cui  difficilmente  po- 
trebbe dare  un'  idea  la  più  esatta  descrizione  „  47.  Solennità 
così  profondamente  e  solamente  veneziana,  sotto  V  azzurro  cielo 
di  maggio,  che  parve  qualche  anno  dopo  a  Lalande  simile  a  un 
trionfo  marittimo. 

La  Nuova  Gazzetta  rievoca  pure  la  piazza  "  affollata  di 
maschere  et  altra  gente,  che  si  durava  fatica  a  passarvi 
specialmente  nel  listone  di  mezzo  della  Fiera,  da  noi  meglio 
conosciuta  col  nome  della  Sensa.  Nel  dopo  pranzo  poi  fu  un 
bellissimo  listone  verso  le  Procuratie  Nuove,  e  si  videro  abiti 
specialmente  alle  maschere  feminine  di  ottimo  gusto  e  della  più 
fina  galanteria;  mentre  nel  tempo  stesso  vi  fu  a  Murano  un  non 
minore  straordinario  numero  di  barche  di  ogni  sorta  al  Fresco, 
o  sia  Corso,  solito  a  farsi  colà  in  tale  giornata  „  48. 

Quanto  alla  mostra  delle  merci  nel  recinto  della  ^^rrt,  specie 
di  "  esposizione  „  o  di  "  mostra  „  dei  vecchi  tempi,  il  Richard 
non  ne  rimase  soddisfatto  nel  1762:  "  Le  merci  esposte  nella 
piazza  di  San  Marco  non  offrivano  V  idea  d' un  commercio 
opulento.  Vi  si  vedevano  tele  in  gran  numero  e  lavori  di  cotone 
di  tutti  i  generi,  portati  da'  Levantini;  drappi  di  seta  comune; 
chincaglierie  d'ogni  specie;  molte  botteghe  d'orefici;  alcune  di 
vetri  di  Murano  fra  cui  una  curiosissima  „  perchè  rivestita  inte- 
ramente di  vetro.  "  V  era  poi  una  gran  quantità  di  quadri  me- 
diocri e  parecchie  botteghe  di  parrucche  di  tutte  le  forme  e 
grandezze.  Non  bisogna  però  giudicare  da  questa  mostra  il 
commercio  veneziano  eh'  è  tuttavia  considerevole  se  si  giu- 
dica dalla  quantità  di  ricchissimi  mercanti  che  lo  esercitano  „  49. 


NEL   SEITECENTO  71 

11  buon  Gradenigo  celebra  per  contro  ne'  suoi  umili  diarii  del  '66 
quella  "  infinità  di  botteghe,  o  dicansi  stanze  di  legname,  con 
studiata  topografia  distribuite  et  elegantemente  ripiene  di  argen- 
terie e  manifatture  di  puro  oro,  gioj e  e  smalti,  cristalli,  specchi, 
telane,  drapperie,  ferramenti,  stromenti,  armi  da  fuoco,  da  taglio, 
da  punta,  vestiti  per  ogni  sesso,  pizzi  e  merli  manipolati  qui, 
punti  in  aria  merlati,  cotoni,  filati  et  ogni  altro  genere  fino  di 
montature  minute  „  so. 

Ma  è  tempo  d'osservar  più  da  vicino  quelle  donne  veneziane 
che  si  vedevano  passare  per  la  Piazza,  alte  e  ben  fatte,  con  un 
fulgore  di  capelli  biondi  si  e  di  pelle  bianchissima:  ciò  che  ai 
forestieri  non  riusciva  facile,  per  molte  ragioni.  Prendiamo  a 
compagno  il  Pilati,  V  amico  di  Caterina  Dolfin.  "  Qui  le  donne  „ 
racconta  nel  '69  "  vanno  al  caffè  come  gli  uomini  ;  però  basta 
aver  conoscenza  d'  una  signora  distinta  per  goder  tutto  il  diletto 
che  si  può  trarre  dalla  società:  ella  vi  fa  conoscere  i  suoi  cor- 
teggiatori, i  suoi  amici,  i  suoi  parenti  ;  e  questi  vi  fanno  cono- 
scere i  loro:  andate  a  trovarli,  gli  uni  dopo  gli  altri,  ai  loro 
caffè,  ai  loro  palchi,  ai  loro  casini.  Inoltre  andate  a  visitare  la 
signora  quando  si  alza,  poiché  qui  le  signore  non  rifuggono 
dalle  visite,  come  gli  uomini.  Ella  verrà  perfino  a  trovarvi  nel 
vostro  alloggio:  poi  ve  ne  andate  insieme  dove  volete:  la  sera 
voi  la  rivedete  a  piacer  vostro,  prima  del  teatro  al  caffè,  e 
durante  la  recita  nel  suo  palco;  e  se  per  caso  vi  annoiate,  potete 
andarvene  presso  1'  altre  persone  di  vostra  conoscenza.  La  ma- 
schera fu  r  origine  di  questa  gran  libertà  di  cui  godono  qui  le 
donne  „  sa.  Convien  tuttavia  ricordare  che  T  autore  della  Ri- 
forma  d*  Italia  e  dei  Viaggi  in  diversi  paesi  d*  Europa  ha  la 
testa  un  po'  accesa  e  incline  qualche  volta  a  ingigantire  i  fan- 
tasmi della  propria  immaginazione,  come  pur  troppo  avviene  a 
molti  de'  viaggiatori:  inoltre  dobbiamo  avvertire  che  non  tutte 
le  dame  veneziane  assumevano  i  liberi  costumi  della  futura 
sposa  del  Tron;  anzi  le  donne  dei  cittadini  o  segretari,  come 
ben  avverte  Lalande,  vivevano  per  lo  più  nelle  loro  case  e  non 
avevano  né  cicisbei  né  casini  di  conversazione.  Si  badi  che  il 
costume  generale  erasi  in  parte  corretto  a  Venezia.  La  corti- 
giana, decaduta  a  mano  a  mano  all'  infimo  posto,  non  regnava 
più  nella  società  del  Settecento.  La  donna,  acquistata  la  propria 
libertà,  aveva  ingentilito  gli  usi  sociali  e  quasi  1'  animo  stesso 
dell'  uomo  :  alla  generale  e  volgare  licenza  succedevano  gli  affetti 
particolari,  anche  se  irregolari  molto  spesso.  A  questa  specie  di 


72  LA   VENEZIA   DEI   VIAGGIATORI 

rivoluzione  del  costume  veneziano  il  Grosley  assegna  press'  a 
poco  la  data  del  1730  53, 

"  Tempo  fa  „  continua  il  Filati  "  le  donne  solevano  coprirsi 
anche  la  faccia  e  andavano  dove  volevano...  Ma  poi  che  V  uso 
frequente  della  maschera  stabilì  fra  le  Veneziane  il  costume  di 
poter  uscire  e  di  andare  dove  a  loro  piace,  ora  non  sentono 
più  soggezione,  e  non  tengono  più  il  viso  coperto  ;  ma  mettono 
come  gli  uomini  la  maschera  sopra  il  cappello  e  si  lasciano 
vedere  a  faccia  scoperta,  se  pure  non  abbiano  qualche  ragione 
di  far  qualche  volta  altrimenti.  Quando  non  vogliono  uscire  in 
maschera,  hanno  un  altro  mezzo  di  celarsi,  di  cui  si  servono 
al  mattino  oppure  nel  tempo  in  cui  le  maschere  sono  proibite: 
si  mettono  allora  in  zendado,  eh'  è  un  velo  di  taffettà  nero  col 
quale  avvolgono  la  testa,  e  che  scende  loro  dietro  le  spalle  fin 
sotto  la  cintura:  è  un'altra  specie  di  mascheramento  molto  co- 
mune in  gran  parte  d'Itaha,  che  impedisce  di  conoscer  le  donne, 
a  meno  che  esse  non  lo  desiderino,  e  che  al  tempo  stesso  fa 
un  bellissimo  effetto  „  54, 

Fatta  più  libera  la  donna  fin  dal  1710,  i  conventi  "  già 
dimora  della  gioia  e  dei  piaceri  „  erano  divenuti  deserti,  come 
osserva  nel  '28  il  Montesquieu  55.  Lo  stesso  Burnet  ammette  che 
anche  nel  Seicento  molti  monasteri  veneziani  osservavano  una 
regola  austera  e  non  offrivano  alimento  alla  cronaca  scandalosa; 
ma  quelli  più  ricchi  di  San  Zaccaria  e  di  San  Lorenzo,  dove 
allora  si  ritiravano  le  fanciulle  patrizie  per  non  essere  di  carico 
alle  famiglie  o  per  fuggirne  la  tirannia,  piuttosto  che  per  devo- 
zione, e  dove  le  monache  tenevano  conversazione  attraverso  le 
grate  del  parlatorio,  senza  il  velo,  anzi  con  il  collo  e  col  petto 
scoperto,  come  dice  il  futuro  vescovo  di  Salisbury,  si  resero 
celebri  nei  fasti  della  galanteria  56,  H  giovane  De  Brosses,  ch'ebbe 
a  Venezia  nel  '39  per  informatore  principale  di  tutti  gli  scan- 
daU  l'ignobile  Froulay  (noto  ambasciatore  di  Francia  e  più  noto 
amante  di  Maria  da  Riva)  da  cui  raccolse  pettegolezzi  e  fan- 
donie, scrive  tra  scherzoso  e  serio:  "  In  verità,  se  dovessi  qui 
soggiornare  a  lungo,  mi  rivolgerei  più  volentieri  verso  le  mo- 
nache. Tutte  quelle  che  vidi,  attraverso  la  grata,  chiacchierare 
quant'  era  lunga  la  messa,  e  ridere  insieme,  mi  parvero  quanto 
mai  belle  e  vestite  in  maniera  da  far  valere  la  propria  bellezza. 
Hanno  una  graziosa  cuffietta,  un  abito  semplice  ma  ben  fatto, 
quasi  sempre  bianco,  che  scopre  le  spalle  e  il  petto  né  più  né 
meno  degli  abiti  alla  romana  delle  attrici  nostre  „. 


NEL    SETTECENTO  73 

Neir  agosto  del  '58  il  Grosley  assistette  il  giorno  di  San 
Lorenzo  alla  messa  cantata  in  chiesa,  che  durò  cinque  ore  cal- 
dissime e  mortali.  "  Le  monache,  tutte  gentildonne,  andavano 
e  venivano  a  due  grandi  grate  separate  dall'  altare,  vi  tenevano 
conversazione  e  vi  distribuivano  rinfreschi  a  cavalieri  e  abati 
che,  tutti  col  ventaglio  in  mano,  stavano  in  cerchio  all'  una  e 
air  altra  grata  „  57.  Afferma  il  Filati  che  nel  '69  e'  erano  ancora 
delle  monache  nei  migliori  conventi  che  di  sera  si  mascheravano 
per  andare  all'  opera  e  alla  commedia,  oppure  al  passeggio  in 
Piazza  a  vedere  i  propri  innamorati;  e  nei  parlatori  si  davano 
ancora,  ricorda  Lalande,  dei  balli  mascherati  a  cui  le  recluse 
partecipavano  dietro  le  grate. 

Dello  spirito  disinvolto  e  penetrante  della  donna  veneziana 
del  Settecento,  l' abate  Richard  ci  offre  tale  ritratto  :  "  Non  credo 
che  esista  nazione  al  mondo,  dove  le  donne  siano  più  amabili 
ed  abbiano  tanta  prontezza  di  spirito,  di  quella  penetrazione 
viva  e  acconcia  per  cui  sanno  colpire  il  carattere  di  quelli  coi 
quali  devono  trattare,  e  sanno  dir  loro  le  cose  per  essi  più 
interessanti.  Esse  non  hanno  quello  spirito  particolare  che  si 
trova  così  spesso  altrove  e  che  bisogna  indovinare.  Al  contrario, 
la  sfera  delle  loro  idee  sembra  allargarsi  in  proporzione  degli 
oggetti  che  trattano;  ciò  che  fa  supporre  un  grandissimo  spirito 
naturale  e  un'  abitudine  alla  gentilezza  che  non  possono  acqui- 
stare se  non  dopo  il  matrimonio,  poiché  la  loro  educazione, 
fin  che  sono  fanciulle,  è  estremamente  limitata:  in  fatti  non 
escono  mai  di  casa  e  non  vedono  che  i  propri  parenti  „. 
Anche  le  donne  del  secondo  ordine,  ossia  le  cittadine^  sembrano 
all'abate  francese  amabilissime  e  spiritose.  "  Fin  che  sono  figlie, 
vivono  nella  maggior  costrizione  e  non  dimostrano  alcun  gu- 
sto per  qualsiasi  piacere  „,  ma  si  rifanno  poi,  quantunque 
i  signori  cittadini,  a  differenza  dei  nobili,  siano  gelosi  fino  alla 
tirannia.  Diventano  esse,  appena  appassito  il  primo  fiore  della 
giovinezza,  "  delle  eccellenti  madri  di  famiglia,  occupate  uni- 
camente nella  cura  della  propria  casa...  Una  ne  conobbi,  donna 
ancora  amabile,  la  quale  mi  assicurò  che  da  oltre  venti  anni 
non  aveva  mai  abbandonato  la  sua  casa  se  non  per  recarsi 
alla  chiesa  della  propria  parrocchia  eh'  era  dirimpetto  alla  sua 
abitazione,  tutta  dedita  alla  cura  di  allevare  una  numerosa 
famiglia  che  aveva  per  essa  il  maggior  rispetto.  Questa  vita 
ritirata  non  le  aveva  fatto  perdere  nulla  della  sua  gentilezza 
e  gaiezza:    due   qualità   veramente    particolari  delle   Veneziane, 


74  LA    VENEZIA    DEI    VIAGGIATORI 

le  quali  sembrano  averle  ereditate  dalle  donne  greche  dei  bei 
tempi  d'  Atene  „  ss. 

Lalande  poi  osserva  ehe  le  mode  francesi  "  non  ebbero 
gran  presa  a  Venezia:  le  donne  portano  sempre  un  corpetto 
(o  busto,  corps),  non  usano  mai  il  belletto  (jamais  de  rouge)  ^ 
spesso  hanno  i  capelli  annodati  con  un  nastro,  oppure  a  coda, 
di  rado  hanno  un  berretto:  si  vedono  spesso  a  teatro  coi  dia- 
voletti nei  capelli  {en  papillotes)  e  con  la  testa  scoperta,  perfino 
in  galleria,  non  mettono  fazzoletto  sul  collo  {point  de  fichu) y 
portano  le  mutande  durante  l' inverno.  Di  tutte  le  capitali  che 
conosco  „  aggiunge  Lalande  "  è  quella  dove  meno  si  rende 
omaggio  air  eleganza  delle  nostre  mode,  benché  V  abbigliamento 
generale  sia  quello  stesso  che  usa  in  Francia,  e  le  pettinature, 
quando  la  donna  si  adorna,  siano  simili  alle  nostre  „  59.  Le 
patrizie,  dice  poi  Richard,  "  spendono  molto  in  ornamenti,  spe- 
cialmente in  diamanti  e  perle;  e  si  può  dire  che  si  abbiglino 
con  buon  gusto,  ma  non  quando  vanno  a  teatro,  dove  si  mo- 
strano con  l'abito  più  succinto  {dans  le  plus  grand  negligé)^ 
poiché  si  considera  che  siano  colà  in  incognito^  sebbene  l'uscio 
del  palco  sia  aperto  a  tutti  quelli  che  vogliono  visitarle.  Le  cit- 
tadine e  le  donne  del  popolo,  allorquando  escono,  portano  sul 
capo  un  gran  velo  di  taffettà  nero,  incrociato  davanti  e  rianno- 
dato di  dietro,  con  una  gran  gonna  o  grembiale,  pure  di  taffettà 
nero,  che  le  avvolge  interamente  e  quasi  nulla  lascia  scorgere 
della  veste,  fuorché  una  parte  delle  maniche.  Ordinariamente 
non  hanno  altra  acconciatura  che  questo  velo  molto  sporgente 
{fort  avance)^  ma  lo  maneggiano  con  certa  abilità  e  civetteria 
sì  particolare  che  quantunque  sembrino  molto  avviluppate,  sanno 
guardare  e  farsi  ammirare  a  piacimento  senza  mostrare  la  più 
piccola  affettazione.  Questa  maniera  di  abbigliarsi  é  decentissima 
e  sta  assai  bene  alle  donne  „  ^o. 

Quanto  poi  all'abito  comune  dei  nobili  "  tutti  i  signori  che 
appartengono  ai  magistrati  e  gli  ufficiali  inferiori  ne'  tribunali  ,,. 
ci  insegna  Richard  "  sono  la  maggior  parte  del  giorno  in  veste 
nera  e  in  gran  parrucca:  abito  così  uniforme  che  il  nobile  non 
si  distingue  affatto  dal  segretario  cittadino  „.  Questa  uniformità 
esteriore  gli  sembra  regnare  anche  per  le  vie  di  Venezia  dove 
"  non  si  vedono  che  maschere  durante  le  pubbliche  feste  „  e 
"  mantelli  grigi  „  negli  altri  giorni,  di  cammellotto  l'inverno, 
di  taffettà  l'estate.  Anche  gli  artigiani  "  quando  vanno  in  giro 
per  la  città,  vestono  a  guisa  dei   cittadini  „.  Quanto  agli  eccle- 


NEL   SETTECENTO  75 

siastici  "  portano  il  mantello  nero  di  cammellotto  o  di  seta^ 
della  stessa  forma  di  quello  dei  laici,  l'abito  corto,  il  collarino 
e  i  capelli  rotondi:  è  ben  raro  vedere  una  parrucca  „  ^i^  Ma  il 
soggiorno  dell' abate  Richard  fu  troppo  breve  a  Venezia,  nella 
stagione  di  primavera;  e  le  mode,  sia  delle  donne,  sia  degli 
uomini,  cambiarono  più  volte  attraverso  il  secolo  decimottavo. 
Sarà  bene  udire  anche  il  nostro  Baretti  :  "  I  nobili  veneziani  „ 
scrisse  egli  qualche  anno  dopo  il  suo  secondo  soggiorno  sulle 
lagune,  "  portano  una  lunga  zimarra  nera,  orlata  di  ermellino, 
e  una  gran  parrucca.  Questa  zimarra,  le  cui  maniche  sono  lar- 
ghe e  pendenti,  è  d' inverno  di  panno  e  si  affibbia  davanti  con 
un  fermaglio  d' argento.  D' estate  è  di  una  stoffa  più  leggera^ 
aperta  e  più  corta.  La  loro  veste  è  di  seta  e  di  forma  antica... 
Le  gentildonne  sono  anch'  esse  vestite  di  nero.  Le  loro  vesti, 
fatte  di  antichissima  foggia,  sono  di  velluto,  o  di  una  stoffa  più 
leggera,  secondo  la  stagione  „  ^^.  Del  resto  poi  della  cittadinanza 
così  dice:  "  Gli  abitanti  di  Venezia  portano  sopra  i  loro  abiti 
soliti  un  largo  mantello  di  seta:  questo  mantello  è  grigio  d'estate, 
e  d' inverno  è  nero  e  foderato  di  bianco  :  il  basso  popolo  ne 
porta  di  stoffa  di  colore;  ma  la  moda  di  questi  mantelli  varia 
molto  in  Venezia  „  ^3. 

11  noto  Gondar  così  riassume  in  poche  parole  la  vita  vene- 
ziana: "  Alla  mattina  passeggio,  al  pomeriggio  in  maschera,  alla 
sera  teatro,  il  resto  della  notte  gioco  o  donne  „  ;  e  ne  trae  come 
corollario:  "  Qui  si  sta  in  compagnia  del  vizio  dalla  mattina 
alla  sera  „  ^4.  Certamente  giudica  la  vita  veneziana  da  quella 
che  conducevano  certi  forestieri  a  Venezia,  vigilati  dall'  occhio 
degli  Inquisitori.  L'  avventuriere  francese  fa  pompa  di  arguzia 
dicendo  che  un  nobile  di  casa  antica  gode  in  patria  della  più 
alta  considerazione  "  quando  per  trent'  anni  è  andato  a  spasso 
al  broglio,  quando  ha  brigato  per'  ottenere  le  prime  cariche  della 
repubblica,  quando  ha  protetto  molte  donne  e  rischiato  al  gioco 
delle  somme  considerevoli,  quando  ha  avuto  delle  amanti,  dei 
cani,  dei  cavalli,  degli  equipaggi  sulla  Brenta,  e  via  dicendo  „  ^5. 
Più  giustamente  1'  abate  Coyer  ebbe  a  notare  che  mentre  nelle 
grandi  monarchie  "  gran  parte  della  nobiltà  passa  le  sue  gior- 
nate in  una  inerzia  poco  onorevole  e  spesso  misera,  a  Venezia 
la  nobiltà  è  sempre  attiva  nei  consigli,  nelle  elezioni,  nei  tri- 
bunali, nel  senato,  nei  reggimenti,  nelle  magistrature  e  nella 
milizia  „  ^.  "Ci  sono  dei  periodi  „  scrive  dei  gentiluomini  ve- 
neziani r  abate  Richard    "  in    cui    gli   affari  pubblici  li  tengono 


76  LA   VENEZIA    DEI    VIAGGIATORI 

SÌ  occupati  nel  corso  della  giornata  che  se  vogliono  concedere 
qualche  istante  ai  piaceri  particolari  della  società,  devono 
toglierli  al  sonno,  cominciando  le  loro  occupazioni  per  tem- 
pissimo al  mattino  per  finire  alla  sera  assai  tardi.  E  nessuno 
manca  di  compiere  i  propri  doveri  con  la  più  grande  esattezza, 
soprattutto  i  giovani  magistrati  che  accarezzano  progetti  d' avan- 
zamento e  che  sanno  di  non  poter  riuscire  se  non  per  mezzo 
della  stima  che  avranno  saputo  acquistare  nel  coprire  i  primi 
posti  ,,67. 

Del  carattere  dei  Veneziani  ben  poco  potevano  giudicare 
questi  forestieri  che  per  qualche  settimana  gironzavano  per  le 
calli  o  sedevano  ai  caffè  e  ai  teatri,  senza  poter  avvicinare  alcuno 
dell'  ordine  patrizio,  senza  penetrare  nelle  famiglie,  senza  cono- 
scere il  dialetto  del  popolo,  o  meglio  la  cosidetta  lengua  vene- 
ziana', tanto  più  che  anche  i  più  vivaci  d'ingegno,  di  qualunque 
paese  fossero,  apparivano  osservatori  superficiali.  Gravi  e  cir- 
cospetti quasi  sempre,  ma  non  imperiosi  e  superbi  verso  la 
plebe,  ci  vengono  dipinti  i  nobiluomini  nel  Seicento,  che  anzi 
"  con  gran  famigliarità  permettono  che  si  stia  col  capo  coverto 
avanti  di  loro,  „  e  "  se  ne  vanno  per  la  città  senza  famigli,  e 
talvolta  anche  con  qualche  fagottino  sotto  la  sopravvesta:  e  in 
sì  fatta  guisa  lontani  dall'  ostentazione  e  dal  lusso,  esercitano 
un  vero  e  non  finto  signoreggiare  „  ^.  Gregorio  Leti  riconosce 
che  "  i  Veneziani  comunemente,  se  non  hanno  gran  spirito, 
possedono  un  solido  giuditio;  amano  li  piaceri  venerei,  senza 
distornarsi  quel  che  importa  da'  loro  interessi  e  traffichi  „  ^. 
"  Grossolani  „  erano  detti  dai  Fiorentini,  eppure,  avverte 
Amelot  de  la  Houssaye,  sebbene  non  siano  molto  acuti  né  sot- 
tili, sanno  ben  T  arte  del  dissimulare  e  dell'  ingannare,  "  e  per 
quanto  sia  grande  il  loro  odio,  si  fanno  sempre  buon  viso,  fino 
al  punto  da  lodare  quelli  che  odiano  di  più...  In  fatti  hanno  la 
più  parte  la  faccia  aperta  e  il  cuore  chiuso;  e  quanto  più  mo- 
strano al  di  fuori  la  compiacenza,  tanto  più  nascondono  di 
dentro  l' invidia  „  7°.  Non  dimenticano  mai  le  ingiurie  ricevute, 
€  sono  e  furono  sempre  crudeli  nelle  loro  vendette  71,  «  ma  al 
contrario  i  benefici  lasciano  poca  traccia  sul  loro  animo  „. 

Né  qui  finisce  il  fosco  ritratto  che  dei  Veneziani  ci  ha 
lasciato  le  sieur  Amelot,  rimasto  poi  fisso  nella  memoria  degli 
uomini  politici,  dei  letterati,  degli  avventurieri  di  tutta  l'Europa, 
lungo  il  secolo  decimottavo.  "  Sono  sobri,  non  già  per  virtù 
bensì    per    avarizia,    che    gongolano    se    possono  fare  un  lauto 


NEL   SETTECENTO  77 

pasto  a  spese  d'  altri...  Sono  molto  dediti  ai  piaceri,  e  le  amanti 
tengono  più  care  delle  mogli  che  trattano  come  serve  „  7».  So- 
lamente quest'  ultima  afifermazione  non  gode  più  favore  presso 
i  viaggiatori  deL  Settecento,  tanto  parevano  le  cose  ormai  cam- 
biate. "  La  loro  indole  timida  li  rende  superstiziosi  a  tal  segno 
da  prendere  per  colpi  del  cielo  mille  accidenti  i  quali  non  sono 
che  effetti  del  caso  o  della  natura...  Credono  con  facilità  tutto 
quello  che  desiderano;  e  le  buone  notizie,  anche  se  false,  fanno 
sempre  a  loro  un  gran  piacere  „  73.  Ahimè  !  tale  debolezza  non 
fu  propria  solamente  degli  antichi  Veneziani,  se  le  sieur  Amelot 
ha  letto  anche  le  storie  di  Francia.  "  Sono  talmente  infatuati 
della  loro  nobiltà  che  si  credono  uguali  ai  più  grandi  principi... 
Così  questi  gentiluomini  non  amano  troppo  viaggiare,  poi  che 
dappertutto  si  ride  della  loro  superbia  e  delle  loro  vane  pretese  „. 
Anche  qui  avremmo  qualche  cosa  a  ridire;  o  almeno  nel  Set- 
tecento giudicavasi  altrimenti  74.  Ma  più  ci  rattrista  vedere  i 
figli,  peggiori  dei  padri,  rotolare  nell'infamia.  "  Non  vi  ha  paese 
al  mondo  in  cui  la  gioventù  sia  più  insolente  e-  più  licenziosa 
che  a  Venezia,  dov'  essa  vive  a  sua  usanza,  non  essendo  tenuta 
a  dovere  né  dal  timore,  né  dalla  vergogna...  Questi  giovani 
fannosi  pompa  del  vizio  e  della  brutalità,  e  non  lasciano  alcun 
asilo  al  pudore;  anzi  pubblicamente  si  vantano  di  tutti  i  loro 
eccessi  e  compiono  perfino  sotto  gli  occhi  di  tutti  delle  cose 
che  i  più  dissoluti  fra  gli  uomini  sogliono  ricoprire  d'  un  velo 
di  tenebre,  così  che  amando  la  voluttà  e  la  licenza  sembra  che 
ne  amino  ancora  l'infamia  „  75.  -  Dopo  ciò  l'autore  francese 
passa  a  fare  V elogio  dei  Veneziani  che  noi  ascolteremo  a  fronte 
bassa.  "  I  Veneziani  sono  gravi  e  prudenti;  uniformi  nelle  loro 
azioni,  almeno  esteriormente;  costanti  nelle  loro  amicizie,  tanto 
più  fermi  nelle  proprie  risoluzioni  quanto  più  lenti  nel  pren- 
derle; sempre  tranquilli  al  di  fuori,  per  quanto  sia  grande  la 
loro  agitazione  interna,  pazienti  negli  aff'ari  difficili  e  di  lunga 
lena;  dolci  e  trattabili  quando  si  sanno  prendere...  Sono  segre- 
tissimi non  solo  negli  affari  di  stato  ma  in  generale  in  tutte  le 
cose  che  vengono  loro  confidate,  fino  al  punto  di  non  rivelar 
mai,  quand'  anche  divengano  nemici,  quello  che  si  son  detti 
scambievolmente.  .  Sono  poi  gente  ordinata,  previdente,  giudi- 
ziosa „  -  or  come  mai  ?  potremmo  domandarci  -  "  e  se  si  pa- 
ragonano al  resto  degli  Itafiani,  essi  non  saranno  soltanto  degni 
di  considerazione  per  le  loro  proprie  virtù,  ma  anche  per  i  vizi 
stessi  dei  loro  vicini  „  76.  Povera   Italia!  Se    questo  sia  proprio 


78  LA    VENEZIA    DEI    VIAGGIATORI 

un  elogio,  o  non  piuttosto  un'  ultima  pennellata  del  terribile 
quadro,  non  importa  decidere. 

Dei  cittadini  e  delle  classi  minori  per  fortuna  non  parla  il 
traduttore  di  Tacito.  Che  avrebbe  detto  nell'  udire  da  Montes- 
quieu un'affermazione  come  questa?  "  11  popolo  veneziano  è 
il  miglior  popolo  del  mondo  „  :  Le  peuple  de  Venise  est  le  nieilleur 
peuple  dii  monde.  Non  tumulti,  non  risse,  non  guardie  a  Ve- 
nezia 77.  Eppure  r  animo  dell'  autore  delle  Lettere  Persiane,  che 
non  era  troppo  lieto  durante  il  viaggio  d' Italia,  non  riusciva  a 
svagarsi.  "  I  miei  occhi  „  scriveva  "  sono  molto  soddisfatti  a 
Venezia,  ma  il  mio  cuore  e  il  mio  spirito  non  lo  sono:  io  non 
amo  una  città  dove  niente  invita  a  rendersi  amabili  e  virtuosi  „. 
Forse  mancava  una  donna  per  ispianare  la  fronte  corrugata  del 
giovane  barone  della  Erède. 

L'  abate  Coyer  celebra  senz*  altro  gli  ottimi  costumi  di  cui  lo 
Stato  offre  un  esempio  al  popolo.  "  Se  si  considerano  i  costumi 
veneziani  in  rapporto  all'  ordine  pubblico,  essi  dimostrano  con 
la  loro  bontà  „  dice  pieno  d'  ammirazione  "  come  il  governo 
formi  i  costumi...  Le  magistrature,  i  reggimenti,  le  dignità,  tutti 
gli  uffìzi  che  richiedono  buoni  costumi,  oltre  che  buoni  lumi, 
pongono  un  freno  alle  passioni  di  coloro  che  vogliono  salire. 
Gli  avogadori  e  i  censori,  sempre  pronti  ad  accusare,  anche 
dopo  ottenuto  il  suffragio,  fanno  ben  capire  che  conviene  tenere 
una  condotta  irreprensibile  „  78.  Chi  era  stato  in  Inghilterra, 
come  il  nostro  abate,  e  viveva  in  Francia  o  altrove,  ne  sapeva 
qualche  cosa.  In  generale  poi  io  credo  fermamente,  contro  la 
comune  opinione,  che  i  costumi  politici  e  morali  sul  mezzo  del 
Settecento  fossero  migliorati  dal  secolo  precedente.  Seguita 
r  abate  :  "  Quando  quella  parte  della  nazione  che  governa  ha 
buoni  costumi,  ne  acquista  pure  la  parte  eh'  è  governata.  Altre 
ragioni  ancora  rendono  qui  il  popolo  migliore  che  non  sia  nella 
maggior  parte  delle  città  d' Italia  „  :  come  a  dire  il  lavoro,  1'  agia- 
tezza generale,  la  sobrietà  che  rendevano  rari  i  delitti  e  le  risse, 
dolce  e  tranquillo  il  carattere. 

Anche  1'  abate  Richard  è  di  avviso  che  il  popolo  veneziano 
non  abbia  costumi  e  sentimenti  suoi  propri,  bensì  quelli  stessi 
della  nobiltà  di  cui  è  lo  strumento.  "  I  capi  della  nazione  Io 
sanno:  indi  quella  gravità,  quella  prudenza,  quella  uniformità 
nelle  loro  azioni,  almeno  esteriormente;  quella  pazienza  negli 
affari  diffìcili  e  quella  costanza  a  mostrarsi  sempre  gli  stessi, 
anche  se    provino    spesso'  all'interno    le    maggiori   agitazioni... 


NEL   SETTECENTO  79 

Tutti  egualmente  attaccati  all'  onore  della  propria  patria,  si 
affannano  a  conservarlo  per  tutte  le  vie,  e  nulla  risparmiano 
per  riuscirvi...  Portano  nel  commercio  della  vita  ordinaria  quella 
stessa  discrezione  con  cui  sono  abituati  a  trattare  gli  affari  di 
stato...  Sono  molto  ordinati  ne'  propri  affari...  E  tutte  queste 
qualità  messe  insieme  ne  formano  degli  eccellenti  amici  quando 
vogliano...  Ma  la  loro  qualità  principale  è  l'attaccamento  fermo 
e  inviolabile  alla  religione  cristiana  e  alla  chiesa  cattolica  „.  Per- 
fino durante  l' interdetto  di  Paolo  V  "  posero  la  massima  atten- 
zione a  conservare  nella  sua  purezza  il  deposito  della  fede  „  ; 
e  la  guerra  di  Candia  che  durò  venticinque  anni  "  produsse 
una  moltitudine  di  eroi  „  in  difesa  della  fede  e  del  regno.  At- 
taccatissimi  al  governo  sono  i  cittadini,  specialmente  i  segretari'. 
i  più  ricchi  mercanti  assumono  anch'essi  quell'esteriore  "  rego- 
lato e  grave  „  eh'  è  proprio  delle  classi  superiori.  Il  semplice 
popolo  vive  diviso  nei  propri  sestieri,  godendo  dei  piaceri  che 
ivi  può  procurarsi  "  non  avendo  l'  abitudine  di  andare  a  spasso 
altrove,  di  fare  delle  altre  conoscenze  „,  "  sottomesso,  buono, 
molto  dolce,  naturalmente  gaio,  non  pensando  punto  al  domani, 
non  lavorando  che  per  vivere  o  per  risparmiare  durante  la  set- 
timana qualche  po'  di  denaro  eh'  esso  spende  regolarmente  la 
domenica  o  il  giorno  di  festa  che  va  a  passare  con  la  famiglia 
in  terraferma  oppure  in  qualcuna  delle  isole  vicine  „  79. 

Moore  non  pretende  di  dare  dei  giudizi  s°,  né  crede  possi- 
bile affermare  che  i  Veneziani  siano  più  sensuali  degli  abitanti 
delle  altre  capitali  d'  Europa  ^^.  Grandi,  forti,  ben  fatti,  con  la 
tinta  bruna  e  gli  occhi  neri  :  così  li  descrive  ;  certe  figure  virili 
che  incontra  per  via  gli  ricordano  le  tele  del  Veronese  e  del 
Tiziano  ^^.  Goethe  nell'  86  vide  il  vecchio  doge  Renier  "  accom- 
pagnato da  circa  cinquanta  nobili  in  lunghe  vesti  con  strascico, 
rosso  cupe:  belli  uomini  la  più  parte,  neppur  una  figura  dif- 
forme, parecchi  grandi,  con  grandi  teste  a  cui  ben  s' adattavano 
le  bionde  parrucche  ricciute:  volti  spiccati,  carnagione  bianca  e 
delicata,  senz'  esser  molle  e  spiacevole,  uomini  savi  senza  sforzo, 
calmi,  sicuri  di  se  stessi,  esprimevano  un  vivere  facile  e  in  tutto 
una  certa  gaiezza  „  ^3, 

Il  Baretti,  per  nulla  soddisfatto,  come  si  sa,  dei  signori 
Veneziani,  specialmente  dopo  la  condanna  della  Frusta,  ribatte 
tuttavia  le  spiritose  sentenze  del  dottor  Sharp.  Anch'  egli  nota 
che  i  nobili,  quando  s' incontrano,  si  fanno  mille  sorrisi  e  feste, 
ma  per  pura  finzione:  difetto   che   non   diremmo  particolare  di 


I 


8o  LA    VENEZIA    DEI   VIAGGIATORI 

Venezia  e  di  quei  tempi.  Più  caratteristico  era  Tuso  che  osser- 
vavasi  nella  Piazzetta,  durante  il  broglio.  "  La  maniera  più 
umile  di  salutare  i  nobili  „  scriveva  De  Brosses  "  è  quella  di 
andar  a  sollecitare  i  suffragi  nel  Broglio  e  di  baciar  le  mani  di 
colui  che  si  sollecita.  L*arte  degli  inchini  è  pure  un  punto  im- 
portante: bisogna  farli  bassissimi:  e  tuttavia  a  nulla  servono, 
se  la  parrucca  non  striscia  a  terra  almeno  per  mezzo  piede  ^4. 
Tali  inchini  attirarono  pure  l' attenzione  di  Lalande  :  "  Pochi 
luoghi  ci  sono  „  egli  dice  "  dove  si  mostri  più  gentilezza  che 
a  Venezia:  i  nobili  dell'ordine  più  distinto  sono  usi  a  fare  delle 
profonde  riverenze  e  a  dimostrare  molti  riguardi  ai  patrizi  di 
minor  conto,  poiché  senza  di  ciò  non  arriverebbero  alle  cariche 
supreme;  e  se  c'è  alcuno  che  sembri  un  po'  meno  complimen- 
toso, si  dice  eh'  è  duro  di  schienUj  che  non  ha  ancora  il  dorso 
abbastanza  pieghevole,  e  corre  rischio  di  dover  attendere  più  a 
lungo.  Quest'  usanza  dà  ai  Veneziani  un'  aria  molto  gentile  anche 
verso  gli  stranieri  „  ^5. 

Il  nostro  Baretti  adunque  trovava  nel  carattere  degli  eccel- 
lentissimi pantaloni,  come  per  riso  si  chiamavano  in  Italia  e 
fuori,  "  un  sì  bizzarro  miscuglio  di  confidenza  e  di  circospezione, 
di  sagacità  e  d' imprudenza,  di  coraggio  e  di  timidezza,  d'  ava- 
rizia e  di  prodigalità,  di  sapere  e  d' ignoranza,  e  di  altre  qualità 
contrarie  e  sì  perfettamente  mescolate  nello  stesso  individuo, 
che  io  non  conosco  „  diceva  "  corpo  in  Europa  più  degno  del- 
l'attenzione  dei  curiosi  che  la  nobiltà  veneziana.  Siccome  sono 
pieni  d'  orgoglio  e  di  presunzione,  così  per  guadagnarsi  la  loro 
benevolenza  basta  dir  loro  che  sono  il  più  valente,  il  più  gene- 
roso e  il  più  formidabile  popolo  che  sia  sulla  terra.  Le  più  matte 
e  strane  lodi  non  sembrano  loro  che  un  omaggio  reso  al  loro 
merito  e  alla  verità  „  ^^.  Il  Baretti,  si  sa,  esagera  sempre  un 
tantino;  e  così  fece  in  quella  notissima  epistola  martelliana 
all'amico  don  Carcano,  dove  si  divertì  a  mettere  in  versi  i  di- 
fetti dei  Veneziani,  fra  i  quali  più  grosso  quello  dell'  ignoranza, 
madre  della  superstizione,  della  soverchia  tenerezza  di  cuore  ^7 
e  di  tant'  altre  cose  anche  peggiori  : 

Questi  e  molt'  altri  ancora  son,  don  Francesco,  i  frutti 
Dalla  brutta  ignoranza  qui  tuttavia  produtti, 
Come  sarebbe  dire,  V  amor  delle  sgualdrine 
Se  son  massimamente  cantanti  e  ballerine; 
E  la  rabbia  del  giuoco  trovato  dal  dimonio, 
Che  in  men  che  non  balena  t'intacca  il  patrimonio; 


NEL   SETTECENTO  fcJl 

E  la  brama  feroce  di  guadagnar  al  lotto 

Che  già  parte  del  popolo  ha  in  povertà  condotto; 

E  il  vii  divertimento  di  dire  cose  oscene, 

O  quello  di  sentirne  dalle  pollute  scene, 

E  il  dar  fede  ai  più  falsi,  più  inutili  miracoli; 

E  il  correre  frenetici  a  feste  ed  a  spettacoli, 

E  il  perder  V  ore  e  1'  ore  in  un  caffè  che  tedia 

Parlando  eternamente  d'  opera  e  di  commedia  ; 

E  il  legger  poco  e  legger  sol  libri  infranciosati 

Al  Secol  delle  Lettere  88  stampati  e  pubblicati, 

E  r  esser  pigri  in  fare  ciascuno  il  suo  negozio, 

E  insomma  il  non  curarsi  che  di  maschera  e  d'  ozio  89. 

Ma  il  Baretti  soffriva  allora  d' ipocondria  9°;  e  anch'  egli  contrad- 
dicendosi, formò  più  tardi  il  più  beli'  elogio  dei  Veneziani  con 
queste  parole:  "  Quando  un  forestiere  si  dichiara  loro  amico, 
non  si  può  dire  a  qual  segno  portino  il  loro  attaccamento  e  la 
loro  cordialità  „  9^. 

A  Venezia  più  che  mai  sentivano  questi  viaggiatori  certo 
vuoto  nel  cuore,  in  questa  città  così  stranamente  bella  che, 
lontani  dalle  proprie  case,  in  mezzo  alla  folla  che  gremiva  la 
piazza,  le  calli,  i  ridotti,  i  caffè,  si  sentivano  più  soli;  la  mu- 
sica e  il  canto  dei  teatri,  dei  conservatori,  delle  peote  durante 
le  serenate,  la  stessa  gaiezza  del  popolo,  anziché  svagarli,  ne 
acuivano  la  nostalgia;  la  gondola  faceva  crescere  il  desiderio 
della  donna  lontana;  se  si  abbandonavano  al  vizio,  ne  prova- 
vano poi  più  forte  il  disgusto.  In  questa  città  del  piacere,  si 
sentivano  come  prigionieri  e  l'ombra  misteriosa  dei  Tre  Inqui- 
sitori, risalendo  coi  ricordi  dell'infanzia  dall'  animo  superstizioso, 
pareva  stendersi  in  certi  momenti  alle  loro  fantasie,  ingigantita 
dalle  leggende,  su  tutto  il  cielo  azzurro  della  Serenissima. 
L' aspetto  singolare  dei  palazzi,  emergenti  o  specchiati  dalle 
acque,  dei  ponti,  delle  fondamente,  delle  isole,  i  costumi  carat- 
teristici, i  capolavori  dell'  arte  appagavano  gli  occhi,  ma  lascia- 
vano il  cuore  noiato  anche  a  quel  ragazzo  allegro  che  si  chia- 
mava De  Brosses,  il  quale  nell'  ora  più  dolce  e  più  malinconica 
della  sera  rimpiangeva  la  cara  intima  società  della  sua  Bigione. 
Eppure  di  là  partendo,  mentre  il  burchiello  lo  trasportava  su 
per  il  canale  della  Brenta,  verso  Padova,  e  in  sogno  vedeva 
già  Roma,  gli  doleva  di  abbandonare  per  sempre  la  gondola 
dolce,  e  le  facili  ZuUette,  e  quella  che  veramente  gli  parve  "  la 
seconda  città  d'  Europa  „. 


G.  Ortolani. 


AGGIUNTE  E  NOTE 


1  Neir  articolo  I  num.  4  della  Minerva  0  sia  Nuovo  Giornale  de" 
Letterati  d"  Italia  (Venezia,  Deregni,  giugno  1762),  intitolato  Notizie 
intorno  la  morte  e  il  funerale  del  Doge  di  Venezia  Francesco  Loredano, 
delle  quali  in  parte  mi  valgo,  leggesi  a  pp.  3-4:  "  Ben  egli  è  vero, 
che  negli  ultimi  anni  di  sua  vita  era  di  mente  e  di  corpo  divenuto 
sì  debile  ed  accasciato,  che  rapporto  all'  una  ridotto  era  a  non  poter 
far  di  sua  ragione  uso  maggiore  di  quello  che  fatto  avrebbe  un 
bambolo  appena  spoppato  ;  e  rapporto  all'  altro  mal  reggentesi  in 
piedi,  e  ogni  virtù  visiva  quasi  perduta,  era  nel  volto  sì  scolorito  ed 
esangue,  che  a  un  vivo  simulacro  più  che  ad  altro  rassomigliava  „. 

2  Richard  dice  per  tre  volte;  e  pare  che  così  si  usasse  negli 
ultimi  tempi. 

3  Description  historique  et  critique  de  V  Italie,  ou  Nouveaux  Mé- 
nioires  etc.  par  M.  1'  abbé  Richard,  Dijon  et  Paris,  1766,  t.  II,  p.  181 
e  sgg.  -  Vedasi  inoltre  la  cit.  Minerva  e  la  Nuova  Veneta  Gazzetta, 
n.  22  e  sgg. 

4  Mémoires,  192. 

5  Mémoires,  194. 

6  Observations  sur  l' Italie  et  sur  les  Italiens,  données  en  1764, 
sous  le  nom  de  deux  Gentilshommes  Suédois,  par  M.  G...  -  nouvelle 
édition,  Londres  et  Paris,  1774,  t.  II,  p.  37.  -  Ma  in  Europa  correvano 
più  volentieri  e  avevano  credito  le  fandonie  di  Gondar:  "  Le  silence 
est  r  emblème  de  ce  gouvernement  :  tout  y  est  secret  et  mistère. 
La  politique  s'  y  couvre  d'  une  épaisse  nuit.  Les  causeurs  à  Venise 
sont  enterrés  vivans  dans  un  tombeau  couvert  de  plomb  „  :  UEspion 
Chinois,  ou  V  Envoyè  secret  de  la  Cour  de  Pèkin  etc,  nouvelle  édition, 
Cologne,  1769,  1.  II,  p.  254.  -  Del  resto  della  sua  segretezza  rendevasi 
lode  in  altri  tempi  a  Venezia:  poiché  la  buona  politica  non  si  fa 
sulle  piazze. 

7  Mémoires,  p.  406,  e  così  a  p.  239.  Leggiamo  pure  a  pp.  231-232  : 
*  Actuellement  la  sagesse  de  son  gouvernement,  1'  attachement  à  ses 
lois  et  à  ses  usages,  le  respect  que  tonte  la  nation,  tant  ceux  qui 
sont  à  la  téte  de  1'  état,  que  ceux  qui  sont  purement  sujets,  a  pour 


86  LA   VENEZIA   DEI   VIAGGIATORI 

le  corps  de  la  législation,  lui  méritent  encore  la  considération  de 
toute  r  Europe,  et  lui  conservent  le  rang  distingue  dans  la  hiérarchie 
des  souverains,  qu'  elle  occupe  à  raison  de  son  ancienneté  et  de  sa 
puissance  „. 

8  Vedi  Des  causes  principaks  de  la  decadence  de  la  République  de 
Venise,  in  Histoire  du  Gouvernement  de  Venise  etc.  par  le  Sieur  Amelot 
DE  LA  HoussAiK,  Paris,  1677,  p.  479  sgg.  -   Cito  sempre  la  prima  ed. 
di  quest'  opera  eh'  ebbe  tante  ristampe. 
9  Mémoires,  430. 

10  Mémoires,  422.  -  Anche  questo  dispiace  a  Gondar:  Espion 
Chinois  cit.,  Ili,  28. 

11  Mémoires,  414  n.  "  C  est  donc  à  Venise  où  il  faut  établir  le 
chef-lieu  de  la  politique  en  Europe.  La  discrétion  et  la  réserve  qui 
y  régnent,  et  la  liberté  qui  y  est  commune  à  toutes  les  nations, 
semblent  1'  y  piacer  de  préférence  à  tout  autre  état  „. 

13  Mémoires,  444. 

13  Mémoires,  458.  -  Così  certo  Conte  loda  Venezia  in  un  roman- 
zetto d' Antonio  Piazza  :  "  Ivi  ritrovai  i  Nobili  tutti  ripieni  d'  umiltà, 
e  i  Sudditi  componenti  un  pubblico  docilissimo,  eh'  ama  e  rispetta  i 
stranieri,  eh'  adora  il  suo  Principe,  e  che  vive  tranquillo  e  festoso 
sino  nella  miseria  medesima.  Ho  veduto  una  gran  parte  di  questo 
mondo,  e  sostengo  che  la  Patria  vostra  soltanto  presenta  lo  spetta- 
colo della  povertà  in  allegrezza,  e  del  poter  senza  fasto  „  :  Giulietta, 
Venezia,  1784  (rist.*),  p.  62. 

14  «  Peut-étre  que  le  terrein  qui  est  entre  Vicence  et  Padoue 
vaut  Seul  le  voyage  d' Italie,  surtout  pour  la  beante  des  vignes  „  : 
Lettres  familières  écrites  d' Italie  en  1739  et  1740  par  Charles  De 
Brossks,  Paris,  1869,  t.  I,  p.  138. 

15  Mémoires,  246. 

16  "  Io  non  conosco  città  che  inspiri  a  prima  giunta  ad  un  fore- 
stiero tanta  malinconia,  anzi  mestizia,  mista  ad  una  maraviglia  solenne, 
e  direi  quasi  ad  augusto  terrore,  quanto  Venezia.  Case  e  palazzi 
altissimi,  vie  angustissime  e  serpeggianti,  canali  d'  un'  acqua  morta 
e  nericcia,  gondole  tutte  nere,  nessun  movimento  di  carri  né  di  ani- 
mali ;  sembra  di  entrare  in  una ,  vasta  e  magnifica  tomba.  Ma  che  ? 
Scende  la  sera,  suona  la  mezzanotte:  un  moto,  una  vita,  una  illumi- 
nazione, un  brulichio  di  gente  che  va,  viene,  ritorna:  tutte  le  botteghe 
di  grasce,  aperte  ed  illuminate;  pieni  i  caffè,  piene  le  piazze,  pieni 
i  teatri;  ed  erano  otto  in  quel  tempo  „:  Della  vita  di  Mario  Pieri 
Corcirese,  scritta  da  hn  medesimo,  Firenze,  1850,  t.  I,  p.  36.  -  "  Un 
sentiment  de  tristesse  s'  empare  de  l' imagination  en  entrant  dans 
Venise.  On  prend  congé  de  la  végétation  etc.  „:  Corinne  ou  l'Italie 
par  Mad.'  De  Staèl  :  cito  dall'  ed.  di  Parigi,  1863,  p.  342.  -  Con  entu- 
siasmo scriveva  Francesco  Zanotti  al  fratello  Giampietro,  il  22  aprile 
1721  :  "  Che  bel  paese  è  questo  Viniziano  !  Ma  Venezia  poi  è  la  patria 


NEL   SETTECENTO  87 

delle  grazie,  degna  d'  essere  abitata  non  dagli  uomini  ma  dagli  Dij. 
Padova  ancora  m'  è  piaciuta  assai,  e  nel  vederla  m'  ha  fatto  ricordar 
Bologna  :  ma  finché  Venezia  sarà,  non  credo  che  altra  cosa  del  mondo 
possa  parer  bella  „  :  Delle  lettere  familiari  d*  alcuni  Bolognesi  del  se- 
colo XVIII,  ed.  2.*  boi.,  Bologna,  1820,  t.  II,  p.  95. 

17  Richard  e,  prima  di  lui.  De  Brosses  la  descrivono.  Goudar  la 
chiama  una  tomba:  Espion,  II,  237.  E  laStaèl:  "  Ces  gondoles  noires, 
qui  glissent  sur  les  canaux,  ressemblent  à  des  cercueils  ou  à  des 
berceaux,  à  la  dernière  et  à  la  première  demeure  de  1'  homme  „  : 
1.  e.,  343. 

18  Mèmoires,  254. 

19  Observations  cit.,  27-29. 

30  MémoireSj  303.  La  prima  domanda  che  rivolgono  le  donne  ai 
forestieri  a  Venezia  "  e'  est  s' ils  ont  vu  la  place,  s' il  y  en  a  quel- 
qu'  autre  au  monde  qu'  on  lui  puisse  comparer  „  :  304. 

31  Mémoires,  304-305. 
22  Lettres  cit.,  154-155. 

33  Voyage  d'Italie  par  M.  1' abbé  Coyer  etc,  Paris,  1776,  t.  II, 
pp.  79-80. 

34  Observations  cit.,  8-9.  -  Anche  Moore  descrive  uno  di  questi 
curiosi  cantastorie.  Vedasi  pure  Tullio  Dandolo,  U  Italia  nel  secolo 
passato,  Milano,  1853,  parte  2.*,  pp.  265-266. 

35  Notatorj  Gradenigo,  presso  il  Museo  Civico  Correr  (cod.  Gra- 
denigo  Dolfin  135,  colloc.  n.  67),  voi.  V,  26  dicembre  1759. 

a6  Di  tempo  in  tempo  si  cercava  di  rendere  più  libera  la  Piazza. 
Così  nel  marzo  (11)  del  1757,  per  comando  del  procuratore  Morosini, 
"  fu  eseguito  lo  sgombro  di  certi  banchetti  e  posti  volanti  arbitra- 
riamente introdotti  da  venditori  di  galanterie,  tabacchiere  et  altro 
(benché  forastieri)  sotto  li  portici  delle  vecchie  e  nuove  Procuratie  „  ; 
e  nel  mese  seguente  (18  aprile)  lo  stesso  ordinava  di  togliere  dalla 
Piazzetta  "  ogni  ingombro  di  banchi,  cancelli,  ceste,  et  altre  cose, 
dal  sottoportico  contiguo  al  Broglio,  cioè  dalla  porta  del  pubblico 
Palazzo  sino  al  sito  solito  starci  il  pergamo  del  Predicatore,  che  circa 
il  di  più  sino  alla  retrograda  altra  porta  appartiene  alla  giurisdizione 
di  S.  Serenità  „  ;  e  nell'  agosto  (16)  fece  levare  "  tutte  le  insegne 
delle  Ostarie  [ossia  alberghi]  che  riferivano  sopra  la  Piazza  di  San 
Marco  per  il  corso  di  molti  anni,  ma  con  molto  turpe  bruttezza,  cioè 
quelle  del  Salvatico,  del  Cavalletto,  del  Cappello,  del  Pellegrino,  e 
della  Rizza,  per  non  doversi  più  rimettere  „:   Notatorj  Gradenigo. 

37  [Maximilien  Misson]  Nouveau  voyage  d' Italie  etc,  cinquième 
édition,  à  La  Haye,  1717,  t.  I,  p.  239  sgg.  -  Ricordiamo  i  carnovali 
cantati  dal  Busenello  e  dal  Dotti. 

38  Si  veda  a  pp.  48-49,  n.  92. 

29  Maria  Wortley  Montagu  loda  nelle  sue  famose  lettere  la  co- 
modità della  maschera:  io  ottobre  e  6  novembre  1739. 


88  LA   VENEZIA    DEI    VIAGGIATORI 

30  Voyage  en  Italie  etc.  par  M.  de  La  Lande,  troisième  édjtion, 
Genève,  1790,  t.  VII,  p.  41. 

31  "  Questo  passeggio  era  anticamente  in  campo  di  San  Stefano, 
ma  è  stato  dimesso  a'  tempi  nostri,  e  introdotto  a  maggior  comodo 
in  Piazza  di  San  Marco  „  :  Cronaca  Veneta  sacra  e  profana  ecc.,  Ve- 
nezia, Pitteri,  1751,  t.  II,  p.  351. 

32  "  L'  ultime  settimane  incalza  la  folla  per  le  Dame  e  Cavalieri 
che  v'  accorrono,  ed  è  più  curioso  e  bello  vedere  la  Nobiltà  che 
occupa  colle  sedie  tutto  il  tratto  della  Piazza  contigua  alle  Procuratie 
vecchie  per  la  bellezza  delle  Dame,  e  per  la  bizzarria  degli  abiti 
veramente  sfoggiati.  Spesso  si  veggono  comparse  ingegnose,  e  in  un 
pompose,  di  Mascherate  di  compagnia,  e  tal  volta  con  alcune  rap- 
presentanze di  gran  diletto  „  :  Cronaca  Ven.,  II,  351. 

33  Cod.  Cicogna  1410  (presso  il  Museo  Civico  Correr),  Poesie 
diverse,  t.  II,  P,  i."*,  carta  118. 

34  //  bordello  della  Piazza  di  San  Marco  di  Venezia  - 1748,  cod. 
cit.,  carta  115. 

35  Cod.  cit.,  carta  116.  -  Dalle  riferte  del  fante  Ignazio  Beltrame 
si  apprende  che  il  primo  marzo  1748  vi  erano  a  San  Basso  2  bot- 
teghe di  barbiere  o  parrucchiere,  e  2  di  acque  (ossia  caffe)\  lungo 
le  Procuratie  Vecchie  14  di  barbiere,  8  di  acque;  nella  strada  da 
San  Geminiano  a  San  Moisè  8  di  barbiere,  4  di  acque  ;  nelle  Procu- 
ratie Nuove  fino  alla  Zecca  18  di  barbiere,  20  di  acque  e  una  di 
barbiere  e  acque:  Inquisitori  di  Stato,  busta  n.  683  (Archivio  di 
Stato).  -  Le  botteghe  di  caffè  più  frequentate  erano  nel  '50:  quella 
di  Antonio  all'  Insegna  del  Doge,  con  14  careghe  [sedie]  "  oltre  le 
banche  sempre  occupate  sino  dopo  la  mezzanotte  da  tabarri  e  preti  „  ; 
quella  deW Arabo  all'insegna  deW Albero  d' oro  con  11  careghe  "  oltre 
le  sue  banche  (chiude  alle  3  y^)  »\  quella  di  Ciclo  al  Gran  Tamerlano, 
frequentata  da  nobili  e  forestieri,  con  8  careghe  oltre  le  banche  solite  : 
"  circoli  con  uomini  e  donne  a  bere  rinfreschi  allegramente  „,  aperta 
sino  alla  mezzanotte;  quella  alla  Sultana,  con  5  careghe  e  solite 
banche,  poco  frequentata  ;  quella  di  Floriano,  all'  insegna  della  Venezia 
Trionfante'.  "  questa  bottega  haveva  7  careghe,  oltre  le  solite  banche, 
le  quali  erano  sempre  occupate  da  forestieri  e  donne  in  gran  numero 
che  andavano  e  venivano  sino  doppo  la  meza  notte  „  ;  poi  il  Rinaldo 
Trionfante,  con  9  careghe  oltre  le  banche,  "  sempre  frequentate  da 
tabarri  e  preti  sino  le  3  circa;  V  Angelo  Custode,  con  8  careghe  oltre 
le  banche,  "  frequentata  dalle  3  alle  6  da  Greci  e  forestieri:  alle  3 
circa,  la  sera  dei  29  agosto,  vi  capitò  una  compagnia  di  7  persone 
ov'  erano  due  donne  "  vestite  da  uomo  „  ;  poi  il  Raguseo  (o  Aragoseo) 
o  Arabeto  alla  Regina  delle  Amazone,  con  9  careghe  oltre  le  banche, 
frequentata  da  uomini  e  donne  fino  alle  3.  -  Poco  frequentate  in 
quella  stagione  le  botteghe  sotto  le  Procuratie  Vecchie. 

Dalle  botteghe  di  caffè   sparirono   i  camerini    che   servivano  un 


NEL   SETTECENTO  89 

tempo  "  a  furtivi  incontri  et  a  pericolose  dimore.  Ora  tutto  è  cam- 
biato „  :  scriveva  il  compilatore  della  Nuova  Gazzetta  Veneta  nel  1762. 
"  Non  si  trovano  più  camerini  con  porte,  non  vi  si  gioca,  o  almeno 
ciò  si  fa  solo  a  giochi  permessi,  e  senza  invito;  vi  si  parla  con  di- 
screzione, e  tutto  infine  vi  spira  onestà.  È  una  bellissima  cosa  il 
vedere  in  questi  Caffè  sino  a  cencinquanta  persone;  chi  ciancia,  chi 
canta,  chi  moderatamente  critica,  chi  si  avanza  a  fare  di  occhietto, 
chi  osserva,  chi  beve,  chi  mangia,  et  ognuno  in  somma  fa  ciò  che 
più  gli  piace.  Quante  Commedie  non  trasse  il  Signor  Goldoni  da  tali 
piacevoli  luoghi?  „  num.  43.  Lo  nota  anche  Lalande:  VII,  32.  Il  Go- 
verno vigilava  :  così  nell'  agosto  del  '48  ordinava  a  tutti  i  padroni  di 
caffè  della  Piazza  e  di  San  Moisè  "  che  suonata  l' Ave  Maria  di  San 
Marco  siano  levate  tutte  le  careghe  [sedie]  fuori  della  bottega,  e  così 
ancora  le  banchette  attorno  le  colonne,  così  che  non  ve  ne  sia  alcuna 
fuori,  e  che  suonate  1'  hore  due  di  notte  debbano  serrar  intieramente 
le  sue  botteghe  „  :  Inquisitori,  busta  cit.  (v.  anche  Notatorj  Gradenigo). 

36  Giulietta  cit.,  di  Antonio  Piazza,  pp.  72-74. 

37  Notatorj,  in  data  26  dicembre  1759. 

38  Mi  servo  della  traduzione  francese:  Lettres  d'un  Voyageur 
Anglois  sur  la  France,  la  Suisse,  l'Allemagne  et  l' Italie  traduit  de 
l'Anglois  de  Mr.  Mogre,  à  Genève,  1782,  t.  Ili,  pp.  46-47. 

39  Viaggi  per  r  Europa  del  dottor  D.  Gio.  Francesco  Gemelli  Ca- 
RERi  ecc.,  Napoli,  1701,  pp.  30-31.  Vedasi  inoltre  La  Ville  et  la  Répu- 
blique  de  Venise  [di  Saint-Didier],  Paris,  1680,  pp.  370-371.  -  Molti 
anni  dopo,  nel  1762,  un  altro  italiano,  ma  anonimo,  ci  lasciò  tale 
descrizione  :  "  Il  ridotto,  che  tanto  si  magnifica,  è  appunto  un  magnifico 
nulla,  quando  non  si  voglia  prendere  per  una  mera  bottega  di  gioco. 
Esso  è  una  casa  composta  di  circa  io  stanze,  oltre  una  gran  sala  a 
primo  ingresso  irregolare,  senza  simetria.  Si  trattengono  ivi  le  ma- 
schere a  discorrere,  a  passeggiare  ed  alcune  giuocano  a  giuochi  di 
puro  divertimento.  Viene  illuminata  con  lampadari  di  legno  ben  ordi- 
nari, con  due  candele  di  sego  per  cadauno,  ed  è  apparata  con  corami 
antichissimi.  Vi  sono  da  lato  di  essa  camera  due  camerini,  ove  si 
vendono  dei  rinfreschi  „  e  anche  formaggi,  frutta  ecc.  "  indecente  in 
un  consesso  sì  rispettabile  „.  Nelle  stanze  interne  "  si  gioca  alla 
bassetta,  ed  in  ogni  stanza  vi  sono  tre  o  quattro  tavolini  di  gioco  di 
circa  mille  zecchini  V  uno.  Il  cavaliere  che  tiene  il  banco  è  in  toga  e 
parruccone,  ed  è  obbligato  tenere  la  posta  per  un  solo  „  :  Impressioni 
di  viaggio  d'un  anonimo,  nel  libro  d'  Achille  Neri,  Costumanze  e 
sollazzi,  Genova,  1883,  p.  92.  -  Tutti  poi  ricorderanno  il  secondo  atto 
delle  Donne  gelose  di  Carlo  Goldoni,  e  come  al  Ridotto  fosse  accom- 
pagnato quasi  in  trionfo  dagli  amici  veneziani  1'  autore  delle  sedici 
famose  commedie,  dopo  la  recita  dei  Pettegolezzi,  nel  carnovale 
del  1751.  -  Esercitavasi  in  quell'affollato  ritrovo  la  maldicenza;  e 
ogni  sera  vi  si  faceva  la  critica,  se  così  possiamo   esprimerci,  delle 


90  LA    VENEZIA    DEI   VIAGGIATORI 

rappresentazioni   teatrali   (Goldoni,  pref.   del   Contrattempo,  in  Opere 
complete,  voi.  IX,  pp.  385-386  e  del  Vecchio  bizzarro,  voi.  X,  pp.  420-421). 

40  Viaggi  cit.,  pp,  73-74.  -  Dai  Notatorj  del  Gradenigo  trascrivo 
la  descrizione  del  giovedì  grasso,  14  febbraio  1760:  "  Affollato  il 
Popolo  della  Metropoli  nel  dopo  pranzo  nella  Piazza,  avanti  la  Si- 
gnoria, entrano  varie  compagnie  di  Fabri  e  Beccari  ben  in  ordine 
vestiti,  meglio  armati  di  spadoni  e  brandistochi,  et  a  suono  di  tam- 
buri senza  disordini  fanno  ingresso  nel  steccato,  dove  si  taglia  la 
testa  ad  uno  o  tre  bovi,  e  terminata  questa  incombenza  s' incomin- 
ciano le  Forze  d'  Ercole,  il  giuoco  della  Saracinesca  da'  Castellani 
e  Nicolotti,  li  giuochi  sopra  lunghe  corde,  et  altri  spettacoli  non 
nuovi,  secondo  l'usanza;  indi  si  fanno  ardere  li  fuochi  artificiati,  più 
o  meno  secondo  la  generosità  „  del  Magistrato  a  cui  tocca  la  spesa. 
Fu  questa  volta  Marco  Zustinian  q.  Almorò,  Cassiere  sopra  le  Ra- 
gioni vecchie,  il  quale  "  prescrisse  una  macchina  piìi  pomposa  et 
alta  del  solito,  ben  dipinta,  et  abbondante  di  fuochi,  del  tutto  al  più 
tardi  lasciata  trasparente  sino  le  2  ore  della  notte  „. 

41  Confutazione  della  Storia  del  Governo  Veneto  d' Amelot  de  La 
Honssaye  ecc.,  [di  Giacomo  Casanova],  Amsterdam,  1769,  P."  2.% 
pp.  104-105. 

43  Cronaca  cit.,  352. 

43  Confutazione  cit.,  iii. 

44  U  Italia  Regnante  ecc.  di  Gregorio  Leti,  Geneva,  1675,  P.«  2.^, 

P-  353- 

45  U  Italia  cit.,  367-368. 

46  Anche  De  Brosses  nel  '39  ammirò  in  una  pubblica  funzione 
le  gondole  della  Repubblica  "  superbement  sculptées  et  dorées, 
accompagnées  de  celles  des  ambassadeurs,  plus  riches  et  plus  ga- 
lantes  encore,  surtout  celle  du  nòtre  „  :  I,  171.  -  Alla  descrizione 
dell'  abate  Richard  aggiungiamo  quella  dell'  anonimo  italiano,  pure 
del  1762,  citato  dal  Neri  {Costumanze  ecc.,  p.  94):  "  ...  Oltre  le  gon- 
dole vi  furono  diverse  peote  molto  vagamente  ornate,  per  fare  onore 
al  principe  di  Witemberg  [Wtìrtemberg],  venuto  a  godere  di  tal  festa; 
tra  le  quali  la  più  singolare  fu  quella  di  detto  principe  governata  da 
otto  rematori,  vestiti  con  corpetti  di  nobiltà  rossi  guarniti  di  gallone 
d' argento,  e  li  braconi  di  nobiltà  color  di  cedro,  pure  guarniti  di 
gallone  d'  argento,  e  gran  berrettone  con  la  stessa  guarnizione.  - 
Dopo  di  essa  si  distinse  la  peota  della  casa  Giovanelli,  e  tutte  e  due 
avevano  a  poppa  ed  a  prora  corni  da  caccia,  che  rendevano  molto 
dilettevole  la  festa;  e  quella  del  principe  aveva  alcune  cantarine, 
che  conducea  seco  per  suo  divertimento,  molto  vagamente  vestite  „. 

47  Mémoires,  464-466.  -  Anche  l'  arte  del  Canaletto  e  del  Guardi 
è  impotente.  Ricordiamo  come  Maria  Wortley  Montagu,  che  assistette 
nel  1740  alle  feste  per  la  venuta  del  principe  di  Sassonia,  chiamasse 
una  regata  veneziana  lo  spettacolo  più  bello  che  si  potesse  godere 


NEL    SETTECENTO  gì 

in  Europa  (/'/  is  by  far  the  Jinest  sight  in  Europe)^  non  eccettuata  la 
sfarzosa  incoronazione  dei  reali  inglesi:  lett.  io  ag.  1759.  -  Non  so 
tenermi  dal  riferire  anche  la  vecchia  descrizione  di  Saint-Didier, 
nella  seconda  metà  del  Seicento:  "  ...  Le  grand  pavillon  de  saint 
Marc  qui  est  arbore  sur  la  Poupe,  les  Etendards  de  la  ceremonie, 
les  Trompettes  et  les  Hautbois  qui  sont  à  la  Prouè,  la  majesté  du 
Senat  en  pourpre,  le  grand  nombre  d' Etrangers  et  d' autres  per- 
sonnes...  rendent  le  Bucentaure  une  des  plus  belles  choses  que 
r  on  puisse  voir.  Ce  superbe  Bàtiment  part  de  la  place  de  saint  Marc 
au  bruit  de  Canon,  accompagno  des  Galeres  qui  se  trouvent  à 
Venise,  de  plusieurs  Galiottes,  de  quantité  de  Peotes,  qui  sont  de 
Barques  longues  richement  parées,  et  d'  un  nombre  infìny  de  Gon- 
doles,  qui  couvrent  toutes  les  lagunes;  de  sorte  que  ce  Palais 
flotant,  dans  lequel  il  y  a  ordinairement  cinq  ou  six  cens  person- 
nes,  paroist  un  Chàteau  bàti  au  milieu  de  dix  milles  petites  Cabanes, 
ou  plùtost  un  Elephant  environné  d'  un  essein  de  Mouches...  „  1.  e, 
pp.  406-407. 

48  Nuova  Veneta  Gazzetta  (1762),  num.  21.  -  Anche  l'abate  Ri- 
chard partecipò  nel  pomeriggio,  certamente  col  suo  compagno  di 
viaggio,  signor  di  Bourbonne,  presidente  à  mortier  del  Parlamento 
di  Bigione  (il  quale  sposò  la  figlia  del  notissimo  presidente  Bouhier, 
amica  di  De  Brosses)  alla  "  grande  promenade  de  Murano,  ou,  à 
r  exception  du  doge  et  de  quelques  vieux  sénateurs,  je  crois  que 
tout  ce  qui  est  à  Venise  ayant  gondole  se  trouve.  Il  semble,  au  pre- 
mier coups  d'  oeil  et  au  bruit  que  1'  on  entend,  que  toutes  les  gon- 
doles  vont  culbuter  dans  le  canal.  Le  bon  air  est  d'  aller  avec  la 
plus  grande  rapidité  ;  mais  on  s'  accoutume  bientót  à  ce  mouvement 
tumultueux,  et  on  n'  a  qu'  à  admirer  la  force  et  1'  adresse  des  gon- 
doliers  „  :  Mémoires,  467. 

49  Mémoires,  492. 

50  A.  Pilot,  La  festa  della  Sensa,  in  Gazzetta  di  Venezia,  6  mag- 
gio 1918. 

A  bella  posta  tralascio  le  descrizioni  dei  teatri,  dei  concerti 
negli  Ospedali  e  altro  ancora.  -  Quanto  poi  al  numero  dei  fore- 
stieri a  Venezia,  sia  per  il  carnevale,  sia  per  le  feste  della  Sensa, 
sappiamo  come  d' anno  in  anno  variasse.  Durante  il  carnovale  si 
crede  che  i  forestieri  ascendessero  di  solito  a  trentamila:  tuttavia 
in  certi  periodi  gli  stessi  carnovali  parvero  decadere.  Così  Mon- 
tesquieu nel  1728  ricorda  che  un  tempo  affluivano  trenta  o  trenta- 
cinquemila forestieri  a  Venezia:  "  à  présent,  il  n'  y  en  vient  guère 
plus  de  150  „  (certo  è  uno  sbaglio):  da  venti  anni  si  contavano 
diecimila  cortigiane  di  meno,  e  in  altre  città  erano  sorti  altri  teatri, 
rivali  di  quelli  veneziani:  Voyages  de  Montesquieu  publiés  par  le 
Baron  Albert  de  Montesquieu,  Bordeaux,  1894,  p.  24.  -  Archenholz 
afferma    che    il    giorno    prima  dell'Ascensione   del    1775   capitarono- 


92  LA    VENEZIA    DEI    VIAGGIATORI 

42480  forestieri,  senza  contare  quelli  dei  giorni  precedenti:  England 
imd  Italien,  Leipzig,  1786,  t.  II,  p.  25;  ma  è  lecito  avere  qualche 
dubbio  su  questa  cifra.  Certo  si  spargevano  anche  per  le  case  pri- 
vate. Leggesi  nella  Nuova  Veneta  Gazzetta^  ai  15  maggio  1762  :  "  Gran 
quantità  di  Forestieri  anche  oltramontani  e  di  grande  condizione 
averemo  questo  anno  per  la  prossima  Fiera,  essendo  molte  Locande 
impegnate  anticipatamente,  come  pure  molte  case  particolari  „. 

51  Certo  il  bruno  predominava,  pur  sotto  la  cipria;  anzi  il  Bemis 
(l'ambasciatore  di  Francia,  futuro  ministro  e  cardinale)  non  vedeva 
che  donne  brune  a  Venezia. 

53  Voyages  en  différens  pays  de  r Europe  etc.  [di  Carlo  Ant. 
Filati],  en  Suisse,  1778,  t.  I,  pp.  179-180. 

53  Observations  cit.,  17.  Anche  Maria  Montagu  nota  un  rivolgi- 
mento ne'  costumi,  non  solo  a  Venezia  ma  in  tutta  Italia,  e  crede 
cominciasse  nel  1732,  quando  i  Francesi  invasero  la  Lombardia  (ciò 
fu  nel  '33)  ;  e  però  consiglia  a  non  tener  conto  delle  relazioni  troppo 
antiquate  o  superficiali  dei  viaggiatori:  lett.  8  die.  1751  (v.  pure  altra 
da  Genova,  15  ag.  1741).  Moltissimi,  come  il  Bernis  nelle  sue  Me- 
morie, e  Richard  (II,  435)  e  Lalande  (VII,  33)  e  altri  ricordano  la 
decadenza  delle  magnifiche  et  honorate  cortigiane.  De  Brosses  nel  '39 
trova  ancora  in  auge  1'  Anelila,  la  Zulietta,  la  Spina  e  qualche  altra, 
nota  pure  ai  lettori  del  Casanova,  ma  a  quelle  erano  costretti  a  de- 
dicarsi i  signori  forestieri  amanti  de'  piaceri  sensuali,  che  poi  par- 
tendo si  divertivano  a  spargere  tante  favole  sulla  corruzione  della 
donna  veneziana.  Gondar,  la  spia  cinese,  è  tratto  a  confessare  che  a 
Venezia  il  viaggiatore  straniero  si  "  annoia  a  morte  „  e  si  trova 
"  come  in  mezzo  a  un  deserto  „,  se  non  ami  il  gioco  e  le  donne 
(si  sa  quali  donne  !).  Non  e'  è  bisogno  a  Venezia  (soggiunge  il  futuro 
marito  della  bella  Sara)  di  prostituzione  pubblica:  "  Les  dames  veni- 
tiennes  se  sont  faites  courtisanes...  Le  mariage  n'  est  plus  qu'  une 
débauché  „:  III,  118  e  120. 

54  Lalande,  VII,  34  e  Richard,  II,  500. 

55  Voyages,  34  e  54. 

56  Voyage  de  Suisse,  d' Italie  etc.  par  G.  BurìNEt  etc,  à  Rotter- 
dam, 1690,  p.  228.  -  Anche  Saint-Didier,  1.  e,  p.  344,  così  si  esprime  : 
"  Lorsque  1'  on  considere  avec  un  veritable  esprit  de  religion,  la 
maniere  de  vivre  peu  reguliere  de  la  plùpart  des  Religieuses,  j'avoué 
que  ce  desordre  paroist  étrange  ;  mais  si  d'  un  autre  coste,  on  regarde 
ces  personnes  comme  des  fìlles  de  qualité,  qui  n'  ont  jamais  eu  de 
vocation  pour  leur  estat,  et  qu'  elles  n'  ont  preferé  le  Cloistre  à  la 
maison  de  leurs  parens,  que  parce  qu'  elles  y  jouTssent  de  plus  de 
liberté,  puisqu'  elles  y  peuvent  voir  toutes  les  personnes  qu'  il  leur 
plaist,  on  trouvera  qu'  elles  ne  peuvent  estre  censurées  avec  la 
mesme  rigueur,  que  le  seroient  des  veritables  Religieuses,  qui  vi- 
vroient  de  cette  sorte  ... 


NEL   SETTECENTO  93 

57  ObservationSy  56. 

58  Mémoires,  439-442. 

59  Voyage^  VII,  33. 

60  Mctnoires,  500-501. 

61  Mémoires,  498. 

63  Mi  servo,  quale  che  sia,  della  versione  italiana:  Gì' Italiani  o 
sia  Relazione  degli  itsi  e  costttmi  d' Italia  di  Giuseppi:  Baretti,  Mi- 
lano, 1818,  p  215.  -  Leggiamo  nello  Stato  presente  di  tutti  i  Paesi  e 
Popoli  del  mondo  ecc.  del  Salmon  (rifatto  da  più  autori  nella  edizione 
italiana  dell' Albrizzi),  voi.  XX,  parte  i.*,  Venezia,  1753,  a  pagina  79: 
"  I  Nobili  vanno  tutti  vestiti  nella  stessa  guisa,  vale  a  dire  di  una 
lunga  toga  di  panno  nero,  cinta  nel  verno  con  cintura  adorna  di 
fregj  d'argento  e  orlata  di  pelli;  e  nella  state  aperta,  e  foderata  sol- 
tanto di  seta.  Altre  volte,  innanzi  che  s' introducessero  le  parrucche, 
si  coprivano  il  capo  con  una  berretta  nera  „.  Aggiungiamo  un  altro 
cenno,  togliendolo  dalla  Cronaca  Veneta  citata,  tomo  I,  pagina  185: 
Tutti  i  senatori  e  nobili  vestivano  di  nero  sulla  metà  del  Settecento, 
con  maniche  larghissime  a  corneo,  cioè  strette  all'  imboccatura  :  di 
paonazzo  vestivano  soltanto  i  Savi  Grandi,  quelli  di  Terraferma  "  in 
certe  congiunture  „,  quelli  degli  Ordini,  i  Procuratori  "  ma  non  sempre  „ 
e  gli  Avogadori  "  i  quali  usano  anche  il  rosso,  e  talor  il  nero,  con 
istola  d'  altro  colore,  secondo  i  loro  istituti  „  e  finalmente  i  Capi  delle 
Quarantie.  Anche  "  i  Secretarj  tutti  vestono  di  color  nero  con  ma- 
niche a  corneo,  come  pure  gli  Avvocati,  i  Dottori  in  medicina,  i 
Notaj,  e  molti  di  coloro  eh'  esercitano  cariche  pubbliche  ne'  Magi- 
strati, ed  altri  „. 

63  Questo  mantello  è  il  famoso  tabarro  che  serviva  a  distinguere 
r  ordine  civile  dall'  ordine  nobile.  Ma  fin  dal  principio  del  Settecento 
qualche  nobile  per  comodità  o  per  bizzarria,  contraddicendo  alla 
legge,  lasciavasi  vedere  in  tabarro  scarlatto,  invece  di  portare  la 
vesta  o  toga  avita,  finché  negli  ultimi  tempi  l' uso  divenne  quasi 
generale.  -  Il  30  maggio  1736  il  famoso  fante  Beltrame  Ignazio  fece 
il  giro  di  tutte  le  54  botteghe  di  barbieri  "  d' acque  e  trucchi  „ 
eh'  erano  nel  sestiere  di  Castello,  e  intimò  loro  di  non  ricevere 
"  alcun  Patrizio  in  tabaro,  e  ciò  in  pena  della  vita  „.  Altra  visita 
agli  stessi  il  giorno  11  febbraio  '38:  "  che  non  ricevano  nelle  loro 
Botteghe  alcun  N.  H.  Patrizio  quando  non  sia  nel  suo  abito,  in  pena 
della  publica  indignazione  „  :  Riferte  cit.,  busta  683.  Anche  il  confi- 
dente Medri  spiava  nel  '53,  e  più  tardi,  i  patrizi  che  passavano  per  la 
Piazza  in  tabarro.  Ecco  qui,  per  esempio,  S.  E.  Carlo  Cavagnis  di 
S.  Maria  Formosa,  un  cattabrighe,  "  vestito  con  codegugno  turchino, 
tabarro  di  camelotto  scuro,  con  beretta  di  bombace  bianco  sotto  il 
cappello...  Passa  spessissime  volte  per  piazza  in  simile  vestito  con 
detta  beretta  bianca  in  testa,  e  con  la  pippa  in  bocca  „  riferta  16 
marzo  1757  {Inquis.  Stato  -  Riferte  dei  Confidenti,  busta  616  -  presso 


94 


LA   VENEZIA    DEI    VIAGGIATORI 


l'  Archivio  dei  Frari).  Era  il  tabarro  più  comune  della  vesta,  e  por- 
tavasi anche  d'  estate,  dice  De  Brosses  :  anzi  si  teneva  durante  le 
conversazioni.  "  On  porte  dessous  tout  ce  qu'  on  veut,  et  vous  ne 
trouverez  autre  chose  à  la  messe  ou  dans  la  place  que  des  gens  en 
pantoufles  et  en  robe  de  chambre  avec  leur   manteau  par-dessus  „. 

64  Espion  Chinois  cit.,  Ili,  118. 

65  Espion  Chinois,  II,  270. 

66  Voyage  d' Italie  cit.,  II,  98. 

67  Mémoires,  438.  -  Guglielmo  Beckdorf,  che  fu  la  prima  volta 
in  Italia  nel  1780,  crede  di  trovare  nella  irrequieta  attività  del  gen- 
tiluomo veneziano  1'  eccitazione  del  caffè  sui  nervi  rilassati  dall'orgia: 
ma  siamo  ormai  sulle  soglie  del  Romanticismo,  e  il  giovane  fanta- 
stico scrittore  vede  e  sogna  a  Venezia  le  immagini  dell'  Oriente  : 
Italy,  Spain  and  Portugal,  London,  1840  (  i.*  ed.  Salisbury,  1805), 
p.  58. 

68  Viaggi  per  V  Europa  di  Gemelli  Careri,  già  ricordati,  p.  32. 

69  Italia  Regnante,  parte  2.^,  p.  19. 

70  Histoire  du  Gouvernement  de  Venise,  ed.  cit.,  516-517. 

71  "  Je  dirai  seulement  par  forme  d' avis  pour  ceux  qui  ont 
interest  de  bien  connoìtre  ces  Républicains,  que  leur  silence  est 
fort  à  craindre  quand  on  les  a  ofensez,  veu  qu'  ils  sont  d' autant  plus 
irréconciliables  que  leur  colere  est  plus  cachée  ;  et  qu'  ils  ne  la 
cachent  que  pour  la  decharger  aprés  avec  plus  de  violence  „:  Hist. 
cit.,  522.  -  Proprio  il  contrario  dice  il  Baretti  che  li  conosceva  meglio  : 
"  Sono  eglino  per  carattere  di  cuore  così  tenero,  che  la  più  piccola 
espressione  d'  affetto  li  placa,  fa  loro  obbliare  ogni  animosità,  e  li 
fa  tosto  riconciliare  con  quelli  cui  prima  avevano  in  avversione.  Di 
queste  loro  qualità  si  scuoprono  molte  tracce  nel  loro  dialetto,  il 
quale  sembra  quasi  di  nuli'  altro  composto  che  di  cortesi  parole  e 
di  affettuosi  epiteti  „  :  Scritti  scelti  inediti  0  rari,  Milano,  1823,  voi.  II, 
p.  388  n.  (e  Gl'Italiani  cit.,  156). 

73  Histoire,  523  e  528. 

73  Histoire,  530  e  534. 

74  "  En  general  les  nobles  Vénitiens,  hommes  et  femmes,  ne 
sont  point  orgueilleux:  ils  savent  pourtant  faire  les  fìers  dans  le 
besoin:  ils  parlent  volontiers  à  tous  ceux  qui  ne  leur  font  point 
d'ombrage;  et  quoique  il  y  en  ait  dans  presque  tous  les  cafés,  on 
en  est  aussi  peu  gène,  que  s' ils  n'  étoient  que  des  étrangers  :  toute 
la  distinction  qu'  on  leur  fait,  e'  est  qu'  on  les  appelle  eccellente, 
quoiqu'  ils  soyent  en  habit  de  masque  „  :  Filati,  Voyages,  l,  182. 

75  Histoire,  539  e  541.  -  Sulla  pessima  educazione  de'  nobili 
veneziani,  sulla  debolezza  dei  genitori  verso  i  figli,  sui  pessimi  co- 
stumi esagera  non  meno  Saint-Didier:  1.  e,  p.  301  e  sgg.  Certo  il 
costume  è  migliore  nella  società  italiana  del  Settecento. 

76  Histoire,  545,  548  e  549. 


NEL   SETTECENTO  95 

77  Voyages^  23.  -  Sulla  mitezza  e  docilità  del  popolo  veneziano 
tutti  i  viaggiatori  sono  d'accordo.  Vedasi,  per  esempio,  Lalande: 
VII,  37. 

78  Voyage  d' Italie,  II,  to6  e  107. 

79  Métfioires,  449-458. 

80  "  ...  D'  après  ce  que  j' ai  vu  je  les  représenterois  comme  un 
peuple  vif,  enjoué,  spirituel,  passionné  des  divertissemens  et  des 
spectacles  publics,  avec  un  goùt  décide  pour  la  plaisanterie,  et  cepen- 
dant  plus  attaché  aux  jouissances  réelles  de  la  vie  qu'  à  celles  qui 
ne  sont  que  d'  ostentation,  et  qui  ne  flattent  que  la  vanite.  -  Le 
commun  peuple  de  Venise  fait  voir  des  qualités  qu'  on  trouve  rare- 
ment  chez  les  gens  de  son  espèce,  étant,  on  ne  peut  plus,  sobre  et 
serviable  envers  les  étrangers,  doux  et  honnéte  avec  ses  semblables  „  : 
Lettres  cit.,  III,  195-196. 

81  "  Il  me  paroìt  qu'  il  seroit  assez  difficile  d' établir  que  les 
Vénitiens  fussent  plus  adonnés  aux  plaisirs  sensuels  que  les  habitans 
de  Londres,  de  Paris  ou  de  Berlin  „,  ma  sia  per  la  tolleranza  del 
governo,  sia  per  il  concorso  dei  forestieri  due  volte  all'  anno,  sia 
per  r  uso  della  maschera,  "  on  croit  généralement  qu'  il  y  a  plus  de 
licence  et  de  débauché  ici  qu'  ailleurs.  J'  ai  eu  occasion  d'  observer 
que  cette  méthode  de  paroìtre  de  cette  fa^on,  en  donnant  l' idée 
d' intrigue  et  de  déguisement,  a  beaucoup  contribué  à  faire  croire 
que  les  Vénitiens  étoient  des  libertins  „  {Lettres,  III,  194-195):  ora 
r  autore  ci  ammonisce  a  stare  in  guardia  contro  le  fallaci  apparenze. 

8a  Lettres,  III,  196.  Ricordo  che  il  Moore  era  medico.  Il  Sharp, 
altro  medico,  osservò  pure  la  bella  statura  de'  Veneti,  indizio,  diceva 
il  Baretti,  di  vigoria  delle  membra:  GV Italiani,  "^6.  Così  pure  l'abate 
Richard:  "  Les  Vénitiens  sont  en  general  grands  et  bien  faits;  ils 
ont  la  physionomie  spirituelle  et  gaie  „  :  Mémoires,  II,  502.  Neppur 
fisicamente  erano  ancora  venuti  meno  i  Veneziani. 

83  Italienische  Reise:  Venedig,  den  7.  October  1786. 

84  Lettres,  164-165. 

85  Voyage  en  Italie,  VI,  430. 

86  Gr  Italiani,  159.  Si  badi  che  il  Baretti  non  ebbe  alcuna  fami- 
liarità con  la  classe  dei  nobili. 

87  Si  commuove  e  piange  la  plebe  veneziana,  dice  il  Baretti,  a 
veder  impiccare  un  ladro  o  un  assassino. 

88  Allude  all'  insegna  del  libraio  Bettinelli,  in  Merceria,  che 
stampò  le  prime  commedie  del  Goldoni  e  quelle  in  versi  del  Chiari 
e  le  opere  del  Metastasio  e  alcuni  famosi  romanzi  tradotti  dal  fran- 
cese. 

89  Scritti  scelti  cit.,  II,  387. 

9°  L.  Piccioni,  G.  Baretti  a  Venezia,  in  Fanfulla  della  domenica, 
28  ag.  1910  e  R.  Cessi,  G.  Baretti  contro  Venezia,  e.  s.,  26  apr.  1914.  - 
Il  Pilati  che  non  pecca  di  timidezza,  né  di  parzialità  pei  Veneziani, 


96  LA   VENEZIA    DEI    VIAGGIATORI 

mostrasi  più  equo  dicendo:  "  Il  y  a  parmi  les  nobles  Vénitiens 
quantité  de  personnes  éclairées  et  libres  de  tout  préjugé  :  ils  s'  ap- 
pliquent  indifféremment  à  toutes  les  sciences;  mais  celles  qu' ils 
cultivent  le  plus,  sont  les  belles-lettres,  1'  histoire  et  la  politique.  Il 
me  paroit  que  des  gens  destinés  au  gouvernement  ne  sauroient  pas 
choisir  de  sciences  plus  utiles  „  :  I,  83. 
91  Gr  Italiani,  150. 


cO 


UN   ROMANZO    SATIRICO    A   VENEZIA 
SULLA  METÀ  DEL  SETTECENTO 


G.  Ortolani. 


Sulla  fine  del  Seicento  vien  meno,  quasi  improvvisamente, 
il  romanzo  che  impazziva  in  Italia  da  tanto  tempo:  le  Eromene 
le  Stratoniche  le  Dianee  le  Floridee  le  Tigrinde  le  Rosalinde 
le  Armelinde  le  Leonilde  le  Solinaure  le  Amatunte  non  osano 
affacciarsi  sulla  soglia  del  nuovo  secolo  e  dileguano  come  smar- 
rite. Tuttavia  continuò  a  stamparsi  per  tutto  il  Settecento  il 
famosissimo  Calloandro  di  Giovanni  Ambrogio  Marini,  e  nei 
primi  decenni  troviamo,  vestito  a  nuovo,  qualche  vecchio  ro- 
manzo del  Lupis  del  Leti  del  Corbelli  del  Muti  del  Mioni,  e 
nel  'i8  un  Andrea  Genutio,  gentiluomo  napolitano,  osa  ricom- 
parire a  Venezia  con  gli  amori  del  Re  Diosino^  raccontati  per 
milleduecento  pagine,  e  ancora  nel  '40  si  osano  ristampare  nella 
città  del  Goldoni  ben  dieci  volumi  deW  Artamene  ovvero  Ciro 
il  grande  del  signor  di  Scudéry,  nella  versione  del  Bisaccioni. 
Ma  insomma  si  può  senza  tema  affermare  che  nella  prima  metà 
del  Settecento,  mentre  cresce  in  modo  meraviglioso  e  trionfa 
oltre  r  Alpi,  in  Italia  il  romanzo  tace.  A  spiegarci  il  curioso 
fenomeno  bisogna  por  mente  al  discredito  in  cui,  al  sorgere 
dell'Arcadia  con  rinnovato  spirito  classico,  caddero  i  romanzi 
eroico-galanti,  espressione  pura  del  secentismo  ^  e  peste  del 
secolo.  Il  romanzo  poi  cosidetto  realistico  non  aveva  germo- 
gliato fra  noi,  sia  perchè  la  fortuna  non  lo  volesse,  sia  perchè 
gli  elementi  in  esso  contenuti,  e  in  ispecie  la  satira,  avessero 
trovato  altri  generi  letterari  dove  fondersi,  cioè  gli  Avvisi  di 
Parnaso  e  i  Ragguagli,  in  prosa,  e  il  poema  eroicomico,  in 
verso.  Il  poema  eroicomico  e  giocoso,  più  o  meno  dilungatosi 
dal  Tassoni  e  dal  Bracciolini,  conservò  nel  secolo  nuovo  gran- 
dissimo favore  e  durò  fino  all'  Ottocento  ;  anche  per  questo  che 
in  Italia,  presso  i  letterati,  la  poesia  era  considerata  da  più 
assai  della  prosa  e  meglio  adatta  alla  nobiltà  dei  componimenti 


lOO  UN    ROMANZO    SATIRICO    A   VENEZIA 

drammatici  e  narrativi.  Certo  la  corruzione  dovette  apparire 
nella  prosa  del  Seicento  anche  più  profonda  che  nella  poesia; 
e  troppo  difficile  riusciva  nel  Settecento  il  racconto  in  prosa  a 
chi  per  avventura  non  fosse  nato  sulle  rive  dell'Arno. 

Ricordiamo  come  il  Brusoni  a  Venezia  avesse  tentato  invano 
di  creare  il  romanzo  di  costume,  che  nel  secolo  decimosettimo^ 
decadute  e  spente  le  splendide  corti  del  Rinascimento,  si  oscu- 
rarono nella  nostra  penisola  i  gentili  sensi  cavallereschi,  i  modi 
fini  ed  eleganti,  V  eccellenza  del  dire,  la  coltura  degli  animi  e 
delle  menti,  l'arte  insomma  del  vivere  sociale,  come  avvertivano 
gli  stranieri  scendendo  fra  noi,  sì  che  nemmeno  nel  romanzo^ 
eroico  poterono  recare  i  nostri  quel  sottile  profumo  che  spira 
nella  pastorale  del  D'  Urfé,  quella  ricercatezza  aristocratica,  pj'e- 
ziosa,  che  dalle  sale  della  marchesa  di  Rambouillet  si  riflette 
quasi  in  lucido  specchio  nel  Gran  Ciro  e  nella  Clelia:  e  vi 
lasciarono  soltanto  l' aridità  e  la  falsità  delle  proprie  anime. 
Pensiamo  che  nel  1699  usciva  in  Francia  il  Telemaco,  nel  1704 
entrava  in  gara  l' Inghilterra  col  Racconto  di  una  tinozza  di 
Swift,  nel  1707  Le  Sage  stampava  il  Diavolo  zoppo  e  nel  1715 
i  primi  libri  di  Gii  Blas,  nel  '13  Hamilton  pubblicava  le  Memorie 
del  conte  di  Grammont,  nel  '19  nasce  Robinson,  nel  '26  Gulliver^ 
V  anno  dopo  Prévost  comincia  a  stampare  le  Memorie  e  avven- 
ture d'un  nobile  che  si  è  ritirato  dal  mondo,  nel  '3i.Marivaux 
la  Vita  di  Marianna,  nel  '32  vediamo  sorgere  il  Cleveland,  pure 
di  Prévost,  nel  '33  appare  la  fatale  Manon,  nel  '40  le  anime 
tenere  piangono  già  sulle  lettere  di  Pamela  del  Richardson,, 
nel  '42  si  ride  sulle  avventure  di  Giuseppe  Andrews  del 
Fielding,  nel  '45  Crébillon  figlio  fa  scandalizzare  qualche 
pudico  lettore  col  suo  Sofà,  e  nel  '47  Voltaire  qualche  lettore 
timorato  col  suo  Zadig,  mentre  nello  stesso  anno  le  gentili 
lettrici  cominciano  a  commuoversi  per  la  Clarissa,  pur  sorri- 
dendo due  anni  dopo  a  Tom  Jones.  Gli  scrittori  italiani  guar- 
davano in  silenzio,  stupiti  in  cuor  loro,  più  che  non  volessero 
confessare,  di  tanta  vivacità,  di  tanta  facilità  di  creazione, 
di  tanta  violenza  di  satira,  di  tanto  spirito  spontaneo,  di 
tanta  naturalezza  di  sentimento  e  di  stile,  di  tanta  efficacia  di 
linguaggio;  e  quantunque  avessero  ormai  rigettato  tra  i  rifiuti 
del  Seicento  le  metafore  più  contorte  e  i  fronzoli  più  tristi 
della  rettorica,  si  sentivano  ancora  troppo  impacciati  a  scegliere 
tra  r  italiano  dimesso  e  dialettale  che  usavano  parlando  e 
quello    accademico   scolastico    appreso   sui    libri,   e   con    malin- 


SULLA    METÀ    DEL    SETTECENTO  IO! 

conico   rimpianto    ripensavano    ai    poemi    gloriosi   del  quattro  e 
del  cinquecento. 

Ciò  dunque  accadeva  presso  i  letterati  di  maggiore  e  di 
minor  coltura:  ma  c'era  altra  gente  a  cui  bisognava  badare, 
ossia  un  pubblico  non  molto  numeroso,  ma  sempre  crescente, 
di  semplici  lettori,  composto  per  la  massima  parte  di  signore  e 
di  galanti,  e  in  minima  parte  di  povera  borghesia  o  di  popolo 
che  sapea  d*  alfabeto  e  paventava  la  vista  dei  poemi,  sia  pur 
facetissimi.  A  costoro  pensavano  i  librai  non  solo  provvedendo 
le  botteghe  loro  de'  romanzi  originali  francesi,  oppure  voltati 
d'  altra  lingua  in  francese,  ma  prezzolando  eziandio  oscuri  tra- 
duttori e  rifacitori,  i  quali  nel  piìi  sgrammaticato  e  imbastardito 
linguaggio  italiano  deformavano  per  lo  più  e  sconciavano  gli 
originali  e  le  versioni  francesi.  Di  romanzi  stranieri  Venezia 
diventò  addirittura  un'  officina  o  un  magazzino,  come  nel  Sei- 
cento e  più  ancora,  talché  gli  autori  e  le  opere  di  cui  feci  men- 
zione v'  erano  quasi  tutti  noti  e  familiari  insieme  con  moltissimi 
più  oscuri,  sebbene  comparissero  talora  sotto  veste  anonima  o 
anche  finta.  Ecco  perchè  non  si  avvertiva  in  Italia  un  acuto 
bisogno  di  romanzi  indigeni:  che  poi  dovessero  un  dì  o  l'altro 
ripullulare  e  inondare  era  naturalissimo  e  fatalissimo,  anzi  l'in- 
dugio riuscì  soverchio;  e  fu  quasi  legge  che  ciò  accadesse  a 
Venezia  dove  era  nato,  si  può  dire,  il  romanzo  vero  e  proprio 
nel  Seicento.  Il  merito,  se  possiamo  così  chiamarlo,  fu  dell'abate 
Chiari  da  Brescia'»,  dell'infelicissimo  rivale  di  Carlo  Goldoni, 
•che  nel  1753  lanciò  di  colpo  fra  il  pubblico  veneziano  ben  tre 
volumi  d' una  sua  Filosofessa  Italiana,  e  subito  dopo,  senza 
tregua,  due  altri  della  Ballerina  onorata,  due  della  Cantatrice 
per  disgrazia,  due  della  Commediante  in  fortuna,  e  non  so  poi 
quanti  finché  non  lo  arrestò  la  morte.  Tuttavia  qualche  tentativo 
non  mancò  prima  del  Chiari,  sebbene  timido  e  isolato,  con 
questa  differenza,  che  gli  autori  dal  rimaneggiare  1'  opera  altrui 
passarono  a  volerla  continuare,  o  apertamente  si  fecero  imitatori 
di  un  modello  straniero,  seguendo  orme  sicure.  Men  conosciuto 
forse  del  canonico  bolognese  Giulio  Monti  che  proseguì  l'istoria 
di  Gii  Blas,  ma  assai  più  degno  di  ricordo,  ci  si  presenta  l'abate 
Zaccaria  Sceriman,  nato  a  Venezia  nel  1708  di  nobilissima  fa- 
miglia armena  3,  il  quale  diede  a  stampare  nel  '48  e  pubblicò 
nel  '49  in  due  tomi,  con  figure  in  rame  di  Giorgio  Fossati,  i 
Viaggi  di  Enrico  Wanton  alle  terre  incognite  Australi  ed  al 
Paese  delle  Scimie,  finta  versione  dall'  inglese  4.  Il  favore  onde 


I02  UN    ROMANZO    SATIRICO    A    VENEZIA 

venne  accolta  questa  libera  imitazione  nella  Serenissima  e  fuori, 
ci  dimostrano  le  molte  edizioni,  anche  nell'Ottocento,  e  qualche 
traduzione.  Ecco  pertanto  le  linee  generali  del  racconto: 

-  Enrico  Wanton  nasce  a  Londra  di  nobiU  genitori,  ma  il 
padre  malamente  opponendosi  alle  inclinazioni  del  figlio,  avida 
d'apprendere  le  scienze,  lo  considera  come  un  ribelle;  sì  che 
un  dì  Enrico  fugge  di  casa,  e  con  poco  denaro  si  imbarca  alla 
volta  delle  Indie  Orientali.  Dopo  il  capo  di  Buona  Speranza 
una  fiera  burrasca  fa  naufragare  e  perire  V  equipaggio,  mentre 
Enrico,  rimasto  fino  all'ultimo  sulla  nave,  salvasi  col  mezzo  di 
uno  schifo  in  un'  isola  sconosciuta  delle  Terre  Australi.  -  Egli 
è  dunque  della  famiglia  di  Gulliver  e  fratello  di  Robinson,  per 
tacere  di  altri  minori  congiunti  5.  -  Ma  Enrico  non  è  solo:  fin 
da  quando,  vedendo  lontanare  le  coste  della  sua  patria,  era 
scoppiato  in  pianti,  un  giovane  di  ventiquattro  anni,  per  nome 
Roberto,  a  bordo  dello  stesso  vascello,  eraglisi  avvicinato  a 
confortarlo  e,  stretta  con  lui  fraterna  amicizia,  non  s'  era  mai 
più  distaccato  dal  suo  fianco.  -  Ha  costui  certa  rassomiglianza 
col  Mentore  di  Telemaco  (per  non  dire  col  Virgilio  di  Dante), 
perchè  serve  poi  di  guida  all'  inesjJerto  amico,  dotto  essendo  in 
ogni  scienza  e  peritissimo  degli  usi  della  vita,  non  che  dei  se- 
greti dell'animo  umano  e  della  società;  egli  educa  e  istruisce 
Enrico,  il  quale  nutre  per  lui  sincera  devozione,  gli  parla  della 
Provvidenza  divina  col  fervore  medesimo  onde  la  invocava 
r  infelice  Crusoe,  gli  tiene  di  continuo  filosofici  ragionamenti. 
-  1  due  giovani  hanno  seco  le  armi,  alcuni  libri,  alcuni  stru- 
menti scientifici  e  poche  vettovaglie:  riparano  in  una  caverna, 
la  rendono  abitabile,  vivono  di  pesca  e  occupano  l'ozio,  com'è 
giusto  nell'  età  di  Linneo  e  di  Swammerdam,  classificando  piante 
esotiche  e  insetti.  Dopo  qualche  mese,  valicando  una  catena  di 
monti  che  chiude  a  loro  il  mezzogiorno,  scendono  in  una  va- 
stissima pianura  tutta  sparsa  di  città  e  giungono  per  un'amena 
campagna  alla  prima  abitazione,  ma  oh  sorpresa!,  non  uomini, 
bensì  ai  loro  sguardi  si  offrono  deformi  scimmioni  in  veste 
europea.  L'accoglienza  non  riesce  gran  fatto  lieta:  que'  rozzi 
abitanti  del  contado,  spaventati,  scambiano  i  due  viaggiatori  per 
bestie  e  li  legano  nella  stalla  in  compagnia  d'  un  cavallo,  due 
vacche,  un  becco,  un  cane.  -  Par  di  rileggere  Apuleio!  -  For- 
tunatamente una  giovane  scimmia  detta  Oliva  (  poiché  quello 
strano  popolo  sceglieva  i  nomi  dal  regno  vegetale),  invaghitasi 
d'  Enrico,  insegna  il  linguaggio  scimmiesco  ai  due  prigionieri  e 


SULLA  METÀ  DEL  SETTECENTO  I03 

li  consola.  A  Enrico  poi  non  mancano  gli  ammaestramenti  di 
Roberto  e  ha  inoltre  la  fortuna  di  poter  compiere  la  propria 
istruzione  filosofica  per  mezzo  dei  Saggi  di  Montaigne,  salvati 
dal  naufragio  insieme  con  le  pistole,  con  la  spada  e  con  gì'  istru- 
menti  dell*  amico.  -  Il  Settecento  e'  è  tutt'  intero  ! 

-  I  due  miseri  sono  offerti  in  dono  a  una  nobildonna  della 
città,  la  quale  vuol  visitarli,  ma  ne  ha  schifo;  sarebbero  quindi 
condannati  a  morire  come  inutili  e  nauseabondi,  se  non  si  deci- 
dessero a  porre  mano  al  fulmine,  cioè  a  una  pistola  ^,  con  cui 
uccidono  uno  scimmione,  e  a  usare  alfine  V  appreso  linguaggio. 
Eccoli  diventati  oggetto  della  curiosità  generale  e  degni  di  ri- 
spetto. Certo  signor  scimio  per  nome  Faggio,  ambisce  1'  onore 
di  condurli  con  sé  e  di  ospitarli  in  una  sua  villa,  presso  madama 
Spina  e  la  figlia  Lattuca.  Delle  quali  ci  è  dato  così  di  godere 
il  ritratto  fisico  e  morale,  e  di  assistere  alle  occupazioni  quoti- 
diane. Dalla  villa  passiamo  in  città:  descrizioni  osservazioni 
racconti  si  inseguono  e  si  moltiplicano.  Il  nostro  Wanton,  giunto 
al  sommo  della  fortuna,  può  gettar  V  occhio  tranquillamente 
sulle  varie  parti  della  società  scimmiesca;  né  poco  gli  giovano 
a  una  più  ampia  conoscenza  del  vivere  le  molte  conversazioni, 
gli  amici,  gli  accidenti  amorosi  e  gli  altrui  racconti,  come  per 
esempio  le  avventure  del  primo  ministro  nei  regni  degli  zoppi 
e  dei  mutoli,  dei  pappagalli  e  delle  rane:  fatto  così  esperto  e 
contento,  dimentica  le  antiche  disgrazie,  quando  improvvisamente 
altri  impensati  colpi  gli  prepara  il  destino  che  pur  dovrà  in 
fine,  dopo  le  più  strane  vicende,  restituirlo  alla  patria.  - 

Fénelon  Defoe  Swift,  tre  autori  ammirati  e  letti  nel  Sette- 
cento ^  anche  da  coloro  che  sdegnavano  l' arte  del  romanzo, 
suggerirono  a  Zaccaria  Sceriman  qualche  parte  dell'invenzione, 
ma  r  ultimo  gli  porse  l' idea  principale  e  lo  può  annoverare 
nella  ricca  schiera  de'  suoi  imitatori:  tra  i  quali  ha  per  noi 
speciale  importanza  l' abate  francese  Desfontaines,  perché  nel 
Nuovo  Gulliver  ^  riconosciamo  il  fratello  primogenito  di  Enrico 
Wanton.  Che  poi  il  Sceriman  ci  introducesse  nel  regno  delle 
scimmie  e  più  tardi  dei  cinocefali,  non  ci  sorprende  9:  questo 
mondo  animale  e  quella  insistenza  del  meraviglioso  erano  cose 
generalissime  nel  Settecento,  soprattutto  ne'  primi  decenni  : 
apologhi,  leggende  popolari,  racconti  orientali  in  prosa  e  in 
verso  furoreggiavano  talmente  che  il  fenomeno  ci  richiama,  sia 
pure  con  un  sorriso,  agli  albori  delle  letterature  medievali,  come 
se  un'  arte  novella  ci  fosse  annunziata.  Quale  scrittore  non  era 


I04  UN   ROMANZO    SATIRICO    A    VENEZIA 

tentato  di  studiare  Esopo  e  Luciano,  d' imitare  La  Fontaine  e 
Perrault,  Galland  e  Hamilton,  se  il  pubblico  incipriato  e  ma- 
scherato, infantilmente  curioso,  si  mostrava  avido  di  favole  e 
godeva  immergersi  nei  sogni  delle  Mille  e  ima  nottel  Dalla 
Francia  specialmente  passò  cotesta  moda  in  Italia,  dove  più 
tardi  essendosi  diffusa,  più  a  lungo  durò.  Non  a  caso  ho  nomi- 
nato Luciano.  Neil'  antichità  greca,  come  press'  a  poco  nell'  evo 
moderno,  a  due  materie  principali  attinse  nutrimento  il  romanzo 
e  con  esse  talora  desiderò  di  confondersi,  alla  storia  e  alla 
geografia:  onde  si  formò  una  doppia  serie  di  narrazioni  favo- 
lose. Fra  tutte  le  descrizioni  di  paesi  e  di  viaggi  immaginari, 
prima  e  dopo  della  impresa  d'Alessandro  ^°,  convien  nominare 
la  celebre  Storia  veridica  dello  scrittore  greco  prediletto  al 
Settecento,  non  solo  perchè  offre  l' elemento  fantastico  misto  col 
satirico,  ma  perchè  ci  racconta  delle  isole  abitate  dagli  Ippogipi 
e  dagli  Ippomurmechi,  antenati  senza  dubbio  degli  Houyhnhnms 
di  Swift  ". 

Del  resto  povera  cosa  è  la  finzione  dell'  abate  Sceriman  e 
più  non  e'  importa,  mentre  ci  attrae  il  contenuto  satirico.  Fin 
dall'  introduzione  1'  autore  ci  mostra  l' umor  suo  poco  lieto  :  "  La 
maggiore  verità  „  dice  "  che  ho  appresa,  si  è  quella  che  dal 
Mondo  sembrano  affatto  sbandite  la  ragione  e  la  verità,  e  che 
di  questi  lumi  celesti  hanno  preso  luogo  la  falsità  e  la  strava- 
ganza „.  Biasima  nelle  prime  pagine  del  suo  racconto  l'errore 
dell'  educazione  paterna,  che  consiste  nel  tiranneggiare  di  pro- 
posito i  figli,  senza  curarsi  di  studiarne  e  dirigerne  le  tendenze 
naturali.  Si  rimpiangono  poi,  con  illusione  cara  al  Settecento,  i 
tempi  primitivi  dell'  umanità,  quando  i  costumi  semplici  e  puri 
non  erano  stati  guasti  da  una  civiltà  corruttrice,  e  si  loda  la 
vita  rustica  contro  l'artificiosa  vita  delle  città:  ciò  che  tante 
volte  ci  tocca  udire  molto  prima  di  Rousseau  ".  Troviamo  con- 
tro le  donne,  nel  secolo  frivolo,  un  sentimento  ostile,  quasi  di 
rancore.  Ma  lo  scrittore  diventa  di  mano  in  mano  più  ardito 
mentre  procede,  e  la  sua  satira,  spesso  ingenua,  piacevole  sem- 
pre per  sincerità  e  coraggio,  involge  tutto  il  costume,  tutta  la 
società  del  Settecento,  e  cerca  di  scoprire  il  cuore  malato  di 
Venezia.  Quella  critica  del  costume  veneziano  che  1*  avvocato 
Giuseppe  Antonio  Costantini,  ossia  il  Pupieni^  aveva  fino  allora 
disseminato  nei  primi  sei  tomi  delle  sue  rozze  Lettere  '3,  rac- 
coglie il  nostro  abate  nel  romanzo.  Wanton  assiste  alla  toletta 
della  dama,  alle  sentenze  vanitose  dei   fisici  e  filosofi,  alle  con- 


SULLA  METÀ  DEL  SETTECENTO  IO5 

tese  ciarlatane  dei  medici,  alle  chiacchiere  dei  novellisti  ignoranti, 
alle  arringhe  cavillose  degli  avvocati,  alle  pompe  dei  funerali, 
alle  brighe  di  chi  vuol  ottenere  un  posto,  alle  ipocrisie  di  chi 
vuol  carpire  una  eredità,  ai  contratti  di  matrimonio:  passa  dal 
teatro  d'  opera  al  teatro  di  commedia,  dalla  bottega  di  caffè  alla 
bottega  del  parrucchiere,  dalla  sala  da  gioco  alla  sala  da  ballo; 
si  ferma  nel  gabinetto  del  ministro  a  osservare  i  supplicanti, 
nelle  anticamere  i  cortigiani;  via  via  fa  sfilare  i  ritratti  morali 
e  sociali:  il  servente^  l'avventuriere,  il  pedante,  l'impresario,  il 
maestro  di  ballo,  le  donne  civette,  gli  adulatori,  il  seccatore,  il 
giovine  alla  moda,  il  vecchio  osceno,  1'  orator  sacro,  lo  scrittore 
petulante  ;  e  li  accompagna  col  riso  e  con  la  censura  m. 

Qualche  volta  ama  l' ironia  nella  quale  sarà  poi  sommo  il 
Parini.  Fermiamoci  ad  ascoltare  la  lezione  di  una  madre  alla 
figha  in  attesa  di  marito:  "  Quando  entrerai  nel  mondo  me- 
diante il  legame  del  matrimonio,  si  muterà  interamente  per  te 
la  scena...  Alla  tua  prima  comparsa  mille  giovani  nobili  ti  pale- 
seranno la  stima  loro,  che  nel  linguaggio  della  nobiltà  significa 
amore:  ti  esibiranno  il  loro  servigio,  e  col  tempo  saprai  qual 
senso  abbia  questo  servigio  :  1'  uso  ti  obbligherà  a  scieglierne 
uno;  ma  guardati  di  secondare  in  tal  passo  le  tue  inclinazioni, 
poiché,  ciò  facendo,  saresti  perduta  per  sempre...  Guardi  il 
Cielo  che  a  me  fosse  toccata  la  disgrazia  d' essere  madre  d'una 
dama  imprudente,  imperocché  in  tutto  questo  maneggio  non  si 
tratta  che  del  modo,  non  mai  delle  azioni.  Ti  converrà  dunque 
sciegliere  o  il  più  ricco  o  il  più  nobile  o  il  più  possente  de' 
concorrenti...  Pensa  che  accettandolo  non  si  tratta  di  dargli  il 
cuore,  altrimenti  saresti  irreparabilmente  perduta:  devi  sempre 
vivere  seco  lui  così  che  tu  possa  darti  a  un  migliore,  quando 
la  sorte  te  lo  presenti:  ecco  il  primo  punto.  La  tua  casa  debbe 
essere  quella  che  solamente  t'  accolga  nell'  ore  del  riposo  e  del 
cibo;  per  altro  una  dama  di  spirito  non  può  aver  ore  da  trat- 
tenersi nella  propria  casa.  Le  visite,  il  giuoco,  il  passeggio,  le 
danze,  i  teatri,  le  veglie  esigono  troppo  tempo  per  permetterci 
ad  avvilirci  nella  compagnia  delle  damigelle.  Marciscano  fra  le 
mura  domestiche  quelle  infelici  femmine  le  quali  hanno  sortito 
uno  spirito  basso  e  melanconico,  oppure  coloro  che  l'età  obbliga 
ad  un  ritiro  sforzato  per  non  essere  nelle  nobili  adunanze  l' ob- 
brobrio e  lo  scherno  universale  „. 

Un'  altra  madre  dice  a  Wanton  in  occasione  delle  nozze 
della  propria  figlia:  "  Voi  avete  l'idee  assai  volgari;  mia  figlia 


Io6  UN    ROMANZO    SATIRICO    A   VENEZIA 

è  una  gran  Dama...;  io  sono  una  madre  che  sa  tutte  le  leggi 
del  decoro.  Fra  noi  è  escluso  qualunque  amore  preventivo 
air  impegno  del  matrimonio;  e  se  si  risapesse  che  una  nobile 
donzella  fosse  invischiata  in  qualche  amorino,  oltre  il  disonore 
di  tutta  la  sua  famiglia,  sarebbe  disperata  la  sua  collocazione. 
Le  femmine  del  comune  amano  a  loro  talento,  e  scelgono  se- 
condo il  genio  lo  sposo,  e  questo  la  sposa;  ed  è  ben  giusto, 
mentre  esse  portano  in  dote  la  tenerezza  per  difetto  di  sostanze, 
ed  egli  le  pasce  d' amore,  giacché  non  ha  mezzo  migliore  di 
nutrirle.  Le  nostre  donzelle  non  vedono  lo  sposo,  né  sanno  di 
quali  grazie  sia  ornato,  di  quale  spirito,  di  quali  virtù,  antici- 
patamente alla  fede  che  gli  promettono,  né  questo  gode  privi- 
legio più  vantaggioso.  Li  genitori  secondo  le  loro  mire  contrag- 
gono gì'  impegni  :  a'  quali  le  due  parti  principali  si  sottomettono 
senz'altro  esame.  -  Io  restai  molto  meravigliato  (racconta 
Wanton)  d'  un  costume  senza  ragione,  essendomi  sempre  figu- 
rato il  matrimonio  come  un'  unione  di  cuori,  d' interessi,  di 
genio  e  d'  amore  „. 

Ed  ecco  il  discorso  d*  un  padre  al  futuro  precettore  del  suo 
figliuolo:  "  lo  non  voglio  scienze,  non  le  ho  studiate,  non 
r  hanno  apprese  né  mio  padre,  né  mio  avo,  né  mio  bisavo,  né 
alcuno  de'  miei  antenati...  Voi  dovete  dunque  insegnare  la  lingua 
antica  a  mio  figlio,  ed  in  questo  studio  impiegherete  tre  ore  la 
mattina  e  due  il  dopo  pranzo.  Sarete  sempre  con  lui,  l'accom- 
pagnerete alle  visite  ed  al  passeggio  ;  e  nell'  ore  di  ritiro  gli 
suggerirete  le  massime  di  cavalleria,  d'insinuerete  eh' è  nato 
per  essere  superiore  agli  altri  Scimii;  che  non  deve  soffrir  torti 
da'  suoi  uguali,  che  si  farà  rispettare  quando  si  abbia  timore 
di  lui...  Per  tale  fatica  avrete  gli  alimenti  alla  tavola  de*  miei 
servi;  e  se  avete  qualche  pretesa  di  salario,  parlate  pure  con 
libertà  „. 

Come  l'abate  di  Bosisio,  con  sentimento  nuovo  nella  lette- 
ratura, perchè  il  Settecento  è  buono,  mostra  certa  simpatia  per 
gli  umili.  La  plebe  è  insolente  talora,  i  servi  talora  sfacciati, 
gli  artigiani  disonesti,  ma  V  abate  Sceriman  ha  una  parola  di 
commiserazione  per  coloro  che  stanno  in  basso,  per  il  mereiaio 
e  il  bottegaio  che  ricevono  insulti  in  luogo  di  denari  dai  no- 
bili prepotenti,  per  l' operaio  costretto  a  implorar  protezioni, 
per  il  servo  maltrattato,  per  il  contadino.  Madama  Spina  può 
ben  dire  delle  sue  damigelle:  "  Noi  che  discendiamo  per  gene- 
razioni di  più  secoli  da  un  sangue  che  per  la  prima  volta  colò 


SULLA  METÀ  DEL  SETTECENTO  IO7 

dalle  vene  d'  Eroi,  siamo  per  lo  più  troppo  vili,  abbassandoci 
a  costoro  che  dopo  aver  avuto  1'  onore  d'  esser  tollerati,  hanno 
la  baldanza  di  deporre  parte  di  quella  sommissione  che  e'  è 
dovuta  „  ;  e  il  ministro  del  re  può  ben  affermare  :  "  Le  persone 
di  stato  medio  ed  infimo  sono  nate  nel  mondo  per  corteggiare 
i  miei  pari  ;  e  devono  chiamarsi  fortunate,  se  dopo  essersi  pre- 
sentate più  volte  air  udienza,  ricevono  in  fine  V  onore  d'  essere 
ammesse  „  :  V  animo  dello  scrittore  è  altrove,  non  coi  ricchi  e 
coi  potenti,  ma  con  la  semplice  gente  di  campagna  che,  pur  nel 
dispregio  in  cui  vive,  conosce  la  bontà  e  gli  affetti,  e  ha  lacrime 
di  gratitudine  ^5. 

Coi  suoi  contemporanei  non  è  pietoso  l' abate  Sceriman. 
Egli  deride  le  conversazioni,  le  cerimonie,  i  cagnolini,  i  nei,  la 
cipria,  i  guardinfatiti,  il  busto,  la  maschera,  1'  uso  del  caffè  e 
del  gelato,  le  raccolte  per  nozze  :  sferza  il  lusso  il  gioco  il  ballo, 
la  smania  del  teatro,  i  capricci  della  moda,  le  mode  straniere. 
Né  è  pietoso  coi  suoi  concittadini  :  nelle  donne  scorge  leggerezza, 
nei  giovani  falsa  educazione,  nei  nobili  dissolutezza  e  poco 
onore,  nell'  intero  popolo  una  femminile  curiosità,  V  amore 
air  ozio  o  alle  arti  inutili,  la  folha  del  piacere.  Ma  spingiamoci 
anche  noi  tra  la  folla  a  godere  il  carnevale  nella  piazza  di 
Scimiopoli:  "  La  Piazza,  eh' è  magnifica  e  grande,  era  ripiena 
di  popolo.  Non  perdei  tempo  in  esaminare  le  stravaganze  della 
plebe  non  meritando  gli  riflessi  d' un  forestiero  il  cumulo  di 
sciocchezze  che  praticar  suole,  credendo  distinguersi  con  spiri- 
tose invenzioni.  Pregai  il  signor  Tulipano  a  condurmi  al  luogo 
dove  si  raduna  il  mondo  nobile,  credendo  gustare  il  diletto  o 
della  vista,  o  della  conversazione,  o  del  passeggio.  Ma  contro 
ogni  mio  credere  non  trovai  che  confusione,  urti  e  difficoltà  di 
respirare.  Si  forma  certa  strada  da  due  file  di  sedie  disposte 
r  une  contro  V  altre,  che  lasciano  nel  mezzo  tanto  spazio  di 
terreno,  quanto  ne  occuperebbero  otto  o  dieci  persone  di  fronte. 
Le  femmine,  che  suppongono  incantar  li  passaggeri  o  colla  ric- 
chezza de'  loro  vestiti,  o  con  qualche  altro  allettamento  capace 
di  dar  pascolo  '^  agli  occhi,  si  pongono  a  sedere  sopra  le  sedie 
mentovate,  avendo  cadauna  al  fianco  il  servente.  Sarebbe  cosa 
disdicevole  che  il  marito  si  vedesse  in  pubblico  vicino  alla 
moglie.  Lo  spazio  intermedio  si  empie  di  maschere  talmente, 
che  è  quasi  impossibile  il  camminare  senza  pericolo  di  soffo- 
cazione. Il  fine  delle  femmine  riesce  affatto  frustraneo,  non  per. 
mettendo   la   calca   il    fermarsi,   né    per  ammirare   la  bellezza  e 


Io8  UN    ROMANZO    SATIRICO    A    VENEZIA 

valore  delle  stoffe  che  le  coprono,  né  quelle  grazie  colle  quali 
presumono  incantare  chi  ha  il  coraggio  di  fissar  le  luci  sopra 
di  loro,  lo  non  poteva  più  continuare  in  quello  stato  di  violenza. 
Chi  mi  dava  una  spinta  che  mi  avrebbe  senza  dubbio  gettato  a 
terra  senza  il  sostegno  de'  vicini,  eh'  io  pure  necessariamente 
dovevo  spingere,  e  che  mi  regalavano  dei  titoli  di  bestia  e  di 
asino;  chi  mi  premeva  un  piede,  facendomi  provare  eccessivo 
dolore;  chi  si  lamentava  di  me,  perchè  non  potevo  proseguire 
il  mio  cammino,  impedito  da  quantità  di  persone  che  non  ero 
in  diritto  d' obbhgare  a  cedermi  il  passo.  Un'  aria  freddissima 
piombava  sopra  il  mio  capo,  ed  intanto  avevo  la  camicia  tutta 
molle  di  sudore;  e  già  cominciavo  a  temere  d'incontrare  in 
quel  delizioso  passeggio  una  febbre  maligna.  Non  ostante  tanti 
incommodi,  gh  abitanti  di  Scimiopoli  impazziscono  per  quel 
divertimento,  che  considerano  come  uno  delli  più  amabili  che 
possano  mai  godere  „. 

La  Scimiopoli  dello  Sceriman  ricorda  la  Cosmopoli  che  il 
Costantini  ci  descrive  nella  lettera  intitolata  per  V  appunto  // 
carnovale,  ricorda  la  Parigi  di  Carlo  Gozzi  nella  Marfisa  biz- 
zarra, ne'  tempi  di  Carlomagno  vecchio  e  rimbambito:  è  sempre 
la  visione  di  Venezia  nel  Settecento,  attraverso  la  critica,  la 
satira  e  la  caricatura  '7.  La  descrizione  poi  della  Piazza,  cioè 
del  notissimo  liston,  la  ritroveremo  più  tardi  in  certo  sogno 
allegorico  di  Gasparo  Gozzi,  amico  dello  Sceriman,  ntW  Osser- 
vatore-. "  ...  In  un  altro  luogo  stavansi  quasi  innumerabili  uomini 
e  donne  a  sedere  sopra  due  liste  di  sedie  che  lasciavano  nel 
mezzo  aperta  una  via,  per  la  quale  passeggiavano  in  due  file, 
r  una  che  andava  e  1'  altra  che  veniva,  altre  centinaia  di  per- 
sone che  guardavano  quelle  a  sedere,  mentre  che  quelle  che 
stavano  a  sedere  miravano  quelle  che  passeggiavano  senza  altra 
faccenda.  Udivansi  intorno  sonare  strumenti  di  varie  sorti,  voci 
che  andavano  al  cielo,  un  romore  che  assordava  „.  E  il  conte 
Carlo  : 

Un  dì  di  Carnoval   era,  e  la  pressa 
De'  Cavalieri  e  Paladini  è  grande, 
Per  gir  nella  Ruet  dopo  la  niessa, 
Ch'  è  una  via  in  piazza,  chiusa  dalle  bande 
Da'  sedili  di  paglia,  ov'  è  il  sol,  messa. 
Qui  facean  le  sentenze  memorande, 
Al  passar  delle  spose,  dell'  imbusto. 
De'  drappi,  delle  anella  e  del  buon  gusto... 


SULLA  METÀ  DEL  SETTECENTO  I09 

Spesso  s'udia  gridare:  Omè,  il  mio  callo, 
Un  m'  ha  pigiato,  oh  Dio,  veggo  le  stelle. 
Un  altro  dire:  Olà,  se'  tu  un  cavallo? 
M'hai  dato  d'^urto,  e  rotte  le  mascelle. 
Un  altro:  E'  mi  fu  tolto  senza  fallo; 
Non  ho  più  r  orivuol  nelle  scarselle. 
E  miir  altre  sventure  e  casi  avversi, 
Ma  tutti  alla  Ruet  dovean  tenersi  (e.  IV). 


Osserviamo  alcuni  damerini,  che  hanno  l' aria  di  giovani 
patrizi:  "  Essi  facevano  „  racconta  Wanton  "  molte  riverenze 
con  garbo,  misuravano  le  parole,  e  sempre  sopra  il  loro  volto 
si  vedeva  il  riso  obbligante.  Sapevano  il  nome  delle  migliori 
dame  del  regno,  erano  pratici  delle  aderenze  e  delle  genealogie 
delle  principali  famiglie,  parlavano  di  guerre,  raccontavano  mille 
galanterie  in  materia  d'  amori,  giuocavano  molto  bene,  quando 
s' incontrava  qualche  partita,  danzavano  con  leggiadria,  e  sopra 
un  certo  stromento  molto  simile  alli  nostri  violini  sapevano 
suonare  due  o  tre  balletti  imparati  a  memoria.  Con  tante  doti 
non  potevano  che  riuscire  di  piacere  alle  dame,  ed  in  fatti  erano 
ricercati  in  tutte  le  conversazioni.  Per  altro  quando  si  faceva 
qualche  sodo  discorso,  poche  volte  gli  ho  intesi  proferire  un 
pesato  giudicio,  mentre  per  lo  più  fondavano  tutte  le  loro  opi- 
nioni sopra  i  pregiudici  ordinari  del  paese,  o  sopra  V  autorità 
di  coloro  che  passavano  per  illuminati  o  per  dotti  „. 

Volete  un  giovane  alla  moda?  "  ...  Era  uno  di  quei  tali  che 
fanno  ogni  sforzo  di  farsi  credere  mentecatti  da  chi  gli  osserva, 
supponendo  comparire  genii  di  spirito  sciolto:  vizio  pur  troppo 
comune  nella  gioventù  nobile  di  quel  paese...  Teneva  egli  una 
canna  nella  mano  destra  che  andava  dimenando  di  qua  e  di  là, 
come  farebbe  un  fanciullo  con  una  bacchetta,  percotendo  le 
gambe  ora  di  questo,  ora  di  quello.  L'altra  mano  la  teneva 
nella  cintura:  camminava  ritto,  con  la  testa  alta,  e  con  un' in- 
gratissima  voce  cantava  stuonando  un'  aria  che  non  sapeva. 
Entrò  questo  giovane  in  tale  positura  nella  bottega  {di  caffè) 
senza  degnarsi  di  salutare  alcuno;  stimando,  come  è  solito  de' 
suoi  pari,  perdere  l' estimazione  degli  altri,  usando  civiltà  e 
cortesia.  S'  avanzò  dunque  sino  a  noi  seguendo  la  sua  canzone 
e  tenendo  gli  occhi  sempre  rivolti  in  alto  „  ma  quando  il  gio- 
vane scimio  li  abbassò  a  caso  e  scorse  i  due  uomini  (Enrico  e 
Roberto),  fuggì  via  pieno  di  spavento. 


no  UN    ROMANZO    SATIRICO    A    VENEZIA 

Ora  si  avanza  una  gentildonna  e  possiamo  osservarne  mi- 
nutamente il  curioso  abbigliamento  :  "  Era  vestita  d'  una  veste 
di  seta  assai  bella  di  colore  celeste,  ma  la  figura  era  particolare, 
imperocché  per  la  parte  anteriore  non  le  giungeva  che  a  mezza 
gamba,  e  la  strascinava  per  di  dietro  in  forma  di  coda.  Un 
circolo  di  tre  braccia  di  diametro  V  era  attaccato  sotto  il  petto, 
cosicché  questo  allargandosi  sino  ai  piedi,  e  cadendo  il  drappo 
di  seta  sopra  d'  esso,  pareva  questa  dama  una  testa  e  non  un 
intiero  busto  piantati  sopra  un  cono  troncato:  figura  tanto  più 
orribile,  o  pure  se  si  voglia,  più  degna  di  riso,  quanto  più 
s' allontanava  dalla  forma  del  corpo  umano.  Aveva  calzati  i 
piedi  d' un  cotone  finissimo,  e  gli  stivaletti  erano  d'  una  pelle 
rossa  dipinta  di  varii  fiori.  Non  se  le  vedeva  che  la  metà  delle 
braccia,  poiché  V  altra  attaccata  sino  al  cubito  al  busto,  sembrava 
stare  coperta  nel  cerchio,  e  questa  metà  era  nuda.  Portava 
braccialetti  ricchissimi  intorno  ad  esse,  e  le  pendeva  dalla  gola 
una  collana  di  coralli  ridotti  rotondi  a  perfezione.  Teneva  nella 
destra  un  lungo  e  grosso  bastone  tempestato  di  smeraldi,  e  nella 
sinistra  un  ventaglio  assai  grande  di  penne  di  varii  uccelli. 
Dalla  testa  sino  alla  metà  della  schiena  cadeva  una  tela  divisa 
in  molti  pezzi,  che  era  il  gioco  del  vento,  poiché  ora  sopra  una 
spalla,  ora  sopra  il  seno  venivano  spinti,  onde  V  era  d' uopo 
valersi  di  continuo  del  suo  ventaglio  per  rimettere  quella  tela 
al  suo  sito.  Il  ciuffo  del  suo  crine  era  più  tosto  elevato  ed  unito, 
e  si  vedeva  che  V  arte  e  non  la  natura  aveva  fatta  quella  dispo- 
sizione di  capelli,  ciò  che  la  faceva  comparire  agli  occhi  nostri 
più  deforme  e  ridicola.  Due  grossi  diamanti  le  servivano  per 
pendenti  „. 

Air  autore  del  Giorno  pensiamo  di  nuovo  nelF  assistere  alla 
toletta  di  madama  Spina:  "  Una  delle  damigelle  era  in  piedi 
in  prospetto  alla  padrona,  ed  era  il  giudice  inappellabile  del- 
l'operazioni  dell'altre...  Sopra  una  piccola  tavola  stavano  distesi 
mille  bizzarri  stromenti  di  vanità,  ognuno  de'  quali  aveva  il  suo 
ufficio  particolare.  Tremanti  le  damigelle  si  accostarono  al  capo 
della  padrona  per  accingersi  alla  grande  azione,  e  vi  posero  le 
mani  con  una  serietà,  attenzione  e  studio  che  tanto  certamente 
non  ne  adopra  un  giureconsulto  quando  esamina  d*un  suo  cliente 
le  ragioni  che  devono  decider  dell'  esser  suo.  Un  solo  pelo  che 
al  pettine  non  obbedisse  era  un  delitto  per  l' infelice  damigella 
che  non  sapeva  domarlo.  Allora  l' osservatrice  spiava  il  fallo 
alla  padrona,  che  montata  nelle  furie  minacciava  dei   più  rigidi 


SULLA  METÀ  DEL  SETTECENTO  III 

trattamenti  la  rea.  Accorrevano  a  di  lei  soccorso  le  mani  amiche 
delle  compagne,  e  con  pomate  e  coir  aiuto  degli  accennati  stro- 
menti  tanto  sudavano  sinocchè  fosse  riparato  il  disordine,  e  si 
sottomettesse  alle  solite  leggi  il  pelo  contumace.  La  partitura 
de'  capelli,  l'ordine  delle  buccole,  la  quantità  della  polvere 
erano  soggetti  di  eterni  e  pesanti  consulti.  Finalmente  terminò 
la  grand'  opera,  e  s'  alzò  dalla  sedia  madama  Spina,  assai  più 
deforme  di  prima  „. 

Ammiriamo  poi  altre  gentildonne  a  una  festa  da  ballo,  ri- 
gonfie nei  cerchi  e  soffocate  dai  busti:  "  L'abito  delle  femmine 
in  tali  occasioni  si  diversifica  dal  comune.  Una  larga  ricchissima 
gonna  sostenuta  da  una  macchina  che  si  dilata  quanto  più 
all'  estremità  si  riduce,  macchina  formata  da  ineguali  figure 
ellittiche  parallele,  era  il  capo  principale  del  loro  vestito.  Un 
certo  stromento  che  allarga  nel  petto  e  stringe  barbaramente  i 
fianchi,  era  coperto  da  certo  manto  che  dagli  omeri  sino  alla 
cintura  scendeva  a  norma  delle  altre  vesti;  ma  ivi  lasciata  in 
intiera  libertà  la  gonna,  si  raggruppava  di  dietro  e  scendeva 
sino  ai  piedi,  sempre  scemando  nell'  espansione  e  riducendosi 
quasi  in  punta.  Il  peso  orribile  della  macchina,  la  tortura  dello 
stromento,  e  più  di  tutto  il  timore  di  sconciare  qualche  buccola 
delle  loro  chiome,  faceva  camminare  queste  martiri  della  vanità 
così  dure  ed  impettorute  ^^,  che  quasi  non  conoscevo  quelle 
medesime  colle  quali  ero  solito  conversare  frequentemente.  Per- 
donisi alla  mia  semplicità:  mi  parevano  una  truppa  di  galli 
d' India,  quando  gonfi,  coli'  ali  abbassate,  e  colla  coda  elevata 
e  ridotta  in  figura  circolare,  camminano  fastosi  per  il  nativo 
cortile,  divenuti  oggetti  di  ammirazione  e  di  riverenza  alle  gal- 
line, oche,  paperi  ed  altri  simili  domestici  insensati  uccelli  „. 

Al  cerchio  o  guardinfante  non  la  perdona  l'abate:  "  ...  Una 
certa  dama  venne  a  portarsi  presso  di  me,  ed  in  vece  di  saluto 
mi  cacciò  nelle  coste  quel  largo  stromento  che  scendendo  dalla 
cintura  sino  ai  piedi,  allarga  le  gonne  come  le  vele  d'  un  gran 
vascello  gonfiate  dal  vento.  Uno  dei  circoli  che  compongono  la 
macchina  mi  premeva  talmente  un  fianco,  che  fui  obbligato 
abbandonare  il  mio  posto  „  '9. 

Scherza  poi  sulle  cerimonie  per  gli  sponsali,  sull'  esposi- 
zione del  corredo,  sull'ultima  toletta:  "  La  sposa  e  la  madre 
furono  inaccessibili  in  quel  giorno  sino  al  momento  della  cere- 
monia  solenne.  Applicate  in  adornarsi  con  tutta  quella  diligenza 
che  loro  suggerivano  e   la  naturale   inclinazione  e  l' importante 


112  UN    ROMANZO    SATIRICO    A    VENEZIA 

circostanza,  si  chiusero  di  buon  mattino  nel  sacrario  del  lusso, 
dove  non  furono  ammesse  che  le  damigelle  e  le  maestre  del- 
l' arte  più  accreditate  della  città.  Vollero  certe  lingue  maligne 
che  in  quel  gabinetto  si  facesse  qualche  uso  di  magia,  adope- 
randosi le  chiome  recise  dal  teschio  di  scimie  morte,  e  serven- 
dosi del  rasoio  per  troncare  sino  quasi  dalla  radice  quel  pelo 
che  sopra  il  fronte  femminile  ha  talvolta  l'audacia  di  comparire  „. 

Nel  capitolo  decimosettimo  del  secondo  libro  fa  tutta  una 
lezione  ai  Veneziani  per  bocca  d'un  grave  presidente  del  Con- 
siglio Reale:  sulle  classi  inferiori  che  vogliono  con  la  superbia 
e  con  una  mentita  fortuna  mettersi  a  paro  delle  maggiori;  sul- 
r  oro  che  giace  inutile  negli  scrigni,  o  esce  dallo  stato  per  il 
fanatismo  del  lusso;  sul  progressivo  impoverimento  delle  arti 
più  necessarie;  sulla  impotenza  delle  leggi.  Egli  conosce  a  me- 
raviglia il  carattere  dei  suoi  concittadini  :  "  E  incredibile  quanto 
gli  Scimiopoliti  siano  portati  ad  ogni  sorte  di  passatempo.  Basta 
che  si  tratti  di  non  affaticare  ;  e  tutti  sono  d' una  medesima 
inclinazione.  Se  un  fanciullo  giuoca  nella  strada,  ecco  subito 
formarsi  un  circolo  di  spettatori  intorno  di  lui:  se  sta  esposto 
alla  finestra  un  pappagallo,  si  vede  un  effluvio  di  popolo  fer- 
mato a  considerarlo.  Ogni  bagattella  è  sufficiente  per  divertire 
gli  abitanti:  segno  ben  chiaro  della  loro  debole  estensione  di 
spirito  e  d'un  genio  leggiero  „.  Condanna,  come  il  Goldoni,  la 
mania  invalsa  per  tutto  ciò  che  viene  dal  di  fuori:  "  È  introdotto 
un  fanatismo  fra  gli  Scimiopoliti  di  non  stimare  che  le  cose 
lontane.  1  professori  delle  scienze  nativi  di  questa  città  non  sono 
in  considerazione:  perchè  siano  stimati,  conviene  che  vengano 
da  estranei  paesi,  ed  a  proporzione  della  lontananza  delle  loro 
patrie,  cresce  la  riputazione  che  se  ne  forma.  Gli  artefici  eccel- 
lenti non  credonsi  potersi  trovare  che  fuori  del  regno;  così  dite 
de'  musici,  de'  pittori  e  di  tutti  quelli  che  professano  qualche 
scienza  o  arte  liberale  o  meccanica.  Tale  fanatismo  si  estende 
ancora  sopra  le  cose:  le  lane  e  le  sete  forestiere  sono  credute 
eccellenti,  e  vengono  disprezzate  le  nostre:  lo  stesso  succede 
di  tutti  i  generi  di  merci.  Sopra  tale  falso  principio  tutti  ricer- 
cano materie  e  manifatture  straniere;  l'arti  e  gli  artigiani  del 
regno  languiscono  nella  indigenza,  il  denaro  esce  dallo  stato 
che  per  conseguenza  s'impoverisce:  mentre  gli  estranei  godono 
e  trionfano  del  nostro  errore  „. 

Che  importa  ch'egli  sia  un  rustego?  Egli  assale  coraggio- 
samente tutti   i    vizi,    tutte    le    ipocrisie.  Tale  appunto  ci  piace, 


SULLA  METÀ  DEL  SETTECENTO  II3 

quando  con  dura  verità  dice:  "  Vedrete  sempre  gli  uomini 
accendersi  fuor  di  misura,  e  venire  pure  alle  estremità  col- 
r  esporre  anco,  se  faccia  d*  uopo,  la  propria  vita  a  pericolo,  per 
difendere  la  fama  ed  il  credito  di  cui  godono  presso  1*  univer- 
sale: mentre  a  sangue  freddo  ed  anzi  talvolta  con  piacere  si 
compiacciono  violare  le  più  sacre  leggi  dell'  umanità  e  del  de- 
coro „  ;  o  anche:  "  Si  esagera  da  per  tutto  la  dovuta  sommis- 
sione alle  leggi,  mentre  in  fatti  si  studiano  tutte  le  vie  per 
render  vana  la  mente  dell'istitutore  e  l'effetto  dell'istituzione  „. 

E  dopo  ciò,  lasciamogli  condannare,  sia  il  dramma  per 
musica,  sia  la  commedia  a  soggetto,  e  bandir  dalle  scene  gli 
amori  e  ridere  della  Bidone^  anche  se  T  autore  si  chiami  Meta- 
stasio.  Egli  voleva  fare  e  ha  fatto  del  bene  ;  e  ci  dispiace  di  non 
potergli  concedere  almeno  un  piccolo  posto  nella  nostra  lettera- 
tura, perchè  non  conosce  l'arte  dello  scrivere.  Negargli  un  mo- 
desto ingegno  non  sarebbe  giusto:  vi  è  nella  prima  parte  del 
suo  romanzo  della  psicologia  rozza,  qualche  pensiero  buono, 
un  sentimento  rudimentale  della  natura;  e,  nelle  due  parti,  qua 
e  là,  dello  spirito.  Delle  vanità,  delle  debolezze,  delle  follie  so- 
ciali è  spesso  un  buon  osservatore.  Come  si  fa  ad  ottenere  un 
posto  non  meritato  nell'antica  Scimiopoli?  Il  tale  "  si  portò  a 
far  la  corte  ad  un  palafreniero  del  signor  Faggio,  acciò  guada- 
gnasse uno  staffiere  che  doveva  parlare  ad  un  cameriere,  acciò 
interessasse  il  maggiordomo,  perchè  porgesse  le  sue  suppliche 
al  padrone,  che  impegnasse  Roberto  a  presentare  una  supplica 
al  Re,  che  dovesse  in  virtù  di  questa  ricordare  al  nuovo  Gene- 
ralissimo la  persona  dell'oratore  per  essere  sostituito  alla  carica 
di  primo  ingegnere,,.  Ridicoli  usi  di  tempi  defunti  che  male 
sappiamo   immaginare. 

Meglio  possiamo  ammirare  V  arguta  scenetta  del  primo  col- 
loquio dei  due  promessi  sposi.  "  Alla  comparsa  dello  sposo  si 
chinò  talmente  madamigella  senza  piegare  la  vita  ed  il  capo, 
eh'  io  pensai  eh'  ella  volesse  sedere  in  terra.  11  giovane  le  fece 
un  breve  sì  ma  insinuante  discorso,  che  si  conosceva  palese- 
mente essere  stato  apparecchiato.  La  sposa  arrossì,  e  quantun- 
que avesse  ella  pure  appresa  a  memoria  la  sua  lezione,  se  la 
scordò  in  un  istante,  e  non  seppe  rispondere  altra  parola  che 
grazie.  Madama  divenne  rossa  quanto  una  brace  di  fuoco,  ed 
avrebbe  graffiato  gli  occhi  alla  figlia,  se  non  fosse  stato  presente 
lo  sposo  :  tanto  era  il  dispetto  e  la  collera  che  concepì.  Sederono 
vicini  gli  amanti  futuri,  giacché    per   allora   non  potevano  chia- 

G.  Ortolani.  8 


114  UN   ROMANZO    SATIRICO   A   VENEZIA 

marsi  tali  ;  ed  il  signor  Garofano  esagerò  la  bellezza  e  le  grazie 
della  donzella,  che  ora  aprendo,  ora  chiudendo  il  ventaglio, 
sempre  tenendo  gli  occhi  fissi  al  suolo,  e  movendosi  da  un  lato 
e  dall'  altro,  come  se  sedesse  sopra  le  spine,  rispose  più  volte, 
anzi  lei.  La  madre  faceva  continui  movimenti  di  capo;  ma 
tanto  peggio  „. 

Quanto  cammino  dai  romanzi  del  secolo  precedente!  Pec- 
cato che  r  autore,  il  quale  deride  1'  arcaica  prosa  boccaccesca 
degli  oratori  sacri,  ignori  la  lingua  italiana:  sarebbe  il  men 
indegno  antecessore  in  Italia  del  Gozzi  per  un  lato,  per  l'altro 
del  Parini;  invece  restò  confuso  tra  i  pessimi  imitatori  dello 
Swift,  e  i  letterati  lo  dimenticarono  ^°.  Eppure  il  Wanton  si 
può  leggere  ancora  senza  stanchezza,  perchè  la  rappresenta- 
zione, satirica  o  no,  del  Settecento,  e  veneziano  per  giunta,  ha 
sempre  per  noi  qualche  fascino.  Esso  è  Settecento,  vero  e  fedele  : 
svolgendo  le  curiose  figure  in  rame  che  adornano  1'  edizione, 
r  occhio  indugia  sulla  prima,  che  rappresenta  la  spelonca  del- 
l' isola  australe  dentro  cui  ripararono  i  due  amici  naufraghi  : 
neir  interno,  col  capo  appoggiato  alla  palma  e  un  libro  davanti, 
Enrico:  fuori  scorgesi  il  compagno,  sulla  spiaggia.  La  foggia  di 
vestire  dei  due  giovani  serbasi  in  tutto  antica:  ma  quel  libro 
e  quel  mare  ci  danno  la  sensazione  d' un  paese  nuovo,  d' un'  età 
nuova  che  s'avvicina.  Ecco  il  Settecento,  nel  '48!  Quando  il 
Wanton  fu  scritto,  in  un  momento  storico  importantissimo,  il 
periodo  di  preparazione  e  maturazione  del  secolo  decimottavo 
compivasi,  e  cominciava  quello  di  riforma,  in  fine  di  rivoluzione: 
così  nella  vita  politica   come   nell'  arte  e,  ancora,  nella   scienza. 

Passarono  quindici  anni  :  finalmente  nel  '64  l' abate  Sceri- 
man  fece  una  ristampa  dei  due  primi  libri  dei  Viaggi  di  Wanton, 
corretti  qua  e  là,  aggiungendone  due  altri  novissimi  »'.  -  Questa 
seconda  parte  del  lungo  romanzo  si  apre  con  la  disgrazia 
d'  Enrico,  arrestato  di  notte  tempo  per  falsa  accusa  e  condotto 
fuori  del  regno  a  perire  nel  lago  del  Pianto.  Una  barca  lo  porta 
solo  alla  ventura,  in  vista  di  spiagge  deserte.  Qui  GuUiver  torna 
a  somigliare  per  poco  a  Robinson.  Giunto  in  una  insenatura, 
smonta  e  scopre  una  casa  abbandonata  e  cadente,  dove  la  tri- 
stezza lo  coglie:  sta  per  ritornare  alla  sua  barca,  quando  fra  le 
macchie  ode  alcuni  orribili  latrati  e  d' improvviso  viene  afferrato 
da  mostri  di  corpo  umano  con  la  testa  di  cane.  Si  trova  infatti 
nel  regno  dei  Cinocefali.  Cessata  la  reciproca  meraviglia  e  paura, 
va  insieme  coi  suoi  rapitori    in    un    bel    palazzo  ove  impara  il 


SULLA    METÀ    DEL   SETTECENTO  1 15 

linguaggio  canino  che  consiste  in  diversi  tuoni  di  voce,  offre 
lunghe  spiegazioni  intorno  alla  sua  natura  umana,  è  liberalmente 
accolto  dal  ministro  Rodipoco  e  presentato  al  re.  Il  romito  Fug- 
gimondo,  che  tanti  affini  ha  nel  romanzo  del  Settecento,  gli  dà 
novelle  del  buon  Roberto  il  quale,  appena  scoperta  l'innocenza 
di  Wanton,  era  partito  da  Scimiopoli  alla  ricerca  dell'amico,  né 
trovandolo  in  Cinofania,  era  passato  nella  provincia  dei  Filo- 
sofi. Enrico  pure  ottiene  il  difficile  permesso  di  visitare  il  mi- 
sterioso paese,  insieme  con  un  nipote  di  Rodipoco.  Nella  prima 
città,  detta  Prigione  delle  passioni,  V  autore  ci  descrive  una  so- 
cietà di  felici  alunni  che,  sotto  la  guida  d' un  savio  maestro, 
riformatore  dei  vecchi  metodi  pedagogici,  vivono  in  una  specie 
d'età  d'oro  rinnovellata,  di  Arcadia  filosofica;  un  tenue  ricordo 
sembra  ricongiungere  Campanella  e  Fénelon:  sono  i  cari  sogni 
dell*  utopia  insistenti  nelle  fantasie  di  quasi  tutti  i  romanzatori 
■del  secolo  decimottavo.  Poi,  a  braccetto  ancora  di  Swift,  si  ri- 
prende la  satira;  ed  ecco  altre  città  e  altri  popoli  che  esagerano 
fino  alla  pazzia  le  inclinazioni  del  nostro  intelletto.  Nella  For- 
tezza dei  venti  abitano  i  metafisici,  nel  Castello  delle  misure  i 
matematici,  nella  città  di  Giumenza  i  grammatici  e  i  puristi,  nei 
Campi  della  miseria  i  poeti  arcadi,  nella  cittadella  di  Rovinia 
gli  antiquari,  nella  Valle  delle  visioni  gli  alchimisti,  i  pirronisti 
e  altri  stolti,  nel  castello  di  Seccatura  i  loquaci  saccheggiatori 
di  poeti  e  filosofi:  né  manca,  nel  bel  mezzo  di  un  lago,  la  re- 
pubblica femminile,  detta  Amazonia  ^^. 

Wanton,  ritrovato  Roberto  e  rientrato  nel  regno  dei  Cino- 
cefali, visita  altre  terre  suddite  al  re  Mastino,  come  il  paese  di 
Industria,  abitato  da'  franchi-muratori  e  V  Imperio  delle  lusinghe, 
ossia  lo  Stato  Pontificio,  che  ha  per  capitale  Astuzia.  -  Qui  vera- 
mente r  audacia  di  Zaccaria  Sceriman  sorpassa  ogni  altro 
esempio  che  prima  di  lui  si  ricordi  nella  Serenissima.  De'  fram- 
massoni r  autore  senza  amore  e  senz'  odio  riferisce  le  terribili 
accuse  dei  nemici  e  le  ambigue  difese  degli  amici  ;  ma  quella 
specie  di  congregazione  laica  di  rito  religioso  destava  nel  Set- 
tecento assai  più  curiosità  che  paura  nel  governo  e  nei  popoli, 
fino  alla  Rivoluzione,  e  non  merita  troppa  importanza  '^s.  Tut- 
tavia il  ridicolo  mistero  di  cui  si  circondavano  i  franchi-mura- 
tori, alimentava  spaventose  leggende  sì  che  lo  stesso  Sceriman 
appare  turbato;  e  sebbene  creda  alla  virtù  d^i  fratelli,  per  quanto 
ipocrita,  teme  il  loro  fanatismo,  ciecamente  devoto  ai  padri, 
autori  del  male,  e  ne  commisera  la  sorte  infelice,  non  altrimenti 


Il6  UN    ROMANZO    SATIRICO   A    VENEZIA 

che  se  fossero  il  popolo  leggendario  degli  Assassini  e  il  gran 
maestro  fosse  il  Veglio  della  montagna.  "  Fui  più  attento  „  rac- 
conta Wanton  "  in  esaminare  le  parole  ed  i  sentimenti  di  co- 
storo, ma  non  venni  a  fine  di  scoprire  un'ombra  del  loro  sistema, 
tanto  inorpellati  di  dolcezza,  di  carità,  di  virtù  eran  tutti  i  loro 
discorsi.  Notai  però  che  sempre  di  sé  parlavano,  tutto  riferivano 
a  sé,  altra  scienza  e  pietà  non  conoscevano  che  fra  i  suoi... 
Mai  tante  cognizioni  de'  fatti  altrui  non  ò  udite,  mai  tante  pene- 
trazioni né  più  secreti  rigiri  degli  Stati,  mai  tanti  progetti  per 
rendere  felice  la  terra,  seguendosi  le  ricette  dei  loro  elaboratorii. 
Questa  carità  universale,  questo  antidoto  a  tutti  i  mali  mi  avreb- 
bero fatto  stimare  quella  Società  assai  più  che  tutta  unita  la 
provincia  de'  Sapienti,  se  le  parole  dell'  amico  non  avessero 
nel  mio  interno  seminati  velenosi  timori  „.  Tuttavia  non  ne 
consiglia  la  distruzione. 

La  descrizione  del  dominio  temporale  della  Chiesa  richiama 
tutta  l'attenzione  nostra.  Il  conte  armeno,  girato  lo  sguardo  sulle 
fertili  Provincie,  depredate  dai  cardinali  e  dai  vescovi,  sulle 
popolazioni  istupidite  dalla  miseria  dal  fanatismo  dall'  ignoranza 
dall'  ipocrisia,  con  meraviglia  vede  sorgere  la  grande  città  "  che 
sembrava  1'  emporio  della  magnificenza,  della  ricchezza  e  delle 
bellezze  del  Mondo  intero.  Strade,  palazzi,  fontane,  terme,  archi 
trionfali,  piazze,  loggie,  templi,  statue,  teatri  formano  al  fore- 
stiero oggetti  di  grandezza  e  di  ammirazione  „  ;  e  dopo  aver 
brevemente  rifatto  la  storia  di  Roma  con  un  disprezzo  della 
tradizione  eroica  più  profondo  di  Bayle  e  di  D'Argens,  esamina 
i  difetti  del  governo  eunuco  ^4,  ricerca  le  ragioni  della  sua  po- 
tenza ^5,  le  colpe  ei  vizi  della  sua  ricchezza;  fin  che,  inorridito 
dallo  spettacolo  della  simonia  ^6  e  della  frode,  con  l' ira  d'  un 
uomo  di  fede,  non  raccattata  dagli  Enciclopedisti  o  da  Voltaire^ 
prorompe:  "  Ah  venga,  venga  presto  quel  giorno  fortunato  che 
la  Sincerità  discenda  dal  Cielo,  ed  armata  delle  onnipossenti 
stampelle,  le  dia  fra  capo  e  collo  ai  cortigiani  maligni,  bugiardi, 
traditori,  peste  di  ogni  regno,  veleno  di  questa  Corte,  agli  impo- 
stori vigliacchi,  ai  venditori  di  fumo.  Venga  e  1'  accompagni  la 
Giustizia,  che  con  la  provida  scopa  spazzi  dai  tribunali  i  giu- 
dici iniqui  ed  interessati  con  le  altre  immondizie  della  Curia,, 
ed  unite  a  tutte  le  brutture  del  Foro  le  getti  nel  fiume  che  serva 
d'  eterno  sepolcro  alle  vessazioni,  all'  estorsioni,  alle  ingiustizie. 
Risorgerà  allora  fastoso  l' Imperio,  vivrà  glorioso  ed  eterno  il 
nome  de'  Principi,  e  condurremo  noi  i  giorni  lieti  e  tranquilli  „. 


SULLA    METÀ    DEL    SETTECENTO  II7 

Così,  nella  sua  umile  rettorica,  il  povero  e  oscuro  abate  delle 
Gallette  veneziane,  già  monaco  benedettino  e  intinto  di  gianse- 
nismo, invocava,  dopo  tanti  secoli,  il  veltro  allegorico  di  Dante  ; 
e  il  romanzo  italiano  compiva,  come  poteva,  l'ufficio  suo  poli- 
tico nel  Settecento  =7. 

Le  avventure  di  Wanton  hanno  ormai  termine.  11  resto, 
dopo  che  i  due  amici  tornarono  presso  il  re  e  n'  ebbero  onori, 
è  materia  ingombrante  a  cui  mancò  il  luogo  opportuno.  Più  del 
romitorio  del  vecchio  Vinciamore  ci  attira  la  villa  di  Ruminante, 
specie  di  casa  patriarcale  di  campagna  che  un  filosofo  del  tempo 
della  Nuova  Eloisa,  reso  malconcio  dalla  vita  e  dalla  società, 
sentiva  il  bisogno  di  vagheggiare  nella  fantasia.  E  tutti  eran 
filosofi  cotesti  romanzatori  !  Quantunque,  aborrendo  la  più  parte 
dalle  cognizioni  reali  della  vita  pratica,  ignorino  le  funzioni,  i 
mezzi,  i  limiti  veri  dello  stato  sociale,  ciò  nondimeno  con  la 
satira,  con  la  critica,  coi  sogni  stessi  dell'  utopia  ci  rivelano  il 
disagio  profondo  e  il  disgusto.  Superbi  del  possesso  infallibile 
della  ragione  e  credendo  di  aver  esplorato  l'uomo,  unico  studio 
necessario,  in  sé  e  negli  altri,  si  atteggiano  a  futuri  riformatori, 
e  ridono  intanto  e  ammoniscono  dalla  loro  negletta  solitudine. 
Di  tutto  giudicano:  così  anche  l'abate  Sceriman  ci  sciorina  trat- 
tati di  pedagogia,  di  politica,  di  letteratura,  spesso  ripetendo, 
contraddicendosi  qualche  volta.  Ci  sorprende  alla  lettura  la  noia, 
ma  un'  osservazione,  un  personaggio,  un  po'  di  satira  antica  o 
nuova  bastano  a  ridestarci,  sebbene  morta  sia  per  noi  la  ma- 
teria, mancando  il  soffio  dell'arte,  sebbene  non  sappiamo  indo- 
vinare sotto  i  ritratti  i  nomi  del  tempo  "S. 

A  chiudere  il  racconto  scoppia  la  guerra  tra  i  Cinocefali  e 
i  Licopoliti:  Enrico  e  Roberto,  custodi  al  campo  del  giovane 
principe  per  la  fiducia  del  re,  in  una  improvvisa  scorribanda 
ne  perdono  le  orme;  onde  spaventati  fuggono,  si  nascondono, 
passano  i  monti,  cibandosi  d' erbe,  e  finalmente  giunti  in  riva 
al  mare  un  vascello  inglese,  spinto  colà  dalla  tempesta,  li  acco- 
glie e  riconduce  in  patria.  -  La  finzione  dunque  e  la  satira 
hanno  origine  dall'antichità  greca:  i  modelli  remoti  di  Swift 
sono  i  racconti  favolosi  degli  ionici  e  degli  alessandrini,  e  le 
bizzarre  fantasie  di  Aristofane  e  Luciano.  Modello  costante  dello 
Sceriman  è  Swift;  e,  come  la  prima  parte  del  romanzo  imita 
di  più  i  viaggi  di  Gulliver  a  Lilliput  e  a  Brobdingnag,  e  la 
satira  morde  di  preferenza  i  costumi  e  la  società  del  tempo, 
così  la  seconda  ci  ricorda  i    viaggi  a  Laputa  e  nel  paese  degli* 


Il8  UN    ROMANZO    SATIRICO    A    VENEZIA 

Houyhnhnms,  e  la  satira  deride  piuttosto  l'uomo  per  se  stesso 
e  i  caratteri  suoi  '^.  Materia  del  resto  abbondevolissima  nel  Set- 
tecento e  quasi  propria  di  quel  secolo:  sparsa  anche  in  Italia 
variamente,  all' infuori  del  romanzo,  negli  pseudo-epistolari,  nelle 
gazzette,  nel  teatro,  nella  poesia  eroicomica  didascalica  giocosa, 
e  dappertutto.  Qualche  aspetto  della  finzione  allegorica  era 
ormai  familiare  alla  nostra  commedia  letteraria  e  alle  fiabe  del 
Gozzi.  E  così,  molti  anni  dopo  Swift,  potè  lo  Sceriman  atteg- 
giarsi venezianamente  originale,  come  non  fu  concesso  in  Francia 
al  pedante  abate  Desfontaines.  Ma  oltralpi  fin  dal  1752  si  leg- 
geva il  Micromega  di  Voltaire;  in  Italia,  nel  '63,  avevamo  meglio 
assai  nella  letteratura  satirica  di  una  imitazione  di  Swift,  che 
usciva  a  Milano  il  Mattino  del  buon  prete  di  Bosisio  e,  due 
anni  dopo,  il  Mezzogiorno.  L'abate  Sceriman  si  spense  nel  1784 
oscuramente  nella  parrocchia  di  San  Canciano,  a  76  anni,  e 
nessuna  pietra  a  Venezia  lo  ricorda:  forse  gli  nocque  l'audacia 
contro  Roma  e  l'indole  schiva  ed  onesta.  Eppure  fu  amico  dei 
Granelleschi,  dei  Farsetti,  del  Lastesio,  del  Costadoni,  del  Ca- 
logerà,  del  Valaresso,  e  a  lui  il  conte  Gasparo  Gozzi  dedicò 
uno  dei  suoi  Sermoni,  e  a  sue  spese  si  pubblicarono  dal  1753 
al  '58  le  Memorie  per  servire  all'  istoria  letteraria  ;  tradusse  tra 
il  '67  e  il  '69  la  Storia  della  Repubblica  di  Venezia  del  Laugier, 
stampò  due  Giornali  o  meglio  almanacchi  per  gli  anni  '67  e  '83^ 
e  altre  cose  minori,  per  lo  più  allegoriche  e  satiriche.  "  Ne 
cataloghi  di  sue  opere,  né  manoscritti  di  lui  si  conservano  „  si 
legge  in  una  nota  "  per  avere  finita  poveramente  la  vita,  ed 
essere  divenuto  per  istranezza  di  carattere  forastiero  ai  pa- 
renti „  30.  In  silenzio  e  quasi  con  mistero  parve  dileguarsi  e 
sparire  questa  curiosa  figura  d' uomo  e  di  scrittore  nel  chiassoso 
e  bizzarro  Settecento  veneziano  del  quale  aveva  un  dì  tracciato 
a  grosse  linee  1'  ardita  caricatura. 


AGGIUNTE  E  NOTE 


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I  Se  qualcuno  desiderasse  un  esempio,  o  perchè  nulla  mai  lesse 
o  perchè  più  non  se  ne  ricorda,  basterà  riferire  questa  paginetta  dal 
libro  II  della  Regina  sfortunata  di  Carlo  Torre  (Milano,  1639,  P-  i4^)> 
dove  la  sensualità  si  accoppia  al  più  ridicolo  barocco.  Si  vuol  de- 
scrivere una  madre  che  porge  il  latte  al  suo  bambolo:  "  Spiegando 
"  alcuni  vagiti  il  bambino,  chiamando  gli  Amoretti  a  servirlo,  avvisò 

*  la  Madre  che  accompagnasse  le  perle  delle  lagrimette  cadenti,  con 
"  licenziare  dalla  guardaroba  delle  poppe  gli  argenti  stillanti.  Ella 
"  nudando  il  seno,  fece  all'  apparire  di  que'  raccolti  monticelli  l'Alba 
"  spuntar  sedendo,  che  in  vece  di  spargere  rose,  seminava  gigli  e 
"  gelsomini,  e  perchè  dietro  all'Alba  subito  risplende  il  Sole,  accio- 

*  che  quegli  fossero  creduti  Trono  d' una  così  risplendente  Messag- 
"  gera,  comparve  il  vermiglio  delle  poppe,  facendo  uffìzio  di  Sole, 
"  ma  si  portò  in  un  baleno  all'  Occaso,  essendosi  seppellito  nelle  vive 
"  porpore  delle  labbra  del  figlio,  dando  ad  intendere  che  non  fanno 
"  di  bisogno  lumi  dorati  di  Febo  là  dove  regnano  argentei  colori  di 
"  Cintia.  Con  la  dolcezza  dei  bianchi  nettari,  quasi  ebro  il  fanciullino 
"  portossi  per  incoronare  una  vita  diliziosa  alla  soavità  del  sonno; 
"  osservandolo  la  Regina  così  rapito,  lo  ripose  pian  piano  dal  letto 
"  de'  molti  alabastri  su  un  ricamato  suolo  d'  erbette...  „. 

3  "  Il  nostro  secolo  „  diceva  il  Baretti  nella  Frusta  (  i  giugno 
1764),  "  non  ha  prodotto  alcun  romanziere  eh'  io  sappia,  trattone 
r  abate  Chiari  „.  E  il  Chiari  stesso  così  parla  poco  modestamente  di 
sé  neir  introduzione  delle  Due  gemelle  (1777):  "  Non  si  vedeano  prima 
di  lui  che  delle  cattive  traduzioni  di  qualche  grazioso  Romanzetto 
Francese,  che  gli  destarono  in  petto  1'  emulazione  onorevole  di  far 
conoscere  al  Mondo  che  gì'  ingegni  Italiani  non  ancora  perduti  aveano 
i  loro  antichi  diritti  di  non  esser  sempre  semplici  Copisti,  quando 
farsi  poteano  Originali,  per  tentare  qualcosa  di  meglio  „. 

3  Vedi  qualche  cenno  in  Tassini,  Curiosità  Veneziane^  4*  ed.,  1886, 
p.  668,  e  altre  notizie  nel  cod.  Cicogna  3428,  presso  il  Museo  Civico  : 
Brevi  Memorie  sulla  Famiglia  Sceriman  del  conte  Fortunato  Sceri- 
man,  nel  1850.  Un  fratello  di  Zaccaria  fu  ciambellano  dell'  arciduca 


122  UN    ROMANZO    SATIRICO    A    VENEZIA 

Ranieri  e  colonnello  dell'  esercito  imperiale  ;  e  il  nostro  abate  fu 
prima  monaco  benedettino.  Il  nome  della  famiglia  si  dice  e  si  scrive 
volgarmente  Seriman. 

4  Viaggi  di  Enrico  Wanton  alle  terre  incognite  Australi  ed  al  Paese 
delle  Scimie,  ne'  quali  si  spiegano  il  carattere  li  costumi  le  scienze  e  la 
polizia  di  quegli  straordinarj  Abitanti.  Tradotti  da  un  manoscritto 
Inglese.  In  Venezia,  1749,  presso  Giovanni  Tagier.  -  Il  permesso  dei 
Riformatori  ha  la  data  dei  20  agosto  1748.  La  finzione  del  manoscritto 
abbandonato  a  Venezia  da  un  mercante  inglese  (vedi  //  Traduttore 
a  chi  legge),  ci  ricorda  qui  più  precisamente  V  Espion  Ture  del  Ma- 
rana  e  la  Vie  de  Marianne  del  Marivaux. 

5  Non  occorre  risalire  a  Rabelais  e  al  suo  Pantagruel,  che  una 
tempesta  di  mare  spinge  alle  isole  dei  Macreoni:  anche  il  Nuovo 
Gulliver  dell'  abate  Desfontaines,  mentre  sta  per  approdare  a  un  porto 
della  Cina  n'  è  sbalzato  lontano  dai  terribili  tifoni  e  giunge  così 
all'  isola  di  Babilary,  ossia  delle  donne.  -  Pochi  anni  prima  di  Ro- 
binson e  di  Gulliver,  nel  1710,  uscivano  in  luce  i  Viaggi  e  avventure 
di  Jacopo  Masse  (  Voyages  et  aventures  de  Jaques  Masse,  à  Cologne, 
chez  Jaques  Kainkus,  1710,  di  pp.  508),  curioso  romanzo,  molto  raro 
e  quasi  ignoto  in  Italia,  di  Simone  Tyssot  de  Patot.  L'  autore,  nato 
nel  1656  in  Inghilterra  di  famiglia,  come  sembra,  ginevrina,  aveva 
dovuto  da  fanciullo  riparare  dalla  Francia  in  Olanda  per  essere  di 
religione  protestante;  e  insegnò  poi  matematica  a  Deventer,  nel- 
r  Over-Yssel.  Chi  voglia  conoscerlo,  deve  leggere  1  due  tomi  delle 
sue  Lettres  choisies,  edite  all' Aja  nel  1727  (per  altre  opere  si  con- 
sulti Barbier),  nelle  quali  si  confessa  autore  anche  d' un  altro  romanzo. 
La  vie,  les  aventures  et  le  voyage  de  Groenland  du  R.  P.  cordelier 
Pierre  de  Mesange  (Amsterdam,  1720)  e  d'  una  traduzione  in  versi 
degli  Amori  pastorali  di  Dafni  e  Cloe.  -  Ora  un  naufragio,  a  circa 
1200  leghe  dall'  isola  di  Sant'  Elena,  getta  Jacopo  Masse  in  una  terra 
ignota  della  quale  descrive  le  ricchezze  naturali  e  il  costume  degli 
abitanti,  non  senza  frammischiare  all'  arido  racconto  vari  problemi 
di  scienza  fìsica  e  certe  questioni  religiose  per  cui  1'  autore  fu  accu- 
sato di  aver  offeso  la  fede.  Un  riassunto  del  romanzo  offre  Le  Breton 
{Le  roman  au  18'  siede,  Paris,  1898,  pp.  359-362),  ma  nulla  sa  di 
Tyssot.  -  Nei  Viaggi  di  Glantzby  nei  mari  orientali  della  Tarlarla 
(1729)  che  al  compilatore  delle  Novelle  della  Repubblica  letteraria  del- 
l'anno  17 jo,  num.  8,  "  pajono  una  fredda  imitazione  di  quelli  di 
Gulliver,  „  l'eroe  danese  è  abbandonato  dai  compagni,  come  Robinson, 
in  un'isola  deserta,  nel  paese  dei  Muti;  e  il  racconto  gli  serve  a 
satireggiare  usi  e  costumi  d'  Europa.  Se  ne  parla  anche  nel  numero  16 
delle  stesse  Novelle,  nell'anno  1732.  -  Quanto  alle  favolose  terre 
australi,  si  trova  una  descrizione  nelle  Aventures  de  Jacques  Sadeur 
(Paris,  1692  e  1705)  edite  fin  dal  1676  col  titolo  La  Terre  Australe 
connue  etc.  par  M.  Sadeur  (  il  Barbier  attribuisce  l'  ed.  originale  di 


SULLA    MLTA    del    settecento  I23 

quest'  opera  romanzesca  a  Gabriel  de  Foigny,  ex-frate,  e  la  nuova 
edizione,  rimaneggiata,  all' ab.  Raguenet);  e  nella  Histoire  des  Seve- 
rambes  di  Dionigi  Vairasse,  di  cui  usci  a  Parigi  la  prima  parte  nel  1677 
eia  seconda  negli  anni  1678-1679  (altra  ed.  nel  1716  ad  Amsterdam: 
il  Barbier  rimanda  al  Dictionrtaire  Historiqtte  del  Marchand,  alla  voce 
AIais)y  tradotta  a  Venezia  nel  1730  col  titolo  di  Istoria  dei  Severambi, 
Popoli  che  abitano  mia  parte  del  terzo  continente  comunemente  detto 
Australe  ecc.:  ne  parlarono  le  Novelle  della  Rep.  lett.  dell' a.  17 jo^ 
num.  9.  La  ricorda  Reybaud  fra  quelle  opere  che  descrivono  i  paesi 
fantastici  d'Utopia:  Étitdes  snr  les  réformateurs  etc,  Bruxelles,  1849, 
t.  I,  382  e  II,  86. 

6  Così  il  Cleveland  di  Prévost  incute  ai  selvaggi  Abaqnis  (libro  IV, 
1731)  il  rispetto  e  il  terrore  della  divinità.  Anche  il  Nuovo  Gulliver 
(1730)  fa  uso  delle  armi  da  fuoco  (t.  I,  142). 

7  Mi  accontento  di  rimandare  il  lettore  al  Saggio  bibliografico 
che  G.  B.  Marchesi  aggiunse  in  fine  ai  Romanzieri  e  romanzi  italiani 
del  Settecento,  benché  incompleto  e,  qualche  volta,  inesatto.  Fortuna- 
tissimo per  numero  di  traduttori  il  Telemaco  (1699),  ridotto  perfino 
in  ottava  rima  e  in  sciolti:  poco  fortunato  Robinson  (1719),  ch'ebbe 
sì  gran  fama  e  tante  imitazioni  per  tutta  la  Germania,  in  Austria  e 
in  Olanda,  sebbene  tradotto  in  Francia  fino  dal  '20  e  a  Venezia  fino 
dal  1731  (non  soltanto  nel  '57  come  crede  il  Marchesi),  forse  per  lo 
spirito  religioso-protestante  di  cui  è  pregno  (neppure  in  Francia,  né 
in  Inghilterra,  fu  da  principio  riconosciuto  tutto  il  suo  merito,  dice 
Texte:  /.  /.  Rousseau  et  les  origines  du  cosmopolitisme  littéraire, 
Parigi,  1895,  p.  149).  Gulliver  (1726),  tradotto  nel  '27  in  Francia,  fu 
dal  francese  voltato  in  italiano  a  Venezia  nel  '29  (Corona)  da  Fran- 
cesco Manzoni  (o  Zannino  Marsecco)  con  questo  titolo:  Viaggi  del 
Capitano  Lemuel  Gulliver  in  diversi  Paesi  lontani  \  e  ne  parlarono  le 
Novelle  della  Rep.  lett.  di  quell'  anno,  nei  numeri  23  e  29.  La  quarta 
parte,  cioè  il  viaggio  nel  paese  degli  Houyhnhnms,  parve  al  compi- 
latore •'  la  più  bella  di  tutto  il  restante  „.  Altra  ed.  si  fece  a  Venezia 
nel  '31  (Coleti),  altra  nel  '49  (Tevernin).  Della  fortuna  e  della  fama 
di  Swift  in  Italia  nel  Settecento  scarse  notizie  ha  Graf  nel  suo  libro 
suir  Anglomania  e  V  influsso  inglese  in  Italia  nel  sec.  XVIII,  Torino, 
191 1,  pp.  264-265. 

8  Le  Nouveau  Gulliver,  ou  Voyage  de  Jean  Gulliver,  fils  du  Ca- 
pitaine  Gulliver,  traduit  d'un  Manuscrit  Anglois,  Amsterdam,  1730, 
dell'  abate  Desfontaines,  a  cui  si  deve  la  prima  versione  francese 
del  capolavoro  di  Swift  (forse  non  interamente  sua:  Texte,  1.  e,  41). 
Ne  diedero  notizia  le  Novelle  della  Rep.  lett.  dell'  anno  17 jo,  num.  16, 
pp.  124-126;  e  lo  tradusse,  come  si  crede,  il  padre  Calogerà. 

9  Nel  tomo  secondo  (1740)  delle  Lettres  Chinoises  il  marchese 
D'  Argens  scherza  intorno  alle  favole  spacciate  da  Pausania,  da  Plinio, 
da  Solino,  da  Pomponio  Mela  e  da  altri  autori  sul  popolo  dei  Cino- 


124  UiN    ROMANZO    SATIRICO    A    VENEZIA 

cefali  e  sugli  Ippodi,  dai  pie  di  cavallo  e  sui  caudati  Cercopitechi 
(p.  5  e  sgg.);  e  nei  Sogni  filosofici,  che  si  leggono  nel  tomo  sesto, 
r  autore  si  crede  trasportato  nel  paese  delle  Scimmie.  Anche  Desfon- 
taines  nella  Lettre  du  Docteur  Ferruginer  à  V  Auteur,  aggiunta  in  fine 
al  suo  romanzo,  tra  le  popolazioni  favolose  di  cui  fanno  menzione 
antichi  storici  e  geografi  nomina  i  Cinocefali  (t.  II,  169),  uomini  dalla 
testa  di  cane.  L'  autorità  di  Solino  e  di  Plinio  invoca  in  fatti  per 
costoro  lo  stesso  Sceriman  (a  p.  63  del  tomo  III,  ed.  di  Berna)  e 
quella  di  Ovidio  per  il  paese  delle  Scimmie  (p.  64).  Si  veda  ancora 
Le  Grand  Dictionnaire  Historique  "  commencé  en  1674  par  M.^e  Louis 
Moréri  „  del  quale  si  conoscono  tante  edizioni,  fra  cui  quella  vene- 
ziana del  Pitteri. 

^°  Rimando  al  curioso  libro  di  A.  Chassang,  Histoire  du  Roman 
et  de  ses  rapports  avec  r  Histoire  dans  V  antiquitè  grecque  et  latine, 
Paris,  1862. 

II  Ne  cominciò  il  Gozzi  la  versione  italiana  negli  Osservatori 
Veneti  (aprile  1762)  col  titolo  di  Vera  Storia.  -  Il  Borkowsky,  il 
Thierkopf,  lo  Hónncher,  l' Eddy  e  altri  studiarono  gli  autori  che  pre- 
cedettero e  ispirarono  il  Swift:  in  Italia  dobbiamo  citare  P.  Toldo, 
Les  voyages  merveilleux  de  Cyrano  de  Bergerac  et  de  Swift,  et  leurs 
rapports  avec  V  oeuvre  de  Rabelais,  in  Revue  des  Études  Rabelaisiennes, 
Paris,  IV  (1906)  e  V  (1907);  ed  A.  Faggi,  /  Viaggi  di  G.,  in  Rivista 
d' Italia,  XVI  (1913),  fase.  2  e  Le  fonti  dei  Viaggi  di  G.,  in  Marzocco, 
20  genn.  1924.  Del  popolo  dei  Pigmei  il  Martello  confessa  di  aver 
trovato  notizie  per  la  sua  bambocciata  dello  Sternuto  d' Ercole  (1717) 
nel  famoso  dizionario  del  Moréri,  ma  un  esercito  di  Pigmei  tro- 
viamo nel  canto  XIV  del  poema  di  Piero  de'  Bardi,  Avino,  Avolio, 
Ottone  e  Berlinghieri,  edito  a  Firenze  nel  1643.  Di  Swift  si  parlò  per 
poco  nei  nostri  giornali  quando  nel  1913  uscì  la  traduzione  dei  Viaggi 
(Genova,  Formiggini)  per  cura  di  Aldo  Valori:  v.  per  es.  Rabizzani 
in  Marzocco,  i  febbr.  1914  e  Rapini,  Stroncature,  Firenze,  1920. 

"  Così  Desfontaines  nel  cap.  12  del  I  tomo  celebra  la  vita  sem- 
plice e  naturale  di  certi  Selvaggi,  i  quali  così  si  vantano:  "  Nous 
nous  croyons  tous  égaux,  parce  que  la  Nature  nous  a  fait  tels,  et  que 
nous  nous  gardons  bien  d'  altérer  son  arrangement...  Ce  que  vous 
appellez  politesse  et  savoir-vivre  n'  est  que  mensonge  et  dissimu- 
lation...  Ces  Arts,  dont  vous  vous  prévalez,  sont  donc  la  preuve  de 
votre  misere;  et  comme  ils  ne  produisent  que  de  commodités  arbi- 
traires,  ou  de  plaisirs  superflus,  nous  ne  vous  les  envions  point... 
Vous  semble-t-il  que  celui  quit  suit  les  traces  de  la  Nature,  est  plus 
Sauvage  que  celui  s'en  detourne  et  l'abandonne  pour  suivre  l'Art?  „: 
pp.  182-185.  E  il  linguaggio  che  prenuncia  la  Rivoluzione,  anzi  le 
dolci  utopie  dei  socialisti  e  comunisti  dell'  Ottocento,  la  barbarie 
felice:  "  Nous  ne  voyons  point  ici  un  homme  demander  à  un  autre 
homme  dequoi  vivre,  travailler  pour  lui  en  mercenaire,  ou  le  servir 


SULLA  METÀ  DEL  SETTECENTO  I25 

làchement.  Nos  femmes  cultivent  nos  terres,  dont  le  fond  n'appar- 
tieni pas  plus  à  r  un  qu'  à  1'  autre  „  :  p.  184. 

13  G.  Ortolani,  Settecento,  Venezia,  1905,  p.  172  e  sgg. 

M  Questa  materia  satirica  era  già  sparsa  più  o  meno  nel  teatro 
comico  francese,  nei  romanzi  di  Lesage,  nelle  Lettres  Persanes  (1721) 
di  Montesquieu  e  specialmente  nelle  Lettres  Juives  (1736-37)  e  nella 
Lettres  Chinoises  (1739-40)  di  D'Argens:  G.  Ortolani,  Settecento, 
pp.  105-171.  In  Italia  la  ritroveremo  poi  nel  poema  del  Passeroni, 
//  Cicerone  (i""  parte,  1755)  e  nel  Giorno  del  Parini. 

15  L'  abate  Desfontaines  (1685-1745),  figlio  d'  un  Consigliere  del 
Parlamento  ed  ex-gesuita,  mostra  un  sentimento  ostile,  quasi  di  odio, 
contro  i  ricchi.  "  ..  Je  lui  répondis  „  (s' intende  al  vecchio  e  saggio 
Abenoussaqui)  "  que  notre  Paìs  étoit  très  fertile,  et  capable  de  nourrir 
deux  fois  plus  d' hommes  qu'  il  ne  contenoit  :  mais  qu'  il  y  avoit 
parmi  nous  des  hommes  puissans,  qui  s'  étoient  emparés  de  la  plus 
grande  partie  de  la  terre  que  nous  habitions  ;  ensorte  qu'  il  ne  restoit 
plus  rien  pour  les  autres,  qui,  afin  de  pouvoir  vivre,  étoient  obligés 
de  travailler  pour  eux  nuit  et  jour  „.  Ma,  dice  il  vecchio,  perchè  i 
poVeri  non  si  ribellano?  "  Les  loix  les  en  empéchent,  lui  repartis-je. 
Qu'  est  ce  que  ces  lois?  interrompit  le  Sauvage.  Sont-ce  des  hommes 
armés  de  fusils  et  de  sabres,  qui  servent  de  sauvegarde  aux  riches, 
pour  les  maintenir  dans  la  possession  de  leurs  richesses,  et  pour  les 
défendre  contre  les  justes  prétentions   des  pauvres?  „:  pp.  172-173. 

16  Nella  prima  edizione  (1749),  dalla  quale  naturalmente  sono 
tolti  questi  frammenti,  si  legge  pabulo,  ma  accettai  qui  volentieri  la 
correzione  che  1'  autore  fece  nella  seconda  edizione  (1764). 

17  Occorre  ricordare,  mezzo  secolo  prima,  il  Carnovale  del  Dotti? 

18  "  Impettite  e  pettorute  „  dice  nella  2*  edizione. 

19  Anche  Desfontaines  scherza  sui  cerchi,  ricordando  le  donne 
del  suo  paese:  "  Elles  cachent  souvent  mille  défauts  sous  leurs 
vastes  et  pompeux  habits,  qui  ne  servent  qu' à  deguiser  leur  faille 
et  à  nous  tromper.  Mais  elles  entendent  si  peu  leurs  interéts,  qu'  elles 
portent  de  grandes  pièces  d' étoffe  plissées,  qui  leur  descendent 
depuis  la  ceinture  jusqu'  aux  pieds,  d'  énormes  cercles  de  baleine 
revétus  de  toile,  qui  les  font  paroitre  grosses  et  prétes  d'  accoucher. 
Elles  marchent  au  milieu  de  ces  mobiles  cerceaux,  qui  les  entourent 
sans  cesse,  comme  vos  petits  enfans  à  qui  vous  apprenez  à  marcher 
et  que  vous  emboètez  dans  de  petites  machines,  qu'  ils  font  avancer 
ou  reculer  par  le  mouvement  qu'ils  font  „  :  I,  161-2.  Anche  a  D'Argens 
nelle  Lettres  Chinoises  sembra  la  moda  piiì  ridicola  e  pazzesca: 
"  Figure-toi  un  large  tonneau  de  quinze  à  seize  aunes  de  circonfé- 
rence,  dont  les  cercles  sont  faits  de  baleine,  et  le  corps  est  ordi- 
nairement  d'  une  grosse  toile.  Une  femme  s'  attaché  ce  tonneau  à  la 
ceinture,  et  ressemble  pour  lors  à  un  de  nos  Prédicateurs,  enfermé 
dans  une  des  tribunes  où  il   debute  son  sermon.  Rien  n'  est  si  sin- 


126  UN    ROMANZO    SATIRICO    A    VENEZIA 

gulier  que  de  la  voir  trotter  dans  les  ruès,  tortillant  son  tonneau 
d'un  air  grave  ou  badin...  Lorsqu'  elle  est  dans  un  carosse,  elle  le 
remplit  entièrement  par  son  tonneau,  qu'  elle  arrange  artistement  et 
de  manière  que  les  deux  bouts  sortent  un  peu  par  les  portières...  ; 
il  me  semble  de  voir  l' image  de  quelque  divinité  qu'  on  promene 
dans  un  char.  Quand  les  femmes  descendent  de  carosse,  1'  embarras 
que  leur  cause  le  tonneau,  et  la  difficulté  de  le  sortir  par  une  ouver- 
ture trop  étroite,  les  oblige  de  montrer  la  jambe  à  tous  ceux  qui 
les  regardent  „:  I,  ii. 

30  Non  è  da  stupire  che  lo  stesso  Salvatore  Di  Giacomo  e  lo 
stesso  Giambattista  Marchesi  scambiassero  Wanton  per  uno  scrittore 
inglese.  Il  Marchesi  fece  poi  giusta  ammenda  nel  cit.  volume  dei 
Romanzieri  e  romanzi  ecc.,  pp.  229-242,  benché  cadesse,  come  sem- 
pre, in  strani  difetti  d' inavvertenza  e  in  qualche  errore.  Solo  Bar- 
tolomeo Gamba,  nel  prospetto  che  precede  la  Galleria  de'  Letterati 
ed  Artisti  più  illustri  delle  Provincie  Venete  che  fiorirono  nel  sec.  XVIII 
(Venezia,  1824),  scriveva:  "  Quanto  agli  scrittori  di  Romanzi  non 
conosciamo  chi  meriti  d'  essere  registrato  oltre  il  Seriman  „  ;  e  nel 
cenno  che  dettò  di  lui  nel  voi.  II  giudicò  i  Viaggi  "  forse  il  migliore 
romanzo  critico-morale  che  si  conosca  originalmente  scritto  in  ita- 
liano „.  Dal  Gamba  attinse  Lombardi,  Storia  della  letteratura  italiana 
nel  sec.  XVIII,  Modena,  1839,  t.  IV,  270.  Più  tardi  anche  Luigi  Carrer 
lo  ricordò  con  onore  esagerato,  discorrendo  sulla  letteratura  vene- 
ziana neir  opera  Venezia  e  le  sue  lagune  (Venezia,  1847)  voi.  I,  ?.•  2.*, 
pp.  454-5:  "  Come  non  consacrare  una  riga  a  Zaccaria  Seriman, 
che  (se  ne  eccettui  la  bellezza  della  dizione,  nel  Seriman  sover- 
chiamente negletta  e  prolissa)  ci  diede  co'  romanzeschi  suoi  viaggi 
di  non  invidiare  all'Inghilterra  lo  Swift?  „.  Poi  tornò  il  silenzio,  ma 
il  romanzo  si  ristampò  nel  1870  a  Palermo  e  a  Milano. 

31  Viaggi  di  Enrico  Wanton  alle  Terre  incognite  Australi,  ed  ai 
Regni  delle  Scimie  e  de*  Cinocefali,  nuovamente  tradotti  da  un  mano- 
scritto inglese,  falsam.  Berna,  1754,  tomi  4.  Avverte  il  Cicogna  nel  suo 
Saggio  di  bibliografìa  veneziana  (Venezia,  1847)  che  la  stampa  si 
fece  nella  villa  di  Melma,  vicino  a  Treviso. 

=2  Pensiamo  forse  alle  favole  dell'  Ariosto  ?  Lo  stesso  Desfon- 
taines  si  diverte  a  descrivere  nell'  isola  di  Babilary  un  regno  dove 
governano  e  comandano  le  donne,  come  nel  Mondo  alla  roversa  (1750) 
cantato  dal  Goldoni  in  un  dramma  giocoso.  Sono  pure  note  Les  Fem- 
mes militaires  (1750)  di  Saint-Jory,  che  Gasparo  Gozzi  tradusse  e 
stampò  nel  '64  a  Venezia  {Le  Donne  militari  -  Relazione  d* un* isola 
scoperta  di  nuovo,  in  Ven.,  presso  Bart.  Occhi,  pp.  152),  dove  il  solito 
eroe  è  gettato  dalla  solita  tempesta  alla  solita  isola  in  cui  le  fanciulle 
portano  la  veste  lunga  appena  «  tre  dita  sotto  al  ginocchio,  „  e  hanno 
"  il  diritto  di  portare  lancia,  spada  e  scudo,  „  e  ricevono  '*  nelle 
scuole  pubbliche  l'educazione  stessa  che  si  dà  ai  maschi  „. 


SULLA  METÀ  DEL  SETTECENTO  I27 

33  Ne  parla  quasi  scherzosamente  il  nostro  Muratori  ne'  suoi 
Annali  d' Italia,  a  proposito  della  bolla  di  Clemente  XII  (1738):  "  Era 
negli  anni  addietro  nata  in  Inghilterra  una  setta  appellata  dei  Liberi 
Muratori,  consistente  nell'  union  di  varie  persone,  e  queste  ordina- 
riamente nobili,  ricche,  o  di  qualche  merito  particolare,  inclinate  a 
sollazzarsi  in  maniera  diversa  dal  volgo.  Con  solennità  venivano 
ammessi  i  nuovi  fratelli  a  questo  istituto,  e  loro  si  dava  giuramento 
di  non  rilevare  i  segreti  della  società.  Raunavansi  costoro  di  tanto  in 
tanto  in  una  casa  eletta  per  loro  congresso,  chiamata  la  loggia,  dove 
passavano  il  tempo  in  lieti  ragionamenti  e  in  deliziosi  conviti,  con- 
diti per  lo  più  da  sinfonie  musicali  „.  Tale  rito  passò  in  Francia  e 
in  Germania,  e  a  Parigi  si  contarono,  come  si  crede,  sedici  logge. 
"  Allorché  si  trattò  di  creare  il  gran  mastro,  più  brogli  si  fecero 
ivi  „  scrive  argutamente  il  buon  vecchio  "  che  in  Polonia  per  l'ele- 
zione di  un  nuovo  re  „.  E  poi  continua:  "  Si  tenne  per  certo  che 
anche  in  alcuna  città  d' Italia  penetrasse  e  prendesse  piede  la  mede- 
sima novità.  Contuttoché  protestassero  costoro  essere  prescritto  dalle 
loro  leggi  di  non  parlare  né  di  religione,  né  del  pubblico  Governo 
in  quelle  combricole,  e  fosse  fuor  di  dubbio  che  non  vi  si  ammet- 
teva il  sesso  femmineo,  né  ragionamento  di  cose  oscene,  né  vi  era 
sentore  di  altra  sorta  di  libidine:  nondimeno  i  sovrani  e  molto  più 
i  sacri  pastori  stavano  in  continuo  batticuore  che  sotto  il  segreto  di 
tali  adunanze,  renduto  impenetrabile  pel  preso  giuramento,  si  covasse 
qualche  magagna,  pericolosa  e  forse  pregiudiziale  alla  pubblica  quiete 
e  ai  buoni  costumi  „.  La  bolla  pontifìcia  e  l'  editto  di  Luigi  XV  (1737) 
furono  cagione  "  che  più  non  tenendosi  tenuti  al  segreto  i  membri 
di  essa  repubblica...  rompessero  gli  argini  e  divolgassero  anche  con 
pubblici  libri  tutto  il  sistema  e  rituale  di  quella  società.  Trovossi 
terminare  essa  in  una  invenzione  di  darsi  bel  tempo  con  riti  ridico- 
losi,  ma  sostenuti  con  gran  gravità;  né  altra  maggior  deformità  vi 
comparve,  se  non  quella  del  giuramento  del  segreto  preso  sul  van- 
gelo per  occultar  così  fatte  inezie  „  :  Opere  del  Muratori,  Venezia, 
1790,  t.  XLII,  pp.  67-68.  E  infatti  di  cotesti  libri  e  delle  polemiche 
si  fa  cenno  nelle  Novelle  letterarie  di  Venezia  e  di  Firenze:  nel 
num.  15  dell'  anno  1747,  le  Novelle  veneziane  chiedono  ridendo,  a 
proposito  della  Relazione  della  Compagnia  de'  Liberi  Muratori  (1746) 
del  cav.  Angiolieri  Alticozzi  di  Cortona,  se  1'  autore  abbia  ricavato 
quelle  notizie  da  qualche  apostata  o  dalle  "  madame  adirate  perché 
escluse  dal  segreto  delle  logge,  „  le  quali  siano  riuscite  a  strappare 
qualche  indizio  dell'  arcano  ai  propri  amanti.  Sulle  Donne  curiose 
(1753)  del  Goldoni,  dove  per  confessione  dell'  autore  si  allude  ai 
simposi  massonici,  e  sulla  commedia  del  Griselini  intitolata  /  Liberi 
Muratori  (1754)  dà  ampie  notizie  Edgardo  Maddalena  nella  Nota  sto- 
rica in  Opere  complete  di  C.  G.  per  cura  del  Municipio  di  Venezia, 
voi.  IX,  1910,  p.  369  e  segg.  (si  veda  anche  B.  Brunelli,  La  masso- 


128  UN    ROMANZO    SATIRICO    A    VENEZIA 

neria  a  teatro,  in  Gazzetta  di  Venezia,  28  febbr.  1923).  Tuttavia  non 
credo  che  il  Goldoni,  almeno  fino  al  '62,  fosse  affiliato  alle  logge  dei 
Frammassoni,  disperse  in  quel  tempo  e  in  poco  credito,  mentre  pur 
vi  erano  a  Venezia  liete  compagnie  di  amici  banchettanti,  aliene  dalle 
questioni  religiose  e  politiche.  -  L'  abate  Le  Blanc  nelle  sue  Lettres 
suir  Inghilterra  (Amsterdam,  1749)  scrive  propriamente  così  :  "  Le 
peu  de  commerce  qu'  ont  les  Anglois  d'  un  coté  avec  le  Sexe,  et  de 
r  autre  leur  penchant  à  l' intempérance,  ont  donne  lieu  à  toutes  ces 
Sociétés  dont  les  Assemblées  se  tiennent  au  Cabaret.  Nos  fameuses 
cotteries  modernes,  dit  Mr.  Addison,  sont  fondées  sur  le  manger  et 
sur  le  boir.  De-là  est  venne  cette  grande  Association  des  Francs 
Mafons,  qui  fait  aujourd'  hui  tant  de  bruit  dans  1'  Europe,  et  dont  les 
orgies  sont  les  principaux  mystères  „:  I,  35.  E  il  nostro  Rolli  che 
fu  tanti  anni  in  Inghilterra,  in  un  epigramma  del  suo  Marziale  in 
Albion  (Firenze,  1776,  pp.  41  e  43)  chiedeva: 

Ma  in  che  consiste  ciò  che  questi  fanno 

Compagni  in  ideal  Muraiorìal 

In  uno  sol  pubblico  pranzo  ogni  anno, 

E  cene  a  poca  spesa  in  compagnia. 

Pure  in  sospetto  a  più  governi  stanno. 

Perchè?  Se  fanno  il  tutto  all'  Osteria? 
Sono  Cristiani?  In  apparente  zelo 

Lo  son  :  ma  non  so  poi  se  nel  dovere. 

Daniele  li  dirla  ministri  a  Belo, 

Perch'  è  il  mestiere  lor  mangiare  e  bere. 

Nome  il  pili  adatto  a  questi  allegri  Fanti 

Sarebbe  quello  sol  d'  Osterianti. 

Così  nel  Dictionnaire  critique,  pittoresqne  etc.  (Lyon,  1768)  del  mar- 
chese Caraccioli  si  legge  alla  voce  Frama^ons:  **  Société  fort  en 
vogue  il  y  a  quelques  années,  et  qui  tombe  maintenant  dans  V  oubli. 
Son  secret  ne  s'  est  tenu  cache  que  parce  qu'  il  n'  existoit  pas.  Tout 
le  mystère  de  cette  Confrérie  consistoit  dans  une  reception  tragi- 
comique,  et  dans  quelques  signes  mystérieux  „  :  t.  I,  215.  Con  mag- 
gior riso  ne  parla  nella  sua  Vita  V  Alfieri  che  pure  contò  non  so 
quali  rimerie  in  quella  "  buffonesca  società  „  (epoca  III,  cap.  13  e  IV, 
cap.  i).  Ostile  il  conte  Giovanni  Cattaneo  nei  dialoghi  intitolati  La 
Uranide  (Venezia,  1748)  e  dedicati  a  papa  Lambertini,  Benedetto  XIV, 
il  quale  si  persuase  nel  1751  a  lanciare  una  seconda  bolla  di  sco- 
munica. A  proposito  di  questa,  scriveva  molti  anni  dopo  1'  avvocato 
G.  Oggeri  Vincenti,  uno  dei  molti  continuatori  degli  Annali  mura- 
toriani  :  "  Già  da  venti  anni  in  circa  questa  società  di  uomini  diffusa 
e  seminata  clandestinamente  nei  paesi  cattolici  e  molto  pili  in  quelli 
che  sono  fuori  del  cattolicismo,  teneva  in  continuo  esercizio  la  vigi- 
lanza  dei   principi   e    dei   governi...   Per   essere   ammesso  a  questa 


ì 


SULLA  METÀ  DEL  SETTECENTO  I29 

associazione  non  serviva  di  ostacolo  o  di  ripulsa  la  diversità  della 
patria,  la  differenza  del  governo,  la  disparità  del  culto...  Una  soave 
giocondità  presiedeva  alle  notturne  loro  adunanze,  e  parca  che  una 
innocente  allegrezza  fosse  il  nume  geniale  dei  loro  banchetti.  Uno 
spirito  di  fratellanza,  di  benevolenza  generale  congiungeva  le  loro 
destre  ed  annodava  i  loro  cuori  „.  Ma  perchè  dunque  la  società  è 
"  tutta  fondata  sul  più  rigoroso  secreto  „?  perchè  si  esige  dagli  ini- 
ziati "  sotto  i  più  terribili  giuramenti  di  essere  fedeli  al  silenzio  „? 
"  Se  la  società  ha  per  oggetto  del  suo  istituto  la  virtù,  perchè  tanta 
precauzione  onde  tenere  celata  la  sostanza  delle  sue  massime  e  delle 
sue  dottrine?  „.  Tutti  questi  segreti,  tutti  questi  misteri  divennero 
sospetti  non  solo  alla  potestà  ecclesiastica  "  ma  alla  stessa  potestà 
secolare  „  e  quasi  tutti  i  paesi  "  fulminarono  „  coi  loro  editti  "  gli 
apostoli  della  libertà  e  gli  angeli  della  luce  „:  e  invero  "  siffatte 
società  oppongonsi  alla  leggi  civili  non  meno  che  alle  ecclesiastiche, 
essendo  dal  gius  civile  proibiti  tutti  i  coUegj  e  le  corporazioni  che 
si  formano  senza  la  pubblica  autorità  „:  Opere  del  Muratori  ed.  cit., 
t.  XLIII  (il  permesso  della  stampa  è  dell'aprile  1805),  pp.  53-57.  - 
Certo  il  mistero  delle  agapi  massoniche  faceva  fiorire  misteriose 
leggende  di  terribili  vendette  e  di  vizi  mostruosi;  e  la  voce  di  so- 
domia fu  ripetuta  più  volte  :  vedi,  per  es.,  le  Nouvelles  littéraires  del- 
l' ab.  Raynal,  15  ott.  1751  {Correspondance  par  Grimm  etc,  Paris,  t.  I, 
1877,  pp.  107-109).  Non  crede  il  Sandi  che  a  Venezia  s' introducesse 
tale  setta,  almeno  fino  al  '67  in  cui  scrive,  ma  racconta  che  da  Lesina, 
in  Dalmazia,  fu  scacciato  nel  '54  un  massone  francese:  Principj  di 
storia  civile,  Venezia,  1772,  voi.  Ili,  p.  367  sgg.  Affiliati  e'  erano  anche 
a  Venezia  fra  quelli  che  avevano  viaggiato  e  fra  i  forestieri,  ma  non 
pare  che  dessero  troppa  ombra  al  governo.  Il  Casanova  fu  ammesso 
nel  '50  a  Lione  "  aux  sublimes  bagatelles  „  come  dice  "  de  la  franc- 
magonnerie  „;  ed  è  noto  come  ne  parli:  Mémoires,  ed.  Garnier,  II, 
289-292.  Il  Caminer  nella  sua  Europa  letteraria,  t.  V,  P.  2*  (i  giug.  1769), 
annunciando  uno  scritto  sui  Liberi  Muratori  uscito  allora  a  Venezia 
in  forma  di  lettera,  dice  che  1'  autore  doveva  informarsi  meglio  sul 
loro  conto:  "  Essi  sussistono  „  continua  "  in  varie  delle  primarie 
Città;  è  nota  la  loro  condotta;  non  è  più  un  arcano  la  loro  società. 
Alcuni  li  reputano  entusiasti;  altri  buoni  amici;  e  non  s'escludono 
sennon  da  que'  luoghi  ne'  quali  le  società  particolari  non  conven- 
gono al  sistema  del  Principato.  L'Autore  ha  detto  la  decima  parte 
di  ciò  che  già  sapevamo  intorno  ai  sognati  rifabbricatori  del  Tempio 
di  Salomone  „.  Ostilissimo  naturalmente  alla  società  massonica  fu 
Carlo  Gozzi:  vedasi  la  sua  Lettera  confutatoria  (1780)  contro  il  Gra- 
tarol,  in  appendice  alle  Memorie  inutili.  Tuttavia  anche  nell'  85,  quando 
fu  scoperta  la  loggia  di  Rio  Marin,  la  Repubblica  di  San  Marco  si 
accontentò  di  bruciare  qualche  libro  e  qualche  mobile,  e  di  allon- 
tanare qualche  straniero,   ma  non  infierì   contro  gli  adepti,  non  fece 

G.  Ortolani.  ♦  9 


130  UN    ROMANZO    SATIRICO    A    VENEZIA 

loro  nessun  male.  Solo  dopo  la  Rivoluzione  cominciò  1'  odio  contro 
la  misteriosa  setta  per  la  sua  attività  occulta  e  divampò  nel  periodo 
della  reazione  in  Europa,  dopo  il  1797,  quando  Venezia  non  era  più. 

Si  vedano  le  famose  Memorie  per  servire  alla  Storia  del  Giaco- 
binismo dell'abate  Barruel,  con  le  note  del  traduttore  italiano  (spe- 
cialmente il  t.  II)  e  fra  gli  infiniti  scritti  del  tempo  quello  intitolato 
Che  importa  ai  preti?  di  G.  M.  D.  E.,  Cristianopoli,  3*"  ed.  1798,  p.  30  sgg. 
Occorre  citare  Mutinelli  Dandolo  Romanin  Bazzoni  Fulin  Occioni- 
Bonaffons  Molmenti  e  altri  notissimi?  Poche  notizie  si  trovano  nel 
Cod.  Cicogna  1642,  intitolato  Liberi  Muratori,  presso  il  Museo  Civico  : 
e  poche  nel  Giornale  degli  Eruditi  e  Curiosi,  Padova,  1882-1883.  Pochi 
cenni  ha  Maria  Borgherini,  //  Governo  di  Venezia  in  Padova  nelV  ul- 
timo secolo  della  Repubblica,  Padova,  1909,  pp.  125-127.  Ricordo  piut- 
tosto, per  tornare  agli  scrittori  del  Settecento,  il  Nuovo  Dizionario 
del  Pivati  (Venezia,  1750)  che  servì  poi  ai  successori  (per  esempio, 
al  compilatore  del  Supplimento  al  Dizionario  /storico  del  Moreri, 
Napoli,  1776,  t,  I);  e  il  lungo  Esame  di  un  articolo  del  Signor  De  La 
Lande  sopra  i  Liberi  Muratori  ecc.  che  uscì  a  Venezia  nel  1787.  Chi 
desiderasse  conoscere,  almeno  in  parte,  come  si  diffondesse  la  mas- 
soneria nella  nostra  penisola,  può  consultare  utilmente  le  pp.  64-73, 
voi,  II,  P.  I*  del  Tempio  del  Risorgimento  Italiano  (Esposizione  Emi- 
liana 1888)  di  Vittorio  Fiorini  e-  gli  autori  citati  nelle  note  bibliogra- 
fiche della  Storia  d' Italia  dal  1789  al  1799  di  Augusto  Franchetti  e 
Francesco  Lemmi  (Milano,  Vallardi,  pp.  54-55).  Si  veda  poi  Bianca 
Marcolongo,  La  Massoneria  nel  secolo  XVIII,  in  Studi  storici,  XTX 
(1911).  È  superfluo  ricordare  O.  Dito,  Massoneria,  Carboneria  ecc. 
Torino,  1905;  e  P.  Maruzzi,  introduzione  al  Vangelo  di  Cagliostro, 
Todi,  1914.  Centro  principale  fu  prima  Firenze  (v.  Sbigoli),  poi  Na- 
poli (v.  Sperandio,  D'  Ayala,  Conforti  ecc.),  quindi  Milano  (v.  Cusani, 
De  Castro  ecc.).  In  Francia  vedi  Francesco  Bournand,  Histoire  de  la 
Franc-ma(:onnerie  des  origines  à  la  fin  de  la  Revolution  frant^aise, 
Paris,  1905.  -  Posso  ancora  citare  la  grande  recentissima  opera  di 
Alessandro  Luzio,  La  Massoneria  e  il  Risorgimento  italiano,  Bo- 
logna, Zanichelli. 

24  Si  legga  questa  pagina:  "  Il  Governo  è  affatto  monarchico.  Il 
Monarca,  i  Grandi,  i  Candidati,  le  infinite  Pretoriane  milizie  sono 
tutti  Eunuchi.  Ogni  mortale  di  nostra  specie,  di  qualunque  nazione 
e  condizione  si  sia,  sapiente  o  ignorante,  virtuoso  o  no,  può  perve- 
nire ai  sommi  gradi,  anzi  al  Trono  medesimo,  purché  sia  Eunuco. 
In  un  Regno  ove  il  "Re  è  forestiero,  che  non  può  aver  discendenti, 
che  non  può  eleggersi  il  successore,  che  arriva  alla  Monarchia  in 
una  età  eh'  esige  riposo  ;  che  non  può  aver  forze,  e  per  lo  più  neppur 
mente  di  reggere  ;  pare  che  i  Sudditi  non  possano  gustare  del  frutto 
di  un  buon  governo.  A  ciò  si  pone  riparo  coli'  assistenza  dei  Grandi, 
che  in  numero  di  pochi,  come  tanti  Re,  altieramente  comandano  „: 


SULLA    METÀ    DEL    SETTECENTO  13! 

IV,  158-159.  Simile  linguaggio  si  trova  appena  nel  carteggio  privato 
di  Pietro  Verri  o,  più  tardi,  nei  Mémoires  del  Corani,  se  non  vo- 
gliamo uscire  d' Italia. 

35  Nemmeno  il  padre  Concina  osò  pronunciar  tali  accuse  contro 
i  Gesuiti:  si  leggano  le  pp.  168-170. 

36  Leggiamo  anche  questo  :  "  ...  Mi  condusse  in  un  vasto  Palazzo, 
pieno  di  popolo  che  ascendeva  e  discendeva  le  scale.  E  dove  mi 
conducete,  gli  dissi?  io  non  ho  voglia  di  soffocarmi  tra  tanta  folla. 
Non  temete,  rispose:  dove  è  una  miniera  dello  Stato,  mancar  non 
possono  i  concorrenti,  ma  ci  rispetteranno.  Salimmo  a  fatica  le  scale  : 
girammo  sale,  camere,  gabinetti.  Per  tutto  non  vidi  che  carta,  cere, 
sigilli,  scrittori.  Chi  minutava,  chi  copiava,  chi  sigillava.  Il  popolo 
portava  a  sacchi  l'  oro,  e  riceveva  una  carta  in  bel  carattere  e  con 
grosso  sigillo.  È  questo,  dissi  all'  amico,  il  pubblico  banco  ?  No,  ri- 
spose il  Dottore,  qui  non  si  cambia,  si  vende.  Si  vende,  replicò,  quello 
che  non  si  ha,  non  si  può  avere,  ed  esiste  nelle  terre  di  tutti  i 
Sovrani  dell'  Universo.  Promesso  aveagli  di  non  stupirmi,  tacqui  e 
mi  lasciai  altrove  condurre  „:  IV,  174-175.  -  Si  capisce  come  i  due 
capitoli  sulla  città  di  Astuzia  sparissero  dalle  successive  edizioni  del 
romanzo. 

=7  Che  il  contrasto  fra  i  ricordi  dell'antica  grandezza  e  lo  spet 
tacolo  della  miseria  presente  commovesse  anche  il  cuore  degli  Ita- 
liani nel  Settecento,  non  dimostrano  soltanto  gli  sfoghi  più  o  meno 
rettorici  dei  poeti  d'  Arcadia,  ma  le  lettere  private  degli  scrittori 
nostri.  Basti  questo  frammento  dell'  abate  Fortis  di  Padova  (  Roma, 
26  ott.  1766,  al  conte  Marchesini  di  Vicenza):  "  ...  È  vero  che  questo 
riso  confinerebbe  col  pianto;  perchè  voi  certamente  non  potreste, 
com'  io  noi  posso,  trattenervi  dal  piangere  sopra  il  cadavere  defor- 
mato di  Roma,  sopra  il  degenerato  sangue  de'  Quiriti ...  „  :  Lettere 
inedite  d' illustri  Italiani  che  fiorirono  dal  principio  del  sec.  XVIII  ecc., 
Milano,  1835,  p.  592. 

28  È  peccato  non  possedere  la  chiave  di  questo  romanzo,  né 
della  Marfisa  bizzarra  di  Carlo  Gozzi.  Nemmeno  riusciamo  a  ricono- 
scere nella  Prigione  delle  Passioni  il  venerabile  Vecchio  "  eh'  era  stato 
r  onore,  e  dirò  quasi  l'  oracolo  per  molti  anni  della  Nazione  „  ;  e  che 
dopo  di  avere  a  lungo  servito  la  patria  come  ambasciatore,  godevasi 
ora  filosoficamente  giorni  tranquilli  facendo  buon  uso  delle  sue  ric- 
chezze. Nei  "  due  nobili  sapienti  „  che  gli  rendono  visita  ravvisiamo 
solo  il  primo,  1'  abate  Conti.  '*  Uno  di  essi,  gran  Matematico,  sublime 
Poeta,  penetrantissimo  Filosofo,  era  stato  1'  arbitro  delle  contese  let- 
terarie delli  Genj  maggiori  che  fossero  nati  in  quel  Continente.  Co- 
priva tante  doti  con  una  sincera  umiltà,  e  1'  adornava  di  un'  affabilità 
che  invitar  poteva  gli  stessi  fanciulli  a  godere  della  sua  compagnia  „  : 
III,  414.  -  Poiché  mi  torna  opportuno,  addito  alcune  piccole  Notizie 
su  Schinella  Conti  abate,  nobile  veneto  della  Contrada  di  S.  Trovaso, 


132  UN    ROMANZO    SATIRICO    A   VENEZIA 

che  si  trovano  nel  voi.  V  dei  Commemoriali  Gradenigo  presso  il 
Museo  Correr,  a  carte  308-310.  Dopo  il  ritorno  dalla  Francia,  il  Conti 
conversava  specialmente  col  N.  U.  Giovanni  Vezzi  q.  Francesco  e 
con  r  abate  Antonio  Muazzo.  "  Il  luogo  delle  loro  frequenti  radu- 
nanze era  la  bottega  di  G.  B.  Pasquali,  Librajo  e  Stampatore,  situata 
nel  Campo  di  S.  Bartolomeo,  sul  principio  della  strada  che  Merceria 
si  appella  „.  Frequentava  poi  la  conversazione  di  Cecilia  Contarini, 
vedova  del  senatore  Bernardo  Memo,  "  la  qual  dama  da  lui  apprese 
parecchie  scienze  „.  "  Sul  principio  dell'  anno  1749  „  andò  a  Padova, 
forse  per  respirare  un'  aria  più  salubre  per  certo  suo  incomodo,  ma 
ivi  morì.  Il  fratello  suo  Manfredo  fu  podestà  di  Verona,  Annibale 
perì  d'  un  colpo  di  cannone  a  Metelino  nel  1698,  la  sorella  Antonia 
sposò  il  N.  U.  Giuseppe  Michiel.  Aggiungo  che  la  Contarini  era  zia 
di  Andrea  e  Bernardo  Memo,  ai  quali  il  Goldoni  dedicò  1'  Uomo  di 
mondo. 

39  Da  Petronio  siamo  lontanissimi;  e  così  daW Euphormio  (1603) 
e  dall' ^r^^m5  (1621)  del  Barclay:  più  vicini  forse  aìV Eudemia  {16^'] j^ 
romanzo,  pure  latino,  di  Gian  Nido  Eritreo,  contemporaneo  di  Bar- 
clay. Benché  troppo  sia  personale  la  satira,  F  isola  di  Gian  Vittorio 
Rossi  meglio  s'  accosta  alle  invenzioni  del  Settecento  (v.  Salfì,  Hist. 
un.  d' Italie  par  Ginguené  etc.  Paris,  1835,  t.  XIV,  90-99  ;  e  L.  Gerboni, 
Un  umanista  del  Seicento,  Città  di  Castello,  1899).  Mi  si  permetta 
infine  di  ricordare  nell'  estremo  Quattrocento  la  fortunata  Nave  dei 
pazzi  (1494)  e  la  città  di  Narragonia  di  Sebastiano  Brant  di  Strasburgo 
(poema  satirico  tedesco,  tradotto  in  latino  nel  1497,  e  poi  nelle  prin- 
cipali lingue);  e  a  mezzo  il  secolo  decimottavo  il  viaggio  fantastico- 
satirico  di  Luigi  Holberg  danese,  Nicolai  Klimii  iter  subterraneum 
(1741;  tr.  frane,  di  Mauvillon,  1753). 

30  Brevi  Memorie  sulla  Famiglia  Sceriman,  del  conte  Fortunato 
Sceriman,  25  sett.  1850  :  in  cod.  Cicogna  3428  presso  il  Civico  Museo 
Correr.  -  Ignoro  quanta  parte  ci  sia  del  nostro  autore  nella  storia  e 
nei  lamenti  del  filosofo  Fuggimondo  :  "  La  taciturnità,  ordinario  effetto 
di  uno  spirito  riflessivo,  fu  da'  miei  Patrioti  intitolata  stupidità;  lo 
allontanamento  dalla  Corte,  viltà;  la  distribuzione  di  qualche  parte 
delle  mie  sostanze  a  chi  n'  era  meritevole,  era  chiamata  pazzia...  I 
due  unici  miei  Fratelli,  uno  per  perfìdia,  1'  altro  per  seduzione,  di- 
vennero i  miei  più  crudeli  nemici...  Tanto  dunque  risolvetti,  e  abban- 
donati gli  avvanzi  delle  mie  facoltà  alli  due  suddetti  Tiranni,  mi 
ritirai  in  questo  deserto  „:  III,  314-316.  Oppure  in  quelli  di  Trista- 
sorte:  "  ...  I  Fratelli  con  fìnte  carezze  m' insinuarono  a  pagare  i  loro 
debiti  particolari  :  lo  eseguii  ;  mi  esortarono  ad  assumere  gli  aggravii 
de'  legati:  vi  acconsentii;  mi  pregarono  porli  in  qualche  fortuna  nel 
mondo  :  v'  impiegai  le  mie  sostanze...  Io  era  l' idolo  della  Famiglia^ 
r  eroe  delle  genti  oneste  „.  Ma  dopo  due  anni  "  si  avvidero  i  Fratelli 
che  io  non  potea  reggere  alle  spese  di  tutti:  senza  darmi  un  addio^ 


SULLA  METÀ  DEL  SETTECENTO  I33 

presero  le  loro  sostanze,  e  me  abbandonarono...  I  Congiunti  che  sa- 
pevano il  vero  delle  cose,  ma  che  niun  vantaggio  poteano  da  me 
sperare  per  aver  io  così  sconsigliatamente  fatto  abuso  delle  mie 
fortune...  colla  viltà  che  nel  mondo  si  chiama  prudenza,  non  esita- 
rono ad  unirsi  ai  Fratelli,  e  dichiararmi  nel  pubblico  come  un  men- 
tecatto scialacquatore  ridotto  alla  miseria  „  :  IV,  482-484. 


FRANCESCO  ALGAROTTI 
E   L'EPISTOLA   AL   VOLTAIRE 


v^'^ 


Spettacolo  commovente  è  sulla  fine  del  secolo  decimoset- 
timo e  nella  prima  metà  del  decimottavo  quello  del  popolo 
italiano  che  si  accorge  di  aver  perduto  nel  mondo  il  primato 
delle  lettere  e  delle  scienze,  e  a  poco  a  poco,  attraverso  peri- 
coli e  difficoltà  d'  ogni  maniera,  tenta  di  giungere  a  pari  con 
le  orgogliose  nazioni  d'  oltralpi  che  non  gli  risparmiano  intanto 
il  loro  disprezzo.  La  storia  della  riscossa  intellettuale  d'Italia 
è  pure  la  storia  della  sua  rivendicazione  civile.  Tutti  gli  altri 
popoli  poterono  acquistare  T  indipendenza  con  la  sola  forza  delle 
armi:  il  popolo  italiano,  che  portava  il  peso  glorioso  del  Rina- 
scimento, volle  vincere  prima  di  tutto  con  la  forza  dell'  intelli- 
genza e  della  dottrina.  Nel  racconto  di  tale  lotta  spetta  a  Venezia 
una  parte  onorevolissima,  a  Venezia  la  quale  ci  viene  comune- 
mente rappresentata  in  quel  periodo  come  un  bordello  foUeg- 
giante  con  misera  incoscienza   sulla   vergogna  sua  e  dell'  Italia. 

Anche  di  Francesco  Algarotti,  che  nacque  nella  bella  città, 
di  famiglia  doviziosa,  agli  ii  dicembre  17 12,  è  facile  ridere 
quando  si  voglia:  in  fatti  da  più  generazioni  si  suole  chiamarlo 
argutamente  il  Contino,  V  Algarottino,  Algarotolus  Comtulus,  e 
perfino  l' arcade.  Ma  questo  ragazzo  appena  ventenne,  che  ripete 
nella  scuola  dello  Zanotti  a  Bologna,  e  quindi  a  Venezia,  nel  '33, 
gli  esperimenti  del  Newton;  che  non  solamente  sa  di  latino  e 
di  greco,  ma  conosce  il  francese  e  studia  l' inglese;  che  apprende 
in  pari  tempo  le  matematiche  e  l'anatomia;  che  passa  le  Alpi 
non  cacciato  dal  bisogno  o  acceso  dallo  spirito  di  ventura,  bensì 
per  desiderio  avidissimo  della  scienza;  che  a  21  anno  medita 
e  a  22  distende  in  forma  letteraria,  perchè  siano  rese  popolari, 
le  teorie  newtoniane,  primissimo  in  Italia  e  primo,  si  può  dire, 
in  Francia  ^,  e  ottiene  la  stima  del  vegliardo  Fontenelle  e  di 
Voltaire;  che  a  24  anni  pubblica  il  Newtonianismo  per  le  dame 


138  FRANCESCO    ALGAROTTI 

(nel  1737  a  Milano,  con  la  data  di  Napoli),  avanti  che  compa- 
riscano gli  Elementi  della  filosofia  di  Newton  (1738)  del  Voltaire, 
è  ben  degno  della  nostra  più  viva  ammirazione. 

Basti  pensare  che  nelle  università  italiane  si  continuava  a 
quei  tempi  a  leggere  la  filosofia  di  Aristotele,  e  a  stento  sor- 
gevano qua  e  là  cattedre  di  scienza  sperimentale,  e  un  innocuo 
cartesiano  riguardavasi  con  sospetto.  Si  pensi  che  a  Padova, 
accanto  al  Vallisnieri,  insegnò  medicina  per  mezzo  secolo  Omo- 
bono  Pisoni,  uomo  di  fama  non  oscura,  il  quale  chiudeva  gU 
occhi  nel  1748  "  prima  d'esser  affatto  persuaso  della  circola- 
zione del  sangue  ne'  corpi  viventi  „  a.  Si  ricordi  che  soltanto 
nel  1744  fu  permessa,  con  molte  cautele,  la  prima  ristampa  in 
Italia,  dopo  la  famosa  condanna,  dei  Dialoghi  di  Galileo:  e 
Padova  n'  ebbe  1'  onore  3.  In  grazia  di  detta  opera  dell' Algarotti, 
che  contò  un  gran  numero  di  edizioni  in  varie  città,  e  fu  tra- 
dotta in  francese,  in  inglese,  in  tedesco,  in  russo  e  in  portoghese, 
(la  rimaneggiò  poi  l'autore,  ristampandola  col  titolo  più  severo 
di  Dialoghi  sopra  l' ottica  newtoniana)^  potè  ognuno,  anche  nel 
nostro  paese,  dirsi  impunemente  newtoniano,  e  sorsero  anche 
da  noi  le  signore  newtoniane^  come  in  Francia  4. 

Fu  lecito  ai  Veneziani,  nel  1736,  scherzare  sulle  mode  fore- 
stiere del  giovane  concittadino,  e  si  sussurrò  che  i  comici  del 
teatro  di  San  Luca  volessero  farne  la  caricatura  5  ;  ma  questo 
figlio  d'  un  droghiere  di  Rialto  fu  visto  nel  '40  accanto  a  Fe- 
derico II  di  Prussia  il  giorno  della  solenne  incoronazione  a 
Kònigsberg,  e  godette  per  più  anni  la  confidenza  del  gran  Re 
che  lo  fece  Conte  e  Ciambellano,  e  fu  ricercato  e  accarezzato 
a  Dresda  dall'  Elettore  Augusto  III  re  di  Polonia,  a  Parma  dal 
Duca  Filippo  V  di  Borbone,  e  fu  invitato  a  Roma  da  papa 
Benedetto  XIV;  e  carteggiò  con  una  schiera  di  prìncipi;  e  fu 
accolto  nella  società  più  eletta  a  Torino  a  Parigi  a  Londra  a 
Pietroburgo,  dove  portò  onoratissimo  il  nome  veneziano,  come 
il  marchese  Maff"ei,  come  1'  abate  Conti,  come  il  cardinale  Qui- 
rini,  sudditi  della  Serenissima. 

Egli  è  uomo  nuovo,  e  apre  il  settentrione  d'  Europa  all'Italia 
che  ha  bisogno  di  vivificarsi.  Fu  anch'  egli  tra  gli  scopritori 
dell'  Inghilterra  nel  Settecento,  insieme  con  altri  illustri  italiani 
che  non  aspettarono  di  ricevere  l'anglomania  dalla  Francia,  ma 
anzi  ne  favorirono  la  diff"usione  a  Parigi;  e  della  poesia  inglese 
ci  portò  notizia  6,  come  l'abate  Conti,  tanti  anni  prima  del  Ba- 
ratti. Fu  tra  gli  scopritori  della  Russia,  e  le  sue  lettere  nel  1739 


E   L    EPISTOLA    AL   VOLTAIRE  I39 

dal  Baltico,  che  gli  furono  sempre  care,  abbondano  di  buone 
osservazioni  sulle  industrie  e  sui  commerci  7.  E  vide  TAlgarotti 
dal  castello  di  Potsdam  la  sorgente  fortuna  della  Prussia. 

Gentiluomo  perfetto,  quale  si  rivela  anche  nella  sua  copiosa 
corrispondenza,  incapace  di  qualsivoglia  volgarità,  parlatore  fa- 
cile e  dotto,  prontissimo  di  memoria,  generoso  delle  proprie 
ricchezze,  immune  da  ogni  piccola  invidia,  alieno  da  ogni  pet- 
tegolezzo, tutti  gli  volevano  bene;  e  volentieri  gli  perdonano  i 
posteri  la  sua  vanità  che  non  era  mai  superbia,  la  sua  cortigia- 
neria eh'  era  costume  dei  tempi,  la  sua  galanteria  con  le  belle 
signore  s.  Nelle  beghe  tra  Voltaire  e  Maupertuis,  nella  guerra 
tra  Federico  e  Voltaire,  egli  non  perdette  1'  amicizia  e  la  stima 
di  nessuno  dei  contendenti.  Lo  stesso  Re  non  si  permetteva  con 
l'Algarotti  gli  scherzi  crudeli  con  cui  soleva  umiliare  il  mar- 
chese D'Argens  e  altri  suoi  cortigiani.  Ne  quella  lingua  imper- 
tinente del  Baretti  osò  assalirlo  fin  che  fu  vivo. 

Ebbe  ingegno  lucido  e  versatile  o  enciclopedico:  gli  mancò 
r  ingegno  creatore.  Come  lo  Zeno,  come  il  Conti,  come  il  Maffei, 
fu  egli  dei  nobili  divulgatori  delle  scienze  e  delle  arti  nel  pe- 
riodo che  precorse  da  vicino  il  risorgimento  letterario  e  civile 
d' Italia.  Araldo  de'  nuovi  tempi,  egli  è  un  odiatore  dei  sonettini 
e  delle  vuote  accademie  prima  assai  del  Baretti,  e  vuol  guarire 
r  Italia  dal  "  morbo  poetico  „  ;  e  prima  del  Parini,  quando  scrive 
dei  versi,  si  propone  insegnamenti  morali  e  intenti  civili,  come 
fece  nelle  epistole.  Lasciò  scivolare  anche  nella  lingua,  per  il 
lungo  soggiorno  oltre  l' Alpi,  qualche  voce  o  forma  strana  e 
impura,  benché  non  fosse  sciatto,  anzi  molto  limasse  le  cose 
sue  9,  ma  in  quella  specie  di  lontano  esilio  gli  crebbe  l'amore 
della  patria  '°;  e  se  dimenticò  qualche  volta  nei  suoi  peregri- 
naggi  la  sua  Venezia,  fu  per  sentirsi  più  italiano.  Per  questo 
differisce  dal  Gozzi  e  dal    Parini,  e   si    ricongiunge    all'  Alfieri. 

L'  amore  dell'  Italia  è  costante  nel  ciambellano  di  re  Fede- 
rico, e  riscalda  le  pagine  ingiallite  dei  suoi  volumi.  Egli  difende 
con  ostinazione  le  glorie  passate  della  penisola  e  le  rivendica 
in  faccia  agli  stranieri.  Spoglia,  è  vero,  di  quadri  qualche  pa- 
lazzo veneziano  per  arricchire  la  galleria  di  Dresda  '^,  ma  dei 
tesori  artistici  d' Italia  si  fa  cultore  intelligente  e  appassionatis- 
simo.  I  suoi  scritti  sulla  pittura  neppur  oggi  vanno  dimenticati. 
Egli  esalta  Galileo,  esalta  Machiavelli,  autore  eh'  era  tuttavia 
interdetto  e  maledetto,  e  ne  pone  i  nomi  fra  i  più  grandi  del 
genere  umano,  accanto  a  Confucio,  a  Maometto  II,  a  Cromwell, 


140  FRANCESCO    ALGAROTTI 

a  Newton,  a  fra  Paolo,  a  Voltaire  ";  e  tutto  ciò  senza  attirarsi 
le  folgori  di  Roma,  senza  attirare  intorno  a  sé  polemiche  e 
scandali,  per  certo  suo  senso  delicatissimo,  e  direi  signorile, 
della  misura. 

A  Dresda,  nel  1746,  mentre  attendeva  con  desiderio  la  fine 
della  lunga  guerra  che  da  tanti  anni  affliggeva  la  Germania  e 
ritaha,  r  Algarotti  affaticavasi  a  comporre  alcune  epistole  in 
versi  da  aggiungere  a  quelle  più  giovanili,  già  edite:  con  le 
quali  si  vantava  di  donare  alla  patria,  come  in  Inghilterra  il 
Pope,  un  nuovo  genere  di  poesia,  più  severa  e  filosofica.  Sono 
di  questo  tempo  le  due  più  famose  :  V  una,  e  giustamente  la  più 
fortunata,  ad  Alessandro  Zeno  procuratore  di  San  Marco,  Sopra 
il  CommerciOy  dove  insieme  col  rimpianto  della  decadenza  eco- 
nomica di  Venezia  "  Sfrondata  sì,  ma  non  recisa  al  suolo,  „ 
ascoltiamo  ammirati,  molto  prima  del  Genovesi  del  Verri  del 
Filangieri,  i  generosi  eccitamenti  al  risveglio  audace  delle  arti 
delle  industrie  dell'agricoltura  ^3;  V  altra  al  Voltaire  in  lode  della 
Francia  '4^  ma  più  ancora  dell'  Italia,  di  cui  il  poeta  osa  preve- 
dere, con  segreta  commozione,  il  risorgimento.  Ne  stese  il  primo 
abbozzo  nel  luglio  ^5:  i  versi  cominciò  a  scrivere  tra  la  fine 
dell'  agosto  o  il  principio  del  settembre  '^  :  li  mandò  al  Voltaire 
il  giorno  II  dicembre,  accompagnandoli  con  una  lunga  lettera  ^7. 

L' autore  piange  la  gloria  caduta  d' Italia,  rinnovellando  il 
classico  lamento  così  frequente  e  insistente  presso  i  nostri  poeti 
nei  primi  decenni  del  Settecento, 

Quando  leggi  costumi  arti  e  favella 
Dava  alle  genti  in  Campidoglio  assisa. 

Piange  la  frivolità  degli  Italiani  presenti  : 

Oimè!  qual  sei  da  quel  di  pria  difforme, 
Italia  mia!  che  neghittosa,  e  quasi 
Te  non  tocchi  il  tuo  mal,  nell'  ozio  dormi 
Fra  i  secchi  lauri  tuoi  serva  e  divisa: 
Né  r  arti  belle  e  gli  onorati  studj. 
Onde  Grecia  emulasti,  or  più  non  sono 
Tua  nobil  cura,  e  tuo  più  dolce  impero. 

Segue  il  ricordo  dei  grandi  italiani,  da  Dante  a  Galileo;  e  con 
orgoglio    si    allude    copertamente   a   Caterina    dei    Medici   e  ad 


E   L    EPISTOLA    AL    VOLTAIRE  I4I 

Elisabetta  Farnese,  al  Mazarino  e  all'  Alberoni,  al  Montecuccoli 
e  a  Eugenio  di  Savoia  : 

e  tu  pur  desti 
Sulla  Senna,  suU'  Istro  e  sull'  Ibero 
A  quei  popoli  re,  ministri,  e  duci. 
Bollono  di  virtù  gli  occulti  semi 
Ancora,  è  ver  ;  ma  1'  ozio  vii  marcire 
Ne  gli  fa  ciecamente,  e  in  faccia  al  sole 
Non  ispunta  di  gloria  o  ramo  o  foglia. 

L'unico  onore  e  vanto  della  poesia  italiana,  il  Metastasi©,  è 
costretto  a  vivere  lontano  dalla  patria: 

E  quel  che  ne  rimane  unico  erede 
Dell'  italica  lira.  Apollo  il  lascia 
Dell'  Istro  là  sul  margine  ventoso 
Egro  languir,  quasi  del  nostro  onore, 
E  insiem  dell'  arte  sua  gli  caglia  poco. 

Qui  r  animo  commosso  dell'  Algarotti,  giovane  pellegrino  del- 
l' arte  e  della  scienza  in  Europa,  prorompe  in  un  grido  augurale 
che  da  molto  tempo  fremeva  occultamente  nel  petto  di  qualche 
italiano  : 

Oh!  sieno  ancora,  Italia  mia,  le  belle 
/  E  disperse  tue  membra  in  uno  accolte. 

Né  r  itala  virtù  sia  cosa  antica. 
Ma  il  quando,  chi  '1  vedrà?  forse  il  vedranno 
Anche  un  giorno  i  nepoti. 

Umili  versi,  ma  solo  per  questi,  che  furono  scritti  quando  Vit- 
torio Alfieri  non  era  nato  ancora,  meriterebbe  l' Algarotti  di 
essere  ricordato,  né  soltanto  dai  Veneziani. 

La  nuova  guerra  di  successione  aveva  fatto  fermentare  più 
di  un  sogno  nelle  fantasie  degli  Italiani:  é  del  1745  il  noto 
progetto  di  confederazione  italiana  del  ministro  D' Argenson, 
amico  di  Voltaire,  di  cui  par  di  sentire  quasi  un'  eco  in  questi 
versi.  Pensiamo  che  1'  Algarotti  li  ritoccava,  prima  di  spedirli, 
mentre  per  le  vie  di  Genova  crosciava  sull'Austriaco  la  tempesta 
di  pietre  del  popolo  sollevato;  pensiamo  che  furono  scritti  tra 
il  combattimento  di  Velletri  (1744)  e  il  combattimento  del  colle 
dell'  Assietta  (1747),  mentre  i  contadini   di   Cuneo  si  armavano 


142  FRANCESCO    ALGAROTTI 

contro  i  Francesi  (1744)  e  quelli  del  Vicentino  assalivano  le 
bande  dei  Croati  (1748)  ^^.  Qualcuno  combatteva  in  Italia  contro 
lo  straniero,  le  plebi  fremevano  ormai  contro  la  prepotenza 
degl'  invasori  :  e  i  Còrsi  insegnavano  a  morire  per  la  libertà. 
Ma  al  congresso  d' Aquisgrana  l'Europa  ci  ribadi,  come  sempre, 
le  catene  '9. 

11  Voltaire,  come  si  sa,  rispose  da  Parigi  il  21  febbraio 
del  '47  con  una  di  quelle  sue  letterine  in  versi  che  hanno  tutto 
il  sapore  del  Settecento,  dove  fra  i  complimenti  e  le  arguzie  «° 
la  faccia  caratteristica  del  poeta  fa  una  smorfia  d'ironia: 

Enfant  du  Pinde  et  de  Cythère, 

Brillant  et  sage  Algarotti, 

A  qui  le  elei  a  départi 

L'  art  d'  aimer,  d'  écrire  et  de  plaire... 

L'  astuto  cortigiano  si  profonde  nelle  lodi  della  nuova  Delfina 
di  Francia,  figlia  appunto  di  Augusto  di  Sassonia,  che  il  duca 
di  Richelieu  era  andato  a  ricevere  a  Dresda  e  condusse  in 
Francia  nel  mese  di  gennaio,  ma  della  povera  Italia  non  parla. 

Né  appare  che  l' Algarotti  inviasse  a  leggere  la  sua  epistola, 
come  quella  Sopra  il  Commercio^  al  Metastasio  o  ai  suoi  molti 
amici  e  corrispondenti  d' Italia.  Vero  è  che  più  tardi,  ai  12  feb- 
braio 1754,  la  mandava  da  Venezia  all'autore  del  Trillo  del 
diavolo,  Giuseppe  Tartini,  che  abitava  a  Padova  ^i,  né  molto 
dopo  a  Parma,  al  Frugoni.  Al  Bettinelli  la  fece  leggere  a  Ve- 
nezia ==  e  il  gesuita  1'  ebbe  a  sua  volta  dal  Frugoni  nel  '56  "3  e 
la  stampò  sulla  fine  dell'  anno  seguente,  ma  senza  i  versi  più 
famosi  che  uscirono  soltanto  nel  '59  ^4. 

Nel  '47  r  Algarotti,  lasciato  il  pomposo  e  vacuo  titolo  di 
Consigliere  intimo  di  guerra  del  re  Augusto,  se  ne  tornò  a 
Berlino  dove  il  gran  Federico  lo  colmava  di  onori.  Il  pensiero 
di  tutti  gli  Italiani,  rallegrandosi  con  lui,  si  rivolge  con  nuovo 
sentimento  alla  patria.  "  Questo  sì  „  esclama  il  bolognese  Bian- 
coni "  che  si  chiama  sostenere  il  nome  della  nostra  Italia,  anzi 
esserne  uno  dei  maggiori  ornamenti  „  35.  Per  fino  Marco  Fosca- 
rini,  il  futuro  Doge,  gli  scrive  da  Padova  (15  giugno):  "  ...  Que- 
st'  ultima  viene  ad  essere  una  nuova  grazia  maggiore  di  tutte 
e  di  cui  r  Italia  tutta  dee  grado  a  S.  Maestà  „  ^^.  Perfino  il  Me- 
tastasio gli  dice  da  Vienna  (13  maggio):  "  Io  numero  tra  i  for- 
tunati eventi  della  nostra  felice  patria  1'  esser  voi  stato  eletto  a 


E   L   EPISTOLA    AL   VOLTAIRE  I43 

sostenere  nel  settentrione  il  decoro  delle  muse  italiane  „  «»7.  E 
finalmente  il  Bettinelli,  nel  '54,  udendo  eh'  egli  più  non  abban- 
donerebbe l'Italia,  esclama:  "  Voi  siete  adunque  nostro,  voi 
siete  Italiano,  e  i  voti  di  tanti  amici  e  de'  veri  Italiani  sono 
esauditi  „  ^^. 

Fra  i  Pensieri  diversi  dell' Algarotti  non  deve  sfuggire  que- 
sto al  nostro  ricordo  :  "  Gli  Italiani  hanno  conquistato  il  mondo 
con  le  armi,  lo  hanno  illuminato  con  le  scienze,  ripulito  con  le 
buone  arti,  e  lo  hanno  governato  con  l' ingegno.  Non  fanno  al 
presente,  egli  è  vero,  una  gran  figura;  ma  egli  è  ben  naturale 
che  si  riposi  ancora  colui  che  ha  faticato  dimolto,  e  che  dorma 
alcun  poco  fra  giorno  chi  si  è  levato  prima  degli  altri  di  gran 
mattino  „  ^.  Note  sono  le  due  lettere  al  Frugoni  (Potsdam,  1752) 
in  cui  rivendica  ciò  che  all'  Italia  devono  principalmente  i  Fran- 
cesi, nelle  arti  e  nelle  lettere  3°:  "  Quando  gli  altri  dormi van 
ancora,  noi  eravam  desti  „  dice,  precorrendo  il  Giusti.  Nella 
lettera  al  Voltaire,  con  la  quale  accompagnava  nel  '46  l'epistola 
in  versi,  già  trovasi  un  lamento  sulla  divisione  della  penisola 
in  piccoli  stati  e  sulla  mancanza  di  una  capitale,  tante  volte 
ripetuto  dal  Bettinelli  e  da  altri  nel  Settecento,  e  anche  dopo  31. 
E  il  lamento  d'  un  letterato,  ma  nel  '52  compare  la  nota  politica 
in  altra  lettera  da  Berlino  a  un  barone  reduce  dal  viaggio  in 
Italia. 

"  Escono  ogni  giorno  in  Londra  libretti  sopra  la  politica, 
sopra  la  filosofia,  sopra  ogni  materia,  atti  veramente  a  riscuotere 
una  nazione.  La  libertà  del  governo  dà  vigoria  allo  spirito,  apre 
al  sapere  la  strada  della  fortuna...  I  Francesi,  benché  sotto  altro 
governo,  hanno  nondimeno  di  grandissimi  vantaggi  anch'  essi, 
che  pur  sono  una  nazione  grande  ed  unita...  Che  faremo  noi 
altri  Italiani  servi  e  divisi?  „  esclama  malinconicamente.  "  Le 
produzioni  d' ingegno  tengono  in  grandissima  parte  anch'  esse 
della  costituzione  politica,  secondo  cui  sono  ordinati  i  popoli. 
La  importanza  di  quelle  tien  dietro  alla  perfezione  del  governo  „  ; 
osserva  con  sagacia.  Tuttavia  non  dispera  dell'  Italia.  "  Nelle 
nazioni  „  ammonisce  più  avanti,  e  anche  queste  parole  vanno 
ricordate,  "  nelle  nazioni  vi  sono  delle  qualità  intime  che  hanno 
radice  nelle  qualità  fisiche  del  terreno  e  del  cielo,  dei  caratteri 
indelebili  che  tralucono  a  traverso  qualsivoglia  mutazione  di 
stato:  e  dalle  espressioni  più  comuni  delle  lingue  si  possono 
arguire  gli  umori  dominanti  delle  nazioni  medesime.  Ben  ella, 
signor  Barone,  accorto  com'  ella  è,  avrà  osservato  che  lo  ingegno 
1» 


144  FRANCESCO   ALGAROTTI 

italiano  ha  in  sé  medesimo  tutt'  altra  solidità  che  le  erudizion- 
celle  non  mostrano,  le  canzoni,  i  sonetti  e  le  altre  bagattelle  in 
cui  ora  è  forzato  di  uscire  „.  E  osa  finalmente  soggiungere: 
"  Ella  pur  sa,  se  hanno  prosperato  le  armi  tedesche  guidate 
dagl'  Italiani  „  33. 

Tali  idee  e  tali  sentimenti  professò  sempre  1'  Algarotti,  a 
voce  e  in  iscritto,  anche  dopo  il  ritorno  in  patria,  come  appare 
da  quella  famosa  lettera  che  il  24  aprile  del  1755  mandava  da 
Venezia  a  Parma  all'  abate  Bernis,  ambasciatore  francese  e  ben 
presto  ministro  di  stato:  "  Le  plus  grand  mal  pour  la  pauvre 
Italie,  comme  nous  T  avons  dit  souvent  ensemble,  e'  est  qu'  elle 
n'  a  ni  capitale  ni  cour;  e' est  qu'elle  est  partagée  et  esclave  „  33. 
"  La  gioire  des  lettres  „  prosegue  non  senza  amarezza  il  let- 
terato veneziano,  ammiratore  di  Federico  II,  "  est  ordinairement 
jointe  à  celle  des  armes;  et  rarement  l' on  estime  la  piume 
d*  une  nation  dont  on  ne  craint  point  1'  épée  „. 

Lo  so,  è  facile  ridere  e  sparlare  dell' Algarotti  per  le  molte 
•debolezze  del  suo  carattere  e  per  i  difetti  troppo  visibili  del 
suo  ingegno  e  della  sua  coltura:  più  difficile  è  saper  degna- 
mente giudicare  1'  opera  sua  e  misurare  il  suo  valore  nei  tempi 
in  cui  visse.  Nessuno  dei  suoi  scritti  lo  rappresenta  se  non  in 
piccola  parte:  nessuno  reca  impronta  duratura  o  eccelle  sugli 
altri,  ma  quasi  tutti,  sia  che  trattino  dell'  ottica  newtoniana,  sia 
dell'  arte  militare,  sia  delle  arti  figurative  o  sia  dell'  opera  in 
musica,  sia  delle  lettere  o  sia  del  commercio,  richiamano  qua  e 
là  la  nostra  attenzione;  e  tutti  bisogna  conoscerli  per  apprez- 
zare la  vivacità  della  sua  intelligenza  e  la  varietà  della  sua 
dottrina.  Inoltre  bisogna  tener  conto,  a  questo  tipico  messaggero 
dell'  enciclopedismo  del  Settecento,  delle  idee,  talvolta  audaci, 
che  raccolse  e  sparse,  in  Italia  e  fuori,  sia  con  la  penna,  sia 
con  la  parola  34.  A  poggiare  più  alto  gli  mancò  la  saldezza  del- 
l' animo  35,  gii  mancò  la  potenza  del  pensiero  e,  nelle  prove 
dell'arte,  la  sensibilità  36-.  senza  tali  doni  non  vive  lo  scrittore. 
Correggeva  infaticabilmente  le  sue  opere  e  sempre  vi  si  sente 
lo  sforzo:  il  suo  stile,  per  quanto  infronzolito,  riesce  secco:  lo 
spirito  vivo  ed  arguto  che  scoppietta  e  scintilla  nelle  pagine  più 
umili  dei  suoi  contemporanei,  si  desidera  invano  nella  raccolta 
di  lettere,  pur  così  copiosa,  dell' Algarotti.  Del  resto  il  Baretti 
lo  assalì  a  torto,  dopo  che  fu  scomparso,  a  torto  lo  giudicò  e 
condannò   il    Foscolo,  a   torto    il    Tommaseo.   Lo    difese    Luigi 


E    L    EPISTOLA    AL   VOLTAIRE  I45 

Carrer  "  per  carità  del  natio  loco  „  ;  e,  forse  più  persuasiva- 
mente, Pietro  Giordani.  Oggi,  sull*  esempio  di  Alessandro  D'An- 
cona, si  cerca  di  meglio  delineare,  ponendola  sotto  giusta  luce, 
la  figura  storica  di  quest'  altro  figlio  del  secolo  decimottavo, 
pieno  sì  per  V  Italia  di  rovine  e  di  tristezze,  ma  anche  di  lavoro, 
di  tenacia  e  di  aspettazione  gloriosa. 


G.  Ortolani. 


AGGIUNTE  E  NOTE 


I 


I  Giustamente  se  ne  compiaceva  il  nostro  Veneziano,  nella  let- 
tera del  i6  aprile  1745  a  Francesco  Maria  Zanottì,  con  queste  parole: 
"  ...  Parrà  strano  che  si  dica  eh'  io  giovanetto  era  in  Bologna  Newto- 
ttianorum  ductor  et  quasi  signifer,  e  non  si  dica  poi  che  adulto  io 
fui  primo  in  Europa  a  spiegare  la  dottrina  newtoniana  „  :  Opere  del 
Conte  Algarotti,  Venezia,  Palese,  1794,  t.  XII,  p.  236. 

a  Novelle  della  Repubblica  Letteraria  per  l'anno  1748,  Venezia, 
Occhi,  num.  44. 

3  Quest'  edizione  padovana  in  quattro  volumi  delle  Opere  gali- 
leiane è  celebrata  nel  n.  4  delle  dette  Novelle  della  R.  L.  per  Va.  174S. 
Le  quali  aggiungono  :  "  ...  Nel  4.  Tomo  contiensi  il  Dialogo,  che  ora 
per  la  prima  volta  esce  a  pubblico  uso  colle  dovute  licenze,  e  in 
tutta  la  sua  integrità...  In  venerazione  poi  delle  sante  prescrizioni 
della  Chiesa  Cattolica,  si  sono  o  levate,  o  ridotte  a  forma  ipotetica 
le  Postille  marginali,  che  non  pareano  affatto  indeterminate  ecc.  „. 

4  Le  dette  Novelle  della  R.  L.  per  V  a.  17 j8,  n.  15,  nelF  annunciare 
//  NewtonianismOy  avvertono  "  che  certe  espressioni  e  sentimenti 
qui  sparsi  deono  esser  letti  con  somma  circospezione,  principalmente 
dalla  Gioventù  Cattolica  „.  -  Peccato  che  Gabriele  Maugain  nel  suo 
bel  libro  intitolato:  Étude  sur  V èvolution  intellectuelle  de  r Italie  de 
i6j7  à  17 so  environ  (Paris,  Hachette,  1909)  siasi  dimenticato  di  par- 
lare dell'  efficacia  degli  studi  newtoniani  nel  nostro  paese,  e  non  dia 
la  debita  importanza  all'  opera  dell'  Algarotti.  Non  occorre  ricordare 
come  nel  1715  l'abate  Conti  facesse  conoscenza  col  Newton  e  nella 
solitudine  di  Kensington  cominciasse  a  scrivere  un  poemetto  sulla 
filosofìa  newtoniana. 

5  Si  legge  nelle  Memorie  per  servire  all'  Istoria  Civile  della  Inclita 
Città  di  Venezia .  di  Girolamo  Zanetti  (cod.  LVIII,  ci.  XI,  Biblioteca 
Marciana,  edito  con  qualche  lieve  inesattezza  da  Federico  Stefani 
in  t.  XXIX  dell'  Archivio  Veneto,  1885,  pp.  93-148),  in  data  25  mag- 
gio 1743:  "  Pochi  giorni  or  sono  giunse  a  Venezia  Francesco  Alga- 
rotti  Letterato  Veneziano  fratello  di  Buon-Uomo  {Bonomo)  Algarotti, 
Mercante  di  zuccheri  e  droghe.  Questo  Francesco  Algarotti  è  l'Autore 


150  FRANCESCO   ALGAROTTI 

del  Libro  intitolato  il  Newtonianismo  per  le  Dame,  e  perciò  merita 
che  si  faccia  di  lui  memoria.  Dapprima  vestiva  da  Abbate,  e  si  stava 
in  Venezia  studiando,  indi  passò  in  Francia  e  prese  l' abito  secolare, 
e  fece  il  giro  della  Inghilterra,  nel  qual  viaggio  consumò  non  pochi 
anni.  Ritornò  a  Venezia,  ed  era  così  pieno  delle  affettate  mode 
Oltramontane,  che  movea  stomaco  e  noia,  a  segno  che  i  Comici  di 
S.  Luca  aveano  meditata  una  Commedia  per  metterlo  in  ridicolo,  e 
se  non  avesse  avuti  denari  e  buoni  protettori,  si  sarebbe  fatta  sen- 
z'  altro.  Partì  di  bel  nuovo  di  Venezia,  e  non  so  come  divenne  accet- 
tissimo al  Re  di  Prussia,  che  lo  creò  Conte  con  tutti  quelli  del  suo 
Casato,  del  che  eccessivamente  si  compiacque.  Nominato  poi,  per 
quanto  si  disse,  da  esso  Re  di  Prussia  per  suo  Inviato  alla  Corte  di 
Torino,  e  ricusato  per  la  sua  ignobil  nascita  (per  quanto  si  dice)  da 
quel  Sovrano,  perdette,  oppure  si  raffreddò  la  grazia  del  suo  Padrone. 
Di  qui  fu,  che  passò  a  Dresda  appo  il  Re  di  Polonia,  indi  ora  è 
tornato  a  Venezia.  Non  può  negarglisi  il  pregio  di  bel  talento,  e  di 
uomo  dotto,  ma  a  queste  doti  di  spirito  accoppia  gran  difetti.  Ora 
dicesi  che  voglia  applicarsi  alla  Pittura.  È  suo  costume  il  dir  male 
a  dovizia  degli  Italiani  „. 

6  Vedasi  ora  Francesco  Viglione,  U  Algarotti  e  l' Inghilterra,  in 
Studi  di  Letteratura  Italiana  diretti  da  E.  Pèrcopo,  voi.  XIII,  Napoli, 
1923:  specialmente  capitolo  III,  La  letteratura,  pp.  111-162. 

7  Si  ristamparono  recentemente  i  Viaggi  di  Russia  e  il  Saggio  di 
storia  metallica  della  Russia  a  cura  di  Pietro  Paolo  Trompeo,  Roma, 
Casa  Ed.  "  Leonardo  da  Vinci  „,  1924. 

8  Si  ricordi  il  ritratto  che  di  lui  ci  lasciò  1'  ab.  G.  B.  Roberti, 
ex-gesuita,  nella  famosa  lettera  ad  Jacopo  Vittorelli:  Opere,  Venezia, 
Antonelli,  t.  XVI,  1831,  pp.  144  sgg.  -  Tuttavia  non  conviene  dimen- 
ticare certa  lettera  dei  18  novembre  1755,  da  Venezia,  dell'  abate 
padovano  Gasparo  Patriarchi,  amicissimo  del  Gozzi  :  "  Il  conte  Alga- 
rotti  mi  dimostra  benevolenza  e  umanità  singolare;  ma  non  è  da 
fidarsene  e  farne  gran  caso.  Veggo,  e  sono  anche  da  altri  avvisato, 
che  il  fine  principale  di  queste  dimostrazioni  cortesi  è  per  adoprarmi 
negli  studi  suoi.  Guarda  la  gamba!  Mi  diede,  quando  ci  trovammo 
insieme  in  campagna,  da  leggere  i  suoi  versi  sciolti  ;  e  conobbi  eh'  e' 
non  solo  si  vuol  fare  superiore  al  buon  gusto  della  imitazione  de' 
migliori  nel  fatto  della  poesia  e  della  prosa,  ma  ribadisce  [sic)  ancor 
co'  maestri  e  con  ogni  altro  che  gli  additasse,  più  per  animo  ingenuo 
che  per  vanità  d' instruire,  le  forme  e  i  modi  più  corretti  di  favel- 
lare. Questo  volersi  far  autore  d'  una  nuova  lingua,  anzi  d'  un  gergo, 
è  cosa  appunto  e  nuova  affatto  e  strana.  Basta,  conviene  usar  seco 
lui  con  molta  circospezione,  per  non  dire  cortigiania  „.  In  altra  let- 
ter'a  dei  9  maggio  1756,  pure  all'  abate  Gennari,  il  Patriarchi  aggiunge: 
'*  Ho    dunque    riverito   a  vostro   nome  il   conte  Algarotti,  il   quale, 


E   L   EPISTOLA   AL   VOLTAIRE  I5I 

contro  ogni  mio  merito,  si  mostra,  quasi  direi,  innamorato  della  de- 
bolissima mia  persona.  I  casi  altrui,  le  vicende  del  mondo,  e  la  favo- 
letta  della  Volpe  che  lodava  il  Corvo,  m'  hanno  fatto  accorto  oggimai, 
che  le  sono  tutte  lusinghe  e  cortigianìe,  e  nessuno  me'  di  me  può 
esser  giudice  di  me  stesso.  Mi  giova  con  tutto  ciò  1'  avere  il  favore, 
qualunque  e'  sia,  di  un  uomo  sì  riputato  „  :  Raccolta  di  prose  e  lettere 
scritte  nel  secolo  XVIII,  voi.  IH,  Milano,  Tip.  de'  Classici  Ital.,  1830, 
pp.  16-17  ^  21.  Strano  è  che  1'  abate  Gennari,  scrivendo  il  21  luglio 
1753  da  Padova  all'  abate  Giovanni  Nani,  celebrava  la  magnanimità 
e  liberalità  del  conte  veneziano:  "  Il  conte  Algarotti  ha  voluto  rin- 
novare a  questi  dì  gì'  illustri  esempi  di  Mecenate  e  di  Augusto,  gene- 
rosi fautori  dei  letterati.  Per  la  dedicatoria  che  l' abate  Bresciani 
{meglio  Bressani)  gli  fece  di  quel  suo  libretto,  indovinate  mo  che 
bellissimo  dono  n'  ebbe  da  lui  ?...  Egli  donò  nientemeno  che  un 
nobile  casamento  (qui  per  esso  acquistato  ne'  mesi  passati  col 
prezzo  di  duemille  e  ottanta  ducati)  e  liberamente  glielo  donò  così 
che  ne  possa  a  suo  talento  disporre  „:  Lettere  famigliari  delV ab.  Giu- 
seppe Gennari  padovano,  edite  da  B.  Gamba,  Venezia,  Alvisopoli,  1829, 
pp.  124-25. 

9  Lo  aiutava  a  ripulire  i  suoi  scritti  1'  abate  Gregorio  Bressani 
di  Treviso,  detto  comunemente  Bresciani,  che  nel  '49  condusse  con 
sé  a  Berlino  e  a  cui  donò  nel  '53  una  casa  a  Padova.  Si  veda  poi 
la  lettera  del  Patriarchi  al  Gennari,  citata  sopra. 

10  Ricordiamo  come  Francesco  Maria  Zanotti  si  rallegrasse  con 
lui  nel  '41  che  dai  mari  di  Finlandia  e  dalle  sabbie  di  Pomerania 
fosse  tornato  in  Italia  "  sano  e  salvo,  e  forse  ancora  „  dice  propria- 
mente all'amico  "  piiì  italiano  che  non  ne  partiste  „:  Opere  del  Conte 
Algarotti,  ed.  cit.,  t.  XII,  p.  197.  Non  devono  passar  inosservate  le 
ultime  parole  citate  sopra  di  Girolamo  Zanetti  :  questi  Italiani  comin- 
ciavano ad  amare  e  desiderare  la  patria,  passando  le  Alpi. 

11  "  In  questi  giorni  il  Conte  Francesco  Algarotti,  noto  letterato 
Veneziano,  va  comperando  anticaglie  e  quadri  di  valenti  Maestri  per 
servizio  della  Corte  di  Sassonia,  Re  di  Polonia  (sic).  In  Cà  Ricci  a 
S.  Maria  Maggiore  furono  venduti  quattro  molto  bei  Quadri  a  basso 
prezzo,  con  gran  dispiacere  de'  buoni  Veneziani  che  mal  volen- 
tieri vedono  però  ispogliare  la  Città  di  così  preziose  pitture  per 
marcia  avarizia  „:  Memorie  cit.  di  Girolamo  Zanetti,  in  data  2  agosto 
1743.  -  L'  elenco  dei  quadri  acquistati  si  può  vedere  nella  lettera 
al  Manette  (13  febbr.  1751),  in  Lettere  sopra  la  Pittura  {Opere,  t.  Vili, 
p.  15  e  sgg.). 

12  A  Guglielmo  Taylor  How  che  nel  '68  aveva  mandato  al  Gray, 
r  autore  del  Bardo,  gli  otto  volumi  dell'  edizione  livornese  delle 
opere  dell'  Algarotti  da  lui  curata,  scriveva  il  poeta  inglese  :  "  lo  godo 
nel  veder  difeso  e  illustrato  il  Machiavelli  che  a  me  si  presenta  come 


152 


FRANCESCO   ALGAROTTI 


uno  degli  uomini  più  sapienti  che  ogni  nazione  in  qualunque  secolo 
abbia  potuto  produrre  „  :  vers.  di  F.  Viglione,  U  Algarotti  e  V  Inghil- 
terra, 1.  e,  p.  156. 

13  Consiglia  1'  Algarotti  di  cacciar  via  gli  oziosi,  di  ravvivare  i 
commerci,  di  creare  nuove  macchine  per  le  industrie  e  per  1'  agri- 
coltura. "  Scavar  porti  e  canali,  alle  paludi  -  Far  1'  aratro  sentir,  spia- 
nar le  vie,  -  I  fiumi  contener,  piantare  i  colli,  -  Onde  crescano  a 
noi  flotte  novelle  „:  Opere,  I,  67-68.  -  In  questa  nobilissima  epistola 
il  nostro  Veneziano  non  precorre  soltanto  il  famoso  discorso  di 
Andrea  Tron  in  Senato  (1784),  ma  le  generose  pagine  del  Muratori 
nel  libro  Della  pubblica  felicità  (1749)  e  le  lettere  DelV  agricoltura, 
dell'  arti  e  del  commercio  (t.  I,  1763)  che  Antonio  Zanon  udinese  de- 
dicava al  doge  Alvise  Mocenigo  e  che  il  Baretti  lodava  nella  sua 
Frusta.  È  superfluo  ricordare  qui  le  Lettere  del  Costantini  o  il  ro- 
manzo del  Seriman.  -  Tra  i  Pensieri  diversi  dell'  Algarotti  questo  mi 
sembra  vivo  e  moderno:  "  Oggigiorno,  mercè  principalmente  della 
stampa  e  del  libero  traffico  di  pensieri  tra  F  uno  e  1'  altro  paese, 
ogni  nazione  pensa  quasi  ad  un  modo.  Ninna  cosa  è  trascurata,  né 
quanto  agli  ordini  civili,  né  quanto  a'  mercantili  e  a'  militari,  che 
condur  possa  alla  grandezza;  tutte  vi  sono  coltivate  e  promosse  con 
ardore  grand  ssimo.  Talché  quella  nazione  sarà  più  potente  che  sarà 
più  ricca.  E  la  grandissima  industria  che  regna  presentemente  in 
ogni  lato,  riconduce  gli  uomini  in  certo  modo  allo  stato  primitivo 
di  natura;  in  quanto  che  più  ricca,  più  possente  e  delle  altre  vitto- 
riosa sarà  alla  fine  quella  nazione,  che  possederà  il  più  di  materie 
prime  e  di  persone  „:  Opere,  t.  VII,  p.  107. 

14  Dei  rapporti  fra  1'  Algarotti  e  il  Voltaire  parlò  Pietro  Toldo, 
U  Algarotti  oltr'alpe,  in  Giornale  Storico  ecc.,  voi.  LXXI,  fase.  1°,  1918. 

15  Opere,  t.  XVI,  p.  93. 

16  Lettera  al  Voltaire,  3  settembre  1746:  "  Io  sto  lavorando  certi 
versi  indirizzati  a  voi,  i  quali  spero  potervi  mandare  da  qui  a  non 
molto  „:  Opere,  t.  XVI,  p.  85. 

17  In  questa  si  compiaceva  che  il  Voltaire  avesse  letto  per  ben 
"  sei  volte  „  r  epistola  allo  Zeno,  come  da  Parigi  avevagli  scritto 
con  accorte  adulazioni  il  patriarca  delle  lettere;  e  aggiungeva:  "  Io 
vorrei  pur  guarire  l' Italia  da  quella  febbre  lenta  di  sonetti  che  se 
r  è  cacciata  addosso  da  un  tempo  in  qua  „  :  t.  XVI,  p.  92.  Esiste 
un'  altra  lettera  al  Voltaire  con  la  data  io  dicembre  1746  {Opere,  t.  IX, 
pp.  82-87  *  vedi  anche  edizione  di  Livorno,  t.  IX,  p.  59),  che  mi  pare 
più  studiata,  come  se  l'autore  avesse  in  animo  di  volerla  stampare; 
e  però  la  credo  composta  più  tardi  in  luogo  dell'  altra  mandata  ve- 
ramente a  destinazione. 

*8  Mercurio  storico  e  politico  ecc.  pel  mese  di  Settembre  1748,  Pe- 
saro, Gavelli,  p.  182. 


E   L   EPISTOLA    AL   VOLTAIRE  153 

19  Nel  noto  sonetto  del  Cassiani,  pien  d' amarezza,  e'  è  quasi 
r  eco  di  una  delusione. 

30  Da  una  lettera  dell'  Algarotti  da  Potsdam,  9  maggio  1751,  mi 
piace  evocare  questo  ricordo  :  "  ...  Ed  ora  ci  si  trova  quel  raro  spi- 
rito di  monsieur  de  Voltaire;  che  si  direbbe,  una  cena  senza  lui 
esser  quasi  un  anello  senza  gemma.  Udirlo  e  leggerlo  è  una  cosa. 
I  pensieri  gli  spruzzano  di  bocca  vivi  e  frizzanti,  come  da'  corpi 
elettrici  per  eccesso  e  stuzzicati  escon  faville  e  fiocchi  di  luce.  Non 
è  mai,  che  quel  tesoro  di  tutte  le  cose  la  memoria  noi  trovi  aperto 
a  ogni  suo  piacimento;  e  la  sua  ricchezza  non  è  in  cedole,  ma  in 
bel  contante  „:  Opere,  t.  IX,  p.  187. 

ai  "  ...  Per  non  rompere  1'  unità  che  è  pur  1'  anima  delle  cose, 
io  levai  da  un'  altra  Epistola,  che  troverà  qui  ingiunta,  i  seguenti 
versi  „.  Sono  propri  quelli  suU'  Italia,  da  Oimè  qital  sei  da  quel  di 
pria  difforme  fino  a  A^^  l'itala  viriti  Jìa  cosa  antica.  Vedi  Opere,  ed. 
di  Livorno,  Coltellini,  t.  VII,  1765,  pp.  351-353. 

*»  "  Al  Frugoni  mandai  tempo  fa  una  mia  epistola  diretta  a  Vol- 
taire. Voi  già  la  vedeste  a  Venezia  „  :  lettera  al  Bettinelli,  da  Bologna, 
15  ottobre  1756,  in  Opere,  ed.  di  Venezia,  Palese,  t.  XIV,  p.  153. 

33  Opere,  t.  XIV,  p.  159.  -  Il  Bettinelli  la  trovava  "  in  ogni  parte 
perfetta  „  e  ardeva  dal  desiderio  di  stamparla  insieme  con  le  altre 
e  con  quelle  sue  e  del  Frugoni.  Già  da  tre  anni  tormentava  per  ciò 
r  Algarotti  :  "  Emmi  fìtto  nell'  animo  questo  pensiero,  che  per  bene 
di  questi  e  d'  altri  giovani  nostri,  che  alla  buona  poesia  mirano,  si 
potrebbe  stampare  unitamente  un  saggio  di  sciolti,  siccome  a  mio 
parere  gli  ottimi  per  la  ottima  poetica  educazione.  Frugoni,  Algarotti 
e  così  di  soppiatto  Bettinelli  formerebbono  questo  libretto  „  :  lettera 
15  ottobre  1753,  in  Opere,  t.  XIV,  p.  93  (v.  pure  pp.  120  e  123).  Ma 
r  Algarotti  nicchiava  e  finalmente  alle  nuove  insistenze  del  gennaio 
'55  rispose  con  un  no  chiaro,  dicendo  di  voler  stampare  egli  stesso 
le  sue  epistole.  Il  Bettinelli  attese  ancora  quasi  due  anni  e  sulla  fine 
del  1757  diede  senz'  altro  in  luce,  adorno  di  bei  rami,  il  famoso  vo- 
lume dei  Versi  sciolti  di  tre  eccellenti  moderni  Autori  (Venezia,  Fenzo), 
che  recava  a  mo'  di  prefazione  le  famosissime  Lettere  Virgiliane, 
Quale  e  guanta  guerra  ne  sorgesse,  non  occorre  qui  dire. 

34  Epistole  in  versi  del  Co.  Francesco  Algarotti,  Ciamberlano  di 
S.  M.  il  Re  di  Prussia,  e  Cavaliere  dell'  Ordine  del  Merito  :  Venezia, 
Zatta,  1759.  Un'  altra  edizione  uscì,  pure  a  Venezia,  nel  1760,  presso 
G.  B.  Novelli. 

35  Lettera  12  agosto  1747,  da  Augusta  (  Opere,  t.  XIV,  p.  296  ). 
Alla  quale  fa  eco  il  padre  Golini,  da  Brescia,  il  io  marzo  1759,  ral- 
legrandosi dell'  epistola  sul  Commercio  e  d'  altri  suoi  scritti  :  "  Oh 
questo  sì  eh'  è  fare  onore  all'  Italia,  e  un  dimostrare  con  verità  al- 
l' altre  nazioni,  che  noi  pure  abbiamo  i  nostri   Pope,  e  i  nostri  Voi- 


154  FRANCESCO    ALGAROTTI 

taire  „  :  t.  XIV,  p.  353.  Così  da  Firenze  il   Cocchi,  20  agosto  '46,  gli 
augura  "  felicità  in  ogni  sua  impresa  anco  per  decoro  dell'  Italia  e 
della  filosofia  „  :  ivi,  292. 
26  Opere,  t.  XIV,  p.  294. 

37  Opere,  t.  XIII,  p.  37. 

38  Parma,  25  novembre:  in  Opere,  t.  XIV,  p.  114.  In  una  lettera 
da  Berlino  dei  30  gennaio  1750,  dell'  Algarotti  al  Bettinelli,  si  legge  : 
"  ...  Mi  parrà  allora  d'  essere  in  Italia,  a  cui  tengo  sempre  rivolto  un 
occhio  „  :  ivi,  42.  E  in  altra  da  Potsdam,  dei  9  maggio  1751,  al  Conte 
N.  N.  di  Padova:  "  Non  è  già  pericolo  che  in  me  il  desiderio  di 
riveder  l' Italia  si  venga  a  spegner  mai  „  :  t.  IX,  p.  184. 

29  Opere,  t.  VII,  p.  46. 

30  "...  E  ben  si  può  dire,  quando  e'  sparlan  di  noi,  che  il  fan- 
ciullo batte  la  balia,  per  servirmi  di  una  loro  espressione  „  :  Opere, 
t.  IX,  p.  237.  A  proposito  della  vivace  questione  fra  la  musica  ita- 
liana e  la  francese,  dove  pure  troviamo  desto  1'  amor  proprio  delle 
due  nazioni,  lasciò  scritto  nei  Pensieri  diversi'.  "  La  musica  francese 
è  in  comparazione  della  italiana  ciò  che  è  il  giuoco  della  dama  verso 
il  giuoco  degli  scacchi  „:  VII,  47. 

31  "  Tali  sono  gli  effetti  della  picciolezza  e  divisione  degli  stati, 
ignoranza  presunzione  frivolezza.  La  vera  accademia  è  una  capitale, 
dove  i  comodi  della  vita  i  piaceri  la  fortuna  vi  chiamino  da  ogni 
provincia  il  fiore  di  una  gran  nazione,  dove  otto  in  novecento  mila 
persone  si  elettrizzino  insieme...  Allora  si  avrà  un  teatro  che  sia 
scuola  dei  costumi,  una  satira  pungente  con  mollezza,  e  filosofica- 
mente scherzosa.  Ci  sarà  allora  un'  arte  della  conversazione,  e  si 
scriveranno  lettere  con  disinvoltura  e  con  grazia,  la  lingua  diverrà 
ricca  senza  eterogeneità,  e  pura  senza  affettazione.  Ci  saran  nel  coro 
delle  Muse  non  solamente  soprani,  ma  anche  tenori  e  baritoni;  e 
dalla  società  si  sbandiranno  i  sonetti,  come  dai  palagi  de'  gran  signori 
si  caccian  le  mosche.  Che  fare  intanto?  „:  lettera  al  Voltaire,  io  di- 
cembre 1746,  in  Opere,  t.  IX,  pp.  85-86  (v.  pure  ed.  di  Livorno,  t.  IX, 
p.  62).  -  C  è,  o  io  mi  sbaglio,  un  augurio,  una  speranza,  una  fede 
in  queste  parole. 

33  Opere,  t.  IX,  pp.  214-216. 

33  Opere,  t.  XV,  p.  346.  Si  notino  quelle  parole  comme  nous  Pavons 
dit  souvent  ensemble. 

34  "  Il  favellar  seco  era  imparare,  perchè  oltre  al  conoscere  tutti 
i  classici  del  mondo  morto,  conosceva  tutte  le  persone  d' importanza 
del  mondo  vivo.  Il  suo  conversare  era  opportunamente  storiato  di 
venture  curiose,  e  sparso  di  facezie  argute  „  :  Opere  dell'  Ab.  G.  B. 
Roberti,  t.  XVI,  p.  147. 

35  Le  scherzose  parole  di  lady  Wortley  Montagu,  nella  sua  let- 
tera dei  19  luglio  1759,  rispecchiano   certamente  1'  opinione  di  molti 


E    L    EPISTOLA    AL    VOLTAIRE  155 

fra  i  contemporanei:  "  Algarotti  è,  credo,  a  Bologna  intento  a  com- 
porre panegirici  a  chiunque  sia  vincitore  in  questa  incerta  guerra  „. 
36  Clemente  Sibiliato,  che  a  Padova  era  vissuto  a  lungo  con 
r  Algarotti,  in  una  lettera  al  Bettinelli  dei  31  agosto  1792,  dopo  aver 
detto  che  i  Francesi  "  scrivono  di  testa  e  non  di  cuore,  e  a  forza 
di  spirito  vogliono  persuaderci  che  sentano,  „  giustamente  aggiun- 
geva: "  Anche  il  nostro  Algarotti  ricevuta  avea  da  natura  più  imma- 
ginazione che  sensibilità  „  :  Lettere  del  Prof.  Clemente  Sibiliato  ecc., 
Padova,  coi  tipi  del  Seminario,  1839,  p.  47. 


INTORNO  ALLA  "  LOCANDIERA 
DI  CARLO  GOLDONI 


Quando  Mirandolina  balzò  alla  mente  di  Carlo  Goldoni  ? 
La  Locandiera,  come  si  sa,  fu  recitata  nel  carnovale  del  1753, 
anzi  nel  mese  di  gennaio  ^,  non  già  la  sera  di  Santo  Stefano  1752, 
come  affermano  le  Memorie.  Il  carnovale  si  aperse,  credo,  coi 
Due  Pantaloni^  che  poi  nella  stampa  diventarono  i  Mercatanti. 
Teodora  Medebac,  mentre  il  poeta  scriveva,  trovavasi  certa- 
mente costretta  a  letto  da  un  accesso  di  quel  male  che  giovine 
ancora  la  trasse  alla  tomba,  e  in  fatti  anche  nella  commedia 
precedente  comparisce  Beatrice  (ossia  Caterina  Laudi,  la  seconda 
donna)  invece  di  Rosaura,  quale  figlia  di  Pantalone.  Si  può 
quindi  assegnare  con  tutta  probabilità  la  composizione  della 
Locandiera  alla  prima  metà  di  dicembre  del  1752. 

Regnava  sulle  scene  del  teatro  di  Sant'  Angiolo,  e  un  po' 
forse  sul  cuore  di  Goldoni,  la  bella  e  vivace  Maddalena  Raffi, 
sorella  di  Gasparo,  ciò  è  a  dire  zia  di  Teodora,  e  moglie  di 
Giuseppe  Marliani:  già  ballerina  di  corda,  come  la  nipote,  nel 
famoso  casotto  di  cui  fa  menzione  il  Goldoni  nelle  memorie 
italiane^.  Separatasi  dal  bonario  marito  per  qualche  errore  gio- 
vanile 3,  si  riunì  a  lui  nel  carnevale  del  '51  ;  e  il  dottor  vene- 
ziano ne  diede  notizia  al  conte  Arconati -Visconti  di  Milano  fin 
dai  IO  febbraio:  "  ...  Ho  cambiato  parimenti  la  serva,  e  sarà  la 
moglie  del  Brighella,  che  fu  assai  buona,  e  si  spera  tale,  tut- 
tocchè  sei  anni  sia  stata  in  riposo,  avendo  dello  spirito  e  del- 
l' abilità  „.  Subito  il  Goldoni,  che  dichiara  più  volte  d'  esser  stato 
un  attento  osservatore  delle  attitudini  artistiche  dei  vari  suoi 
interpreti,  scrisse  per  lei  in  veneziano  la  Castalda,  e  poco  dopo 
le  Donne  gelose',  non  senza  invidia  e  dolore  della  Medebac, 
alla  quale  non  serbò  V  ingrato  veneziano  nel  quinto  e  ultimo 
anno  del  contratto  teatrale  (i  752-1752)  che  la  Figlia  ubbidiente, 
mentre  la  servetta   Marliani,   trionfava   sola,  o  quasi   sola,  nella 


l6o  INTORNO   ALLA    "  LOCANDIERA  „ 

Serva  amorosa,  nei  Puntigli  domestici,  nella  Locandiera,  nelle 
Donne  curiose  e  finalmente  nella  Donna  vendicativa.  Altro  che 
convulsioni  dell*  infelice  Rosaura  1 

L' indole  della  grande  Corallina  si  intravvede  dai  pochi 
cenni  della  sua  vita  lasciatici  dal  Goldoni  e  dal  Bartoli,  e  dal 
suo  dispetto  per  il  passaggio  del  commediografo  veneziano  sul 
teatro  di  San  Luca.  Mirandolina  non  è  più  la  servetta  del  teatro 
dell'  arte,  ingentilita  nella  donna  di  garbo  e  nella  vedova  scaltra, 
ma  è  una  donna  strappata  alla  vera  vita,  e  si  confonde  con 
Maddalena  Marliani.  Peccato,  per  la  nostra  curiosità,  di  saper 
così  poco  di  una  sì  fatta  ispiratrice  e  interprete.  Certo  il  Gol- 
doni, maturo  d'  età  e  d' esperienza,  aveva  potuto  fare  senza  suo 
pericolo  uno  studio  diligente  del  carattere  e  dell'  arte  di  Coral- 
lina, giunta  pure  alla  pienezza  dell'  esistenza.  I  ricordi  della 
Medebac  nel  1747  a  Livorno,  della  Baccherini  nel  '43  a  Ve- 
nezia, e  perfino  della  famosa  Passalacqua,  prima  del  matrimonio, 
impallidivano  al  confronto  di  questo  indiavolato  spirito  femmi- 
nile. In  una  ricetta  maccheronica  "  per  li  SS.  Comici  di  S.  An- 
gelo „  nel  1754,  certo  anonimo  scriveva:  "  Spiritus  diabolicce 
Corallince  bozze  20  :  Silvarum  cornarum  mariti  Corallince  usque 
ad  satietatem  „  4.  Ma  dei  suoi  amanti  ci  sfugge  il  nome:  del- 
l' arte  scenica,  oltre  il  Goldoni  stesso  nelle  prefazioni  alle  varie 
commedie,  e  il  Bartoli  citato,  ci  tramandarono  le  lodi  il  giovane 
conte  Pietro  Verri  e  1'  abate  Giambattista  Vicini  e  il  Frugoni  5. 
Nel  vecchio  diario  del  Gradenigo  si  fa  cenno  di  un  sonetto 
stampato  in  suo  onore  per  la  recita  delle  Sorelle  Chinesi  del 
Chiari,  nel  febbraio  del  '54;  e  venti  anni  più  tardi,  nel  gennaio 
del  '74,  replicandosi  più  volte  a  San  Giovanni  Crisostomo  la 
Veneziana  a  Londra,  scritta  allora  dallo  stesso  abate,  Domenico 
Caminer  avvertiva  nel  primo  tomo  del  Giornale  Enciclopedico: 
"  La  parte  brillante  della  Protagonista  fu  egregiamente  soste- 
nuta dalla  Signora  Maddalena  Marliani  „:  anzi  tra  il  1781  e  l'82, 
quando  Francesco  Bartoli  dettava  le  Notizie  de'  comici  italiani, 
essa  appariva  ancora  "  quella  celebre  CoraUina  che  fu  nella 
sua  fresca  giovinezza  „  ;  e  potè  ancora  ammirarla  il  Goethe  nel- 
r  ottobre  del  1786,  che  la  scambiò  con  la  sorella  del  Sacchi, 
morta  dieci  anni  prima. 

A  lei  fu  debitore  il  Chiari,  come  afferma  Antonio  Piazza, 
"  del  felice  successo  di  tante  Commedie  sue  „  nel  teatro  di 
Sant'  Angelo,  "  che  senza  l' abiUtà  di  quell'  Attrice  eccellente 
non  avrebbero  conseguito  il  favore  del  Pubblico  „.  Forse  l'abate 


DI    CARLO    GOLDONI  l6l 

pensò  di  renderle  onore  e  di  mostrarle  gratitudine  facendola 
protagonista  di  un  romanzo  cominciato  e  condotto  "  dentro 
pochi  giorni  al  suo  fine  „,  nell'anno  1755,  il  quale  ha  per  titolo 
La  Commediante  in  fortuna.  Peccato  che  il  personaggio  riesca 
freddo,  scialbo,  scipito,  senz'arte  e  senza  vita;  peccato  che  le 
memorie  della  Marliani,  affidate  a  scrittore  sì  inetto,  rimangano 
affogate  tra  le  solite  avventure  romanzesche  proprie  di  tutte  le 
eroine  del  Chiari,  sì  che  più  non  si  distingue  il  vero  dal  falso: 
tuttavia  vediamo  la  futura  Mirandolina,  abbandonata  fin  dall'in- 
fanzia da  un  padre  gabbamondo  e  da  una  madre  odiosa  e  vol- 
gare, ballar  sulla  corda  all'  età  di  quindici  anni,  nella  truppa 
del  signor  di  Greland  a  Palermo;  e  la  vediamo  poi  recitare  con 
plauso  a  Napoli  nella  compagnia  del  signor  di  Marbele,  ossia 
di  Girolamo  Medebac,  protetta  dal  filosofo  don  Cirillo,  ossia 
dal  Chiari.  Dalle  commedie  e  dai  canti  che  per  lei  compone 
don  Cirillo,  ma  molto  più  dalle  voci  che  corrono  a  Napoli  e 
dalle  mezze  confessioni  dell'  autore  stesso,  possiamo  credere 
che  tra  1'  abate  Chiari  e  la  Marliani,  o  se  volete,  tra  Egerindo 
e  Corallina,  si  saldasse,  almeno  per  qualche  tempo,  un'amicizia 
molto  intima.  Non  per  caso  l' ultima  commedia  composta  dal 
Goldoni  per  il  teatro  di  Sant' Angelo,  sul  punto  di  abbandonare 
la  compagnia  Medebac,  intitolavasi  la  Donna  vendicativa',  e  fu 
recitata  bensì  "  a  meraviglia  „  dalla  Marliani,  come  afferma  il 
dottor  veneziano,  "  quantunque  di  malanimo  lo  facesse  „,  ma 
per  due  sere  soltanto,  scusandosi  ella  presso  il  pubblico  del- 
l' odioso  carattere  impostole,  per  mezzo  di  un  sonetto  "  non 
mio  „  protesta  ingenuamente  il  Goldoni,  poiché  infatti  era  stato 
aggiunto  dal  Chiari,  suo  successore  6.  Quella  volta  Egerindo 
rise  sul  serio. 

Ma  torniamo  al  Piazza  che  nel  racconto  della  Giulietta, 
stampato  nel  '71,  volle  inserire  questo  elogio  della  celebre 
Corallina:  "  Quantunque  il  suo  particolare  carattere  sia  quello 
della  Servetta,  ciò  nuli'  ostante  è  capace  di  tutto.  Nel  serio,  nel 
ridicolo,  nel  feroce,  nel  patetico,  a  meraviglia  ella  riesce,  tra- 
sformandosi così  bene,  a  tenore  delle  parti  ond'  è  incaricata,  che 
r  arte  in  lei  sembra  natura.  Una  memoria  felicissima,  che  mai 
non  le  lascia  del  rammentatore  aver  d' uopo  ;  un'  eloquenza 
fiorita,  che  all'  improvviso  le  mette  in  bocca  le  parole  più  scelte, 
e  i  termini  più  eleganti,  in  quelle  Commedie  che  si  chiaman 
dell'  arte;  un  tuono  di  voce  chiaro,  armonioso,  soave;  una  grazia 
di  gestire  ch'esprime   le   cose   prima   del   labbro;   un   possesso 

G.  Ortolani.  ^i 


'162  INTORNO    ALLA    "   LOCANDIERA    „ 

di  scena  che  la  rende  padrona  di  tutto,  sono  le  qualità  che 
formano  di  lei  la  Comica  migliore  de'  nostri  Teatri.  Sebbene 
ora  sia  avanzata  negli  anni,  pure  conserva  tutto  lo  spirito  della 
fresca  sua  giovinezza.  La  gracilità  della  persona,  la  vivezza 
degli  occhi  che  le  brillano  in  fronte,  l'agilità  con  cui  opera,  non 
lascia  sì  facilmente  distinguere  s'ella  sia  giovine,  o  vecchia  „  7. 

Pur  non  bisogna  nemmeno  restringere  a  un  solo  modello 
la  inspirazione  artistica  della  Locandiera.  Il  marito  della  tenera 
Nicoletta  sembra  nel  teatro  vendicarsi  delle  donne  che  lo  ave- 
vano più  volte  ingannato  nell'  età  bella,  e  si  diverte  a  mettere 
in  scena  le  piccole  perfidie  dell'  animo  femminile.  A  chi  ha  letto 
le  memorie  della  sua  giovinezza,  sia  italiane,  sia  francesi,  tor- 
nano a  niente  vari  accidenti  della  vita  goldoniana,  trasformatisi 
poi  in  vivaci  episodi  da  commedia:  che  pochi  creatori  attinsero 
con  più  fedele  amore  di  Goldoni  alla  vita  reale.  "  Dio  volesse  „ 
esclama  nella  prefazione  il  buon  Carlo,  "  che  io  medesimo  cotale 
specchio  avessi  avuto  per  tempo,  che  non  avrei  veduto  ridere 
del  mio  pianto  qualche  barbara  Locandiera.  Oh  di  quante  scene 
mi  hanno  provveduto  le  mie  vicende  medesime  !  „  ^.  Ma  il  poeta 
di  Mirandolina  non  serba  ira  alle  donne  per  la  sua  ingenuità 
di  ragazzo,  un  giorno  ferita,  anzi  sorride  di  sé  e  delle  arti  mu- 
liebri, indulgente  per  tutti,  innamorato  della  donna  e  dei  suoi 
difetti,  delle  sue  debolezze,  delle  sue  stesse  perfidie. 

Da  ciò  soprattutto  1'  originalità  strana  di  questa  commedia, 
che  si  annovera  tra  i  capolavori  del  teatro  comico,  e  sembra 
contendere  agli  altri  la  palma  per  la  sua  perenne  freschezza. 
Studiarne  i  cosidetti  precedenti  storici  torna  opera  vana,  seanche 
si  sappia  che  la  Locandiera  fu  scritta  per  una  servetta,  che  il 
nome  di  Mirandolina  fu  foggiato  su  quello  di  Corallina,  e  Coral- 
lina è  a  sua  volta,  nella  famiglia  delle  maschere,  la  sorella,  cara 
al  commediografo  veneziano,  di  Colombina.  Nulla  servono  le 
Argentine  le  Diamantine  le  Riccioline  le  Franceschine  le  Smeral- 
dine, nulla  le  Pasquette  le  Fiammetta  le  Spinette  le  divette 
le  Violette  che  riempiono  di  sussurro  V  antico  palcoscenico,  a 
spiegarci  il  potere  meraviglioso  della  Mirandolina  goldoniana  sul 
cuore  degli  uomini:  né  giova  frugare  fra  le  Colombine  e  le  Li- 
sette  del  vecchio  e  del  nuovo  Teatro  Italiano  in  Francia.  Tuttavia 
non  bisogna  credere  che  la  Colombina  francese  di  Regnard  e  di 
Bruyére  de  Barante  non  conosca  a  memoria  le  arti  della  civet- 
teria e  non  difenda  con  calore  la  tesi  dell' incostanza  9:  ma  ra- 
giona troppo,  parla  troppo,  si  scorge   appena,  quasi   che    fosse 


DI    CARLO    GOLDONI  163 

incorporea,  e  dilegua  subito  nel  fantastico  regno  delle  maschere. 
Da  questo  mondo  irreale  niente  è  così  lontano  e  diverso  come 
la  Locandiera. 

Qualcuno  ebbe  a  ricordare  lo  Spregio  con  lo  spregio  (El 
desdén  con  el  desdén^  st.  1654)  di  Agostino  Moreto,  qualcuno  la 
Sorpresa  dell'  amore  (1722  e  '27)  e  i  Giuramenti  indiscreti  (1732) 
di  Pietro  Marivaux  *°,  se  non  che  il  mutamento  d'  animo  nel- 
r  uomo  o  nella  donna  dal  disprezzo  all'  amore  si  ritrova  già 
cento  volte  ne'  poemi  classico-cavallereschi  e  nelle  favole  pasto- 
rali, prima  che  nel  teatro  comico;  e  il  dialogo  aristocraticamente 
fine,  lievemente  articificioso  del  soldato  e  prete  spagnolo,  e 
r  analisi  delicata  e  minuta  dello  scrittore  francese  possono  solo 
servire  di  contrapposto  all'  arte  un  poco  rozza,  ma  tanto  più 
potente,  che  creò  Mirandolina  e  il  cavaliere  di  Ripafratta.  Si 
pensi,  per  esempio,  alla  scena  settima,  atto  primo,  della  Sorpresa 
dell'  amore,  che  risponde  alla  scena  decimaquinta,  atto  primo, 
della  Locandiera.  Eppure  anche  Lelio,  l' odiatore  delle  donne, 
fin  dal  primo  colloquio  ci  prende  gusto  a  conversare  con  la 
Contessa  ("  Madame,  peu  de  femmes  sont  aussi  aimables  que 
vous  „  ;  e  la  Contessa:  "  Nous  nous  divertirons,  vous  à  médire 
des  femmes,  et  moi  à  mépriser  les  hommes  „);  anch' egli  vuol 
fuggire,  quando  s'  accorge  che  il  cuore  esita,  o  se  n'  accorgono 
gli  altri  ("  Moi  tomber!  Je  pars  dès  demain  pour  Paris;  voilà 
comme  je  tombe  „:  II,  5);  anch' egli  nel  secondo  atto  fa  una 
confessione  di  debolezza  (  "  Un  moment  „  dice  alla  Contessa  : 
"  vous  étes  de  toutes  les  dames  que  j'ai  vues  celle  qui  vaut  le 
mieux:  je  sens  méme  que  j'ai  du  plaisir  à  vous  rendre  cette 
justice-là„:  II,  7).  Il  Settecento,  è  vero,  si  riflette  così  nella 
Sorpresa  deW amore,  come  nella  Locandiera'.  tuttavia  la  scena, 
r  arte,  la  vita  stessa  mutano.  Seanche  non  si  sapesse  che  a 
Venezia  di  Marivaux  si  leggevano  soltanto  i  romanzi  '',  che  le 
commedie  non  si  tradussero  mai,  che  non  si  recitarono  prima 
del  1780  ",  che  il  Goldoni  non  ne  fa  mai  menzione  e  non  do- 
vette conoscerle  prima  del  '62,  quando  ne  trovò  il  ricordo  sul 
Teatro  Italiano  di  Parigi,  a  nessuno  verrebbe  voglia  di  scoprire 
affinità  di  natura  fra  il  salotto  della  vecchia  signora  di  Lambert, 
ultimo  rifugio  di  qualche  preziosa,  e  la  locanda  goldoniana  che 
sa  di  biancheria  fresca  e  di  manicaretti,  fra  Silvia  Balletti  e 
Maddalena  Marliani,  fra  il  ritratto  psicologico  e  il  dramma.  In 
vece  del  minuetto  a  mezza  voce,  nel  viale  del  giardino  favoloso, 
familiare  agli  amori  delle  antiche  ninfe  e  delle  antiche  maschere, 


164  INTORNO    ALLA    "  LOCANDIERA    „ 

r  azione  che  incalza  e  prorompe  sul  palcoscenico  della  vita  con 
grida  e  con  rabbia. 

Non  resterebbe  dunque  che  da  ricercare  nell'  opera  stessa 
di  Goldoni,  dove  la  fortuna  aiuta  lo  studioso  a  seguire  le  tracce 
fuggevoli  di  Mirandolina,  in  qual  modo  dal  Prodigo,  dalla  Donna 
di  garbo y  dalla  Vedova  scaltra,  dal  Poeta  fanatico,  dalla  Castalda, 
daìV Amante  militare,  dai  Puntigli  domestici  balzò  d'improvviso 
nella  mente  del  commediografo  il  tipo  meraviglioso.  Se  ci  rima- 
nesse lo  scenario  del  Prodigo,  come  fu  steso  nel  1739,  vor- 
remmo gettare  uno  sguardo  sulla  prima  Colombina,  castalda  di 
Momolo.  Forse  conosceva  anche  allora  l' arte  di  cavar  denari 
dagli  uomini,  o  di  pelare,  come  dicevasi,  con  abilità  e  con  grazia 
birichina.  Ricordiamo  il  dialogo  col  fattore  Trappola: 


Trappola.  Sì,  cara  Colombina,  eccovi  tre  zecchini. 

Colombina.  Oh,  quanto  vi  sono  obbligata! 

Trappola.  Ricordatevi  di  venir  da  me  qualche  volta. 

Colombina.  Tre  zecchini!  certo  posso  comprare  una  vesta  non 
ricca,  ma  civile.  Mi  dispiace  per  il  busto...  Ma  non  importa. 

Trappola.  Che?  non  avete  il  busto? 

Colombina.  Ce  V  ho,  ma  è  tanto  vecchio. 

Trappola.  Se  volete,  lo  compreremo. 

Colombina.  No,  no,  non  importa. 

Trappola.  Non  costerà  molto. 

Colombina.  Con  un  zecchino  si  fa;  ma  non  importa;  farò  di 
meno  per  ora. 

Trappola.  Quel  che  avete  non  sarà  poi  tanto  vecchio. 

Colombina.  Oh,  è  vecchissimo;  non  lo  posso  affibbiare;  la  vesta 
non  me  la  metto,  se  non  ho  il  busto  nuovo. 

Trappola.  Orsù,  tenete  un  altro  zecchino,  e  fatevi  il  busto... 

Colombina.  Oh,  non  vorrei  che  diceste... 

Trappola.  Dunque  pel  dì  della  Fiera  spero  vedervi  vestita  di  nuovo. 

Colombina.  Così  presto  sarà  difficile. 

Trappola.  Perchè?  vi  vuol  tanto? 

Colombina.  Scarpe,  calze,  un  fazzoletto  da  collo...  Eh,  con  un  po' 
di  tempo  troverò  il  bisogno... 

Trappola.  Quanto  ci  vorrà  per  tutte  queste  cose? 

Colombina.  Oh  certo,  non  voglio  altro,  avete  fatto  anche  troppo  ; 


DI    CARLO    GOLDONI  165 

non  voglio  che  dite  che  sono  indiscreta.  In  vita  mia  non  ho  mai 
domandato  niente  a  nessuno  e  non  avrei  coraggio  di  farlo... 

Trappola.  Colombina,  voglio  avere  il  merito  di  aver  fatto  tutto: 
eccovi  due  zecchini. 

Colombina.  No,  certo. 

Trappola.  Prendeteli. 

Colombina.  Non  voglio. 

Trappola.  Se  poi  non  volete... 

Colombina.  Li  prenderò,  per  non  parere  ingrata  (A.  I,  se.  4). 

Più  che  ad  altro  ella  bada  all'  interesse  :  dell'  amore  non  sa 
che  farne.  Rileggiamo  quest'  altra   battuta  deliziosa,  più  avanti  : 

Trappola.  Datemi  la  mano. 

Colombina.  Per  che  cosa  volete  la  mano? 

Trappola.  Così,  per  toccarvi  la  mano  in  segno  di  amicizia. 

Colombina.  Sì,  sì,  guardate  che  bella  mano  senza  un  anello! 

(disp  rezzandosi 
Trappola.   Troveremo    anelli,  troveremo   smanigli,  troveremo   di 
tutto.  Basta  soltanto  che  Colombina  mi  voglia  bene  (A.  II,  se.  2). 

"  A  questo  prezzo  „  esclama  Colombina,  dopo  che  il  fattore 
è  partito,  "  sarei  sicura  non  aver  niente,  ma  in  difetto  dell'  amore 
ho  un  poco  di  arte,  che  mi  aiuta  nelle  occorrenze  „.  Del  resto 
conosce  già  perfettamente  il  suo  dominio  sugli  uomini  e  gode 
dei  propri  trionfi:  "  ...  Ed  io  ho  un  patto  fatto  con  me  mede- 
sima „  dice  fra  sé,  "  di  far  fare  gli  uomini  a  modo  mio,  anche 
a  loro  dispetto  „.  Spunta  Mirandolina:  è  vero  che  queste  scene 
furono  scritte  per  intero  soltanto  nel  '57,  ma  non  dobbiamo 
dimenticare  che  Colombina  o  Smeraldina  era  nel  '39,  nel  teatro 
di  San  Samuele,  la  grande  servetta  Andriana  Sacchi,  sorella 
dell'  indimenticabile   Truffaldino. 

La  prima  commedia  che  il  Goldoni  scrìsse  per  la  Marliani, 
nel  '51,6  la  Castalda,  in  dialetto  veneziano.  L'astuta  Corallina 
la  fa  da  vera  padrona  in  casa  di  Pantalone;  in  sei  anni  ha 
messo  da  parte  una  bella  sommetta:  "  Gh'  ho  anca  mi  „  dice, 
"  i  me  grumetti.  Gh'  ho  le  mie  pezzette  con  dentro  dei  tràiri, 
delle  lirazze  e  qualche  zecchinetto  „  ;  e  per  aver  qualche  dono, 
lusinga   tutti,   perfino    quel    pazzo    di    Lelio  :    "  I  dise  eh'  el  xe 


l66  INTORNO    ALLA    "  LOCANDIERA    „ 

matto?  Cossa  m'importa  a  mi?...  Se  no  ghe  fusse  dei  omeni 
matti,  nualtre  povere  donne  la  passaressimo  mal  „.  Anch'  essa 
conosce  il  suo  potere  femminile:  "  Gh' ho  un  certo  non  so  che, 
che  bisega.  Son  dretta  la  mia  parte.  Della  lengua  e  dei  occhi 
fazzo  quello  che  voggio.  E  con  una  occhiadina,  e  con  una  pa- 
roletta,  m' impegno  de  far  cascar  un  omo,  s'  el  fusse  de  piera 
viva  „.  Si  capisce  che  ci  vuol  poco  a  far  cadere  il  vecchio  Pan- 
talone, a  cui  non  par  vero  di  sposare  la  gastalda. 

Per  conoscer  bene  come  la  pensi  Corallina  su  certe  cose, 
non  bisogna  trascurare  le  commedie  minori.  Così  nelV  Amante 
militare  le  scappa  una  confessione  preziosa:  "  Povero  Arlec- 
chino! gli  voglio  bene.  Un  marito  sciocco  come  lui  non  lo  trovo, 
se  lo  cerco  per  tutto  il  mondo  „.  E  nella  Castalda,  rifatta  dal- 
l' autore  in  italiano,  a  Rosaura  che  dichiara  di  non  poter  sof- 
frire gli  uomini  sciocchi,  Corallina  risponde:  "  E  a  me  piacciono 
tanto.  Se  avessi  a  scegliermi  un  marito,  sempre  lo  cercherei 
scioccherello,  piuttosto  che  spiritoso  ed  accorto  „.  Com'è  la 
serva  padrona,  così  è  la  moglie  in  calzoni,  e  lo  sa  il  povero 
Brighella  nella  Moglie  saggia.  Corallina  non  ha  paura  del  ma- 
rito, né  di  nessuno:  "  Oh  s' egli  .avesse  a  fare  con  me,  non  mi 
lascerei  metter  i  piedi  sul  collo  „  dice  alla  contessa  Rosaura: 
"  S'  egli  alzasse  la  voce  tre  tuoni,  ed  io  sei.  S'  egli  alzasse  le 
mani,  ed  io  più  alte  di  lui  „.  Ha  due  altri  difettucci  che  com- 
piono il  suo  carattere:  lo  spirito  di  vendetta  e  la  curiosità. 
Udiamola  nei  Ptmtigli  domestici:  "  A  me  insolente?  „  grida  a 
Brighella:  "  Voglio  vendicarmi,  se  credessi  di  perdere  la  casa, 
il  pane  e  la  vita  „.  La  stizza  la  rode  a  lungo,  e  guai  per  Bri- 
ghella! "  Voglio  che  me  la  paghi,  se  credessi  di  maritarmi  a 
posta  per  questo  „.  Anzi  nella  prima  edizione  della  commedia 
diceva:  "  Voglio  vendicarmi,  se  credessi  di  perdere  tre  o  quattro 
mariti,  uno  dopo  l'altro  „.  Quanto  alla  curiosità,  CoraUina  è  la 
più  curiosa  delle  Dotine  curiose',  commedia  nata  quasi  a  un 
tempo  con  la  Locandiera.  È  in  lei  una  specie  di  furore,  di  follia: 
"  Io  ho  certo  naturale  „  confessa  "  che  vorrei  sapere  tutti  li  fatti 
di  questo  mondo  „.  "A  costo  di  tutto,  voglio  cavarmi  di  dosso 
questa  terribile  curiosità  „.  "  Alfine  siamo  donne  „  conclude 
nell'ultima  scena:  "  Quel  sentir  dire:  là  dentro  non  possono 
andar  le  donne,  è  lo  stesso  che  metterci  in  desiderio  d'  andarvi. 
E  per  me,  se  dicessero:  in  fondo  d'un  pozzo  vi  è  una  cosa 
che  non  si  ha  da  sapere  che  cosa  sia,  mi  farei  calar  giù  sin 
alla  gola,  per  cavarmi  una  tale  curiosità  „. 


DI    CARLO    GOLDONI  if] 

Anche  Mirandolina  è  donna,  supremamente  donna  con  tutti 
i  difetti,  ma  quei  difetti  nella  vita  sociale  diventano  spesso  una 
forza.  Nella  Serva  amorosa,  che  il  Goldoni  scrisse  e  fece  reci- 
tare a  Bologna  nella  primavera  del  '52,  e  che  segnò  uno  dei 
trionfi  più  belli  della  Marliani,  siamo  lontani,  lo  so,  da  Miran- 
dolina e  spesso  anche  dalla  vita,  perchè  vi  fa  troppo  sfoggio  la 
virtù;  eppure  in  quel  carattere  seppe  celare  il  Goldoni  più  d'un 
segreto  femminile,  sì  che  fra  tutti  quei  personaggi  che  la  cir- 
condano, Corallina  esce  vittoriosa,  più  forte  di  tutti,  uomini  e 
donne,  col  suo  coraggio  e  col  suo  buon  senso.  Questo  senso 
pratico  della  vita  ha  in  maggior  misura  stora  Lugrezia  nelle 
Donne  gelose,  un  diavolino  pronto  a  difendersi  con  la  lingua  e 
con  le  mani.  Ama  i  divertimenti,  ama  il  denaro,  ama  soprattutto 
la  propria  indipendenza.  "  Eia  la  va  a  tutti  i  teatri.  Tutte  le 
prime  recite  le  xe  soe.  Abiti,  no  se  parla.  Tabarazzi  con  tanto 
de  bordo.  Bautta  de  merlo.  Cossazze,  via,  cossazze  „.  Presta 
denaro  a  usura,  ma  vanta  il  proprio  cuore:  "  No  gh' è  caso: 
son  de  bon  cuor  „.  Gli  uomini  li  ha  tutti  intorno,  suoi  schiavi, 
fino  quel  disgraziato  Arlecchin;  ma  non  sa  che  farne,  adora  i 
òezzì,  non  V  amore.  "  Oe,  mi  me  inzegno,  „  dice  fra  sé  :  "  un 
poco  de  lotto,  un  poco  de  pegni,  un  poco  de  noletti...  cioè  no- 
letti  de  abiti,  intendemose:  voi  andar  all'opera,  vói  andar  alla 
commedia,  e  no  voggio  nissun  che  me  comanda.  Ancuo  con 
una  compagnia,  doman  con  un'altra.  I  morosi  i  xe  pezo  dei 
marii,  i  voi  comandar  a  bacchetta,  e  mi  son  una  testolina  che 
voi  far  a  so  modo.  Chi  me  vuol,  me  toga;  chi  no  me  vuol,  me 
lassa.  Rido,  godo,  me  diverto,  e  no  ghe  ne  penso  de  nissun 
una  maledetta  „.  E  la  filosofia  di  Mirandolina.  Tanto  più  che 
sa  bene  di  non  esser  più  una  fanciulla:  "  Una  volta  v' averave 
fatto  desperar  quante  che  sé;  ma  adesso  i  anni  passa,  son  vedoa, 
e  no  gh'  ho  più  el  morbin  che  gh'  aveva  una  volta.  Penso  a 
far  bezzi,  penso  a  mantegnirme  onoratamente,  perchè  saveu, 
fie?  dise  el  proverbio:  -  Passando  i  anni,  passa  la  bellezza,  - 
Ma  de  tutto  ghe  xe,  co  ghe  xe  bezzi...  „.  Mirabile  figura  strap- 
pata alla  società  borghese  di  Venezia  nel  Settecento  questa  ve- 
dova Lngrezial  Essa  degnamente  prelude  a  Mirandolina  e  alla 
sua  locanda. 

Ma  Mirandolina  è  Mirandolina,  e  non  assomiglia  propria- 
mente a  nessun'  altra  figura  nel  regno  dell'  arte  :  essa  emana 
dal  pieno  Settecento,  come  Manon,  e  sconvolge  il  cuore  degli 
uomini.  Chi  tenta  resistere,  chi  la  disprezza,  offende  il  sesso,  e 


l68  INTORNO    ALLA    "   LOCANDIERA    „ 

più  degli  altri  resta  vinto  e  diviene  suo  schiavo.  In  lei  nessuna 
corruzione,  nessuna  deformità  morale,  tolta  l'arte  di  fingere; 
Mirandolina  è  sana,  allegra,  spiritosa:  specialmente  è  donna, 
innamorata  e  gelosa  del  suo  potere  femminile.  "  Tutto  il  mio 
piacere  consiste  in  vedermi  servita,  vagheggiata,  adorata...  Voglio 
burlarmi  di  tante  caricature  d'amanti  spasimati;  e  voglio  usar 
tutta  r  arte  per  vincere,  abbattere  e  conquassare  quei  cuori  bar- 
bari e  duri,  che  son  nemici  di  noi,  che  siamo  la  miglior  cosa 
che  abbia  prodotto  al  mondo  la  bella  madre  Natura  „.  Rileg- 
giamo quello  che  scrisse  1*  autore  nostro  nella  prefazione  alla 
commedia,  pochi  mesi  dopo  la  recita,  con  la  fantasia  ancora 
commossa:  "  Il  pover' uomo  „  cioè  il  cavaliere  di  Ripafratta 
"  conosce  il  pericolo  e  lo  vorrebbe  fuggire,  ma  la  femmina 
accorta  con  due  lagrimette  l' arresta,  e  con  uno  svenimento 
r  atterra,  lo  precipita,  V  avvilisce.  Pare  impossibile  che  in  poche 
ore  un  uomo  possa  innamorarsi  a  tal  segno:  un  uomo,  aggiun- 
gasi, disprezzator  delle  donne,  che  mai  ha  seco  loro  trattato; 
ma  appunto  per  questo  più  facilmente  egli  cade,  perchè  sprez- 
zandole senza  conoscerle,  e  non  sapendo  quali  sieno  le  arti 
loro,  e  dove  fondino  la  speranza  de'  loro  trionfi,  ha  creduto 
che  bastar  gli  dovesse  a  difendersi  la  sua  avversione,  ed  ha 
offerto  il  petto  ignudo  ai  colpi  dell'  inimico.  Io  medesimo  „  con- 
tinua il  Goldoni,  ed  è  bene  por  mente  a  queste  parole  che  ci 
rivelano  l' atto  spontaneo  della  creazione,  "  diffidava  quasi  a 
principio  di  vederlo  innamorato  ragionevolmente  sul  fine  della 
Commedia,  e  pure,  condotto  dalla  natura,  di  passo  in  passo, 
come  nella  Commedia  si  vede,  mi  è  riuscito  di  darlo  vinto  ai 
fine  dell'atto  secondo  „.  Poi  aggiunge  ancora:  "  Io  non  sapeva 
quasi  cosa  mi  fare  nel  terzo,  ma  venutomi  in  mente  che  sogliono 
coteste  lusinghiere  donne,  quando  vedono  ne'  loro  lacci  gli 
amanti,  aspramente  trattarli,  ho  voluto  dar  un  esempio  di  que- 
sta barbara  crudeltà,  di  questo  ingiurioso  disprezzo  con  cui  si 
burlano  dei  miserabili  che  hanno  vinti  „. 

Il  Goldoni  qui  esagera,  facendo  una  concessione  ai  tempi, 
sulle  intenzioni  morali  che  certo  non  ebbe:  ma  è  vero  che  in 
questa  commedia  tutto  è  perfettamente  logico,  come  la  vita 
stessa.  Quando  Grimm  in  Francia,  nel  1764,  osservò  nella  sua 
famosa  Corrispondcjiza  che  bisognava  far  cadere  a  sua  volta  la 
eroina  nell'  amore  per  il  Cavaliere,  mostrò  di  non  aver  nulla 
capito:  così  poteva  scrivere  La  None  una  Civetta  punita  (i^^ó), 
ma  così  non  si  crea  Mirandolina.  Eppure  le  scene  della  Locan- 


DI    CARLO    GOLDONI  169 

diera,  d' una  psicologia  naturale  e  vigorosa,  si  seguono  limpi- 
dissime. Quando  a'  nostri  giorni  il  Rabany,  che  scrisse  un  grosso 
libro  sul  commediografo  veneziano,  volle  scusare  Goldoni,  poi- 
ché non  ebbe  "  la  pretésa  d'offrire  uno  studio  di  carattere  „, 
mostrò  di  non  aver  capito  il  suo  autore.  Quando  certo  Schedoni, 
nel  1828,  rimproverò  il  dottor  Carlo  per  aver  compiuto  il  trionfo 
di  Mirandolina  col  matrimonio  di  Fabrizio,  mostrò  di  capir  bene 
le  leggi  della  morale,  non  quelle  della  vita  e  dell'  arte.  Né  me- 
glio capirono  questo  singolare  e  potente  capolavoro  quanti  tra- 
duttori o  riduttori,  per  adattarlo  al  genio  delle  varie  nazioni,  lo 
sconciarono  più  o  meno  nelle  principali  lingue  d'  Europa.  Perchè 
qui  non  soltanto  V  azione  si  svolge  con  perfetta  arte  di  teatro, 
non  soltanto  il  gioco  de'  caratteri  e  delle  passioni  riesce  bellis- 
simo, non  soltanto  il  riso  comico  nasce  diversamente  da  ciascuno 
dei  diversi  personaggi,  ma  vi  sono  episodi  d'  una  dolorosa  ve- 
rità umana,  come  le  sei  prime  scene  dell'  atto  terzo,  che  reggono 
il  confronto  con  Molière  e  con  qualunque  altro  poeta  drammatico. 
La  caricatura  del  marchese  di  Forlipopoli,  la  satira  delle 
due  comiche,  appartengono  al  quadro  di  costume  del  Settecento 
e  però  vivono  meno.  Che  il  Goldoni  volesse  proprio  colpire  la 
boria  di  qualche  nobiluomo  spiantato,  di  qualche  barnaboto,  si 
può  mettere  in  dubbio,  essendo  ormai  consuetudine  anche  in 
Italia,  sul  palcoscenico  e  fuori,  la  rappresentazione  ridicola  della 
nobiltà  affamata.  Ricordiamo,  per  un  esempio,  il  conte  Ottavio 
nella  Castalda:  sebbene  qui  più  arguta  e  più  intera,  senza  vol- 
garità, fin  dall'  alzarsi  della  tela  si  stacchi  la  magra  figura  del 
Marchese,  a  cui  di  rincontro  piantasi,  facendo  risonare  i  suoi 
zecchini,  il  recente  conte  d' Albafiorita :  "  ...  Sì  conte!  Contea 
comprata.  -  Io  ho  comprata  la  contea,  quando  voi  avete  ven- 
duto il  marchesato...  „.  Querela  perpetua  fra  le  classi  sociali 
che  sorgono  e  quelle  che  se  ne  vanno.  Ortensia  e  Dejanira, 
come  a  dire,  sul  teatro  di  Sant'  Angelo,  Caterina  Laudi  ed 
Eleonora  Falchi,  servivano  a  compiere  la  pittura  della  locanda, 
il  carattere  del  Cavaliere  e  la  vittoria  di  Mirandolina.  Quanto 
a  Fabrizio  (sulla  scena  il  brighella  Marliani,  paziente  marito  di 
Maddalena)  il  quale,  a  guisa  di  molti  critici,  non  riesce  a  veder 
chiaro  nella  testolina  della  locandiera,  é  personaggio  troppo 
importante  perchè  occorra  richiamarvi  a  posta  1'  attenzione. 
Ricercare  poi  che  cosa  storicamente  e  artisticamente  rappresen- 
tino, nel  secolo  della  Pompadour,  del  Casanova  e  di  Laclos, 
Mirandolina  e  il  cavaliere  di  Ripafratta;  ridestare  Manon  e  Des 


170  INTORNO    ALLA    "  LOCANDIERA    „ 

Grieux,  la  Marianna  e  Pamela,  Cleveland  e  Lovelace;  ricordare 
le  altre  donne  goldoniane  e  dire  come  e  perchè  differiscano  da 
quelle  di  Molière;  analizzare  la  vendetta  di  Mirandolina  e  la 
passione  del  Cavaliere  nella  vita  e  nella  commedia,  ci  trarrebbe 
troppo  lontani  da  queste  umili  note. 

Strano  che  il  pubblico  da  principio  non  si  accorgesse  di 
questo  capolavoro,  e  che  nemmeno  l' autore  ne  avesse  piena 
coscienza.  La  Locandiera  non  suscitò  il  grido  della  Vedova 
scaltra j  della  Pamela,  del  Molière,  che  dico?,  del  Filosofo  inglese 
e  della  Sposa  Persiana,  checché  affermino  le  Memorie:  anzi 
restò  alquanto  confusa  tra  le  minori  sorelle.  Pochi  la  ricordarono 
fra  gli  amici  o  lodatori  del  Goldoni.  Il  Beregan  appena  la  no- 
mina, in  cattiva  compagnia  ("  L'accorta  Locandiera,  i  Mercanti, 
il  Tutore...  „:  //  Museo  di  Apollo,  1754);  appena  la  nomina 
Alvise  Foscarini  ("  La  Dama  e  il  Cavaliere,  e  la  Serva  amo- 
rosa, -  La  gaia  Locandiera,  e  la  sì  deliziosa  -  Pamela...  „); 
il  Roberti  tace.  Qualcuno,  come  il  Verri  che  vi  fece  attenzione, 
vi  ammirò  specialmente  l'arte  della  Marliani  ("Esser  può  in 
prosa  ancora  una  commedia  vera;  -  E  fra  le  tue  più  elette  conto 
la  Locandiera  „:  La  vera  commedia^  1755).  I  più  si  spaventarono 
per  ragione  della  morale;  condannarono  la  commedia  che  offen- 
deva il  canone  più  sacro  della  scuola  del  teatro,  e  costrinsero 
il  Goldoni  a  difendere  in  questo  modo  la  propria  audacia,  nella 
introduzione  premessa  alla  stampa,  fattasi  a  breve  distanza  dalla 
recita:  "  Fra  tutte  le  Commedie  da  me  sinora  composte,  starei 
per  dire  esser  questa  la  più  morale,  la  più  utile,  la  più  istruttiva  „. 

Non  sappiamo  come  la  pensasse  in  proposito  il  conte  Carlo 
Gozzi,  r  implacabile  nemico  della  riforma  goldoniana,  poiché 
nei  suoi  rabbiosi  sfoghi  o  dimentica  o  risparmia  la  bella  Miran- 
dolina. Se  ne  ricordò  certamente  nell'  autunno  del  1771,  quando 
per  Teodora  Ricci,  assunta  da  pochi  mesi  quale  prima  attrice 
nella  compagnia  di  Antonio  Sacchi,  compose  la  Principessa 
filosofa  (recitata  nel  febbraio  successivo).  L' intreccio  e,  in  parte, 
il  dialogo  sono  tolti  dal  ricordato  capolavoro  d'Agostino  Moreto, 
//  dispregio  col  dispregio,  da  cui  pure  derivò  il  Molière  la  sua 
non  felice  Principessa  d' Elide.  Anche  qui  donna  Teodora 
(  un'  altra  Turandot,  ma  non  così  barbara  )  disdegna  i  sospiri 
degli  innamorati  e  aborre  dal  matrimonio  ;  ma  quando  poi  don 
Cesare  finge  di  non  curare  la  sua  bellezza  e  quasi  mostra  di 
sprezzarla,  rimane  vinta  dall'  inganno  e  s' innamora  a  sua  volta 
perdutamente,  come   la   principessa   Diana   della  commedia  spa- 


DI    CARLO    GOLDONI  171 

gnola.  Che  il  Gozzi  abbia  guastato  quanta  poesia,  quanto  spi- 
rito e  quanta  finezza  d*  arte  si  trovano  nel  modello  di  Moreto, 
non  occorre  dimostrare  ^3:  tuttavia  qualche  spunto  drammatico^ 
proprio  del  Gozzi,  si  avverte  nella  Principessa  filosofa.  La  rozza 
Teodora  del  Gozzi  ha  un  po'  della  principessa  Diana,  un  po- 
chino di  Mirandolina,  e  qualche  cosa  forse  di  Teodora  Ricci. 
Ricordate  il  racconto  delle  Memorie  inutili^  come  il  rustego  conte 
Carlo,  brontolone  perpetuo  nel  carnovale  veneziano,  sedicente 
filosofo,  poco  o  nulla  tenero  delle  donne,  si  lasciasse  prendere, 
a  cinquant' anni  sonati,  nei  lacci  della  giovine  attrice  comica? 
Pare  che  da  principio  il  Gozzi  e  la  Ricci  recitassero  davvero 
sul  palcoscenico  della  vita  certe  scene  della  commedia  spagnola 
e  della  Locandiera:  schivi  tutti  due,  per  natura  o  per  sazietà, 
delle  passioncelle  d' amore,  superiori  tutti  due  alle  debolezze  e 
follie  del  povero  cuore  umano,  tutti  due  armati  della  filosofia 
del  secolo;  ma  il  duro  poeta  della  Tartana  ^  della  Marfisa  finì 
come  Ercole  ai  piedi  d'Onfale:  passava  lunghe  ore  in  casa 
della  Ricci,  a  insegnarle  il  francese  e  tante  altre  cose,  mentre 
Teodora  continuava  a  guardarsi  nello  specchio  per  "  studiare 
l'armonia  de'  colori  e  simili  faccende  '4  „  ;  e  fuori  di  casa  l'ac- 
compagnava a  qualche  cenetta,  a  pranzi  e  a  festini  privati,  a 
qualche  teatro,  e  s'ingegnava  a  farle  da  servente.  Eccola  qui  la 
Ricci,  nella  scena  nona  del  secondo  atto,  che  si  avanza  con  la 
sua  bella  figura,  con  1'  alta  e  bionda  capigliatura,  contraendo 
r  angolo  della  bocca  nella  smorfia  consueta  :  "  Donna  Teodora 
avrà  un  abito  da  giardiniera,  pittoresco,  bizzarro,  e  modesta- 
mente lascivo  „  come  dice  la  didascalia.  "  Sarà  tutta  fiori  e 
nastri,  coi  capelli  in  una  negligenza  artifiziosa.  Averà  un  cap- 
pellino galante...  Uscirà  suonando  un  traversie  „.  Povero  cava- 
liere di  Ripafratta,  volevo  dire  povero  conte  Carlo!  non  occor- 
reva il  flauto  tedesco  alla  nuova  Mirandolina,  se  fin  dal  primo 
atto  aveva  giurata  la  sua  rovina: 

Voglio  che  lo  vediate  innamorato, 
Furente,  fuor  di  sé... 

...  A  costo  di  qualunque 
Travaglio  mio,  di  far  cader  pretendo 
Nella  rete  d'  amor  questo  superbo. 

Poi  venne  Pier  Antonio  Gratarol:  ma  noi  torniamo  al  Goldoni 
e  air  opera  sua.  Solo   interrottamente   possiamo  seguire  le  rap- 
ii 


172  INTORNO    ALLA    "  LOCANDIERA    „ 

presentazioni  di  commedie  goldoniane  nel  Settecento:  pure  è 
certo  che  la  Locandiera  risalì  di  rado  sulle  scene  a  Venezia  e 
fuori.  A  Parigi,  nel  1764,  l'autore  ne  cavò  un  canovaccio  da 
recitarsi  sul  Teatro  Italiano,  col  titolo  di  Camilla  locandiera,  ma 
con  esito  infelice,  forse  per  colpa  della  riduzione.  Leggo  nel 
Diario  Veneto  in  data  22  gennaio  1765:  Teatro  di  S.  Samuele. 
"  Si  recita  //  Cavaliere  di  Ripaf ratta  o  sia  il  Marchese  di  For- 
lipopoli.  Commedia  bellissima  e  tutta  da  ridere  „.  E  merito  delle 
compagnie  comiche  veneziane  dell'  estremo  Settecento  di  aver 
ricondotto  alla  luce  questo  capolavoro  il  quale  doveva  poi  av- 
viarsi al  giro  glorioso  per  tutta  Europa:  col  suo  vero  titolo  o 
con  quello  appiccicato  degli  Amanti  in  locanda  (oppure  Li  tre 
o  /  quattro  amanti  in  locanda,  oppure  Li  tre  rivali  in  locanda) 
lo  ritroviamo  più  volte  sui  teatri  di  San  Giovanni  Crisostomo 
e  di  San  Luca,  tra  il  1796  e  il  1801.  Ma  nell'Ottocento  le  recite 
nelle  principali  città  d' Italia,  da  Torino  a  Napoli,  non  si  con- 
tano più.  Intanto  a  Parigi  nel  1791  applaudivasi  una  rafifazzo- 
natura  in  versi  francesi  di  Carbon  Flins  des  Oliviers  (La  Jeune 
hótesse)  che  tornò  infinite  volte  sul  teatro,  e  che  trent'  anni  dopo 
generò  in  Germania  altre  fortunate  Locandiere  tedesche,  famo- 
sissima fra  tutte  nel  '28  la  Mirandolina  di  Carlo  Blum,  come 
c'insegna  il  Maddalena  '5.  Finalmente  nel  1830  Carolina  Inter- 
nari,  alunna  di  Annetta  Pellandi,  recitava  a  Parigi  nel  testo 
originale  il  capolavoro  di  Goldoni  :  e  precedeva  di  ventisei  anni 
il  trionfo  nelle  capitali  d'Austria,  di  Francia  e  d'Inghilterra, 
d' Adelaide  Ristori.  E  lecito  affermare  che  per  virtù  di  questa 
straordinaria  attrice  la  Locandiera  acquistò  cittadinanza  mon- 
diale; e  da  allora  si  ebbero  traduzioni  in  lingua  russa  danese 
czeca  portoghese  rumena,  da  aggiungersi  a  quelle  in  lingua 
spagnola  greca  ungherese  che  già  esistevano;  e  di  teatro  in 
teatro  Mirandolina,  sempre  giovine  e  sorridente,  si  trasse  dietro 
il  povero  cavaliere  di  Ripafratta,  1'  odiatore  delle  donne,  il  più 
ingenuo  degli  innamorati. 

Tuttavia  i  critici,  come  suole  talvolta,  si  mostrarono  meno 
sensibili  del  pubblico  alle  lusinghe  della  Locandiera.  Dopo 
Grimm,  lo  stesso  Goethe  che  vide  a  Roma  la  commedia,  chiamò 
insulso  lo  scioglimento;  e  dovette  il  Klein  nel  secolo  seguente 
assumere  le  difese  di  Goldoni.  Con  acutezza  di  pensiero  volle 
ai  dì  nostri  Camillo  Susan  rendersi  ragione  del  paradosso 
goethiano,  che  il  carattere  di  Mirandolina  si  possa  tollerare  sol- 
tanto quando   sia   interpretato    sulla    scena   da   un   uomo,  come 


DI    CARLO    GOLDONI  J  73 

facevasi  a  Roma  nel  Settecento;  e  dimostrò  quanto  sia  logica, 
all'  infuori  d'  ogni  romanticheria,  la  soluzione  della  commedia  ^^. 
Molti  biografi  o  lodatori  del  Goldoni  la  dimenticarono,  per 
esempio  il  Carrer  il  Paravia  il  Ciampi  *7;  il  Masi  non  le  lasciò 
posto  nella  sua  Scelia  )  poco  se  ne  curarono  il  Galanti  e  il 
Caprin;  il  Rabany  se  ne  sbrigò  con  brevi  parole;  infine  la 
trascurò  Filippo  Mounier  ^^.  Solo  un  umilissimo  ammiratore  del 
commediografo  veneziano,  Domenico  Gavi,osò  affermare  nel  1826: 
"  La  Locandiera  è  un  portento  dell'  arte  „  ^9.  Negli  anni  recenti 
Mirandolina  quasi  all'  improvviso  affascinò  e  rapì...  fino  gli  eru- 
diti. In  Francia  ne  riconobbe  il  merito  Dejob,  negli  Stati  Uniti 
d'America  la  celebrarono  Chatfield-Taylor  e  Spencer  Kennard; 
in  Italia  ne  proclamarono  a  un  tempo  (1907)  l' immortalità  Re- 
nato Simoni,  Luigi  Federzoni  e  Sabatino  Lopez.  Anche  il  Toldo, 
contrapponendo  Goldoni  a  Molière,  la  collocò  accanto  ai  Rusteghi 
e  alle  Baruffe  chiozzotte  ^°.  Che  più?  Lo  stesso  Maddalena,  il 
quale  ne'  primi  anni  aveva  fatto  il  viso  un  po'  duro  alla  Lo- 
candiera, negandole  il  titolo  di  capolavoro,  si  lasciò  sedurre  un 
poco  per  volta,  e  per  ammenda  ricercò  pazientemente  le  orme 
gloriose  della  incantatrice  fuori  d'Italia,  di  paese  in  paese,  in 
un  bellissimo  saggio  dove  mostra  come  fosse  tradotta  "  in  altre 
lingue  una  trentina  di  volte  „:  dieci  versioni  o  riduzioni  ha  la 
Germania,  otto  i  paesi  anglo-sassoni,  sette  la  Spagna  ^i.  In  Italia 
poi  si  può  contare  nello  spazio  di  un  solo  anno  (1924-25)  una 
decina  di  ristampe,  in  ogni  angolo  della  penisola  =2, 

Ma  noi  siamo  stanchi  di  tanto  peregrinare,  e  senza  curarci 
d' altro  rivolgiamo  un  ultimo  saluto  d' appassionato  rimpianto 
alle  leggiadre  interpreti  di  Mirandolina  nell'  Ottocento,  a  Mad- 
dalena Gallina,  ad  Anna  Fiorilli  Pellandi,  a  Carlotta  Marchionni, 
a  Rosa  Bugamelli  Sacchi,  a  Rosa  Romagnoli,  a  Maddalena 
Pelzet,  ad  Albina  Pasqualini,  alla  Ristori,  alla  Marini,  alla  Tes- 
sero, alla  Reiter,  alla  Vitaliani  e  infine  all'unica,  divina  Duse; 
e,  oltralpe,  alle  Mirandoline  tedesche,  alla  Valsing,  alla  Heidn, 
alla  Devrient,  a  Carlotta  Hagn,  a  Carolina  Muller,  a  Teresa 
Peche,  a  Clara  Stich,  ad  Agnese  Sorma;  e  a  quelle  d'ogni  paese, 
alla  Zuerkowska  polacca,  all'  inglese  Irene  Vanbrugh,  a  Lucinda 
do  Carmo  portoghese  =3.  Quante  volte  poi  all'  orecchio  della 
fanciulla  creata  da  Carlo  Goldoni  risuonarono  le  note  musicali  ! 
Ben  otto  libretti  si  conoscono,  musicati  in  vari  tempi  da  maestri 
diversi  ^4.  Vero  è  che  troppo  umile  parve  a  taluno  la  condizione 
sociale  di  Mirandolina,  ma  nel  Settecento  1'  arte  scendeva  volen- 


174  INTORNO    ALLA     "  LOCANDIERA  „ 

tieri  fino  al  popolo;  e  lo  stesso  rimprovero  fu  fatto,  dopo  le 
commedie  goldoniane,  agli  eroi  del  romanzo  d' Alessandro  Man- 
zoni. Alberto  Nota  volle  in  fatti  donare  nel  1814  al  nostro  teatro 
una  Lusinghiera  ingentilita  e  punita;  la  sua  donna  Giulia  passò 
sul  palcoscenico  con  un  fruscio  di  vesti  eleganti,  fatta  vivere 
per  poco  da  Carlotta  Marchionni,  e  appassì  come  il  mazzo  di 
fiori  che  teneva  in  mano.  Mirandolina  continua  oggi  e  sempre 
a  stirare  la  biancheria,  mentre  scoppiano  nella  locanda  gli  alterchi 
del  Conte  e  del  Marchese,  e  cresce  drammaticamente  la  passione 
del  cavaliere  di  Ripafratta:  stira,  e  canta  Viva  Bacco  e  viva 
Amore)  poi  ci  lascia  pieni  del  suo  profumo  femminile,  ripetendo 
con  dolcezza  il  saluto:  Compatite  se  non  vi  ho  fatto...  -  Sulla 
sua  giovinezza  sono  già  trascorsi  quasi  due  secoli,  ma  nessuno 
le  potrà  togliere  il  vanto  di  essere  la  figura  di  donna  più  viva 
di  tutto  il  teatro  comico. 


AGGIUNTE  E  NOTE 


<<^ 


I  Ciò  si  rileva  dalla  scena  ii  dell'atto  I. 

a  Si  vedano  le  memorie  premesse  dal  Goldoni  ai  vari  tomi  del- 
l' edizione  Pasquali,  in  Opere  complete  per  cura  del  Municipio  di  Ve- 
nezia^ voi.  I,  p.  143. 

3  Goldoni,  Mémoires,  Il  P."*^,  eh.  14. 

4  Codice  Cicogna  2395,  presso  il  Civico  Museo  Correr  di  Vene- 
zia, e.  103. 

5  "  ...  E  la  tua  spiritosa,  accorta  Corallina  -  Piace  qualor  la  miro 
far  da  Mirandolina  „  :  La  vera  Commedia  di  Midonte  Priamideo 
(P.  Verri),  Venezia,  1755.  "  Innimitabil  sempre,  sempre  più  destra  e 
fina  -  È  in  caratteri  varj  1'  attrice  Corallina,  -  O  il  tragico  si  cinga 
coturno  grave  al  piede,  -  O  il  ridevole  socco  che  a  lei  Talia  già 
diede  „  :  G.  B.  Vicini,  Della  vera  poesia  teatrale,  Modena,  1754.  Nel- 
r  estate  del  '58  così  scriveva  il  Frugoni,  a  Cornelia  Barbaro  Gritti, 
della  compagnia  Medebac  che  recitava  allora  a  Parma,  e  del  suo 
capocomico:  "  Che  bravo  attore  e  specialmente  in  oggi  ne  le  parti 
caricate I  Che  brava  compagnia,  che  lo  riconosce  per  capo!  Incom- 
parabile la  Rosaura,  che  a  questi  dì  cagionevole  di  rado  rappresenta  ; 
egregia  la  Corallina  nata  per  animar  tutto  con  la  voce  e  con  l'azione. 
Il  Pantalone  {Collalto)  eccellente;  ottimo  l'Arlecchino  e  il  Brighella 
(Marliani);  e  tutto  il  resto  degno  d'esser  veduto  e  di  piacere  „: 
Poesie  ecc.,  Lucca,  1779,  t.  V,  58. 

6  Opere  complete  di  C.  G.,  ed.  cit.,  voi.  IX,  p.  478. 

7  Giulietta  ovvero  il  seguito  delV Impresario  in  rovina.  -  Cito  dal- 
l' ed.  1784,  pp.  74-75. 

8  Opere  complete  di  C.  G.,  ed.  cit.,  voi.  IX,  p.  196. 

9  Nel  famoso  Theatre  Italien  de  Gherardi  vedasi,  per  esempio, 
la  Coquette  ou  l' Acadèmie  des  Dames,  1691  ;  la  Patisse  coquette,  1694; 
la  Thèse  des  Dames  ou  le  Triomphe  de  Colombine,  1695  ecc. 

1°  G.  Ortolani,  Per  ima  scena  d'amore  nelle  Baruffe  Chiozzotte, 
in  Marzocco,  25  febbraio  1907.  Già  il  Gassier  e  il  Dejob,  come  ve- 
dremo, avevano  ricordato  Marivaux. 

II  È  tuttavia  da  credere  che  nell'  "  ampia  raccolta  di  Tragedie, 
di  Commedie  e  di  opere  di  ogni  genere  teatrale,  antiche  e  moderne  „ 
formata  a  Venezia   dal  N.  U.  Niccolò    Balbi,    antico   protettore    del 

G.  Ortolani.  la 


178  INTORNO   ALLA    "  LOCANDIERA  „ 

Goldoni,  non  mancassero  le  opere  comiche  di  Marivaux  {Opere  com- 
plete di  C.  G.,  voi.  XI,  p.  227).  Nel  numero  73  della  Gazzetta  Veneta 
(15  ott.  1760)  Gasparo  Gozzi  descrisse  ai  lettori  Les  petits  Hommes 
ou  r Ile  de  la  Raison  e  ne  lodò  il  dialogo  "  finissimo  „  e  l'allegoria. 
13  Casanova,  Le  Messager  de  Thalie,  ed,  da  Aldo  Ravà  [Contri- 
buto alla  bibliografia  di  G.  Casanova)  in  Giorn.  Storico  della  lettera- 
tura italiana,  voi.  LV  (1910). 

13  Vedi  E.  Carrara,  Studio  sul  teatro  ispano-veneto  di  C.  Gozzi, 
Cagliari,  1901,  pp.  47-54. 

14  Memorie  inutili,  Parte  II,  cap.  11. 

15  Vedi  il  prezioso  saggio  su  La  fortuna  della  Locandiera  fuori 
d' Italia,  in  Rivista  d' Italia,  nov.  1907. 

16  Goethe  und  Goldonis  "  La  Locandiera  „ ,  in  Osterreichische 
Rundschau,  i  febbr.  1909. 

17  "  Jolie  „  parve  al  Sismondi,  che  le  dedicò  alcune  righe;  ma 
"  jolie  „  è  anche  l' Incognita,  e  ne  parlò  per  una  lunga  pagina. 

18  Meglio  avrebbe  fatto  a  dimenticarsene  A.  Gassier  nel  suo  libro 
su  Le  théàtre  espagnol,  là  dove  parla  d'  Agostino  Moreto  e  fra  le 
opere  che  più  o  meno  si  inspirarono  al  Desden  con  el  desden  nomina 
prima  la  Turandot  del  Gozzi  e  poi  aggiunge:  "  Et  la  Loueuse  (Lo- 
candiera) de  Goldoni,  dont  le  ròle  est  poussé  à  la  gaité,  ne  dépense- 
t-elle  pas  autant  de  coquetterie  que  la  Diana  de  Moreto  pour  venir 
à  bout  du  Seul  de  ses  galants  qui  la  piqué  par  son  insensibilité  ? 
Mais  les  deux  pièces  italiennes  ne  sont  qu'  une  fantaisie  et  un  vau- 
deville. AUons  plus  haut  ;  élevons-nous  à  Marivaux  et  à  Musset  :  des 
scènes  de  Dédain  pour  Dédain  font  penser  au  feu  de  r  Amour  et  du 
Hasard  ecc.  „  (Paris,  1898,  p.  378).  Del  resto  anche  due  anni  fa  a  Pa- 
rigi la  Locandiera  fu  recitata  dagli  attori  e  fu  accolta  dal  pubblico 
e  dai  cronisti  di  teatro  come  un  buffonesco  vaudeville. 

19  Della  vita  di  C.  Goldoni,  Milano,  ]826,  pp.  154-155.  Il  Gavi 
ammira  soprattutto  le  tre  ultime  scene  dell'  atto  terzo,  "  preparate  e 
condotte  da  divino  maestro...:  cosa  più  bella  non  si  può  dare  „. 

20  Così  pure  G.  Ortolani  nel  saggio  intitolato  Della  vita  e  del- 
l' arte  di  C.  Goldoni,  Venezia,  1907,  p.  128  (v.  poi  a  p.  68). 

31  Prefazione  alla  Locandiera,  annotata  ad  uso  delle  scuole  medie 
per  cura  di  E.  Maddalena,  Firenze,  Sansoni,  1925,  p.  x. 

33  Tre  delle  quali  egregiamente  curate  dal  Sanesi,  dal  Vaccalluzzo, 
dal  Maddalena.  Ricordo  pure  una  ristampa  nel  1911,  del  Brognoligo. 

33  Maddalena,  La  fortuna  della  Locandiera  cit. 

34  Per  molte  altre  indicazioni  bibliografiche  rimando  alla  Noia 
storica  in  fine  della  Locandiera,  nel  voi.  IX  cit.  delle  Opere  complete 
di  C.  G.  per  cura  del  Municipio  di  Venezia:  dalla  quale  sono  rico- 
piate per  buona  parte  queste  mie  pagine. 


LE    "  BARUFFE    CHIOZZOTTE 
E  UNA  SCENA  D^  AMORE 


Sulla  fine  del  secolo  decimosettimo  il  padre  Coronelli  ci 
lasciò  nel  suo  Isolarlo  una  breve  descrizione  della  città  di 
Chioggia:  "  (Essa)  è  ridotta,  come  si  trova  al  presente,  nel 
circuito  di  un  miglio  e  mezzo  circa,  di  forma  quasi  ovale,  divisa 
da  una  bella  strada  lunga  circa  mezzo  miglio,  che  forma  una 
continuata  Piazza,  passandovi  anche  pel  mezzo  un  canale  detto 
Vena.  Sopra  questo,  nove  ponti,  parte  di  pietra  e  parte  di  legno, 
danno  la  comunieatione  dall'una  all'altra  parte,  e  benché  havesse 
prima  i  suoi  rivi,  che  andavano  alle  case  de'  particolari,  come 
in  Venetia,  hoggidì  sono  quasi  tutti  atterrati.  Resta  però  la  Città 
circondata  tutta  dall'acqua;  un  ponte  di  pietra,  con  bell'arco, 
e  torre  antica  a  mezzogiorno,  la  unisce  con  altra  Isoletta,  dove 
sono  i  conventi  de'  P.  P.  Minori  Osservanti  e  de'  Cappuccini, 
indi  per  altro  ponte  di  legno,  lungo  150  passi,  s' incammina  a 
Brondolo  „  '. 

Intorno  alle  varie  occupazioni  degli  abitanti,  che  ai  tempi 
del  Goldoni  sommavano  a  circa  20  mila,  il  buon  frate  aggiun- 
geva: "  Que'  Cittadini  che  non  sono  impiegati  nelle  cariche  del 
Governo...  s'esercitano  in  gran  parte  nella  nautica,  gl'altri  nella 
pesca  e  nella  coltura  delle  hortaglie...  Le  Donne  s' occupano 
incessantemente  nel  lavoro  de'  merletti  o  siano  pizzi  di  filo 
bianco,  trovandone  grand'  esito  nella  Dominante  ed  in  altre  Città 
vicine,  dove  i  loro  mariti  o  parenti  vanno  a  trafficarli  „.  E  un 
anonimo,  sul  mezzo  del  Settecento,  ripeteva:  "  ...  I  suoi  abita- 
tori si  esercitano  principalmente  nel  traffico  e  nella  navigazione, 
e  la  plebe  nella  pesca  e  nel  coltivar  vigne.  Le  donne  hanno 
come  occuparsi  utilmente  nel  lavoro  de'  merli  o  pizzi  di  refe, 
che  si  spacciano   nella   Dominante  e  ne'  luoghi  circonvicini  „  ^. 

Questa  singolare  città  che  vantava  origini  troiane  e  romane, 
rivale  di  Padova  fin  che   non    fu    distrutta  e  arsa  da'  Genovesi 


l82  LE    "    BARUFFE   CHIOZZOTTE    „ 

nel  memorabile  assedio  (1379),  prima  città  del  Dogado  dopa 
Venezia,  e  di  Venezia  braccio  vigoroso,  avanzato  a  mezzogiorno 
verso  il  mare,  godeva  il  privilegio  di  un  suo  Consiglio  Maggiore 
e  d' uno  Minore,  e  d' un  Cancelliere  Grande,  e  d' altri  magistrati 
che  giudicavano  nelle  cause  civili,  simili  a  quelli  della  Dominante: 
sebbene  quale  capo  riconoscesse  un  rettore  nobile  veneziano  col 
titolo  di  podestà,  da  cui  dipendeva  direttamente  la  Cancelleria  cri> 
minale.  Seanche  sparirono  ormai  le  vecchie  magistrature  e  se 
gli  antichi  usi  cedettero  al  tempo  ;  seanche  la  gloriosa  tartana 
("  legno  grande  e  robusto  „  a  due  alberi  e  di  vela  latina,  "  di 
forma  media  tra  1'  antica  galeazza  e  1'  attuale  trabaccolo  „  )  fu 
sostituita  a  poco  a  poco  "  dalla  varia  gente  dei  bragozzi  e  d' altri 
legni  più  agili  forse,  ma  non  più  solidi  né  più  beUi  „  3;  seanche 
la  vecchia  tonda  e  il  bocassìn  (sottana  o  gonna  la  prima,  e  specie 
di  grembiale  il  secondo,  che  dalla  cintola,  a  cui  s'allacciavano, 
arrovesciavansi  sul  capo)  non  circondano  più  il  viso  delle  donne 
chioggiotte,  r  aspetto  della  città  e  della  popolazione  rimane  pur 
sempre  caratteristico  e  originalissimo. 

"  Non  calli  e  canali  intrecciati  in  un  dedalo  come  a  Vene- 
zia „  raccontano  i  descrittori  moderni,  "  non  prospettive  capric- 
ciose e  strane:  ma  una  pianta  regolare  e  geometrica  „,  la  famosa 
spina  di  pesce.  E  nulla  delle  nostre  recenti  officine  industriali  : 
qui  siamo  nella  patria  dei  marinai.  "  Alberi,  antenne,  pennoni 
di  navi,  pali  da  sostenere  le  reti,  pertiche  da  reggere  nasse, 
cestoni,  cordami  „,  barche  "  d'ogni  grandezza  e  d'ogni  foggia  „ 
e  bastimenti  di  gran  cabotaggio,  "  grandi  vele  latine  dipinte 
d' immagini  simboliche,  stampate  di  lettere  maiuscole,  listate  e 
inquartate  come  stemmi  ;  remi  enormi  che  due  uomini  muovono 
a  fatica,  e  remi  leggieri...;  àncore  buone  da  mordere  nella  sabbia 
e  nello  scoglio...  E  intorno,  su  le  rive,  son  magazzini,  cantieri, 
botteghe  ingrommate  di  salsedine;  e  da  per  tutto  diffuso,  anzi 
connaturato  nell'  aria,  quel  tanfo  salso  che  a  Venezia  si  chiama, 
con  termine  intraducibile,  freschin,  e  del  quale  viene  or  sì  or  no 
a  consolare  le  nari  qualche  esalazione  di  pece  e  di  catrame  „  4. 
Tale,  or  sono  trent'  anni,  la  città  delizia  e  tormento  dei  pittori  ; 
ed  ecco  dal  Molmenti  e  dal  Mantovani  ritratti  al  vivo  gli  abitanti, 
gli  arditissimi  pescatori  dell'Adriatico:  "  Bei  tipi  questi  Chiog- 
giotti: figure  aduste  e  un  po'  curvate  dalla  fatica  del  remo  e  della 
rete,  facce  arse  da  tutti  i  venti  del  libero  mare,  scolpite  a  profili 
risoluti,  a  piani  vigorosi,  con  occhi  gravi  e  acuti  bruciati  intorno 
dal  sole   e   spesso   tormentati   da   malattie:  gente   che  cammina 


E   UNA    SCENA    d'  AMORE  183 

adagio,  con  quel  curioso  oscillare  su'  ginocchi  che  è  proprio  di 
chi  per  usanza  cerca  V  equilibrio  sul  mobile  piano  della  barca, 
con  la  pacatezza  di  chi  per  solito  ha  da  fare  un  cammino  breve 
e  mal  sicuro  „.  Portano  la  "  giacca  grossa  o  cappotto  grossis- 
simo  di  lana  con  T  ampio  cappuccio,  berrettone  di  lana  rossa  o 
scura,  zoccoli  di  legno,  alte  calze  di  lana  rimboccate  al  ginocchio, 
e  in  bocca  la  pipa,  la  tradizionale,  l'inseparabile  pipa  dal  cami- 
netto di  creta  „.  Povere  le  case,  ma  pittoresche.  Tuttavia  i 
Chioggiotti  amano  "  più  la  barca  che  la  casa...  Anche  nelle 
giornate  di  riposo  preferiscono  sedere  su  la  riva  di  un  canale 
o  sotto  una  loggia  in  piazza  che  starsene  rinchiusi  nelle  stanze 
affumicate  e  ammorbate  dal  pesce  fritto  „. 

Ora  in  mezzo  a  questo  popolo  che  aveva  suoi  costumi,  sue 
tradizioni,  sue  occupazioni,  un'  indole  sua  propria,  e  quasi  un 
suo  dialetto,  il  Goldoni  aveva  abitato  interrottamente  fra  il  1721 
e  il  1729,  cioè  fra  i  14  e  22  anni,  in  quell'  età  in  cui  s' impri- 
mono più  fortemente  nell'  animo  le  sensazioni.  Ne  parlò  per  la 
prima  volta  nelle  pagine  delle  sue  memorie  che  servivano  d'in- 
troduzione ai  vari  tomi  delle  sue  commedie  stampate  con  bei 
rami  dal  Pasquali,  dove  rievocava  la  sua  giovinezza;  ne  tornò 
a  parlare  nella  prefazione  delle  Baruffe  e  infine  nelle  Memorie 
francesi,  scritte  a  Parigi  ne'  suoi  ultimi  anni.  A  Chioggia  il 
giovine  Goldoni,  come  tutti  ricordano,  capitò  improvvisamente 
alla  presenza  della  madre,  dopo  la  fuga  da  Rimini  con  la  com- 
pagnia degli  attori  comici;  a  Chioggia  seguì  per  qualche  tempo 
il  padre  nelle  visite  agli  ammalati,  finché  per  poco  non  ammalò 
lui  stesso  in  grazia  d'  una  fanciulla  "  assai  più  bella  che  onesta  „  ; 
a  Chioggia  veniva  da  Pavia  nei  mesi  di  vacanza,  e  vi  leggeva 
le  commedie  del  Cicognini  e  del  Fagiuoli,  e  la  Mandragola  del 
MachiaveUi,  e  vi  scrisse  "  una  quantità  di  sonetti  „  e  un  pane- 
girico di  S.  Francesco,  e  certi  "  dialoghi  comici  per  alcune  fan- 
ciulle in  un  Monastero  „  ;  qui  fece  amaro  ritorno  quando  fu 
scacciato  dal  collegio  Ghisleri,  e  qui  finalmente  entrò  negli  uffici 
pubblici  quale  aggiunto  al  coadiutore  del  Cancelliere  Criminale 
dal  gennaio  del  1728  all'  aprile  del  '29,  essendo  podestà  il  N.  U. 
Francesco  Bonfadini,  sposo  della  gentildonna  Andriana  Dolfin, 
alla  quale  più  tardi  il  commediografo  dedicò  per  riconoscenza 
la  Donna  di  garbo.  Vogliamo  ricordare  anche  il  nome  del  can- 
celliere, eh'  era  il  signor  Egidio  Zabottini  di  Castelfranco,  bra- 
v'  uomo,  e  quello  del  coadiutore,  eh'  era  il  signor  Stefano  Porta 
di  Feltre,  eccellente  giovane  che  volentieri  lasciava  al  suo  com- 


184  LE    "    BARUFFE    CHIOZZOTTE    „ 

pagno  il  peso  del  lavoro  5,  Nelle  memorie  francesi  il  Goldoni 
aggiunse,  prima  di  narrare  la  partenza  per  Feltre,  una  storia 
fra  comica  e  romanzesca  d'  un  suo  amore  con  una  bella  e  ricca 
educanda  del  convento  delle  monache  di  S.  Francesco,  la  quale 
non  volendo  attendere  troppo  a  lungo  il  futuro  dottorino,  lo 
piantò  bellamente  accontentandosi  di  sposare  il  vecchio  tutore. 
Non  sappiamo  se  in  questo  racconto  la  fantasia  aiutasse  almeno 
in  parte  il  poeta  delle  Baruffe  Chiozzotte.  E  poi  tradizione  ch'egli 
abitasse  in  Chioggia  proprio  di  fronte  a  detto  monastero,  anzi 
nella  stessa  casa  di  Rosalba   Carriera,  ma  convien  sorvolare  ^. 

Nella  prefazione  della  commedia  osserva  V  autore  che  le 
baruffe  "  sono  comuni  fra  il  popolo  minuto  e  abbondano  a 
Chiozza  più  che  altrove  „  poiché  cinque  sesti  degli  abitanti  sono 
"  di  estrazione  povera  e  bassa,  tutti  per  lo  più  pescatori  e  gente 
di  marina  „  7.  È  probabile  che  nella  Cancelleria  Criminale  a  cui 
apparteneva  il  Goldoni,  esistesse  più  di  un  documento  di  cotali 
zuffe  non  sempre  innocue;  ma  che  il  commediografo  abbia  tra- 
sportato sulle  scene  un  episodio  reale,  come  altri  fantasticarono, 
io  non  credo,  perchè  prima  o  poi  lo  avrebbe  detto,  per  quella 
sua  abitudine  di  fare  le  confessioni  in  pubblico.  Nelle  memorie 
italiane,  dove  accenna  alla  popolazione  chioggiotta,  dice  soltanto: 
"  ...  E  que*  pizzi  e  quelle  Donne  e  que'  Pescatori  mi  hanno 
r  argomento  somministrato  di  una  commedia  „.  E  nelle  memorie 
francesi:  "  ...  J' avois  eu  affaire  à  cette  population  nombreuse 
et  tumultueuse  de  pécheurs,  de  matelots  et  de  fenimelettes,  qui 
n' ont  d' autre  salle  de  compagnie  que  la  rue:  je  connoissois 
leurs  moeurs,  leur  langage  singulier,  leur  gaieté  et  leur  malice  : 
j'étois  en  état  de  les  peindre,  et  la  Capitale,  qui  n' est  qu' à 
huit  lieues  de  distance  de  cette  Ville,  connoissoit  parfaitement 
mes  originaux  „.  Questo  bisogna  credere,  e  nient' altro.  Del 
resto  sì  misera  questione  sembra  rimpicciolire  il  Goldoni.  La 
grandezza  dell'artista  in  questa  commedia  non  consiste  nel  tra- 
sportare un  avvenimento  o  un  personaggio  reale  sulla  scena, 
bensì  nel  trasportarvi  i  caratteri  di  un'  intera  popolazione.  Per 
tale  rispetto  io  non  conosco  nessuna  commedia  più  vera  delle 
Baruffe  Chiozzotte^  ne  più  originale. 

Nelle  vecchie  edizioni  della  commedia  si  legge  che  le  Ba- 
ruffe furono  rappresentate  "  per  la  prima  volta  in  Venezia  il 
carnovale  dell'Anno  1760  „;  e  tale  data  trovasi  ripetuta  nei 
Mcmoires'.  ma  invano  di  questa  recita  si  cercherebbe  notizia  nei 
documenti   del   tempo.   Soltanto   nel   numero   95   della  Gazzetta 


E   UNA   SCENA    d'  AMORE  185 

J^eneia  diretta  dal  Chiari,  trovo  il  seguente  annuncio,  ai  23  gen- 
naio del  1762:  "  Nel  Teatro  a  S.  Luca  è  imminente  la  rappre- 
sentazione d'  un'  altra  Commedia  nuova  intitolata,  in  dialetto 
nostro,  Le  Chìozoite,  e  quanto  prima  ne  sentiremo  il  giudizio 
del  Mondo  „.  Il  mondo  ha  giudicato  in  fatti,  ma  l'abate  bresciano 
si  dimenticò  di  farci  conoscere  il  giudizio  suo.  Poco  male:  a 
noi  basta  sapere  che  1'  elenco  o  registro  delle  recite  del  teatro 
di  San  Luca,  scoperto  pochi  anni  sono  dal  compianto  Aldo  Ravà 
nell'archivio  del  Teatro  Goldoni,  conferma  la  notizia  della  Gaz- 
zetta. Se  possiamo  fidarci  delle  Memorie  goldoniane,  la  com- 
media ebbe  un  esito  brillantissimo  e  fece  mirabile  effetto;  e  si 
distinse  fra  tutti  gli  interpreti  l' attrice  Caterina  Bresciani,  la 
celebre  Ircana,  che  sapeva  trionfare  così  nel  genere  comico  più 
elevato,  come  nel  più  basso,  secondo  la  classificazione  del  nostro 
autore.  Nella  prefazione  della  commedia  ricorda  il  dottor  Carlo 
che  la  pronuncia  chioggiotta,  così  diversa  dalla  veneziana, /or/wò 
"  nella  rappresentazione  una  parte  di  quel  giocoso,  che  ha  fatto 
piacer  moltissimo  la  Commedia.  Il  personaggio  principalmente 
di  Padron  Fortunato  è  stato  de'  più  gustati  „.  Sia  pure:  ma, 
in  conclusione,  di  questo  singolare  capolavoro  non  s'  accorsero 
bene  da  principio  i  concittadini  del  Goldoni,  né,  a  dire  il  vero, 
r  autore  stesso. 

Come  si  sa,  il  conte  Carlo  Gozzi,  benché  fosse  ammiratore 
e  imitatore  del  Berni  e  del  Burchiello,  non  poteva  soffrire  le 
maravigliose  commedie  dialettali  in  cui  rivive  nei  suoi  più  arguti 
atteggiamenti  l'antico  popolo  delle  lagune  veneziane,  e  condan- 
nava senza  alcuna  pietà,  tutti  insieme,  "  //  Campiello,  le  Massere, 
le  Baruffe  Chiozzotte  e  molte  altre  plebee  e  trivialissime  opere 
del  Signor  Goldoni  „  ;  o  additava  scherzando  "  le  bellezze  e  le 
dignità  delle  Baruffe  Chiozzotte,  e  i  contrasti  di  conseguenza 
sulle  zucche  del  Signor  Goldoni  „  ^.  Certo  alludendo  al  Gozzi 
e  ai  seguaci  del  Gozzi  il  buon  dottor  veneziano,  da  Venezia 
lontan  do  mite  mia,  difendevasi  nella  prefazione  della  sua  com- 
media, quasi  chiedendo  perdono  al  pubblico  e  ai  lettori  di  aver 
"  moltiplicato  sopra  le  Scene  questa  sorta  di  soggetti  e  di  argo- 
menti bassi  e  volgari  „  e  invocava  a  discolpa  l'esempio  delle  com- 
medie dette  tabernariae  dai  Latini  e  di  quelle  dette  poissardes  dai 
Francesi.  Va  va,  Carlo  Goldoni,  che  i  posteri  ti  hanno  ben  perdo- 
nato, mentre  le  rozze  voci  dei  tuoi  Chioggiotti  risuonano  da  quasi 
due  secoli  sempre  più  alte,  e  la  tartana  di  paron  Toni  si  profila 
sempre  più  bella  e  più   gloriosa  sul  cielo  e  sul  mare  adriatico. 


l86  LE    "    BARUFFE    CHIOZZOTTE    „ 

Il  primo  famoso  ammiratore  delle  Baruffe^  di  cui  ci  resti 
testimonianza,  è  dunque  Volfango  Goethe.  La  sera  dei  io  otto- 
bre 1786  il  grande  poeta  tedesco,  rincasando  dopo  la  recita  a 
cui  aveva  assistito  nel  teatro  di  San  Luca,  scriveva  nel  suo 
giornale  di  viaggio:  "  Ora  finalmente  posso  anche  dire  d'aver 
veduto  una  commedia!  „  9.  Una  lode  egli  dedica  anche  agli  attori, 
e  specialmente  alla  prima  donna,  per  la  fedele  imitazione  dei 
costumi  popolari.  Credo  di  riconoscere  in  questa  bella  attrice 
la  figlia  di  Giuseppe  Lapy,  detta  Luigia,  che  aveva  sposato 
r  attore  Antonio  Belloni,  con  cui  passò  nelF  89,  morto  già  il 
padre  capocomico,  nella  compagnia  Battaglia  a  San  Giovanni 
Grisostomo.  Recitavano  pure  a  San  Luca,  se  ben  m*  appongo, 
Anna  Perelli,  col  marito  Luigi,  truffaldino^  Teresa  Consoli, 
Laura  Checcati,  Francesco  Martelli  e  quel  Petronio  Zanarini, 
bolognese,  che  sosteneva  le  parti  di  padre  e  lasciò  fama  di 
grandissimo  comico.  Quattro  anni  dopo,  mutata  in  parte  la  com- 
pagnia sotto  la  direzione  del  Perelli,  si  leggeva  nella  Gazzetta 
Urbana  Veneta'.  "  La  Comica  Compagnia  a  S.  Luca  seppe 
mantenersi  il  concorso  e  l' aggradimento  del  Pubblico...  Delle 
più  vecchie  Commedie  del  nostro  Goldoni  si  udirono  con  molta 
soddisfazione,  come  le  Baruffe  Chiozzotte,  i  quattro  Brontoloni 
(non  occorre  dire  che  sono  i  Rusteghi),  il  Medico  Olandese  ed 
altre  „.  E  V estensore  del  foglio  veneziano,  ch'era  Antonio  Piazza, 
continuava  con  parole  che  avranno  certamente  commosso  il  vec- 
chio commediografo  se,  come  credo,  avrà  potuto  leggerle:  "  Il 
bello,  il  vero  non  invecchia  mai.  Sappia  il  Molière  dell'  Italia, 
che  la  sua  Patria  non  si  scorda  di  lui,  e  che  al  venir  del  Teatro 
dopo  aver  udita  qualche  sua  Commedia,  si  sente  a  ripetere: 
-  Vale  più  una  di  queste  scene  che  tutte  le  nuove  stramberie 
de'  moderni  Autori  „  ^°. 

Per  trovare  dopo  il  poeta  tedesco  uno  spettatore  e  un  am- 
miratore altrettanto  illustre,  conviene  lasciar  passare  molti  anni. 
Neil'  inverno  del  1758-59,  Riccardo  Wagner  scriveva  a  Venezia, 
nel  palazzo  Giustiniani,  le  note  del  Tristano  e  si  svagava  dal 
lavoro  con  qualche  visita  al  teatro  Camploy  "  dove  venivano 
rappresentate  molto  bene  le  commedie  del  Goldoni  „.  Più  spesso 
recavasi  "  alle  rappresentazioni  diurne  popolari  al  teatro  Mali- 
bran.  Quivi,  costando  l' ingresso  solamente  6  crazie,  ci  trova- 
vamo „  racconta  nelle  sue  memorie,  "  tra  un  pubblico  eccellente 
(la  più  gran  parte  in  maniche  di  camicia),  per  il  quale  si  rap- 
presentavano quasi  sempre  commedie  di  carattere  cavalleresco. 


E   UNA    SCENA   d'  AMORE  187 

Ma  un  giorno  assistei,  con  mia  gran  meraviglia  e  con  vera  delizia, 
alla  rappresentazione  della  commedia  grottesca  Le  Baruffe 
Chioggiotte^  che  già  a  Goethe  era  piaciuta  tanto,  e  che  fu  data 
con  tale  naturalezza  che  io,  per  quanto  sappia,  non  so  trovar 
nulla  di  simile  per  poterne  fare  il  confronto  „  ".  -  Chissà  non 
gli  sorridesse  piìi  tardi  quel  ricordo  quando  creò  la  famosa  ba- 
ruffa ne'  Maestri  cantori? 

Ormai  da  gran  tempo  il  pubblico  batteva  le  mani  e  i  critici 
s' inchinavano  al  capolavoro  goldoniano.  Tuttavia  i  più  vecchi 
biografi  e  critici  del  nostro  commediografo,  compreso  il  Carrer, 
non  parvero  fare  alcun  caso  delle  Baruffe  Chiozzotte.  O  forse 
non  osarono  parlarne,  che  ancora  gravava  sul  teatro  popolare 
del  Goldoni  la  terribile  sentenza  di  Carlo  Gozzi  che  intimidiva 
i  signori  letterati;  "  Moltissime  delle  sue  commedie  non  sono 
che  un  ammasso  di  scene,  le  quali  contengono  delle  verità,  ma 
delle  verità  tanto  vili,  goffe  e  fangose  che,  quantunque  abbiano 
divertito  anche  me  medesimo  animate  dagli  attori,  non  seppi 
giammai  accomodare  nella  mia  mente  che  uno  scrittore  dovesse 
umiliarsi  a  ricopiarle  nelle  più  basse  pozzanghere  del  volgo, 
né  come  potesse  aver  V  ardire  d' innalzarle  alla  decorazione 
d' un  Teatro  e  sopratutto  come  potesse  aver  fronte  di  porre 
alle  stampe  per  esemplari  delle  vere  pidocchierie  „  ".  Non  e'  è 
sciocchezza  o  follia  che  non  trovi  pronte  molte  mani  nell'  aria 
ad  applaudire:  così  sono  varii  nella  grande  famiglia  umana 
gusti  e  opinioni. 

Tanto  più  bisogna  apprezzare  un'umile  pagina  di  Domenico 
Gavi  che  per  primo  nel  1826  additò  i  mirabili  pregi  di  questa 
commedia  "  molto  difficile  da  rappresentarsi  per  la  minutissima 
spezzatura  del  dialogo,  e  pel  gran  movimento  e  calore  dei  per- 
sonaggi „  '3.  Nemmeno  credo  che  fuori  delle  lagune  si  recitas- 
sero e  si  gustassero  facilmente  le  Baruffe  le  quali  sembrano 
seguire  la  varia  fortuna  del  Goldoni  sul  palcoscenico  italiano  ^4. 
Intorno  al  1830  la  fama  del  nostro  commediografo  si  ridesta  in 
tutta  Itaha,  per  opera  principalmente  della  Compagnia  Ducale 
di  Modena,  diretta  da  Romagnoli  e  Bon;  ma  qualcuno,  o  fosse 
nipote  di  don  Marzio,  o  di  sior  Tòdero,  borbottava,  come  per 
esempio  il  compilatore  del  giornale  milanese  intitolato  /  Teatri. 
Applaudiva  per  contro  un  altro  giornale  di  Milano,  il  Barbiere 
di  Siviglia:  "  Le  Baruffe  Chiozzotte  non  si  potevano  far  meglio. 
Bravissimi  tutti.  Il  pubblico  ne  ha  riso  di  cuore,  anco  quel  pub- 
blico che  teme  di  avvilirsi  ad  applaudire  alle  produzioni  goldo- 


l88  LE    "    BARUFFE    CHIOZZOTTE    „ 

niane,  perchè  le  piglia  per  insulsaggini,  e  le  chiama  cose  appena 
degne  del  teatro  della  Stadera,  insomma  appena  degne  della 
popolaglia,  come  direbbe  Carlo  Botta.  E  a  noi,  poveri  ciechi  ! 
sembrano  degne  soltanto  delle  persone  colte  e  di  spirito  „. 
Siamo,  si  badi,  nel  1834! 

Del  resto  se  le  rappresentazioni  non  furono  più  numerose 
e  se  anche  oggi  questa  commedia  non  risale  sul  palcoscenico 
così  spesso  come  la  Locandieray  come  i  Rusteghi,  come  molte 
opere  minori  del  Goldoni,  bisogna  pensare  alla  difficoltà  del 
dialetto  qui  certo  più  grave,  e  a  quella  gravissima  dell'  azione 
stessa.  Se  non  è  perfetto  l'  accordo  fra  gli  attori  e  se  l' imita- 
zione dei  costumi  popolari  non  conserva  il  tono  conveniente, 
le  Baruffe  Chiozzottc  non  si  possono  né  godere,  né  apprezzare. 
Pur  troppo  questo  capolavoro  ebbe  sempre  a  soffrire  dei  ter- 
ribili guai  da  parte  degli  interpreti.  Scriveva  sdegnato  Alamanno 
Morelli  nel  1862:  "  ...  Onde  ne  avverrà  ciò  che  più  volte  ne  fu 
dato  di  vedere,  cioè  di  trasformare  il  più  stupendo  Fiammingo 
in  una  mal  imbrattata  insegna  di  osteria,  e  portare  le  Baruffe 
Chiozzotte  a  tanta  viltà  di  rappresentazione  da  non  conoscervi 
più  neppure  la  mano  dell'  autore,  variandone  e  aggiungendo 
brani  interi  del  dialogo  „  ^5. 

E  ora  percorriamo  un  poco  il  capolavoro  goldoniano.  Fin 
dalla  prima  scena  l'autore  mette  insieme,  raccolte  in  una  calma 
apparente,  le  cinque  donne  della  commedia,  la  moglie  cioè  e  la 
sorella  di  parpn  Toni,  la  moglie  e  le  due  cognate  di  paron 
Fortunato,  che  devono  poi  separarsi  con  gran  sussurro,  quasi 
in  due  schiere  nemiche,  fino  alle  ultime  scene.  Parla  prima 
Lucietta,  il  personaggio  qui  più  evidente,  che  più  tardi  chiude 
pure  la  commedia;  e  comincia  con  quelle  parole  che  tutti  cono- 
sciamo: "  Creature,  cossa  diseu  de  sto  tempo?  „,  le  quali  ci  fanno 
subito  pensare  alla  tartana  di  paron  Toni  che  sta  per  entrare 
in  porto;  al  misterioso  e  muto  protagonista  che  deve  provocare 
col  suo  arrivo  la  gran  tempesta  del  dramma  chioggiotto.  E  già 
dalla  prima  scena,  dove  subito  si  delineano  i  caratteri  delle 
donne,  sappiamo  dell'  amore  di  Lucietta  e  di  Titta  Nane,  e  della 
gran  voglia  che  ha  la  Checca  di  maritarsi.  Ma  giunge  Toffolo 
Marinottiìia  a  turbare  quella  quiete,  e  scoppiano  per  un  pezzo 
di  zucca  le  gelosie  e  i  dispetti  fra  Lucietta,  la  più  ardita  e  vi- 
vace delle  compagne,  e  Checca.  Udiamo  presto  correre  le  ingiurie 
fra  le  due  famiglie,  ma  le  cinque  donne  si  rappacificano  a  un 
tratto  all'arrivo   della  tartana   con   gli    uomini.   Mirabile  è  tutto 


E    UNA    SCENA    d' AMORE  189 

questo  preludio  per  vivacità,  verità  e  colore:  il  Goldoni  maneg- 
gia da  molti  anni  questi  caratteri  femminili  e  queste  scene,  ma 
ora  la  sicurezza  dell*  artista  è  perfetta. 

Tutto  ciò  che  sta  per  succedere  sul  palcoscenico  è  ormai 
chiaro  e  logico  come  nella  vita.  Nella  scena  quinta  ammiriamo 
la  grossa  barca  di  paron  Toni  e  sentiamo  V  odore  del  pesce  che 
si  scarica.  Scopriamoci  davanti  a  Carlo  Goldoni.  Cielo  e  mare 
sorridono  all'  audacia  del  nostro  commediografo.  Abbiamo  un 
bel  pensare  al  naturalismo  dei  nostri  scrittori  di  novelle,  abbiamo 
un  bel  rievocare  i  canti  carnascialeschi  e  berneschi,  abbiamo  un 
bel  citare  i  drammi  rusticali,  la  Fiera  del  Buonarroti  o  i  libretti 
dell'opera  buffa  napoletana  :  questo  spettacolo  è  nuovo  nell'arte 
e  nelle  lettere  nostre,  è  lieto,  è  moderno:  è  la  vita.  Ben  possono 
ora  venire  il  Parini  e  il  Manzoni,  e  il  romanticismo  e  il  realismo, 
e  tutto  quel  che  si  vuole.  -  Nelle  scene  seguenti  le  donne  che 
avevano  promesso  di  non  parlare,  prima  quelle  di  paron  Toni, 
poi  quelle  di  paron  Fortunato,  sfogano  il  rancore  mal  represso, 
svegliando  la  gelosia  e  l' ira  nel  petto  degli  uomini.  Invano  i 
più  vecchi  portano  una  parola  di  calma:  Beppo  non  vuol  più 
saperne  di  Orsetta  e  Titta  Nane  vuol  lassare  Lucietta:  ma  Tof- 
folo  Marmottina  la  pagherà  per  tutti.  Queste  varie  scene,  armo- 
nicamente legate  con  1'  abilità  propria  del  Goldoni,  si  muovono 
con  vivacità  straordinaria  profondendo  tesori  di  dialogo  e  rive- 
lando nuovi  caratteri  :  bellissimo  quello  onesto  e  impetuoso  di 
Titta  Nane  e  felice  la  macchietta  di  paron  Fortunato,  qualora 
non  sia  esagerata  nell'  interpretazione.  Ormai  la  grande  baruffa 
è  preparata:  a  scatenarla  viene  sulla  scena  Toffolo.  Il  grande 
commediografo  lo  introduce  inconscio  affatto  della  tempesta 
imminente,  anzi  pentito  d'  essersi  seduto  accanto  a  Lucietta  {La 
xe  novizza,  co  eia  no  me  n  ho  da  impazzare)  e  solo  desideroso 
di  vedere  la  Checca  e  di  chiederla  in  isposa.  Ma  esce  Beppo  e 
vuol  scacciarlo.  L'  uno  ha  il  coltello,  l'  altro  tira  dei  sassi.  Escono 
Toni,  Pasqua,  Lucietta  e  gli  altri;  tutto  il  palcoscenico  si  riempie 
di  uomini,  di  donne,  di  schiamazzi,  di  urli,  finché  dopo  molto 
gridare  e  spingere  i  baruffanti  rientrano  nelle  case,  la  strada 
torna  quieta  e  silenziosa,  e  Toffolo  parte  ultimo  con  la  minaccia 
della  querela:  "  Sangue  de  diana!  che  li  vói  querelare  „.  -  Questo 
primo  atto  dal  dialogo  rotto  e  pittoresco,  dalle  figure  di  una 
verità  sorprendente  e  commovente,  è  una  meraviglia  di  dramma 
popolare  e  basterebbe  da  solo  alla  gloria  d'  un  autore. 

Col  secondo   atto    entriamo    nella   Cancelleria  Criminale  di 


igo  LE    "    BARUFFE    CHIOZZOTTE    „ 

Chioggia,  e  il  pensiero  corre  involontariamente  a  Carlo  Goldoni. 
Dobbiamo  qualche  volta  farci  forza  per  non  illuderci  di  rivedere 
sotto  le  spoglie  di  Isidoro  (V  umile  deus  ex  machina  del  vecchio 
teatro)  il  giovane  aggiunto  del  coadiutore  Stefano  Porta,  presso 
il  cancelliere  Egidio  Zabottini.  La  prima  scena,  cioè  la  deposi- 
zione di  Toffolo,  abbonda  di  umorismo,  e  anche  le  altre  scene 
del  processo,  cioè  1'  esame  dei  testimoni,  fanno  ridere,  ma  non 
è  più  questa  la  grande  arte  goldoniana,  la  grande  commedia 
italiana.  Questo  atto,  troppo  lungo  e  qua  e  là  prolisso,  reste- 
rebbe molto  al  di  sotto  del  precedente,  se  fra  una  udienza  e 
r  altra  presso  la  cancelleria,  non  tornasse  ad  apparire  e  a  rin- 
francarci r  anima  la  strada  aperta  di  Chioggia,  con  le  sue  casu- 
pole, con  le  sue  donne,  con  le  sue  reti,  con  le  seggiole  di  paglia 
e  gli  scagnetti,  con  qualche  lontano  profilo  d'  albero  o  di  vela. 
Nelle  scene  dalla  seconda  alla  sesta  culmina  il  dramma  d'amore 
e  di  gelosia  di  Lucietta  e  di  Titta  Nane;  e  sono  forse  queste 
le  più  originali  e  le  più  belle  del  Goldoni  e  di  tutto  il  teatro 
italiano.  -  Ma  qui  ci  tocca  fare  una  lunga  digressione. 

Chi  parla  d'amore  nel  Settecento?  Dopo  che  Racine  ebbe 
scritto  la  Fedra  (1677),  frammento  di  capolavoro  greco,  più  di  dieci 
anni  restò  il  poeta  in  contemplazione  dell'  opera  sua,  quasi  tre- 
mando di  quella  febbre  fatale  che  riarse  le  membra  alla  figlia 
di  Minosse:  poi  cantò  l'amore  sacro.  Il  grido  di  Fedra  fu  l'ul- 
timo della  grande  stagione  d'  amore  in  Francia,  che  seguì  dopo 
la  morte  di  Richelieu  e  di  Luigi  XIII:  gli  eroi  della  Fronda 
sparivano  a  uno  a  uno  nella  tomba,  coi  folli  ricordi  della  gio- 
vinezza! anche  la  dolce  Luisa  la  Vallière  piangeva  il  suo  sogno 
neir  ombra  di  un  chiostro,  dove  la  signora  La  Fayette  trasse  a 
morire  nel  romanzo  la  Principessa  di  Clèves.  Le  pietose  note 
delle  pastorali  italiane,  le  visioni  e  le  passioni  della  Spagna 
riflesse  nella  comedia^  la  virtù  tragica  dei  personaggi  di  Cor- 
neille,  le  avventure  de'  romanzi  galanti  tacevano  per  sempre: 
tutta  la  Francia  e  la  letteratura  parvero  lentissimamente  e  glo- 
riosamente invecchiare  insieme  col  Re.  Ma  appena  fu  spento 
Luigi  XIV,  un  franco  respiro  di  giovinezza  risollevò  la  nazione, 
e  il  Settecento,  mal  compresso,  irruppe  senza  freno.  Ben  poteva 
r  amore,  sotto  la  Reggenza  di  Filippo  d'  Orléans,  riconquistare 
anche  nell'  arte  il  perduto  dominio  :  poteva  ormai  Pietro  di 
Marivaux  portare  dai  circoli  della  signora  di  Lambert  sulle  scene 
del  Teatro  Italiano  di  Parigi  i  tenui  segreti  del  cuore.  Per  ven- 
t*  anni  questo  singolarissimo  artista  costruì  con  pazienza  il  suo 


E    UNA    SCENA    D    AMORE  I9I 

giardino  favoloso,  dove  il  minuetto  si  svolge  all'  infinito,  nei 
viali  freschi  d'  ombre,  intorno  alle  aiuole,  presso  le  fonti,  con 
inchini  e  gesti  e  sguardi  e  sussurri  e  piccoli  baci  e  schiette  risa: 
di  padroni  e  di  servi,  di  principi  e  di  marchese,  di  maschere  e 
di  contadini.  Passano  le  care  immagini  di  Silvia  e  di  Angelica, 
di  Araminta  e  di  Ortensia  sul  verde  paesaggio,  e  le  argute 
Lisette:  tornano,  si  fermano  un  poco  a  raccontarci  la  sorpresa 
e  il  gioco  dell'  amorej  e  poi  dileguano  ancora,  come  in  un  sogno  : 
ma  neir  occhio  dura  l' incanto  e  1'  orecchio  è  pieno  di  voci  fem- 
minili. Poiché  la  donna  qui  regna,  come  vuole  il  Settecento,  e 
la  commedia  dimentica  il  classico  riso  di  Molière  e  di  Regnard: 
un  po'  di  affetto,  un  po'  di  dramma  si  insinua.  Il  sospiro  amo- 
roso esce  troppo  forte  qualche  volta:  Silvia  si  confonde  e  sta 
per  piangere  davanti  a  Lisetta;  e  il  grido  represso  di  Lelio  e 
di  Ortensia  va  più  in  là  della  comedia  di  Lope,  sta  per  toccare 
altri  confini.  Qualcuno  ha  nominato  Racirìe. 

Ma  questo  non  bastava  alle  nuove  generazioni,  in  un  tempo 
in  cui  tra  l'  apparente  leggerezza  e  la  corruzione  risvegliavasi 
sempre  più  acuta  la  sensibilità:  quando  i  grandi  occhi  di  Adriana 
Lecouvreur  e  di  Aischa  la  Turca  si  accendevano  di  fuoco,  e  le 
labbra  osavano  mormorare  le  divine  parole  d'Eloisa:  quando 
in  Francia,  in  Inghilterra,  in  Italia  si  rileggevano,  si  traducevano, 
si  imitavano  con  insolita  avidità  le  antiche  Lettere  della  pallida 
alunna  d'  Abelardo,  alle  quali  tenean  dietro  le  Lettere  portoghesi 
di  Marianna  Alcoforado;  e  il  romanzo  e  la  poesia  crescevano 
ogni  anno  intorno  alle  due  lontane  sorelle^  ricongiunte  dalla 
infelicità  dell'  amore  quasi  in  un  solo  dramma  nella  fantasia  del 
Settecento.  E  la  passione  si  abbattè  sugli  eroi  di  Prévost,  tra- 
volgendoli disperatamente  nelle  più  romanzesche  avventure, 
dalla  pia  cella  del  convento  alla  infamia  del  carcere  e  degli 
ospedali,  dalla  tenda  militare  alla  caverna  solitaria,  di  paese  in 
paese,  di  riva  in  riva,  da  un  continente  all'  altro,  col  cuore  troppo 
malato  :  fin  che,  trasfigurati  dalla  voluttà  amara  della  debolezza 
e  del  pianto,  uomini  e  donne,  in  tragico  corteo,  sembrano  muo- 
vere, sotto  un  cielo  tutto  sanguigno,  incontro  alla  morte. 

L' Italia  non  ebbe  nel  secolo  decimosettimo  La  Rochefou- 
cauld  e  La  Bruyère  :  gli  insulsi  scrittori  di  romanzi  continuavano 
a  rifare  sempre  più  vilmente  le  oziose  disquisizioni  intorno  alla 
natura  dell'  amor  platonico.  Ma  un  poco  per  volta,  nella  lenta 
agonia  della  Spagna,  più  gentili  e  più  liberi  costumi  vennero 
d'oltralpi;  e  il  cuore  dolorosamente  chiuso  degli  Italiani  abban- 


192  LE         BARUFFE    CHIOZZOTTE    „ 

donò  a  mano  a  mano  la  gelosia  e  lo  spirito  di  vendetta,  con 
sorpresa  de'  viaggiatori  stranieri,  per  accogliere  altri  affetti  da 
lungo  tempo  ignorati:  alfine  anche  la  donna  ruppe  la  schiavitù 
domestica.  Quale  commozione  per  la  vecchia  penisola  allor  che, 
nel  principio  del  Settecento,  le  nostre  donne  riapparvero  sui 
balconi  delle  case,  riempirono  le  strade  e  le  piazze,  si  mesco- 
larono non  solo  nelle  chiese  e  nei  monasteri,  ma  nei  teatri,  nelle 
accademie,  nei  caffè,  in  tutte  le  sale  di  conversazione  e  di  gioco, 
ad  ogni  ora,  di  giorno  e  di  notte,  aggiungendo  tanta  festa  alla 
visione  delle  città  nostre,  tanta  vita  ai  marmi  antichi,  all'  arte, 
alla  letteratura!  Si  udì  allora  nelle  canzonette  d'Arcadia,  nel- 
r  opera  bìiffa^  nei  melodrammi  sorridere  e  gemere  qualche  motto 
d'amore;  e  Pietro  Metastasio  infuse  nei  dolci  versi  la  passione 
idillica  del  Tasso.  Ricordate  ? 

Io  dico  all'  antro,  addio  : 
Ma  quello  al  pianto  mio 
Sento  che,  mormorando. 
Addio  risponde. 
Sospiro,  e  i  miei  sospiri 
Pe'  replicati  giri 
Zeffiro  rende  a  me 
Da  quelle  fronde. 

Ricordate  ? 

Non  so  frenare  il  pianto. 

Cara,  nel  dirti  addio: 

Ma  questo  pianto  mio 

Tutto  non  è  dolor. 
E  meraviglia,  è  amore, 

È  pentimento,  è  speme, 

Son  mille  affetti  insieme 

Tutti  raccolti  al  cor. 

Da  per  tutto  in  Italia  è  il  Settecento,  ma  il  suo  regno  è  a 
Venezia.  Venezia  fu  più  gloriosa  nel  Quattrocento,  più  grande 
nel  Cinquecento:  tuttavia  raccolse  nel  secolo  decimottavo  le 
manifestazioni  più  estreme  della  vita  italiana  e  dei  tempi,  meglio 
che  non  avesse  fatto  nelle  maggiori  età.  Bisogna  rappresentarsi 
la  mirabile  visione  del  Settecento  veneziano,  1'  ultima  creazione 
di  Venezia,  per  capire  1'  arte  di  Giambattista  Tiepolo  e  il  teatro 
di  Carlo  Goldoni.  Anche  nella  esistenza  e  nelle  commedie  di 
Goldoni  le  donne  occupano  lunga  parte.  Quando  Mirandolina  si 


E   UNA    SCENA    D   AMORE  I93 

affacciò  ridendo  all'  anima  del  poeta  veneziano,  già  per  lui  era 
declinato  il  nono  lustro  e  da  cinque  anni,  con  dura  e  gioconda 
fatica,  attendeva  all'  opera  che  dovea  dar  gloria  all'  Italia.  Co- 
rallhia  Marliani,  1'  ardita  servetta  veneziana,  scacciava  di  scena 
la  soave  Rosanra  Medebac.  -  Quale  strano  capolavoro  la  Lo- 
caìidiera\  Né  lingua,  né  immagini,  né  letteratura.  L'autore  stesso 
ne  sapeva  di  lettere  poco  più  di  Mirandolina,  la  quale  non  ha 
mai  aperto  un  libro.  Solo  chi  ama  l'  arte,  la  vita,  il  teatro,  tace 
e  ammira  stupito.  Mirandolina  in  fatti  non  é  la  creatura  d'  un 
sogno,  che  passa  e  rapisce  il  nostro  sospiro:  é  la  donna  viva 
del  Settecento,  la  donna  veneziana,  la  donna  di  tutti  i  tempi,  di 
tutti  i  .paesi,  trasportata  all'  aria  e  al  sole.  Il  sangue  le  colora 
il  volto  di  eterna  giovinezza:  noi  sentiamo  lo  scoppio  delle  sue 
risa  intorno  a  noi  :  le  sue  mani  vive  si  concedono  alle  nostre, 
i  suoi  capelli  ci  sfiorano,  noi  possiamo  baciarle  il  lembo  del- 
l' orecchio  mentre  si  china  per  canzonarci.  Perché  sappiamo 
bene  di  non  poter  mai  conquistare  la  sua  anima:  solo  un  mo- 
mento e  per  sorpresa  abbracceremo  quel  corpo  palpitante;  e 
con  un  guizzo  Mirandolina  fuggirà  via.  "  Quanti  arrivano  a 
questa  locanda  „  essa  dice  "  tutti  di  me  s' innamorano,  tutti  mi 
fanno  i  cascamorti  „.  Ma  guai  chi   non   la  cura  e  la  disprezza! 

"  È  una  cosa  che  mi  muove  la  bile  terribilmente...  Tutto 
il  mio  piacere  consiste  in  vedermi  servita,  vagheggiata,  adorata. 
Questa  é  la  mia  debolezza,  e  questa  é  la  debolezza  di  quasi 
tutte  le  donne...  Tratto  con  tutti:  ma  non  m'innamoro  mai  di 
nessuno.  Voglio  burlarmi  di  tante  caricature  d' amanti  spasi- 
mati ;  e  voglio  usar  tutta  V  arte  per  vincere,  abbattere  e  con- 
quassare quei  cuori  barbari  e  duri  che  son  nemici  di  noi,  che 
siamo  la  miglior  cosa  che  abbia  prodotto  al  mondo  la  bella 
madre  Natura  „. 

Chi  vuol  ribellarsi  a  costei?  Peggior  sorte  non  poteva  capi- 
tare al  cavaliere  di  Ripafratta,  l'ingenuo  nemico  delle  femmine: 
Mirandolina  ha  tanta  voglia  di  provare  le  sue  forze,  di  godere 
una  vendetta  e  un  trionfo  !  Egli  avverte  il  pericolo,  quasi  subito, 
e  lo  confessa:  pensa  di  fuggire,  ma  la  sua  caduta  é  tanto  più 
terribile.  Carlo  Goldoni  non  mostrò  mai  coi  deboli  nessuna  pietà  ! 
E  dopo  che  la  fanciulla  ha  sconvolto  il  cuore  e  la  mente  del 
Cavaliere,  lo  abbandona  allo  scherno  degli  amici  senz'  altro  rim- 
pianto: "  L'ora  del  divertimento  é  passata  „. 

Ricordate  la  Sorpresa  dell'amore  di  Marivaux?  ricordate  i 
Giuramenti  indiscreti!  Anche  Lelio  odia  le  donne,  e  la  Contessa 

G.  Ortolani.  '3 


194  LE    "    BARUFFE    CHIOZZOTTE    „ 

gli  uomini.  Tuttavia  quale  distanza  fra  la  finzione  e  la  realtà, 
fra  r  idillio  e  il  teatro,  fra  il  minuetto  e  la  vita,  fra  Marivaux 
e  Goldoni!  Mirandolina  ha  scherzato  troppo,  ed  è  appena  in 
tempo  di  salvarsi  dalla  passione  che  irrompe  con  ira  nell'animo 
del  Cavaliere:  per  fortuna  il  dramma  si  allontana  e  dilegua;  e 
la  bella  locandiera^  rimasta  sola  e  vittoriosa,  ci  guarda,  dopo 
due  secoli,  in  atto  di  sfida,  con  gli  occhi  pieni  di  insidie.  I  per- 
sonaggi invece  dell'  autore  francese,  traendo  con  sé  la  noia  e 
r  artificio  de'  salotti,  ripetono  a  pochi  di  noi  V  analisi  monotona 
del  cuore  umano,  timidi  e  confusi  nel  loro  esilio,  dal  dì  che 
Silvia  Balletti,  la  più  fine  artista  del  Settecento,  disparve  lasciando 
vuoto  il   Teatro  de gV  Italiani. 

Un'  altra  volta  per  poco  il  dramma  d'  amore  non  turbò  più 
seriamente  la  commedia  del  Veneziano:  nelle  Baruffe  Chiozzotte. 
Io  cerco  qualche  cosa  nella  storia  del  teatro  che  somigli  alle 
Baruffe  Chiozzotte  e  non  trovo  mai.  Carlo  Goldoni  esplorò  a 
fondo,  nelle  radici  più  minute,  il  segreto  delle  anime  semplici, 
e  lo  portò  vivo  sopra  le  scene,  con  una  potenza  di  verità  che 
fa  quasi  male  L'  umile  idiUio  di  Titta  Nane  e  di  Lucietta,  di- 
sturbato e  interrotto,  agita  e  commuove,  dopo  i  due  cuori  inna- 
morati, l'intero  paese:  come  l' invisibile  onda  che  d'improvviso 
cresce  e  s'allarga  smisuratamente;  e  l'intero  paese,  il  popolo 
delle  lagune,  invade  schiamazzando  il  palcoscenico.  Sia  gloria 
a  Goldoni  !  La  tartana  di  paron  Toni  ci  porta  il  salso  odor 
dell'Adriatico,  del  mare  che  si  chiamava  golfo  di  Venezia^  e 
Trieste  quasi  non  e'  era.  Un'  apparizione  nuova  e  vigorosa,  un 
rude  dialetto  di  pescatori,  entrano  nell'  arte  e  nella  letteratura 
d' Italia  per  un  miracolo  che  mal  sappiamo  comprendere.  E 
come  la  strada  torna  vuota,  cessando  1'  eco  assordante  del  cla- 
more e  il  riflesso  della  pittoresca  visione,  viene  Lucietta  con  la 
sua  sedia,  il  suo  scagno  e  il  cuscino  dei  merletti,  in  compagnia 
di  Pasqua,  la  buona  cognata;  e,  poco  dopo,  Titta  Nane,  incol- 
lerito e  geloso.  La  scena  terza,  ripeto,  del  secondo  atto  è  una 
delle  più  belle  scene  d'  amore  di  tutti  i  teatri,  né  teme  alcun 
famoso  paragone. 


Titta  Nane.  (La  vorla  licenziare;  ma  no  so  come  fare).      {da  sé 

Pasqua.  (Vàrdelo  un  poco).  [a  Lucietta 

Lncietta.  (Eh!  che  ho   da  vardare  el   mio  merlo   mi,  ho  da  var- 

dare).  {a  Pasqua 


E    UNA    SCENA    d'  AMORE  I95 

Pasqua.  (Ghe  pesterave  la  testa  su  quel  baioni).  {da  sé 

Titta  Nane.  (No  la  me  varda  gnanca.  No  la  me  gh'  ha  gnatica  in 
niente).  [da  sé 

Pasqua.  Sioria,  Titta  Nane. 

Titta  Nane.  Sioria. 

Pasqua.  (Salùdilo).  [a  Lucietta 

Lucietta.  (Figurève,  se  voggio  esser  la  prima  mi!).        {a  Pasqua 

Titta  Nane.  Gran  premura  de  laorare! 

Pasqua.  Cossa  disèu?  Sémio  donne  de  garbo,  fio? 

Titta  Nane,  Sì  sì,  co  se  puoi,  se  fa  ben  a  spessegare,  perchè  co 
vien  dei  zoveni  a  sentarse  arente,  no  se  puoi  laorare. 


E  quando  egli  finalmente  la  licenzia,  e  Lucietta  va  in  silenzio 
a  prendere  i  regali  di  Titta  Nane,  le  "  scarpe  „,  le  "  cordelle  „, 
la  "  zendalina  „  e  li  getta  in  mezzo  alla  strada,  il  cuore  del 
giovane  innamorato  sussulta: 


Titta  Nane.  Mi,  co  fazzo  V  amore,  no  voggio  che  nissun  possa 
dire.  E  la  voggio  cussi,  la  voggio.  Mare  le  diana!  A  Titta  Nane  mis- 
sun  ghe  1'  ha  fatta  tegnire.  Nissun  ghe  la  farà  portare. 

Lucietta.  Vare  là,  che  spuzzetta!  (5/  asciuga  gli  occhi 

Titta  Nane.  Mi  so  omo,  saveu  ?  so  omo.  E  no  son  un  puttelo,  saveu  ? 

Lucietta.  {Piange,  mostrando  di  non  voler  piangere. 

Pasqua.  Cossa  gh'  astu  ?  {a  Lucietta 

Lucietta.  Gnente.  {piangendo  dà  una  spinta  a  donna  Pasqua 

Pasqua.  Ti  pianzi? 

Lucietta.  Da  rabbia,  da  rabbia,  che  lo  scannerave  colle  mie  man. 

Titta  Nane,  Via,  digo  !  Cossa  xe  sto  fiffare  ?  {accostandosi  a  Lucietta 

Lucietta.  Ande  in  malora. 

Titta  Nane.  Sentìu,  siora?  [a  donna  Pasqua 

Pasqua.  Mo  no  gh' ala  rason?  Se  sé  pezo  d'un  can. 

Titta  Nane.  Voleu  ziogare  che  me  vago  a  trar  in  canale?... 

Questa  non  è  più  commedia:  sono  brani  di  cuore  umano, 
è  sangue  del  popolo  :  grida,  piuttosto  che  dialogo,  che  si  riper- 
cuotono di  terra  in  terra,  dove  sono  uomini  e  amano,  da  tanti 
secoli.  -  Il  dramma  popolare  riprende  nel  terzo  atto  in  mezzo 
la  via,  dove  prima  Beppo  e  poi   Titta   Nane   escono  di   nuovo, 


196  LE    "    BARUFFE    CHIOZZOTTE    „ 

vincendo  la  paura  degli  zaffi^  per  sfogare  le  loro  gelosie,  per 
continuare  i  loro  amori;  e  tra  le  donne,  ancora  protagoniste 
Lucietta  e  Checca,  scoppiano  nuove  insolenze,  e  ancora  il  pal- 
coscenico si  riempie  di  popolo.  Una  intera  moltitudine  appas- 
sionata diventa  ancora  V  unico  attore.  Di  che  non  vi  ha  esempio 
in  tutto  il  teatro  francese  e  italiano,  anzi  in  tutta  1'  arte  italiana, 
prima  del  Goldoni,  se  non  in  certe  meravigliose  tele  del  Quattro 
e  del  Cinquecento,  che  sono  quadri  e  poemi  e  drammi  ad  un 
tempo.  Voler  ricordare  a  tal  proposito  Li  despiette  amoruse, 
commedeja  pe  musica  da  rappresentarse  a  lo  Triato  Nuovo  chi- 
sf  anno  ij^i)  ricordare  le  solenni  bastonature  finali  e  generali 
del  teatro  dell*  arte,  sembrami  profanazione.  I  precedenti,  sì,  ci 
sono  in  parte,  ma  nelP  opera  stessa  del  Goldoni,  nei  Pettegolezzi, 
nel  Campiello,  dovunque  V  autore  trasporta  i  suoi  personaggi 
all'  aria  aperta. 

Finalmente  nella  stanza  privata  di  Isidoro  ("  el  siò  cogitore  „) 
avviene  la  pace  fra  gli  uomini.  La  tartana  di  paron  Toni,  il 
misterioso  protagonista  della  commedia,  sembra  che  ascolti  e 
sorrida  dal  suo  seno  tranquillo.  Pur  troppo  l'  azione  allungasi 
troppo  e  languisce  a  quando  a  quando,  ma  non  mancano  spunti 
vivacissimi  di  caratteri  e  di  dialogo.  Capita  sul  più  bello  Beppo 
ad  annunciare  la  nuova  baruffa  femminile,  e  tutti  partono  di 
corsa  per  le  proprie  case.  La  commedia  si  svolge  di  nuovo  e 
ha  fine  sulla  strada,  dov'  ebbe  principio.  Sporgono  dalle  finestre 
sbraitando .  Lucietta  e  Orsetta,  e  volano  le  ingiurie.  L' arrivo 
degli  uomini  accenderebbe  una  contesa  più  calda  e  più  perico- 
losa, se  Isidoro  con  la  sua  presenza  e  col  suo  consiglio  non 
contenesse  quella  folla  baruffante.  A  riunire  le  due  famiglie  di 
paron  Toni  e  di  paron  Fortunato,  a  ridare  per  qualche  tempo 
la  calma  al  paese,  occorrono  dei  buoni  matrimoni,  quali  si 
annunciano  all'aprirsi  della  commedia:  la  Checca,  non  potendo 
acquistare  il  cuore  di  Titta  Nane,  si  accontenterà  di  sposare 
l'innamorato  Toffolo;  Beppo  farà  pace  e  nozze  con  Orsetta; 
Lucietta,  anche  la  fiera  Lucietta,  la  più  bella  figura  femminile 
del  teatro  goldoniano  dopo  Mirandolina,  cederà  piangendo,  e 
avrà  da  Titta  Nane  il  perdono  e  la  mano.  Il  piccolo  mondo  si 
rasserena,  come  il  suo  cielo  e  il  suo  mare  :  tutto  quanto  il  paese 
partecipa  in  fine  alla  pace  dei  due  innamorati. 

Lucietta.  Per  causa  mia  no  veggio  che  toga  de  mezzo  nissun. 
Se  son  mi  la  cattiva,  sarò  mi  la  desfortunà.  Noi  me  vuol  Titta  Nane? 


K    UNA    SCENA    D    AR\ORK  I97 

Pazenzia.  Cossa  gh' oggio  fatto?  Se  ho  ditto  qualcossa,  el  m'ha  ditto 

de  pezo  élo.  Ma  mi  ghe  voggìo   ben,  e  gh'  ho  perdona,  e  se  élo  no 

me  vuol  perdonare,  xe  segno  eh'  el  no  me  vuol  ben.  {piange 

Pasqua.  Luciettà?  {con  passione 

Orsetto.  Oe,  la  pianze.  (a  Titta  Nane 

Libera.  La  pianze.  {a  Titta  Nane 

Checca.  La  me  fa  peccao.  {a  Titta  Nane 

Titta  Nane.  (Maledìo!  Se  no  me  vergognasse!).  [da  sé 

Libera.  Mo   via,   pussibile    che  gh' abbiè   sto   cuor?   Poverazza! 

Vardè  se  no  la  farave  muover  i  sassi.  (a  Titta  Nane 

Titta  Nane.  Cossa  gh'  astu  ?  {a  Luciettà,  rusticamente 

Luciettà.  Gnente.  [piangende 

Titta  Nane.  Via,  animo.  {a  Luciettà 

Luciettà.  Cossa  vustu? 

Titta  Nane.  Coss'  è  sto  fìff are  ? 

Luciettà.  Can,  sassin.  [a  Titta  Nane,  con  passione 

Titta  Nane.  Tasi.  {con  imperio 

Luciettà.  Ti  me  vuol  lassare? 
Titta  Nane.  Me  farastu  più  desperare? 
Luciettà.  No. 

Titta  Nane.  Me  vorastu  ben? 
Luciettà.  Sì. 

Titta   Nane.   Paron   Toni,    donna   Pasqua,    lustrissimo,    co    bona 

licenzia.  Dame  la  man.  {a  Luciettà 

Luciettà.  Tiò.  {gli  dà  la  mano 

Titta  Nane.  Ti  xe  mia  muggiere.  [sempre  ruvido 

Queste  ultime  scene,  se  si  tolga  qualche  ripetizione,  qualche 
lungaggine,  sono  di  una  freschezza,  di  una  vivacità,  inarrivabili  : 
scene  commosse  e  mirabilmente  umane.  Così  Carlo  Goldoni  ha 
creato  il  grande  capolavoro  comico  popolare,  di  cui  né  fra  gli 
antichi  ne  fra  i  moderni  si  trovano  non  dirò  rivali,  ma  nemmeno 
esempi  degni.  Lo  creò  senza  sforzo,  senza  mai  rettorica,  con 
genio  giocondo  e  quasi  inconsapevole.  Lo  creò,  come  doveva, 
in  dialetto,  in  quel  glorioso  dialetto  che  fu  quasi  una  lingua  per 
molti  secoli,  parlato  dal  Po  alle  Alpi  di  Germania  e  su  tutta  la 
sponda  orientale  dell'  Adriatico,  in  quel  dialetto  che  oggi  stesso 
a  Venezia  nessuna  persona   colta   vuole   abbandonare  negli  usi 


igS  LE    "    BARUFFE    CHIOZZOTTE    „ 

della  vita  privata.  Ed  esaltò,  senza  parere,  le  passioni  e  le  virtù 
del  popolo,  di  un  popolo  primitivo,  e  quindi  un  po'  rissoso,  ma 
veramente  onesto.  Chioggia  può  ben  vantarsi  delle  Baruffe 
chioggiotte.  Un  popolo  capace  di  queste  passioni  (scrissi  altra 
volta),  così  rozze,  così  ingenue,  così  sincere,  è  un  popolo 
buono.  E  Carlo  Goldoni,  1'  ex  aggiunto  coadiutore,  si  permette 
di  ridere  un  poco,  ma  conosce  bene  la  virtù  dei  Chioggiotti  e 
immortalmente  la  celebra.  Questi,  che  così  amano,  sono  gli 
uomini  del  mare,  i  più  arditi  pescatori  dell'Adriatico,  per  cui 
crebbe  gloria  alle  navi  veneziane  :  e  così  amarono  da  secoli,  e 
così  ameranno  fin  che  la  tartana  di  paron  Toni  dagli  scogli 
dell'  Istria  e  della  Dalmazia  torni  felicemente  alle  sue  lagune,  e 
viva  l'aspro  dialetto  cadenzato  che  allietò  un  dì  l'arte  di  Goldoni. 


AGGIUNTE  E  NOTE 


e' 


I  Vincenzo  Maria  Coronelli,  Atlante  Veneto,  Parte  I,  Venezia,  1696, 
pp.  62-66.  -  Vedi  pure  Lo  Stato  presente  di  tutti  i  Paesi  e  Popoli  del 
Mondo  ecc.  con  nuove  osservazioni  e  correzioni  ecc.,  voi.  XX,  Parte  I, 
Venezia,  Albrizzi,  1753,  pp.  6062.  Questo  volume  sul  dominio  vene- 
ziano, che  uscì  nella  metà  del  Settecento  e  fa  parte  della  nota  opera 
tradotta  liberamente  da  quella  del  Salmon,  fu  compilato  da  più  autori, 
come  affermano  le  Novelle  della  Repubblica  Letteraria  dell'  anno  1759, 
a  p.  121  ;  ma  qui  1'  anonimo  saccheggia  il  Coronelli,  senza  chiedergli 
veruna  licenza.  Si  legge  poi,  continuando.-"  ...  Mezzo  miglio  lontano 
ha  il  lido  ripieno  d'  orti,  e  a  tramontana  ha  le  Saline  guernite  di 
sodo  fondamento  di  mattoni.  Tra  il  lido  e  la  terraferma  sono  molte 
valli  formate  con  tal  arte,  che  postovi  il  pesce  o  entratoci  colle 
piene  delle  acque  del  mare,  non  ne  può  più  uscire,  perchè  racchiuso 
da  certi  graticcj  di  canne  industriosamente  tessuti,  onde  nel  verno 
si  trae  indi  a  talento,  e  ne  rimane  abbondantemente  provveduta  la 
città  co'  luoghi  vicini.  Questo  pesce  è  d'  ottima  qualità;  e  le  ostriche 
in  particolare  sono  saporitissime.  La  Cattedrale  è  grande  e  maestosa, 
e  il  suo  bel  campanile  isolato  e  coperto  di  piombo  è  degno  di  me- 
moria. Il  Palagio  del  Podestà  è  di  antica  fabbrica,  ma  riguardevole 
e  adorno  di  belle  pitture.  Sparse  per  la  città  ci  sono  altre  Chiese  e 
alquanti  Monisteri  „. 

Maggiori  notizie  si  possono  trovare  nel  tomo  XXII  della  Nuova 
Geografia  di  Ant.  Federico  Busching  tradotta  dall'  ab.  Gaudioso  Jage- 
mann,  con  aggiunte  e  correzioni,  Venezia,  Zatta,  1777,  pp-  196-201, 
da  cui  copiò  bellamente  Vincenzo  Formaleoni  nella  sua  Topografia 
Veneta,  ovv.  Descrizione  dello  Stato  Veneto,  Venezia,  Bassaglia,  1786, 
t.  Ili,  pp.  279-288.  La  città  di  Chioggia  contava  circa  20  mila  abitanti,  e 
r  intero  distretto  circa  30  mila.  "  Vi  si  trovano  4  Conventi  di  Re- 
golari, due  de'  quali  nelle  ultime  regolazioni  furono  dal  Governo 
soppressi  ;  un  Conservatorio  di  fanciulle,  un  Ospedale  per  gì'  infermi 
e  pellegrini;  e  4  Luoghi  pii,  con  un  Monte  di  pietà.  Tutta  la  Città  è 
divisa  in  4  Parrocchie...  È  di  forma  ovale  ed  assomiglia  nella  sua 
costruzione  ad  una  spina  di  pesce.  La  sua  lunghezza  si  stende  a  480 


202  LE    "    BARUFFE    CHIOZZOTTE    „ 

passi,  e  la  sua  larghezza  a  200,  girando  in  circuito  circa  due  miglia 
Italiane  „.  Era  sparito  il  vecchio  ponte  di  legno,  ricordato  dal  Gol- 
doni. "  Questa  Città  sarebbe  perfettamente  isolata,  se  non  fosse  con- 
giunta al  lido  di  Brondolo  per  mezzo  di  un  ponte  di  pietra  di  43 
archi  assai  stretto,  ma  lungo  250  passi.  Viene  divisa  in  due  parti  da 
un  largo  e  navigabile  canale,  detto  della  Vena,  sopra  cui  si  trovano 
,  9  ponti  ;  e  tra  questi  il  primo,  all'  ingresso  della  Città  verso  Venezia, 
è  di  un  arco  solo  tutto  di  marmo  „  :  p.  197.  "  Gli  abitanti  si  esercitano 
principalmente  nel  traffico,  nella  navigazione,  nella  pesca,  nella  cac- 
cia, e  nella  coltivazione  delle  vigne.  Le  donne  anch'  esse  s'  occupano 
utilmente  nel  lavoro  di  merli  „.  Il  lido  di  Sottomarina  "  forma  quasi 
un  sobborgo  di  Chioggia  con  circa  2000  abitanti  „  :  p.  201.  Esisteva 
a  Chioggia  una  dogana  di  transita,  facendovi  capo  tutte  le  mercanzie 
che  dalla  Germania  e  dalle  Fiandre  (per  la  via  di  Verona),  e  dalla 
Lombardia  scendevano  per  le  acque  dell'  Adige  e  del  Po  :  p.  198. 
Ricordo  poi  che  molti  viaggiatori,  come  Grosley,  come  Lalande,  come 
lo  stesso  Goethe,  non  volendo  due  volte  visitare  Padova,  compivano 
r  intero  percorso  da  Ferrara  a  Venezia,  o  viceversa,  per  via  di  acqua, 
di  canale  in  canale,  dormendo  due  notti  nel  hnrchiello\  anyA  il  napo- 
litano Gemelli  Careri  prese  addirittura  la  barca  a  Bologna:  ma  nes- 
suno ci  lasciò  diffuse  descrizioni  di  Chioggia.  Lo  stesso  Goldoni,  tre 
mesi  appena  dopo  la  recita  delle  Baruffe,  nell'  abbandonare  per  V  ul- 
tima volta  la  patria  che  non  doveva  più  rivedere,  scelse  la  via  delle 
belle  lagune  a  mezzodì  e  risalutò  nel  passaggio  la  città  della  sua 
adolescenza  i  cui  ricordi  vivissimi  alla  mente  andava  pure  rievo- 
cando nelle  prefazioni  della  prediletta  edizione  delle  sue  Commedie, 
curata  dal  Pasquali  (vedi  il  capitolo  in  versi  al  N.  U.  Nicolò  Balbi, 
rievocato  da  C.  Musatti  in  Ateneo  Veneto,  1908,  fase.  3). 

2  Lo  stato  presente  ecc.,  1.  e,  p.  62. 

3  Le  parole  virgolate  sono  tolte  dal  libro  di  P.  Molmenti  e  D.  Man- 
tovani, Le  Isole  della  Laguna  Veneta,  Venezia,  1895,  p.  100. 

4  Continuo  a  togliere  dal  libro  citato  le  descrizioni  più  pitto- 
resche: pp.  94-95  e,  più  sotto,  pp.  96-97.  Di  altri  scrittori  moderni 
non  voglio  far  menzione  (o  appena  di  Luigi  Carrer  nella  nota 
opera:  Venezia  e  le  sue  lagune,  voi.  Il,  parte  2^,  Venezia,  1847),  né 
dei  più  recenti  (vedi  solo  V.  Bellemo,  //  territorio  di  Chioggia,  Chiog- 
gia, 1893). 

5  Opere  complete  di  C.  Goldoni  edite  dal  Municipio  di  Venezia, 
voi.  I,  Venezia,  1907,  p.  46. 

6  Più  d'  una  favola  ci  raccontò,  come  soleva.  Urbani  de  Gheltof 
nel  suo  C  Goldoni  a  Chioggia,  in  Ateneo  Veneto,  die.  1883.  È  noto 
che  Rosalba  nacque  a  Venezia  di  padre  chioggiotto. 

7  Opere  complete  di  C.  Goldoni,  ed.  cit.,  voi.  XX  (1915),  p.  11. 

8  Opere  del  Co.  Carlo  Gozzi,  Venezia,  Colombani,  1772,  tomo  I, 
pp.  80  e  124. 


E    UNA    SC^NA    D    AMORE  203 

9  E.  Maddalena,  Bricciche  goldoniane  -  Le  Baruffe  ChiozzottCy 
Alessandria,  1894. 

»o  Numero  86,  in  data  27  ott.  1790. 

II  Tolgo  la  citazione  tradotta  dal  fase.  945,  primo  maggio  191 1, 
della  Nuova  Antologia.  Nel  carnovale  del  '59  il  teatro  Malibran  fu 
occupato  da  una  compagnia  acrobatica;  ma  sul  teatro  Camploy  la 
Veneta  Compagnia  Drammatica  diretta  da  G.  Duse  recitò  nelle  sere 
del  7  e  dell' 8  marzo,  e  forse  anche  prima,  le  Baruffe  Chiozzottc. 
come  gentilmente  mi  comunicò  1'  amico  Ricciotti  Bratti.  Era  Giorgio 
Duse  figlio  del  popolarissimo  attore  e  capocomico  Luigi  Duse  da 
Chioggia,  morto  nel  '54,  e  fu  zio  della  grande  Eleonora. 

13  Opere  cit.,  tomo  I,  p.  56. 

13  D.  Gavi,  Della  vita  di  C.  Goldoni  e  delle  sue  commedie,  Milano, 
1826,  pp.  158-159- 

14  Vedi,  per  queste  recite  e  per  altre  notizie,  la  Nota  storica  in 
fine  della  commedia,  nel  voi.  XX  della  cit.  ed.  delle  Opere  goldo- 
niane: dalla  quale  tolgo  per  gran  parte  queste  mie  pagine. 

15  Note  sull'arte  drammatica  rappresentativa,  Milano,  1862,  p.  128.  - 
Il  coro  degli  ammiratori  delle  Banffe  andò  crescendo  nella  seconda 
metà  del  secolo  scorso,  soprattutto  intorno  al  1880,  quando  incominciò 
il  fervore  degli  studi  goldoniani  e  1'  arte  pareva  rifiorire  gioconda- 
mente sulle  lagune.  Nomino  fra  tutti  Giacinto  Gallina,  il  Molmenti, 
il  Galanti,  il  Masi,  il  Maddalena.  In  un  articolo  ispirato  dalla  Scelta 
di  commedie  goldoniane  del  Masi,  Enrico  Panzacchi  proclamava  con 
entusiasmo:  "  I  Rusteghi,  la  Casa  nova,  le  Baruffe  chiozzotte  sono 
veri  capolavori,  nei  quali  F  arte  goldoniana,  tolta  di  mezzo  la  infe- 
riorità della  forma,  va  tranquillamente  a  sedersi  in  faccia  all'  arte 
del  grande  Molière;  e  nella  specializzata  verità  dei  caratteri  e  nel 
brio  multiforme  dei  dialoghi,  sto  anch'  io  con  coloro  che  vedono  che 
lo  sorpassi  „  {Un  ritorno  a  Goldoni,  in  Tribuna,  26  sett.  1897).  Inna- 
morata della  Baruffe  mostrasi  Violetta  Paget  {Vernon  Lee),  una  gen- 
tile scrittrice  inglese  che  descrisse  con  poetica  immaginazione  il 
Settecento  in  Italia,.  Ella  rievoca  le  scene  della  commedia  e  poi  si 
domanda:  "  È  realtà  questa?...  Abbiam  visto  arrivar  la  barca  e  sca- 
ricare il  pesce?...  E  la  tempesta  di  grida,  di  strilli,  e  lo  strepito  e  il 
pestar  dei  piedi?  Fummo  davvero  testimoni  di  questi  incidenti  della 
vita  peschereccia  sull'Adriatico?  No;  non  abbiam  fatto  che  aprire 
un  vecchio  volume  dove  dice:  Le  Banffe  Chiozzotte  „  (dalla  cattiva 
traduzione  italiana,  Milano,  1822,  voi.  II,  p.  277).  Altre  due  donne  di 
eletto  ingegno  e  di  fine  senso  critico  voglio  ricordare,  Giacinta  To- 
selli  e  Maria  Ortiz.  Vedi  per  tutti  quanti  la  Nota  storica  citata.  Fuori 
d' Italia  non  si  conoscevano  traduzioni  delle  Baruffe,  ch^  erano  po- 
chissimo note.  Nel  suo  grosso  volume  dedicato  al  Goldoni  il  Rabany 
si  dimenticò  di  parlarne  nel  testo  e  peggio  fece  nell'  appendice, 
appaiando    l' autore    delle   Banffe   Chiozzotte  e  M.  Jules  Moineaux  ! 


204  LE    "    BARUFFE    CHIOZZOTTE    „ 

Solo  nel  novembre  del  1911  H.  C.  Chatfield- Taylor,  pubblicando  nella 
rivista  The  Drama  di  Chicago  uno  studio  sul  naturalismo  veneziano 
del  Goldoni,  il  quale  fa  parte  del  volume  recente  sul  commediografo 
veneziano  [Goldoni.  A  Biography,  New  York,  1913),  volgeva  in  inglese 
la  famosa  scena  di  Lucietta  e  di  Titta  Nane  nel  secondo  atto.  "  Di 
tutte  le  commedie  del  Goldoni  „  giudica  lo  scrittore  americano  "  nes- 
suna è  così  vibrante  di  vita  come  le  Baruffe  chioggiotte...  È  questa 
in  fatti  un'  opera  di  teatro  quale  forse  non  fu  mai  scritta  al  mondo 
per  il  passato  „.  Per  la  prima  volta  fuori  d' Italia  si  affermava  la 
grandezza  del  capolavoro  del  Goldoni,  come  dice  pure  Chatfìeld-Taylor, 
della  prima  commedia  "  in  cui  con  fedeltà  e  con  affetto  si  rispec- 
chia il  popolo  minore  „  ;  e  questa  voce  venne  d'  oltre  oceano.  Poco 
tempo  dopo,  nell'  agosto  del  191 4,  la  medesima  rivista  (  The  Drama, 
n.  15)  stampava  una  completa  versione  inglese  per  opera  di  Carlo 
Lemmi,  a  cui  precedono  alcune  pagine  del  traduttore  su  Papà  Gol- 
doni e  le  sue  commedie  veneziane.  Benché  non  mi  sia  lecito  recare 
giudizi,  sembrami  felice  destino  che  dopo  quasi  due  secoli  le  rudi 
passioni  dei  pescatori  chioggiotti  osino  provarsi  nel  linguaggio  dei 
marinai  che  popolano  i  porti  smisurati  di  Londra  e  di  Nuova  York. 


INTORNO  ALLE  "  LETTERE  DIVERSE 
DI  GASPARO   GOZZI 


"  La  sera  del  dì  ii  decembre  1750  „  il  capocomico  Giro- 
lamo Medebac,  che  interpretava  la  parte  del  conte  Ottavio  nel 
Cavaliere  di  buon  gusto  di  Carlo  Goldoni,  seduto  presso  un 
tavolino,  con  un  libro  aperto  davanti,  sul  palcoscenico  del  teatro 
di  Sant'Angelo,  all'alzarsi  della  tela  pronunciava  queste  parole: 
"  Convien  poi  dire  che  in  questo  secolo  piucchè  mai  fioriscono 
gì'  ingegni  peregrini  in  Italia.  Questo  libro  è  sì  bene  scritto, 
eh'  io  lo  reputo  testo  di  lingua,  e  in  oggi  certamente  pochi  Ita- 
liani scrivono  in  questo  stile.  Questo  sogno  è  un  capo  d' opera, 
e  il  dialogo  fra  il  calamaio  e  la  lucerna  è  una  cosa  molto  gra- 
ziosa „.  Tre  anni  dopo,  stampando  la  commedia,  il  dottor  vene- 
ziano spiegava  più  chiaramente  ai  lettori  che  quello  indicato 
era  "  il  libro  primo  delle  Lettere  del  Conte  Gasparo  Gozzi, 
opera  veramente  degna  di  un  Cavaliere  di  buon  gusto  „.  Così 
la  prima  bella  lode  a  chi  di  proposito  iniziava  la  restaurazione 
del  culto  della  lingua  a  Venezia  e  inaugurava  la  prosa  moderna 
italiana,  fu  data  in  pubblico  teatro  dal  grande  riformatore  della 
commedia;  e  ci  commuove  l'onesta  ammirazione  del  Goldoni, 
scrittore  dialettale,  per  il  Gozzi,  scrittore  italiano. 

Era  a  mezzo  il  secolo  decimottavo.  Le  Lettere  diverse  usci- 
rono nel  mese  di  ottobre  dai  torchi  di  Giambattista  Pasquali, 
in  eleganti  caratteri,  con  una  dedica  dell'  autore  a  S.  E.  il  Ca- 
valiere e  Procuratore  Marco  Foscarini.  Gasparo  Gozzi  non  con- 
tava ancora  37  anni  di  età.  La  sua  fama,  all'  infuori  di  un 
crocchio  di  amici  e  di  letterati,  era  scarsa  a  Venezia  stessa, 
inferiore  assai  a  quella  di  Luisa  Bergalli  (1703-1779),  sua  moglie, 
più  vecchia  di  lui  di  dieci  anni  :  la  pastorella  Irminda  Partenide, 
divenuta  nel  '38  contessa  Gozzi.  Convien  ricordare  come  sulla 
fine  del  seicento  Apostolo  Zeno,  fondatore  dell'Accademia  degli 
Animosi  (1691),  aggregatasi  dopo  sette  anni  quale  colonia  aWAr- 


2o8  INTORNO  ALLE  "  LETTERE  DIVERSE  „ 

cadia,  lamentasse  V  abbandono  doloroso  dei  buoni  studi  nella 
sua  Venezia.  "  Nelle  private  e  nelle  pubbliche  librerie  „  i  libri 
migliori  erano  "  il  pasto  delle  tignuole  „  :  più  non  si  leggevano 
"  comunemente  che  certi  libricciuoli  francesi,  trattenimento  de' 
sfaccendati,  o  certe  meditazioni  spirituali,  delizie  degl'ipocriti, 
o  certi  aridi  rancidumi  di  leggende  e  di  storie,  che  non  meri- 
tavan  l' onore  di  esser  guardate  „.  Dieci  anni  dopo  ripeteva 
ancora  con  rimpianto:  "  E  passato  il  felice  tempo  in  cui  le 
lettere  avevano  il  domicilio  a  Venezia  „  ^.  Ma  bastarono  l'esempio 
e  gli  sforzi  suoi,  e  quelli  del  Maifei  a  Verona,  del  Volpi  a  Pa- 
dova, del  Fontanini  a  Udine,  per  richiamare  i  giovani  all'amore 
dello  studio  e  al  culto  degli  antichi  scrittori.  Nel  1710  l'ingegno 
e  r  opera  dei  migliori  nella  Serenissirha  si  raccolsero  intorno 
al  Giornale  de  Letterati.  A  Venezia  e  a  Padova,  fra  il  1720  e 
il  1760,  uscirono  dai  torchi  di  Comino,  dell' Albrizzi,  del  Pa- 
squali, del  Pasinelli,  dello  Hertzhauser,  del  Monti,  del  Savioli, 
dell'  Orlandini,  dello  Zatta  le  bellissime  e  notissime  edizioni  dei 
nostri  quattro  poeti  e  dei  maggiori  scrittori  del  Cinquecento, 
insigni  alcune  per  superbe  incisioni,  accuratissime  tutte  e  ricche 
di  commenti  e  di  note. 

Venezia  pareva  rivivere.  Nel  '31  da  Vienna  vi  fece  ritorno 
per  sempre  lo  Zeno,  nel  '26  era  tornato  da  Parigi  e  da  Londra 
il  Conti,  e  se  nel  '33  partiva  l'Algarotti,  vi  rientrava  nell'au- 
tunno del  '34  Carlo  Goldoni.  11  futuro  commediografo  arrivò  a 
"  un'  ora  di  notte  „  e  volle  subito  "  fare  una  corsa  per  la  città. 
Volli  rivedere  „  raccontava  più  tardi,  "  il  mio  Ponte  di  Rialto^ 
la  mia  Merceria,  la  mia  Piazza  San  Marco,  la  mia  Riva  degli 
Schiavoni.  Che  bel  piacere  in  tempo  di  notte  trovare  le  strade 
illuminate,  e  le  botteghe  aperte,  e  un'  abbondanza  di  viveri 
dappertutto,  sino  e  dopo  la  mezza  notte,  come  trovasi  in  altre 
città  la  mattina  al  mercato!  „.  E  dappertutto  "  che  allegria,  che 
vivacità  „,  che  esultanza  di  canti  **  per  terra  e  per  acqua!  „  ^. 
Nello  stuolo  dei  giovani  più  devoti  allo  Zeno  si  distinguevano, 
per  r  ardore  della  dottrina  e  per  la  religione  verso  gli  antichi 
autori,  r  abate  Antonio  Sforza  e  i  due  fratelli  Niccolò  e  Anton 
Federigo  Seghezzi:  furono  questi  gli  amici  più  cari  di  Gasparo 
Gozzi,  allora  ventenne,  che  a  lui  dischiusero,  perchè  maggiori 
d' età,  il  tesoro  della  nostra  lingua  e  delle  nostre  lettere.  La 
morte  li  rapì  troppo  presto  alla  patria  3;  ma  quando  nel  '43 
il  Gozzi  perdette  anche  l'  ultimo,  il  più  caro  di  tutti,  il  più  intimo, 
il  suo  "  dolcissimo  compare  „,  Venezia    poteva    ormai    vantare 


DI    GASPARO    GOZZI  209 

nel  conte  Gasparo  un  nuovo  squisito  scrittore,  il  primo  scrittore 
moderno  della  nostra  Italia. 

Per  fortuna  V  epistolario  del  Gozzi  ci  conserva  il  ricordo 
di  quel  periodo,  triste  e  monotono,  che  i  due  recenti  sposi  pas- 
sarono in  campagna  a  Vicinale,  presso  Pordenone,  tra  il  '40  e 
il  '42,  un  po'  per  la  malattia  del  conte  Giacomo  paralitico,  un 
po'  per  ragioni  di  economia.  Gasparo  leggeva  commedie  del 
cinquecento,  traduceva  Plauto  e  Molière,  e,  come  per  consolarsi, 
inandava  all'  amico  Seghezzi  rime  più  o  meno  giocose,  qualche 
volta  troppo  libere,  che  in  parte  si  leggono  stampate,  in  parte 
si  trovano  inedite  in  un  codice  della  Marciana.  Era  finita  la 
stagione  dell'  amore  e  dei  sonetti  petrarcheschi.  E  la  povera 
Luisa  s'  affannava  anch'  essa,  tra  un  parto  prematuro  e  uno  labo- 
rioso, a  trasportare  interminabili  volumi  dal  francese  per  qual- 
che stampatore.  Intanto  il  giovine  Carlo  partiva  per  la  Dalmazia 
col  generale  Quirini  Stampalia,  in  cerca  di  fortuna.  E  Gasparo 
si  lagnava  del  freddo  e  del  fango,  e  sospirava  :  "  Se  voi  vedeste 
la  malinconia  che  fa  questo  tempo,  questa  terra  coperta  d'acqua, 
di  neve  e  di  ghiaccio  „.  "  Non  fo  altro  che  scrivere,  questo  è 
quanto  bene  trovo  in  questa  solitudine  amara  più  che  assenzo  „. 

Fatto  ritorno  a  Venezia,  morto  il  Seghezzi,  morto  nel  '45 
il  conte  Giacomo,  cresciuto  il  numero  dei  figli,  cresciute  le  dif- 
ficoltà economiche,  separatisi  dalla  famiglia,  con  dolore  della 
madre  Angela  Tiepolo,  i  fratelli  Francesco,  Carlo  (reduce  da 
poco)  e  Almorò,  i  due  coniugi  si  lasciarono  attirare  dal  mirag- 
gio del  teatro,  che  sempre  li  aveva  sedotti,  e  infelicemente  ten- 
tarono sul  palcoscenico  del  Sant'Angelo,  per  mezzo  di  tragedie 
e  commedie  tradotte  per  la  massima  parte  dal  francese,  quella 
riforma  che  subito  dopo,  nel  glorioso  autunno  del  '48,  riuscì 
con  mezzi  ben  diversi  e  con  altra  sorte  a  Girolamo  Medebac 
e  a  Carlo  Goldoni  4.  Pur  troppo  il  vano  sforzo,  come  suole 
accadere,  fu  poi  deriso  dai  posteri,  e  la  colpa  ricadde  ingiusta- 
mente sulla  Bergalli,  ma  il  conte  Carlo  nel  1761,  ribattendo  le 
vanterie  dell'  abate  Chiari,  contrapponeva  in  certo  suo  libello  5 
quella  specie  di  tentativo  classico  alla  riforma  goldoniana;  e 
il  Goldoni  nel  1750,  rifacendo  nella  prefazione  al  primo  tomo 
delle  sue  Commedie  a  stampa  la  storia  delle  precedenti  imprese 
teatrali,  ricordava  insieme  con  le  tragedie  del  Maffei  e  del  Conti 
"  V  Elettra  ed  altre  molte,  o  interamente  composte,  o  eccellen- 
temente dal  francese  trasportate,  dal  peritissimo  signor  Conte 
Gozzi  „. 

G.  Ortolani.  i4 


2 IO  INTORNO  ALLE  "  LETTERE  DIVERSE  „ 

Fallitagli  quella  speranza  tanto  vagheggiata  dagli  uomini 
di  lettere  nel  Settecento,  a  cui  tornò  ancora  di  tempo  in  tempo 
con  ostinazione,  fin  che  s' impadronì  poi  delle  scene  il  fratello 
Carlo  (1761),  si  rivolse  il  conte  Gasparo  per  altra  via,  dove 
potesse  far  valere  presso  il  pubblico  il  proprio  ingegno.  Insieme 
coi  romanzi  che  nel  suolo  italiano  parevano  da  qualche  decen- 
nio isteriliti,  dopo  la  misera  colluvie  del  secolo  precedente,  ma 
che  in  gran  copia  continuavano  a  piovere  dalle  Alpi,  godevano 
il  favore  dei  lettori,  e  specialmente  delle  lettrici,  i  libri  di  let- 
tere di  materia  grave  o  piacevole,  di  cui  erano  "  piene  „,  per 
confessione  dell'abate  Chiari,  "  le  librerie  e  le  botteghe  „.  "  Per- 
chè credete  „  chiedevasi  l'abate  "  che  tal  sorta  di  libri  oggidì 
sieno  tanto  alla  moda,  che  ogni  uomo  di  talento  ed  ogni  donna 
di  spirito  passa  volentieri  con  essi  alla  mano  1'  ore  più  oziose 
del  giorno,  e  nelle  tarde  ore  notturne  va  conciliandosi  il  sonno? 
Io  vel  dirò  in  due  parole:  perchè  sì  gli  uni,  che  gli  altri,  al 
par  di  me  sono  amanti  dell'  ozio,  e  della  fatica  nemici  „.  E  più 
a  lungo  spiegava:  "  Chi  scrive  in  lettere  di  molte  cose  fra  lor 
disparate,  non  ha  bisogno  di  lambiccarsi  il  cervello  per  accoz- 
zarle insieme,  ed  una  dopo  l' altra  dicevolmente  ordinarle  :  ogni 
erudizione  più  dozzinale  è  bastevole;  ogni  stil  più  trascurato  è 
il  migliore...  Riguardo  poi  a  chi  legge,  assai  comodo  riesce  mai 
sempre  un  libro  di  tal  sorta,  che  erudito  essendo  superficial- 
mente istruisce,  e  non  stanca;  vario  essendo  ogni  seconda  pa- 
gina ed  interrotto,  ricrea  e  non  attedia,  di  modo  che  senza 
un'  applicazione  che  pregiudichi  alla  salute  indifferentemente  lo 
legge  alla  toletta  la  Dama,  il  Mercatante  al  negozio,  la  Monaca 
nel  giardino,  e  il  Cavaliere  al  passeggio  „  ^.  E  il  Chiari  sug- 
geriva fra  le  raccolte  più  in  voga  le  vecchie  lettere  di  Abelardo 
e  di  Eloisa  che  si  ristampavano  insieme  con  quelle  della  mo- 
naca portoghese  (Marianna  Alcoforado),  le  lettere  del  cardinale 
d'  Ossat  e  quelle  di  Volture,  le  lettere  scientifiche  del  Magalotti, 
le  Lettere  Inglesi  di  Voltaire  e  le  Lettere  Ebraiche  e  le  Caba- 
listiche del  volterriano  marchese  D'Argens.  Avrebbe  potuto  ag- 
giungere le  Lettere  Persiane  del  Montesquieu. 

Non  si  trattava  di  una  malattia  improvvisa,  di  cui  ci  faces- 
sero dono  i  Francesi.  Già  nel  Seicento,  come  avverte  Francesco 
Salfi  nella  sua  storia  letteraria  in  continuazione  a  quella  del 
Ginguené,  di  tutti  i  generi  in  prosa  "  il  più  coltivato  „  in  Italia 
"  fu  il  genere  epistolare,  „  e  la  lettera  serviva  a  trattare  ogni 
più  svariato  argomento.  È  certo  tuttavia  che   nella  prima  metà 


DI    GASPARO    GOZZI  211 

del  secolo  deciinottavo  l' esempio  della  Francia  era  sempre 
davanti  agli  occhi  nostri.  Ora  le  Lettere  Ebraiche  uscirono  la 
prima  volta  nel  1736  e  ner*37,  le  Cabalistiche  nel  '38,  le  Cinesi, 
dello  stesso  autore,  nel  '39  e  nel  '40;  e  trovarono  imitatori  e 
raffazzonatori  in  tutta  Europa.  A  Venezia  le  storpiò,  in  un  vol- 
garizzamento a  uso  delle  anime  timorate,  il  signor  Ponziano 
Conti  e  pubblicò  fra  il  '41  e  il  '42  col  nome  di  Melibeo  Sam- 
pogtia  otto  insulsi  volumi  di  Lettere  curiose,  0  sia  corrispondenza 
isterica  e  critica,  filosofica  e  galante.  Finalmente  nel  1743  il 
Pasinelli  stampava  i  primi  due  tomi  delle  Lettere  critiche,  giocose, 
morali  ecc.  tradotte  da  vari  linguaggi  dal  Conte  Agostino  Sante 
Piipieniy  opera  originale  dell'avvocato  Giuseppe  Antonio  Costan- 
tini che  nel  '44  fece  seguire  altri  due  tomi  presso  il  Bassaglia, 
e  un  quinto  nel  '45  dedicato  a  Nicolò  Tron,  e  un  sesto  nel  '46, 
mentre  i  primi  si  ristampavano  e  andavano  a  ruba.  L'edizione 
del  1751  comprendeva  già  sette  tomi,  a  cui  se  ne  aggiunse  un 
ottavo  nel  1756,  con  dedica  a  Sebastiano  Venier,  fin  che  nelle 
successive  ristampe,  le  quali  seguitarono  per  tutto  il  secolo  de- 
cimottavo,  non  solamente  a  Venezia,  ma  a  Milano,  a  Lugano  e 
a  Napoli,  si  toccò  il  numero  di  dieci;  e  non  solo  si  diffusero 
fuori  d' Italia,  ma  si  tradussero  in  francese  e  in  spagnolo,  e 
perfino  in  turco. 

La  fortuna  del  libro,  più  che  nella  falsa  scienza  e  nella 
falsa  erudizione  di  cui  fa  pompa  1'  autore  qua  e  là,  e  di  cui  il 
Settecento  era  pur  vago,  si  deve  ricercare  nell'  audace  critica 
sociale  :  quella  critica  principalmente  dei  costumi  e  delle  mode 
che  in  veste  di  satira  infiltravasi  dappertutto,  che  il  Goldoni 
non  risparmiava  in  quei  primi  tempi  della  riforma  teatrale,  che 
lo  Sceriman,  amico  del  Gozzi,  profuse  nel  1749  in  un  romanzo, 
ossia  negli  immaginari  Viaggi  di  Enrico  Wanton.  Qualche  cosa 
aveva  potuto  imparare  il  Costantini  dal  marchese  D' Argens,  ma 
devoto  alla  religione  e  alle  istituzioni  della  Serenissima  non 
r  avrebbe  mai  dichiarato,  mentre  si  professava  ammiratore  e 
seguace  dell'  abate  di  Bellegarde,  del  quale  tradusse  le  Rifles- 
sioni critiche  sopra  li  costumi  ridicoli  introdotti  in  questo  secolo 
nella  civile  società  7.  Tuttavia  egU  non  si  accinge  a  scrivere  un 
prolisso  trattato  morale  sull'  affettazione,  sulla  vanagloria,  sul- 
r  impostura,  suU'  albagia,  sulla  stravaganza,  come  1'  abate  fran- 
cese, per  via  di  ritratti  sgorbiati  e  diluiti  sul  modello  immortale 
di  La  Bruyère  ;  bensì  sceglie  argomenti  più  vivi  e  più  vari,  per 
esempio,  nel  primo  tomo,  a  un  confessore  novello,  pregiudizi  de* 


212  INTORNO  ALLE  "  LETTERE  DIVERSE  „ 

paesi  piccioli,  contratti  di  matrimoni,  servitori  perseguitati,  musici 
e  cantatrici,  abuso  de'  titoli,  vera  nobiltà,  il  carnovale,  servitù 
alla  moda)  racconta  le  geste  d'un  insidiatore  delle  donne,  dice 
dei  figli  destinati  alla  religione,  si  rivolge  a  un  marito  geloso, 
espone  un  nuovo  sistema  sulV  anima  delle  bestie,  si  scaglia  con- 
tro gli  ateisti  e  i  deisti)  e  nel  secondo  tomo  deride  la  pedanteria 
de'  cruscanti,  narra  il  castigo  d'un  cavaliere  prepotente,  ascolta 
i  lamenti  d'  una  monaca  sacrificata  dal  proprio  genitore,  accusa 
l'avidità  d'  un  avvocato  inumano,  flagella  le  mode,  le  affettazioni, 
i  puntigli. 

Fosse  sincero  o  no  1'  autore,  fosse  dotto  o  ignorante,  scri- 
vesse corretto  oppure  offendesse  la  grammatica  e  il  vocabolario, 
questo  poco  c'importa,  ossia  poco  importava  ai  suoi  contempo- 
ranei. Egli  è  abile  e,  come  si  suol  dire,  moderno',  ci  trasporta 
proprio  nel  mezzo  del  Settecento,  a  Venezia,  e  con  un  fare 
vivace  e  coraggioso  tratta  le  questioni  che  più  accaloravano  la 
società  di  quel  tempo.  È  anche  un  rustego,  se  volete,  come  lo 
Sceriman,  ma  ai  patrizi  perduti  nell'  ozio  e  nel  gioco,  alle  donne 
sfacciate,  ai  preti  dimentichi  dei  loro  doveri,  ai  giudici  disonesti 
dice  delle  dure  verità;  e  odia  di  tutto  cuore  i  pregiudizi,  le 
armi  e  i  cicisbei.  Peccato  eh'  egli  non  fosse  né  pensatore,  né 
scrittore  buono:  egli  non  sfrondò  gli  allori  di  La  Bruyére,  né 
quelli  di  Addison  o  di  Montesquieu.  La  sua  semplicità  e  facilità 
é  sciatteria:  crede,  come  tanti  altri  al  suo  tempo,  che  basti 
guardarsi  dai  fronzoli  del  Seicento  e  odiare  la  pedanteria  de' 
cruscanti  per  raggiungere  la  verità  e  la  naturalezza,  e  non  s'ac- 
corge d' infilar  parole  goffamente  e  stucchevolmente,  senz'  arte 
e  senza  vita.  La  materia  gli  si  irrigidì  nelle  mani;  e  quando  la 
rivoluzione  che  covava  nel  Settecento  scoppiò  veramente,  e 
nuovi  problemi  agitarono  la  società,  le  Lettere  critiche  caddero 
ad  un  tratto  nell'  oblio  e  sui  pochi  volumi  del  Costantini  super- 
stiti ancora  alla  distruzione  del  tempo,  si   accumulò  la  polvere. 

Ma  fin  dal  1749  due  volumi  di  Lettere  scelte  di  varie  ma- 
terie, piacevoli,  critiche  ed  erudite  aveva  stampato  a  Venezia 
Pietro  Chiari,  nel  punto  di  cimentarsi  nella  commedia  sui  teatri 
veneziani  a  gara  col  Goldoni.  L'abate  bresciano,  presto  quaran- 
tenne e  ancora  oscuro,  ma  avidissimo  di  rinomanza,  fiutato  il 
buon  vento,  volle  saggiare  il  pubblico  veneziano  con  un  libro 
alla  moda,  e  senza  aver  nulla  da  dire,  col  pretesto  di  correg- 
gere e  confutare  il  Costantini,  schiccherò  di  insulse  chiacchiere 
qualche  centinaio  di  pagine  rovistando,  per  trovar  gli  argomenti, 


DI    GASPARO    GOZZI  213 

la  raccolta  dell'avvocato  veneziano,  che  più  tardi  lo  sferzò  ben 
bene  in  una  lettera  intitolata  la  scimia  col  fagotto.  Eppure  anche 
questa  misera  imitazione,  la  quale  non  ha  nemmeno  il  pregio 
d'  uno  stile  più  colto,  piacque  alle  gentili  lettrici,  forse  in  grazia 
di  certa  spavalderia;  sì  che  un  terzo  volume  fu  aggiunto  nel 
1754  alla  terza  o  quarta  ristampa. 

In  buon  punto  dunque  uscirono  le  Lettere  diverse  di  Gasparo 
Gozzi.  L'autore  diceva,  scherzando,  allo  stampatore:  "  Se  avete 
voglia  di  pubblicare  qualche  mio  lavoro,  non  posso  darvi  opera 
scritta  con  più  prestezza  che  le  mie  lettere  mandate  da  me  agli 
amici,  e  a'  nemici  ancora...  e  vi  so  dire  che  se  ad  alcuna  cosa 
ho  pensato  poco,  egli  è  stato  nello  scriver  lettere.  L'  opera  sarà 
anche  all'usanza  moderna,  perchè  oggidì  corrono  lettere,,.  E 
per  dare  maggior  apparenza  di  verità,  riportò  più  lettere  al 
Seghezzi  e  una  allo  Sforza,  morti  da  tempo.  Ma  quali  novità 
recava  il  nuovo  libro?  Nessuna  scienza  vi  trova  chi  lo  sfoglia, 
nessuna  erudizione.  Sarebbe  stato  facile  anche  a  me,  scrive  il 
Gozzi  ammiccando  verso  il  Costantini  e  verso  il  Chiari,  sac- 
cheggiare alquanti  autori  greci  e  latini.  "  Ma  ho  caro  che  quello 
che  scrìvo  sia  mio,  e  di  non  dover  tanto  restituire  a  questo  e 
a  quello,  che  nel  libro  non  rimanesse  altro  di  mio  che  la  carta 
bianca  „.  Egli  è  un  letterato  e  compone  un'  opera  letteraria, 
benché  sia  convinto,  come  tutti  all'  età  sua,  che  la  letteratura 
non  possa  andare  disgiunta  dalla  morale  e  l'arte  dall'insegna- 
mento. Tutto  il  libro  pertanto  è  pervaso  della  mite  e  onesta 
filosofia  dell'  autore  in  un  tempo  in  cui  il  filosofeggiare  è  di 
moda,  e  comune  agli  scrittori  l' ingenua  confessione  dell'animo. 
Anche  nel  Gozzi  ammiriamo  la  nuova  coscienza  dell'uomo  mo- 
derno, uno  dei  più  belli  acquisti  del  secolo  decimottavo  troppo 
calunniato:  quella  coscienza  che  riscalda  le  pagine  senili  del 
Muratori  e  freme  negli  sciolti  del  Parini,  che  ci  fa  amare  il 
Broggia  e  il  Genovesi  e  ci  rende  più  caro  il  Goldoni,  che  san- 
tifica la  vita  di  Egidio  Porcellini  e  l'  opera  di  Gaetano  Filangieri; 
quella  coscienza  che  doveva  rifare  l' Italia  e  disseminò  poi  di 
martiri  italiani  le  terre  d'  esilio,  le  prigioni  e  i  campi  di  battaglia. 

Ma  il  Gozzi  non  è  un  apostolo,  non  è  un  rinnovatore  della 
società,  non  è  nemmeno  uno  scrittore  satirico,  né  un  vero  osser- 
vatore) egli  si  accontenta  di  ritrarre  qualche  aspetto  del  suo 
piccolo  mondo  interiore,  e  del  piccolo  mondo  esterno  che  col- 
pisce i  suoi  occhi,  sorridendo  e  moralizzando;  e  sempre  mo- 
strasi  quello   che    fu    propriamente,    vale   a   dire    un   artista.  Il 


214  INTORNO  ALLE  "  LETTERE  DIVERSE  „ 

sentimento  della  natura,  divenuto  sempre  più  raro  presso  gli 
Italiani,  assume  nel  Gozzi  colorito  originale,  come  nel  famoso 
invito  in  campagna  al  Seghezzi,  che  il  Carducci  chiamò  "  una 
gemma  di  lettera  „,  stampato  qui  per  la  prima  volta.  Comincia 
così  :  "  Oh  come  sono  stanco  e  sazio,  che  ci  facciamo  all'  amore 
da  lontano  con  letteruzze  spasimate...  „.  E  dice  più  avanti;  "  È 
vero  che  la  strada  è  alquanto  fastidiosa,  perchè  a  voi  che  siete 
accostumato  alla  gloriosa  e  magnifica  Brenta,  dove  a  ogni  passo 
vedete  un  palagio,  parrà  facilmente  strano  il  vedere  ora  casacce 
diroccate,  ora  una  fila  d' alberi  lunga  lunga,  e  terra  e  terra  senza 
un  Cristiano;  ma  fra  '1  dormire  un  pochetto,  la  scuriada,  e  forse 
i  campanelli  al  collo  de'  cavalli  potete  passare  il  tempo.  Quando 
poi  sarete  giunto  qui,  dieci  o  dodici  rossignuoli  nascosti  in  una 
siepe  vi  faranno  la  prima  accoglienza,  che  mai  non  avrete  udito 
gole  più  soavi.  Io  sarò  all'uscio,  e  vi  correrò  incontro  a  braccia 
aperte  cantando  un  alleluja.  Sarete  subito  corteggiato  da  cap- 
poni, da  anitre,  da  pollastri  e  da  polli  d' India,  che  vi  faranno 
la  ruota  intorno  come  i  pavoni  „. 

Questa  naturalezza,  questa  vivacità,  questo  brio  sono  cosa 
tutta  nuova,  che  può  apprezzar  degnamente  solo  chi  sappia 
quale  fosse  da  quasi  due  secoli  la  prosa  narrativa  nell'  infeli- 
cissima Italia.  Anche  le  pagine  più  piacevoli  dei  migliori  scrit- 
tori di  Toscana  della  scuola  di  Galileo,  come  il  Redi,  il  Maga- 
lotti, il  Cocchi  e  pochi  altri,  sembrano  al  paragone  compassate 
e  fredde.  Poiché  qui  per  la  prima  volta  ci  accorgiamo  davvero 
che  è  ormai  sorta  oltre  le  Alpi  la  grande  letteratura  di  Luigi  XIV, 
non  solamente  il  teatro  di  Corneille  di  Racine  di  Molière  che 
eccitava  da  un  pezzo  la  nostra  immensa  invidia,  ma  bensì  la 
bella,  mirabile  prosa  moderna,  così  facile  e  limpida  e  spiritosa; 
e  siamo  costretti  a  pensare  all'  invasione  di  libri  francesi  nel 
Settecento  per  tutta  l'Europa.  A  Venezia  erano  nelle  mani  di 
tutte  le  signore,  di  tutti  gli  abatini  e  d' ogni  sfaccendato.  Di 
averne  una  buona  raccolta  confessava  anche  il  Gozzi,  e  quanti 
ne  leggesse,  e  quanti  ne  traducesse  in  compagnia  della  moglie, 
sappiamo  abbastanza. 

Il  conte  Gasparo  aveva  conosciuto  da  vicino  i  contadini 
e  sapeva  bene  che  cosa  fosse  la  vita  rustica:  la  sua  villeg- 
giatura non  era  quella  delle  gentildonne  veneziane  lungo  la 
nobilissima  Brenta;  il  suo  Vicinale  non  era  l'Arcadia.  Igno- 
ranti, ruvidi  e  ritrosi  ci  descrive  gli  abitanti  della  campagna. 
Tuttavia  li  ama;  e  tale  nuovo  sentimento  è  pure  un  indizio  del 


DI    GASPARO    GOZZI  21 5 

secolo  decimottavo  che  redime  alfine,  dopo  tanti  secoli  di  abie- 
zione, il  servo  della  gleba.  Vengono  alla  sagra  "  da  ogni  lato 
villani  scalzi,  o  quasi  scalzi...  Egli  è  ben  verOj  che  hanno  per 
quel  dì  i  migliori  panni  indosso,  e  pongono  il  principale  onore 
nelle  camice,  le  quali  sono  tanto  nuove,  che  hanno  ancora  tutte 
le  punte  della  stoppa  di  che  sono  tessute,  e  tirano  al  giallastro, 
e  sanno  di  bozzima,  acciocché  si  possa  dire,  che  sono  state 
spiccate  dal  telaio  allora  allora.  Voi  li  vedreste  tutti  accompa- 
gnati da  nuove  forme  di  donzelle;  alle  quali  essi  non  sosten- 
gono il  braccio,  come  usiamo  di  fare,  ma  le  lasciano  andare 
da  sé;  e  se  non  possono  camminare,  rimangono  indietro;  la  qual 
cosa  tuttavia  quasi  mai  non  accade,  perché  sono  tanto  gagliarde, 
e  bene  avvezze,  che  paiono  serpenti,  e  si  vede  che  in  questo 
Paese  si  fa  conto  tanto  delle  Donne  quanto  degli  Uomini,  e 
fanno  que'  medesimi  studi  ed  esercizi  anch'esse;  perciocché 
tutte  sono  colorite  dal  sole,  hanno  le  stesse  callosità  alle  mani, 
e  vanno  calzate  né  più,  né  meno,  come  ho  descritti  i  maschi  „. 

Ed  ecco  un  carattere  piacevole  dell'arte  di  Gasparo  Gozzi, 
r  umorismo,  che  si  trova  in  quasi  tutte  le  sue  prose  e  nei  ser- 
moni, che  ravviva  le  sue  migliori  pagine,  e  mette  una  nota  più 
dolce  nella  tristezza  dell'  epistolario.  Un  piccolo  capolavoro  é  il 
dialogo  del  calamaio  e  della  lucerna,  lodato  dal  Goldoni.  Il  ca- 
lamaio rivendica  a  sé  gran  parte  dell'opera  poetica  del  Gozzi: 
"  Tutti  miei  e  di  mia  ragione,  senza  che  il  suo  cervello  v'abbia 
punto  parte,  sono  i  Sonetti  e  le  Canzoni  eh'  egli  ha  fatti  coman- 
dato per  Monache,  per  Nozze,  o  per  Dottori  novelli;  che  se  non 
era  io  che  glieli  avessi  dettati,  egli  non  sapeva  dove  s'avesse  il 
capo  „.  Delle  prose  "  poche,  perché  né  egli  né  io  insino  a  qui  ce 
ne  siamo  dilettati  molto;  quand' io  non  volessi  far  valere  le  mie 
ragioni  sopra  alcune  lettere,  che  egli  a  suo  dispetto  scrisse, 
delle  faccende  di  casa  sua  a  qualche  Avvocato,  o  a  qualche 
Fattore,  delle  quali  per  verità  non  si  può  dire  ch'egli  v'abbia 
mai  dettato  una  riga:  ma  sempre  m'ha  lasciato  fare  a  modo 
mio,  perché  le  corrispondenze  con  altrui  circa  gl'interessi  suoi, 
le  ha  sempre  lasciate  al  calamaio.  Oltre  di  queste,  tu  ci  vedesti 
tempo  fa  a  tradurre  in  prosa  parecchie  delle  Commedie  di 
Plauto,  e  di  queste  n'  ha  volgarizzata  egli  una  parte,  e  una 
parte  é  mia  „. 

Povero  Gozzi  !  E  chissà  quante  versioni  dal  francese,  che 
i  giornali  del  tempo  gli  attribuivano,  avrà  lasciate  in  cura  al 
calamaio:  per  esempio,  quella  óeW Avventuriere  francese,  delle 


2l6  INTORNO  ALLE  "  LETTERE  DIVERSE  „ 

Dotine  militari  e  d*  altri  romanzi,  quella  della  Storia  generale 
dei  viaggi,  della  Storia  ecclesiastica,  delle  Istituzioni  politiche 
del  Bielfeld,  quella  di  non  so  quante  tragedie  e  commedie  e 
poemi.  Quando  può  scherzare  di  sé,  in  prosa  e  in  poesia,  il 
buon  Conte  veneziano  diventa  sempre  allegro  ;  e  sì  fatto  umore 
gli  durò  fino  agli  ultimi  giorni.  SulP  esempio  lontano  di  Teofrasto, 
è  recente  dei  Francesi  e  degli  Inglesi,  si  compiace  di  delineare 
ritratti  morali,  ma  più  d'  una  volta  si  diverte  a  fare  il  proprio, 
insistendo  su  certi  difetti  della  sua  natura.  Perfino  le  idee  ori- 
ginali, come  quella  di  raccontare  la  storia  de'  costumi  umani, 
sembrano  essergli  suggerite  dalla  voglia  di  celiare. 

Il  Gozzi  non  deride  la  crusca  e  i  cruscanti,  a  diff'erenza 
del  Costantini,  del  Chiari,  del  Goldoni,  del  Verri  e  di  infiniti 
altri;  anzi,  cosa  singolare,  fin  dalla  prima  lettera  si  preoccupa 
dell'arte  dello  scrivere  e  dello  stile.  "  Un  medesimo  pensiero 
espresso  da  mille  bocche  „  dice  il  Gozzi  ragionando  col  suo 
buon  senso,  "  lo  sentirete  espresso  in  mille  forme...  Chi  lo 
dice  bene,  chi  male,  chi  con  efficacia,  chi  freddo,  chi  fiorito,  chi 
secco...  Ma  fra  tante  maniere  vi  dee  pure  esser  l'ottima,  e  questa 
dee  procurarsi.  Quanto  dico  del  favellare,  intendo  altresì  dello 
scrivere,  eh'  è  favellare  pensato  „.  Poi  punge  argutamente  i 
contemporanei:  "  Uno  dice:  Si  scrive  come  si  parla  (e  se  sa- 
pesse parlare,  mi  contenterei);  un  altro  crede  che  quando  si 
piglia  la  penna  in  mano,  ogni  parola  debba  essere  una  mara- 
viglia: chi  fa  la  dettatura  mezzo  francese,  chi  mezzo  latina,  chi 
compone  un  certo  volgare  fra  il  Milanese  e  il  Cremasco  „. 

A  chi  alluda,  non  so:  che  le  sue  parole  colpiscono  tutti, 
anche  quegli  autori  d' ingegno  certamente  non  volgare,  come  il 
Muratori  e  lo  Zeno,  oppure  come  il  Goldoni  e  lo  stesso  Sce- 
riman,  o  come  più  tardi  il  Genovesi  e  il  Verri,  che  per  aver 
bandito  gli  ornamenti  rettorici  e  cercato  il  linguaggio  naturale, 
si  credevano  onestamente  rinnovatori  dell'arte  di  scrivere  e 
forse  imitatori  ed  emuli  de'  letterati  d'oltralpi.  Questa  cura  della 
lingua  e  dello  stile,  coltivata  nel  conte  Gasparo  dallo  Sforza  e 
dal  Seghezzi,  trasmessa  al  Baretti,  di  qualche  anno  più  giovane 
del  Gozzi,  e  poi  al  Parini,  è  la  più  grande  novità  che  ci  annun- 
zino le  Lettere  diverse.  Ricordiamo  a  questo  proposito  gli  studi 
sugli  autori  antichi  e  le  addizioni  al  vocabolario  della  Crusca 
del  padre  Bergantini,  morto  nel  '64;  ricordiamo  pure  che  nel 
1747  erasi  fondata  per  opera  di  Daniele  Farsetti  e  d'  altri  ra- 
gazzi r  Accademia  dei  Granelleschi,  per  rinnovéllare  a  Venezia 


DI    GASPARO    GOZZI  '2  I  7 

il  buon  gusto  della  lingua  e  delle  lettere,  auspice  il  Gozzi  e 
testimone  ancora  il  Baretti;  ma  solamente  nel  proprio  ingegno 
trovò  il  conte  Gasparo  il  segreto  dello  scrivere,  inspirandosi 
al  modello  dei  nostri  antichi  e  all'  esempio  dei  Francesi  ^.  Noi 
lo  vediamo  con  la  sua  lunga  e  ossuta  figura  in  un'  angusta  stan- 
zuccia  vicina  al  tetto,  seduto  a  un  tavolino  sgangherato,  con 
pochi  libri  in  disordine  su  qualche  seggiola  zoppa  o  sul  pavi- 
mento, assorto  nel  piccolo  mondo  della  sua  fantasia,  afferrare 
a  un  tratto  e  fermare  con  la  penna  d'  oca  sul  foglio  le  parole 
che  gli  fluiscono  a  mano  a  mano,  mentre  un  po'  di  cielo  sorride 
dal  finestrino.  Rispettiamo  l' umile  felicità  di  Gasparo  Gozzi  : 
egli  crea  all'  Italia  che  verrà  la  prosa  moderna.  Fu  quello  il 
suo  tesoro,  1'  unico  che  gelosamente  serbasse  in  tutta  la  vita, 
fra  le  miserie  della  lotta  domestica,  nella  solitudine  degli  ultimi 
giorni.  Peccò,  è  vero,  di  "  afFettazioncelle  accademiche  „  e  di 
"  morbidezze  venezievoli  „,  come  lo  accusò  il  Carducci,  peccò 
di  qualche  idiotismo,  di  monotonia  e  di  prolissità,  ma  egli  amò 
sempre  e  carezzò  con  segreta  compiacenza  la  sua  prosa,  e  per- 
fino nei  biglietti  di  corrispondenza  privata  si  rivelò  sempre  un 
artista,  semplice  e  arguto. 

Non  fu  grande  scrittore;  e  intorno  a  lui  si  udirono  nel- 
r  Ottocento  dei  giudizi  spesso  severi  9.  "  Certo  fa  i  vestiti  bene  „, 
disse  il  Manzoni,  "  ma  gli  manca  la  persona  „.  Il  Carducci 
ammirava  il  poeta  dei  sermoni,  ma  "  come  prosatore  „  il  Gozzi 
gli  parve  "  ineguale,  incerto,  ondeggiante  tra  il  pensiero  fran- 
cese e  la  forma  cinquecentistica  „.  Piccolo  posto  gli  assegnò  il 
De  Sanctis  nella  letteratura  del  Settecento.  Aspra  condanna 
pronunciò,  com'  è  noto,  lo  Zanella.  Ma  a'  suoi  tempi  il  Baretti 
lo  collocò  "  sopra  ogni  altro  scrittore  italiano  moderno  „  ;  e  più 
tardi  il  Monti  lo  giudicò  "  simile  al  Caro  „  e  tale  "  che  può 
tener  fronte  a  qualsiasi  più  grazioso  e  corretto  „  ;  e  il  Pinde- 
monte  concluse  il  suo  elogio  affermando  "  che  insegnò  a  scriver 
bene,  e  a  bene  operare  „.  Finalmente  il  Tommaseo  lodò  in  lui 
"  la  proprietà  rara  del  dire,  la  parsimonia,  l' armonia,  l' evi- 
denza; e  quell'efficacia  che  tanto  è  più  vera,  quanto  meno  si 
sforza  apparire  „  ^°. 

Non  fu  grande;  e  appartiene  modestamente  alla  seconda 
classe  degli  scrittori  italiani.  Il  suo  nome  non  passò  i  confini 
della  patria  ^^,  e  quella  parte  delle  sue  opere  che  oggidì  mostra 
di  vivere  nella  nostra  letteratura,  si  contiene  forse  in  un  solo 
volume.    Troppo    gli   piacque   la   mediocrità,   insegnò   troppo    a 


21 8  INTORNO    ALLE    "    LETTERE    DIVERSE    „ 

cercarla  e  ad  accontentarsene.  Leggete  in  queste  lettere  il  SognOy 
oppure  i  consigli  a  un,  giovane  poeta.  Il  suo  ideale  è  in  per- 
fetto contrasto  coi  nuovi  tempi:  la  sua  timidità  gli  consiglia  di 
scansare  le  noie  e  i  dolori,  e  la  sua  vita  fu  invece  travagliatissima. 
Egli  ammonisce  il  topo  a  restare  nella  sua  cesta,  il  luccio  tra 
le  rive  della  Piave:  e  non  s'accorge  di  offrire  ai  Veneziani  una 
pericolosa  morale,  non  s'  accorge  che  tutta  V  antica  grandezza 
della  sua  patria  ripugna  a  questa  sua  filosofia;  non  vede  l'In- 
ghilterra e  la  Francia  scacciare  il  Leone  alato  da  tutti  i  mari, 
non  ode  nessun  rombo  della  rivoluzione  che  avanza  ^^.  La 
smania  dei  viaggi  che  spinge  attraverso  l' Europa  i  letterati  suoi 
coetanei,  non  lo  esalta  mai;  non  sente  l'irrequietudine  dei  tempi. 
Il  suo  orizzonte  è  ristretto,  come  quello  delle  callette  veneziane, 
la  sua  esistenza  si  chiude  tra  Pordenone  e  Padova. 

Chi  legge  l'epistolario,  uno  dei  più  beUi  che  abbia  l'Italia, 
purtroppo  disperso  ancora  e  disordinato,  avverte  a  ogni  pagina 
r  uomo  debole  contro  la  società  e  contro  il  destino,  debole  coi 
figli  stessi  e  con  le  donne.  Rileggete  1'  appassionata  lettera  a 
Luisa  Bergalli  prima  del  matrimonio;  ricordate  che  per  servir 
meglio  la  comare  Màstraca  e  "  per  fuggire  un  vortice  d' inquie- 
tudini „,  abbandonò  per  qualche  tempo  la  famiglia  '3.  Non  accettò 
soltanto  il  giogo  dorato  della  procuratessa  Dolfin  Tron,  ma  quello 
meno  illustre  della  crestaia  francese.  Quasi  ridicolo  egli  diventa 
nelle  rozze  e  ciniche  memorie  del  figlio  Francesco,  che  per 
fortuna  qua  e  là  dicono  il  falso;  e  in  quelle  del  fratello  Carlo. 
Ci  ricorda  involontariamente  qualche  personaggio  della  com- 
media goldoniana,  ma  1'  animo  suo  onesto  e  buono  ci  sforza  ad 
amarlo.  Certo  la  grande  tristezza  della  vita  lo  avvinse  sempre 
più,  e  per  oltre  un  ventennio  gli  strappò  dei  lamenti  che  par- 
rebbero qualche  volta  uscire  dal  petto  di  un  italiano  nel  periodo 
più  doloroso  dopo  il  1821,  non  già  nel  perpetuo  carnovale,  come 
si  crede,  del  Settecento  veneziano. 

Incolpare  di  questo  la  Repubblica  di  Venezia,  oppure  le 
prodigalità  di  Giacomo  Gozzi  e  di  Angela  Tiepolo,  sarebbe  un 
errore  :  anche  Ugo  Foscolo  fu  povero  e  crebbe  nel  periodo  più 
umile  della  Serenissima.  Il  sentimento  della  mediocrità  è  nel- 
r  animo  e  nell'ingegno  del  nostro  autore  M:  di  qui  derivano 
quell'apatia  di  cui  1' accusava  a  torto  il  Baretti  e  quell'infingar- 
daggine di  cui  s'accusava  a  torto  egli  stesso.  Fra  gli  antichi 
predilesse  Luciano;  difese  Dante,  è  vero,  ma  ammirò  il  Berni. 
Nel   1755  osò   portare   sulla   scena   del   teatro  di   San  Giovanni 


DI    GASPARO    GOZZI  219 

Grisostomo  Marco  Polo  ed  Enrico  Dandolo,  per  rivaleggiare  con 
le  commedie  orientali  del  Goldoni  e  del  Chiari;  e  creò  due 
manichini.  Il  suo  mondo  artistico  è  dunque  nei  ritratti,  nei  dia- 
loghi, nelle  allegorie,  nei  ragionamenti  piacevoli,  nelle  novel- 
lette, nei  sermoni,  nelle  favole:  e  quel  tjiondo  egli  scoperse  la 
prima  volta  agli  Italiani  nelle  Lettere  diverse^  alle  quali  nel  '52 
aggiunse  un  altro  volume  col  titolo  di  Lettere  serie,  facete,  ca- 
pricciose, strane  e  quasi  bestiali  ;  e  altre  stampò  nel  tomo  sesto 
delle  Opere  in  versi  e  in  prosa,  edito  nel  1759,  ove  si  contiene 
pure  il  famoso  Ritratto  iìi  versi  degV  innamorati  moderni^  che 
di  quattro  anni  precede  il  Mattino  di  Giuseppe  Parini.  Scriverà 
poi  la  Gazzetta  Veneta  e  V  Osservatore  Veneto^  ma  la  materia, 
la  facoltà  d'  osservazione  e  V  arte  del  Gozzi  sono  ormai  note. 
Dodici  anni  dopo  le  Lettere  diverse,  nel  1762,  Giuseppe 
Baretti  pubblicava  a  Milano  le  Lettere  famigliari',  e  si  recava 
quindi  sulle  lagune  (dove  godette  l'amicizia  di  casa  Gozzi)  a 
prendere  in  mano  la  Frusta.  Così  compivasi  anche  per  la  prosa 
italiana  il  faticoso  lavoro  del  secolo  decimottavo  di  riafferrare 
al  di  là  del  Seicento,  abborrito  da  tutti,  le  tradizioni  interrotte 
del  Rinascimento,  e  di  affidarle,  rinnovate  di  spirito  moderno, 
air  avvenire  :  lavoro  glorioso,  per  cui  V  Italia  a  poco  a  poco 
ritrovava  se  stessa,  del  quale  non  piccola  parte  toccò  invero  a 
Venezia. 


AGGIUNTE  E  NOTE 


I  Lettera  al  Fontanini,  21  sett.  1697,  in  Lettere  di  A.  Z.,  Venezia, 
1785,  t.  I,  p.  3;  e  lettera  al  padre  Canneti  a  Ravenna,  23  nov.  1709, 
citata  da  F.  Negri,  La  vita  di  A.  Zeno,  Venezia,  1816,  p.  443. 

3  Opere  complete  di  C.  Goldoni  per  cura  del  Municipio  di  Venezia, 
voi.  I,  1907,  p.  97. 

3  A  35  anni  morì  l'abate  Antonio  Sforza  (1700-1735),  a  26  morì 
nel  '37  Niccolò  Seghezzi,  a  42  1'  abate  Giannantonio  Verdani  (  1700- 
1742),  a  38  Anton  Federico  Seghezzi  (1705-1743).  Ricordiamo  come  a 
questo  gruppetto  di  giovani  letterati  devoti  allo  Zeno  (v.  Negri  cit.), 
già  assottigliato,  si  accostasse  nel  '39  per  qualche  tempo,  forse  in 
grazia  dello  Zeno,  un  giovane  torinese  appena  ventenne,  Giuseppe 
Baretti  (G.  Piccioni,  G.  Barelli  prima  della  "  Frusta  Letteraria  „,  To- 
rino, 1912,  supplemento  13-14  del   Giornale  Storico   ecc.,  pp.  30-35). 

4  Ciò  fu  neir  anno  comico  1747-1748,  come  appare  manifestamente 
da  una  lettera  di  Marco  Forcellini  al  fratello  Egidio,  6  apr.  1747, 
ricordata  da  Antonio  Zardo  :  Esopo  in  commedia,  in  Nuova  Antologia, 
16  nov.  191 1,  p.  206. 

5  Fogli  sopra  alarne  massime  del  Genio  e  Costumi  del  secolo,  del- 
l' Abate  Pietro  Chiari,  e  contro  a'  Poeti  Nugnez  de'  nostri  tempi,  Ve- 
nezia, Colombani,  1761,  pp.  23-24. 

6  De'  Libri  che  sono  alla  moda,  in  Lettere  scelte  di  varie  materie 
ecc.  scritte  ad  una  Dama  di  qualità  dall'  Abate  Pietro  Chiari  Bre- 
sciano, Venezia,  Pasinelli,  1750. 

7  Venezia,  Pasinelli:  il  I  tomo  uscì  nel  1744,  il  II  nel  '49,  il  III 
nel  '52. 

8  *■  Io  ho  una  buona  copia  di  libri  di  Francia  „  scriveva  nel  '43 
al  compare  Pomo;  e  ne  prestava  e  chiedeva  agli  amici.  Così  nelle 
lettere  da  Vicinale  al  Seghezzi  ricorda  la  Vita  di  Marianna  del  Ma- 
rivaux,  e  in  una  al  Pomo  dice  di  restituire  il  Gii  Blas  di  Le  Sage. 
Pure  nel  '41,  lasciato  da  parte  Plauto,  traduceva  non  si  sa  quale 
commedia  di  Molière. 

9  Qualche  volta  anche  nel  Settecento,  sebbene  di  rado.  Il  Bet- 
tinelli, che  non  poteva  perdonargli  la  Difesa  di  Dante,  scrive  nelle 


224  INTORNO    ALLE    "    LETTERE    DIVERSE    „ 

sue  Lettere  Inglesi  (1767):  "  Grande  ozio,  e  gran  mediocrità  di  pen- 
sare convien  che  domini  nei  caffè  di  Venezia!  Ivi  corrono  per  le 
mani  alcuni  librottoli  ne'  quali  niente  s' impara,  niente  solletica,  non 
un  sale  che  punga,  non  un  detto  che  resti  in  memoria,  non  un  fatto 
istorico,  un  pensiero  veramente  sugoso  ed  istruttivo  „.  E  spiega  in 
nota:  "  Allude  all'opere  del  conte  Gaspero  Gozzi,  e  de'  suoi  socj 
di  minor  talento.  Di  lui  stimiam  l' ingegno  e  il  gusto  caro  a'  placidi 
e  moderati  animi  da  tavolino,  tal  fu  il  suo  temperamento  melanco- 
nico, e  freddo  a  trattarlo.  Un'  opera  illustre  pei  posteri  non  v'  è  fra 
le  sue  moltissime  „  :  Opere  edite  e  inedite  ecc.  dell'  abate  Saverio  Bet- 
tinelli, Venezia,  Palese,  1800,  t.  XII,  pp.  203-4. 

IO  Storia  civile  nella  letteraria,  ed.  Loescher,  1872,  p.  259.  E  anche 
disse  altrove  il  Tommaseo  :  "  Era  veneziano  quel  Gozzi,  casto  e  ma- 
turo ingegno,  che  in  tempi  di  corruzione  e  languore  seppe  trovare 
una  forma  di  pura  e  dignitosa  e  spedita  eleganza,  e  diede  sovente 
alla  prosa  la  greca  venustà,  più  sovente  al  sermone  il  romano  vigore, 
e  gli  estri  ispirati  „  :  Dizionario  d' estetica,  Milano,  Perelli,  1860,  t.  II, 
p.  114.  E  al  Capponi  scriveva  (die.  1846):  "  ...  Il  quale  a  voi  letterato 
non  può  piacere.  Ma  ne'  suoi  Sermoni  è  piti  varia  moralità,  e  vena 
più  franca,  e  schiettezza  più  onesta,  che  nella  stiracchiata  ironia  del 
Parini.  Ma  queste  cose  non  le  dite,  di  grazia,  ai  letterati...  „.  Rispose 
Gino  Capponi  (6  febbr.  '47):  "  Il  Gozzi  a  me  pareva  letterato  e,  ne' 
sermoni,  accademico,  e  però  non  m'  andava  troppo  a  genio  ;  poi  mi 
pareva  grattasse  dove  bisognava  incidere,  e  che  la  vita  del  caffè  gli 
stesse  troppo  addosso,  a  lui  uomo  di  natura  semplice,  degno  di 
tempi  migliori  ma  non  sufficente  a  gastigare  i  suoi  „.  E  Niccolò  re- 
plicava (febbr.  '47):  "  Per  mettervi  in  grazia  il  Gozzi,  a  voi  mente 
storica,  dirò  questo  solo.  Dalle  cosette  del  Gozzi  deducete  più  lume 
alla  storia  del  tempo,  che  non  dalle  opere  d' ingegni  più  grandi. 
Dunque  il  Gozzi  è  meno  accademico  dell'Alfieri  e  del  Parini:  ma 
più  del  Goldoni,  sì  certo.  E  il  Gozzi  e  il  Goldoni  sorridono  de'  propri 
dolori:  dunque  più  sapienti  e  più  buoni  di  quelli  che  fremono.  E  il 
Gozzi,  de'  non  Toscani  e  che  mai  non  videro  la  Toscana,  è  quel  che 
scrisse  in  stil  familiare  stonando  meno  e  con  meno  spropositi:  il 
che  denota  mirabile  felicità  di  natura  „  :  N.  Tommaseo  e  G.  Capponi, 
Carteggio  inedito  ecc.,  Bologna,  voi.  II  (1914),  pp.  401-402,  406-407,  410. 
Il  Giordani  lodava  più  la  forma  che  il  contenuto  negli  scritti  del 
Gozzi,  scrivendo  all' ab.  Giuseppe  Roberti  (23  marzo  1839):  "  Le 
opere  del  Gozzi  sono  belle  ;  e  buona  1'  edizione  di  Dalmistro  ;  e  sa- 
rebbe da  raccomandarne  la  lettura  a  chi  non  vuol  far  altro  che  leg- 
gere. Ma  ella  ha  bisogno  di  molti  e  seri  non  leggicchiamenti,  ma 
stttdi.  Le  bisogna  leggere  libri  che  abbian  più  nutrimento  che  il 
Gozzi,  scrittore  per  altro  tanto  più  lodevole  quanto  il  solo  buono  (e 
perciò  non  curato)  nel  suo  tempo  „:  Epistolario  edito  per  Antonio 
Gussalli,  Milano,  1854,  voi.  VI,  p.  392. 


DI    GASPARO    GOZZI  225 

II  Perfino  i  romanzi  del  Chiari  invogliarono  qualcuno  a  voltarli 
in  francese  :  non  dico  poi  l' immeritata  fortuna  di  Carlo  Gozzi  in 
Francia  e  in  Germania.  Né  il  Sismondi  né  il  Villemain  ricordano  il 
nome  del  conte  Gasparo:  é  vero  che  il  Villemain  non  si  cura  nem- 
meno del  Goldoni,  scusandosi  col  dire  eh'  é  "  più  francese  che  ita- 
liano „  {Cours  de  littéraiure  franfaise,  Bruxelles,  1840,  p.  301). 

13  Nel  '41  scrive  tra  serio  ed  arguto  da  Vicinale  al  compare 
Seghezzi  :  "  Mentre  che  tutto  il  mondo  ragiona  d' Imperatori  morti, 
di  Stati  che  s'  hanno  a  rivolgere,  io  do  a  beccare  ad  una  gallina,  e 
son  cheto  „.  E  nel  '72  da  Venezia  alla  Dolfin  Tron:  "  Sia  pur  bene- 
detta questa  spedizione  di  Gazzette...  Ho  anche  un  altro  vantaggio, 
che  mi  vado  informando  delle  cose  del  mondo,  e  vado  imparando 
i  fatti  delle  Corti,  delle  quali  non  ho  mai  saputo  niente  „, 

13  Sono  parole  del  fratello  Carlo  :  "  ...  S'  era  prese  due  stanze 
in  affitto  lontane  dalla  sua  famiglia,  nelle  quali,  recato  il  monticello 
de'  libri  suoi  e  sprofondato  ne'  studi,  cercava  una  pace  che  tuttavia 
non  poteva  avere...  „  :  Memorie  inutili^  Bari,  Laterza,  1910,  voi.  I,  178. 
Riconosceva  anche  troppo  la  sua  debolezza.  "  Sono  un  padre  ed  un 
padrone  di  casa  il  più  minchione  di  quanti  furono  dalla  creazione 
del  mondo  in  qua  „,  confessava  nel  '69  alla  Dolfin.  Tutti  poi  lo 
strapazzavano.  "  Quel  pover'  uomo  „  racconta  Carlo  "  quasi  pian- 
gendo, rammentandomi  lobbe  co'  suoi  movimenti,  mi  protestò  di 
non  avere  alcuna  colpa  nel  disordine  che  avveniva...  Aggiunse  che 
egli  sofferiva  de'  romori  infernali,  de'  titoli  d'  uomo  pusillanime,  di 
padre  spoglio  di  zelo  per  la  sua  prole,  e  infine  che  non  era  né 
obbedito,  né  ascoltato  „:  1.  e,  I,  157.  Amava  troppo  la  "  buona 
armonia  „,  la  pace  "  essendo  il  suo  naturale  „  scriveva  al  fratello 
(2  ag.  '46)  "  di  non  far  dispiacere  a  nessuno,  come  di  ricevere  di- 
spiacere molto  mal  volentieri  „  :  dimenticandosi  di  "  quella  verità  „ 
osservò  più  tardi  il  Pindemonte,  "  che  spesso  la  pace  tanto  più  da 
noi  fugge,  quanto  noi  la  cerchiamo  più  „:  Elogi  di  letterati  italiani, 
Firenze,  1859,  P-  403- 

14  Carattere  pure  dei  tempi  contro  il  quale  reagirono  gli  uomini 
nuovi  negli  ultimi  decenni  del  Settecento.  Forse  gli  scritti  più  corag- 
giosi del  Gozzi  sono  quelli  che  compose  dopo  il  '70  per  la  riforma 
degli  studi.  Ricordiamo  pure,  per  quanto  accademiche,  le  orazioni 
per  il  Tron  (1773)  e  per  il  Pisani  (1780). 


G.  Ortolani.  15 


PER  LA  RISTAMPA 
DELLA   "  GAZZETTA  VENETA 


Anche  dopo  la  scoperta  della  stampa,  il  giornale  fu  lento 
a  sorgere,  lento  a  diffondersi.  Quando  a  Londra  cominciarono 
a  uscire  le  prime  Novelle  (1619)  e  ad  Amsterdam  il  più  antico 
Corriere  (1623)  e  a  Parigi  la  famosa  Gazzetta  (1631)  di  Re- 
naudot,  quasi  due  secoli  erano  passati  da  Gutenberg.  Certa- 
mente negli  anni  successivi  si  moltiplicarono,  soprattutto  in 
Inghilterra,  i  foglietti  dai  titoli  più  strani,  e  accanto  alle  notizie 
politiche  si  poterono  ben  presto  leggere  anche  gli  annunzi  per  il 
pubblico  (specialmente  neiV  Informatore  pubblico  a  Londra,  1657), 
ma  impedimenti  d'  ogni  genere  ne  arrestarono  per  lungo  tempo 
il  progresso.  L' Italia  eh'  era  nel  suo  massimo  decadimento  po- 
litico economico  e  letterario,  non  potè  contribuire  allo  sviluppo 
dei  giornali.  Venezia  regalò  al  mondo  il  nome  di  gazzetta',  tanto 
più  è  strano  che  a  Venezia  stessa  nel  Seicento  non  si  pubbli- 
casse una  gazzetta  veneta^  mentre  negli  stati  pontifici  nasceva, 
ed  ebbe  vita  tenace  se  non  gloriosa,  la  Gazzetta  di  Bologna. 
Molto  maggior  fortuna  trovarono  fra  noi  i  giornali  di  erudizione 
scientifica  o  letteraria.  Nel  1665  fondavasi  a  Parigi  il  grande 
Giornale  dei  dotti)  ed  ecco  un  Giornale  dei  letterati  a  Roma 
(1668),  uno  a  Venezia  (1671),  uno  a  Parma  (1686),  uno  a  Forlì 
(1701).  Ma  in  Inghilterra  in  quel  medesimo  anno  (1665)  sorgeva 
la  Gazzetta  di  Londra,  in  Francia  nel  1672  Donneau  de  Visé 
creava  il  Mercnrio  galante,  nell'  82  Ottone  Menke  inaugurava 
a  Lipsia  gli  Atti  degli  eruditi  e  nell'  84  Bayle  lanciava  da  Am- 
sterdam le  ardite  Novelle  della  repubblica  letteraria,  seguito  a 
breve  distanza  da  Ledere  e  da  Basnage,  a  cui  rispondevano 
nel  1701  i  padri  gesuiti  istituendo  le  Memorie  di  TrévoiiX.  Quasi 
a  salutare  l'alba  del  nuovo  secolo,  nel  1702  vide  luce  finalmente 
a  Londra  il  primo  foglio  quotidiano,  chiamato  appunto  Corriere 
quotidiano. 


230  PER    LA    RISTAMPA 

Sono  questi  i  primi  passi  del  giornalismo  europeo  uscito 
di  puerizia:  il  giornale  con  meravigliosa  mobilità  e  duttilità  di- 
venta ormai  banditore  di  scoperte  scientifiche,  divulgatore  della 
dottrina,  arma  di  combattimento  del  pensiero  politico  filosofico 
religioso,  passatempo  letterario,  maestro  di  educazione  morale, 
cronaca  di  pettegolezzi  mondani  e  di  notizie  utili  e  pratiche. 
Non  circola  soltanto  nelle  maggiori  capitali,  bensì  rompendo 
fuori  dalle  mura  delle  città  corre  sulla  vecchia  diligenza  nelle 
remote  provincie;  non  trovasi  soltanto  nella  biblioteca  dello 
studioso,  nel  gabinetto  dell'  uomo  di  stato  e  dell'  ecclesiastico, 
nelle  affumicate  botteghe  da  caffè,  bensì  entra  familiarmente  fra 
le  pareti  della  media  borghesia,  osa  invadere  la  toletta  della 
dama  e  si  posa  sul  tavolo  bagnato  di  birra  e  di  liquori  del- 
l' osteria  di  campagna.  A  dargli  animo  vigore  e  agilità  ecco  i 
nuovi  scrittori  d' Inghilterra,  De  Foe  l' autore  del  Robinson 
Critsoe,  Swift  1'  autore  del  Gulliver,  il  ministro  futuro  di  Gior- 
gio I,  il  classico  Addison,  e  1'  ex  ministro  della  regina  Anna,  il 
terribile  Bolingbroke. 

Il  primo  giorno  del  marzo  171 1,  in  cui  comparve  il  primo 
numero  dello  Spettatore  di  Addison  e  Steele,  è  memorabile  nella 
storia  più  che  il  giorno  d'  una  gloriosa  battaglia.  Qualcheduno 
afferma  che  allora  soltanto  cominciò  la  vera  arte  del  giornalista. 
Del  decimo  numero  furono  tirate  ben  tremila  copie,  di  qualche 
altro,  raccontavasi  anche  più  tardi  con  stupore,  fino  ventimila: 
cifra  invero  favolosa  a  quei  tempi.  Se  ne  fecero  presto  varie 
ristampe  e  traduzioni  che  percorsero  tutta  Europa  e  si  legge- 
vano ancora  in  Italia  dopo  molti  decenni.  Nel  1731  il  libraio 
Edoardo  Cave  inizia  la  serie  mensile,  un  poco  per  volta  illu- 
strata con  varie  incisioni,  del  fortunatissimo  Magazzino  del  gen- 
tiluomo^ che  trova  imitatori  a  Copenaghen,  ad  Amburgo,  a  Lipsia, 
a  Stocolma,  a  Brema;  altri  magazzini^  di  titolo  e  spesso  di 
natura  diversa,  si  stamparono  a  Londra  stessa,  a  Parigi,  a  Fi- 
ladelfia, a  Boston  ecc.  e  finalmente  a  Venezia  (il  Magazzino 
italiano  del  Griselini,  1767). 

Nessun  scrittore  sdegnava  ormai  di  offrire  la  propria  penna 
ai  giornali,  anzi  i  più  illustri  ambivano  di  collaborare  a  una 
impresa  che  appariva  di  anno  in  anno  più  importante  all'umana 
cultura  e  più  utile  al  proprio  paese.  Quando  Apostolo  Zeno  nel 
1710,  con  l'aiuto  di  Scipione  Maffei,  del  Vallisnieri  e  di  venti 
altri  amici  "  sparsi  per  tutta  Italia  „,  fondò  a  Venezia  un  no- 
vello Giornale  dei  letterati  con  l'intento  di  mostrare  che  la  dot- 


DELLA    "    GAZZETTA    VEìNETA    „  23 1 

trina  rifioriva  nel  suolo  italiano,  un  applauso  rispose  da  Bologna 
a  Roma.  Opera  generosa,  ma  pur  troppo  non  popolare.  Né  le 
polemiche  spesso  audaci  e  rabbiose  dell*  abate  Lami  diedero 
popolarità  alle  Novelle  letterarie  di  Firenze  (1740).  C'erano  i 
giornali,  non  e'  erano  gli  scrittori.  Appena  Prévost,  il  creatore 
di  Manoìi,  appena  l' antivolterriano  Fréron,  oppure  Marmontel, 
r  autore  dei  Racconti  morali^  potevano  trovare  lettori  fedeli  in 
Francia;  in  Inghilterra  aggiungeva  alle  notizie  politiche  la  cro- 
naca dei  tribunali  Fielding,  l'autore  di  Tom  Jones,  dirigeva  una 
Rivista  critica  Tobia  SmoUett,  1'  autore  delle  Avventure  di  Ro- 
drigo Random,  e  stampava  versi  e  prose  nei  magazzini  più  in 
voga  il  critico  Samuele  Johnson,  il  grosso  mastino,  l'amico  del 
Baretti;  in  Germania  il  giovane  Klopstock  affidava  i  suoi  canti 
ispirati  a  un  giornale  di  Brema. 

A  Venezia,  nel  1760,  quando  finalmente  cominciò  a  uscire 
ogni  mercordì  e  ogni  sabato,  dai  6  di  febbraio,  la  Gazzetta  Veneta, 
trascinava  ancora  sulle  lagune  la  sua  tranquilla  esistenza  un 
giornale  letterario  settimanale,  intitolato  Novelle  della  Repubblica 
Letteraria  (1729)  e  compilato  dall'abate  Medoro  Rossi  Ambrogi. 
Un  altro  periodico  di  rassegne  bibliografiche  vedeva  luce  men- 
silmente, dal  principio  del  '59,  le  Nuove  memorie  per  servire 
air  istoria  letteraria,  che  facevano  seguito  alle  interrotte  Memorie 
del  padre  Calogerà.  Ciò  era  ben  poco.  Qualcuno  con  ragione  si 
rammaricava  di  tanta  miseria  e  pensava  con  invidia  "  che  la 
sola  città  „  di  Londra  aveva  "  più  di  dodici  Gazzette  „.  A  Gasparo 
Gozzi,  sincero  amatore  della  sua  Venezia,  parve  crescesse 
r  animo  non  appena  si  accinse  a  scrivere  per  incarico  d' un 
libraio  la  Gazzetta  Veneta.  Egli  non  voleva  creare,  si  capisce, 
uno  di  quei  fogli  "  che  ci  empiono  gli  orecchi  di  cose  lontane 
da  noi  „,  uno  di  quei  fogli  che  allora,  nell' infierire  della  guerra 
dei  Sette  anni,  facevano  girar  le  teste  con  interminabili  descri- 
zioni di  assedi  e  di  trincieramenti,  ma  sognava  un  giornale  in 
apparenza  più  modesto,  sebbene  più  utile,  un  giornale  di  notizie 
cittadine  e  di  avvisi  per  il  pubblico,  come  usava  da  tempo  in 
Inghilterra,  reso  piacevole  da  arguti  ragionamenti,  da  brevi 
novelle,  da  favole,  da  letterine  a  guisa  dell'antico  Spettatore. 
Già  fin  dal  '21,  nelle  colonie  d'America,  i  fratelli  Giacomo  e 
Beniamino  Franklin  avevano  inserito  nel  Corriere  della  Nuova 
Inghilterra  articoli  di  morale  e  di  letteratura:  nel  '22  Pietro 
Marivaux  erasi  lusingato,  con  poca  fortuna,  di  donare  alla  patria 
uno  Spettatore  francese.  Il  Gozzi  venuto  molti  anni  più  tardi,  e 


232  PER   LA    RISTAMPA 

scrivendo  non  per  i  concittadini  di  Addison  o  di  Richardson 
che  avevano  accanto  al  giornale  o  al  romanzo  la  Bibbia,  bensì 
per  la  Venezia  di  Carlo  Goldoni,  non  volle  fare  la  "  scimmia 
dello  Spettatore  „,  come  disse  egli  stesso;  cercò  dunque  di  man- 
tenere leggera  e  piana  la  materia:  ma  ebbe  davanti  alla  mente 
il  lontano  modello  che  sempre  più  lo  attirava. 

Ora  a  me  sembra  che  proprio  nella  Gazzetta  l'ingegno  del 
Gozzi  sottomettendosi  a  una  dura  fatica  quotidiana,  che  può 
paragonarsi  per  lo  sforzo  dell'  arte  a  quella  dei  grandi  coetanei, 
del  Goldoni  nel  teatro,  del  Tiepolo  nella  pittura,  facesse  la 
maggior  prova  di  fecondità,  di  originalità  e  di  vivacità.  Nel- 
r  Osservatore^  al  quale  diede  opera  il  conte  veneziano  tosto  che 
abbandonò  la  Gazzetta,  V  autore  sembra  restringere  la  sua  vi- 
sione e  farsi  più  timido,  sebbene  si  illuda  di  rendere  il  conte- 
nuto più  serio  e  profondo,  studiando  non  il  costume  bensì  il 
cuore  dell'uomo,  si  allontana  un  poco  per  volta  dal  pubblico 
delle  sue  lagune,  quasi  si  apparta  nel  solito  regno  letterario, 
un  po'  per  stanchezza,  un  po'  per  genio,  credendo  di  salire  più 
in  alto;  si  ripete,  diventa  prolisso  e  monotono;  abusa,  direi  così, 
dell'  arte  sua  di  scrittore  ;  tenta,  ma  invano,  di  emulare  l' Ad- 
dison; vuol  troppo  spesso  insegnare  e  filosofeggiare,  come  in 
quel  suo  noioso  romanzo  del  Mondo  inorale,  secondo  la  moda 
del  tempo.  Vero  è  che  il  Gozzi  sa  creare  brevi  frammenti,  ma 
non  regge  alle  lunghe  creazioni  che  solleticano  invano  la  sua 
fantasia. 

Frammentaria  riuscì  naturalmente  la  Gazzetta,  e  varia,  come 
ben  si  comprende.  Dagli  spettacoli  teatrali  o  dal  canto  degli 
Oratori  passa  il  lettore  alla  cronaca  dei  piccoli  furti,  dalla  de- 
scrizione del  giovedì  grasso  alla  satira  dei  medici,  dai  suggeri- 
menti per  apprendere  la  lingua  itahana  alle  lodi  del  Klopstock, 
dalle  favolette  morali  agli  oggetti  da  vendere,  dagli  ultimi  libri 
usciti  in  luce  alle  ultime  invenzioni,  dall'  elogio  del  gatto  al 
giuoco  del  lotto,  dai  dipinti  del  Marieschi  o  dei  Longhi  alle 
gioie  del  poeta,  dall'  arrivo  del  Frugoni  a  Venezia  agli  scherzi 
sulle  geste  di  Alessandro,  da  un  incendio,  o  da  un  parto,  ai 
giardini  francesi,  o  alle  mode.  Anche  qui  il  Gozzi  difende  Dante 
e  Petrarca,  e  scrive  acutamente:  "  La  poesia  è  imitazione  di 
natura  „;  "  i  versi  sono  un  linguaggio;  la  poesia  sta  nell'in- 
venzione piuttosto  che  nelle  parole  „.  Anche  qui  desidera  soprat- 
tutto il  perfezionamento  delle  arti  e  delle  scienze  utili  all'uomo. 
Ma  più  audace   e   originale   si   dimostra,  come   sappiamo,  dove 


DELLA  "  GAZZETTA  VENETA  „  233 

ragiona  della  educazione.  La  vita  delle  calli  e  dei  campii  dei 
caffè  e  dei  teatri,  penetra  nella  letteratura  e  vi  scaccia  per  sempre 
ogni  ricordo  del  Seicento  e  dell'Arcadia.  Leggendo  la  Gazzetta 
Veneta  del  Gozzi  par  di  leggere  qua  e  là  i  diari  inediti  di  Piero 
Gradenigo,  ma  la  rozza  cronaca  del  tempo  si  è  trasformata  in 
arte  letteraria. 

Volete  vedere  una  callctta  veneziana  del  Settecento?  "  La 
calle  del  forno  a  san  Polo  è  quale  io  la  descriverò  al  presente. 
Larga,  lunga,  diritta,  con  molte  casipole  di  qua  e  di  là,  abitate 
da  certe  donnicciuole,  le  quali  tutto  il  verno  stannovi  dentro 
intanate,  e  quando  la  stagione  comincia  a  migliorare,  escono  a 
guisa  di  lucertole,  e  portate  fuori  loro  sedie  impagliate,  met- 
tonle  agli  usci,  e  fatta  sala  della  via,  una  fa  calzette  coi  ferr.uzzi, 
un'  altra  dipana,  quale  annaspa,  qual  cuce  :  insomma  tutte  fanno 
il  loro  mestiere  particolare  e  in  ciò  sono  divise,  ma  parlano  in 
comune  dallo  spuntare  fino  al  tramontar  del  sole;  e  per  giunta 
al  cicaleccio,  avvi  anche  una  maestra  di  scolari,  la  quale  non 
sapendo  in  qual  altra  dottrina  ammaestrarli,  tirando  orecchi, 
dando  ceffate  e  con  le  aperte  palme  cularelli  percuotendo,  inse- 
gna loro  a  stridere  e  a  gridare  quanto  esce  loro  dalla  gola; 
tanto  che  talvolta  si  ode  un  coro  di  fanciulli  che  piangono,  di 
donne  che  rinfacciano  la  sua  crudeltà  alla  maestra,  e  di  maestra 
la  quale  fa  le  sue  difese  „.  Come  il  campiello  goldoniano,  non 
si  dimentica  più  la  calle  del  forno  descritta  da  Gasparo  Gozzi, 
dove  la  zuffa  femminile  vien  preparata  fin  da  principio. 

Le  baruffe  popolari  tengono  un  gran  posto  anche  nella 
Gazzetta^  insieme  col  vino  in  cui  di  solito  si  chetano  e  an- 
negano: e  il  Gozzi  sorride  con  sempre  nuovo  umorismo.  È 
di  notte  :  passa  egli  il  ponte  di  Rialto,  "  ed  eccoti  una  brigata  di 
femmine  che  si  dicevano  un  monte  di  villanie,  con  una  furia 
che  le  parole  si  frangevano  ne'  denti...  Dietro  al  tuono  cominciò 
la  gragnuola.  \J  occhio  non  tirava  tanto  lunge,  ma  1'  orecchio 
mi  diceva:  questo  è  uno  schiaffo,  questo  è  un  pugno  „.  Ride 
altrove  il  buon  conte  di  "  certe  palme  di  uomo  che  pareano  di 
acciaio  „,  di  "  certi  piedi  pesanti  come  magli  „;  ride  d'  una  mano 
"  con  certi  calli  di  porfido  „,  d'una  ceffata  "  che  suonò  come 
un  timpano  „,  d'uno  schiaffo  "  che  fé  andare  qua  e  là  „  un 
insolente  "  come  un  tordo  impaniato  fino  alla  scala  della  chiesa 
di  San  Salvatore  „.  L'umorismo  del  Gozzi  scintilla  spesso  in 
una  immagine,  in  una  frase,  in  una  parola.  Vediamo  "  compa- 
rire „  una  dama    "  con   uno   squadrone    di   serventi  „  ;  un  tale 


234  PER    LA    RISTAMPA 

se  ne  va  via  inosservato  "  cheto,  fra  uomo  e  uomo  „  ;  un  altro, 
per  maraviglia  "  rimase  come  una  figura  intagliata  „;  due  finti 
bravi  "  invocarono  la  gagliardia  delle  ginocchia,  e  posero  le 
punte  de'  piedi  dove  prima  avevano  poste  le  calcagna,  con  una 
agilità,  che  pareano  daini  „  ;  un  giovinotto  pien  di  paura  "  salì 
le  scale  come  un  uccello  „  ;  "  la  festa  de'  putti  fu  uno  strepito 
di  mare  in  burrasca  „;  l'infermo,  alla  vista  del  pazzo  "  balzò 
fuori  del  letto  con  una  gagliardia  che  parve  un  lottatore  „;  la 
vedovella  ordinò  al  sarto  un  vestito  nero,  e  si  ricordò  "  fra 
lagrima  e  lagrima  delle  pieghe,  delle  maniche,  e  di  ogni  altro 
artificio  „  ;  l' ubbriaco  "  borbottò  lunga  pezza  all'  uscio  „  di 
casa,  che  non  si  apriva  "  e,  non  potendosi  più  reggere  sulle 
ginocchia,  andato  oltre  pochi  passi,  pensò  di  coricarsi  sulla  via, 
che  gli  parve  forse  una  camera  „. 

E  lascio  gli  insegnamenti  del  padre  al  proprio  figliuolo, 
scendendo  dal  ponte  di  Rialto;  lascio  -la  letterina  all'amante, 
cominciata  dalla  figlia  e  finita  dalla  madre,  vero  modello  di 
finezza  femminile  e  di  ridicole  sgrammaticature;  lascio  la  no- 
vella notissima  del  calzolaio  beone  e  la  notissima  vincita  al 
lotto  di  alcune  femminette  presso  alla  "  corte  di  ca'  Barozzi  „. 
11  Gozzi  fa  muovere  per  un  istante  la  folla  con  vivacità  spiri- 
tosa. Ricordate  la  scena  dell'  ubbriaco  che  si  addormenta  in 
casa  altrui?  La  donna,  spaventata  al  vedere  il  letto  occupato 
"  va  alla  finestra,  grida  accorr' uomo;  i  putti  piangono  come 
disperati;  tutta  la  vicinanza:  che  sarà?  che  vuol  dire?  presto 
arme,  spuntoni,  archibusi.  Corrono  all'  uscio  della  donna,  sal- 
gono le  scale  a  squadre  e  giunti  in  sala,  udito  dell'  uomo  nella 
stanza,  pensano  a  chi  dee  andare  avanti;  finalmente  due  pian 
piano  mettono  il  capo  dentro  e  vedendo  che  il  nemico  dormiva, 
vanno  là  e  gridano:  tu  se'  morto;  ed  egli  russa  per  risposta. 
Allora  seguono  tutti  e  fanno  un  rumore  e  uno  schiamazzo  che 
si  sarebbe  destato  il  sonno  „.  Vi  è  un  po'  del  sorriso  manzo- 
niano. E  il  Fossi  non  si  presenta  a  noi  come  il  sagrestano  di 
don  Abbondio?  "  Tanto  picchiò  di  forza  e  tal  rumore  fece 
all'  uscio,  che  finalmente  ruppe  il  sonno  nella  testa  al  Fossi,  il 
quale  uscì  mezzo  attonito  come  un  tordo,  con  le  brachesse  in 
mano,  e  domandando:  chi  è  là?  alzava  una  gamba  per  metter- 
vela  dentro  „.  Sapete  che  pensa  il  Gozzi  della  segretezza  delle 
donne?  "  Che  importa  s'esse  dicono  volentieri  i  fatti  altrui? 
la  vera  segretezza  è  quella  che  tace  i  propri  ;  e  dicane  ognuno 
che  vuole,  ma  io  mi  torrei  piuttosto  1'  obbligazione  di  trar  fuori 


DELLA  "  GAZZETTA  VENETA  „  235 

dalla  terra  con  le  sole  braccia  una  quercia  di  quarant*  anni,  che 
un  segreto  dalla  bocca  di  una  donna,  quando  non  lo  vuol  dire  „. 
Sapete  che  pensa  dell'avarizia  umana?  "  Non  vi  è  uomo,  per 
ricco  che  sia,  o  vestito  di  oro  e  di  argento,  che  vedendo  un 
zecchino  per  via  in  qualunque  immondezza,  se  non  fosse  osser- 
vato, non  si  chinasse  a  ricoglierlo  o  almeno  non  gli  lasciasse 
su  gli  occhi  passando  „.  E  non  è  un  piccolo  capolavoro,  una 
visione  goldoniana,  V  imbarco  dei  cantanti  e  dei  ballerini  in 
partenza  sulla  riva  di  San  Moisè? 

Ma  a  questi  tocchi  felici,  a  questi  brevi  schizzi  e  bozzetti, 
a  questi  scorci  e  ritratti  si  arresta  V  arte  del  Gozzi  ;  né  dob- 
biamo chiedergli  di  più.  Il  Gozzi  non  sa  dare  vita  durevole  a 
nessun  personaggio,  non  conosce  il  mistero  che  ogni  uomo,  per 
quanto  umile,  porta  dentro  di  sé,  le  sue  figure  cadono  facilmente 
neir  indeterminato,  nelF  allegorico,  nel  vuoto.  Quando  poi  vuol 
rifare  Luciano,  riesce  soltanto  noioso.  Al  Gozzi  se  mai,  e  non 
al  Goldoni,  si  può  accostare  Pietro  Longhi.  Il  Goldoni  fa  par- 
lare i  suoi  personaggi  e  con  due  parole  ci  pianta  vivi  davanti 
agli  occhi  il  rustegOj  la  masséra,  Pantalone,  siora  Lugrezia, 
Titta  Nane,  Mirandolina.  Il  Gozzi  é  pittore  di  miniature,  un 
gentile  e  arguto  artista  del  Settecento  veneziano;  ed  é,  di  più, 
un  indulgente  osservatore  e  correttore  dei  difetti  umani,  un 
dolce  educatore,  come  volle  essere,  uno  scrittore  popolare. 

Di  Carlo  Goldoni  ricorre  spessissimo  il  nome  nella  Gaz- 
zetta Veneta:  il  Gozzi  parteggia  sempre  per  il  grande  comme- 
diografo, con  molto  dispetto  del  fratello  e  degli  amici  Granel- 
leschi)  e  qui,  subito  dopo  la  prima  recita,  loda  la  commedia  dei 
Rusteghi^  bene  accorgendosi  che  é  nato  un  vero  capolavoro, 
iniziando  con  una  breve  e  sagace  analisi  la  critica  del  teatro 
nel  giornalismo  italiano:  lodala  Casa  novay\o^3i\2i  Bona  mare'y 
qui  stampa  i  famosi  versi  di  Voltaire  al  Goldoni:  mentre  si 
diverte  a  scherzare  alle  spese  dell'  abate  Chiari.  Presago  del- 
l' avvenire,  dice  a  proposito  della  Buona  madre  che  il  Goldoni 
"  in  questo  genere  di  commedie  non  verrà  forse  mai  pareggiato 
da  alcuno...  Il  dialogo  è  della  stessa  natura  ch€  parla,  per  modo 
che  gli  spettatori  non  si  ricordano  punto  d'essere  assistenti  ad 
una  rappresentazione  :  ma  sembra  loro  aver  parte  in  que'  ragio- 
namenti. Questa  é  la  più  bella  e  la  più  difficile  qualità  d'  un 
componimento  comico  „.  Con  tah  parole  che  scolpiscono  e  cele- 
brano r  arte  del  maggior  figlio  di  Venezia,  si  chiude  la  Gaz- 
zetta Veneta. 


236  PER   LA    RISTAMPA   DELLA    "   GAZZETTA   VENETA  „ 

Si  chiude,  voglio  dire,  la  Gazzetta  di  Gasparo  Gozzi,  quella 
che  oggi  si  ammira  come  opera  letteraria.  Il  foglio  continuò  ad 
uscire,  prima  con  lo  stesso  titolo,  e  poi  con  quello  di  Nuova 
Gazzetta  Vetteta,  fino  al  termine  del  settembre  1762.  Dai  4  feb- 
braio '61  ai  18  agosto  '62  il  conte  Gasparo  pubblicò  Y  Osserva- 
tore Veneto,  anzi  gli  Osservatori  Veneti,  come  il  foglio  da  ultimo 
si  intitolava.  Il  primo  di  ottobre  '63  il  Baretti  cominciò  a  bran- 
dire a  Venezia  la  Frusta  letteraria  e  V  agitò  due  volte  al  mese 
fino  ai  15  di  gennaio  del  '65.  Il  primo  giugno  '64  era  sorto  per 
opera  della  giovanile  Società  dei  Pugni  di  Milano  il  Caffè,  che 
stampavasi  pure  nello  Stato  veneto,  a  Brescia;  e  durò  tutto  il 
mese  di  maggio  del  '66,  uscendo  ogni  dieci  giorni.  Così  l'Italia 
ebbe  alfine  nel  giro  di  pochi  anni  ben  quattro  giornali  di  cui 
molte  pagine  trovano  ancora  lettori,  e  vivranno  per  lunghe  ge- 
nerazioni: tutti  e  quattro,  si  badi,  inspirati,  almeno  nel  loro 
inizio,  al  ricordo  dello  Spettatore  inglese. 

Il  fervore  della  stampa  periodica  aumentava  oramai  verti- 
ginosamente. In  un  mio  elenco,  certo  incompleto,  che  ho  sotto 
gli  occhi,  posso  contare  nella  seconda  metà  del  Settecento  ben 
ventinove  giornali  di  vario  genere  nella  sola  città  di  Venezia: 
fra  cui  la  Gazzetta  Urbana  Veneta  risorta,  dirò  così,  nel  1787. 
È  vita  pur  questa,  s' io  non  erro.  Pur  troppo  il  grande  giornale 
politico,  il  grande  giornale  illustrato,  la  grande  rivista  scientifica 
o  letteraria  non  potevano  crescere  nel  suolo  italiano.  Oltralpi, 
nel  1777,  fondavasi  il  Giornale  di  Parigi,  il  primo  quotidiano 
in  Francia;  nell' 88  un  altro  giornale,  nato  sul  Tamigi  tre  anni 
prima,  assumeva  il.  nome,  famoso  in  tutto  il  mondo,  di  Times. 
Ma  ecco  l'Sp!  Ecco  a  Parigi  il  giornale  rivoluzionario,  la  "  tri- 
buna di  carta  „  diranno  i  fratelli  Goncourt,  "  più  ascoltata,  più 
tonante,  più  regnante  „  della  tribuna  di  Mirabeau  o  di  Maury. 
In  Germania  sulle  colonne  dei  giornali  altre  battaglie  combat- 
tevano per  r  arte  Wieland,  Schiller  e  Goethe,  finché  i  fratelli 
Schlegel  bandirono  neìV  Ateneo  (l'jgS)  alle  nuove  generazioni  a 
cui  la  rivoluzione  sconvolgeva  il  cuore  e  il  pensiero,  il  pro- 
gramma ardente  del  romanticismo.  Così  si  annunciava  il  secolo 
decimonono. 


Il  titolo  di  questo  scritto  allude  alla  ristampa  della  Gazzetta  compiuta  con  molta  cura 
nel  1915  dal  più  illustre  e  devoto  studioso  del  Gozzi,  Antonio  Zardo,  per  la  Biblioteca  di 
Classici  Italiani  del  Sansoni,  a  Firenze. 


COME  SORRIDE  IL  GOZZI 


L'opera  letteraria  di  Gasparo  Gozzi  incomincia  propria- 
mente nel  1750  allorché,  incoraggiato  dallo  stesso  Procuratore 
Marco  Foscarini,  stampò  le  Lettere  diverse y  dov'  è  il  famoso 
invito  in  villa  al  Seghezzi  e  il  più  antico  dei  sermoni  in  versi  : 
per  primo  il  Goldoni  con  spontanea  effusione  salutò  pubblica- 
mente in  pieno  teatro,  per  mezzo  del  Cavaliere  di  buon  gastOj 
il  nuovo  scrittore.  Le  Lettere  diverse,  di  cui  uscì  un  altro  tomo 
nel  '52,  si  ricongiungono  poi  direttamente  alla  Gazzetta  Veneta 
(febbr.  1760 -genn.  '61)  e  2\V  Osservatore  (febbr.  1761 -ag.  '62): 
come  la  Difesa  di  Dante  (1758)  alle  letture  che  solevano  fare 
i  Granelleschi  e  alla  stampa  del  poema  pei  torchi  dello  Zatta. 
Noi  abbiamo  un  bel  ricantare  le  solite  nenie  sulla  decadenza 
veneziana,  suU'  apatia  e  abulia  di  Gasparo  Gozzi,  sullo  spettro 
della  morte  che  interrompe  il  perpetuo  carnovale  del  popolo  di 
San  Marco,  ma  ripensando  a  tutto  quello  che  scrisse  e  tradusse 
e  stampò  il  buon  Conte,  in  versi  e  in  prosa,  tra  il  '50  e  il  '62, 
mentre  trovò  pure  il  tempo  di  aiutare  il  Foscarini  e  per  la  sua 
Letteratura  Veneziana  e  per  altro,  di  fare  anche  un  po'  di  scuola 
e  d' accozzar  qualche  raccolta  d*  uso,  io  ne  provo  un  senso  quasi 
di  pena  e  di  spavento;  e.  ammiro  umilmente  questo  compagno 
del  Goldoni  e  del  Tiepolo,  questo  magro  e  ossuto  lavoratore 
dell*  antica  Venezia,  quest'  altro  degno  attore  del  rinnovamento 
italiano,  precursore  del  Baretti  e  del  Parini. 

Egli  fu  soprattutto  un  artista,  ma  sempre  più  cercò  di  dare 
air  arte  sua  un  contenuto  pratico  e  morale,  e  cercò  di  renderlo 
sempre  più  serio  e  profondo,  studiando  non  tanto  il  costume 
della  sua  Venezia,  quanto  il  cuore  dell'  uomo,  per  migliorarlo. 
Di  ciò  gli  va  tenuto  conto:  egli  avvicinò  finalmente  senza  sguaia- 
taggine la  letteratura  al  popolo,  ben  prima  del  Romanticismo; 
infuse  arte  e  vita   nel   giornale,  prima   che    in    Francia;  iniziò. 


240  COME   SORRIDE   IL   GOZZI 

dopo  la  recita  dei  Rusteghi,  la  cronaca  e  critica  del  teatro. 
Sbagliò  spesso,  come  succede  pur  ai  migliori,  si  smarrì  in  qual- 
che sentiero  cieco,  abusò  di  allegorie,  riuscì  tante  volte  prolisso 
e  noioso,  ma  non  fece  le  capriole  in  mezzo  alla  piazza  per 
attirar  gente,  non  disse  le  parolacce  e  non  inveì  contro  nessuno, 
non  brandì  la  sferza,  non  usò  l' ironia,  fu  un  educatore  mite  e 
sorridente,  fu  un  critico  arguto  e  indulgente  degli  altrui  difetti 
e  dei  suoi,  persuase  col  suo  esempio  la  calma  e  il  buon  senso, 
corresse,  non  respinse  mai.  Il  Gozzi  non  appartiene  ai  grandi 
scrittori  per  potenza  di  pensiero  o  di  stile,  ma  riuscì  tuttavia  ori- 
ginale; non  scoperse  nessun  angolo  di  un  mondo  ignorato,  ma 
rivelò  interamente  se  stesso,  e  ci  basta:  seppe  mostrarci  la  propria 
anima,  le  proprie  contraddizioni,  le  proprie  debolezze,  le  pro- 
prie amarezze,  come  gli  altri  non  osavano.  E  della  società  che  si 
agitava  intorno  a  lui,  disegnò  con  abile  mano  scorci  e  ritratti. 
11  Gozzi  è  un  descrittore  quanto  mai  fine  ed  arguto,  un 
forte  descrittore,  se  la  forza  consiste  nella  visione  limpida  e 
vivace,  quale  non  avevamo  da  molto  tempo  in  Italia;  e  pochi 
prima  e  poi  lo  superarono.  Volete  rivedere  una  bottega  da  caffè 
al  Ponte  di  Brenta,  piena  di  nobilomeni  e  zentildonne  in  villeg- 
giatura? Leggete  questa  lettera  del  vecchio  scrittore  alla  Tron, 
da  Noventa  Padovana:  "  Questa  Noventa  è  un  paese  che  mi 
piace  assai.  Il  luogo  dove  io  sto,  è  ritirato,  e  con  pochi  passi 
chi  vuol  mondo  ne  ritrova.  lersera  andai  alla  bottega  al  Ponte. 
Oh  quanto  fracasso!  Io,  poveruomo,  attorniato  dalla  grandezza 
di  tanti,  appena  inginocchioni  ho  trovato  chi  ascolti  le  mie  pre- 
ghiere per  ottenere  un'acqua  di  limone,  in  un'ora  e  un  quarto 
di  tempo.  Ebbi  almeno  la  consolazione  di  farmi  veder  vivo  all'Ec- 
cellentissimo procuratore  Morosini,  il  quale  mi  vide  con  molta 
cordialità.  Udii  il  vocione  dell'Eccellentissimo  Vallaresso  in  bot- 
tega, e  andai  a  presentarmegli  :  n'  ebbi  anche  da  lui  tanta  cortesia 
da  potermi  contentare  „.  Il  senatore  Alvise  Vallaresso  era  figliuolo, 
s' io  non  erro,  del  famoso  Zaccaria,  e  aveva  otto  figliuoli,  beato 
lui!,  vivi  e  sani:  sei  maschie  due  femmine.  "  Sedeva  appresso 
di  lui  la  Marchesina,  eh'  era  venuta  poco  prima,  guidando  sei 
cavalli  come  l' Aurora.  Di  lì  a  poco  vidi  apparecchiarsi  fuori 
della  bottega  molti  tavolini  da  giuoco,  e  giuocatori  a  quattro  a 
quattro,  con  qualche  giuocatrice  delle  piuttosto  abbandonate 
dal  mondo,  ma  che  con  animo  imperterrito,  a  dispetto  di  certi 
visi  e  qualcuna  dell'  età,  non  vogliono  abbandonar  lui  „  *.  Pec- 
cato mancasse  un  altro  vecchio,  il  Goldoni,  così  lontano! 


COME   SORRIDE   IL    GOZZI  24 1 

E  questo  viaggio  notturno  nel  burchiello  da  Venezia  a  Pa- 
dova, viaggio  che  durò  quindici  ore,  lo  ricordate?  "  . .  Io  poi 
non  ho  creduto  mai  d'  essere  tanto  ricco,  quanto  mi  sono  tro- 
vato stanotte,  fra  casse,  forzieri  e  tante  bagaglie,  che  appena 
ebbi  luogo  per  me  e  per  un  gatto  in  una  gabbia,  che  da  astuti 
ci  prendemmo  il  sito  migliore.  Così  va  il  mondo.  Quelle  acque 
che  nei  giorni  passati  videro  il  trionfale  passaggio  di  sommi 
pontefici,  di  cardinali,  di  vescovi  „  così  allude  al  recente  viaggio 
del  Pellegrino  Apostolico^  Pio  VI,  "  si  ridussero  stanotte  ad  un 
solo  burchiello,  con  dentro  un  vecchio  poeta  che  mettea  in  versi 
nel  suo  cuore  bestemmie  e  disperazioni  „  =, 

Egli  fu  debole,  in  mezzo  agli  uomini,  ma  onesto  e  buono: 
per  questo  lo  amiamo.  "  Filosofo  „  lo  chiama  il  fratello  "  ma  non 
senza  un'umana  sensibilità  che  appariva  di  quando  in  quando 
sugli  occhi  suoi  „  3.  S' indovina  che,  a  differenza  del  fratello 
Carlo,  ebbe  le  carezze  e  gli  affetti  della  madre.  C  è  pure  in  lui 
la  coscienza  dell'  uomo  moderno,  del  nuovo  italiano.  C  è  pure 
un'  ombra  di  malinconia  ma,  quando  scrive,  è  beato  4.  Rispet- 
tiamo, come  dissi  ancora,  l' umile  felicità  di  Gasparo  Gozzi  : 
egli  creò  all'  Italia,  prima  del  Baretti  e  dell'  Alfieri,  la  prosa 
moderna.  Provatevi  un  po'  a  mettergli  da  vicino  gli  altri  scrit- 
tori! Fu  quello  il  suo  tesoro,  l'unico  che  gelosamente  serbasse 
per  tutta  la  vita,  fra  le  miserie  della  lotta  domestica,  nella  soli- 
tudine degli  ultimi  giorni.  Egli  ne  aveva  rapito  il  segreto,  con 
lo  studio  e  con  la  lettura,  ai  modelli  antichi  e  agli  autori  fran- 
cesi; e  lo  affidò  alle  nuove  generazioni. 

Quando  ebbe  sollevata  la  penna  dall'  ultimo  foglio  dell'Os- 
servatore^  nell'  agosto  del  1762,  solo  quattro  mesi  dopo  la  par- 
tenza del  Goldoni  per  la  Francia,  sentì  ch'era  finito  per  sempre 
il  periodo  della  sua  attività  letteraria.  Egli  accettò  dalla  patria 
un  modesto  ufficio  e  sopravvisse  ancora  24  anni,  logorando 
l'ingegno  più  per  gli  altri  che  per  se,  o  aspettando  la  morte. 
Così  scherzava,  nell'  82,  sui  novissimi  scrittori  :  "  Voi  avete  il 
vantaggio  che  in  un  fibro  moderno  imparate  l' inglese,  il  fran- 
cese, il  tedesco,  tutto  ad  un  tratto,  altre  alla  metafisica  e  a  tante 
altre  dottrine  che  sono  una  maraviglia  „.  Povero  vecchio  !  Cion- 
dolava, appoggiato  al  bastone,  per  le  vie  di  Padova  sulle  sue 
gambe  lunghe  e  stecchite,  tremando  se  mai  vedesse  avvicinarsi 
uno  di  quei  cento  professori  con  la  bocca  piena  di  latino.  *  E 
per  più  farmi  disperare  a  questi  dì  ho  veduto  sempre  gente  a 
correre,  chi  a  cavallo,  chi  a  piedi,  tutti  furia,  fretta,  cavalli,  lac- 

G.  Ortolani.  '  16 


242  COME   SORRIDE   IL   GOZZI 

che,  e  fino  le  femmine  per  tutte  le  strade  parevano  Atalante. 
Pensate  io,  pover'uomo,  che  figura  ho  fatta  per  le  strade,  an- 
dando quasi  zoppiconi,  o  il  più  il  più  come  la  statua  Calmon 
in  commedia  „.  Allude  alla  fiaba  deW  Auge l lino  Belverde.  I  me- 
dici poi  gli  incutevano  il  massimo  terrore:  "  Qui  ci  sono  più 
dottori  che  infermi...  La  popolazione  par  qui  piantata  non  da 
Antenore,  ma  da  Esculapio...  Manco  male  ch'io  sono  stato  sano 
come  un  pesce  „.  L'  umorismo  di  Gasparo  Gozzi  è  così.  Dalle 
beghe  di  quei  dotti  uomini  stava  pure  lontano.  "  Tutti  s'odiano 
come  cani  arrabbiati,  e  sono  veramente  una  repubblica  lette- 
raria „.  Cercava  la  solitudine:  "  Vo  visitando  campi,  orti,  sponde 
di  fiumi,  e  parlo  conigli  uccelli  del  cielo  „:  si  sentiva  ancora 
poeta.  Ritrovava  allora  la  gaiezza  degli  antichi  anni,  sorrideva 
come  un  bambino  5.  «  Se  credete  di  vincermi  colla  spaziosa 
grandezza  della  vostra  carta  „  comincia  una  lettera  "  v'ingan- 
nate. La  mia  è  una  vela,  ed  eccovene  il  saggio.  Pure  con  tutto 
questo  immenso  foglio  davanti  agli  occhi  miei,  non  mi  trovo 
cosa  da  scrivervi  „.  E  dopo  due  pagine  di  chiacchiere:  "  Foglio 
caro,  io  sono  stanco,  e  la  testa  mi  va  attorno  „. 

È  buono  il  Gozzi,  ha  un'  aria  trasognata  da  ragazzo  buono  : 
guardatelo  nel  ritratto  inciso  dal  Bartolozzi  che  la  figlia  Elena 
diceva  così  somigliante  che,  "  vedendolo,  le  pareva  di  toccarlo 
colle  proprie  mani  e  di  averlo  ad  essa  presente  „,  come  ricorda 
in  una  nota  inedita  il  Cicogna  ^.  Quante  volte  non  si  descrive 
egli  stesso?  "  E  voi  vedete  me  così  lungo  lungo,  un  po'  fatto 
in  arco  nelle  spalle,  con  le  braccia  fino  alle  ginocchia,  col  mio 
viso  intagliato,  malinconico,  taciturno,  incantato?,,?.  E  s'egli 
si  lagna  qualche  volta,  nelle  lettere  e  nei  sermoni  "  ^i  questa 
lunga  seccatura  del  vivere  „  e  si  paragona  a  Giobbe,  ascoltiamo 
fraternamente  i  suoi  dolori,  anzi  fissiamoli  bene  nella  memoria. 
Mentre  dai  più  giovani  lettori  si  ricercavano  con  amore  le  sue 
opere,  intorno  a  lui  cresceva  il  vuoto:  tutti  lo  abbandonavano 
ormai  s,  fuorché  i  malanni  9.  I  suoi  occhi  azzurri,  che  andavano 
spegnendosi,  vedevano  solo  due  immagini  care  aggirarsi  nel- 
l'ombra ^°:  quella  di  Sara  Cénet,  la  Francese  che  vangava  di  sua 
mano  l'orto  di  casa,  e  seminava  "  erbe  e  legumi  con  tanta  dili- 
genza che  pareva  che  ricamasse  „,  e  quella  della  bionda  Pro- 
ctir atessa  Dolfin  Tron. 

Chi  sono  queste  due  donne? 


AGGIUNTE  E  NOTE 


Ho  aggiunto  questo  Frammento  perchè  serve  a  compiere  il  ri- 
tratto di  Gasparo  Gozzi.  Siamo  tanto  abituati  a  ricercare  i  difetti  e  i 
^'  limiti  „  negli  scrittori,  quello  che  non  hanno  fatto  e  non  potevano 
fare,  che  spesso  lasciamo  nell'  ombra  quello  che  veramente  fecero 
e  quello  che  furono. 

^  Opere  del  Conte  Gasparo  Gozzi  Viniziano^  Padova,  1820,  voi.  XVI, 
pp.  121-122 

a  Opere,  1.  e,  p.  140. 

3  Carlo  Gozzi,  Memorie  inutili,  Bari,  1910,  voi.  I,  p.  105.  -  Rileg- 
giamo attentamente  questi  preziosi  accenni  del  mordace  conte  Carlo, 
se  vogliamo  conoscere  il  carattere,  sia  pur  nelle  tinte  caricato,  del  no- 
stro autore.  "  Mio  fratello  Gasparo  s'era  già  ammogliato  per  una  geniale 
astrazione  poetica.  Anche  la  poesia  ha  de'  pericoli.  Quest'  uomo  ve- 
ramente particolare  per  la  sommersione  che  fece  di  tutto  se  mede- 
simo sui  libri  e  nelle  indefesse  applicazioni  letterarie,  non  meno  che 
neir  essere  uno  di  que'  filosofi  che  si  possono  chiamare  persone 
indolenti  in  tutto  ciò  che  non  sente  di  letteratura,  apprese  da  Fran- 
cesco-Petrarca ad  innamorarsi  „  (p.  43).  Ricordiamo  i  savi  ammoni- 
menti di  Carlo  al  fratello,  dopo  la  morte  del  padre,  nel  consegnargli 
il  denaro  avuto  in  prestito  dall'  amico  di  Padova.  "  Egli  accolse  il 
danaio  ed  il  mio  discorso  come  un  uomo  che  ha  quel  buon  animo 
e  queir  intelletto  che  non  se  gli  può  negare.  Mi  disse  che  vedeva 
pur  troppo  la  necessità  di  porsi  alla  testa  d'  una  amministrazione 
disordinata,  per  riordinarla  con  una  maschia  costanza;  ...  ch'era  di- 
sposto ad  abbandonare  delle  applicazioni  non  intese  e  non  premiate 
in  Italia,  per  attendere  con  maturità  e  fermezza  a  regolare  e  ad  am- 
ministrare le  cose  domestiche  „.  Ma  questi  forti  propositi  sfumarono 
tosto  di  fronte  al  "  genio  faccendiere,  dominatore,  inquieto  ed  acceso 
della  di  lui  consorte  „  e  al  dèmone  della  poesia  (pp.  128-129).  Ve- 
diamo ancora  questo  quadretto,  dopo  che  Carlo  si  separò  dalla  fami- 
glia: "  Alle  mie  visite,  ingenue  e  cordiali  dal  canto  mio,  la  madre  mi 
chiedeva  qualche  piccola  somma  di  danaio  a  prestanza  con  sostenu- 
tezza materna...  La  cognata  si  sforzava  a  caricarmi  di  qualche  affettata 


246  COME    SORRIDE    IL    GOZZI 

adulazione.  Le  sorelle  mi  guardavano  con  occhio  di  vero  affetto,  ratte- 
nuto  da  non  so  qual  soggezione,  e  il  fratello  m'  accettava  come  un 
filosofo  che  non  si  cura  di  veder  nessuno  mal  volentieri  „  (p.  154).  - 
Ascoltiamo  pure  quella  lettera  accorata  di  Gasparo  alla  Tron,  nel  '71,^ 
eh' è  sfogo  e  confessione:  "  ...  Le  ricordo  solamente,  che  chi  vuole 
aiutar  me  ha  un'  impresa  difficilissima,  perchè  ha  da  contrastare  con 
una  mala  fortuna  incallita  d'anni  cinquantasette  e  dieci  mesi...  Quanta 
ho  di  buono,  è  un  poco  di  romanzesco  all'  animo...  La  storia  della 
mia  vita  è  lunga  ;  ho  veduto  in  essa  piìi  volte  aprirsi  la  via  a  qualche 
speranza:  poi,  buona  notte,  si  spense  il  lume.  Ognuno  da'  suoi  figliuoli 
attende  consolazione:  io  non  ne  aspetto,  benché  non  sieno  senza 
ingegno.  Ho  una  madre  erede,  che  pel  grande  amore  per  me  non 
ha  voluto  abbandonarmi  mai,  e  si  dispera  se  ho  un  callo  ;  poi  dà  ad 
altri,  e  crede,  anzi  dice  che  dà  tutto  a  me...  Ho  anche  qualcosa  che 
mi  conforta:  una  pazienza  datami  da  natura,  che  mi  rende  un  pila- 
stro ;  un  aver  veduto  mille  volte  passar  le  disgrazie  eh'  io  credea 
dovessero  durar  eterne;  un  sapere  di  far  tutto  quel  che  posso,  per 
stare  quieto  di  coscienza;  e  finalmente  un  conoscere  che  il  mondo 
dee  andare  come  va,  e  eh'  io  non  sono  uomo  da  farlo  voltare  „ 
{Opere,  voi.  XVI  cit.,  pp.  195-196). 

4  "  Quello  stesso  correre  che  pur  fea  al  calamaio  con  la  mano 
e  alla  penna  „  dice  il  Pindemonte  "  sempre  che  alcuna  cosa  gli 
avvenia  di  traverso,  era  una  spezie  di  forza  „.  E  soggiunge:  "  Di 
natura  lieta  e  querula  insieme,  esagerava  nelle  sue  scritture  i  suoi 
mali  forse  anco  per  questo,  eh'  ei  sapea  lamentarsi  con  grazia  „  : 
Elogi  di  letterati  italiani  scritti  da  Ippolito  Pindemonte,  Firenze,  Bar- 
bera, 1859,  p.  406. 

5  «  Mio  fratello  eh'  era  d' un  genio  lepido  anche  con  la  febbre  „ 
dice  Carlo:  Memorie  inutili  ed.  cit.,  I,  105.  -  E  lo  Zendrini  diceva 
al  Pindemonte  "  che  il  Gozzi  avea  le  piìi  volte  una  faccia  severa  e 
ridente,  che  il  suo  umore  traea  sempre  al  gaio  ed  al  motteggevole, 
e  che  r  udirlo  parlare  tornava  presso  che  allo  stesso,  che  il  leggerlo  „  : 
1.  e,  p.  406. 

6  Trovasi  in  un  volume  di  ritratti  della  Raccolta  Cicogna  presso 
il  Museo  Correr. 

7  Opere  di  G.  Gozzi  con  note  di  N.  Tommaseo,  Firenze,  Le  Mon- 
nier,  voi.  Ili,  p.  365  (da  una  lettera  a  Marco  Forcellini).  -  "  Chi  da 
vicino  il  conobbe,  cel  rappresenta  d'alta  statura,  magro  e  pallido  in 
volto,  pensieroso  il  piiì,  e  melanconico.  Nondimeno  ebbe  sempre, 
com'  egli  stesso  dicea,  un  certo  risolino  interno  che  mantenevalo  in 
vita,  e  per  cui  nelle  gentili  brigate  dava  in  motti  salsi  a  quando  a 
quando  e  faceti  „:  Pindemonte,  1.  e,  p.  402. 

8  "  Ho  tre  figliuole,  un  figliuolo,  qualche  sorella,  più  generi,  un 
nipote  e  molti  conoscenti:  non  vedo  due  righe  „:  così  lamentavasi 
nel  dicembre  dell' 82.  Opere,  1.  e,  p.  168. 


COME   SORRIDE    IL   GOZZI  247 

9  "  ...  La  sanità  sua,  massime  negli  anni  ultimi,  non  era  mai 
ferma.  Quando  alcuno,  come  state?  gli  domandava,  un  sospiro  e 
un'  alzata  d'  occhi  al  cielo,  eran  la  sua  risposta  „  :  Pindemonte,  1.  e, 
p.  402. 

»°  Ricordo  un  bello  e  arguto  scritto  di  Renato  Simoni,  Un 
giornalista  e  quattro  donne  nel  settecento',  numero  straordinario  della 
Gazzetta  di  Venezia  nel  secondo  centenario  della  nascita  di  G. 
Gozzi. 


V  AMORE  DI  GIUSTINIANA  WYNNE 


Riccardo  Wynne,  di  antica  e  nobile  famiglia  inglese,  mor- 
tagli la  moglie,  venne  a  Venezia  nel  1735,  in  cerca  di  svago. 
Qui  si  innamorò  di  una  giovane  greca  delle  isole  ionie,  e  ne 
ebbe  nel  gennaio  del  '37  una  figlia:  Giustiniana.  Legittimò  la 
sua  unione  e  il  frutto  dell'amore;  e  a  Venezia  morì  nel  '51, 
convertito  alla  fede  cattolica  '.  Anna  Wynne,  rimasta  vedova, 
si  recò  a  Londra,  per  difendere  dalla  cupidigia  de'  parenti  i 
beni  ereditati,  traendosi  dietro  Giustiniana  e  i  quattro  figliuoli 
minori,  due  maschi  e  due  femmine.  Tornarono  presto  a  Venezia 
e  abitarono  al  traghetto  della  Madonnetta,  vicino  al  palazzo 
Tiepolo,  ora  Papadopoli.  Fra  i  quindici  e  i  diciott'  anni  fiorì  la 
mirabile  bellezza  di  Giustiniana:  la  ricca  e  nera  capigliatura 
dominava  il  volto  di  pura  perfezione  greca,  ora  illuminato  da 
quella  grazia  tutta  dolce  e  voluttuosa  della  donna  veneziana  del 
Settecento,  ora  percorso  da  un'  ombra  di  nostalgia  nordica  che 
turbava  1'  anima  sensuale  e  romantica  della  strana  fanciulla.  Il 
linguaggio  inglese  che  le  era  familiare,  le  molte  letture  francesi^ 
i  ricordi  incantevoli  di  Parigi  e  di  Londra,  l'intelligenza,  la  vi- 
vacità accrescevano  il  suo  fascino.  Frequentava,  in  compagnia 
della  madre,  il  palazzo  del  console  inglese  Giuseppe  Smith  sul 
Canal  Grande,  ai  SS.  Apostoli,  insigne  per  le  rare  collezioni 
d'arte.  Questo  dovizioso  mercante  a  cui  il  Goldoni  dedicò  nel 
'57  una  delle  sue  commedie  (//  Filosofo  Inglese)  e  il  Canaletto 
il  libro  delle  sue  Vedute  o  acqueforti,  trafficava  in  Inghilterra 
con  ingente  guadagno  sulle  tele  e  sulle  stampe  dei  pittori  e 
incisori  veneziani,^  e  impiegò  alcune  somme  nelle  famose  edi- 
zioni della  tipografia  Pasquali  ^.  In  casa  dello  Smith,  nel  '53, 
conobbe  Giustiniana  il  giovane  patrizio  Andrea  Memmo  3,  e  tale 
incontro  le  riuscì  fatale  per  tutta  la  vita.  -  Uno  studioso  intel- 
ligente,  appassionato  e  fortunato    della   storia   del    teatro   e  del 


252  L   AMORE   DI   GIUSTINIANA   WYNNE 

Settecento  veneziano,  Bruno  Brunelli,  scoperse  di  recente  nella 
biblioteca  del  Museo  Civico  di  Padova  due  volumetti  di  lettere 
di  Giustiniana  ad  Andrea,  raccolte  da  un  anonimo  copista  forse 
con  l'intenzione  di  darle  alla  stampa;  e  intessendo  sul  prezioso 
epistolario  il  racconto  di  quell'  amore  lontano,  ne  formò  uno 
dei  libri  più  belli  e  più  originali  della  bella  Collezione  Settecen- 
tesca, diretta  da  Salvatore  di  Giacomo  4.  Non  romanzo,  ma  vita 
vissuta,  vero  dramma  d'amore,  con  i  suoi  deliri,  con  le  sue 
lacrime,  con  le  sue  vergogne,  di  un'  infinita  tristezza  umana. 

J^e  lettere  cominciano  nel  '56,  quando  la  passione  era  già 
grande,  ingigantita  dagli  ostacoli.  Fra  i  due  giovani  esistevano 
differenze  religiose  e  sociali  insuperabili  5.  Il  discendente  dei 
Memmi,  tre  volte  incoronati  dell'  aureo  corno  dogale,  come  dice 
il  Goldoni  nella  dedica  ai  fratelli  Andrea  e  Bernardo  dtWUomo 
di  mondo',  il  nipote  di  quell'Andrea  che  bailo  a  Costantinopoli 
e  chiuso  "  in  carcere  nelle  Sette  Torri,  esigeva  stima  e  rispetto 
sino  dai  Ministri  Ottomani  „,  non  poteva  sposare  una  fanciulla 
di  fede  anglicana,  figlia  di  un  semplice  baronetto  e  di  una  greca. 
La  signora  Wynne  impedi  al  Memmo  le  visite  e  tenne  Giusti- 
niana sotto  la  più  severa  custodia;  ma  era  troppo  tardi.  Quale 
tormento  per  i  due  innamorati,  costretti  a  vedersi  di  sfuggita, 
da  un  balcone  o  da  una  gondola,  ed  a  sfogare  in  lettere  furtive 
i  propri  lamenti  !  L' anima  di  Giustiniana  si  scioglie  d'  amore  ; 
essa  è  pronta  a  tutti  i  sacrifici,  ha  perduto  la  sua  vivacità,  il 
suo  orgoglio,  la  sua  civetteria  femminile.  Trova  quasi  un  godi- 
mento nel  confessare  la  propria  debolezza:  "  Dimmi,  Memmo, 
sei  interamente  di  me  contento?  posso  obbligarti  ancor  di  più? 
Vorresti  qualche  riforma  nel  mio  contegno,  nel  mio  modo  di 
vivere?  Parla:  farò  tutto  quel  che  vorrai...  Non  avrei  mai  cre- 
duto, che  si  potesse  amare  colla  violenza  colla  quale  t' amo. 
Tutto  è  in  me  eccesso.  La  coqiietterie  faceva  tutto  il  mio  diver- 
timento, e  mi  tenea  forse  luogo  d'  una  passione  reale.  Ora  appena 
son  capace  di  esprimere  alle  persone  le  più  semplici  politesses'. 
tutto  m' annoia,  tutto  m' infastidisce.  Tutti  mi  dicono  che  son 
divenuta  stupida,  sciocca,  e  che  non  son  più  buona  per  tratte- 
nere alcuna  compagnia:  me  ne  accorgo  anch'io:  e  non  ci  penso 
niente  affatto  „.  È  molto  dimagrita,  soffre,  ma  quale  felicità  sa- 
persi amata  dal  Memmo!  "  Dimmi  tutto  ciò  che  per  me  senti, 
ed  anche  aggiungi  qualche  cosa  alla  verità,  se  vuoi,  che  nel  mio 
caso  presente  per  rasserenarmi  te  lo  permetto.  Non  posso  più. 
Che  rabbia,  che  dolore,  che  passione  eccessiva  I  „. 


L    AMORE    DI    GIUSTINIANA   WYNNE  253 

Un  giorno  i  due  innamorati  poterono  furtivamente  incon- 
trarsi e  camminare  l' uno  accanto  all'  altro,  parlando  d'  amore. 
"  Che  soavità  è  mai  1' essere  teco!  Dio  santo!  „  grida  con  tutta 
l'anima  la  fanciulla.  "  Eh  che  lo  vedi,  eh  che  sai  che  m'incanti, 
che  son  fuori  di  me  affatto  „.  Ma  spesso  la  pungeva  la  gelosia. 
Tutti  si  meravigliavano  come  Giustiniana  avesse  potuto  strin- 
gere a  sé  il  giovane  idoleggiato  dalle  dame  per  la  sua  bellezza 
e  la  sua  eleganza,  ricercato  dagli  uomini  per  la  sua  intelligenza^ 
per  la  sua  coltura,  per  il  suo  spirito,  amantissimo  dei  piaceri, 
leggero,  volubile,  insaziabile  nelle  follie  amorose:  il  suo  "  caro 
matto  „,  come  lo  chiamava  ella  stessa.  È  gelosa,  ma  lo  ama 
tanto.  "  Oh  lasciati  oggi  vedere  a  Ca'  Tiepolo,  e  spesso  per 
Canale,  e  scrivimi  assai...  Addio,  méchant...  Lascia  che  ti  dica 
con  tutta  la  mia  rabbia  che  sei  l'anima  mia,  che  t'adoro.  Addio  „^ 

La  corrispondenza  riprende  più  viva  che  mai  durante  la 
villeggiatura  al  Dolo.  Il  Memmo  è  a  Padova,  e  per  qualche 
tempo  fu  anche  ospite  dello  Smith,  nella  famosa  villa  di  Mo- 
gliano.  La  famiglia  Wynne  trovasi  nella  villa  "  delle  Scalette  „. 
poco  lontano  dai  Renier  e  dai  Mocenigo.  Giustiniana  scrive  al 
suo  amore  lontano;  "  Se  sapessi  come  adesso  ti  scrivo!  par 
impossibile.  Sono  in  uno  stanzino  sopra  la  loggetta,  ove  mia 
Madre  è  seduta.  Per  non  darle  sospetto,  canto,  e  suono,  e  quasi 
ad  ogni  minuto  m'  affaccio  alla  finestra.  Che  vita,  Memmo,  è  mai 
questa!  „.  Essa  grida  in  frasi  scomposte  e  ardenti  la  sua  pas- 
sione: "  Addio,  mio  Memmo,  mio  tutto  :  amami  all'eccesso;  son 
tutta  tua,  e  ti  sono  lontana;  e  non  ho  altro  bene  che  'l  mio 
Memmo,  e  siam  liberi,  e  sono  1'  anima  sua,  e  viviamo  in  questa 
situazione!...  Addio,  mio  Memmo,  anima  mia,  non  posso  lasciarti. 
Oh  Dio,  amami  assai.  Oh  Dio!  che  miseria,  Memmo!  „.  La  bel- 
lissima fanciulla  passeggia  sola  per  il  giardino,  parlando  al  ri- 
tratto del  Memmo  che  stringe  fra  le  mani  gelosamente.  Pare 
una  scena  del  teatro  di  Marivaux  o  dei  romanzi  di  Prevosti 
Di  notte  dorme  poco:  "  lo  strepito  delle  carrozze,  al  quale  non 
era  avvezza  „  interrompe  i  suoi  sonni.  "  Mi  sono  piìi  volte 
sognata  teco  „  scrive  ad  Andrea.  Neil'  alzarsi  da  tavola,  una 
persona  amica  le  fa  scivolare  nelle  mani  una  lettera  dai  carat- 
teri noti  :  Giustiniana  si  ritira  per  beverne  e  assaporarne,  parola 
per  parola,  l' ineffabile  dolcezza.  Poi  racconta  al  Memmo,  in 
francese:  "  J' étois  nonchalamment  couchée  sur  un  lit,  tenant 
d'  une  main  cette  lettre,  et  de  1'  autre  ton  portrait.  Je  lisois  et 
rehsois  avidement  1'  une,  et  je   quittois   des  momens   ce  plaisir 


254  L   AMORE   DI   GIUSTINIANA   WYNNE 

pour  avoir  V  autre  de  te  regarder.  Je  serrois  après  l' une  et 
r  autre  contre  mon  sein,  et  des  transports  de  tendresse  succe- 
doient  à  cela.  Così  a  poco  a  poco  m'addormentai...  „.  Oh  Wat- 
teau!  oh  Fragonard  !  oh  Settecento! 

Andrea  viene  finalmente  al  Dolo,  nella  prossima  villa  dei 
Tiepolo:  Giustiniana  Io  vede  più  volte  ripassare  dal  cancello 
del  giardino,  ha  con  lui  più  di  un  colloquio,  commette  molte 
imprudenze  fin  che  le  sorelle  stesse  la  rimproverano,  e  più 
acerbamente  la  zia.  Ella  stessa  si  vergogna  della  propria  debo- 
lezza confessandosi  al  Memmo  :  "  Per  carità  non  mi  disprezzare. 
Mi  vergogno  a  dirlo,  ma  sento  che  merito  piuttosto  la  tua  pietà, 
che  ogni  altra  cosa.  E  tu  m'hai  detto  stassera  che  son  troppo 
debole,  sai?  Che  ho  a  far  dunque,  s' anche  a  te  sembro  tale? 
Oh  Dio,  Memmo,  s' io  son  fuor  di  me,  perchè  non  vuoi  compa- 
tirmi? Santissimo  Dio,  aiutami.  Ma  che  sarà  di  noi?  Che  sarà 
di  me?  Io  tremo,  Memmo,  che  '1  mio  troppo  amore  non  t'infa- 
stidisca. Non  ho  altro  che  te,  e  non  ne  posso  più.  Ma  come  mai 
son  io  divenuta  pazza  a  questo  segno?  Per  pietà,  Memmo,  scusa 
in  me  la  tua  propria  colpa  „. 

Per  fortuna  Andrea  è  chiamato  a  Venezia  per  la  malattia 
d'una  sorella,  ma  torna  presto.  Giustiniana  non  sa  più  conte- 
nersi, vibra  tutta,  anima  e  corpo,  come  le  donne  di  Racine  e 
di  Prévost.  "  S' io  non  divento  pazza  dall'  eccesso  del  piacere, 
della  gioia,  è  veramente  un  miracolo.  Tutto,  tutto  sento  con 
troppo  eccesso  „.  Le  sue  parole  traboccano  d^  amore,  mentre  la 
penna  scorre  sul  foglio  furtivo.  "  Addio,  son  chiamata  a  pranzo, 
e  credon  eh'  io  dorma.  Che  dolce  sonno  !  Addio,  mio  tutto,  addio, 
anima  mia.  Amami  assai,  assai  „.  Altra  volta,  per  mandare  un 
rigo,  osservata  e  spiata  com'  è  da  tutti,  ricorre  a  un'  astuzia 
degna  d'un' eroina  dei  romanzi  del  Chiari.  "  Come  vivere,  Dio 
mio,  in  questo  modo?  Adesso  trovomi  in  una  casa  di  contadini, 
dove  mi  sono  ritirata  fingendo  qualche  necessità.  Avendo  meco 
il  bisogno,  ti  scrivo  due  righe...  E  tu,  anima  mia,  come  mi  scri- 
verai? Oh  Dio,  non  ne  posso  più.  Amami  assai,  mio  Memmo, 
per  nostro  maggior  delirio.  Addio  „. 

Della  Giustiniana  frattanto  erasi  invaghito  senilmente  il  con- 
sole Smith,  che  la  signora  Wynne  accoglieva  con  mille  sorrisi. 
La  fanciulla,  forse  compiacendosi,  ne  rideva  con  la  fresca  ilarità 
dei  suoi  vent'  anni,  e  raccontava  al  Memmo  :  "  Non  ho  in  vita 
mia  veduto  Smith  più  ragazzo  di  ieri.  Oltre  all'  avermi  fatta 
camminar  tutta  la   mattina   per   1'  orto,  e  all'  aver   fatte  le  scale 


L    AMORE    DI    GIUSTINIANA   WYNNE  255 

saltellando,  volle  darne  anche  un'  altra  prova  della  sua  agilità 
e  forza  „  lanciando  lontano  delle  pietre.  La  prova  gli  fallì,  ma 
"  a  tavola  mi  fece  molte  attenzioni,  e  mangiò  più  volte  la  metà 
di  ciò  ch'io  aveva  preso  „.  La  signora  Anna  ch'era  molto  de- 
vota e  rispettosa  della  morale,  una  morale  tutta  propria  del 
Settecento,  s' intende,  chiamò  la  figlia  e  per  vincerne  le  resi- 
stenze le  impartì  questa  bella  lezione:  "  Via,  figliuola,  datti 
coraggio.  Comprendo  il  tuo  dolore  nel  dover  perder  un  uomo 
che  adori...  Se  1'  ami,  non  vorrai  per  certo  né  la  rovina  sua,  né 
quella  de'  suoi  figliuoli.  Maritati,  e  poi  continua  un'  amicizia, 
che  così  t' é  cara  „.  Che  più?  Lo  stesso  Memmo  le  consiglia  il 
matrimonio  con  lo  Smith  o  con  altri,  e  mette  la  disperazione 
nel  cuore  della  fanciulla.  Fortunatamente  lo  Smith  ha  capito 
troppo,  e  scompare:  sposava  poco  dopo  un'altra  donna. 

Al  Dolo,  Giustiniana  erasi  confidata  con  l'abate  Marcellotto, 
maestro  dei  suoi  fratelli:  l'amico  del  Baretti  e  dei  Gozzi,  uomo 
dabbene  di  cui  ci  parla  Antonio  Longo  nel  quarto  capitolo  delle 
Memorie)  anzi  lo  aveva  commosso  a  segno  da  fargli  portare 
più  di  una  lettera  in  segreto  al  luogo  convenuto;  ma  il  buon 
abate  sollevava  gli  occhi  e  le  mani  al  cielo,  e  trovò  alfine  la 
forza  di  resistere  alle  preghiere  e  al  bel  pianto  della  fanciulla. 
Del  resto  poco  importava  ormai.  Finita  la  villeggiatura,  rientrata 
la  famiglia  Wynne  a  Venezia,  anche  il  Memmo,  stanco  delle 
difficoltà  e  travolto  da  nuovi  svaghi,  consigliava  la  prudenza  a 
Giustiniana  che  ne  fu  crudelmente  ferita;  e  cessò  ad  un  tratto 
la  corrispondenza  dei  due  innamorati.  Quando  fu  ripresa?  L'esa- 
sperazione della  lunga  lotta,  le  smanie  della  gelosia,  la  gioia 
della  riconquista  avevano  questa  volta  stremato  del  tutto  1'  ap- 
passionata anima  di  Giustiniana.  Ella  si  abbandonò  con  trasporto: 
quando  poco  dopo,  verso  1'  ottobre  del  '58,  partiva  con  la  fami- 
glia per  Londra,  s'  accorse  di  essere  madre. 

Del  soggiorno  parigino  preferirei  non  parlare.  A  Parigi  la 
signora  Wynne  si  trattenne  molti  mesi,  godendo  dell'ammira- 
zione che  suscitavano  le  sue  figlie  nei  passeggi  pubblici  e  nei 
teatri.  Giustiniana  si  vide  corteggiata  dal  principe  Dolgoruki,  dal 
principe  Galitzine,  dal  bali  Giuseppe  Farsetti,  elegante  poeta 
latino,  dal  famoso  appaltatore  generale  La  Poupliniére.  Anna 
Wynne  prediligeva  naturalmente  quest'  ultimo  per  le  sue  grandi 
ricchezze,  benché  non  contasse  meno  di  sessantasei  anni.  Qui 
entra  in  scena  Giacomo  Casanova.  Ci  sono  fra  gli  uomini  certe 
nobili  nature  così  privilegiate  che  chiunque    può  avvicinarle,  si 


256  l'  amore  di  giustiniana  wynne 

sente  migliore;  altri  all'incontro  spandono  intorno  a  sé  vizio  e 
veleno,  e  insozzano  tutto  quello  che  toccano.  Il  Casanova,  do- 
vunque passa,  lascia  il  fango  della  propria  anima.  Checché  sia 
dello  sconcio  episodio  raccontato  nelle  Memorie  ^,  dopo  eh'  erano 
scomparsi  la  Wynne  e  il  Memmo,  è  certo  che  Giustiniana  non 
ha  mai  amato  il  Casanova:  ella  si  rivolse  all'eroe  della  fuga 
dai  Piombi  e  di  tante  losche  avventure  per  far  scomparire  in 
silenzio  il  misero  frutto  del  suo  amore.  Il  segreto  mal  confidato 
trapelò  e  dilagò  nel  pubblico  ozioso  della  capitale,  se  ne  occupò 
la  polizia,  seguirono  processi,  corsero  infami  voci  fino  sulle 
lagune  veneziane,  il  vecchio  La  Pouplinière  sposò  in  fretta  altra 
donna:  Giustiniana  partiva  con  la  famiglia  da  Parigi  nel  luglio 
del  '59,  resa  ancor  più  bella  dai  patimenti  nel  pieno  fiore  dei 
ventidue  anni,  ma  segnata  per  sempre  nell'  anima  dal  solco  ver- 
gognoso dello  scandalo  parigino.  Come  visse  e  dove  finì  il  figlio 
di  Giustiniana  Wynne  e  di  Andrea  Memmo? 

Intanto  continuava  la  corrispondenza  epistolare  dei  due 
amanti.  Giustiniana  non  rivelò  mai  al  Memmo  il  segreto  della 
maternità,  anzi  cercò  di  allontanare  da  lui  ogni  sospetto:  pure 
capiva  che  quell'  uomo  sensuale  non  1'  amava  più,  né  tentò  di 
chiamarlo  ancora  a  sé,  come  non  ne  fosse  degna:  lo  diceva  il 
suo  amico,  il  suo  filosofo,  il  suo  fratello.  Da  Bruxelles  gli  rac- 
contava le  sue  nuove  conquiste,  forse  per  pungerne  la  gelosia: 
credette,  ma  invano,  di  potersi  innamorare  del  giovane  conte 
di  Lanoy,  ch'era  al  seguito  del  principe  Carlo  di  Lorena:  "  L'in- 
finita mia  vivacità,  il  mio  modo  di  muovermi,  l' air  de  petite 
Maitresse,  che  ho  adottato  per  divertirmi,  fece  che  egli  mi  rimar- 
casse „.  Era  curiosa  di  conoscere,  forse  per  suo  tormento,  i 
nuovi  amori  di  Andrea.  "  Se  puoi,  amami;  ma  dimmi  chi  ti 
occupa  adesso.  Voglio  saperlo  col  nome  e  col  cognome,  com'io 
fo  „.  Tuttavia  mentre  cercava,  come  il  suo  filosofo,  di  stordirsi 
e  di  illudersi  in  nuovi  svaghi,  finiva  per  confessare  la  propria 
impotenza  in  un  grido  di  sincerità  femminile:  "  ...  Perché  t'amo 
ancora  orribilmente,  e  sembrami  che  tu  possa  rimproverarmi,  e 
quasi  perder  la  stima  che  hai  per  me  „. 

A  Londra  finalmente  s' innamorò,  come  credette,  del  barone 
di  Robinson,  ventottenne,  uomo,  si  direbbe,  di  moda,  idolo  delle 
donne  e  della  Corte;  e  confidò  ancora  al  Memmo  la  propria 
debolezza.  Più  volte,  leggendo  con  avidità  i  primi  capitoli  del 
Brunelli,  mi  tornarono  alla  mente  le  Lettere  amorose  di  messer 


l'  amore  di  giustiniana  wynne  257 

Alvise  Pasqualigo,  libro  strano  e  suggestivo  del  Cinquecento 
veneziano  :  qui  bisogna  pensare  a  qualche  triste  pagina  di  Laclos. 
Il  Memnio,  eh*  era  più  che  mai  1'  "  amante  di  tutte  „  benché  sazio 
di  tutte,  chiede  a  Giustiniana  quale  di  tre  amiche  deva  per  prima 
sedurre;  e  Giustiniana  gli  consiglia  apertamente  la  M.,  forse 
Maria  Teresa  Dolfin,  come  sospetta  il  Brunelli,  moglie  di  Marco 
Antonio  Zorzi,  il  gentile  poeta  vernacolo  a  cui  Goldoni  dedicò 
i  Pettegolezzi  delle  donne.  La  relazione  di  Giustiniana  col  Ro- 
binson non  dovette  essere  innocente;  il  nuovo  impegno  del 
Memmo  con  la  M.  diventò  serio.  Neil'  ottobre  del  1760  la  fami- 
glia Wynne,  lasciata  Londra,  si  trovava  di  nuovo  in  Italia  e  il 
cuore  di  Giustiniana  ebbe  un  doloroso  ritorno  all'  antico  amore 
e  alla  felicità  distrutta  per  sempre.  Da  Milano  mandò  un  saluto 
al  Memmo  che  incomincia:  "  Mon  cher  Frère.  Non  v'ho  scritto 
né  a  Parigi,  né  a  Torino,  perché  senz'avvedermi  m'era  entrata 
fantasia  che  mi  sareste  venuto  incontro  „.  E  da  Padova:  "  Lodo, 
ammiro  la  vostra  gratitudine,  la  vostra  amicizia,  il  vostro  impe- 
gno per  r  amabile  M.  e  devo  essere  la  prima  ad  applaudirlo... 
Il  sagrifìzio  che  le  faceste  nel  non  venire  a  vedermi,  mi  di- 
spiacque. Ora  vi  giuro,  che  ho  anch'  io  l' animo  grande  per 
poter  farle  dono  di  questo  mio  dispiacere  stesso  „.  Quale  occulta 
lacrima  in  questo  dono! 

Io  credo  che  Giustiniana  rivedesse  con  amara  tristezza  la 
città  dov'  era  nata.  Ogni  innocenza,  ogni  sogno,  ogni  amore  erano 
finiti  per  sempre  :  Giustiniana  non  viveva  più  7.  Pochi  mesi  dopo, 
si  univa  in  matrimonio  col  conte  Filippo  Orsini  di  Rosenberg, 
ambasciatore  cesareo  presso  la  repubblica  di  S.  Marco,  vecchio 
dissoluto,  quasi  settantenne,  che  nel  '65  la  lasciò  vedova.  La 
nuova  contessa  di  Rosenberg  passò  a  Klagenfurt  quattro  anni 
ancora,  tornò  poi  a  Venezia  dove  brillò  per  qualche  tempo, 
s' ingolfò  nel  gioco  e  nei  debiti,  si  ritirò  nella  villa  di  Altichiero 
dell'  amico  senatore  Angelo  Querini,  a  scrivere  in  francese  certi 
frammenti  mor^  suggeriti  da  antichi  ricordi,  una  novella  sulla 
regata  veneziana,  un  romanzo  sui  Morlacchi  8;  ebbe  a  Padova 
un  salotto  frequentato  dal  Cesarotti,  dal  Sibiliato,  dal  cav.  Zulian, 
dal  Toaldo,  dallo  Stratico  9:  ma  l'amico  e  compagno  dei  suoi 
ultimi  anni  fu  il  conte  Benincasa,  confidente  degli  Inquisitori.  Il 
Memmo  pure  erasi  sposato,  ma  prima  del  matrimonio,  e  dopo, 
lo  tenne  avvinto  per  venticinque  anni  col  fascino  della  sua  incan- 
tevole   bellezza    Contarina    Barbarigo.   Assunto   alle   cariche   di 

G.  Ortolani  17 


25B  l'  amore  di  giustiniana  wynne 

ambasciatore  e  di  Procuratore,  in  mezzo  alle  cure  della  politica, 
non  tralasciò  nella  più  tarda  età  i  piaceri  della  tavola,  gli  studi 
dell'arte  e  i  bassi  intrighi  donneschi  ^°;  e  morendo  nel  1793, 
due  anni  dopo  della  donna  che  gli  aveva  fatto  il  vano  dono 
della  sua  giovinezza  e  di  tutta  1'  esistenza,  non  riconobbe  forse 
mai  il  sacrificio  che  un  pugno  di  lettere,  sepolte  in  un  archivio, 
ci  ha  d' improvviso  rivelato. 


AGGIUNTE  E  NOTE 


*  Abitava  nella  Contrada  di  Santa  Sofia:  Notatorj  Gradenigo, 
25  aprile  1751. 

2  Per  più  di  venti  anni,  dal  '39  al  '60  Giuseppe  Smith  fu  con- 
sole d' Inghilterra  a  Venezia.  Nella  lettera  dei  28  gennaio  1756  Ga- 
sparo Gozzi  descrive  al  compare  Màstraca  i  pomposi  funerali  della 
prima  moglie  dello  Smith.  Scherza  lady  Wortley  Montagu  in  una 
lettera  dei  13  maggio  '58  da  Venezia  alla  contessa  di  Bute  sul  recente 
matrimonio  del  vedovo  console  (eh'  essa  stimava  poco)  con  la  sorella 
del  residente  Murray  ;  e  gli  attribuisce  1'  età  di  82  anni.  Leggo  questa 
notizia  nei  Notatorj  Gradenigo,  in  data  2  novembre  1761:  "  Il  Sig. 
Giorgio  [?]  Smith  Inglese,  dopo  assai  lungo  soggiorno  in  Venezia, 
dove  eresse  sopra  Canal  Grande  nella  Contrada  de'  SS.  Apostoli 
bella  Casa  di  soggiorno,  e  degna  del  già  sostenuto  Consolato  per  la 
Nazione  Britannica,  viene  in  oggi  a  disfarsene  coli' esitare  Stamperia, 
Libreria  ed  altre  rarità  pregevoli,  di  cui  ne  andò  sempre  avidamente 
al  possesso;  e  ciò  con  indizio  di  andarsene  a  Londra,  sebben  giunto 
a  grave  età  „.  Morì  nel  1770  e  fu  sepolto  nel  Cimitero  degli  Inglesi 
al  Lido,  accanto  alla  prima  moglie  (v.  anche  Goethe,  Viaggio  in  Italia, 
8  ottobre  1786).  L' iscrizione  dice  :  "  losepho  Smith  j  apud  rempu- 
blicam  Venetam  |  consuli  Britannico  |  optimo  coniugi  |  memoriae  ergo 
I  M.  P.  I  Eliza:  Murray  |  MDCCLXX  „  (dalle  Inscrizioni  inedite  del 
Cicogna,  presso  il  Civico  Museo  Correr:  cortese  comunicazione  del- 
l' amico  Ricciotti  Bratti).  I  suoi  libri  andarono  in  parte  dispersi,  ven- 
duti dalla  vedova  (G.  Gozzi,  Opere  per  cura  di  N.  Tommaseo,  voi.  II, 
p.  270):  quelli  più  preziosi,  insieme  con  le  stampe,  coi  cammei,  coi 
quadri  passarono  in  Inghilterra,  nel  castello  reale  di  Windsor  (Mo- 
schini.  Della  letteratura  veneziana,  t.  III,  p.  51).  I  viaggiatori  De  Brosses 
e  Grosley  ammirarono  le  raccolte  dello  Smith.  Nel  1749  il  Pasquali 
pubblicò  la  Descrizione  de'  cartoni  disegnati  da  C.  Cignani  e  de'  quadri 
dipinti  da  S.  Ricci  posseduta  da  G.  Smith  console  di  Gran  Brettagna 
a  Venezia,  con  la  Vita  dei  due  ;  e  nel  '55  la  Bibliotheca  Smithiana  seu 
Catalogus  librorum  D.  Josephi  Smithii  Angli  etc.  Nel  suo  Saggio  di 
bibliografia  veneziana  (1847)  il   Cicogna  ricorda  pure  il  Catalogo  de* 


202  l'  amore  di  giustiniana  wynne 

libri  raccolti  da  fu  Sig.  G.  Smith  e  pulitamente  legati  (Venezia,  177 1) 
e  la  Dactyliotheca  Smithiana  (Venezia,  1767)  di  Francesco  Gori.  Vedi 
un  breve  cenno  nella  Nota  storica  del  Filosofo  Inglese,  in  Opere  com- 
plete di  C.  Goldoni  per  cura  del  Municipio  di  Venezia,  voi.  X. 

3  Un  maestro  di  storia  veneziana,  il  Molmenti,  delineò  con  arte 
vivace  la  figura  di  Andrea  Memmo,  nato  a  Venezia  ai  29  marzo  del 
1729  (v.  Un  Nobil  Uomo  Veneziano  del  secolo  XVIII,  in  Epistolari 
Veneziani  del  secolo  XVIII :  Collezione  Settecentesca  Sandron,  1914), 
che  fu  Savio  e  Bailo,  e  Senatore,  e  Cavaliere,  e  Procuratore  di  San 
Marco.  Tipo  caratteristico  di  patrizio  veneziano,  ricco  di  salute,  d' in- 
gegno e  di  sensualità,  congiungeva  in  lietissimo  accordo  l' amore 
della  tavola,  delle  donne,  dell'arte  e  della  politica.  Lo  vediamo  stu- 
diare architettura  col  padre  Lodoli,  porgere  la  Scozzese  del.  Voltaire 
al  Goldoni  {Mémoires,  P.  II,  eh.  44),  che  aveva  dedicato  a  lui  e  al 
fratello  Bernardo  il  Momolo  cortesan  (  ossia  1'  Uomo  di  mondo),  par- 
lare col  Casanova  di  Franchi  Muratori  e  di  oscene  imprese,  discutere 
di  oggetti  politici  con  V  imperatore  Giuseppe  II  e  col  granduca  Leo- 
poldo. Di  lui  ci  resta  un'  insigne  opera  d'  arte,  che  durante  il  reggi- 
mento di  Padova  (1775-1777)  riuscì  a  compiere  in  parte  la  trasforma- 
zione dell'  antico  e  paludoso  Prato  della  Valle  in  un  delizioso  recinto, 
abbellito  d'un  canale,  di  ponti  e  di  statue  (v.  fra  gli  altri  la  Descri- 
zione della  general  idea  concepita  ed  in  gran  parte  effettuata  dalVEcc.^^^ 
Signore  Andrea  Memmo  ecc.  estesa  da  D.  Vincenzio  Radicchio  Vene- 
ziano, Roma,  1786).  Dieci  anni  dopo,  nel  settembre  del  1786,  Volfango 
Goethe  ammirava.  I  Presidenti  al  Prato  offrirono  nel  '76  a  Sua  Eccel- 
lenza una  breve  raccolta  di  versi  e  prose  {Il  puro  Omaggio),  come 
usava  allora,  con  una  dedica  di  Melchiorre  Cesarotti  del  quale  si 
leggeva  pure  l'epigramma  latino  che  ha  per  titolo  L'isola  Memmia: 

Vile  vadum  fueram:  speciosa  atque  usibus  apta 
Insula  sis,  dixit  Memmius;  illa  fui. 

E  Gabriele  D' Annunzio,  risognando  Armida  e  il  bel  giardino,  cantava 
un  secolo  dopo  in  versi  canori  come  trillo  d'allodola: 

Ma  nel  tuo  prato  molle,  ombrato  d'  olmi 
e  di  marmi,  che  cinge  la  riviera 
e  le  rondini  rigano  di  strida... 

Vedi  qualche  indicazione  bibliografica  nella  Nota  storica  de\- 
VUomo  di  mondo,  edizione  municipale  delle  Opere  complete  di  C 
Goldoni,  voi.  I,  p.  1907. 

4  Un'amica  del  Casanova,  ed.  Remo  Sandron,  1624.  -  Dal  libro 
del  Brunelli  attinsi  i  frammenti  delle  lettere  di  Giustiniana  che  qui 
riferisco.  Nel  Marzocco  di  Firenze  stampai  la  prima  volta  queste 
pagine  sulla  Wynne  (20  apr.  1924)  e  alcune  altre  che  si  leggono  nel 
presente  volume.  -  Godo  di  poter  esprimere  all'  Orvieto,  ora  e  sempre, 
la  mia  vivissima  antica  riconoscenza. 


L   AMORE    DI    GIUSTINIANA    WYNNE  263 

5  E  anche,  com'  è  facile  sospettare,  ragioni  economiche,  essendo 
la  famiglia  Memmo  di  modeste  fortune,  prodigo  il  giovane  Andrea, 
e  quasi  povera  Giustiniana  Wynne. 

6  Spetta  a  Gustavo  Gugitz,  com'  è  giusto  riconoscere,  il  merito 
di  aver  scoperto  sotto  le  iniziali  X.  C.  V.  il  nome  della  Wynne  Ro- 
senberg: V.  G.  Casanova  und  sein  Lebensroman,  Wien,  1921.  Cfr.  Sa- 
maran,  Jacques  Casanova  Véniften,  Paris,  1914. 

7  È  noto  come  nel  1761  Carlo  Gozzi  scrivesse  i  primi  dieci  canti 
della  Marfisa  bizzarra  "  poema  faceto  „,  a  cui  aggiunse  poi  due 
altri:  ma  per  allora  l'autore  si  accontentò  di  leggerne  alcuni  saggi 
agli  amici  e  stampò  soltanto  le  stanze  in  cui  si  deridevano  il  Chiari 
e  il  Goldoni.  Il  poema  uscì  nel  1774,  quando  ogni  curiosità  era  ormai 
spenta;  e  però  riesce  oggi  troppo  difficile  riconoscere  i  ritratti  sati- 
rici del  Gozzi,  alterati  dalla  caricatura.  Giovanni  Ziccardi  che  studiò 
con  molta  diligenza  e  intelligenza  la  Marjìsa  (v.  Rassegna  critica  della 
letteratura  italiana,  1919),  credette  di  ravvisare  nella  bizzarra  eroina 
la  N.  D.  Caterina  Dolfin  (1736-1793)  che  legata  in  matrimonio  a  Marco 
Antonio  Tiepolo  nel  '55,  prima  di  compiere  i  diciannove  anni,  si 
separò  poi  da  lui  e,  ottenuto  il  divorzio,  sposò  nel  '72  il  vecchio  ma 
potente  Andrea  Tron.  A  me  pare  che  le  geste  di  Marfisa,  graziosa 
parodia  delle  filosofesse  del  Chiari,  rassomiglino  di  più  a  quelle  di 
Giustiniana  Wynne,  se  non  fosse  troppa  audacia  l'  accostare  in  parte 
Filinoro  al  giovane  Memmo  e  il  marchese  Terigi  al  ricco  e  fastoso 
console  Giuseppe  Smith.  Certo  per  mezzo  dell'  abate  Marcellotto,  e 
forse  anche  dell'  abate  Sibiliato,  dovevano  essere  notissimi  ai  fratelli 
Gozzi  il  costume  e  i  casi  di  Giustiniana,  eh'  era  stata  una  gran  let- 
trice di  romanzi  e  d' altri  libri  di  moda  fin  dalla  sua  prima  giovinezza. 

8  Les  Morlaques:  "  moeurs  des  Dalmates  -  tableau  en  prose 
poètique  „  dice  una  nota  a  penna  nell'  esemplare  che  ho  fra  mano. 
Questo  romanzo,  oggi  rarissimo,  di  353  pagine  di  testo,  è  diviso  in 
due  parti  e  in  quindici  libri  :  il  terzo  e  il  sesto  contengono  una  specie 
di  apoteosi  di  Caterina  II  a  cui  1'  opera  è  dedicata  (  in  data  22  gen- 
naio 1788).  Poca  cosa  è  il  racconto  e  serve  principalmente  alla  de- 
scrizione più  o  meno  fantastica  dei  costumi  d'  un  popolo  quasi  pri- 
mitivo :  ma  la  Rosenberg  s' accontentò  di  studiare  i  Morlacchi  a 
Venezia,  sulla  riva  degli  Schiavoni,  e  ne  apprese  le  usanze  leggendo 
il  Viaggio  in  Dalmazia  dell'  abate  Fortis.  La  prosa  poetica  di  questo 
libro,  che  uscì  a  breve  distanza  da  Paolo  e  Virginia  (1787)  e  dal- 
VAnacarsi  (1788),  anzi  fra  l' uno  e  l' altro  romanzo,  ci  richiama  al  vec- 
chio Telemaco  (1699)  e  più  ancora  all'Ossian;  e  sembra  annunciare 
Chateaubriand.  Lo  stile  è  semplice,  tuttavia  l' arte  manca  e  la  lettura 
più  non  commuove.  Dice  il  Tommaseo:  "  La  Rosemberg,  galante 
amica  e  tormentatrice  di  professori  chiarissimi,  aveva  scritto  i  Mor- 
lacchi, romanzo  lodato  da  Melchiorre  Cesarotti  in  grazia  dello  stile 
rettorico  e  dell'  autrice  bella  „  :  Storia  civile  nella  letteraria,  ed.  Loe- 


264  l'  amore  di  giustiniana  wynne 

scher,  1872,  p.  514.  Nella  biografia  o  elogio  che  di  lei  ci  dà  il  Nuovo 
Dizionario  Istorico  di  Bassano,  t.  XVIII,  1796,  si  accenna  a  "  un  lungo 
e  ragionato  estratto  „  dei  Morlacchi  stampato  dal  Cesarotti  nel  Gior- 
nale di  Modena,  t.  42;  e  neW  Appendice  alla  Caduta  della  Repubblica 
di  Venezia  di  G.  Dandolo  (Venezia,  1857,  p.  315)  si  ricorda  una  tra- 
duzione di  Giandomenico  Stratico.  Vero  è  che  il  romanzo  attirò 
r  attenzione  di  Goethe,  e  fu  più  tardi  ammirato  in  Francia  dal  Nodier. 
La  famosa  descrizione  della  yìWsì  à' Altichiero  celebrò  il  Bettinelli, 
in  un  sonetto  al  senator  Querini  {Opere,  Venezia,  1800,  t.  XVIII,  p.  170). 
Nel  1805  il  Benincasa  pensava  di  raccogliere  e  di  ristampare  a  Mi- 
lano gli  scritti  della  Wynne  Rosenberg,  in  otto  volumi.  "  Le  sue 
lettere  saranno  specialmente  interessanti  „  annunciava  il  Cesarotti 
all'  amico  Rizzo  "  pel  suo  esteso  commercio  di  vario  genere  „  {Epi- 
stolario, i.  IV,  p.  280,  Pisa,  1813).  Dove  finirono?  -  Sulle  opere  della 
W.  R.  si  veda  la  bibliografia  di  Ernouf,  Notice  sur  la  vie  et  les  écrits 
di  J.  W.,  in  Bulletin  du  Bibliophile,  anno  1758,  additata  dal  Gurgitz; 
e  r  ultimo  capitolo  del  volume  di  B.  Brunelli. 

9  Delle  visite  che  le  fece  nel  1780  e  nell'  82  Guglielmo  Beckford, 
lasciò  breve  ricordo  il  giovane  e  strano  viaggiatore:  Italy,  Spain, 
and  Portugal,  London,  1840,  pp.  57,  74,  76,  141. 

10  II  Memmo  carteggiò  col  Casanova  (v.  Molmenti,  Carteggi  Ca- 
sanoviani  -  Lettere  di  G.  Casanova  e  di  altri  a  lui,  in  Collezione  Set- 
tecentesca Sandron,  1917,  pp.  178-207.  Vedi  pure  due  lettere  a  Ferd. 
Galiani  in  appendice  alle  Lettere  del  patrizio  Zaguri  a  G.  Casanova, 
edite  pure  dal  Molmenti  in  Collez.  Settec,  1919).  Vecchio  e  quasi  ormai 
sessantenne,  così  si  confidava  col  vecchio  mezzano  di  Dux  :  "  Frattanto 
io  m'  occupo  tutto  il  giorno,  senza  che  m'  avanzi  tempo  giammai,  e 
nelle  ore  della  sera,  che  non  posso  e  non  amo  di  riscaldarmi  la 
testa  e  gli  occhi  applicando,  me  la  passo  con  le  vecchie  amabili 
amiche,  e  colle  giovani  ancor  più  amabili,  belle  pazze,  che  pur  se 
tutto  non  mi  concedono,  ancor  mi  danno  molto  „  (1.  e,  p.  203).  E 
qualche  anno  prima,  scriveva  da  Roma,  ov'  era  ambasciatore,  al  se- 
gretario Giacomazzi:  "  Io  però  stando  sempre  bene  mi  diverto,  ma 
sapete  come?  studiando.  E  le  donne?  Vi  sono  le  ore  ancor  per  esse  „. 
Ce  n'  erano  in  fatti  per  tutti  i  gusti  nella  capitale  di  Pio  VI,  came- 
riere, mogli  di  operai  ecc.  "  L'  ora  di  queste  è  verso  sera,  e  quella 
delle  Principesse  è  la  più  avanzata  „  (Molmenti,  Epistolari  Veneziani, 
1.  e,  pp.  150-151).  -  Dopo  ciò  fanno  sorridere  i  pericoli  del  Parini, 
"  per  r  undecimo -Lustro  di  già  scendente  „,  alla  presenza  di  Cecilia 
Tron  o  quando  riceve  1  messaggi  di  Maria  di  Castelbarco,  inclita 
Nice;  e  sembrano  innocenti  perfino  gli  ardori  senili  del  Frugoni, 
r  anacreonte  di  Parma. 

11  Gorani,  che  non  dimostra  pei  Veneziani  soverchia  simpatia,  ci 
ha  lasciato  del   Memmo   questo  nero   ritratto  nel  t.  II  dei  Mémoires 


l'  amore  di  giustiniana  wynne  265 

secrets  et  critiques  (Paris,  1793,  pp.  126-127):  "  Cet  homme  avoit  usurpé 
une  réputation  de  sagesse  qui  lui  servii  de  titre  pour  prétendre  à  la 
dignité  de  doge  de  Venise...  Memo  est  le  menteur  plus  impudent  qui 
ait  jamais  existé...  Outre  cette  belle  qualité,  M.  est  1'  homme  le  plus 
vénal  qu'  il  y  ait  au  monde.  Il  fait  argent  de  tout  ;  faveurs,  emplois, 
tout  lui  est  payé,  et  payé  d'  avance.  -  Il  possedè  la  chronique  scan- 
daleuse  de  Rome,  et  l' histoire  des  dlners  et  des  soupers  dont  il 
envoie  à  Venise  des  relatìons  très-détaillées.  Sa  conversation  est  un 
tissu  d'  anecdotes  facétieuses,  de  contes  très-libres  qu'  il  débite  sans 
pudeur,  en  présence  méme  des  prélats  les  plus  respectables  et  des 
femmes  les  plus  honnétes  „. 


LA   SPIA    CASANOVA 


Era  un  uomo  alto,  vigoroso,  ben  proporzionato,  dalla  tinta 
scura,  ulivigna,  dall'  occhio  nero  e  grande,  dal  naso  prominente, 
dal  labbro  sensuale:  non  bello,  non  fine,  anzi  un  po'  volgare 
di  lineamenti  e  di  tratto  non  ostante  certa  affettazione  di  ele- 
ganza e  di  gentilezza,  con  quell'  aria  insolente,  composta  di 
buffoneria  e  di  violenza,  che  allontana  le  persone  più  oneste  e 
più  miti,  ma  con  quell'aspetto  forte  e  ardito,  con  quello  sguardo 
astuto,  con  quella  parola  pronta  e  abbondante  che  gli  acquista- 
vano un  assoluto  predominio  sulle  donne  e  sui  deboli  di  spi- 
rito, e  lo  rendevano  sommamente  accetto  a  tutti  gli  intriganti  e 
ai  corrotti. 

Il  padre  suo  a  diciannove  anni  era  scappato  da  Parma  e 
dalla  famiglia  insieme  con  una  donna  di  teatro  che  poi  abban- 
donò, e  a  Venezia,  per  vivere,  cominciò  a  recitare;  la  madre^ 
figlia  d'  un  calzolaio,  fuggì  pure  dalla  casa  paterna  per  unirsi 
in  matrimonio  col  giovine  attore  e  dedicarsi  alle  scene.  Ma  per- 
chè lo  scandalo  non  mancasse,  a  Venezia  si  sussurrò  da  qual- 
che maligno  che  Giacomo  Casanova  nascesse  di  "  non  legittima 
estrazione  „,  come  si  esprime  l'abate  Chiari  ';  e  più  tardi  l'av- 
venturiere stesso  in  certo  suo  romanzo,  o  piuttosto  libello  =, 
mentre  accusava  il  nobiluomo  Gian  Carlo  Grimani  d'  essere  il 
frutto  degli  amori  di  Pisana  Giustinian  Lolin  e  di  Sebastiano 
Giustinian,  si  vantò  cinicamente  figlio  ed  erede  naturale  di  Mi- 
chele Grimani  da  Santa  Maria  Formosa,  proprietario  del  teatro 
di  San  Samuele.  Per  curioso  destino,  oltre  i  fratelli  Grimani  (di 
cui  più  assidio  1'  abate  Alvise),  noi  troviamo  nel  1733  intorno 
alla  vedova  Zanetta  Casanova  il  nobiluomo  Giorgio  Baffo,  il 
più  osceno  dei  poeti  veneziani. 

Il  primo  ricordo  di  Giacomo  Casanova,  dopo  la  miracolosa 
guarigione   dell'  emorragia,   ottenuta   per   le   arti  d' una  vecchia 


270  LA    SPIA    CASANOVA 

Strega,  è  il  furto  fatto  al  proprio  padre  d'  un  cristallo  sfaccettato 
che  poi  nascose  in  tasca  al  fratello  minore  per  sfuggir  alle  staf- 
filate che  toccarono  al  povero  innocente.  "  Voi  riderete  „  dice 
nella  prefazione  delle  Memorie  "  nel  vedere  che  spesso  non  mi 
feci  scrupolo  di  ingannare  degli  stolidi,  delle  birbe  e  degli  scioc- 
chi, quando  mi  trovai  nella  necessità.  Per  ciò  che  riguarda  le 
donne,  gli  inganni  sono  reciproci...  Quanto  agli  sciocchi,  io  mi 
rallegro  con  me  stesso  quando  penso  d' averne  fatto  cadere 
qualcuno  nei  miei  lacci...  Credo  che  ingannare  uno  sciocco  sia 
azione  degna  d'  un  uomo  di  spirito  „.  Un  tessuto  di  inganni,  di 
trufferie,  di  scandali,  di  libidini  senza  fine  fu  la  vita  sciagurata 
di  Giacomo  Casanova. 

"  Coltivare  il  piacere  dei  sensi  „  dice  egli  ancora  "  fu  sem- 
pre la  mia  principale  faccenda:  io  non  ne  ebbi  mai  di  più 
importanti  „.  Due  sole  cose  infatti  amò  fino  all'ultimo:  la  donna 
e  la  tavola.  Il  suo  temperamento  sanguigno,  incapace  di  ritegno, 
aiutato  dalla  voracità  della  gola  e  da  una  sanità  perfetta,  non 
trovando  sfogo  che  nella  lussuria,  risvegliava  in  lui  insaziabil- 
mente gli  appetiti  del  satiro  e  lo  rendeva  atto  alle  più  pazze 
imprese  erotiche.  "  Vita  bestiai  mi  piacque,  e  non  umana  „.  Per 
il  soddisfacimento  di  queste  due  grandi  passioni,  cercò  la  ric- 
chezza con  tutti  i  mezzi  possibili,  eccetto  con  quel!'  unico  onesto 
del  lavoro,  e  disperse  ogni  volta  con  folle  vanità  il  mal  acqui- 
stato denaro,  senza  nessun  pensiero  del  domani. 

L'  ultimo  volume  sull'  avventuriere  veneziano,  uscito  poco 
fa  dalla  penna  di  Carlo  Samaran  3  archivista  francese,  volume 
dotto  e  piacevole  che  ci  ricorda  V  arte  squisita  dei  fratelli  Gon- 
court,  pone  finalmente  il  Casanova  nella  sua  vera  luce:  ma 
quella  lettura  ci  lascia  nell'  animo  la  tristezza  di  un  incubo.  Noi 
siamo  in  piena  società  casanoviana:  una  sfilata  di  peccatrici  più 
o  meno  infami,  non  tutte  belle,  marchiate  quasi  tutte  dal  com- 
missario di  polizia  ;  un'  altra  sfilata  di  avventurieri,  di  lenoni, 
di  bari,  di  truffatori,  più  o  meno  familiari  del  carcere;  un'altra 
sfilata  di  imbecilli  e  di  pazzi  dell'  altro  sesso,  le  vittime  di  Ca- 
sanova, che  studiano  sul  seriola  cabala,  l'albero  vegetativo,  la 
piramide,  le  arti  occulte  per  far  oro  o  per  ringiovanire;  da 
ultimo  altra  gente  disfatta  dai  vizi  o  che  cinica  sorride,  come 
il  nostro  eroe,  su  questo  mondo  infernale  che  sa  di  postribolo, 
di  manicomio  e  di  galera. 

Anche  questo  è  Settecento,  senza  dubbio,  ma  non  già,  come 
si  pretende,  //  Settecento  :  ogni  secolo  ha  i  suoi  vizi,  ogni  società 


LA   SPIA    CASANOVA  27 1 

la  sua  putredine,  ogni  età  il  suo  Aretino.  Quando,  per  esempio, 
Alessandro  D' Ancona  afferma  che  le  Memorie  del  turpe  avven- 
turiere "  rendono,  nei  contorni  generali,  vivamente  espressa 
r  indole  degli  uomini  e  de'  tempi  „  io  grido  dentro  di  me  che, 
per  fortuna,  ciò  non  è  vero.  Quando,  trent*  anni  dopo,  V  autore 
insigne  delle  Origini  del  teatro  italiano^  il  Nestore,  per  dire  con 
linguaggio  accademico,  dei  maestri  di  storia  letteraria  in  Italia, 
ripete  del  Casanova:  "  Come  uomo,  egli  è  un  prodotto  diretto 
e  genuino  della  putredine  sociale  propria  all'  ultimo  periodo 
della  vita  veneziana,  quando  l'  aver  ingegno,  ed  egli  ne  aveva 
molto  senza  dubbio,  non  bastava  ad  emergere,  se  non  si  fosse 
di  vecchia  razza  patrizia  „  ;  quando  aggiunge  che  egli  "  si  volle 
assidere  „  al  banchetto  della  vita  "  e  trovarvi  un  buon  posto, 
anche  facendo  alle  gomitate  e  dando  degli  sgambetti.  Quel  posto 
spettava  a  lui  uomo  d' ingegno,  e  non  a  tanti  altri  che  1'  usur- 
pavano per  pretesi  diritti  di  nascita  e  di  ricchezza,  e  per  cieco 
favor  di  fortuna  „  4:  con  tutte  le  forze  io  mi  ribello  a  questa 
sentenza.  Poiché  anche  nel  Settecento,  e  anche  a  Venezia,  l' uomo 
d' ingegno  poteva  trovare  guadagni  e  onori  per  mezzo  del  lavoro 
onesto,  senza  bisogno  di  fare  il  baro  e  la  spia;  e  il  secolo  deci- 
mottavo  nelle  sue  grandi  manifestazioni  intellettuali,  nella  sua 
gentile  filantropia,  nei  suoi  ideali  di  scienza,  di  progresso,  di 
libertà,  è  cento  volte  al  di  sopra  delle  vili  Memorie  di  Giacomo 
Casanova.  Questo  lenone  di  tutti  i  ricchi  e  di  tutti  i  potenti, 
quest'  uomo  senza  patria  e  senza  coscienza,  non  porta  nessuna 
pietra,  come  credette  il  Tivaroni,  nemmeno  un  sassolino  retto- 
rico  "  all'  edificio  della  emancipazione  del  mondo  dalle  ritorte 
del  medio  evo  „  5.  La  sua  anima  davanti  a  qualunque  ideale 
umano,  sia  anche  di  distruzione,  risuona  a  vuoto. 

Né  io  so  riconoscere  nel  Casanova  quell'  alto  genio  che  lo 
stesso  Samaran  nella  prefazione  sembra  ammirare.  A  parte  la 
memoria  non  comune,  mi  restano  dei  dubbi  legittimi  sulle  sue 
conoscenze  fisico-matematiche,  sulla  sua  scienza  economica,  sulla 
sua  filosofia.  Non  ci  lasciamo  abbagliare  dal  pseudo-enciclope- 
dismo del  secolo  decimottavo.  Quanti  anni  occorsero  al  marchese 
D' Argens  per  apprendere  tutto  lo  scibile?  E  a  Venezia  (nes- 
suno qui  nomini  1'  Algarotti  )  quanti  e  quali  autori  non  hanno 
sulla  punta  della  penna  l'avvocato  Costantini  o  l'abate  Chiari? 
E  il  Griselini,  per  esempio,  non  ne  sa  un  tantino  più  del  Ca- 
sanova su  infinite  materie  ?  ^  Che  se  il  cavaliere  di  Seingalt  nelle 
sue    peregrinazioni    s' incontrò,   a   posta   o  a  caso,   in    qualche 


272  LA    SPIA    CASANOVA 

famoso  letterato,  e  si  mischiò  in  pettegolezzi  d'  apparenza  let- 
teraria, si  tratta  di  contatti  e  di  episodi  fuggevolissimi.  Il  buon 
Goldoni  si  guarda  bene  dal  ricordare  il  suo  nome  nelle  Memorie. 
Che  se  Giacometto  ha  in  serbo  qualche  citazione  latina  e  recita, 
le  stanze  del  Furioso  e  traduce  Omero  in  ottava  rima,  di  let- 
tere antiche  e  moderne  si  mostra  tuttavia  ignorantissimo.  Non 
confondiamo  improntitudine  e  letteratura. 

I  suoi  versi,  in  lingua  e  in  dialetto,  stanno  al  di  sotto  di 
quelli  d'un  qualunque  poetucolo  del  tempo:  le  sue  prose  italiane 
sono  fra  le  più  miserevoli.  La  prima  sua  opera  a  tutti  nota,  la 
Confutazione  cioè  di  Amelot,  riuscì  un  indigestissimo  centone 
innocuo  a  Venezia,  né  di  danno  a  Voltaire  7.  E  i  romanzi  ? 
Quello  che  racconta  gli  amori  di  Carlo  Zeno  e  Giustina  Giu- 
stinian  Ziani  e  s' intitola  Di  Aneddoti  Viniziani  militari  ed  amo- 
rosi del  secolo  decimoquarto  ecc.  libro  unico,  ha  il  solo  merito 
di  essere  annoverato  fra  i  più  noiosi  romanzi  storici  prima  dello 
Scott.  \J  altro,  Né  amori  ne  donne,  ovvero  la  stalla  ripulita,  tolto 
lo  scandalo  della  satira  personale,  è  una  insulsissima  diceria. 
Anche  il  famoso  Icosameron  non  offre  il  più  piccolo  pregio 
d'  arte  e  mette  a  dura  prova  la  pazienza  del  lettóre. 

Ben  altra  è  V  erudizione,  ben  altra  la  scienza,  ben  altra  la 
letteratura  del  Settecento!  Se  nel  dechnare  della  esistenza,  quando 
le  donne  gli  diventavano  ormai  crudeli  e  le  ore  d'ozio  sempre 
più  crescevano,  cominciò  Giacometto  a  sfogliare  i  hbri  e  a  riem- 
pire di  scrittura  interminabili  fogli,  egli  restò  ancora  un  igno- 
rante: nulla  ha  insegnato  e  nulla  può  insegnare.  La  sua  sola 
e  vera  dottrina  è  quella  dei  suoi  ricordi  erotici,  la  sua  sola  e 
vera  arte  è  quella  di  narratore  del  romanzo  della  sua  vita: 
dottrina  e  arte  ch'egli  versò  per  intero,  durante  il  soggiorno  di 
Dux,  negli  scartafacci  dei  Mémoires. 

Nel  1786  usciva  a  Berlino  e  a  Vienna  la  Vita  di  Federico 
barone  di  Trenck  col  racconto  della  fuga  dalla  prigione  di  Glatz 
e  del  tentativo  paziente  e  folle  di  nove  anni  per  isfuggire  dalle 
casematte  di  Magdeburgo.  Il  libro  trovò  lettori  avidissimi  in 
tutte  le  province  tedesche  (anche  il  Goethe  a  Roma)  e  fu  tra- 
dotto in  francese  nell'  88,  e  neh'  89  in  italiano.  Io  non  so  se  tale 
fortuna  eccitasse  finalmente  l' evaso  dai  Piombi  a  stendere  in 
iscritto  neir87ea  stampare  l'anno  seguente  la  Histoire  de  ma 
fuitCy  la  storia  di  quella  fuga  di  cui,  come  il  titolo  lascia  vedere, 
si  gloriava  da  tanti  anni  il  Casanova,  e  che  aveva  tante  volte 
raccontata   ai   più   illustri   uditori  s.   Nello   stesso   anno    1788  si 


LA    SPIA    CASANOVA  273 

accinse,  come  pare,  a  scrivere  le  memorie  complete  della  pro- 
pria vita  9.  Certo  non  gli  mancavano  esempi:  nel  secolo  deci- 
mottavo  era  diventato  in  tutti  un  bisogno,  quasi  una  mania.  Le 
Memorie  del  Goldoni,  pure  in  francese,  uscirono  appunto  nel 
1787;  e  già  neir  82  G.  G.  Rousseau  aveva  pubblicato  i  primi 
sei  libri  delle  Confessioni.  Non  sembra  poi  inutile  avvertire  che 
nel  171 7  si  erano  stampate  per  la  prima  volta  le  Memorie  del 
cardinale  di  Retz  (il  fuggitivo  dal  castello  di  Nantes),  miste  di 
vero  e  di  favola. 

Ma  le  Memorie  casanoviane  si  dovrebbero  piuttosto  mettere 
accanto  a  quelle  di  alcuni  terribili  seduttori  del  secolo  decimot- 
tavo,  primo  di  tutti  il  maresciallo  di  Richelieu  (morto  nel  1788). 
Meglio  ancora,  esse  appartengono  alla  ricca  letteratura  erotica 
del  tempo  '°,  tradiscono  il  ricordo  di  Duclos,  di  Crébillon  figlio, 
di  Restif  de  la  Bretonne  e  d' alcuni  autori  più  oscuri  e  più 
infami,  ma  noti  al  Casanova,  come  Lambert,  Montigny,  Ba- 
stide  ecc.  Nel  1782  esce  il  capolavoro  di  Laclos,  nel  1787  Fau- 
blas.  E  proprio  mentre  il  vecchio  sdentato  dongiovanni  di  Dux 
accarezza  con  la  fantasia  le  lubriche  visioni  del  passato,  T  igno- 
bile marchese  de  Sade  se  ne  sta  sognando  i  pervertimenti  delle 
sue  Ginstine  e  delle  sue  Giuliette.  Più  in  là  ride  la  pazzia. 


G.  Ortolani.  *  i8 


AGGIUNTE  E  NOTE 


Missionario  di  tanto  sciagurata  clepra> 
vazione  vn  per  l'Europa  romanzando 
oscenamente  e  bravamente  truffando 
la  spia  Casanova  ». 

Carduccc 


Ho  voluto  riprodurre  senza  mutamento  alcuno  queste  pagine, 
come  le  scrissi  nel  maggio  del  1914  e  come  le  stampò  allora  la 
Gazzetta  di  Venezia.  Non  senza  meraviglia,  e  quasi  dolore,  vedevo 
troppo  brava  e  onesta  gente  correre  sulle  orme  del  turpe  avventu- 
riere e  studiarne  ogni  passo  e  raccoglierne  ogni  sillaba,  quasi  da  lui 
aspettassero  il  nuovo  verbo  dell'  infelice  umanità.  Le  esagerazioni  e 
le  esaltazioni  crescevano  di  giorno  in  giorno:  e  chi  lo  diceva  V Ita- 
liano errante,  come  se  fosse  Colombo  o  Giordano  Bruno,  Dante  o 
Mazzini  ;  chi  lo  paragonava  al  Rousseau  e  al  Foscolo  per  il  carattere 
e  per  la  vita;  chi  scopriva  in  lui  un'  energia  "  di  sostanza  eroica  „ 
che  "  domani  si  chiamerà  Buonaparte  „  e  più  tardi  "  si  chiamerà 
Garibaldi  „  ;  chi  additava  nelle  Memorie  "  un'  opera  monumentale  „, 
un  libro  che  contiene  "  un  secolo,  un'  arte,  la  storia  e  1'  Europa  del 
Settecento  „  ;  chi  esaltava  in  lui  "  uno  spirito  acutamente  critico  della 
storia,  della  letteratura,  della  politica  „  ;  chi  lo  spacciava  "  buongu- 
staio di  letterature  classiche  come  l' abate  Galiani  „.  Ora  codesti 
ammiratori  che  si  lasciavano  sfuggire  tali  sentenze,  ed  altre  non 
meno  strabilianti,  erano  uomini  di  molto  ingegno  che  io  amavo  e 
stimavo:  due  insegnano  da  gran  tempo  nelle  nostre  Università,  un 
altro  è  oggi  Ministro.  Conoscevo  da  lunghi  anni  la  figura  di  Giacomo 
Casanova  e  gli  scritti  principali  dell'  avventuriere  veneziano  :  il  libro 
del  Samaran,  che  non  esito  a  lodare  un'  altra  volta,  mi  offerse  occa- 
sione di  reagire  contro  questa  singolare  malattia  che  ingannava  e 
alterava  la  visione  della  realtà.  Non  credo  che  il  mio  articolo  tro- 
vasse dieci  lettori  pazienti:  ma  è  vero  che  altre  voci  più  autorevoli 
sorsero  in  appresso  a  correggere  le  più  grottesche  esagerazioni, 
come  per  esempio  Vittorio  Clan  nel  Fanfulla  della  domenica,  il  Ra- 
bizzani  nel  Marzocco,  Gino  Damerini  nella  Gazzetta  di  Venezia,  il 
Molmenti  nel  Giornale  d' Italia  e  altrove  ;  e  cessò  per  qualche  tempo 
il  coro  degli  ammiratori  esaltati.  Tuttavia  da  qualche  anno  la  malattia 
ha  ripreso  forza  e  si  diffonde  minacciosamente,  tanto  che  lo  Zuccoli 
impazientito  pubblicò  nel  Secolo,  nel  maggio  del  '24,  un  articolo 
intitolato  Giacomo  Casanova  e  l' ora  di  finirla,  e  lo   stesso  Molmenti 


278  LA    SPIA    CASANOVA 

nel  giugno  scorso,  sorridendo  di  tanto  "  strepito  „  casanoviano,  esumò 
nel  Marzocco  la  sentenza  già  pronunciata  nel  passato  suU'  eroe  dei 
Piombi  e  sulle  famose  Memorie  da  Rinaldo  Fulin  e  da  Giorgio  Sand. 
Intanto  schiere  di  casanovisti  ferventi  si  sono  formate  oltralpi,  e  di 
tutti  gli  Italiani  non  è  Dante,  non  Machiavelli,  non  Leonardo,  non 
Galileo,  non  già  Manzoni  o  Leopardi  e  non  Mazzini,  ma  bensì  Gia- 
como Casanova  che  raccoglie  fuori  d' Italia  il  maggior  numero  di 
ammiratori  e  di  studiosi.  Che  mai  volete  ?  È  1'  ultima  truffa,  la  più 
mirabolante,  di  sior  Giacometto,  che  continua  a  illudere  dalla  tomba 
la  povera  umanità. 

Il  Casanova  è  figlio  del  Settecenfo,  senza  dubbio,  ma  di  quel 
Settecento  fradicio  e  morente  che  la  Rivoluzione  doveva  spazzar 
via,  poiché  la  parola  Settecenlo  significa  pure  rinnovamento  in  tutta 
Europa:  dal  Settecento  emanano  i  più  belli  ideali  di  cui  s'inorgo- 
gliscano il  secolo  successivo  e  il  nostro,  in  Italia  e  fuori.  Il  Casanova 
è  italiano,  senza  dubbio,  ma  rappresenta  tutto  il  vizio  e  il  marciume 
della  vecchia  Italia  che  bisognava  distruggere  col  ferro  e  col  fuoco 
perchè  la  nostra  penisola  potesse  risorgere.  È  1'  egoista  feroce,  è  il 
bugiardo  impudente,  è  1'  adulatore  e  il  parassita,  il  buffone  e  il  lenone, 
prepotente  coi  deboli  e  vile  quasi  sempre  coi  potenti,  sfacciatissimo, 
estremamente  vendicativo  e  vanitoso,  ciarlatano  nella  buona  fortuna 
e  spaccone,  umile  o  feroce  nell'  avversa,  generoso  per  calcolo,  so- 
spettoso, violento,  amante  dell'  ozio  e  poltrone,  ma  attivissimo  e  "  fer- 
tile nel  male  „  (Le  Gras,  43),  chiacchierone,  trincia-giudizi,  arrogante, 
maldicente,  sensuale  come  un  satiro  e  vorace,  volgare  negli  atti,  nel 
fasto,  nel  linguaggio,  triviale  e  cinico,  con  gli  istinti,  in  certi  momenti, 
della  canaglia  (Le  Gras,  103):  tutte  le  macchie  e  i  morbi  dell'anima 
italiana  nei  secoli  più  tristi  possiamo  esaminare  raccolti  in  codesto 
figlio  della  nostra  vergogna  e  della  nostra  miseria  senza  nome.  Non 
ama  appassionatamente  che  il  gioco,  la  tavola  e  la  femmina:  vive 
per  questo.  È  intelligente,  ma  niente  più,  come  tanti  e  tanti  Italiani; 
mediocre  in  tutto,  dice  uno  dei  suoi  recenti  ammiratori  (Le  Gras, 
U  extravagante  personnalité  de  Jacques  Casanova^  Paris,  1922,  p.  218)  : 
le  sue  idee  in  filosofia,  in  religione,  in  politica  sono  sempre  super- 
ficiali e  banali  (Le  Gras,  205).  Ha  lo  spirito  grossolano,  cioè  manca 
di  spirito:  leggete  le  sue  lettere,  i  suoi  romanzi,  i  suoi  libelli.  Lo 
stesso  suo  bisogno  di  indipendenza,  di  libertà,  è  quello  dei  facinorosi 
posti  fuori  della  legge.  Non  ha  la  più  piccola  nobiltà  interna,  come 
riconosce  lo  stesso  Le  Gras  (p.  217).  "  Ha  il  gusto  sadico  di  tormen- 
tare „  le  donne,  "  di  vederle  abbassarsi,  scadere,  sottomettersi  per 
fame  e  miseria  „  aggiunge  Cajumi  {Stampa,  30  genn.  '23).  Le  seduce 
col  denaro:  sceglie  le  sue  vittime  fra  i  dodici  e  i  diciotto  anni,  poi 
le  abbandona  all'  infame  destino.  "  Ha  un  difetto  immenso,  che  lo 
respinge  tra  le  figure  secondarie:  manca  di  umanità  „  (Cajumi).  Delle 
tremila  e  più  pagine  delle  Memorie  non   una  risplende  mai   di  bel- 


LA    SPIA    CASANOVA  279 

lezza  morale,  non  una  contiene  un  sincero  pentimento  (come  pur  ci 
avviene  d' incontrare  ne'  libri  d'  altri  gaglioffi  )  ciie  non  sia  confes- 
sione di  cinismo,  mai  un  grido  dell'  anima,  mai  un  raggio  di  idealità 
o  di  vera  dignità:  fino  all'  età  di  43  anni,  quando  scrive  la  sua  prima 
opera  degna  di  considerazione,  il  Casanova  ha  condotto  la  più  scia- 
gurata esistenza  sperperando  nel  vizio  e  nell'  ozio  V  oro  truffato. 

A  torto  Bruno  Brunelli,  che  io  molto  apprezzo,  lo  chiama  figura 
"  poliedrica  „  {G.  Casanova  di  fronte  ai  posteri,  in  Seco/o  XX,  apr.  '25), 
come  se  fosse  Leonardo  o  Napoleone;  e  insiste  sopra  un  enigma 
casanoviamo  che  non  esiste,  perchè  anche  troppo  conosciamo  il  suo 
pensiero,  il  suo  carattere,  le  sue  azioni:  pochi  uomini  ci  sono  così 
chiari.  Ha  la  smania  e  l' impudenza,  comuni  a  tanti  altri  viaggiatori 
e  giramondi  del  Settecento,  di  voler  avvicinare  i  personaggi  più  alti 
e  più  noti  per  potersene  vantare  e  giovare,  ma  nulla  invero  ci  appren- 
dono i  suoi  colloqui,  nemmeno  quelli  che  dice  di  aver  avuti  col 
Voltaire.  Del  resto  di  quali  letterati  godette  mai  la  stima  il  Casanova? 
L'  Algarotti,  il  Goldoni,  il  Baretti,  i  fratelli  Gozzi,  il  Bettinelli  e  cen- 
t'  altri  tacciono  il  suo  nome  :  ne  parlano  con  riso  e  con  disprezzo  il 
Cesarotti,  il  Taruffi,  i  fratelli  Verri.  Il  Chiari  si  vendicò  di  lui  in  un 
romanzo.  L'Albergati  lo  accolse  così  malamente,  quando  gli  entrò 
in  casa,  che  1'  avventuriere  gli  giurò  odio,  ma  non  potè  nel  '60  mal- 
trattare le  sue  commedie  in  faccia  al  Voltaire,  perchè  non  ne  aveva 
scritta  pure  una,  né  il  Voltaire  potè  parlargli  della  versione  del  Tan- 
credi perchè  fu  compiuta  dal  Paradisi,  non  già  dall'  x^lbergati,  nel 
dicembre  di  quell'  anno,  e  uscì  quattro  anni  dopo.  Quanto  al  Denina 
lo  ringraziò  dell'  Icosameron  e  nient'  altro,  né  lo  nominò  nel  sup- 
plemento della  Prussia  letteraria  come  parve  promettere.  Dire  poi 
degli  altri  suoi  corrispondenti  epistolari,  sarebbe  qui  troppo  lungo  e 
forse  inutile  discorso. 

I  La  Commediante  in  fortuna  ecc.,  Venezia,  1755,  t.  II,  p.  130. 
3  Né  Amori  né  Donne  ecc.,  Venezia,  1782. 

3  Jacques  Casanova  Vènitien  -  Une  vie  d*  aventurier  au  XVIII  ^ 
siede,  Paris,  19 14. 

4  Casanoviana,  in  Nuova  Antologia,  i  apr.  191 1,  e  nel  voi.  che 
ha  per  titolo  Viaggiatori  e  avventurieri,  Firenze,  1911,  pp.  371-372. 

5  U  Italia  prima  della  Rivoluzione  Francese,  Torino,  1888,  p.  461. 

6  E  Girolamo  Zanetti?  e  il  Pivati,  il  Gennari,  il  Fortis,  il  Boa- 
retti  a  Padova,  e  a  Verona  il  Torelli,  e  cento  altri  in  tutta  Italia  di 
cui  oggi  appena  si  sussurra  il  nome  ? 

7  Premeva  al  Casanova  di  comparire  come  "  antivolterriano  „ 
presso  gli  Inquisitori  di  Stato  della  Repubblica  di  Venezia,  dai  quali 
sperava  di  ottenere  il  rimpatrio. 

8  Perfino  agli  Ecc.™i  Morosini  e  Querini,  reduci  da  Londra  e  di 
passaggio  a  Lione  nel    1763.  -  Alessandro  Verri   che  l'  udì  dalla  sua 


28o  LA    SPIA    CASANOVA 

bocca  nel  giugno  del  1770,  a  Roma,  scriveva,  com'  è  noto,  al  fratello 
Pietro  :  "  La  storia  del  Veneziano  io  pure  credo  che  avrà  degli  orna- 
menti ;  se  non  foss'  altro,  sono  quindici  anni  che  la  ripete,  ed  è 
impossibile  non  abbellirla  a  poco  a  poco  „:  Carteggio  di  P.  e  di 
A.  Verri  ecc.,  voi.  Ili,  Milano,  191 1,  p.  338.  Ma  prima  della  Histoire 
de  ma  finte  il  Casanova  aveva  stampato  un  altro  episodio  della  sua 
avventurosa  esistenza,  il  famoso  duello  a  Varsavia  col  Branicki:  v. 
Opuscoli  Miscellanei  del  giugno  1780  (A.  Ravà,  Contributo  alla  biblio- 
grafia di  G.  Casanova,   estr.   dal   Giorn.  storico,  Torino,  1910,  p.  5). 

9  O  al  più  tardi  n eli' 89:  v.  Raoul  Vèze,  U  auteur  des  Mémoires 
de  J.  Casanova  de  Scingali,  in  Figaro  -  Supplement  littéraire,  3  gen- 
naio 1925.  Ma  di  certi  avvenimenti  più  memorabili  della  sua  vita 
pare  che  il  C.  prendesse  nota  qualche  volta,  se  dobbiamo  credere 
alle  sue  parole. 

1°  Non  bisogna  esagerare  l' importanza  storica  delle  Memorie 
casanoviane  che  sono  per  tre  quarti,  o  quasi,  un  libro  erotico  di 
colore  più  o  meno  romanzesco,  in  cui  le  avventure  oscene,  alquanto 
uniformi  e  monotone  per  necessità,  si  susseguono  senza  fine:  ciò 
che  ne  forma  V  originalità  e  la  fortuna,  come  san  bene  gli  editori. 
I  dialoghi,  troppo  frequenti  e  troppo  lunghi,  tolgono  spesso  fede  alla 
veridicità  del  racconto,  sebbene  i  nomi  dei  luoghi  e  dei  personaggi 
e  le  date  e  buon  numero  dei  particolari  che  non  isfuggono  al  con- 
trollo delle  ricerche  erudite  si  dimostrino  esatti  (ma  non  sempre). 
Ciò  che  rimane,  tolta  la  materia  erotica,  non  è  pur  troppo  gran  còsa, 
né  reca  gran  lume,  come  si  vorrebbe,  alla  storia  del  Settecento.  I 
ritratti  del  Casanova,  quelli  stessi  delle  sue  donne,  mancano  di  ri- 
lievo :  i  personaggi  più  notevoli  del  tempo  rimpiccioliscono  nel  pet- 
tegolezzo o  ci  mostrano  solo  qualche  deformità,  fìsica  o  morale.  Via, 
Casanova  non  è  Saint-Simon  !  Egli  cerca  la  familiarità  degli  individui 
deboli,  dei  malati  di  spirito,  delle  vittime  del  gioco,  del  vizio,  della 
miseria:  su  costoro  può  facilmente  primeggiare  e  trionfare,  e  qui  la 
sua  vanità  si  pavoneggia  senza  mai  rimorsi.  Il  suo  libro  ha  impor- 
tanza di  documento  umano,  per  quanto  infame:  più  che  allo  studio 
del  costume  di  certa  parte  corrosa  della  società  del  secolo  decimot- 
tavo,  può  forse  giovare  allo  studio  della  natura  femminile,  della 
fragilità  e  sensualità  femminile  (ricordate  le  avventure  d'amore  di 
Carlo  Gozzi?),  di  cui  possedeva  una  vera  scienza  il  Casanova,  come 
Laclos  e  Stendhal,  e  a  quello  della  carnalità  maschile  che  sussulta 
ancora  nelle  senili  confessioni  di  questo  singolarissimo  eroe.  -  Noi 
non  abbiamo,  è  vero,  a  stampa  il  testo  originale  delle  Memorie  (e 
poco  importa),  anzi  sappiamo  bene  che  il  signor  Laforgue  si  permise 
la  libertà  più  sconfinata  nel  rimaneggiare  la  prosa  dell'  avventuriere 
veneziano,  intercalando  certi  passi  di  sua  propria  invenzione  (A.  Ravà, 
Come  furono  pubblicate  le  memorie  di  Casanova! ,  in  Marzocco,  13  nov. 
1910)  :  tuttavia  possiamo  giudicare  l' arte  narrativa  del  Casanova  dalla 


LA    SPIA    CASANOVA  28 1 

Histoire  de  ma  fuite  e  dall'  ultimo  tomo  dell'  edizione  Flammarion 
più  fedele  senza  dubbio  al  manoscritto,  benché  molto  mutilato.  Certo 
i  due  periodi  del  manoscritto  che  il  compianto  amico  Aido  Ravà 
ricopiò  e  riprodusse  nel  Marzocco  citato,  si  ritrovano  nella  detta 
edizione,  la  quale  segue  il  rimaneggiamento  del  Laforgue  (  v.  ed. 
Garnier)  fino  al  cap.  XIV  del  t.  V  (rispondente  al  cap.  V,  t.  VI,  del- 
l' ed.  Garnier),  ma  poi  fino  al  termine  ci  offre  un  testo  del  tutto 
diverso,  d'  uno  stile  meno  elegante  e  corretto,  ma  più  casanoviano. 
-  Non  fui  a  tempo  di  vedere  lo  scritto  di  Tage  Bull,  Le  vrai  texte 
des  Mémoires,  nel  quarto  volume  della  collezione  Pages  Casanovien- 
neSy  diretta  da  Pollio  e  da  Vèze. 


L'ABDICAZIONE  DELLA   SERENISSIMA 


11  carnevale  era  finito.  Nei  teatri  di  San  Giovanni  Griso- 
stomo  e  di  San  Luca,  dove  recitavano  le  compagnie  Battaglia 
e  Perelli,  il  pubblico  veneziano  aveva  goduto  le  Baruffe  chioz- 
zotte  e  altre  commedie  di  papà  Goldoni,  spentosi  nello  squallore 
a  Parigi  quattro  anni  prima, 

Da  Venezia  lontan  do  mile  mia. 

Nel  teatro  di  Sant'  Angelo  erasi  replicato  per  più  sere  il  Tiestey 
tragedia  d' un  giovinetto  diciottenne,  nato  al  Zante,  rosso  di 
capelli,  con  due  occhi  piccoli  ma  scintillanti,  povero  ma  superbo 
della  sua  povertà,  che  si  chiamava  Niccolo  Ugo  Foscolo  e  si 
vedeva  qualche  volta  nel  salotto  d'  una  bella  signora  greca  ^i 
cui  molto  si  parlava  in  quei  giorni,  "  furba  al  maggior  segno  ^ 
e  "  perfettissima  giacobina  „  :  l'Isabella  Teotochi,  scioltasi  dalle 
catene  del  primo  matrimonio  e  sposa  allora  di  un  Albrizzi,  con 
grand'  ira  del  novello  parentado.  Il  popolo  si  era  divertito  e 
aveva  folleggiato  sulla  Piazza  e  per  le  calli  "  quasi  non  vi  fosse 
alcuna  disgrazia  e  tutto  andasse  felicemente  „  :  di  che  si  com- 
piaceva qualche  patrizio  amante  della  patria,  mentre  aveva  il 
cuore  stretto  dai  cattivi  presentimenti. 

Anche  in  quel  rigido  inverno  del  1797  la  fortuna  militare 
aveva  continuato  a  sorridere  ai  Francesi,  che  padroni  orm.ai 
delle  linee  del  Mincio  e  dell'  Adige,  si  avanzavano  verso  il 
Tagliamento  contro  l'arciduca  Carlo.  L' ostinazione  dell' Austria 
la  quale,  vittoriosa  in  Germania,  non  sapeva  rassegnarsi  alla 
caduta  di  Mantova  e  alla  perdita  del  Milanese,  doveva  riuscire 
fatale  a  Venezia:  già  da  tutte  le  province  della  Repubblica, 
inondate  dagli  eserciti  combattenti,  giungevano  al  Senato,  per 
mezzo  di  lettere,  di  memoriali  e  di  deputazioni,  i"  lamenti  delle 


286  l'  abdicazione  della  serenissima 

misere  popolazioni  di  terraferma:  erano  furti,  rapine,  requisi- 
zioni di  viveri,  di  buoi,  di  cavalli,  di  foraggi,  stragi,  assassinii, 
violenze  d'  ogni  maniera.  Le  splendide  ville  patrizie,  invase  dai 
soldati,  poste  a  sacco  dai  granai  alle  cantine,  risonavano  di  rozze 
voci  straniere:  nelle  sale  a  stucchi  dorati  le  belle  immagini 
femminili  del  tempo  passato  dileguavano  nell'  ombra  misteriosa 
degli  specchi  e  1'  odore  acre  dei  corpi  sudati  e  del  tabacco  di- 
sperdeva il  vago  profumo  della  cipria.  Nella  stessa  Dominante 
cresceva  di  continuo  il  prezzo  dei  generi  alimentari,  i  mercanti 
speculavano  e  lucravano,  mentre  V  erario  pubblico  si  esauriva. 
Sedicimila  uomini,  oltremarini  e  italiani,  erano  stati  distribuiti 
nelle  isole  e  nei  conventi  della  città:  ottocento  pezzi  d'artiglieria 
e  oltre  duecento  legni  armati  compivano  la  difesa  delle  lagune. 
Pattuglie  notturne  di  cittadini  vegliavano  alla  sicurezza  di  Ve- 
nezia: si  istituirono  anche  pattuglie  diurne  di  soldati  nazionali. 
La  città  dei  sogni  pareva  diventata  ormai  "  un  vasto  campo 
militare  „  :  dappertutto  le  fanfare  sonavano  "  la  diana,  la  ritirata 
e  r  invito  alla  preghiera  nei  diversi  quartieri   „. 

Ma  il  giorno  14  marzo  giunse  a  Venezia  come  fulmine  la 
"  funesta  nuova  „  della  rivolta  di  Bergamo;  e  tutti  gli  abitanti, 
pieni  di  amarezza  e  di  sgomento,  la  ripeterono  all'orecchio,  con 
infiniti  commenti,  di  caffè  in  caffè,  di  campo  in  campo,  da  un 
sestiere  all'  altro,  da  Santa  Chiara  a  San  Pietro  di  Castello. 
Dicevano  :  "  Bergamo  è  stato  occupato^  non  rivoluzionato  „  ;  cre- 
dendo alla  prepotenza  delle  armi  francesi  piuttosto  che  al  trionfo 
delle  idee  democratiche.  Cinque  giorni  dopo,  i  Veneziani,  ancora 
"  sbalorditi  „,  parlandosi  "  all'orecchia  „,  sussurravano  che 
"  Buonaparte  „  aveva  fatto  sollevare  anche  Brescia.  "  Io  temo 
tutto  andato  „  scriveva  col  cuore  gonfio  un  patrizio,  "  e  terra- 
ferma e.  Dio  noi  voglia,  la  Dominante.  Mi  fa  orrore  un  abban- 
dono, una  corruzione  di  sudditi,  uno  scoppio  come  un  torrente... 
Non  saprei  dirvi  la  desolazione  di  tutti  „.  Erano  questa  volta 
le  membra  della  Repubblica  che  venivano  strappate  dal  corpo 
vivo  della  patria:  era  la  Repubblica  mutila  che  sanguinava. 
^*  Stato  e  Patria  distrutti  lacerano  1'  anima  „. 

Cercavano  i  Francesi  di  far  insorgere  anche  la  fedelissima 
città  di  Salò.  Ma  a  Crema  i  sudditi  rinnovavano  il  giuramento 
di  fedeltà;  i  Sette  Comuni  offrivano  alcune  migliaia  di  uomini 
armati  in  difesa  del  Sovrano;  le  Comunità  di  Cadore,  di  Feltre, 
di  Belluno,  di  Desenzano  e  della  Val  Sabbia  esprimevano  nei 
loro  Consigli  il  loro  attaccamento  al  Principato,  "  in  difesa  del 


l'  abdicazione  della  serenissima  287 

quale  esibivano  e  sangue  e  vite  e  sostanze  „.  Otto  deputati  di 
Vicenza  venivano  a  presentare  al  Doge  l' omaggio  della  città 
fedele;  venivano  quelli  di  Conegliano,  di  Ceneda,  di  Lendinara; 
bella  e  commovente  T allocuzione  del  rappresentante  di  Belluno 
davanti  "  al  pien  Collegio  „  ;  tutti  i  cittadini  di  Treviso  si  "  pro- 
testavano pronti  a  versare  il  loro  sangue  „  e  si  ornavano  del 
leone  di  San  Marco  con  intorno  la  scritta  :  Ubi  soli  fides  Tar- 
visitia'j  si  ammiravano  i  deputati  del  canale  di  Brenta  "  nel 
caratteristico  costume  tutto  verde,  con  pennacchio  al  cappello  „ 
pure  venuti  a  prestare  il  giuramento;  quelli  di  Val  Trompia  e 
di  Val  Sabbia  chiedevano  munizioni;  a  Padova  lo  stendardo 
veneziano,  salutato  dall'antico  grido.  Viva  San  Marco,  traspor- 
tavasi fra  il  delirio  del  popolo  alla  Basilica  del  Santo  perchè 
fosse  benedetto.  Anche  Sacile,  anche  Portogruaro  decretavano 
che  "  inviolabile  sarebbe  la  loro  sudditanza  al  Veneto  Governo  „. 
Perfino  gli  abitanti  delle  vallate  di  Bergamo  insorgevano  con  le 
armi  in  pugno  contro  i  ribelli.  Un  "  patrio  fanatismo  „  invadeva 
gli  animi  dei  Veronesi.  In  tutte  le  province  fedeli,  e  a  Venezia, 
si  vedevano  i  cittadini  portare  le  "  coccarde  nazionali  venete, 
bleu  e  color  d'arancio  „.  Molti  si  felicitavano  di  un  tale  entu- 
siasmo. Qualcuno,  scrivendo,  diceva:  "  Gran  d'uopo  aveva  d'un 
elaterio  lo  stato...  Bolle  della  Nazion  Veneta  ogni  midolla  „  ; 
e  sperava  nella  salvezza  della  vecchia  Repubblica. 

Ma  il  Collegio  dei  Savi,  come  scrive  un  contemporaneo, 
"  erasi  immaginato  di  salvare  la  Repubblica  non  già  con  Can- 
noni e  Soldati,  ma  con  carte  e  rimostranze  „.  Il  vecchio  doge, 
piagnucoloso  e  pusillanime,  aveva  raccolto  intorno  a  sé,  per 
consiglio  ed  aiuto,  i  cuori  più  deboli  e  più  vili  dell'Eccellentis- 
simo Senato,  dai  quali  traeva  nuovo  alimento  ai  suoi  sospiri  e 
forza  nuova  alle  paure.  Nelle  solenni  riunioni  del  Maggior  Con- 
siglio, nel  Consiglio  dei  Pregadi,  nelle  stesse  Consulte  dei  Savi, 
in  ogni  più  grave  occasione,  il  suo  discorso  mortificante,  pro- 
nunciato con  voce  strozzata  e  interrotto  dalle  lagrime,  iniziava 
le  discussioni  più  decisive.  E  sebbene  in  segreto,  come  la  più 
parte  dei  patrizi  veneziani,  Lodovico  Manin  desiderasse  il  trionfo 
dell'Austria  e  confidasse  per  molto  tempo  nelle  armi  imperiali, 
tuttavia  lo  spavento  delle  recenti  vittorie  francesi  e  del  nome 
stesso  di  Bonaparte  lo  faceva  inclinare  sempre  più  verso  quei 
patrizi  che  tendevano  ormai  a  un  nuovo  ordinamento  politico 
della  Repubblica  sul  modello  d'oltralpi  e  che  crescevano  d'au- 
dacia, se  non  di  numero,  sotto  il  fascino  irresistibile  del  giovane 


288  l'  abdicazione  della  serenissima 

conquistatore  e  della  Rivoluzione.  Poiché  non  solamente  due 
potentissime  nazioni  stavano  di  fronte  sul  suolo  veneziano,  ma 
quasi  due  età,  due  idee,  due  mondi  in  contrasto,  tradizione  e 
rivoluzione,  passato  e  avvenire. 

Ed  ecco  il  19  aprile  giungere  da  Verona  le  prime  notizie 
sulla  frittata  che  soldati  schiavoni  e  popolo  avevano  fatto  di 
tutti  li  Cispadani^  in  città  e  nei  castelli,  la  seconda  sera  di 
Pasqua:  e  insieme  ecco  da  Trieste  le  prime  incerte  voci  di  pace 
(ahi  troppo  tardi!)  tra  "  Francia  e  Imperatore  „.  La  campana 
a  martello  delle  Pasque  Veronesi  sonava  il  rintocco  funebre  alla 
secolare  Repubblica:  la  catastrofe  precipitava  rapidamente:  il 
libro  glorioso  della  storia  veneziana  si  chiudeva  per  sempre. 
I  pochi  colpi  di  cannone  che  la  sera  del  21  aprile  si  udirono 
dalla  Riva  in  direzione  del  Lido,  mentre  borbottava  in  cielo 
qualche  tuono  e  cominciava  a  cadere  "  un  poca  di  pioggia  „, 
sparati  dal  Pizzamano  contro  due  legni  francesi,  erano  l'estremo 
ruggito  del  morente  Leone.  Al  rullo  dei  tamburi  francesi  e 
croati  Venezia  era  condotta  al  sacrificio:  "  Vergine  immacolata 
per  tanti  secoli  „  come  si  esprime  ingenuamente  un  contempo- 
raneo, "  doveva  divenire  la  sventurata  Prostituta  della  più  in- 
fame Canaglia  „.  Tradita,  violata,  spogliata,  involta  nella  sozzura, 
coperta  di  contumelie,  sotto  1'  onta  e  il  martirio,  la  bella  città, 
sazia  di  feste  e  di  piaceri,  legava  indissolubilmente  all'  Italia 
1'  anima  sua  dolorosa. 

Invano  i  vecchi  senatori  si  radunavano  in  consulte  ango- 
sciose fino  alla  più  tarda  ora  della  notte;  invano  si  continuava 
"  nel  solito  metodo  di  far  la  guerra  ai  Francesi  con  Reclami, 
Deputazioni  e  Rimostranze  le  quali  continuavano  a  produrre  il 
consueto  unico  effetto  di  far  palese  la  propria  debolezza,  e  di 
accrescere  l'  ardita  fellonia  de'  Comandanti  Francesi  „  ;  invano 
i  buoni  cittadini  protestavano  mormorando  che  i  Senatori  erano 
"  tante  teste  di...  che  fanno  quello  che  vogliono  per  rovinar 
questi  popoli:  fanno  un  Pregadi,  perdono  una  città;  fanno  Con- 
sulta, perdono  li  castelli  e  provinzie  „  ;  invano  qualche  altro 
scriveva  :  "  Non  v'  è  più  mistero  al  nostro  destino,  non  vi  vuole 
in  adesso  che  Cannone  e  Campana  a  martello  „  ;  invano  si 
parlava  da  molti  "  cogli  esempi  della  Lega  di  Cambrai,  di 
Chiozza  „;  invano  "  voci  continue  „  erano:  "  Amor  di  patria, 
dignità,  odio,  ira,  vendetta,  perire,  ma  perire  da  forti  e  non  da 
porchi  „.  Invano  arsenalotti  armati  stavano  di  guardia  alla  Log- 
getta,  alla  Porta  della  Carta,  dentro  e  fuori  del  Palazzo  Ducale; 


L*  ABDICAZIONE   DELLA   SERENISSIMA  289 

invano  due  pezzi  d'artiglieria  si  vedevano  "  all'angolo  del  primo 
volto  del  Broglio  „  ;  invano  nella  contrada  di  Castello  gli  abi- 
tanti si  armavano  di  fucili  e  di  palosci;  invano  "  barche  munite 
di  artiglierie  vagavano  lungo  le  Fondamente  Nuove  „  ;  invano 
picchetti  armati  e  sentinelle  custodivano  tutte  le  vie  che  condu- 
cevano in  Piazza;  invano  soldati  albanesi  e  bocchesi  con  palosci, 
pistole  e  tromboni  erano  schierati  sulla  Riva;  invano  l'orologio 
della  Torre  era  fermo  e  le  campane  non  battevano  più  le  ore 
dopo  il  tramonto. 

Anche  il  cuore  della  Repubblica  non  batteva  più.  Verona 
aveva  capitolato  (24  aprile)  e  gemeva  sotto  il  calcio  del  fucile 
straniero.  A  Vicenza  (27  aprile),  a  Bassano,  a  Padova  (28  aprile) 
i  Francesi  piantavano  gli  alberi  della  Libertà.  Erano  cessate, 
per  sempre,  le  legali  adunanze  del  Senato.  Molte  famiglie  par- 
tivano. Fuggiva  il  Procuratore  Pesaro.  -I  tre  Inquisitori  si  tene- 
vano "  sotto  militare  custodia  „  a  San  Giorgio.  Si  rimandavano 
in  patria  le  fedeli  milizie  dalmate.  Camerlenghi  e  castellani, 
capitani  e  podestà,  nobili  di  nave  e  sopracomiti,  uffiziali  e  con- 
soli, auditori  e  avogadori,  procuratori  e  savi,  tutti  i  Reggimenti 
da  terra  e  da  mar,  tutti  i  Magistrati,  Quarantie,  Pregadi,  Pien 
Collegio  erano  sospesi:  la  stupenda  creazione  politica,  l'opera 
secolare  della  sapienza  Veneta  si  arrestava  per  sempre.  Anche 
r  ottantenne  Zuanne  Zusto,  Provveditor  alle  Lagune  e  Lidi, 
"  deponeva  il  vano  ed  illusorio  suo  carico  „.  Tutti  quanti,  o 
per  isperanza,  o  per  illusione,  o  per  paura,  o  per  ira,  o  per 
tragico  dolore  volevano  abdicare  a  ogni  modo. 

Il  12  maggio,  di  venerdì,  pochi  giorni  prima  à^ìV Ascensione 
in  cui  celebravasi  fin  dai  tempi  del  doge  Orseolo  lo  sposalizio 
del  mare,  si  radunava  per  l'  ultima  volta  il  Maggior  Consiglio. 
Intervennero  537  patrizi,  neppur  la  metà:  ma  vi  erano  tutti 
quelli  che  si  additavano  dai  buoni  cittadini  come  vili  o  traditori. 
Eravi  il  Doge  con  vesta  e  manto  di  velluto  cremisino,  con  cal- 
zari purpurei,  col  corno  in  capo  e  il  camauro  di  rensa;  v'erano 
i  Consiglieri  con  berretta  nera  e  toga  rossa  a  larghe  maniche, 
v'  erano  Savi  in  vesta  violacea,  e  Procuratori  vestiti  di  paonazzo  ; 
v'  era  il  Cancellier  Grande  vestito  di  porpora,  vi  erano  senatori 
in  vesta  rossa  e  centinaia  di  nobili  in  vesta  nera  a  solennizzare 
r  esequie  della  Repubblica.  Tutt'  intorno,  lungo  le  pareti  della 
sala,  si  svolgeva  dalle  tele  dei  più  grandi  maestri  pel  pennello 
il  meraviglioso  poema  di  Venezia.  Parlò  il  Doge,  piangente  e 
tremante.  Barche  in  partenza  dalla  Riva,  piene  di  soldati  Schia- 

G.  Ortolani.  '9 


290  L   ABDICAZIONE   DELLA    SERENISSIMA 

voni,  salutavano  per  sempre  la  città,  con  lieti  colpi  di  fucile. 
E  la  parte  che  annunciava  la  fine  della  Serenissima^  passò  con 
512  voti,  fra  pazze  scene  di  scompiglio  e  di  paura.  In  alto,  la 
trionfante  Venezia  di  Paolo  Veronese,  incoronata  dalla  Gloria, 
celò  il  volto  neir  ombra,  per  sempre. 

Dopo  che  si  distese  sulle  lagune  la  notte  di  Campoformio, 
a  Venezia  si  vedeva  ogni  giorno  camminare  lentamente  un  vec- 
chio per  le  vie  di  Cannaregio,  accompagnato  da  un  servo;  e 
quelli  che  lo  riconoscevano,  gli  scagliavano  in  faccia  "  li  mag- 
giori improperi  e  tutte  le  maledizioni  „.  Era  Lodovico  Manin. 
Tali  "  villanie  „  lo  colpivano  "  nel  più  vivo  dell'  anima  „.  Rac- 
conta r  ultimo  doge  in  certe  sue  Memorie  :  "  La  cosa  arrivò  a 
grado  che  passando  un  giorno  per  una  corticella  a  S.  Marcuola, 
una  donna  conoscendomi  disse:  Almeno  venisse  la  peste,  che 
così  moriressimo  noi  altre,  ma  morirebbero  anche  questi  ricchi 
che  ci  hanno  venduti,  e  che  sono  cagione  che  moriamo  da  freddo 
e  da  fame  „.  11  vecchio  desistette  dalle  passeggiate,  e  si  ritirò 
nella  solitudine  del  suo  palazzo  ad  aspettare  la  morte. 


In  queste  pagine,  che  scrissi  nel  maggio  indimenticabile  del  1918  e  stampai  in  un 
foglio  quotidiano,  le  parole  virgolate  sono  tolte  da  lettere  e  documenti  del  tempo,  la  più 
parte  dal  bel  volume  di  Ricciotti  Bratti,  La  fin*  dtlla  Stranissima,  che  uscì  a  Milano 
nel  dicembre  del  1917. 


INDICE 


^^^ 


Venezia  nel  periodo  goldoniano pag.  i 

La  Venezia  dei  viaggiatori  nel  Settecento „  55 

Un  romanzo  satirico  a  Venezia  sulla  metà  del  Settecento  .  „  97 

Francesco  Algarotti  e  V  epistola  al  Voltaire „  i35 

Intorno  alla  "  Locandiera  „  di  Carlo  Goldoni »  I57 

Le  "  Baruffe  Chiozzotte  „  e  una  scena  d'  amore     ....  „  179 

Intorno  alle  "  Lettere  diverse  „  di  Gasparo  Gozzi ....  „  205 

Per  una  ristampa  della  "  Gazzetta  Veneta  „ »  227 

Come  sorride  il  Gozzi w  237 

L'  amore  di  Giustiniana  Wynne »  249 

La  spia  Casanova »  ^ 

L'abdicazione  della  Serenissima »  283 


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Finito  di  stampare 

il  giorno  s  agosto  1926 

dalla  Società  Tipografica  Mareggiani 

in  Bologna 


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